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    Ninja Pills10 (+1) dischi imperdibili dal catalogo dei guerrieri del break

    Bogus Order - Zen Brakes Vol. 1 (1990)L’inizio di tutto. Dopo essere stati in tour in Giappone ed aver pubblicato alcuni remix in white la-bel, i futuri Coldcut fanno uscire un vinile a nome Bogus Order. Parte così l’avventura immersa nel breakbeat UK, vicina alle sperimentazioni da club in ossessione electro ma aperta ad esperienze su altri pianeti. Molti cuts non sono ancora orientati verso il chill-out che caratterizzerà il suono Ninja degli anni Novanta. Qui si possono invece respirare venti tribali (Zen In Africa), sonorità da visionari in acido (il mito Goa in One More Summer Of Zen) e uptempo reggae che ci saluta con il sorriso dei tramonti ibizenchi (Granny Zen). Un miscuglio che oggi sembra una polaroid adole-scenziale, scattata in velocità, senza troppo preoccuparsi della definizione dell’immagine. Il big bang da cui attingere in seguito è tutto in questi scazzatissimi 27 minuti. Keep it going, guys!

    DJ Food - Jazz Brakes Vol. 1 (1990)Primo di una lunga serie di album (arriverà fino al quinto volume) costruiti apposta per i DJ e i maniaci del turntablizm. DJ Food sfoggia loop sciccosissimi, grondanti funkytudine e fascino acid-jazz: sonorità che in quegli anni avrebbero portato al successo internazionale di meteore del calibro di Incognito e US Tree. In Inghilterra la Ninja apre una stagione per chi non si riconosce più nell’ecstasy e guarda con ammirazione alla difficile arte del mescolare i dischi sballando più comodamente con la beneamata cannabis. DJ Shadow, la scuola illbient americana, il ritorno di fiamma del downtempo di Thievery Corporation e centinaia di altri illustri sconosciuti si sono fatti i calli nel mixare le tracce strumentali del progetto Food (l’artista non è infatti un singolo uomo, bensì incarna le anime dei Coldcut prima, di Patrick Carpenter e di Strictly Kev poi). Più che un disco, una palestra e una fonte inesauribile di tattiche ritmiche (Beats & Pieces, appunto resterà il motto dei Coldcut). L’ortodossia dei nerd parte anche da qui.

    Up, Bustle and Out - The Breeze Was Mellow (As The Guns Cooled In The Cellar) (1994)Le prime incursioni nei suoni world le sperimentano DJ Ein, Rupert Mould, Senor Cuffy e Dave Cridge. Il loro è un jazz influenzato dall’atmosfera che circolava nei locali più cool dei Novanta, cioè quel gusto finto chic tramutato senza volere in kitsch modaiolo ed effimero, le atmosfere da clubbino indipendente con il bravo DJ che mette la musica per pochi adepti. Per la prima volta in casa Ninja (anche se solo sussurrando rispetto agli altri album) gli UBO sembrano essere una nota fuori dal coro, e invece portano tra le altre cose il primo pezzo tratto dal canone cubano che con il passare del tempo evolverà in una scoperta a tutto tondo di sonorità inesplorate, preferendo sempre e comunque il catalogo di ritmi sudamericani. Ancora oggi (proprio quest’anno è uscito il loro undicesimo album Soliloquy) Ein e Mould non appendono gli strumenti al chiodo. La loro proposta è la prima sfida off che la Ninja propone ai suoi fan. Uscendo dai binari monomaniacali della street culture. Ethno-hop come ulteriore ago della bussola.

    Funki Porcini - Hed Phone Sex (1995)Il primo grossissimo colpo al cuore. Un disco che scardina gli argini del dub e che promette mon-di di puro godimento sonico. Funki Porcini è James Braddell, il re del downtempo. Con questo di-sco porta il dub nello studio, lo pulisce, lo fa suo e scatena una cosa che non si sentirà più. Perché il dub a seguire sarà magari più minimale, più sporco, più contaminato, più techno, ma non così intimo: il suono di quest’uomo - che non ama apparire in pubblico e che ancor oggi manda in giro per gli uffici stampa una sua foto in bianco e nero degli anni Novanta - è una cosa unica, che in quell’anno travolge e fa proseliti, consegnando alla Ninja (grazie alla hit King Ashabanapal, edi-ta anche in un singolo a parte) un piccolo grande classico. James tenterà poi di cambiare strada (con il caos break-junglistico di Love, Pussycats & Carwrecks) o di ricostruire il capolavoro (con l’onirico Fast Asleep), ma l’ironia e la precisione sonica del würstel bruciacchiato in copertina saranno impossibili da bissare. Over the top.

    quella del chill ambience. Nel Box c’è pure un remix degli Autechre. C’è qualche connessione con i ragazzi di Sheffield?Ho descritto la Warp come ‘la sorella cattiva’ della Ninja. Noi amiamo la Warp, e pensiamo che queste due etichette siano i due attori principali nella scena elet-tronica inglese. Mi piacciono molto gli Autechre, e li conosco di persona. La scena non è poi così grande, bene o male ci conosciamo tutti, quindi è facile passare da un universo all’altro. Un altro artista che conosco personalmente è Aphex Twin. Gli ho venduto dei sintetizzatori qualche anno fa. L’ho visto da poco a un party con Stictly Kev e Mixmaster Morris. Alla fine ci troviamo negli stessi posti con la stessa gente ed è bello condividere quei momenti insieme. Oltre a ciò, c’è anche un po’ di competizione. La Ninja non ha mai fatto il successo della Warp, ci prendiamo meno sul serio. Se fai un confronto tra i due ventennali, penso che noi siamo riusciti però ad organizzare i party più belli. Stiamo guardando al futuro in modo sexy, rude e forte come la Warp: entrambe le etichette stanno facendo musica nuova, quindi la competizione ci sta. Una sorta di amore/odio salutare.Cosa stai ascoltando adesso?Low Limit sulla Numbers di Glasgow, Teebs su Brainfeeder (la label di Flying Lotus), e la traccia dei Detroit Grand PuBahs Sandwiches.Verrete in Italia come Coldcut o come Ninja Tune?L’Italia non è mai stata un grande terriorio per la Ninja. Penso sia un peccato per-ché amiamo l’Italia. Le donne sono bellissime, il cibo è ottimo e sappiamo che c’è molta gente che ascolta musica. Mandateci degli inviti, comprate la nostra musica e verremo di sicuro!

    Roots Manuva @ Ninja Tune XX

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    Jaga Jazzist - A Livingroom Hush (2002)Ristampa acquisita dalla più piccola ma non meno importante Smalltown Supersound, il disco di esordio del gruppo norvegese esplode come caso internazionale quando la BBC lo segnala come album dell’anno. Preludio e conferma di una tendenza che da lì a poco scoprirà una miniera di accostamenti interessanti e prolifici nel cosiddetto boom elettroacustico nordico: Kings Of Con-venience, Röyksopp e Bjørn Torske. Un disco che ci fa capire come il fiuto dei Ninja non perda mai la sensibilità necessaria per resistere al logorìo del tempo. Sempre pronti a tirar fuori dall’un-derground personaggi e sonorità di classe. Un miscuglio di bossa, cool jazz, chitarre à la Tortoise, fiati e assoli bop che ricordano tra gli altri gli sciccosissimi Morphine (Airborne) e un calore che affascinerà subito le platee di mezzo mondo. Il savoir faire che importa secoli di storia black e la filtra con un bianchissimo tocco polar lounge.

    The Bug - London Zoo (2008)Per chiudere degnamente la parziale carrellata non potevamo che scegliere il disco del pazzo Kevin Martin. L’uomo dai milioni di alias (tra gli altri God, Techno Animal, Ice, Curse of the Golden Vampire e Pressure) anticipa la moda mesh che pochi anni fa covava il botto imminente di M.I.A., Santigold e Major Lazer, oggi personaggi da copertina patinata più che da palco di festivalini per iniziati. Dubstep mescolato al dancehall cupo e strafatto della Londra capitale delle sonorità sempre e comunque avant. Un degno proseguio per le teorie millenaristiche di Tricky invasato di techno e di sporcizia dissacrante. Disco del 2008 per l’influente rivista Wire. Segnatempo in dive-nire: da ballare, da sballare, per grandi e per piccini.

    Amon Tobin - Bricolage (1997)Il visionario che viene dal Brasile e per questo inserisce delle patch di suoni caldi nel continuum inglese. Ma non è il solito downtempista da strapazzo. Amon Tobin piazza delle bordate break che da qui in poi esploderanno in visioni sempre più arzigogolate, ereditate dalle sue prime mosse nella diaspora post-pseudo-d’n’b col moniker di Cujo. Il basso di questo Bricolage è una cosa da quintetto di Miles Davis tagliato in consolle, caldissimo, con gli scratch al posto giusto e con quell’aria da fumo di sigaro che proviene dalla seconda patria inglese (Brighton) dell’uomo. Il downtempo che trascina e che fa di questo esordio un biglietto da visita per le sue numerose fuoriuscite dall’underground (una su tutte la colonna sonora del videogioco Splinter Cell). Sampling all’ennesima potenza per Amon Adonai Santos de Araújo Tobin. Obrigado.

    The Cinematic Orchestra - Motion (1999)La big band condotta da Jason Swinscoe e da Patrick ‘PC’ Carpenter (già membro del collettivo DJ Food) con questo disco d’esordio fa il botto e da qui in poi diventa il nome di punta della label, tanto che i suoi pezzi verranno pure suonati in numerosi spot e suonati in passerella. Anche se il successo irride al combo mutevole, la qualità della proposta e la dedizione alla sperimentazione non verranno mai meno con gli anni. Motion è l’esempio di come si possa fare dell’improvvisazio-ne una pratica condivisibile anche dal grande pubblico. Un preludio a quello che in questi giorni stanno facendo i Cobblestone Jazz con la techno.

    Kid Koala - Carpal Tunnel Syndrome (2000)La lesson dei paparini Double Dee e Steinski nelle vene di Kid Koala. Lui è il nerd che accosta sample inconsueti a una tecnica sorprendente (famoso per questo è il pezzo Drunk Trumpet, che riesce a coniugare il suono melodico della tromba con le possibilità di modulazione ritmica del giradischi). Eccellente video artist, cura le copertine dei suoi dischi con fumetti e video autopro-dotti. Eric San prelude la cartoonizzazione dei Gorillaz dietro la sua mastodontica capacità di utilizzare i samples e di alzare il giradischi a status di strumento musicale tout court. Non solo mix, ma tool per creare nuovi suoni. Il degno erede di DJ Shadow e Cut Chemist. Maximum respect.

    Wagon Christ - Musipal (2001)Tra le altre cose, Luke Vibert è passato anche per la Ninja. Con questo suo moniker sconsacrato e irriverente esplora la dance con strumenti analogici, facendo del divertimento un imperativo morale, vedi la dichiarazione d’intenti nell’intro The Premise: “I’m gonna fuck the whole world up!”. Il miscuglio che solo in apparenza salta fra generi in modo spastico, lo consegna a un modo di ve-dere la musica che anticipa la grazia del frullato ‘00 wonky. Il suo mondo è quello dell’elettronica che rende omaggio ai break di Squarepusher e Aphex Twin (suoi amici e conoscenti), alle visioni Global Communication di Tom Middleton, alla sapiente arte del sampling, al drum’n’bass e alla jungle - in quell’anno ormai solo un bel ricordo. Per molti non sarà un capolavoro, ma riascoltan-dolo oggi non ha niente da invidiare a chi cerca di costruire il beat perfetto con la più nuova release dell’ennesimo software di sound engineering. Luke trova un modo intelligente di rimescolare l’hip-hop con atmosfere color pastello illuminate da valvole e da calore soul. Anche lui per un attimo lunghissimo è human after all...

