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140 CAPITOLO 6 Organizzazioni internazionali per la sicurezza 1. I Regimi internazionali Per gestire la complessità dell’economia internazionale sono state create istituzioni internazionali, le più importanti delle quali sono quelle nate a Bretton Woods: la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale per il Commercio. Ma sono anche da aggiungere le istituzioni a carattere politico militare nate con il Patto Atlantico o come conseguenza e corollario di questo: la NATO, l’Agenzia Europea per la Difesa, l’Unione Europea, la PESC e la PESD. Dato l’alto livello di interdipendenza tra le politiche internazionali globali l’economia mondiale troverebbe difficoltoso funzionare senza tali istituzioni. Il regime internazionale viene definito come l’insieme di principi, norme, regole e procedure decisionali, implicite o esplicite, intorno alle quali convergono le aspettative degli attori di una data area relazionale 1 . Pur potendo tracciare una distinzione tra un regime internazionale, inteso come insieme di regole e di consuetudini, e una istituzione internazionale, intesa come organizzazione formale, il termine “regimi” e il termine “istituzioni” sono spesso utilizzati indifferentemente; anche perché ogni sistema-paese internazionale è regolato dalle regole di comportamento accettate dai paesi che ne fanno parte indipendentemente dalla categorizzazione (regime o istituzione) del sistema-paese stesso. 1 S. Krasner, Structural Causes and Regime Consequences, International Organization, 36/2, 1982, p. 186.

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CAPITOLO 6Organizzazioni internazionali per la sicurezza

1. I Regimi internazionaliPer gestire la complessità dell’economia internazionale sono state create istituzioni internazionali, le più importanti delle quali sono quelle nate a Bretton Woods: la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale per il Commercio. Ma sono anche da aggiungere le istituzioni a carattere politico militare nate con il Patto Atlantico o come conseguenza e corollario di questo: la NATO, l’Agenzia Europea per la Difesa, l’Unione Europea, la PESC e la PESD. Dato l’alto livello di interdipendenza tra le politiche internazionali globali l’economia mondiale troverebbe difficoltoso funzionare senza tali istituzioni. Il regime internazionale viene definito come l’insieme di principi, norme, regole e procedure decisionali, implicite o esplicite, intorno alle quali convergono le aspettative degli attori di una data area relazionale1.Pur potendo tracciare una distinzione tra un regime internazionale, inteso come insieme di regole e di consuetudini, e una istituzione internazionale, intesa come organizzazione formale, il termine “regimi” e il termine “istituzioni” sono spesso utilizzati indifferentemente; anche perché ogni sistema-paese internazionale è regolato dalle regole di comportamento accettate dai paesi che ne fanno parte indipendentemente dalla categorizzazione (regime o istituzione) del sistema-paese stesso.

1 S. Krasner, Structural Causes and Regime Consequences, International Organization, 36/2, 1982, p. 186.

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Un regime o istituzione internazionale non potrebbe funzionare se le sue regole urtassero contro i principi e le direttive che governano i paesi che ne fanno parte; l’efficacia del funzionamento di un regime dipende dalla capacità di intervenire nel risolvere problemi complessi, anche strutturali, dell’economia interna dei paesi e di quella internazionale. Ad esempio, il regime monetario internazionale post bellico, basato su tassi di cambio fissi, doveva risolvere problemi che potevano trovare solo soluzioni sovranazionali (come la fornitura di liquidità e la creazione di un meccanismo di aggiustamento del tasso di cambio per i paesi con problemi di bilancia dei pagamenti).Inoltre, l’efficienza dell’azione di un regime internazionale dipende anche dal livello della cooperazione tra paesi e della condivisione delle informazioni necessarie a ridurre i costi di transazione e per risolvere i problemi comuni. Problema rilevante dei regimi è che, anche solo implicitamente, si istituisce al suo interno una nazione-leader delle politiche adottate dal regime. Dalla seconda guerra mondiale il ruolo di leader internazionale lo hanno avuto gli Stati Uniti, anche in quei casi in cui non avrebbero dovuto giocare un ruolo rilevante, come nella costituzione della Unione Europea. Anche se la nazione-leader non decide in modo autarchico le azioni da attuare, esso esprime un maggiore peso economico e politico sullo scacchiere internazionale tale per cui indirizza le azioni di politica internazionale in modo che queste non siano in contrasto con i propri interessi economici e che siano favorevoli alle politiche dei partner del regime stesso.Altra questione che si pone alla teoria dei regimi internazionali è il rispetto delle regole suggerite dalla coalizione. Il problema

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dell’adempimento sorge perché, come abbiamo visto, non esiste all’interno del regime un governo-autorevole.Il riconoscimento di paese-leader è implicito e non implica una capacità di intervento punitivo nel caso in cui una nazione non dovesse rispettare una decisione presa dal regime internazionale. Se la NATO considera opportuno intervenire in una zona a rischio terroristico chiederà ai paesi membri di partecipare alla missione, impiegando uomini e risorse nazionali; starà poi ai singoli paesi rispondere alla richiesta di intervento e definirne i modi e i tempi.In particolare, di fronte a una richiesta di intervento il paese non dà una valutazione elevata del suo vantaggio relativo a intervenire e sarà tentato a trasgredire o eludere i suoi obblighi sapendo che, comunque, l'intervento verrà posto in essere e che egli potrà godere dei successi ottenuti.Questo atteggiamento è detto del “free rider”2, ed è particolarmente significativo nella tematica relativa alle spese e agli sforzi che ogni paese affronta nelle missioni militari internazionali3.Gli studiosi di economia politica internazionale hanno dedicato considerevole attenzione alle possibili soluzioni di questo problema. Tra queste importanti soluzioni sembrano essere quelle basate sulla teoria dei “giochi iterativi” (Dilemma del Prigioniero) e quelle che vengono suggerite dall'approccio detto del “nuovo istituzionalismo” o della “nuova teoria economica delle organizzazioni”.Questi approcci ricadono nella più vasta categoria delle teorie della cooperazione internazionale, secondo le quali si ha cooperazione quando gli attori adeguano il loro

2 Cfr. C.E. Gentilucci, Le forme multifunzionali della sicurezza...(op. Cit.).3 Idem

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comportamento alle preferenze, dichiarate o previste degli altri, mettendo in atto un processo di coordinamento politico. Il Dilemma del Prigioniero è indubbiamente familiare a molti. Due prigionieri sono accusati di un delitto e detenuti separatamente. Se entrambi confessano il crimine di cui sono accusati, saranno puniti entrambi; se nessuno dei due confessa – cioè se cooperano l'uno con l'altro – saranno puniti entrambi, ma meno severamente; tuttavia se uno solo confessa (o defeziona) il secondo sarà punito più severamente. Dunque benchè ognuno abbia convenienza a cooperare non confessando, ognuno ha anche un motivo a confessare (defezionare). L'incertezza su ciò che farà l'altro giocatore potrebbe condurre a un risultato meno che ottimale per entrambi.Sebbene i giocatori traggano vantaggio dalla cooperazione, ciascuno di loro potrebbe guadagnare ancora di più defezionando. Per esempio, un paese potrebbe essere in grado di aumentare i vantaggi relativi che trae dal commercio internazionale esportando in altri mercati, ma mantenendo chiuso il proprio; ma se gli altri per rappresaglia chiudessero i propri mercati, perderebbero tutti. La soluzione migliore sarebbe un accordo tra paesi in modo che tutti abbiano modo di guadagnare. In un regime monetario un paese potrebbe incrementare la sua competitività internazionale svalutando unilateralmente la propria moneta; ma se gli altri svalutassero simultaneamente la propria, tutti perderebbero. Anche in questo caso la soluzione migliore sarebbe un accordo reciproco sul tasso di cambio delle monete.In una situazione di contrasto al terrorismo internazionale la forza militare dell'ONU potrebbe attaccare in modo irruento la zona in cui è presente il quartier generale dell'organizzazione

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criminale, ottenendo lo sfaldamento della rete terroristica; ma ciò creerebbe probabili vittime tra la popolazione civile, che anzi potrebbe essere utilizzata dall'entità terroristica come scudo, generando forti imbarazzi internazionali. Una soluzione potrebbe essere il patteggiamento con i terroristi. La collaborazione, quindi, permetterebbe il raggiungimento di soluzioni meno sgradevoli, ma le parti potrebbero cercare, anche bluffando, di incrementare i propri vantaggi cercando di deviare il processo cooperativo.Numerosi tentativi di risolvere il dilemma del prigioniero sono stati compiuti dagli studiosi di strategie comportamentali; le soluzioni proposte comprendono metodi e tecniche volti ad aumentare la probabilità che i giocatori scelgano di cooperare e non di imbrogliare; tra di essi vi è la formulazione di regole di reciprocità che legano i risultati delle scelte l'uno all'altro, in modo che le parti siano spronate a cooperare.Il tentativo più importante per risolvere il dilemma del prigioniero è quello di porre regole di comportamento che prevedono degli incentivi a chi fa una scelta cooperativa e punizioni a chi, invece, defeziona. Il problema di fondo è che il giocatore nel tenere un comportamento collaborativo deve fidarsi che la scelta che farà l'avversario sarà anch'essa cooperativa. La punizione per la defezione deve essere, quindi, abbastanza forte, mentre il vantaggio della collaborazione può essere anche poco significativo. Nella definizione degli incentivi e delle regole ci sarebbe bisogno, quindi, di un soggetto super-parte o di una figura-leader della coalizione, ma anche questo non è scevro da problematiche specialmente a livello internazionale. Le regole di reciprocità vengono, infatti, spesso sottese e disapplicate (pensiamo alle regole di reciprocità che

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dovrebbero regolare le importazioni di beni provenienti dai Paesi Asiatici e che non applicano le normative europee nella produzione di beni e servizi. La regola di reciprocità vorrebbe che i prodotti dei paesi asiatici non in regola con la normativa europea non entrino nel mercato nazionale).La teoria dell'organizzazione o neoistituzionalista si basa sulla combinazione tra la teoria del costi di transazione e la teoria dei giochi non cooperativi. Secondo il nuovo istituzionalismo i regimi internazionali possono fornire soluzioni a problemi quali inefficienze di mercato, incertezze economiche e fallimenti di mercato; tuttavia questa teoria dà solo un modesto contributo alla soluzione dell'adempimento e al rispetto dei regimi internazionali poiché ogni nazione che aderisca a un regime internazionale si riserva il diritto di ritirarsi dal regime se i suoi interessi in gioco cambiano; in più, la preoccupazione di ogni nazione per la propria autonomia pone gravi limiti alla stabilità della sua cooperazione con gli altri paesi dello stesso regime internazionale. La nuova teoria economica delle organizzazioni dà crescente importanza al benessere sociale. Sotto questo aspetto il modo di cooperare, all’interno dei regimi internazionali, è sostanzialmente lo stesso e, anzi, sembra ancor più legato agli interessi nazionali.Nonostante molti discorsi di giustizia distributiva internazionale, la volontaria condivisione da parte di una società di una porzione sostanziale della sua ricchezza con altre società è assai rara. Gli aiuti internazionali non hanno mai assorbito più di una piccola percentuale del PIL dei paesi ricchi e, con poche eccezioni, sono stati e sono concessi per opportunità economiche o per interessi alla sicurezza nazionale, piuttosto che per puri motivi umanitari. Il moderno sistema di benessere

