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Egregio e caro Dottor ,
ben conoscevo il dipinto di
Ecce Homo (olio su tavola, cm 79x61) grazie alla argomentata pubblicazione che, tra 1995 e 2007
in sedi prestigiose, ne era stata fatta da Studiosi del calibro di Pietro Zampetti (Riec.ce Tiziano, in
"Il Giornale dell'Arte", 137, ottobre 1995; Francesco Maria II, Tiziano, e il Convento delle Clarisse
a Casteldur ante, in I Della Rovere nell'Italia delle Corti, atti del Convegno internazionale di Studi,
Urbania, 16-19 settembre 1999 Quattro Venti, 2000, vol.II, pp. 102-109), Giuseppe M. Pilo, ("Li
due quadri devoti, cioè del Christo et della Madonna, sono finiti di man sua"[ ... ] in Lezioni di
Metodo. Studi in onore di Lionello Puppi, a cura di Loredana Olivato e Giuseppe Barbieri, Terra
Ferma 202, pp. 207-219) e Filippo Pedrocco (Titian's Ecce Homo Reconsidered, in "A1tibus et
Historiae", 56 2007, pp. 187-196), convenendo su una attribuzione agli anni tardi di Tiziano
Vecellio. Ed ero altres1 al corrente, attraverso voci circolanti entro il piccolo monde degli addetti ai
lavori, della netta contrarietà e della singolare proposta alternativa espresse in una comunicazione
epistolare al proprietario, da uno specialista della statura di , pur senza aver preso visione
diretta dell'opera e conoscenza dei dossiers delle indagini diagnostiche effe:tuate da Lorenzo
Lazzarini, Faolo Spezzani e dalla EDITECH srl di Maurizio Seracini.
La ringrazio, pertanto, di ave1mi chiesto un ben motivato parere, non solo consentendomi di
studiare accuratamente e a lungo il dipinto, ma mettendo a mia disposizione - oltre che le succitate
indagini diagnostiche - perizie sottoscritte in tempi diversi da D. Mahon, U. Ruggeri, A. Emiliani,
D. Benati, nonché gli esiti delle puntigliose ricerche archivistiche effettuate da Marco Droghini e da
Tiziana Biganti a revisione e integrazione della fondamentale edizione dei documerti artistici
urbinati messi in luce, 1936, da George Gronau, così agevolando la rivisitazione che qui chi scrive
ha comunque ritenuto opportuno farne.
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Antoine Pen-enot de Granvelle (che gliene domanderà un'altra copia:ma su ciò vedasi Tiziano
L'epistolario, a cura di L. Puppi con una postfazione di C. Hope, Firenze 2012, all'elenco, per
soggetti, delle opere citate), riproponendo con supdlciali varianti l'immagine- per usar
l'azzeccata descrizione interpretati va dell'Aretino - di un "Cristo vivo e vero che allo strazio delle
carni e al dolore, anziché l'espressione dell "'odio e rancore", oppone la compostezza di una
"pacifica grazia". Se Carlo V recherà con se nel riparo del monastero di Yuste la redazione ricevuta
dalle mani del Vecellio (1 opera si conserva oggi al Prado), ignoriamo la sorte delle repliche
eseguite per il Granvelle nel momento in cui dobbiam prendere atto dell'esistenza di altre di cui
ignoriamo la committenza e la cronologia dell'esecuzione, comunque oscillante tra la fine degli
anni Quaranta e l'inizio dei Cinquanta, e si tratta delle redazioni di Sibiu, di Chantilly e d'altre, fra
le quali spicca la bellissima redazione della National Gallery of Ireland di Dublino, che ho qualche
ragione per ritenere in mano a Palma il Giovane presso il quale la vedrà, e copierà, un giovanissimo
Guerci no.