    AA. VV. / Coldcut - Journeys By DJ - 70 Minutes Of Madness (2002)Considerato da molti DJ e addetti ai lavori di musica elettronica come la più bella compilation di tutti i tempi, questo disco riassume l’estetica di gusto sopraffino dell’etichetta e dei suoi fon-datori. Difficile scegliere fra la sterminata produzione di Matt Black e Jonathan More, ma questo capolavoro batte gli esperimenti visuali, i remix e le escursioni oltre i confini del break che i due DJ hanno perseguito prima e dopo la pietra miliare. Settanta minuti che scappano velocissimi tra amici ninja (Funki Porcini, Wagon Christ), mostri sacri dell’elettronica di ogni tempo (Mantronix, Masters At Work, Plastikman e Photek) e le loro stesse rivisitazioni e remix. Senza tempo.

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    a ClaSSiC eduCation - hey there Stranger (leFSe, Settembre 2010)Genere: psych popUn canadese - chitarrista e cantante - più cinque italiani, col nido a Bologna ed il cuore sperso da qual-che parte tra Londra e l'iperuranio pop che da sempre la circonda, dagli Zombies ai Clientele. Epperò aperto a tutto un sentire british che aleggia sulle brume pazzarelle di Manchester e tra le fatamorgane del Merseyside, con particelle Smiths e Teardrop Explodes a rendere cremosa la caligine extratempo-rale. Si chiamano A Classic Education e Hey There Stranger, il loro secondo EP, ci racconta un imma-ginario pop fatto di trepidazione e sussulti, di mistero sonnolento annidato tra i sogni, d'inquietudine

    variegata dolcezza.Il campionario semantico procede sul piano inclinato del vintage, ma non si compiace anzi cavalca una bestiolina irrequieta che imbottisce d'urgen-za le pur leggiadre I Lost Time e Gone To Sea, così come - per converso - c'è pensosità obliqua nella post-wave trafelata di What My Life Could Have Been. E perché non concedersi un goccio di french touch con la cover di Toi, dal repertorio di Gilbert Becaud? Gli A Classic Education possiedono una fragilità fiera e illuminata che per il momento significa stato di grazia.(7.5/10)

    SteFano Solventi

    aa. vv./diplo - blow your head vol. 1: diplo preSentS dubStep (mad deCent, novembre 2010)Genere: dubstep meshDiplo è il Dr. Dre degli anni ‘00. Nei Novanta era il rap a farla da padrone, con tutta la sua pletora di catene e dentoni dorati. Oggi, dopo quasi una decina d’anni di underground, è proprio il dubstep che sbanca sulle piste e sulle frequenze di mezzo mondo, sostituendosi - per lo meno in Inghilterra - alla cultura americana da strada. Diplo ci va di azione di ubermarketing massivo producendo M.I.A., trasformandosi in cartone animato con il suo progetto Major Lazer e tornando in solitaria - sulla sua etichetta personale - per selezionare i nomi più interessanti del panorama dubstep.Tra i grandi: Zomby (con una Strange Fruit in visibilio 8-bit technoide) e Benga (con quel classico di basso pesantissimo e laserato che è 26 Basslines); tra le nuo-ve promesse Joker, Ginz e James Blake (già sentito in numerosi EP e qui con degli stab da urlo su Sparing The Horse). Non possono mancare poi le tamarrate di Ru-sko (il featuring da discotechina teen’n’bass di Amber Coffman su Hold On ricorda tanto i Magnetic Man), di Starkey (il vocoder nel remix per Rudy Zygadlo) e dello stesso Diplo.Un prodotto che fa il punto senza mix supertecnici o figatine di produzione. Deciso a sbancare, Diplo ci convince che è meglio battere il ferro quando è cal-do. Le direzioni, i teoremi e le tesi di estetica le lascia a qualcun’altro. Lui pensa a sfornare dischi e a farci bal-lare. E ci riesce di brutto. Se non l'avete ancora capito, è uno dei personaggi chiave del suono now. Tenetelo d'occhio.(7/10)

    marCo braggion

    aedi - aedi met heidi (SeahorSe reCordingS, novembre 2010)Genere: folk rockDopo l'autoprodotto The Adventures Of Yellow del 2008 e l'apprezzato Polish EP dello scorso anno, gli Aedi - un nome come minimo evocativo... - si accasa-no presso Seahorse e sfornano questo Aedi Met Heidi

    che in sostanza è il loro debutto ufficiale (se tale cate-gorizzazione ha ancora un senso). Approccio fiabesco e turbe indie, memorie punk che si sono fatte un giro tra cartoon preadolescenziali, particelle art-folk sboc-ciate su praticelli spazzati da brezze wave, tutto un giocherellare nel giardino di Kate Bush con balocchi Cranberries e Mùm, ma con la serietà di chi a certi so-gni ci crede.Mantenendosi in equilibrio sul crinale tra affabilità e bizzarria, tra delicatezza e veemenza (vi basti sentire Geometric Plane e On The Second Floor), mescolando carte con disinvoltura bjorkiana però addomesticata Delgados, questo quintetto da Macerata prova a dire la sua in un ambito relativamente inesplorato alle no-stre latitudini (quali compagni di avventura ideali mi vengono in mente solo i Grimoon). In bocca al lupo. (7/10)

    SteFano Solventi

    alex CambiSe - tre vie per un reSpiro (aipm, novembre 2010)Genere: rock melodicoNasci a metà anni Settanta. Cresci negli Ottanta. Nei Novanta ti appassioni alla chitarra elettrica e ti tocca fare i conti con Yngwie Malmsteen, Kirk Hammett e tut-ta una pletora di musicisti tecnici fino all'inverosimile. Percorso obbligato e questione di DNA. Come di DNA si parla quando comincia a fare capolino tra i tuoi ascolti quella tradizione italiana che fino al giorno prima ma-gari bistrattavi. Ruggeri, Finardi, Renga, senza distin-zioni. E poi il Ligabue che tutti conosciamo, quello capace di sdoganare il rock da stadio politically correct nel Belpaese - con Vasco Rossi, si intende - e al tempo stesso di far credere a miriadi di musicisti nostrani che il massimo dell'azzardo in musica sia far quello che fa lui. Se poi cominci a collaborare con personaggi dell'area overground (gente vicina a Tozzi, Alice, Paola Turci, Mar-co Ferradini) seguendoli sul loro terreno, il cerchio si chiude e tu non puoi far altro che partorire un esordio solista come Tre vie per un respiro. Un disco che assomi-glia al lavoro di routine di un ufficio postale.Il materiale è suonato in maniera impeccabile e ben prodotto, in bilico com'è tra folk irlandese (La ragazza

    Recensioni — cd&lphighlight

    di Longarone) e air guitar anni Ottanta (Fiori d'acciaio), impennate vocali tipiche dell'ex front-man dei Timoria (Oltre il tempo) e certi sogni di rock'n'roll in copia carbone (S.r.l.). Radiofonico come lo vorrebbero ai piani alti della discografia e melodico come richiede il popolo sovra-no, con tanto di power drums e refrains al posto giusto. Il problema vero, tuttavia, è che nei quaranta minuti di programma non c'è una sola nota che non suoni pre-vedibile, rassicurante, istituzionale, conservatrice, para-cadutata, standardizzata. In una parola, italiana. Occhi chiusi sul mondo, testa bassa e nulla di più.(4.5/10)

    Fabrizio zampighi

    amaury Cambuzat - the SorCerer (aCid Cobra, Settembre 2010)Genere: kraut-elettronicaL'espressionismo muto di Friedrich Wilhelm Murnau - chi si ricorda di Nosferatu il vampiro? - sembra esse-re particolarmente adatto alle sonorizzazioni postume. E se qualche mese fa si parlava di una L'ultima risata dei nostrani Drunken Butterfly soundtrack ipoteti-

    ca dell'omonima pellicola murnauiana, ora tocca ad Amaury Cambuzat (Faust, Ulan Bator) con The Sorce-rer omaggiare il regista tedesco. Il soggetto questa vol-ta è Tabù, film datato 1931 - nonché ultima produzione del cineasta - e ambientato in Polinesia. Una riflessione amara sul contrasto tra usanze tribali e sentimenti in-dividuali nelle comunità arcaiche che in realtà diventa metafora del peso che la società ricopre nell'influenzare i rapporti affettivi e la morale comune.Cambuzat non esita un momento a liberare la propria vena evocativo-inquietante, collezionando nei quaran-tasette minuti del disco aperture strumentali che simu-lano lo shoegaze (South-Seas), citano il kraut sfilacciato dei primi Faust (Palm Trees), abbracciano un ambient onomatopeica ai confini con la psichedelia (Tropical Waves, La nuit), cedono alle inevitabili fascinazioni per-cussive (Voodoo Doll). Un lavoro da certosino che più che seguire pedissequamente le immagini a loro si ispi-ra, compenetrando nella giusta maniera audio e video.(7.1/10)

    Fabrizio zampighi

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    andrea belFi/SteFano pilia/david grubbS - onruShing Cloud (drag City, ottobre 2010)Genere: post-rockFatto della pasta inequivocabilmente post-rock degli indimenticati For Carnation (City Rats On A Mountain Pass), umbratile come certi Gastr Del Sol e con quell’espressione del viso stabile e concentrata, Onru-shing Cloud è un disco fuori dal tempo, che catture-rebbe anche i distratti.Belfi / Grubbs / Pilia. Un trittico di nomi sinonimo di qualità. Nel mezzo, uno dei principali traghettatori del dopo hardcore verso le avanguardie, ai lati, forse i casi più eccellenti del proseguimento di quella missione. Epperò, lungi dall’essere eclatante, l’intersezione del trio resta piacevolmente co-firmata e sospesa. Si sen-te Andrea Belfi nei ticchettii (delle dita sul tavolo in Nitrated Out), l’inconfondibile melodia vocale di David Grubbs nella title-track, la chitarra di Stefano Pilia (Lightning Vault).Onrushing Cloud non porta prigionieri, né conserva conti aperti (da chiudere?) con il passato. Innegabile che la sensibilità, espressa da due dei tre anche in al-tre forme e mosse musicali, non sia sostanzialmente cambiata. Eppure, altrettanto evidente è il morbido passaggio di consegne siglato da un disco che ci per-mette di guardare al genere che fu degli Slint non più con gli occhi che vengono dal post-hc, ma con i filtri dell’elettroacustica. Un cambio di prospettiva creato negli anni, per iniziativa anche e soprattutto del trio protagonista dell'album.(7/10)

    gaSpare Caliri

    apart - digital Frame (KrySaliSound, novembre 2010)Genere: ambientFrancis M. Gri è un veterano della scena dark-ambient internazionale ed è almeno noto per essere uno dei membri fondatori del combo All My Faith Lost. Affran-catosi da quell'esperienza, che a giudicare da quello che si legge in Rete è ben presente nella memoria dei seguaci, il musicista italiano ha continuato il proprio percorso affidando le proprie composizioni a due pro-getti: Revglow, in collaborazione con la vocalist Lilium, e, appunto, Apart, che qui aggiunge un nuovo tassel-lo alla propria discografia dopo il doppio dello scorso anno, Winter fragments, e lo fa sotto l'egida della neo-nata KrysaliSound, etichetta anch'essa totalmente ge-stita da Francis M. Gri. Le cornici digitali del titolo sono sussurri elettronici, parchi tappeti di tastiere e timide percussioni che fanno da culla a nove brani pianistici

    di forte atmosfera malinconica. Tranne un'intrusione di violoncello (Gate 12) e della voce della sodale Lilium (per l'eccellente crescendo di New Day ed Exit Dream) il disco è tutto qua. Vi si ritrovano le atmosfere eteree della scena dark primeva, ma anche una certa ricerca di immobilità e di prolungamento del sogno in sfumatu-re di grigio che ricordano anche alcuni brani dei primi Sigur Rós. Sul fronte pianistico, il cuore di tutte le com-posizioni di Francis M. Gri, siamo di fronte a un equi-librio elegante, fatto di minimalismo, i riferimenti agli aeroporti di enoiana memoria e a una certa ricorsività sonora che fa pensare anche al kraut-ambient inventa-to sempre da Eno con i Cluster.Al termine dell'ascolto di Digital Frame si rimane av-volti da un languore sincero, segno che l'obiettivo di Francis M. Gri è raggiunto in pieno e ci fa salutare con piacere l'avvio della sua etichetta.(7/10)