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in realtà ha reso gli Stati più attenti ai propri interessi economici. Se i regimi internazionali sono utili per fornire soluzioni ai problemi economici e politici, associati all'economia mondiale, essi invariabilmente influenzano anche il benessere, la sicurezza nazionale e l'economia politica dei singoli Stati. Per questa ragione i Paesi che fanno parte di un regime tendono a influenzare le linee guida del regime stesso per manipolarne la politica internazionale. La visione dei regimi internazionali come arena di interessi politici e economici è in contrasto con l'idea che gli economisti più liberali hanno e che individuano nella competizione all'interno dei regimi un positivo fattore di confronto. La teoria economica da sola è uno strumento insufficiente per l'analisi di questioni vitali, quali: la distribuzione internazionale della ricchezza e delle attività economiche, gli effetti dell'economia mondiale sugli interessi nazionali e l'efficacia dei regimi internazionali. E' da escludere che leggi economiche universali e potenti forze economiche governeranno l'economia mondiale. Nonostante il crescere della globalizzazione economica e dell'integrazione tra economie è ancora necessario distinguere tra economie nazionali e internazionali. I conflitti politici dividono le politiche economiche di una nazione da quelle di un'altra; considerazioni politiche influenzano significativamente e distinguono le attività economiche di un Paese da quelle del vicino. Gli Stati impiegano il loro potere per influenzare le attività economiche e massimizzare i propri interessi economici e politici.

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2. Politiche di sicurezza post Guerra Fredda In termini generali si può definire come politica di sicurezza quella che si occupa della violenza di "portata strategica"; vale a dire della violenza che ha effetti sovraregionali, nazionali o internazionali e interessa, perciò, estese zone territoriali.La politica di sicurezza è finalizzata in sostanza a impedire l'uso di tale violenza strategica. Come è noto l'evoluzione delle relazioni socio-politiche tra i Paesi ha cambiato le procedure operative atte a ottenere la sicurezza territoriale nei sistemi-paese, richiedendo l'intervento di organizzazioni internazionali sempre più specializzate nella politica di sicurezza.Nel periodo della Guerra Fredda il contrapporsi di due blocchi: USA e URSS spinse gli Stati ad effettuare ingenti investimenti in campo militare e a sviluppare un sistema di alleanze internazionale.E' in questo periodo, più precisamente nel 1949, che nasce l'organizzazione del Trattato Nord Atlantico, più conosciuta come NATO. Con la fine della Guerra Fredda, e i numerosi cambiamenti che di conseguenza si sono verificati in campo internazionale, furono avviate iniziative di disarmo. La strada era quella di una significativa riduzione delle dimensioni del sistema militare, puntando alla riconversione delle imprese che producono armamenti a produzioni civili.La situazione è senza dubbio mutata negli ultimi anni, la crescita di movimenti terroristici, e il concreto rischio di attentati emerso dopo gli attacchi dell'11 Settembre, ha reso necessario perseguire una politica di sicurezza e difesa comune a tutti i paesi.L'obiettivo sorto dopo l'11 Settembre è quello di costruire un sistema di sicurezza che si fondi su strumenti militari, ma soprattutto, sulla cooperazione tra Stati poiché il terrorismo

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internazionale richiede una risposta forte e univoca della comunità internazionale.Negli ultimi anni lo scenario internazionale risulta caratterizzato dal succedersi di avvenimenti di grande rilievo, che sovrapposti alla complessa situazione di crisi in atto configurano un periodo non privo di potenziali e imprevedibili rischi. Gli attentati terroristici del 2001 negli Stati Uniti, nel 2004 in Spagna, nel 2005 in Gran Bretagna, gli eventi dei Balcani e infine gli avvenimenti in Afghanistan e in Iraq hanno avuto come necessaria conseguenza un’evoluzione delle politiche di sicurezza e difesa globale.Questa situazione non può che riguardare anche l’Italia, anch’essa interessata alla minaccia che i cambiamenti in ambito internazionale potevano comportare in politica estera commerciale e di sicurezza nazionale.Il terrorismo internazionale per le sue caratteristiche richiede di mantenere alto il livello di prevenzione e allerta; richiede, da parte della comunità internazionale, attività di intelligence e controllo ambientale, forti azioni diplomatiche e politiche, una maggiore e efficace cooperazione in campo economico e culturale. L’Alleanza Atlantica sta assolvendo il ruolo di catalizzatore del cambiamento attraverso due importanti iniziative: lo sviluppo NFR (Nato Responce Force) strumento operativo capace di far fronte in maniera rapida alla situazione di crisi; la revisione delle strutture di comando, tra cui l’attuazione del SACT (Supreme Allied Command for Tranformation) con lo scopo di assicurare l’indispensabile raccordo multinazionale con il processo di trasformazione dello strumento militare.In questo quadro la sicurezza per l’Italia e l’Europa e per i nostri alleati si costruisce non solo attraverso il controllo degli spazi di interesse nazionale, ma soprattutto contribuendo a

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espletare e instaurare maggior confidenza, stabilità e benessere in aree anche distanti dal proprio territorio.In tale cornice le Forze Armate si pongono come strumento fondamentale per il controllo della minaccia terroristica, per il concorso alla prevenzione e alla risoluzione delle instabilità, per il contributo alla ricostruzione di un ambiente più sicuro e di minore disagio economico e sociale.A fronte della mutevole natura dei rischi futuri alle Forze Armate si chiede di soddisfare l’esigenza di una risposta integrata a carattere multinazionale e multidisciplinare (civile, economico e militare)per lo svolgimento di missioni che vanno dalla prevenzione alla ricostruzione post-conflittuale, passando attraverso la gestione delle crisi, le missioni umanitarie e quelle di mantenimento della pace4.L’ampiezza la diversità e la complessità degli scenari di impiego richiedono un processo di riforma dello strumento militare i cui lineamenti di riferimento si poggiano su tre direttrici: 1) Professionalizzazione, ovvero la necessità di far acquisire ai militari nuove competenze professionali da poter impiegare negli scenari di crisi nazionali e internazionali i cui eventi sono sempre più interconnessi alla cultura, la tradizione, la religione dello specifico ruolo in cui le FF.AA. vanno a operare. Al

4 Per informazioni o approfondimenti sulla natura e peculiarità delle missioni militari all’estero vedi il sito del Ministero della Difesa: /www.difesa.it/Operazioni+Militari. Al 1° gennaio 2009 le Operazioni di Pace hanno impiegato 8.500 uomini in 28 missioni in 22 Paesi. Le missioni: nato Joint Enterpraise in Kosovo; Nato HQ Albania; Nato HQ FYROM; Nato HQ Bosnia; OSCE Mission Georgia; Nato Traning Mission Iraq; Nato ISAF Afghanistan; EUPOL Afghanistan; UNMOGIP India-Pakistan; UNIFIL Libano; TIPH 2, Hebron; EUBAM, Rafah; TASK FORCE AIR, Emirati Arabi; UNTSO Medio Oriente; MFO, Egitto; UNAMID, Sudan; EUOR, Chad; UNFICYP, Cipro; MIATM, Malta; Active Endeavour, Mare Mediterraneo; MINURSO, Western Sahara; EUPM, Kosovo; EU-Althea, Bosnia-Herzegovina.

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soldato si richiede non solo la competenza tecnica dell’uso delle armi, ma anche conoscenze antropologiche, sociologiche e relazionali necessarie per interagire e collaborare con le popolazioni dei luoghi di crisi. Questa nuova professionalizzazione delle forze armate viene definita come “Soldato di pace”, per la quale figura si sono organizzati convegni, seminari e studi volti a metterne in evidenza le peculiarità e le esigenze formative5.2) Trasformazione, ovvero la capacità di adottarsi in modo flessibile alle continue mutate esigenze operative. La capacità di adattare gli interventi dei soldati alle nuove esigenze operative è uno degli orgogli nazionali delle nostre forze armate. La flessibilità operativa e la competenza operativa del soldato italiano è conosciuta e riconosciuta dalle istituzioni internazionali. Dietro questa capacità di trasformazione c’è un bagaglio formativo valido e solido che i vertici delle FFAA hanno saputo istituire anche grazie alla collaborazione con il mondo professionale civile e accademico.3) Innovazione, ovvero la capacità della struttura militare di adeguarsi alle nuove esigenze operative sfruttante nuove co-noscenze tecnologiche e informatiche, come il sistema C4I (Command, Control, Communication, Computer, Intelligence) che è un sistema informatico di comando, controllo e comuni-cazione, dedicato all'attività informativa. In poche parole, gra-zie alle alte tecnologie impiegate nel sistema C4I, utilizzando reti che viaggino sia su satelliti che su reti dedicate (Internet e/o Infranet delle FF.AA.) permette la presenza virtuale del co-mando operativo (Pentagono o NATO) e nello stesso tempo permette di "processare" una infinità di informazioni prove-

5 Cfr.: Catia Eliana Gentilucci, a cura di, Atti del Convegno dell’8 Novembre 2008 (Assisi), “Soldati di Pace in scenari operativi”, pubblicato dal Cemiss, 2009, Roma.

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nienti sul campo operativo, compresa l’attività di spionaggio di qualsiasi genere, politico, economico, personale, ecc. Questi sistemi sono nell'attuale filosofia militare la chiave di volta per vincere le guerre future, essendo capaci di far acce-dere in tempo reale tutte le informazioni utili allo Stato. In un prossimo futuro, i sistemi C4I Avanzati controlleranno la flotte robotiche e soldati-robot nelle operazioni più difficili e impene-trabili.L’utilizzo di questi sistemi rispondono agli indirizzi di pianifica-zione della NATO e dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite. Ma la qualificazione dello strumento militare richiede risorse fi-nanziarie ad essa destinate. Per questo motivo gli esercizi fi-nanziari dello Stato Maggiore della Difesa si pongono i se-guenti obiettivi: conseguire un modello professionale qualifica-to e promuovere il reclutamento di volontari professionalmente qualificati che permettano di affiancarsi ai militari professionisti e di supportare specifiche esigenze che richiedono competen-te particolari; disporre di unità operative in grado di sostenere l’azione nella prevenzione e gestione delle crisi; mantenere su alti livelli di qualità il processo di ammodernamento della linea operativa, ricercando anche forme e strumenti innovativi e concorrenziali per il sostegno finanziario degli approvvigiona-menti; condurre attività di formazione e addestramento; rinno-vare forme di collaborazione nel campo della ricerca scientifi-ca.