Per quel che riguarda l'Ecce Homo confluito nelle Collezioni medicee, è impossibile identificarlo
col "Christo" cui sembrerebbe ridurlo ( comunicazione epistolare del 24 marzo 1998),
giacché la corrispondenza tra Francesco Maria della Rovere e il suo ambasciatore a Venezia
Giangiacomo Leonardi tra 1532 e 1534 (cfr. Gronau, 1936, docc. III-XXIV: passim) allude
semplicemente ad una figura del Redentore, senza gli attributi della pietà. Se non a·edo che si tratti
del dipinto che Tiziano nel novembre 1546, per copiarlo, fa richiedere alla titubant� duchessa
Eleonora, timorosa di non riaverlo più indietro (Gronau, 1936, doc. LXIX): non dubito affatto che
quell'immagine sia da riconoscere nel "Salvatore" o 'Testa del Salvatore" dell'invi!ntario del 1652
dei quadri urbinati trasferiti a Firenze, dove ancor oggi si trova presso la Galleria Jnlatina (vedasi
nel cit. Tiziano. L'epistolario la nota 1 al Doc. 40). È, dunque, ben plausibile che l'Ecce Homo
approdato a quella stessa meta sia "il Christo" che Tiziano aveva promesso a Guidobaldo della
Rovere molto probabilmente nell'occasione dell'uno o dell'altro soggiorno veneziano del duca nel
gennaio e nell'aprile del 1552, magari avendo ammirato il "ricordo" del prororipo ?resso la bottega
del Maestro ( e potrebbe essersi trattato della versione oggi a Dublino, che, passata al Palma, il
giovane Quercino copierà) e che il duca solleciterà nel post-scriptum di una lettera inviata da
Verona al Leonardi il 10 maggio 1552 ("molto desideriamo di haver [ ... ]il Christc, che Titiano ci
ha promesso di fare per portarcelo": Gronau, 1936, Doc. LVI).
Siam cosi, finalmente, allo snodo dell'intricata vicenda, ed è d'uopo procedere con ordine.
Il 2 dicembre 1564, Tiziano fa sapere al duca Guidobaldo attraverso il solito Agatcne, di attendere
solo l'indicazione delle misure per "dar principio alli quadri et molto volentieri" (Gronau, 1936,
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urbinate, la presenza di 'uno in tavola" nel Ms. 46 della Oliveriana, confermata d:illa iterazione di
"quadrouno in tavola con un Ecce Homo" nell'elenco del notaio Lucantonio A.madori, ma non
accertata tra le opere in partenza per Firenze e, di fatto, approdate alle Collezioni rnedicee.
Concluderne che il dipinto sia s civolato nel marasma delle cose roveriane rimaste in loco e disperse
in var i tempi sul mercato locale sino a finir tra le mani dell'innominato -per adess,) - collezionista
che ne farà dono, in momento - sempre per adesso - imprecisabile, alle monache di Santa Chiara di
Urbania, è altrettanto plausibile che riconoscervi il capolavoro eh' è oggetto delle nostre riflessioni.