    marCo boSColo

    aSh - a-z SerieS vol.2 (atomiC heart reCordS, novembre 2010)Genere: indie rockA questo punto abbiamo il quadro completo del pro-getto con cui, Tim Wheeler e compagni, hanno tentato la loro faticosa operazione di rilancio.Dopo un primo capitolo caratterizzato da felici anthem a presa rapida (cosa che dimostrano di padroneggiare ancora con maestria), gli Ash utilizzano questa secon-da tranche per concentrarsi su brani dal respiro più am-pio e dagli più obiettivi decisamente più ambiziosi.Purtroppo dimenticano che, storicamente, magnilo-quenza e pathos mal si coniugano il loro sound eterna-mente teenageriale e che la loro forza sta nello sciori-nare un pop punk fresco e senza pretese.La maggior parte dei brani di Vol. 2 si ricollegano al brit sound metallizzato del periodo Meltdown, con qual-che pericoloso scivolone in zona Muse (Spheres). I tre irlandesi sanno di aver già portato a casa il risultato col precedente volume, così provano a battere nuove strade con risultati alterni. Nei dieci minuti della suite strumentale Sky Burial, danno vita ad un interessante psycho pop rock che guarda allo spazio, ma è con gli spasmi elettrici della febbricitante Embers che appaio-no nelle loro vesti più consone.Nel complesso la missione può dirsi compiuta, anche se rimango convinto che, con una cernita oculata, da tutti questi brani si sarebbe potuto tirare fuori un al-bum singolo stellare.(6/10)

    diego ballani

    aSmara all StarS - eritrea'S got Soul (outhere, ottobre 2010)Genere: africanaDura incidere un disco in Eritrea. Stato autonomo da un ventennio scarso e, dopo una guerra sanguinosa con i vicini etiopi, s'era in precedenza visto dominare da Mussolini e dagli inglesi. Oggi, un’indipendenza fi-glia di un referendum popolare è scivolata in dittatura, nella quale ci si può però informare e scolarizzazione e sanità sono garantite. Sotto la quale vive un popolo anagraficamente tra i più giovani del globo e perva-so da enorme ottimismo. In tale contesto nasceva nel 2008 il progetto Asmara All Stars, organizzato dal pro-duttore francese Bruno Blum (già a fianco del Serge Gainsbourg infatuato della battuta in levare), recatosi ad Asmara per collocare sotto i riflettori una scena lo-cale d’antico retaggio.Vi ricorda un certo Ry Cooder in trasferta cubana? An-che a noi, specie per l’entusiasmo palpabile che emer-ge dalle registrazioni e per l’alternanza tra giovani leve - Faytinga, Temasgen Yared, Sara Teklesenbet - e i padri spirituali Brkti Weldeslassie e Ibrahim Goret (la sua scarna Safir Hilet apice del programma, con la si-nuosa Inedir cantata dalla più verde ugola di Adam Ha-mid). Riuniti in un panorama che mescola la tradizione con abbondanti dosi di reggae, soul e funk e che già ha fatto parlare di eri-jazz. Noi lasciamo umilmente perde-re, ritenendo i paragoni fuorvianti - ingiusti, anzi - lad-dove le radici si spingono fin dentro la notte dei tempi; semmai, annotiamo un esito più del lecito “patinato”, lontano dalle imprese degli Ex e dall’epocale Buena Vi-sta Social Club. Diverse sia la vocazione che l’approccio, d’accordo, ma la mano di Blum si sente eccome, e spin-ge a riferire di un biglietto da visita gradevole per ca-pire cosa c’è a monte. Ad Asmara, probabilmente, non aspettano altro.(7/10)

    gianCarlo turra

    atlaS Sound - bedroom databanK vol.1, 2, 3 (SelF releaSed, novembre 2010)Genere: bedroom nuGGetsStavolta non lo ha fatto per errore, come successe per la prima versione di Logos. In un anno che ha visto la sua band principale, i Deerhunter, fare un salto in alto ulteriore verso l'empireo dell'indie, e forse qualcosa di più, Bradford Cox non riesce comunque a concentrarsi unicamente su di un progetto. Troppe le idee che gli vengono in mente, troppe le suggestioni e le storie da raccontare in musica. Così scopriamo dal suo blog che mentre usciva Halcyon Digest e per tutto l'autunno,

    quando avrebbe dovuto essere impegnato a promuo-verlo, Cox ha riempito tutti i buchi liberi per chiuder-si in cameretta e registrare una serie di brani che ora ci arrivano gratuitamente nel lettore mp3. Il titolo dei volumi, Bedroom Databank, esplicita già il senso dell'operazione: nuggets-delia da cameretta, compo-sta, suonata e registrata completamente in solitaria a nome Atlas Sound, che nel frattempo sembra essere diventato lo spazio dove poter rinchiudere tutto quello che la pressione della band-madre non gli permette di sperimentare.E che cosa troviamo dentro a questi primi tre volumi (ma c'è da scommettere che la storia non finirà qui)? Nel primo, quello che si basa su sintetizzatore e computer, Cox infila le cose più genuinamente d'ambiente, figlie di quell'ambient-pop, com'è stato definito, che deter-mina fin dall'inizio le coordinate del progetto. Vi fanno capolino anche due cover, una di Kurt Vile (Freak Train) e Bob Dylan (These Wheel's On Fire), e brani puramente strumentali che sembrano veri e propri studi (come si dice in ambito classico) sui suoni. Fossimo nell'Otto-cento, parleremmo di un taccuino di viaggio, dove gli appunti sono stralunati stralci di psichedelia-folk-gaze e il viaggio è tutto contenuto da quattro mura.Nei seguenti due volumi entrano invece più che al-tro canzoni vere e proprie, basate su una strumenta-zione più tradizionale, ma dove il lavoro sugli effetti è determinante per il sound complessivo. A volte si ha l'impressione che la volontà principale di Cox sia quel-la di catturare l'essenza di un'atmosfera, di uno stato d'animo e di trasmetterla agli altri, in uno stato di bu-limia compositiva che riflette un'altrettanto insaziabi-le necessità di esprimersi costantemente con le note. L'intensa attività ce lo fa immaginare come dominato da un'attitudine tipica del mondo del jazz, in cui le registrazioni sono solamente una fotografia istanta-nea di un processo che non comincia e non termina mai. Anche con Cox, sottoforma di Atlas Sound e di Deerhunter, siamo di fronte a un flusso ininterrotto di idee e brani che a volte finiscono nei dischi, altre volte finiscono in queste tapes.Non tutto è, ovviamente, a fuoco e all'altezza del resto della produzione di Cox, ma la varietà degli stili raccon-tano meglio di qualsiasi discorso il piacere onnivoro della musica che lo anima e all'ascoltatore, addetto ai lavori o meno, restituisce un'immagine a tutto tondo di un compositore con il quale bisogna fare i conti.(6.7/10)

    marCo boSColo

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    badly drawn boy - it'S what i'm thinKing pt.1 photographing SnowFlaKeS (edel, novembre 2010)Genere: folk popMa che bella implosione, Mr. Gough. Che bel ritorno. Dopo i colpi di testa e le fittonate para-prog che face-vano inarcare il sopracciglio di sorpresa però accade-vano - come dire? - un po' fuori dalla tua giurisdizione. Insomma, qualche pisciatina fuori dal vaso l'hai fatta, caro Damon, condita dalle molte mattane, dai bruschi sbalzi d'umore e quegli scazzi in sede di concerto che ti hanno procurato non la fama di rocker maledetto (e quando mai?) piuttosto quella di capriccioso attac-cabrighe più bizze che talento. E sì che di talento hai dimostrato d'averne, tanto tempo fa. Adesso il ritorno all'indipendenza per la One Last Fruit e questo primo capitolo d'una trilogia nientemeno. Alleluja per il ra-gazzo disegnato male!Ok, a dire il vero la copertina klimtiana surreal/simbo-lista non fa ben sperare, però poi t'imbatti in un folk-pop estoplasmatico/trepido/acustico su quel letto di evanescenze elettrosintetiche, fondale emotivo più che atmosferico, e in quegli approcci cameristici che hanno il merito di ostentare più pensosità che enfasi (vedi What Tomorrow Brings), e ciò vale anche quando metti in piedi una baldanza Morrissey tipo il singolo Too Many Miracles. Massì, devo dirtelo, sono davvero contento. Ti trovo in forma, malgrado tutto. Certo, si sente che ci vai coi piedi di piombo, che prendi la mira con cura. Lontanissimo è l'estro soave di About A Boy (a parer mio il tuo capolavoro) e ancor più l'inconteni-bile stravagante immediatezza del debutto The Hour Of Bewilderbeast.Tuttavia proprio di quest'ultimo - che poi fu il primo, dieci anni fa cribbio! - il qui presente It's What I'm Thinking Pt.1 - Photographing Snowflakes potrebbe sembrare il figlioletto timido, con l'Elliott Smith obli-quo di This Beautiful Idea, con le tenerezze springste-eniane di A Pure Accident, con la fragranza indolenzita vagamente Eels di The Order Of Things, con la folk bal-lad a giri bassi - e slide contrita - della title track, con l'up-tempo tra Al Stewart e Belle And Sebastian di I Saw You Walk Away. Forse potevi risparmiarci gli eso-tismi afrocaraibici della piuttosto insulsa This Electric, però non c'è arredamento senza qualche nota stonata, quindi ok, le tue trepidazioni di mezza età mi sembra-no buone, deliziosamente depresse e fuori fuoco. Del resto non è facile fotografare fiocchi di neve, vero?(7/10)

    SteFano Solventi

    banana pill - waterColor (JoziK reCordS, Settembre 2010)Genere: psycho dronesDuo proveniente dal nord della Russia trapiantato a Helsinki, dove gestiscono una label e organizzano un festival e vari eventi di musica sperimentale, i Banana Pill sono un piccolo microcosmo psycho drone gene-rato da quella scena sperimentale finlandese sempre attiva, sebbene da qualche anno lontana dai riflettori. I punti di riferimento di Watercolor sono piccole sinfonie per synth impazziti, voci trattate e chitarre sghembe e spaziali vicine allo stile della Ikuisuus e in particolare a quello di Uton, con il suo sguardo rivolto verso mondi lontani. A sorprendere è però la scioltezza e la sponta-neità con cui drones e melodie vengono fusi in piccole jam semi improvvisate che sembrano quasi invocazioni al pigro sole del nord. I suoni, coloratissimi, si evolvono in delicati mantra dalle tinte pastello, a volte addolciti da malinconiche melodie di violino, altre enfatizzati da corde e piccole percussioni. Non manca un tributo alla terra natale nella splendida reinterpretazione di una folk song tradizionale russa rivestita da un inedito toc-co caleidoscopico. (6.8/10)