3. Istituzioni Internazionali per la SicurezzaLa NATOL'Organizzazione del Trattato Nord Atlantico è un organismo internazionale, creato essenzialmente per difendere le nazioni occidentali contro la minaccia rappresentata dall'ex Unione

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Sovietica. La Nato nasce il 4 Aprile del 1949 a Washington per definire come collaborare tra Paesi diversi e come intervenire in difesa di uno dei partecipanti in caso di attacco. La misura fondamentale del Trattato viene enunciata nell'art. 5 il quale stabilisce: “Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o Nord America, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza accordano che, se a tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall'art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà le parti prendendo individualmente o in concreto con altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l'uso della forza armata per ripristinare e mantenere la sicurezza dell'area Nord Atlantica”.Come è noto il temuto attacco sovietico non si è mai verificato e la NATO è intervenuta per la prima volta per pacificare i paesi della ex Jugoslavia, in seguito alla crisi nei Balcani6.La misura preventiva dell'art. 5 è stata invece applicata l'12 Settembre in risposta allo storico attacco terroristico a New York.I termini del Trattato, a cui oggi fa parte anche la Russia seppur tale alleanza non è scevra di importanti polemiche e difficoltà diplomatiche, prevedono la difesa su temi scottanti come la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata, la partecipazione ad operazioni di pace e il controllo della non proliferazione di armi a distruzione di massa. Ma con il Trattato

6 La situazione di tensione crescente nei Balcani nel 2001 non ha lasciato indifferente il Comando Nato regionale sud di Napoli (Afsouth) che dal mese di febbraio ha assunto il comando operativo dei due Teatri di operazioni in Bosnia e Kosovo. L'esercitazione Adventure Express / Dynamic Response 2001 (AE/DR-01), che riunisce in sé due esercitazioni proprio a causa dei crescenti impegni di Afsouth, si svolge dal 27 aprile al 10 maggio e prevede l'impiego di 1.500 militari della Forza di riserva strategica multinazionale. (vedi: www.paginedidifesa.it).

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viene sancita la paternità strategico-militare degli Usa sugli altri Stati.

L'OCSEL’OSCE è un foro per il dialogo politico e sulla sicurezza, de-stinato a stabilire norme e principi basati sul consenso e politi-camente vincolanti, nonché a promuoverne l’attuazione. Il Consiglio Permanente e il Foro di Cooperazione per la Sicu-rezza, nell’ambito delle loro competenze e del loro mandato, sono al centro di tali attività, che possono essere potenziate, unitamente al processo di consultazione politica e alla traspa-renza in seno all’Organizzazione. Il dialogo, nonché le norme e gli standard su cui si basa, mirano a prevenire l’insorgere di minacce e incoraggiano, inoltre, lo sviluppo di istituzioni demo-cratiche e di società inclusive, capaci di affrontare in modo più efficace e cooperativo le minacce emergenti.L’OSCE continuerà a svolgere un ruolo attivo nella sua regio-ne, utilizzando appieno le sue istituzioni, l’Ufficio per le Istitu-zioni Democratiche e i Diritti dell’Uomo (ODIHR), l’Alto Com-missario per le Minoranze Nazionali (HCNM) e il Rappresen-tante per la libertà dei mezzi di informazione (RFM), nonché le sue operazioni sul terreno e il suo Segretariato. Tali istituzioni costituiscono strumenti importanti di assistenza agli Stati par-tecipanti nell’attuazione dei loro impegni, compreso il rispetto per i diritti dell’uomo, per la democrazia e per lo stato di diritto. In tutte le pertinenti attività si ricercheranno attivamente le pos-sibilità di accrescere la cooperazione con l’Assemblea Parla-mentare e, per suo tramite, con i parlamenti nazionali.Riconoscendo il contributo significativo delle sue istituzioni e delle sue operazioni sul terreno nella messa in pratica degli obiettivi e dei principi dell’Organizzazione, l’OSCE sta valutan-do il modo per potenziare ulteriormente il funzionamento e l’ef-

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ficacia delle operazioni sul terreno e per sviluppare nuovi stru-menti se necessario.È necessario consolidare ulteriormente la capacità globale dell’OSCE di individuare e analizzare le minacce e di adottare iniziative coordinate per rispondervi. Dovrebbe essere dedica-ta maggiore attenzione alle funzioni di preallarme presso il Se-gretariato, le istituzioni e le operazioni sul terreno e dovrebbe-ro essere potenziati i meccanismi per dare seguito al preallar-me. Speciali meccanismi di preallarme e di risoluzione pacifica dei conflitti, nonché lo strumento dei nuclei di esperti di pronta assistenza e cooperazione (REACT), continuano ad essere a disposizione dell’OSCE. Il preallarme e le attività di prevenzio-ne dei conflitti dell’Assemblea Parlamentare dell’OSCE rappre-sentano un valido contributo a tali sforzi.

4. Organizzazioni Europee Dal secondo dopoguerra in poi gran parte degli sforzi diplomatici degli Stati europei è andata nella direzione di creare una difesa comune. Il dissolvimento del sistema bipolare ha condotto i Paesi europei a rispondere unitariamente alla sfida del mutato scenario internazionale, avendo la consapevolezza di avere un divario tecnologico e militare verso gli Stati Uniti abbastanza notevole.L'Europa in risposta alle mutate esigenze si è dotata di uno strumento di Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) disciplinata dal titolo quinto del Trattato dell'Unione Europea. Nonostante gli sforzi dell'Europa la sua immagine a livello di credibilità politica non è così forte e credibile come quello assunto dagli Stati Uniti dalla fine della seconda guerra mondiale, per cui la PESC rimane tendenzialmente una buona intenzione sulla carta.

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Mancano ai Paesi europei la forza militare e la giusta coesione politica per essere veramente competitivi con gli Stati Uniti sia a livello di potenza militare, sia a livello economico e sia a livello politico. L'allargamento dei confini europei ha messo in ulteriore discussione la potenza dell'immagine sullo scenario internazionale e la sua credibilità di prendere posizioni politico-militare che possano garantire la sicurezza e la stabilità internazionale.La PESC ha sostituito la cooperazione politica europea (CPE) e i suoi principali obiettivi sono: la difesa dei valori comuni e degli interessi fondamentali dell'Unione Europea; il rafforzamento della sicurezza dell'Unione Europea; il mantenimento della pace e il rafforzamento della democrazia e dello Stato di diritto, nonché il rispetto dei diritti dell'uomo. Il Consiglio Europeo decide sulle strategie comuni e sulle linee guida dell'operatività della PESC. A capo del Consiglio Europeo vi è l'Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Difesa che viene nominato tra i Capi di Stato dei Paesi europei.Altro strumento della politica internazionale è la PESD (Politica Europea di Difesa e Sicurezza Comune) che è stata istituita a Colonia, dal Consiglio Europeo, nel giugno del 1999. L'obiettivo principale della PESD è quello di rafforzare la capacità della UE ad agire in ambito esterno attraverso lo sviluppo delle sue capacità civili e militari in materia di prevenzione dei conflitti internazionali e di gestione delle crisi.Nel dicembre del 1999, durante il Consiglio d'Europa di Helsinki, è stata presa la decisione di creare una Forza di Reazione Rapida per rispondere alle esigenze della Politica estera e della sicurezza. Durante i raids aerei sul Kossovo, operazione Allied Forces, l'UE aveva, infatti, potuto misurare la sua dipendenza militare,

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pressochè totale, per le operazioni su vasta scala: i mezzi di C2 (command and control), il sistema di condivisione delle informazioni, la sorveglianza satellitare, il rifornimento in volo, le munizioni di precisione, le operazioni psicologiche, sono state condotte e controllate dagli USA. Questa incapacità di regolare da sola i propri problemi, già resa evidente in Bosnia dal 1992 al 1995, ha convinto le autorità dei quindici a reagire e ad equipaggiarsi dei mezzi necessari per eseguire le missioni dette di Petersberg7. L'accordo di Helsinki del 1999 rappresentò, pertanto, il primo atto concreto, nell'ambito della PESD, volto a implementare le capacita militari degli Stati membri; venne firmato, infatti, dai Paesi dell'UE l'Obiettivo Primario di Helsinki (Helsinki Headline Goal) in cui era a inclusa anche la creazione di un catalogo di forze militari, detto Helsinki Force Catalogue, che potesse essere in grado di adempiere ai cosiddetti "compiti di Petersberg". Nel maggio 2004 il consiglio dei ministri della difesa dell'UE approvarono il documento chiamato Headline Goal 2010, che prorogava i tempi di realizzazione per i progetti dell'Unione Europea.Venne espressa la preoccupazione che un pilastro europeo indipendente per la sicurezza potrebbe causare una progressiva diminuzione di importanza della NATO quale foro transatlantico. In risposta alla dichiarazione di Saint-Malo, l'ex segretario di Stato americano, Madeleine Albright per descrivere le aspettative americane nei confronti della PESD, definì le

7 Definite nel 1992 e inserite nel trattato di Amsterdam del 1997, queste missioni comprendono le azioni umanitarie e l'evacuazione, il mantenimento della pace e la gestione delle crisi, e le operazioni di peace enforcing attuato attraverso conflitti ad alta densità limitati (Kossovo).

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cosiddette "tre D" dicendo che era necessario che non vi fosse: 1. duplicazione di ciò che veniva già fatto dalla NATO; 2. divisione della strategia di sicurezza europea da quella

degli alleati americani; 3. discriminazione verso gli stati NATO che non sono

membri dell'UE (come ad esempio la Turchia).Inoltre, fu declamato il principio delle “3I” da Lord George Robertson, Segretario della Nato nel 2000, per ribadire l’importanza di alcuni concetti: Improvement, come incitamento agli europei ad implementare le proprie modeste capacità belliche e difensive; Inclusion, per ribadire la non esclusione dei Paesi non facenti parte della Unione Europea o della Nato; Indivisibility, quale monito alla necessità di una coesione di ideali.La dottrina delle “3C” (Confidance, Capabilities, Committements) costituisce, infine, il fulcro delle nuove teorie post 11 Settembre che indica nuove priorità: una rinnovata fiducia tra gli alleati al fine di migliorare le capacità operative e strategiche che permettono di perseguire congiuntamente i nuovi obiettivi di lotta al terrorismo; l’Europa dovrà impegnarsi a partecipare alla Difesa internazionale globale contribuendo anche finanziariamente (burden sharing8); l’Europa dovrà snellire il funzionamento degli organismi militari; infine, gli Stati Uniti si impegneranno a sostenere i Paesi europei nella Difesa globale.La dichiarazione congiunta UE-NATO del 2002 enuncia sei principi fondamentali tra cui la cooperazione o partnership, per esempio le attività per la gestione delle crisi dovrebbero essere di mutuo rinforzo; reale cooperazione e consultazione

8 Cfr.: Catia Eliana Gentilucci, a cura di, Le forme multifunzionali della sicurezza globale, Ce.Mi.SS, Roma, 2009.

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reciproca, parità e dovuto rispetto per ‘l'autonomia nel processo decisionale e gli interessi’ di entrambe l'UE e la NATO, e ‘sviluppo coerente di requisiti di capacità militari compatibili e che si rafforzano reciprocamente, comuni alle due organizzazioni’. In termini istituzionali, la partnership viene definita con l'accordo di Berlino del marzo 2003 che permette l'UE di usare i suoi meccanismi e risorse per condurre operazioni militari nel caso la NATO non voglia intervenire. Inoltre, fu firmato un accordo che regola lo scambio e la gestione di informazioni e di materiale sensibile tra UE e la NATO. Il documento prevede l’istituzione di una piccola cellula di collegamento UE presso il Quartier generale delle forze della Nato in Europa (Supreme Headquarters Allied Powers in Europe - SHAPE) e presso il Comando interforze della NATO a Napoli.Una frase che spesso usata per descrivere il rapporto tra le forze NATO e quelle UE è: "separate, ma non separabili"; le stesse forze e capacita costituiranno le basi dell'impegno di entrambe UE e NATO, anche se parte di esse possono essere destinate all'Unione europea, se necessario. riguardo le missioni esiste un diritto di primo rifiuto: solo se la NATO decide di non intervenire l'UE può far lo stesso.Sempre a Helsinki è stata decisa l'istituzione, nell'ambito del Consiglio Europeo, di nuovi organi e strutture politiche e militari per consentire all'Unione Europea di garantire la necessaria guida politica e la direzione strategica di tali operazioni.Inoltre, il Consiglio Nazionale di Nizza nel 2000 ha dato il via alla creazione di diverse strutture, tra queste il Comitato Politico d Sicurezza (COPS) al quale spetta il compito di seguire l'andamento della situazione internazionale,

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contribuire alla definizione delle politiche e controllare l'attuazione di quelle adottate.