L'esame stilistico, poi, puntigliosamente condotto pubblicando il dipinto dallo Zampetti e dal
Pedrocco, e che riteniamo superfluo replicare nel momento stesso in cui appieno se ne condividono
gli esiti, assecondato dai risultati delle molteplici analisi diagnostiche condotte in vari tempi e da
laboratori diversi, accerta, in maniera perentoria e inconfutabile, il fare di Tiziano intorno alla metà
del settimo decennio non senza sconce1tarci con lo scarto radicale dell'assetto compositivo e della
fisionomia del Cristo rispetto alla f01tunatissima e reiterata soluzione inventata suppergiù quattro
lustri prima per Carlo V. La compostezza ieratica e sublime, capace di oppon-e "pacifica grazia" al
dolore straziante della violenza inferta alla carne e al dileggio umiliante che stupiva l Aretino, si
scioglie in patetico abbandono, il capo, oppresso da una spropositata corona di spine, si piega sul
petto, lo sguardo si perde verso il basso. E si può - forse - capire come od un esame condotto sulla
mera riproduzione fotografica del dipinto, proprio codesti scarti finiscano per incidere, falsandolo,
su un giudizio inevitabilmente condizionato dal confronto mnemonico con I immagine realizzata
nel 154 7 ( e che ha dietro il clamoroso collaudo nel quadrone per Giovanni d'Anna oggi nel
Kunsthistorisches Museum) e gravemente limitato all'impossibilità di cogliere e le�gere le peculiari
qualità formali. Sicché spiace che uno Studioso della competenza di abbia rinunziato al diretto
experiri di un dipinto del quale nega l'autografia tizianesca sulla base fragile di difformità esteriori
(l'uso della tavola; la barba meno folta del Cristo; la corona di spine accentuata) rispetto ad un esito
consolidato. Ed è corretto, allora, ed anzi doveroso porsi la domanda perché mai un pittore
notoriamente fedele ai propri modelli di maggior successo al punto da serbarne il "1icordo" che a lui
e alla bottega agevolasse la produzione, improvvisamente e per una volta sola mutasse, per dir così,
il registro della rappresentazione figurativa dell'episodio evangelico. Orbene, non può non tornare a
mente l'insistenza affatto inconsueta con cui Tiziana, accettando l'incarico per i quadretti di
"Madonna" e di "Christo" nei primi giorni del 1565, chiede al committente chiarimenti intorno al
supporto da adoperare, alle tonalità, ma, soprattutto, di "haver più minuta e chiara informatione
delle inventioni che [egli ha] da dipingere", talché vien da sé che occorrerà riconoscere negli scarti
che si son denunciati, precisamente le "inventioni' suggerite da Guidobaldo, cui, owiamente, sarà
puranco da addebitare la scelta della "tavola". Con questo ancora, magaJi, che la soluzione
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dinamica in cui Tiziano informa l'invito ad una interpretazione patetica del soggetto, la nuova
caratterizzazione fisionomica del volto di Cristo, non sarà senza conseguenze, e penso, in
paiticolare, al frammento di Crocifissione della Pinacoteca nazionale di Bologna, a buon diritto
convocata già da Andrea Emiliani che, giustamente, vi accostava anche il Cristo fl2gellato della
Borghese di Roma, che rimanda alla Flagellazione recentemente (2013) attribuita al Vecellio dal
compianto Vincenzo Pacelli e dal sottoscritto provata in mano di Torquato Bembo dopo il 1552 e
prima del 1574.
Un'ultima annotazione.
ella sua comunicazione scritta del 24 marzo 1999, ipotizzava che l'Ecce Homo emerso dal
monastero delle Clarisse di Urbania possa esser copia del noto dipinto di Guido Reni oggi
conservato presso il Fitzwilliam Musuem di Cambridge, di identico soggetto. ln realtà, e
d'accordo con i pareri sottoscritti di Denis Mahon, Daniele Bennati e Andrea Emiliani, il rappo1to
potrebbe essere semmai invertito, attestando la precocità di una possibile fortuna dell'invenzione
senile tizianesca. Del resto, già addì 25 ottobre 1567, proprio il nostro Ecce Homo potrebbe esser
stato il "quadretto" che Federico Barocci, dopo averlo copiato, consegnava a Giulio Veterani
affinché lo restituisse a Tiziano.
Concludendo.
A giudizio del sottosc:ritto il dipinto discusso nelle pagine che precedono è opera autografa di
Tiziano, eseguita su istanza del duca di Urbino, Guido baldo della Rovere - che si riservò la scelta
del supporto e la dettatma del programma iconografico -, tra 1565 e l 566e quindi, esclusa dal
contingente dei dipinti urbinati trasferiti alle collezioni medicee fiorentine e affidata al mercato
antiquario, acquisita da un anonimo collezionista, che la donava, attorno al XVIII secolo, al
monastero di clausura delle Clarisse di Urbania e da questo, per successione di acquisti, all'attuale
Proprietà.
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