    gemma ghelardi

    banJo or FreaKout - way Slow volume one (leFSe, ottobre 2010)Genere: indieQuello di Alessio Natalizia è un nome che può suonare sconosciuto ai non addetti ai lavori ma di cui in realtà si è fatto già un bel parlare, dapprima grazie alla fortuna-ta esperienza nei Disco Drive e più recentemente con l'esordio di Walls, già culto presso gli appassionati di chill-wave di tutto il mondo. Tra un gruppo e l'altro c'è stato tempo anche per un side-project oggi a un passo dalla prima uscita ufficiale e in cui sono rintracciabili tutte le sfumature della parola glo. Seguendo il mo-dello reso celebre dai vari Lotus Plaza e Atlas Sound, Banjo Or Freakout prende il via nel 2006 da una serie di registrazioni domestiche condivise gratuitamente su un blog e sporadicamente intervallate da qualche uscita su cd-r e 7". Non stupisce quindi che sia ora la Lefse Records (Neon Indian) a pubblicare questo EP, primo di una serie che si propone di portare alla luce il materiale rimasto nei cassetti degli artisti di volta in volta coinvolti.Nonostante Way Slow Volume 1 sia per sua natura desti-nato a un'utenza molto ristretta, la qualità complessiva risulta comunque superiore alla media di questo gene-re di pubblicazioni. I solo-project dei due Deerhunter

    autumn deFenSe - onCe around (yep roC, novembre 2010)Genere: pop, folk rockAndare oltre i Wilco, smarcarsi dal proprio passato e far finalmente quadrare il cerchio: il quarto full lenght dell'ormai decennale side project di John Stirratt e Pat Sansone suona come un disco importan-

    te, solido, non come una semplice - e pur legittima - vacanza dal progetto madre. Dove il precedente omonimo del 2007 appariva come un bel diver-tissement di classe, quasi innocuo nei suoi didascalismi west coast, Once Around ingrana invece la marcia e parte sicuro e deciso: l'incipit decisa-mente Lennon/Harrison di Back Of My Mind è uno sfoggio di quel carattere che sinora aveva latitato, o meglio covato sotto la cenere in attesa di cir-costanze favorevoli. Che sono arrivate con la determinante esperienza di Seven Worlds Collide con Neil Finn & friends (2009; giova ricordare che da lì è partito Wilco - The Album, nonché la vicenda solista di Phil Selway),

    la scintilla da cui è scaturita la rinascita degli Autumn Defense: per quanto le atmosfere si mantengano sempre mellow, c'è un'energia sotterranea e quasi febbrile che le percorre ed elettrizza, un sentimento che gratta via la glassa dalla superficie e arriva dritto a toccare nel profondo.Che si tratti di un lavoro ispirato, oltre che magistralmente realizzato (produzione e arrangiamenti sono, inevitabilmente, al top), lo si avverte a primo ascolto, dalla costruzione dinamica e dalle armonie di Tell Me What You Want, dalla Rickenbacker puramente Smiths di The Swallows Of London Town, dal sentito omaggio ai Big Star di Don't Know eEvery Day, dalle rievocazioni Elliott Smith della title track fino al soul di Allow Me; mentre il folk-rock di Huntington Fair pare rinverdire i fasti di Mermaid Avenue, The Rift scomoda Simon & Garfunkel, Step Easy Neil Young e Jackson Browne e There Will Always Be A Way il reverendo Al Green. Insomma si punta a una formula classica, senza tempo, a una precisa e nobile ca-tegoria del pop alla quale Stirratt e Sansone possono, adesso a pieno titolo, dichiarare di appartenere.(7.2/10)

    antonio puglia

    highlight

    sopra citati rimangono i paragoni più verosimili ma al tempo stesso rappresentano modelli entro cui circoscri-vere un gran numero di influenze, dalle jam psichedeli-che degli Animal Collective riassunte nei tre minuti tri-bali di Over There allo space-rock di scuola Spiritualized omaggiato nei coretti enfatici di Is That All?; fino a una 75 che pur nella sua semplicità tecnica (chitarra acustica + voce in delay) si candida come ballad imprescindibile per l'autunno degli shoegazers in ascolto, forte del suo girare intorno alla parola spleen senza abboccare mai davvero. Degno di elogio anche il criterio di selezione dei brani operato da Alessio, in un equilibrio perfetto fra episodi ancora acerbi ed altri più compiuti: accanto a ritmiche composte da un'unica nota di pianoforte, riff di chitarra distorti e cantati prossimi al mugolio (0156) trovano posto canzoni vere e proprie, voci in primo pia-no e melodie nitide (Vasto Beach).La natura inevitabilmente sconclusionata dell'insieme rende difficile mettere a fuoco il presente e conseguente-mente il futuro di Banjo Or Freakout: sicuramente le carte

    da giocare sono molte, si tratta di saperle organizzare e sviluppare così una personalità necessaria a distinguersi in un genere ormai inflazionato e in attesa di evoluzione.(6.4/10)

    Simone madrau

    bellrayS - blaCK lightning (Fargo, novembre 2010)Genere: soul-punkPiace dei BellRays l’intensità con cui fondono il genuino sudore di soul e street rock. Il fatto che da vent’anni l’en-semble guidato dalla fenomenale cantante Lisa Keka-kula - una Tina Turner giovane, consapevole e incazza-ta - e dal chitarrista Rob Venunm faccia cosa sola di ciò che consegnò Detroit alla Storia: da un lato la Motown e le decine d’altre etichette indipendenti; dall’altro, gente come MC5, Stooges, Rationals e Mitch Ryder che black lo era dentro e senza nasconderlo. In mezzo, George Clinton metteva ordine e anticipava un’ampia fetta del futuro in cui vivono i BellRays.

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    Giunti con calma e fermezza dal fiero underground (l’esordio su nastro In The Light Of The Sun; svariati 7” ed e.p.; la militanza presso Alternative Tentacles) a tour con Rocket From The Crypt e riconoscimenti sul terri-torio europeo eleggendo l’integrità a bandiera, donan-do ogni grammo d’energia sul palco e conservando il proprio stile. Rendendolo anzi più ricco e vibrante sino al maturo vertice del 2007 Have A Little Faith, cui rispondevano l’anno seguente il più ruvido Hard, Sweet And Sticky e oggi dieci composizioni che quadrano il cerchio. E che hanno l’aria dello sforzo di qualità che potrebbe regalare meritate soddisfazioni economiche: parlano chiaro la scuderia di prim’ordine, una produ-zione puntuale e potenziali successi come Power To Burn, una People Have The Power più tirata che si appaia al calco dell’Iggy Pop anni ’90 Everybody Get Up.Cose passabili e che faranno probabilmente storcere il naso ai fan della prima ora, nondimeno assolvibili alla luce di una The Way dritta dal ‘64, di una strepitosa Sun Comes Down tra Isaac Hayes e Curtis Mayfield e del resto che sposa disinvolto eleganza, foga, solidità (su tutto la fumigante Close Your Eyes, il crescendo di Any-more, l’irruenza della title-track e di Living A Lie). Roba da memorizzare e far ascoltare a chi ancora possiede un’idea provinciale di certa musica.(7.3/10)

    gianCarlo turra

    breathe owl breathe - magiC Central (hometapeS reCordS, ottobre 2010)Genere: fantasy fok/pop Immergersi in Magic Central è come tornare piccoli, nascondersi dentro all'armadio della biancheria in una grande casa di campagna mentre all'esterno in-furia il temporale e, torcia in mano, coperta sulle spalle, immergersi nella lettura delle Cronache di Narnia o in un libro di Nail Gaiman. C'è tutta quest'urgenza di rac-contare storie fantastiche, tipica della letteratura per l'infanzia, in queste dodici tracce di pop zuccheroso e giocoso, che hanno titoli come "La mascella del leone", "Il drago" o "La casa d'oro". Nella perfetta epica indie americana, Micah Middaugh e Andréa Moreno-Beals si sono conosciuti in un parcheggio nell'area ru-rale del Michigan. Con il loro impasto vocale maschile/femminile, il violoncello di lei e la chitarra di lui, costru-iscono intarsi delicati, spesso semplici (Dogwalkers of The New Age) come le filastrocche dell'infanzia (Swim-ming), in qualche occasione supportate da una visione jazz (Board Games). Il supporto attento e mai invaden-te delle percussioni di Trevor Hobbs risulta decisivo nel creare e mantenere l'atmosfera incantata (Icy Cave

    Dancers) e divertente/divertita (Parrots In The Tropical Trees). Magic Central è l'ennesimo capitolo della saga, cominciata nel 2004, ma con questa prova sembrano aver trovato la quadratura del cerchio.(7/10)

    marCo boSColo

    bryan Ferry - olympia (emi, novembre 2010)Genere: wave popLa cosa migliore di questo disco è l'ostentazione quasi sfacciata o se preferite narcisistica con cui Brian Ferry mette in scena se stesso, patteggiando senza remore col proprio passato (a partire dal glamour retro-attua-lizzato della copertina, featuring una patinatissima Kate Moss). Ed è, come è facile immaginare, anche la cosa peggiore. Ha fatto le cose in grande, coinvolgen-do nomi altisonanti come David Gilmour e Jonny Gre-enwood oltre ai vecchi compagni d'avventura Brian Eno, Phil Manzanera e Andy Mackay. Inevitabilmente si è fatto un gran parlare di questa sorta di reunion di-scografica dei Roxy Music, dopo il pugno di concerti tenuti dall'inizio dell'anno ed il tour annunciato per il prossimo gennaio. Per quanto smentita dai diretti in-teressati, per quanto di sponda, nei fatti la reunion si è consumata anche in studio. Certo, non era il caso di sperare in un ritorno alle impudenti sperimentazioni post-glam dei primi seventies. No: in Olympia il sound staziona tra i languori patinati di Avalon e le febbricole dance-wave-funk di Manifesto, e in un certo senso è giusto così. Una formula comoda e senz'altro oppor-tuna, o almeno priva di eccessive velleità. Tuttavia, ammetto di aver provato un certo imbarazzo durante l'ascolto, come sempre quando m'imbatto in una no-stalgia che rincula in piacionismo giovanilistico.Non è il caso di rimproverare a Brian Ferry di essere Brian Ferry, ma tutto questo dandysmo fireo, a briglie sciolte e fuori tempo massimo se da una parte ci resti-tuisce un'icona rock in ottima forma, dall'altra finisce per creare mostriciattoli come Heartache By Numbers - epica Arcade Fire disinnescata Cock Robin - e una versione di Song To The Siren sdolcinata fino alla nau-sea. Va un pizzico meglio coi Depeche Mode rifritti di Shameless, mentre Reason Or Rhyme tenta con una cer-ta dignità di riesumare i turgidi languori anni Ottanta. Alla fine, l'unico episodio degno di nota è la conclusiva Tender Is The Night, con la voce che s'immerge e riemer-ge tra i mesmerismi sintetici. Un po' poco, tenuto conto dello strombazzamento.(4.5/10)

    SteFano Solventi

    burnS unit (the) - Side Show (proper, agoSto 2010)Genere: folkCresce con gli ascolti l'esordio dei The Burns Unit. E pure inaspettatamente, visto che al primo passaggio mostra un'anima poco equilibrata, con una What Is Life che sembra occhieggiare in maniera inquietan-te a Shakira, certi richiami ai Low di una Future Pilot A.K.C. decadente a malinconica, il Leonard Cohen gi-tano di You Need Me To Need This o i Belle & Sebastian di Trouble. E' sufficiente recuperare i crediti del disco, tuttavia, per comprendere che si tratta di un coscien-te esperimento di global-folk-pop e non di mera presa per i fondelli. Anzi di più. Di una sociologia da apparta-

    mento tipo Grande Fratello applicata ai suoni. Con otto musicisti provenienti da Scozia e Canada - oltre che da precedenti esperienze agli antipodi - auto-richiusisi materialmente in una casa a interagire.Dall'ideale brainstorming da supergruppo in gita nasce un disco che rispecchia la diversità di approccio degli artisti coinvolti, nelle molteplici anime che lo com-pongono ma anche nel pedigree che lo accompagna. Con la voce suadente di Emma Pollok (Delgados), lo spoken word di Mc Soom T (sul dub-afro di Send Them Kids To War e nella già citata What Is Life) e il cantato so-gnante di Karine Polwart (Helpless To Turn) a guidare una coralità multisfaccettata in cui far convivere bas-so (Future Pilot A.K.A.), chitarra (Kim Edgar), tastiere

    daFt punK - tron legaCy: original motion piCture SoundtraCK (emi, diCembre 2010)Genere: elettronicaSenza aver visto il film è dura parlarne, ma quello che si carpisce ascoltando questa colonna sonora è che probabilmente i due uomini col casco sono stati imbrigliati in percorsi non troppo consoni alla loro potenzialità compositiva. Guy-Man e Thomas applicano infatti i topoi più conosciuti e stereotipati della

    musica elettronica alla descrizione di immagini, mutandoli con le citazioni che influenzano da sempre il background genetico di chi - come loro - ha fatto dell’elettronica un credo: cavalcate e loop à la Tangerine Dream (The Son Of Flynn), analogica da baffo Moroder (Solar Sailer), il ricordo di Jean-Michel Jarre (Nocturne), qualche accenno al minimalismo di Philip Glass negli archi di Outlands e tanto tanto Vangelis. In più (da contratto?) ag-giungono una patina pomposa e barocca al tutto, costruita grazie all’aiuto di ottoni, archi e di un’orchestra sinfonica da più di cento elementi che propone un didascalismo pedante e mediamente noioso.