5. Agenda Europea per la DifesaNei dibattiti comunitari degli anni Settanta relativi allo sviluppo della politica europea è sorta l'esigenza di creare una Agenzia Europea per la Difesa. Ma solo nel giugno del 2008 il Consiglio Europeo di Salonicco incarica gli organi appropriati del Consiglio di avviare le necessarie azioni per creare un agenzia intergovernativa nel settore dello sviluppo delle capacità di difesa, della ricerca e dell'acquisizione degli armamenti.L'Agenzia, soggetta all'autorità del Consiglio Europeo, è aperta alla partecipazione di tutti gli Stati membri.Ad essa vengono assegnati i compiti: sviluppare le capacità di difesa nel settore della gestione delle crisi; promuovere e rafforzare la cooperazione europea nel settore degli armamenti; rafforzare la base industriale e tecnologica della difesa europea e creare un mercato competitivo dei materiali di difesa; promuovere una ricerca che miri alla leadership nelle tecnologie strategiche per le future capacità di difesa e di sicurezza. L'Agenzia non pregiudica la competenza degli Stati membri nella materie inerenti la difesa, ma ha lo scopo di essere un importante riferimento per sviluppare politiche militari europee più flessibili e efficienti.

6. Evoluzione e Rivoluzione degli Affari Militari Il corso della storia ha visto manifestare vari modi di conduzione delle guerre a seconda del livello di sviluppo della tecnologia applicata alle nuove armi. Le rivoluzioni militari tuttavia, non sono state causate direttamente dall’evoluzione

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tecnologica, anche se quest’ultima è stata un fattore fondamentale. La profonda frattura generata dalle rivoluzioni entro il continuum storico, ha indotto interpretazioni discordanti riguardo il “salto di qualità” impresso dall’innovazione tecnologica alle forme della guerra e alle sue teorie. Ecco allora, che le varie interpretazioni cambiano a seconda degli elementi che vengono ritenuti importanti per lo sviluppo delle rivoluzioni, siano essi di natura economica, come nella teoria dei coniugi Toffler, piuttosto che tecnologica, nel senso di un innalzamento qualitativo dello strumento militare.In quest’ultimo caso, si possono dare definizioni diverse riguardo l’applicazione della tecnologia ai sistemi d’arma e ai suoi modi di utilizzo nella guerra. Viene usata dunque, l’espressione “Rivoluzione tecnico-militare”, per sottolineare le conseguenze della tecnologia sulla conduzione della guerra, nel senso di una evoluzione delle capacità militari dovuta ai miglioramenti apportati ai sistemi d’arma, che non modificano però, i concetti operativi e tattici che servono al loro utilizzo.Diversamente, l’espressione Evoluzione degli Affari Militari viene utilizzata secondo un’accezione più ampia della prima, in quanto le innovazioni tecnologiche producono mutamenti profondi nella dottrina e nella struttura delle forze, inducendo anche ad utilizzare nuovi concetti strategici ed operativi, per sfruttare appieno le potenzialità offerte dalla tecnologia. In questo modo le innovazioni entrano nel tessuto sociale di una popolazione, influenzandone i fattori economici, industriali, demografici e culturali.Nel periodo attuale, stiamo assistendo ad un profondo mutamento nelle tecnologie dell’informazione, che non ha eguali nella storia per rapidità di espansione, fino al punto di

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comunicare quasi in tempo reale, almeno nelle zone più sviluppate del globo. La diffusione delle tecnologie dell’informazione inoltre, ha ridotto i costi della comunicazione, aumentando al contempo il potere comunicativo; basti pensare che i mezzi di comunicazione di massa hanno raggiunto ormai una copertura globale e agendo in tempo reale, influiscono sulla percezione degli eventi da parte delle opinioni pubbliche.Tale mutamento è stato recepito anche nella sfera militare, dove le tecnologie dell’informazione sono state impiegate nei moderni sistemi d’arma, tanto da aumentarne fortemente la capacità distruttiva, riducendo allo stesso tempo i danni collaterali. Questo mutamento, induce ad ipotizzare un modello di guerra ad alta tecnologia che probabilmente ne cambierà la natura stessa. Tra gli analisti non vi è una spiegazione univoca di ciò che tale trasformazione porterà a livello storico, se una profonda rottura col passato, che induca a pensare ad una rivoluzione, o se un evento cumulativo delle precedenti esperienze, dunque un’evoluzione degli affari militari.Sembra tuttavia opportuno ritenere che, le innovazioni tecnologiche dell’informazione utilizzate per la realizzazione di nuovi sistemi d’arma, oltre che come principio di trasformazione della dottrina militare, possano trasformare completamente il campo di battaglia, attraverso la riduzione drastica del tempo delle operazioni. Le tecnologie informatiche infatti, se da una parte permettono di conoscere la gran parte delle informazioni disponibili, circa la situazione sul campo di battaglia e sul nemico, dall’altra consentono di ottenere tali informazioni in modo così rapido e puntuale, da poter effettuare operazioni di manovra e di

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attacco talmente repentine, da assicurarsi una superiorità netta sull’avversario. A livello tattico, per ottenere la vittoria attraverso le nuove tecnologie informatiche, si deve avere la capacità di distruggere i sistemi operativi e di controllo del nemico prima che questo possa reagire. A livello strategico, invece, un tale dominio delle informazioni dovrebbe cancellare la capacità di attacco del nemico, ottenendo anche un effetto di deterrenza, dovuto alla consapevolezza della propria debolezza. Se tale strategia avesse successo, significherebbe essere realmente in presenza di una nuova concezione della guerra.Lo stato attuale delle cose tuttavia, non permette un giudizio oggettivo circa la presenza o meno di questo tipo di evoluzione nel mondo contemporaneo, in quanto l’innovazione dei sistemi d’arma dovuta alle tecnologie informatiche, è ancora agli inizi. Negli Stati Uniti esiste però, la prospettiva concreta di condurre le future guerre secondo i nuovi canoni, prova ne sia la guerra del Golfo del 2002, nella quale sono stati attuati alcuni dei principi proposti nella nuova dottrina militare.Le sfide imposte da questo tipo di mutamento nel settore militare, non sono rimaste confinate nel territorio americano, ma hanno coinvolto altri Paesi oltreoceano e le organizzazioni sovranazionali delle quali fanno parte.La diffusione verso i Paesi alleati dell’America, di ciò che per semplificazione espositiva verrà chiamata Rivoluzione negli Affari Militari, è dovuta a vari fattori tra i quali, l’enorme potenza esercitata dagli Stati Uniti nello scenario internazionale dopo il crollo dell’impero sovietico; la necessità per i Paesi alleati dell’America di contenere il divario tra le due sponde dell’Atlantico, evitando di rimanere ai margini della scena politica mondiale; gli effetti degli attentati terroristici

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dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York, sul mutamento delle politiche occidentali nei confronti del terrorismo.Il percorso evolutivo del fenomeno della Rivoluzione negli affari militari inizia dal momento in cui nella ex Unione Sovietica, gli analisti iniziarono a concepire l’idea di un mutamento radicale a livello tecnico-militare, che avrebbe potuto portare un vantaggio strategico sugli Stati Uniti. Dal momento in cui gli statunitensi presero coscienza di tale fenomeno, iniziarono essi stessi, uno studio approfondito sui possibili effetti rivoluzionari, che l’innovazione tecnologica applicata al settore militare avrebbe potuto portare nella conduzione della guerra. Gli analisti americani si resero conto che l’utilizzo della sola tecnologia non sarebbe bastata a sconfiggere gli avversari in un conflitto: erano altrettanto importanti gli adeguamenti della dottrina che avrebbero modernizzato lo strumento militare. La dottrina militare infatti, non è statica ma riflette la cultura strategica del Paese in un dato periodo di tempo. A tal proposito le dottrine militari occidentali, in particolare statunitensi, si sono modificate in ragione del mutamento delle dinamiche politiche che si sono verificate a seconda dei periodi storici. L’aspetto prettamente tecnologico della Revolution in Military Affairs, si basa soprattutto sul System of Systems dedicato all’integrazione dei sistemi d’arma. Tale sistema, permetterà agli Stati Uniti di ottenere il dominio delle informazioni sul campo di battaglia, dunque la superiorità strategica sull’avversario.Nell’idea del suo teorico, l’Ammiraglio William Owens, il System of Systems deve funzionare in modo tale che qualsiasi sensore o sistema che raccoglie l’informazione, la possa

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trasmettere rapidamente ad un altro sistema che si occupa di attaccare il bersaglio. I mezzi che permettono tale processo e che verranno analizzati dettagliatamente nel presente studio, sono: il Command, Control, Communication, Computer, Intelligence (C4I); l’Intelligence, Surveillance, Reconnaissance (ISR); in ultimo le armi di precisione, che vengono utilizzate con il munizionamento guidato di precisione (Precision Guided Munitions).Al di fuori del System of Systems, sono stati studiati soprattutto negli Stati Uniti, altri mezzi con i quali raggiungere gli obiettivi militari e politici, minimizzando allo stesso tempo gli effetti collaterali. Tali mezzi rientrano nella categoria delle armi inabilitanti non-letali, chiamate così proprio perché i loro effetti non sono mortali ma inducono, comunque, il nemico alla resa.Tali armi, benché non siano innocue come il loro nome farebbe pensare, vengono studiate in quanto ritenute importanti nell’affrontare le nuove minacce imposte da attori non statali, che inducono ad un ripensamento del conflitto diverso nei modi e negli scopi dalle guerre convenzionali, combattute con eserciti regolari. Le innovazioni tecnologiche della Rivoluzione negli affari Militari infine, verranno viste da una prospettiva diversa rispetto a quella prettamente tecnologica, ossia secondo l’organizzazione dello strumento militare, il quale si deve modificare nella sua struttura e nella formazione del personale, in base alla tecnologia utilizzata dalle sue Forze Armate. Nel quadro della Rivoluzione negli affari Militari infatti, l’innovazione tecnologica accompagnata dai nuovi concetti operativi, necessita di uno strumento militare che si adatti ad una nuova struttura organizzativa, in grado di utilizzare i nuovi sistemi d’arma al meglio. Tali sistemi, nonostante siano

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progettati per un semplice utilizzo, implicano la necessità di formazione e addestramento del personale, che deve essere in grado di farlifunzionare, da soli o integrati con altri, a seconda delle missioni da svolgere. Da un altro punto di vista invece, il fattore tecnologico è in grado di modificare l’organizzazione militare nella sua struttura che da piramidale passa ad una struttura a rete, nella quale vengono ridotti i tempi di decisione e favorita l’iniziativa, a vantaggio della qualità dei risultati. L’avvento dell’artiglieria prima e delle armi da fuoco poi ad esempio, hanno portato un mutamento repentino ed efficace nella conduzione delle battaglie ed hanno inciso sugli avvenimenti politico-militari dei paesi che le hanno imposte e di quelli che le hanno subite. L’innovazione tecnologica dell’artiglieria in particolare, produsse un salto qualitativo, generato prima dall’aumento di potenza seguito da quello di precisione, ma non modificò sostanzialmente la conduzione dei combattimenti, che rimasero legati agli schemi tradizionali fino al XIX secolo9. Il cambiamento in atto a livello militare negli Stati Uniti, non si è ancora completamente realizzato, per tale motivo è difficile poter affermare che si tratta di una vera e propria rivoluzione nella conduzione della guerra. I presupposti di un mutamento radicale tuttavia, sono presenti.

9 Cfr.: V. Ilari, “Imitatio, Restitutio, Utopia: La storia militare antica nel pensiero strategico moderno”, in: Sordi, Marta (a cura di.), Guerra e diritto nel mondo greco e romano, Contributi dell’Istituto di storia antica, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 269-381; C. Jean, Manuale di Studi Strategici, Milano, FrancoAngeli, 2004. p.195-196; B. Moller, The Revolution in Military Affairs: Mith or Reality?, Copenhagen, Peace Research Insitute, IIS Working Paper, n. 15, 2002. p. 10-12.

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CAPITOLO 7Conflitti e minacce

1. Evoluzione del quadro di sicurezza internazionaleL’evolversi del quadro di sicurezza all’inizio del ventunesimo secolo crea nuove sfide per tutti, anche per l’OSCE10 che do-vrà affrontare tali sfide basandosi su importanti punti di forza: la sua ampia partecipazione, dall’America del nord all’Europa e a parte dell’Asia, e il suo concetto pluridimensionale di sicu-rezza comune, globale, cooperativa e indivisibile.

10 Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico nasce dall'esigenza di dar vita a forme di cooperazione e coordinamento in campo economico tra le nazioni europee nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale. L'OCSE ha allargato la sua azione verso obiettivi di integrazione e cooperazione economica e finanziaria tra i maggiori paesi del così detto Occidente. La struttura istituzionale dell'OCSE comprende: un consiglio composto da un rappresentante per ogni paese; un comitato esecutivo composto dai rappresentanti di delegazioni permanenti di 14 membri eletti annualmente; i comitati ed i gruppi di lavoro specializzati; le delegazioni permanenti dei paesi membri sotto forma di missioni diplomatiche dirette quindi dagli ambasciatori; il segretariato internazionale, a disposizione dei comitati e degli altri organi. Dell’OCSE fanno parte: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Svezia, Svizzera, Turchia. La Repubblica Federale Tedesca ne divenne membro solo dopo la fine del periodo di occupazione dei paesi alleati, e la Spagna vi aderì nel 1959. La sede dell'organizzazione, inizialmente denominata Organizzazione Europea per la cooperazione economica (OECE) fu fissata a Parigi. La cooperazione economica tra gli aderenti fu essenzialmente sviluppata attraverso una liberalizzazione dei rispettivi scambi, attuata puntando alla liberalizzazione degli scambi industriali e dei movimenti di capitali. Nel 1950 in particolare i paesi membri dell'OECE diedero vita all'Unione Europea dei pagamenti (UEP) che introduceva un sistema di pagamenti multilaterali, permettendo una compensazione dei crediti in una moneta europea di uno stato membro verso l'altro. Questo sistema si trasformò nel 1959 in un regime di piena convertibilità delle monete, con mutamento dell'UEP nell'accordo monetario europeo.

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Il rispetto e l’osservanza del diritto internazionale e dei principi dello Statuto delle Nazioni Unite restano al centro degli sforzi intesi a prevenire e a combattere le minacce alla stabilità e alla sicurezza. La responsabilità di mantenere la pace e la sicurez-za internazionale spetta primariamente al Consiglio di Sicurez-za delle Nazioni Unite, che continua a svolgere un ruolo deter-minante, contribuendo alla sicurezza e alla stabilità nella regio-ne OSCE.L’OSCE ha svolto un valido ruolo nell’aprire la via alla sicurez-za e alla stabilità in tutta la sua regione verso la fine del vente-simo secolo e ha contribuito ad importanti trasformazioni de-mocratiche nella sua area geografica. Oggi la cooperazione ha sostituito il confronto di un tempo ed è più probabile che mi-nacce alla sicurezza e alla stabilità nella regione OSCE sorga-no quali conseguenze negative e destabilizzanti di sviluppi che attraversano le dimensioni politico-militare, economico-am-bientale e umana, piuttosto che in seguito a gravi conflitti ar-mati. Nel contempo, esistono ancora nell’area OSCE conflitti irrisolti che continuano a destare serie preoccupazioni. La ri-cerca di soluzioni negoziate a tali conflitti deve rimanere un’al-ta priorità.Il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, della democrazia e dello stato di diritto si trova al centro del concet-to globale di sicurezza dell’OSCE. Solide istituzioni democrati-che e stato di diritto svolgono un ruolo importante nel preveni-re l’insorgere di minacce. Governi deboli e l’incapacità degli Stati di garantire istituzioni democratiche adeguate e funzionali che siano in grado di promuovere la stabilità, possono di per sé costituire un terreno fertile per una serie di minacce. Viola-zioni sistematiche dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamen-tali, inclusi i diritti di persone appartenenti a minoranze nazio-

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nali, possono allo stesso modo dare origine a un’ampia serie di minacce potenziali.Fattori socio-economici e ambientali possono ugualmente inci-dere sulla sicurezza e sulla stabilità. La globalizzazione, la li-beralizzazione e i mutamenti tecnologici offrono nuove oppor-tunità di commercio, crescita e sviluppo, ma non hanno giova-to uniformemente a tuttigli Stati partecipanti, contribuendo pertanto, in alcuni casi, ad approfondire le disparità economiche tra Stati e all’interno de-gli Stati. Il risultato della globalizzazione dipende dalle scelte politiche adottate dai governi e dalle istituzioni internazionali, nonché dalle risposte del settore privato e della società civile. Il degrado ambientale rappresenta inoltre una crescente pre-occupazione. Fattori demografici e il diffuso peggioramento delle condizioni di salute costituiscono altre potenziali sfide alla sicurezza. La mancanza di apertura e di trasparenza sulle questioni politi-co-militari può comportare gravi conseguenze negative. La mancata piena e tempestiva osservanza degli esistenti accordi e strumenti in materia di controllo degli armamenti, disarmo, non proliferazione nonché di rafforzamento della fiducia e della sicurezza può altresì influire notevolmente sulla sicurezza co-mune. Le minacce possono inoltre derivare da azioni di terroristi e di altri gruppi criminali. Gli atti terroristici commessi negli ultimi anni hanno pienamente confermato che tali minacce rappre-sentano una sfida crescente e che si deve attribuire priorità a misure intese a prevenirle e a combatterle. Tali minacce, inoltre, spesso non nascono all’interno di un sin-golo Stato, ma sono di carattere transnazionale. Esse riguar-dano la sicurezza di tutti gli Stati nell’area OSCE e la stabilità delle nostre società. La regione OSCE è al tempo stesso sem-

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pre più esposta a minacce provenienti dall’esterno e, analoga-mente, sviluppi all’interno della nostra regione possono avere conseguenze per le aree limitrofe. Di fronte a tale scenario è evidente che l’approccio globale dell’OSCE alla sicurezza, che comprende le dimensioni politi-co-militare, economico-ambientale e umana, resta pienamente valido e dovrebbe essere mantenuto e rafforzato ulteriormen-te. Le minacce emergenti dai conflitti tra Stati e all’interno degli Stati restano la più vasta categoria di minacce nei confronti degli Stati partecipanti e degli individui. Tali conflitti, ovunque abbiano luogo, possono anche rappresentare un rischio per le aree confinanti e creare instabilità, nonché altri tipi di minacce, quali terrorismo, proliferazione di armi di distruzione di massa, accumulo eccessivo e destabilizzante di armi di piccolo calibro e leggere (SALW) e la loro diffusione incontrollata, violazione dei diritti umani, espulsioni di massa, deterioramento della si-tuazione socio-economica e migrazione illegale. Dietro le cau-se dirette dei conflitti violenti si celano la non osservanza del diritto internazionale nonché delle norme e dei principi OSCE e una serie di fattori che rientrano nella dimensione politico-mi-litare, economico-ambientale e umana. Il terrorismo è una delle più importanti cause di instabilità nell’attuale contesto di sicurezza. Esso cerca di minare gli stessi valori che uniscono gli Stati partecipanti nell’area dell’OSCE e continuerà ad essere una delle principali sfide alla pace, alla stabilità e al potere statale, in particolar modo attraverso la sua capacità di utilizzare metodi asimmetrici per aggirare i sistemi di sicurezza e di difesa tradizionali. Non esi-ste alcuna giustificazione per il terrorismo. Nel contempo esso richiede un approccio globale che affronti le sue espressioni