    Le uscite dallo schema disneyano/hollywoodiano appaiono in poche tracce, fortunatamente vicine al dancefloor: il già apprezzato singolo Derezzed (suoni da deep house in filtraggio espanso che fa gola ai Justice), End Of Line con una lentezza di bpm à la Homework che pesca il suono di basso e di batteria dall’analogica fine Settanta aggiungendo inserti di tastierine glitchate a 8 bit, la prosopopea di filtri di Arena e Rinzler che cita i Chemical Brothers di Push The Button.Il mood di questa ora scarsa di musica è inevitabilmente dark, come sarà il film. Un’oscurità che, per la retrofilia anni Ottanta, si rifà a pietre miliari del calibro di Blade Runner (il synth di Arrival è plagio) o Fuga di mezzanotte. Senza le immagini però la musica non riesce a reggersi bene in piedi ed è difficile ascoltare il disco da cima a fondo con lo skip a portata di mouse.Sono ormai cinque anni che aspettiamo un album dopo il sempreverde Human After All. Il silenzio, ri-empito comunque dagli impegni con il tour e dalla regia di Electroma, meritava forse qualche hit in più. Tron Legacy è una parentesi che per i fan in visibilio house promette bene con pochi singoli da ballo, ma per gli altri non verrà ricordata come un ennesimo exploit. Peccato.PS: L’album esce anche in Deluxe Edition con un cd aggiuntivo di clip del film ed extra tracks.(6.5/10)

    marCo braggion

    highlight

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    (King Creosote), synth, accordion (Michael Johnston) e batteria (Mattie Foulds). Materiale che mette in mo-stra un gruppo di lavoro appassionato e una scrittura pop cristallina, oltre a un pugno di desinenze tradizio-nali scozzesi/latine decisamente in linea con l'attuale tendenza al crossover etnico.(7.1/10)

    Fabrizio zampighi

    buzz aldrin - buzz aldrin (unhip reCordS, novembre 2010)Genere: waveUna storia folgorante, degna dei nostri tempi veloci. Tre trentenni (non è uno scioglilingua) incrociano i loro destini in quel di Bologna ad inizio 2009, scoprendo un'intesa che in breve frutta un pugno di pezzi presto spediti al mondo via myspace. Il resto viene quasi da sé. Si apre la breccia dei concerti, attorno ai quali cova un hype che monta fino all'inevitabile esordio, oggi, per l'occhiuto tandem Unhip/Ghost Records. Album omonimo, nove pezzi tesi, allucinati d'una wave bat-tente che non può non ricordare i Wire via Liars o vice-versa, il ghigno PIL nel gorgo nero Bauhaus, l'impeto Killing Joke sclerotizzato da una teatralità Suicide. La scrittura si limita ad essere pretesto di arrangiamenti aggressivi e interpretazioni intense, cogliendo l'api-ce nella robotica Machine 2999,99 e nella spasmodica White Church.E' evidente quindi l'ossessione wave (e dintorni), ma con meno veemenza che cognizione di causa: il loro sound è progetto e calcolo, equilibrio di perturbazioni soniche al servizio di marce ipnotiche e alienate, di sce-nografie sinistre e cavalcate visionarie, e questo segna la distanza rispetto ad una moda a pronta presa risa-lente ormai a qualche stagione fa. Che comunque c'è stata e - a causa dei ritmi vorticosi del presente - stende sulla proposta il suo alone cupo, un senso di revival del revival che ti prefigura la solita sindrome dei ritardatari cronici, il solito cul de sac provinciale.Non è detto che sia così. Magari ai Buzz Aldrin - nome scelto in onore del secondo arrivato per antonomasia, ed è forte la tentazione di argomentarci sopra - interes-sa solo seguire la propria traiettoria e affanculo le mode e le scene. Personalmente, sono disposto a crederlo. In ogni caso, possono vantare un'idea sonica ragguarde-vole, con pochi eguali dalle nostre parti. Per dei debut-tanti, seppure stagionati, è una specie di prodigio.(7.1/10)

    SteFano Solventi

    CryStal FighterS - Star oF love (zirKulo, ottobre 2010)Genere: nu-rave mesh-popLo spettro del nu-rave che si aggira per l’Europa musi-cale l’avevamo intravisto nelle proposte glo dei Delo-rean. L’affinità geografica e musicale con i barcellonesi ritorna con l’esordio full-lenght di questa nuova band basca (già vista su Kitsuné con il singolo Xtatic Truth, qui riproposto): una cosa che pompa ricordi electro wave dei primi MGMT e li mescola sapientemente con la lezione Animal Collective, tenendo in sordina un pedale ritmico che rispolvera le sudate minimal a nome Soulwax. Come a dire mescoliamo grazia sum-mer-pop con l’acidità da dancefloor e vediamo quello che ne esce.Quando ci fu il boom di Klaxons e CSS, di questi espe-rimenti ne sentimmo fino allo sfinimento, ma oggi si è finalmente pronti ad andare oltre il floor pacchiano, tagliando tutto con il massimalismo che gli animali col-lettivi e la summer wave ci hanno implicitamente co-stretto a percepire in qualsiasi album rock post-00. Ok, citare nuovamente quei mondi musicali è un rischio. Ma val la pena correrlo se si riesce a costruire un ibrido che compone un’inaspettata raffica di singoli promettenti: I Do This Everyday pesca dalla matrice trash Yeah Yeah Yeahs inzuppata nella witch house a 8 bit, At Home gio-ca con le terze a cappella Ottanta delle Bangles, Swal-low deborda nelle acidità dello UK bass, l’opener Solar System è fidget mescolato a tagli balearici lo-fi degni dei migliori Aeroplane, il tribalismo con le schitarrate metal in I Do This Everyday, gli stop and go acustici dei Pixies (band che ha da sempre un seguito esagerato in Spagna) in Plage, la vituperata minimal di Miss Kit-tin in I Love London, la techno commerciale da stadio con la voce wave dei Pains of Being Pure At Heart in With You e per finire una consapevolezza che ammira la tradizione, utilizzando strumenti della tradizione basca sconosciuti come txalaparta, tabor e txistu.Un piccolo grande colpo al cuore, ricco di sogni, miste-ro e psichedelia da ballo visionario. I combattenti di cri-stallo creano degli scompensi ormonali non da poco. Attenzione, potreste innamorarvi.(7.3/10)

    marCo braggion

    CyClobe - wounded galaxieS tap at the window (phantomCode, novembre 2010)Genere: post-industrialL’album precedente, Paraparaparallelogrammatica era nato da una collaborazione con Nurse With Wound e pertanto si discostava anche parecchio dalle produ-

    zioni del duo verso lande death/concrete/collage ti-picamente stapletoniane, Wounded Galaxies Tap at The Window riparte invece da The Visitors (del 2001), portando il suono post-industrial dei Cyclobe oltre la consueta estetica ghostly.Il nuovo corso si nutre quartomondismi, ritualità paga-ne e preghiere folk all'interno delle quali la percussività etno diventa la base tanto delle pennate psych quan-to di orchestralità (chiesiastiche/classiche) fantasma. La terra è sia quella di un Jon Hassell virato al male (i quartomondismi) sia quella del Peter Chistopherson dei Throbbing Gristle attuali (l'etnica esoterica) o dei Coil del passato (formazione, ricordiamolo, alla quale il duo fu legato per un breve periodo).The Woods Are Alive With the Smell of His Coming, 17 mi-nuti di savana notturna tra droni, squarci cosmici e ca-bala è senz'altro la traccia simbolo dell'album. E' stata esiguita in in sestetto con Thighpaulsandra ai synth e al piano, John Contreras al violoncello, Cliff Stapleton all’hurdy-gurdy e Michael J. York ai Duduk (e ai “tubi”) e ha inoltre fatto parte della performance The Dark Mo-narch: Magick and Modernity in British Art, premiata me-ritatamente al Tate Gallery St. Ives.Del resto, anche i sussurri dreamy in francese di Slee-per, immersi nelle note di piano atmosferico e glitch; o l'avvolegente (noise) cosmic trip spiraloide per synth analogici della traccia omonima sono ottime testimo-nianze della maturità e personalità raggiunta dal duo. Davvero un ritorno di peso nel circuito post-industrial orfano dei Throbbing Gristle.(7.2/10)

    edoardo bridda

    danCe For burgeSS - SSa (maShhh!, ottobre 2010)Genere: post-punkDance For Burgess significa un duo (Iacopo Bigagli e Marco Da Collina) fortemente influenzato dal passag-gio tra anni Settanta e Ottanta, dalle wave e dal supe-ramento del punk. In SSA ci sono tutti i tasselli di quel mosaico che abbiamo visto ricomporsi qualche anno fa, grazie all’opera di Simon Reynolds e, ovviamente, al revival impetuoso di nuove band, ristampe, temi. Un’onda oggi al riflusso, è vero, ma anche ancora ab-bastanza fresca per dare ancora segni di vitalità e col-legamenti vivi.Bigagli e Da Collina ci offrono dieci tracce, molte delle quali punk funk allo stato puro, di stampo post-no-wa-ve, evidentemente modello Liars (I’m Wired, e il titolo non può che far pensare all’ultima fatica dello stesso Reynolds, oltre che al leggendario singolo dei The

    Fall). In evidenza strategie no- e bad trip, atmosfere che ricreano ambienti di quegli anni, chitarre scordate e basso da manuale Rockerilla primi Ottanta, così come funk da contorsionisti ma taglio diritto degli obiettivi: andare dritto alla tensione psichica, non al corpo. E così non può che essere cerebrale il dialogo tra drum ma-chine, voce-basso e chitarre in Omgmj!, probabilmente una delle migliori del lotto. Funziona meno il ricordo Wire (Toxshop), forse a causa delle peculiarità dei pro-tagonisti di quel cassetto della memoria, forse - e con ciò pensiamo al design delle armonie e alla capacità di creare colpi di scena nello stesso brano che in pochi riescono a replicare.Fatto dieci l’originale, la citazione non fa zero. Nel ge-nere, e nel contesto dell’offerta italiana - di oggi come di allora - Dance For Burgess superano la media, pur insistendo su un seminato in cui certamente non è fa-cile emergere.(6.5/10)

    gaSpare Caliri

    die antwoord - $o$ (Cherrytree reCordS, ottobre 2010)Genere: mesh/raveLa faccenda Die Antwoord è molto interessante e ar-ticolata, e per questo la svisceriamo a fondo in uno spazio dedicato. Qui ci concentriamo su quello che ne è l'output più tangibile, e forse anche quello meno im-portante.L'album dei Die Antwoord esce solo adesso sulla sus-sidiaria della Interscope orientata alle nuove forme di crossover, dopo un incredibile hype sul web portato avanti con tattiche virali, dopo i primi concerti in Eu-ropa e Stati Uniti sotto l'ala protettrice del mesh che conta (M.I.A., dopo un inutile EP di cinque pezzi pub-blicato a luglio. Inutile perché il disco tutto lo conosce-vamo già da mesi, essendo stato messo in free down-load sul loro sito ufficiale e reso disponibile per tutto il 2009. In effetti, per questo $O$ "edizione definitiva", i Die rimaneggiano un po' la tracklist, tagliano via alcuni pezzi troppo cazzoni (in uno la base era Orinoco Flow di Enya), ne inseriscono tre nuovi, affidandone uno alla produzione di una firma sicura come Diplo.La sostanza però non cambia. Yolandi e la sua vocina "twetty", Ninja e la sua valanga rap egotripica, le basi che pescano tra urban UK, electro commerciale virata underground (via residui industrial) e nu-rave, guida-te da motivetti-tormentone facili facili, spesso al limi-te della filastrocca. Il pezzo con Diplo, Evil Boy, in salsa videogame/epica mesh, è roba buona, e scopre una volta per tutte, specialmente nella versione video, gli