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nonché il contesto sociale, economico e politico in cui si mani-festa. La globalizzazione e i progressi tecnologici hanno allargato il campo d’azione e l’estensione della minaccia costituita dalla criminalità organizzata. Inoltre la criminalità organizzata spes-so agisce parallelamente al terrorismo, sia per quanto riguarda gli attori sia per quanto riguarda i metodi. Il traffico di migranti e la tratta di esseri umani, il traffico di stupefacenti, di armi di piccolo calibro e leggere nonché di materiali e tecnologie sen-sibili costituiscono ulteriori attività criminali che possono mi-nacciare la stabilità e la sicurezza, sia all’interno sia all’esterno dell’area OSCE. Frontiere aperte e libero movimento di perso-ne e di beni giovano alla cooperazione internazionale, ma pre-sentano anche sfide crescenti, tra cui la migrazione illegale. Le pratiche connesse alla discriminazione e all’intolleranza mi-nacciano la sicurezza individuale e possono dare origine a conflitti e violenze su vasta scala. Esse possono essere gene-rate da tensioni etniche e religiose, nazionalismo aggressivo, sciovinismo e xenofobia, e possono anche essere causate da razzismo, antisemitismo ed estremismo violento, nonché dal mancato rispetto dei diritti di persone appartenenti a minoran-ze nazionali. La mobilità delle popolazioni migranti e l’emergere in ogni par-te della regione OSCE di società in cui coesistono culture di-verse presenta opportunità ma anche sfide crescenti. La man-cata integrazione sociale e il non rispetto anche da parte dei residenti dei diritti di tutti può compromettere la stabilità.Tra i fattori economici che minacciano la stabilità e la sicurez-za figurano crescenti disparità economiche e sociali, assenza dello stato di diritto, debole capacità di governo nel settore pubblico e privato, corruzione, povertà diffusa ed elevata di-soccupazione. Tali fattori possono offrire un terreno fertile per

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altre gravi minacce. Il degrado ambientale, l’uso non sostenibi-le delle risorse naturali, la cattiva gestione dei rifiuti e l’inquina-mento colpiscono i sistemi ecologici e hanno un notevole im-patto negativo sulla salute, sul benessere, sulla stabilità e sulla sicurezza degli Stati. Anche i disastri ecologici possono avere effetti analoghi. Problemi di governo connessi a tali fattori hanno un effetto de-stabilizzante diretto e al tempo stesso riducono la capacità di assicurare uno sviluppo economico e sociale sostenibile, non-ché di affrontare efficacemente le sfide economico-ambientali e le minacce alla sicurezza e alla stabilità.Numerose minacce di natura politico-militare, comprese quelle trattate negli esistenti documenti OSCE, quali accumuli desta-bilizzanti di armamenti convenzionali, traffico illecito di armi e proliferazione di armi di distruzione di massa, restano gravi preoccupazioni per gli Stati partecipanti all’OSCE. Tra le mi-nacce che hanno cambiato natura o impatto o sono del tutto nuove, richiedono particolare attenzione le minacce armate di gruppi terroristici o di altri gruppi criminali. Occorre dedicare ugualmente attenzione alle potenziali sfide derivanti dal carat-tere mutevole dei conflitti armati. In un mutevole contesto di sicurezza le minacce si sviluppano e non tutte saranno prevedibili. Il quadro dell’OSCE per un dia-logo politico permanente e in particolare la Conferenza annua-le di riesame sulla sicurezza (ASRC), contribuiranno a identifi-care e ad analizzare le nuove minacce e a reagire al loro ma-nifestarsi. Poiché le minacce che emergono e si sviluppano nelle regioni limitrofe assumono crescente importanza, l’OSCE intensificherà la cooperazione con i suoi Partner mediterranei e asiatici per la cooperazione, individuando preventivamente aree di interesse e di preoccupazione comuni, nonché possibi-lità di ulteriori azioni coordinate. Incoraggeremo i partner per la

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cooperazione ad attuare volontariamente i principi e gli impe-gni dell’OSCE e coopereremo con loro a tale riguardo, ove ap-propriato. Quale primo passo verso un maggiore dialogo invi-teremo tutti i nostri Partner per la cooperazione a partecipare più spesso in qualità di osservatori alle riunioni del Consiglio Permanente e del Foro di Cooperazione per la Sicurezza.

2. Ostacoli allo studio scientifico delle guerre Il termine "guerra" deriva dalla parola gwarra dell'antico alto tedesco, che significa "mischia". Nel diritto internazionale, il termine è stato sostituito, subito dopo la seconda guerra mondiale, dal più ampio e preciso di "conflitto armato".Un conflitto può essere definito come: lotta armata tra due o più Stati o tra fazioni in uno stesso Stato; o come lotta non armata tra due o più Stati; o come contesa, ostilità tra individui o gruppi. La guerra si impone nella nostra mente come il concetto forte e dominante, se pur negativo da un punto di vista umano. Come osserva Noberto Bobbio nel suo libro "Elementi di politica", esiste ed é esistita una filosofia della guerra. Illuminismo, Storicismo, Positivismo, Marxismo si sono concentrati su questo concetto, sulle sue ragioni e sul suo significato sia per arrivare alla realizzazione della pace ma senza riuscire a darne una definizione precisa e autonoma. Dal momento che la definizione di pace dipende da quella di guerra, bisogna prima definire quest'ultima. Essa è un conflitto tra gruppi politici intesi come gruppi che mantengono o conquistano il potere sugli uomini, risolto con la violenza organizzata. Pur rispondendo sempre agli interessi di un individuo a scapito di un altro, le ragioni di un conflitto non sono sempre ben individuabili.

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Secondo Hobbes, "competition, diffidence, glory" sono le principali cause scatenanti di un conflitto. In base a questa definizione la pace risulta come lo stato in cui tra due o più gruppi politici non esiste alcun conflitto condotto attraverso la violenza organizzata. Ci si domanda spesso perchè è così difficoltoso trattare con metodo scientifico11 il tema della guerra (e della pace).Le ricerche sulla definizione delle guerre sarebbero di valore assai scarso se non consistessero che in uno studio sulla loro etimologia e in una prova di erudizione oppure in un esercizio di analisi dialettica. La loro utilità è, invece, quella di essere prolegomeni per chi voglia studiare il fenomeno della guerra. Quando si tratta di un fenomeno sociale vasto come quello della guerra è impossibile sfuggire alle critiche. In queste materie ogni definizione richiede qualcosa di convenzionale a cui bisogna rassegnarsi.La definizione che qui viene proposta ci permette di delimitare il campo della nostra ricerca e che ci permette di ipotizzare una identità e una realtà del fenomeno. L'identità viene data da ciò che distingue la guerra dagli altri fenomeni, mentre la realtà viene data da ciò che la guerra rappresenta come fenomeno sociale e dalle sue implicazioni nel contesto sociale.

11 Spiegare i metodi analisi delle scienze sociali: induttivo e deduttivo. Il concetto di induzione deriva dal greco epagoghé ( παγωγή), termineἐ che significa letteralmente "portar dentro", ma anche "chiamare a sé", "trarre a sé", ed è un procedimento che partendo da singoli casi particolari cerca di stabilire una legge universale. Una legge però che non viene assolutizzata, ma che, essendo ritenuta molto probabile, funge da guida d'indagine sulla realtà. Per questa ragione al processo induttivo viene negata ogni validità dalla logica metafisica, mentre per la logica scientifica e per le sue prassi è il procedimento usuale, quello che si è dimostrato più utile per conseguire risultati.

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I conflitti armati intesi come evento sociale possono essere oggetto di due metodi di analisi: l'uno induttivo e l'altro deduttivo. Con quello induttivo ci possiamo avvicinare a uno studio scientifico e oggettivo che prende in considerazione la tattica e la strategia adottata in un conflitto in un contesto atemporale; adottando l'altro metodo invece, quello deduttivo, possiamo pensare ai conflitti come a un fenomeno sociale che scaturisce da fattori contingenti legati al tempo e ai luoghi. In questo secondo caso i conflitti armati diventano un fenomeno immanente dello sviluppo sociale che permea la storia dell'umanità. Ciò non toglie, però, che seppur processo immanente dello sviluppo devono essere studiate le sue cause e le sue peculiarità affinchè l'uomo stesso possa controllare gli eventi e rendere i conflitti meno disastrosi e cruenti per le popolazioni che lo subiscono.A fatica la sociologia è riuscita a creare un metodo di analisi rigoroso dei conflitti, e ancora oggi si cerca di individuare una definizione univoca dei conflitti armati che permetta una loro categorizzazione come “fenomeno conoscibile”. Sono state molte le definizioni del concetto di guerra, fra le quali, le più note si ispirano al diritto. Per esempio, gli internazionalisti hanno ricercato i criteri in base ai quali è possibile distinguere lo stato di guerra da quello di pace, per poter applicare poi le norme del diritto bellico. Dal punto di vista sostanziale, Q. Wright definisce la guerra come un violento "contatto di entità distinte, ma simili". Ovviamente tale definizione è sottoponibile a due critiche: per prima cosa non descrive esaurientemente il concetto di guerra; inoltre non tutto ciò che comprende è catalogabile come guerra.

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Successivamente si è insistito molto sul fatto che la guerra si realizza mediante la forza armata; questo ha ridotto i casi configurabili come guerra, ma è anche vero che esistono guerre economiche, psicologiche e di altro tipo. Tuttavia le norme del diritto bellico sono applicabili soltanto al fenomeno di guerra inteso come scontro armato. Tutto ciò ci spinge a dire che il confine tra guerra e pace è molto vago: di ciò si sono resi conto gli scrittori e gli scienziati che si sono occupati di tale argomento.Così Carl von Clausewitz ha sostenuto che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Essa è caratterizzata da tre tendenze: violenza, gioco delle probabilità e natura subordinata allo strumento politico. La guerra è, quindi, certamente violenza ma, avendo un esito spesso imprevedibile, conclude von Clausewitz, non è calcolo razionale. Altri ancora hanno individuato la sostanza della guerra nel grado di ostilità psicologica che la caratterizza. Così, per Hobbes, la guerra non consiste soltanto nello scontro, ma anche nella cosciente disposizione dell'uomo ad essa (l'uomo è malvagio ed egoista per natura).Per Boutoul sono tre i caratteri distintivi della guerra: fenomeno collettivo, lotta armata, carattere giuridico. Tendenzialmente la guerra può essere considerata un evento sociale e politico generalmente di vaste dimensioni che consiste nel confronto armato fra due o più soggetti collettivi significativi. Si giunge alla guerra quando il contrasto di interessi economici, ideologici, strategici o di altra natura non riesce a trovare una soluzione negoziata, o quando almeno una delle parti percepisce l'inesistenza di altri mezzi per il conseguimento dei propri obiettivi.

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Ma anche accettando queste indicazioni come valide per delineare il fenomeno della guerra alla luce della natura degli attuali conflitti armati o operazioni operative in scenari di crisi la visione pre-Guerra Fredda viene immediatamente invalidata12. Si può, dunque, concludere che non esiste una definizione univoca del concetto di guerra, ciò per svariati motivi: a) la pseudo evidenza della guerra: il primo degli ostacoli è la convinzione, radicata nella mente degli uomini, di conoscere il fenomeno della guerra, spesso banalizzandolo, e di considerarlo quindi un inutile campo di riflessione e di ricerca. La guerra, infatti, è uno dei fenomeni sociali più evidenti che si percepisce con immediatezza spesso con abitudine mentale e rassegnazione. Tutto ciò ha contribuito a far sembrare i conflitti un evento ovvio di tutti i tempi. Ognuno di noi ha sentito parlare di essa fin dall'infanzia; non c'è uomo che non abbia giocato ai soldati da bambino. Tutti gli uomini l'hanno vissuta direttamente o indirettamente al punto da sentirla così vicina alla nostra realtà quotidiana da non sentire il bisogno di porci degli interrogativi su di essa. La si vive passivamente; tutto intorno a noi ci parla delle guerre passate: i nomi delle strade, i monumenti, i musei, le rievocazioni militari. Ciò ha reso addirittura inutile cercare una sua definizione.