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    intenti (auto)parodistici di questi specie di Rammstein dell'hip hop sudafricano.Il progetto nella sua interezza però, tenendo conto di tutte le componenti (intenti supposti, visual, viral marketing, exploit fuori patria, concerti, ecc.), ci sem-bra troppo comodamente ambiguo. E la musica, co-erentemente, la vediamo come un mesh - a seconda della prospettiva - troppo poco aggressivo, divertente, parodistico, cattivo, comunque troppo poco forte per convincere. Aspettiamoci a breve il film dei/sui Die An-twoord e un secondo disco, titolo Ten$ion, nel quale "vogliamo rappare usando la lingua che parlano le gui-de turistiche, mantenendo così il nostro sapore tutto sudafricano ma cercando allo stesso tempo di farci ca-pire di più. Diciamo che sarà per un 95% inglese, con giusto un pizzico di Afrikaans".(5.8/10)

    gabriele marino

    dirty proJeCtorS - bitte orCa expanded edition (domino, novembre 2010)Genere: proG-popA distanza di poco più di un anno dall'uscita del disco, tra le uscite più apprezzate dalla stampa nel corso del 2009, Bitte Orca ritorna disponibile sugli scaffali dei negozi in una versione arricchita di alcune rarità. Evi-dentemente è un periodo di grande raccolto per la band di Dave Longstreth, che già nel giugno scorso si era concesso il lusso di uscire con un'autoproduzione assieme a Bjork, per quel Mount Wittnberg Orca i cui proventi erano destinati alla National Geographical So-ciety americana.In questa versione espansa del loro quinto lavoro di studio, Longstreth e soci offrono un intero secondo cd di memorabilie. Ci si ritrova un mini-live di cinque brani indicati come "Live at Other Music", con l'equili-brio delicato di intrecci vocali sostenuti quasi esclusi-vamente da chitarra e basso. Si passa poi alla seconda parte della scaletta che comprende i brani già presenti sul loro ultimo 7 pollici (e scaricabili gratuitamente dal loro sito): Ascending Melody è un brano allegro che sot-tolinea ancora di più gli accenti africani della musica dei Dirty Progectors; Emblem of the World è un tipico brano di Longstreth. A un remix tribalista (Stilness Is The Move, curato da Lucky Dragon) fa coppia una cover di Bob Dylan (As I Went Out One Morning, da John We-sley Harley del 1967). A condire il tutto una manciata di b-sides dell'ultimo periodo, quello finora più profi-cuo, della band. Per completisti.(6.5/10)

    marCo boSColo

    drumS oF death - generation hexed (greCo-roman, luglio 2010)Genere: synth-popLeggi il nome del progetto, guardi le foto su MySpa-ce, e la prima associazione mentale che ti viene da fare è quella con i Liars, un po' per le suggestioni evocate e un po' per l'assonanza col loro Drum's Not Dead. Poi l'occhio cade su Greco-Roman, l'etichetta di Joe God-dard degli Hot Chip per cui esce questo Generation Hexed, e qualcosa inizia a non tornare. Infine ascolti e ti rendi conto di quanto l'abito non faccia il monaco. Niente isterie glo, niente tribalismi voodoo: cassa drit-ta, invece. Sì perchè Colin Bailey, alias Drums Of Death, è di fatto un animale da party. O da Bloc Party, come potrebbe in prima istanza osservare qualcuno nel ri-trovare, in tracce come Won't Be Long o London Teeth, i medesimi richiami techno primi anni '90 che caratteriz-zano la produzione recente del celebre quartetto.Nel resto dell'album però trovano posto ritmiche più elaborate e costruzioni meno prevedibili, e allora forse il paragone era affrettato e quella timbrica vocale non è quella del buon Kele Okereke ma quella di Tunde Adebimpe dei più obliqui TV On The Radio (Science & Reason). Il quadro si fa chiaro del tutto solo quando tra strumentali 8bit (Creak) e funk convulsi alla Hudson Mohawke (Everything All At Once) inizia a fare capolino la parola wonky, la cui accezione di crossover di gene-ri corrisponde di fatto alla filosofia su cui regge l'inte-ro disco: non l'emulazione, più o meno volontaria, di questo o quel gruppo quanto piuttosto una genuina attitudine da club, dove intelligenza e profondità non sono bandite ma coniugate in una non-etica di puro divertimento. Così, quando Colin si fa più enfatico nel cantare, l'immagine che prende forma è semplicemen-te quella degli stessi brani suonati dal vivo, con il pub-blico che incalza sotto il palco in Modern Age per poi sgolarsi nei cori di Voodoo Lovers.Generation Hexed è un album tutt'altro che innovati-vo ma in qualche misura fresco e all'insegna di un di-simpegno che ci rende il suo titolare estremamente simpatico. Ottimo da suonare in un prossimo party casalingo, e poco conta se già tra un mese balleremo qualcos'altro.(7.01/10)

    Simone madrau

    eraldo bernoCChi/harold budd - SemetipSum (rarenoiSe, novembre 2010)Genere: ambientMetti una serata in compagnia di Harold Budd al piano ed Eraldo Bernocchi alle elettroniche, all'inau-

    gurazione di un nuovo marchio di vino della cantina di Michele Satta (Bolgheri, Toscana), e ottieni il ma-ster per un album di soffusa ambient e invisibili droni che non aggiunge nulla alla carriera dei musicisti ma che, senz'altro, rappresenta l'ideale compendio sonoro per la casa vinicola.In latino, il vino che dà il nome all'album significa "pro-prio se stesso" e sicuramente Budd, classe '36 e indi-menticato protagonista di The Plateaux of Mirror e The Pearl con Brian Eno, è proprio il pianista che conoscia-mo e che abbiamo visto rinascere nei 2000 grazie a una serie musicisti che lo hanno spinto a continuare a suo-nare. Tra questi, ricordiamo David Sylvian (per il qua-le, su Samadhi Sound, ha inciso Avalon Sutra, che do-veva essere il suo ultimo lavoro), Daniel Lanois, Robin Guthrie, lo stesso Bernocchi e, non ultimi, gli U2, con i quali ha registrato Cedars of Lebanon lo scorso anno.Nelle sue note nessuna sorpresa, dunque, e neppu-re nell'accompagnamento di un quasi invisibile Eral-do Bernocchi. Del resto, l'audio è funzionale al vino e agli scatti della video artista Petualia Mattioli. Il tutto al costo 160 euro (acquistabile sul sito di Michele Satta). Pondererei gli ultimi due fattori prima di tutto.(6/10)

    edoardo bridda

    eriK Friedlander - FiFty: 50 miniatureS For improviSing Quintet (SKipStone, novembre 2010)Genere: avant jazzNoto per la sua collaborazione con John Zorn, il vio-loncellista Erik Friedlander è un nome di punta della scena avant-jazz newyorkese. Questo Fifty: 50 Minia-tures For Improvising Quintet è frutto di un lavoro originariamente commissionatogli dal San Francisco Contemporary Jewish Museum. Ispirato ai 49 giorni di meditazione imposti da Mosé al popolo d'Israele affin-ché potesse degnamente ricevere - nel cinquantesimo giorno - le tavole dei Dieci Comandamenti, mette in fila una scaletta di 50 mini-composizioni organizzate in sette tracce o sezioni (le "settimane").Ad interpretarle è chiamato un quintetto (violino, pia-noforte, percussioni, contrabbasso e ovviamente vio-loncello) votato tanto alla frenesia impro che ad un romanticismo pensoso, con immancabile retrogusto klezmer ad insaporire la portata. Presentata così, è leci-to attendersi una roba da post-nerd micragnosi e filo-sionisti, invece - detto che tali categorie potrebbero effettivamente apprezzare - è un disco effettivamente ispirato e a tratti geniale, la cui programmatica fram-mentarietà va a ricomporsi in un discorso sia estetico

    ebo taylor - love and death (Strut reCordS, ottobre 2010)Genere: africanaStrano scriverlo ma Love And Death è per il Vecchio Continente il debutto di un grande della musica del Ghana. In circolazione sin dagli anni ’50 e ’60, all’epoca cioè dell’esplosione della highlife, Mr. Taylor si faceva infatti le ossa nelle orchestre Stargazers e Broadway Dance Band, trasferendosi a Londra grazie a una sovvenzione statale: similmente a Mulatu Astatke, studiava il jazz, ne assimilava forme e “messaggio” e, tornato in madrepatria, cercava di incorporarlo nella tradizione. Si guadagnava da vivere come arrangiatore e produttore, decidendosi solo dalla seconda metà dei ‘70 a mescolare in proprio il retaggio sonoro ghanese con afrobeat, jazz, funk.Restando nelle retrovie, però affinando la miscela da farsi notare su alcu-ne raccolte edite da Soundway e Analog Africa ed essere campionato dai populisti hip-hop Usher e Ludacris nella multimilionaria She Don’t Know. I tempi erano perciò assai maturi (il Nostro ha settantaquattro anni ) per un nuovo album e l’occasione è stata colta al volo dalla Strut, recapitando tre quarti d’ora fenomenali in toto e sovente venati di latinità allestiti con l’Afrobeat Academy, competente ensemble che srotola ipnotici tappeti percussivi e fiati vigorosi sulla sensuale essenzialità degli arrangiamenti di Taylor. Due suoi classici (Victory, Love And Death) e sei gemme di recente composizione ne spiegano il talento, la-sciandoci quale unico rammarico la “scoperta” tardiva. Benvenuto, Ebo.(7.5/10)

    gianCarlo turra

    highlight

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    che poetico coeso, unificato da un filo rosso di pensosa passione, perciò capace di intrigare senza soluzione di continuità.(7.2/10)

    SteFano Solventi

    evol/ve - evol/ve (oFF-Set, novembre 2010)Genere: industrial-improFM Einheit: molla; mattoni; trapano; lastra di metallo; laptop. Massimo Pupillo: basso elettrico; effetti. Baste-rebbero nomi e strumentazione per indicare da subito le traiettorie e gli obbiettivi di Evol/ve, ennesimo pro-getto collaborativo che vede coinvolto un membro dei nostri Zu in combutta con uno dei maestri indiscussi del rumorismo di matrice industriale. Quel FM Einheit co-fondatore degli Einsturzende Neubauten e vero e proprio rielaboratore delle idee primigenie dell’indu-strial anglo-americano (da Monte Cazazza e Throb-bing Gristle in poi) in nome di un anticonvenzionale approccio materico al suono stesso. Noto per la sua strumentazione autocostruita partendo spesso da ma-teriale di recupero e da scarti della società industriale - vera e propria industrial culture, altro che no - Einheit non è un semplice percussionista ma un vero e proprio sperimentatore “sul” suono e che trova in Pupillo un al-trettanto valido e aperto indagatore del lato più speri-mentale delle musiche estreme e improvvisate.Clangori, borbottii, frattaglie sonore in generale, esplo-sioni e stasi, microparticelle sonore disaggregate e poi riassemblate, prevalentemente in sede live. Questo troverete nell’ora abbondante, in rigorosa modalità im-provvisata a 360°, che il duo mette in scena in questo omonimo esordio. E che stabilisce, se ce ne fosse an-cora bisogno, lo spessore di artisti che credono fino in fondo in quello che fanno, senza preoccuparsi di hype o copertine.(7/10)