12 Allo stesso modo è difficile individuare una definizione di pace. La pace oggi viene sostituita dal concetto di “sicurezza”; vi è pace dove le relazioni umani si possono svolgere in una situazione di “sicurezza” e quindi in una situazione che conduce allo sviluppo socio-economico normale. Oggi, il termine “sicurezza” viene inteso in molti modi diversi. I suoi significati variano da una definizione in senso stretto di sicurezza da un conflitto armato, ad un concetto più generale di “sicurezza del genere umano”, che include aspetti sociali, ambientali ed altri. I concetti di sicurezza alimentare, sicurezza energetica e di accesso alle risorse naturali sono stati ampiamente dibattuti nel corso degli ultimi decenni. Ma recentemente è sempre più riconosciuta la validità del nesso tra ambiente e sicurezza.

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b) La guerra sembra dipendere dalla nostra volontà: il secondo ostacolo psicologico che impedisce di studiare la guerra in modo oggettivo come “un evento” è l'illusione che la guerra è un fenomeno volontario che ha l'aspetto non di atto impulsivo, ma di una decisione maturata e ponderata (l'atto violento impulsivo viene classificato come atto terroristico). La guerra nasce gradualmente da motivi e pretesti di incomprensioni politiche, culturali o religiose; ed è preceduta da attività diplomatiche volte a impedirla o a limitarne la portata. c) illusionismo giuridico: la guerra è stata considerata oggetto di studio del Diritto Internazionale e, quindi, fenomeno legato alle relazioni internazionale che non ha una propria definizione storica.In sostanza il fenomeno bellico seppur entrato nella abitudine mentale degli uomini non viene vissuto in modo cosciente ma in modo passivo e immanente, allo stesso modo in cui venivano vissute nel Medioevo peste e carestie che spazzavano via intere generazioni di uomini. Così come una volta individuata la natura e le cause di tali flagelli l'uomo è riuscito a controllarne la loro comparsa nella vita sociale, anche l'individuazione delle cause e della natura dei conflitti armati potrebbe aiutare l'umanità a controllare gli eventi. 3. Definizione di conflitto armatoProviamo, quindi a dare una definizione di conflitto armato.Il conflitto armato è un evento violento poiché implica l'uso della forza e delle armi; è anche un evento politico “aspettato” (altrimenti si avrebbe terrorismo) che scaturisce da atti coscienti. Le sue conseguenze sono incerte, ma le sue cause sono certe e date dai fatti contingenti che l'hanno scaturita. La guerra è

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sempre una conseguenza di qualcosa, o meglio di un attrito o di una incomprensione di tipo politico, religioso, culturale tra Stati (altrimenti si avrebbe guerra civile o faida).Dunque alla luce di quanto affermato possiamo sostenere che: la guerra è una azione armata “che si protrae nel tempo”, “collettiva”, “ prevista” e “causata” da un accordo politico fallito, i cui contenuti dipendono dalla situazione storica contingente. Credo sia di senso comune immaginare la guerra come una azione che si protrae nel tempo. Il problema è di definire la lunghezza di questo tempo. Una ipotesi è quella di definire la durata temporale di un conflitto in quello in cui lo Stato bellicoso esaurisce il proprio potenziale bellico; a meno che nel frattempo non sia stato stilato un trattato di pace, di tregua o vi sia la sconfitta definitiva di ciò che è stato individuato come nemico. Pertanto una guerra può durare un giorno come un secolo. Può durare anche un minuto, se in questo breve lasso di tempo viene lanciata, ad esempio, una bomba a altissimo potenziale offensivo (pensiamo a una bomba atomica) che annienta il nemico; come può durare anche un secolo se lo Stato attaccante esaurisce lentamente il suo potenziale bellico o se l'azione armata verso il nemico è tale da non richiede un uso intensivo della capacità bellica dell'attaccante.La guerra è un fenomeno collettivo che coinvolge popoli e nazioni territorialmente definiti. Un’azione armata che non ha valenza nazionale, poiché coinvolge poche persone, rientra nel concetto di faida o di criminalità. E' altrettanto di senso comune immaginare una guerra come un intervento che richiede l'impiego delle armi. Senza l'uso delle armi (anche per soli fini di deterrenza) non si avrebbe guerra, ma un conflitto verbale o una potenziale azione armata

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non ancora attuata; ed è di altrettanto senso comune immaginare la guerra come conseguenza del fallimento di un atto preventivo diplomatico in grado di risolvere la situazione di ostilità che si è creata tra Stati o alleanze.Teniamo a precisare che nella definizione di conflitto armato sopra dato non rientrano le operazioni di sostegno e creazione della pace (peacekeeping e peacemaking) che, invece, di per sé possono essere inserite nelle azioni di prevenzione delle ostilità.E' vero che anche in tali azioni di sostegno alla pace le forze impegnate sono armate e pronte a creare potenza, ma l'impiego della forza è secondario rispetto alla attività di peacekeeping svolta negli scenari operativi dalle forze armate. In questo contesto rientra la questione della nuova professionalità richiesta alle Forze Armate che stanno formando e addestrando le proprie forze militari come soldati di pace13.Le missioni di sostegno alla pace sono dunque cosa diversa rispetto al fenomeno bellico poiché manca l'elemento della “azione armata” diretta. Solo quando gli eventi negli scenari operativi lo dovessero richiedere alle Forze Armate sarà dato ordine di applicare l'azione armata e solo in questo caso si potrà parlare di conflitto bellico. La definizione di guerra tradizionalmente proposta porta implicitamente altre peculiarità, come l’individuazione territoriale del nemico. Quando questa peculiarità manca, come spesso accade nei conflitti moderni, allora si rientra in un nuovo concetto di guerra, detta “asimmetrica”, e in una nuova tipologia di conflitto, quello contro il terrorismo.

13 Cfr.: Catia Eliana Gentilucci, Soldati di pace in scenari operativi, CeMiSS, dicembre 2008, Assisi.

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4. La guerra asimmetricaSe fino all'11 Settembre, con la Guerra Fredda, ci si era illusi che si potesse vincere una guerra a tavolino, studiando le mosse dell'avversario e agendo in contrattacco, dopo questa data il mondo si è reso conto che si stava aprendo una nuova era; che ciò che era prima non sarebbe più stato, che i tempi si erano orami maturati per innescare un nuovo assetto che doveva essere definito con nuovi “giochi di potere”.Sullo scacchiere internazionale le strategie sono cambiate ed è stato necessario considerare anche un nuovo elemento: l'imprevedibilità del comportamento irrazionale (definito terroristico14) per i canoni comportamentali fino allora considerati. Ma la storia ci aveva già dato esempio che ciò potesse accadere. Pragmaticamente Benedetto Croce scriveva nel 1945: Il mondo (non si dice qui niente di nuovo, ma pur si dice cosa che sembra piaccia, a volte, di dimenticare) è diversità ed è contrasto ed è guerra. Nel misurare le diversità di ciascun contendente e i modi con cui si esercita il contrasto è possibile attribuire a un conflitto valori teorici di simmetria o di asimmetria. La diversità, rispetto ai nostri canoni di comportamento, del modo di agire (strategia) del nemico diventa per noi imprevedibilità, incertezza e pone le basi di un conflitto asimmetrico. Ma ciò che noi identifichiamo come diversità è in realtà “non conoscenza” del modus operandi dell'avversario che fonda le sue strategie di comportamento su percorsi mentali legati alla sua cultura e alle sue tradizioni.

14 Il terrorista in grado di colpire obiettivi di portata internazionale non è identificabile territorialmente, è sovra-nazionale ed è una entità che agisce in modo subdolo e imprevisto.

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Attraverso la conoscenza dell'avversario, pertanto, si potranno rendere meno imprevedibili le sue reazioni al nostro comportamento. Anche da ciò sorge la necessità di formare in i soldati, che andranno negli scenari conflittuali, in modo che abbiano un bagaglio di conoscenze ampio in senso tecnico e culturale-antropologico, che permetta loro di avere gli strumenti per capire le “diversità” comportamentali e poter anticipare le mosse strategiche dell'avversario. Sono un esempio abbastanza remoto di conflitto simmetrico le guerre di successione combattute dagli Stati europei nel XVIII secolo. Gli strumenti militari si avviavano in quell'epoca verso una omologazione di capacità e strutture per l'uso ormai generalizzato ed efficace delle armi da fuoco e per la nascita dei reggimenti, struttura che rendeva possibile un effettivo controllo degli eserciti moderni. Le monarchie continentali, pur nella transizione dalla forma assoluta a quella illuminata, impiegavano gli strumenti militari unicamente per affermare o ampliare la propria egemonia. Alla fine del secolo queste guerre, risolte generalmente con parziali modifiche dell'assetto territoriale degli stati e l'assegnazione del trono conteso al pretendente sostenuto dalla coalizione vincitrice, vengono bruscamente interrotte dalla rivoluzione francese. Si può dunque pensare che i conflitti simmetrici siano tipici di una situazione matura, ultimo stadio di un periodo storico o di un sistema sociopolitico prima della sua fine o della sua trasformazione. Analoga conclusione suggerisce un caso singolare e più vicino nel tempo, la guerra fredda, in cui si era arrivati al parossismo della simmetria con la Mutual Assured Distruction (MAD), distruzione reciproca assicurata. Anche qui il confronto si era sviluppato nella maturità della società industriale, per la quale

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era centrale il potere dello Stato, fosse esso democrazia o dittatura. Le due guerre mondiali del XX secolo, anch'esse di tipo simmetrico, sono state in definitiva il prodotto di questa centralità, considerata valore assoluto da affermare anche attraverso conflitti di proporzioni inaudite. Le strutture militari - se tali si possono chiamare - dei barbari che premono alle porte dell'impero romano non reggono il confronto con le legioni, ma Roma cade. I conquistadores spagnoli sono invece protagonisti di una migrazione in senso opposto a quella dei barbari, quella di una società più evoluta che ne cancella una meno evoluta, con una asimmetria nell'impiego della forza ancora più evidente. In realtà, quei contrasti e quelle diversità, oltre alle guerre, di cui parlava Benedetto Croce sono solo la ricerca di una nuova fase di simmetria o linearità che subentra alla precedente dopo le migrazioni e le rivoluzioni proprie del naturale divenire della storia. La rivoluzione francese e Napoleone sono un esempio del rinnovarsi della linearità e dunque del suo prevalere dopo i più grandi sconvolgimenti. Napoleone eredita dalla rivoluzione una situazione di assoluta asimmetria di cui si serve per azzerare gli equilibri europei. La forza della sua Grande Armée - la fede quasi religiosa dei suoi soldati - era qualcosa di assolutamente estraneo agli altri eserciti che si muovevano ancora con lo spirito del XVIII secolo. Quando Napoleone cade tutto sembra tornare come prima e le asimmetrie vengono all'apparenza riequilibrate secondo i vecchi schemi. In realtà, con la presa di coscienza delle nuove identità nazionali europee erano nati canoni nuovi e diversi di linearità destinati a costituire premessa alla centralità dello Stato del XX secolo.