    SteFano piFFeri

    Fabrizio tavernelli - oggetti del deSiderio (lo SCaFandro, novembre 2010)Genere: pop rockAi meno giovani Fabrizio Tavernelli potrebbe ricordare una stagione d'oro per la musica indipendente italiana, quegli anni Novanta legati ai Dischi del Mulo, prima, e al Consorzio Produttori Indipendenti, dopo. In quel periodo, Fabrizio Tavernelli da Coreggio, provincia di Reggio Emilia, era già attivo sulla scena italiana con un progetto a nome En Marque D'Autre, ma è con la sua band successiva, gli AFA, che raggiungerà la massima visibilità. Un progetto non solo musicale, ma davvero

    culturale: nomadismo, cultura cyber, sciamanesimo, etnomusicologia, letteratura off che caratterizzavano anche l'omonima rivista.Di tutto questo c'è ben poco in questo esordio solista firmato con il suo nome e cognome. Perché Fabrizio Tavernelli è un onnivoro musicale, una vera spugna ca-pace di prendere qualsiasi materiale sonoro e culturale che lo incuriosisca e trasformarlo in qualcosa di perso-nale. Succedeva con l'acid folk alleanza (questo il nome per esteso del suo gruppo più noto) che si impregnava tanto di folk italiano, di canti popolari, di esotismi co-smici, ritmi black, il trip hop, l'acid e tanto altro ancora. Succede ancora oggi per i suoi lavori da dancefloor a nome Ajello, per i suoi djset, per i suoi mille altri pro-getti, che si chiamano Groove Safari, Babel, Roots Con-nection. E succede anche dentro queste dieci tracce di pop rock di facile presa melodica.Si tratta di nove riflessioni ironiche, a volte amare, a volte spietate, che incorniciano una realtà, quella degli anni zero, dell'overload di informazione ma di scarne comunicazioni; dei desideri più o meno bassi di esse-re qualcun altro e viverne la vita via reality show; della natura messa in un angolo, mai esperita in pieno. E ci sono anche i rifiuti, la monnezza, una delle cifre della nostra Italia attuale, raccontata attraverso un brano di Faust'O (Benvenuti tra i rifiuti) di lancinante attualità. Benvenuto al nuovo progetto di Tavernelli e benvenu-ta alla nuova etichetta, voluta proprio da alcuni mem-bri degli AFA.(6.9/10)

    marCo boSColo

    FreSh & onlyS (the) - play it Strange (in the red reCordS, ottobre 2010)Genere: sixties-GaraGeDichiarare di “farlo strano” e poi aprire con un pezzo (Summer Of Love) che per titolo e suggestioni rimanda al periodo aureo del sixties-pop, è per lo meno con-traddittorio. In realtà, è strano di per sé che il sottobo-sco weird-garage in lo-fi, dai padrini Thee Oh Sees in giù, si dedichi con tanta sensibilità e abnegazione alla riproposizione del suono pop dei 60s. Quello tutto flo-wer power, psichedelia soffusa, suoni solari e twangy e fluenti chiome al vento, per intenderci.Sia come sia, Play It Strange è il terzo album lungo in nemmeno due anni per l’instancabile formazione di San Francisco e le coordinate di cui sopra sembrano, complice forse anche una registrazione avvenuta per la prima volta in uno studio professionale, messe più a fuoco.Ci si muove su un versante spensierato e dreaming in

    cui le aperture psych-pop dei sixties-via-Paisley ven-gono trattate alla maniera (proto)punk tipica del sot-tobosco garage specie californiano ma, al di là di que-sto steccato, le atmosfere vengono sporcate di deserti morriconiani (Until The End Of Time, Waterfall), schele-triche oscurità pop post-Velvetiane (All Shook Up, Red Light Green Light) o bizzarrie esotiche suonate con la foga della band di John Dwyer (Who Needs A Man, la fluviale Tropical Island Suite).Ne esce una forma eclettica, personale e ancora in di-venire del revival sixties e che, in fin dei conti, dà loro ragione.(7/10)

    SteFano piFFeri

    gary wilSon - eleCtriC endiCott (weStern vinyl, novembre 2010)Genere: weird popPensate di conoscerlo davvero, Gary Wilson? Non ci stupirebbe anzi se non lo conosceste affatto: nell’idea-le classifica degli outsider di (stra)culto il suo nome oc-cupa di diritto una posizione parecchio alta. In estrema sintesi: un album completamente fatto in casa nel 1977, You Think You Really Know Me, che mescolava senza re-more funk, disco, punk, psych, avantgarde, new wave e doo wop riprendendo e anticipando in misura diver-sa Prince, Flaming Lips, Beck, Steely Dan, Lou Reed, Daniel Johnston, in una sorta di parodia residentsiana che però si prendeva sul serio, eccome. A ciò si aggiun-ga un personaggio coi controfiocchi: enfant prodige (scrive e incide nella cantina dei genitori sin dai dodici anni di età), discepolo di John Cage (che gli avrebbe suggerito: “se la tua performance non irrita il pubbli-co, non hai svolto il tuo compito”), musicista lounge (attività che svolge ancora attualmente per sbarcare il lunario), amante delle anatre (che alleva e cura come animali domestici), terrorista live (i suoi show a base di mise impossibili, sangue finto e farina sono ad oggi un must).Certi di avervi titillato a dovere, vi rimandiamo per il re-sto al documentario You Think You Really Know Me: The Gary Wilson Story - oltre che ovviamente all’omonimo disco, più volte ristampato - e veniamo al dunque: que-sto è il terzo album del clamoroso comeback di inizio millennio, fortemente voluto dai fan più accaniti (Beck in testa) e che ha già prodotto Mary Had Brown Hair (2004) e Lisa Wants To Talk To You (2008), di fatto ripre-se musicali e tematiche del citato capolavoro weird del ‘77. Per quanto più coeso e omogeneo, Electric Endicott ovviamente non sfugge alla regola: una festa camp di nenie pop appiccicosissime e irritanti insieme (Whe-

    re Did My Duck Go su tutte), condite dai consueti testi iperpersonali da eterno teenager timido e infoiato allo stesso tempo (Mary, Cathy, Karen, Lisa, Linda, Diane; il cast delle ossessioni femminili è il solito) e intervallate come d’abitudine da una serie di brevi schegge stru-mentali ora lounge ora psych. L’effetto sull’ascoltatore è sempre straniante: da mente irripetibile qual è, il genio contorto di Wilson fonde comico e tragico con estrema naturalezza, lasciandoti al contempo entusiasta, infa-stidito e parecchio confuso. Una lezione costante - e inarrivabile - per tutti gli Ariel Pink e Of Montreal di questo mondo.(6.7/10)

    antonio puglia

    giobia - hard StorieS (JeStrai reCordS, novembre 2010)Genere: GaraGe psychSecondo disco per i Giobia da Milano, seconda tappa di quella che pare essere a tutti gli effetti una magnifica ossessione: per il garage psych dei sixties come si pro-filò in un formidabile e immaginifico gioco di rimbalzi sulle due sponde dell'oceano, riverberando effetti col-laterali surf e western, rigurgitando particelle mnemo-niche vaudeville/folk col preciso scopo di farne additivi per sfornare polpette stupefacenti. La mezz'ora di que-sto Hard Stories poco concede alla contemporaneità, è uno sberleffo ucronico, un "fra parentesi" a tenuta stagna.Poco a che vedere con proposte tipo Jennifer Gentle, che muovono da premesse simili per azzardare un in-die mutante con attitudini progressive e tentativi (vel-leità?) d'inaudito. I Gioiba, invece, sembrano voler ren-dere conto solo a se stessi (alla magnifica ossessione di cui sopra). Aprono lo scrigno e lo richiudono. Tutto qui. Inevitabile chiedersi: perché spendere soldi e tempo per un disco come questo se posso ripescare dal bau-le i vecchi Blues Magoos, Electric Prunes, 13Th Flo-or Elevator, Pretty Things o addirittura i primi Pink Floyd? Me lo sono chiesto, infatti. E mi sono dato alme-no tre risposte: perché i Gioiba scrivono belle canzoni; perché le interpretano bene; perché hanno tutta l'aria di divertirsi parecchio. A voi giudicare se sono buoni motivi.(6.9/10)

    SteFano Solventi

    gregory & the hawK - leChe (Fat Cat, ottobre 2010)Genere: bedroom indie-folkAll'epoca del suo esordio del 2007, In Your Dreams,

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    Meredith Godreau scelse il moniker Gregory and the Hawk per non essere associata a quel female folk che sapeva tanto di Novanta. Dopo l'esordio su Fat Cat nel 2008, con un disco, Moenie and Kitchi che faceva della collaborazione con altri musicisti il punto di disconti-nuità con le vicende precedenti, per il terzo full lenght si ritorna nella cameretta per dodici episodi in equili-brio tra folk e twee pop, dove la soavità e la zuccherosi-tà sono elementi determinanti.La prospettiva defilata è quella preferita dalla Godreau, che scrive di aver voluto basare Leche sull'osservazione di diversi luoghi e persone, "viaggiando, sia fisicamente che psciologicamente, ma senza venire mai coinvolta". E come tutti i viaggi che si rispettino, anche questo pre-vede una ricerca interiore speculare a quella esteriore (Soulgazing), il lasciarsi ammaliare dal paesaggio (Lan-dscapes) e il sogno (Dream Machine). Musicalmente, nonostante il tentativo di depistaggio del moniker, siamo vicini al female folk di Mirah e alle atmosfere eteree e bucoliche di Joanna Newsom, ma giocate sempre con una inclinazione al ritornello ap-piccicoso che fa pensare, soprattutto negli episodi più movimentati, come Olly Olly Oxen Free, ai Belle and Sebastian. In Leaves fa capolino anche un po' di de-cadenza rock, rendendolo uno dei brani più riusciti del

    lotto, con la voce della Godreau che mette in gioco una sostanza inattesa e sembra quasi giocare sul modello Lolita.Leche suona bene e scorre meravigliosamente nel let-tore, ma ha il limite di non conficcarsi mai definitiva-mente nella memoria, lasciando l'esperienza dell'ascol-to avvolta in una nebbia monocroma.(6.5/10)

    marCo boSColo

    houSeS - all night (leFSe, novembre 2010)Genere: electro popDa Chicago alle Hawaii e ritorno: una parentesi neces-saria per Dexter Tortoriello e Megan Messina, compa-gni nella vita e musicalmente. La loro non fu una va-canza ma una specie di ritiro sabbatico: si licenziarono dalle rispettive occupazioni e via, sparire, rifugiarsi in un altro mondo fuori dal mondo, lontano dalle traiet-torie turistiche. A far cosa non è dato sapere con preci-sione, ma abbiamo oggi il privilegio di sentirne i frutti con questo All Night, album desordio a nome Houses targato Lefse (che ultimamente non ne sbaglia una). E' un pop mesmerizzato d'elettronica che conserva fra-granze acustiche tra arzigogoli glitch, votato - per così dire - alla rappresentazione impressionista di nuances

    ex (the) - CatCh my Shoe (ex reCordS, novembre 2010)Genere: free-punkSi scrive The Ex, si legge passione, radicalismo, antagonismo, terzomondismo, classe, impegno e chi più ne ha più ne metta. Trenta e passa anni di palchi scomodi e fiere autoproduzioni, giri del mondo su pentagramma e scouting fraterno e borderless (un esempio? Getatchew Mekuria e tutta la cricca etiope) fanno della formazione olandese una istituzione per chiunque si approcci ad una idea anche

    lontana di musica sinceramente indipendente.Catch My Shoe, 25esima perla di una carriera florida e incompromissoria, porta con sé una novità sostanziale a livello di formazione (l’ingresso del neo-cantante Arnold De Boer al posto del dimissionario G. W Sok) ma il meccanismo sonoro del quartetto non ne risente affatto. In perenne oscil-lazione tra ipnotico rock proteso al sud del mondo e post-punk scheletrico e free, wave raffinatissima ed eclettica e punk attitudinale, il meticciato degli olandesi è al solito eccitante connubio di rabbia e ricerca, esotismo e trance viscerale. Un particolare apprezzamento va a Eoleyo (marziale e

    scarna rendition post-punk del Gurage anthem di Mamhoud Amhed), al Konono-sound virato nervo-sismo fugaziano di Bicycle Illusion, all’incendiario procedere epilettico di 24 Problems, ma ogni singola nota qui è al di sopra della media e pronta ad esplodere in mille rivoli diversi, inattesi, sorprendenti. Non a caso il motto della formazione olandese è Forward, in all directions.(7.2/10)

    SteFano piFFeri

    highlight riconducibili - forse, chissà? - a mattini silenziosi e cre-puscoli solitari.Un gioco di spazi reso splendidamente incerto da cali-gini e pioggerelle, di tempo che s'acquieta in un palpi-tante abbandono. Immaginatevi i Boards Of Canada se li ipnotizzassero i Mazzy Star, un Dntel frugale o addirittura un Aphex Twin contemplativo. Dieci tracce che ti accompagnano in questo sogno che non puoi permetterti davvero ma ti ci puoi immergere eccome. Concrezioni cedevoli e armoniose, struggenti (Sleeping) e briose (Reds, Soak It Up), suadenti (Endless Spring) ed eteree (Medicine). Contro il logorio della vita moderna, come diceva quel tale.(7.2/10)

    SteFano Solventi

    how to dreSS well - love remainS (leFSe, ottobre 2010)Genere: errebì Glo-fiTom Krell studia filosofia a Colonia e nel frattempo sfor-na EP a ripetizione distribuendoli attarverso il suo blog-spot col nick name di How To Dress Well. Incantando il mondo, o almeno quello disposto a farsi incantare da questi incantesimi suadenti e malsani raccolti nell'al-bum d'esordio Love Remains. Una patologia errebì insopprimibile scritta sulla pergamena spiegazzata del glo-fi, precarietà ed ossessione, intensità e languore, il gusto della posa e la necessità dell'espressione.Imprinting black quindi e prima di tutto, a tratti puoi percepire particelle Erykah Badu (My Body) e persino Michael Jackson (Mr. By & By), ma i miei parametri me lo fanno collocare da qualche parte tra gli ultimi demo di Jeff Buckley e lo Xiu Xiu meno aggressivo, coordina-te fatte traballare da quel senso di tenerezza ineffabile mentre vaporizza Patrick Wolf e Sigur Ros e persino certa spiritualità Antony. Comunque è tutto molto ba-sale, in un certo senso naturale per quanto alterato di tecnologia, in un'ottica di trasfigurazione sintetica che conserva l'impronta - la goffaggine - umana. Probabil-mente non siamo troppo lontani dall'errare nutritivo profetizzato da quel buontempone di Brian Eno, ma non prendetemi troppo sul serio. Più certo mi sembra che tra la glassa caliginosa di Lover's Start, l'evocazione etno-soul di Decisions e la cassa in quattro di Walking This Dumb passi un intero universo di vibrazioni e pos-sibilità. E' proprio il caso di tenerlo d'occhio.(7.4/10)

    SteFano Solventi

    il garage ermetiCo - pugni nell'aria ep (Fumaio, novembre 2010)Genere: punk rockQuattro album alle spalle smerigliando electro-folk fin-ché non è rimasto che l'osso di un'urgenza (post) punk, che trova infine attuazione in questo Pugni nell'aria EP, sorta di punto e accapo per i bergamaschi Il Ga-rage Ermetico. Spesi gli adeguati complimenti per cotanta ragione sociale (ispirata ad un fumetto di Mo-ebius) e per l'alltrettanto fumettistico artwork (a cura di Francesco Betti), non resta che constatare lo slancio ruvido e l'impetuosa pensosità che muove la proposta, quell'impatto grezzo/impellente ma acuto e sensibile che non può non rimandare alla calligrafia di Giorgio Canali (si prenda la tesa John Cassavetes), foga che s'ac-quieta - ovvero si prende una vacanza d'irrequietezza - con la ballad La classe operaia va al Bolgia, sintonizzata su frequenze Marlene Kuntz.La stringente alternanza di talkin nevrastenico e raffi-che melodiche ti fa quasi pensare ad un Rino Gaetano hardcore, oppure - tanto per restare alla cronaca recen-te - ad un Vasco Brondi che ha spezzato il cerchio gre-ve della disillusione con robuste iniezioni di disperata, struggente combattività rockista. In ogni caso, il mini-mo comune denominatore degli anni zero non demor-de, non smette di contagiare. Se ne usciremo senza rin-negarli sarà anche grazie a dischi come questo.(7.2/10)

    SteFano Solventi

    inCa babieS - death meSSage blueS (blaCK lagoon reCordS, novembre 2010)Genere: post-punk / bluesNon verranno certo ricordati per questo Death Messa-ge Blues gli Inca Babies. Al massimo per essere stati un discreto gruppo post-punk della Manchester di inizio anni Ottanta, capace di sintetizzare certi liquami Birth-day Party e le maniere grezze dei Cramps in quattro dischi quattro. Un'avventura cominciata nel 1983 con un caveiano Rumble e conclusasi nel 1987, agli albori di quella Madchester chimica che imporrà canoni este-tici di tutt'altro genere.Risale al 2006 l'inaspettata reunion della formazione, sulle ali di un Plutoniom best of edito dalla Cherry Red. Tour successivo, qualche soddisfazione, l'idea di scrive-re nuovo materiale. Poi l'improvvisa morte del bassista Bill Marten a metà lavorazione, un evento che trasfor-ma la pubblicazione di Death Message Blues in un inevitabile omaggio all'amico scomparso.Nel disco tutto si riduce a una raccolta di blues-rock acido come lo avrebbero fatto gli Electric Prunes se

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    fossero stati prodotti da dei Gun Club imbolsiti. E for-se è proprio questa la vera notizia. Ovvero ascoltare il gruppo parafrasare i bluesmen del delta in Tumblin' Man, scimmiottare un crossover chitarristico dal vago sapore Bad Seeds in The Miracle That Holds Me In Its Hands o accostarsi a un soul à la Eric Burdon in Even Lovers Drown, quando in realtà il passato della band sta da tutt'altra parte. Il resto è verve da cinquantenni, lutti che segnano, crisi di identità, ricerca poco convinta di uno svecchiamento fuori dai soliti giri. Un altro matto-ne di una biografia borderline che per ora si mantiene forzatamente borderline.(5/10)

    Fabrizio zampighi

    JameS - the morning aFter (merCury, Settembre 2010)Genere: popDopo The Night Before, ovviamente The Morning After: nel giro di pochi mesi i James di Tim Booth tornano con un altro mini, otto canzoni per mezzora di durata in cui

    espandono e danno ulteriore prova di quell’ispirazione già testimoniata un paio d’anni fa dal sottovalutato Hey Ma. Consapevoli del loro stato di meravigliosi reietti, i mancuniani continuano dunque, com’è loro costume da ormai una buona trentina d’anni, a fare musica per orecchie selezionate ed attente: dai toni epici che san-no di celtico di Got The Shakes e Rabbit Hole (come do-vrebbero suonare gli U2 oggi, se avessero ancora san-gue al posto del cash) al tecno-pop di Tell Her I Said So (New Order e Pet Shop Boys sugli scudi), dalle ballate acustiche Kaleidoscope e Dust Motes (Coldplay e Echo & The Bunnymen, toc toc) e i sentori notturni à la Eno di Fear all’enfasi orchestrale di Lookaway (non troppo lontana dal Morrissey solista dei primi tempi). Pratica-mente un inappuntabile compendio di stile, con gusto e sentimento. Niente da fare, anche volessimo non riu-sciremmo a dirne male.(6.9/10)

    antonio puglia

    leila adu - ode to an unKnown FaCtory worKer (rai trade, novembre 2010)Genere: jazzUn “melting pot” vivente, Leila Adu. Origini ghanesi e passaporto neozelandese, ha sin qui conciliato un’istruzione musicale di stampo accademico (sul muro una laurea specialistica in moderna elettroacu-stica, etnomusicologia e orchestrazione) con la passione per jazz ed elettronica. Dal 2003 ha recapitato

    tre album di canzoni “trasversali” che, facendo leva sul pianoforte e una voce di peculiare espressività, di quanto sopra cercano e sovente trovano la quadratura del cerchio, giovandosi inoltre della presenza di Steve Be-resford e Lol Coxhill, di Steve Albini ed ex membri Rip Rig & Panic. Non contenta, Leila ha composto partiture per spettacoli di danza, per il teatro e il cinema, e nei ritagli di tempo (!) tiene corsi di canto semi-improvvisato per ragazzi. Alla faccia.Giunta con il precedente Truth in The Abstract Blues - in trio con il chitarrista Mike Cooper e il batterista Fabrizio Spera - su Rai Trade, la ragazza rad-

    doppia con questo spartano e intenso Ode To The Unknown Factory Worker, sola davanti a tasti bianchi e neri tranne quattro brani nei quali si aggiunge la batteria del bravo e misurato Daniele De Santis. Ne risulta una manciata di acquerelli intimisti che fanno pensare a una Joni Mitchell traboccante me-lanina, a certe pagine di White Magic (Cigarettes & Circus Puffs) o a una Nico modernista che ha freu-dianamente rimosso il gotico (la splendida Fortuna). Uno spirito costantemente disposto a sbrigliare emotività spigolosa (la title-track, Brazen Hussy) quanto lo è nel concedere alla stessa autocontrollo e romanticismo mai banale (Martin Raft, Glass). Chiosando Bill Evans, sono conversazioni con se stessa che - superata l’iniziale difficoltà - scopri divenire un abitudine. Discorsi che cancellano l’eccesso di va-cuità e rumore di fondo che infesta certe nostre giornate.(7.4/10)

    gianCarlo turra

    highlight JameS blaKe - KlavierwerKe ep (r & S reCordS, ottobre 2010)Genere: chamber stepUna generazione di post-stepper under30 dà nuova linfa al genere ammorbidendo i toni e diversificando il suono tra richiami trip-hop, folk, glitch, new wave, sug-gestioni da colonne sonore e classica contemporanea. I Mount Kimbie sono il primo nome da segnarsi. Il se-condo, to be, quello di James Blake, un paio di lavori sulla breve distanza alle spalle e un tag come "Modern Classical" su discogs.com che spiega perfettamente da quanti punti di vista diversi può essere guardata la fac-cenda.Quattro pezzi soltanto in questo nuovo mini e un dub-step arty studiatissimo (tutto glitch decorativo tra bolle e intarsi come di biglie di vetro, fantasmi trip-hop, pia-no tra l'austero e il romantico), immerso, come il titolo lascia opportunamente intuire, in un'atmosfera che fa tanto "musica da camera + Repubblica di Weimar".(7/10)

    gabriele marino

    JamiroQuai - roCK duSt light Star (merCury, novembre 2010)Genere: electro funkDopo cinque anni di silenzio, Jay Kay torna ancora una volta col suo baraccone funky UK. La ricetta è quella che ci serve sul piatto ormai da millenni, e anche se era facile migliorare il disastro del precedente Dynamite, la nuova fatica non fa altro che assestarsi sulle linee di una sonorità ormai uber-sfruttata e ostentatamente macchiettistica