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Oggi che l'occidente è nella sua fase matura e ha già condotto le sue guerre simmetriche, si sta ripresentando una forma di migrazione analoga a quella subita dall'impero romano. Il terrorismo internazionale è solo uno dei fenomeni, anche se il più preoccupante, di questa migrazione e i suoi strumenti danno l'esatta misura della asimmetria di un conflitto che a parole tutti hanno dichiarato. L'occidente però subisce anche lo svantaggio di contraddizioni interne che hanno radici lontane. Quando von Clausewitz ha detto che "dobbiamo pensare alla guerra come a uno strumento politico" ha sancito un rapporto di subordinazione che paradossalmente apre la strada al pensiero dei moderni pacifisti. La politica, infatti, dispone oggi di tali e tanti strumenti per cui potrebbe essere in grado di risolvere qualsiasi tipo di controversia, cancellando il bisogno di ricorrere alla guerra. Il pensiero di von Clausewitz tuttavia era simmetrico e applicabile a una realtà lineare, come quella del suo tempo, ma ora non può funzionare, perché non c'è più un prima o un dopo in cui collocare politica e guerra. Dotato delle più avanzate strutture statali e sovranazionali, il vecchio mondo continua a mantenere strumenti militari imponenti - e sarebbe da sprovveduti farne a meno - ma al tempo stesso pretende la pace. Ma ora che stiamo definendo il nuovo assetto internazionale è necessario comprendere come poter far fronte alle nuove minacce e come poterle prevedere per contrastarle.La guerra diventa non più gioco degli scacchi, il cui esito viene deciso dalla scaltrezza degli avversari nell'applicare regole definite e conosciute da entrambi, ma un gioco di astuzia in cui non ci sono regole di comportamento definite e da entrambi condivise.

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Sembra che in questo momento tutto debba giocare contro l'occidente impregnato di pensiero lineare e cartesiano (causa ed effetto, analisi e sintesi) e impreparato all'asimmetria del conflitto planetario. Ma la cultura non lineare dell'asimmetria è fine a sé stessa, è senza tempo e vive esclusivamente nel presente. La mancanza di una visione storica genera discontinuità, incapacità di sedimentare le esperienze, quindi sostanzialmente è non cultura e incapacità di guardare al futuro in maniera costruttiva. Ci sono dunque buone ragioni per credere che la civiltà occidentale, se rimarrà lineare e cartesiana, finirà per prevalere seppure in tempi lunghi rinnovandosi come ha sempre continuato a fare senza rinnegare sé stessa.Diventa necessario ragionare su nuovi orizzonti tattici nei quali la minaccia acquisisce un peso più rilevante della deterrenza (che è stata invece rilevante nel periodo della Guerra Fredda) e diventa necessario porre nuove norme internazionali (un nuovo codice militare) che regolino i nuovi scenari.Nel Terzo Millennio, con il cambiamento al vertice della presidenza americana con Barak Obama anche la sinistra occidentale non considera più la guerra afghana come una guerra dettata dall'egoismo imperialista degli Stati Uniti. In questo nuovo quadro per la sinistra l'uso della forza per missioni di pace o missioni umanitarie non è più un tabù, tanto è vero che le missioni in Kossovo nel '99 e in Libano nel 2006 sono state decise da governi di centrosinistra15.

15 Il progetto dell’attuale Ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che vorrebbe rivedere i codici militari non crea polemiche e trova il consenso anche del responsabile della Difesa del Partito Democratico, secondo il quale quei codici sono ormai superati, nonostante le modifiche, e risalenti al 1941.

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5. Tra la Guerra Fredda e l’11 SettembreCon la fine della Guerra Fredda sono saltati gli equilibri internazionali perchè è venuta meno una minaccia che fungeva da collante delle alleanze territoriali. Durante tale periodo anche lo sviluppo economico era, per così dire, regolato dagli interessi economici e politici dei due blocchi territoriali. Con la conclusione della deterrenza USA-URSS sono saltati gli equilibri internazionali ed ogni nazione ha cercato di acquisire quote di mercato sempre più importanti; le multinazionali sono diventate potenze più forti degli stessi Stati, l'economia è diventata il primo obiettivo di una politica internazionale instabile...Poi l'11 Settembre! Ma tra la fine della Guerra Fredda e l'11 Settembre che cosa è successo realmente? Qual è stata la causa scatenante della minaccia terroristica? Alcuni studiosi sostengono che l’11 Settembre sia stata una invenzione americana perchè doveva giustificare una guerra coloniale camuffata dal bisogno di esportare democrazia o per puntare il dito verso la minaccia terroristica orientale, che il resto del mondo non voleva vedere? Secondo lo studioso Fabio Indeo16: “Dopo il crollo del muro e la vittoria della Guerra Fredda, per alcuni anni gli Stati Uniti hanno cercato di beneficiare di questa rendita di posizione, in quanto lo status di superpotenza era inattaccabile e mondiale. Hanno puntato soprattutto sullo sviluppo e sul sostegno delle compagnie statunitensi e transnazionali operanti all’estero: sintomatico ad esempio è quanto avvenuto in Caucaso (Azerbaijan) e Asia centrale (Kazakistan), dove le compagnie energetiche americane rappresentavano il braccio della loro politica estera,

16 Fabio Indeo, ricercatore e studioso di Geopolitica presso l’Università degli Studi di Camerino.

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in quanto godevano del pieno appoggio e sostegno dell’ Amministrazione USA. Questa situazione rafforza il concetto della neo-geopolitica, ovverosia una geopolitica nella quale gli attori non sono soltanto statali ma anche non statali come compagnie transnazionali, multinazionali, gruppi militanti politici e religiosi, organizzazioni internazionali ecc.La minaccia terroristica e l’odio contro gli Stati Uniti si è rafforzato e si è propagato tra la fine della Guerra Fredda e l’11 Settembre, anche a causa di questo disimpegno politico statunitense. In Afghanistan, gli USA hanno fornito per anni sostegno economico e militare ai mujaeddin afgani nella lotta contro l’invasione sovietica: per perseguire questo fine, la radicalizzazione religiosa-ideologica dei militanti afgani e non (i militanti affluivano da ogni parte del mondo islamico) e la concezione di Jihad (guerra santa), intesa come liberazione dall’invasione sovietica, erano strumentali al raggiungimento dell’obiettivo. Tuttavia, dopo il ritiro sovietico dall’Afganistan e il crollo dell’URSS, gli USA hanno lasciato questa regione al proprio destino, senza contribuire alla ricostruzione politica ed economica di una nazione e lasciando migliaia di militanti invasati ed armati senza un fine da perseguire. L’anarchia politica e la guerra civile cessarono con l’avvento dei talebani, la cui visione radicale dell’Islam si era sviluppata in quelle scuole-madrase finanziate anche dagli USA per combattere il nemico sovietico. A questi si salderà successivamente Al Qaeda e la componente araba proveniente dall’esterno (Bin Laden, Zawahiri, ecc.). Da tener presente che i tanto vituperati talebani sono stati interlocutori politici degli Stati Uniti nella prospettiva di costruzione del gasdotto TAP, dai giacimenti

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turkmeni al Pakistan passando per l’Afghanistan, in quanto essi potevano contribuire alla stabilizzazione territoriale afgana – necessaria per la realizzazione del progetto – dopo gli anni della guerra civile. A questo punto, si saldano in una miscela esplosiva: l’odio degli islamici radicali per la presenza militare USA nelle basi dell’Arabia Saudita a seguito della prima guerra del golfo, per il sostegno americano ad Israele e la mancata soluzione del problema palestinese; l’odio delle popolazioni, in quanto gli USA avevano abbandonato l’Afghanistan senza contribuire allo sviluppo e lasciandolo in una situazione di anarchia e guerra civile, sottoposti alle vessazioni dei signori della guerra. Inoltre, l’odio contro gli Stati Uniti derivava dal fatto che questi appoggiavano politicamente, economicamente e militarmente i regimi al potere autoritari, repressivi, corrotti: in una situazione di povertà diffusa, senza prospettive occupazionali, senza possibilità di rappresentatività politica, senza garanzie educative e sanitarie, si diffondeva l’astio verso gli USA anche negli strati laici, urbanizzati ed istruiti della popolazione. Gli esempi più significativi sono quelli di Pakistan ed Egitto. Nel caso del Pakistan-Afghanistan, gli interessi e le strategie geopolitiche perseguite dalla dittatura militare pakistana e dai servizi segreti hanno permesso il proliferare e il rafforzamento dei taliban, dell’insegnamento dell’ideologia islamico-radicale e dei campi di addestramento di militanti armati chiamati a compiere azioni di terrorismo. Alla fine degli anni ‘90, la miscela esplosiva era destinata ad esplodere; si era innescata una tale situazione che può essere interpretata in vari modi: l’inerzia politica americana, volontaria o meno, e la sottovalutazione della minaccia hanno portato all’11 Settembre.

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Tuttavia questo è stato anche il casus belli del quale si sono serviti i neoconservatori americani per attuare l’irrazionale strategia della guerra preventiva e dell’esportazione della democrazia. Infine, il limitato contributo americano nella ricostruzione dell’Afghanistan durante la prima fase (2001-2004), il sostegno al regime militare di Musharraf in Pakistan, il mancato smantellamento della rete del terrorismo internazionale sono fattori destinati a radicalizzare ulteriormente l’odio della popolazione contro un esercito americano percepito come occupante, contro dei valori occidentali percepiti come estranei alla loro cultura, contro una nazione che non ha contribuito a migliorare il loro standard di vita e che continua a sostenere politicamente, economicamente e militarmente i regimi dittatoriali che perpetuano la loro condizione di povertà17.

6. Minacce futureLe guerre irregolari o asimmetriche o “small wars” sono la minaccia del nuovo secolo. Tutto quel celebre “arco di instabilità” che corre dai Balcani e arriva all’estremo oriente è davanti a noi con sfide infinite che mettono a dura prova le capacità di combattimento, la strategia e i mezzi dei paesi occidentali, in primo luogo ovviamente di Stati Uniti e Israele. Il generale dei Marines Janes Mattis, ufficiale con 35 anni di esperienza che ha combattuto in Afghanistan e in Iraq ha sostenuto, in una dichiarazione riportata dall’American Press Service del 2008, che gli Stati Uniti, nonostante la loro superiorità nucleare e convenzionale, ancora non hanno niente da insegnare nelle guerre irregolari. Considerazione

17 Cfr. Ahmed Rashid, Caos Asia, Feltrinelli, 2008.

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dolorosa che ha aperto una riflessione dura sia all’interno delle forze armate americane e di quelle occidentali. La questione che divide è una sola, come devono rispondere gli eserciti a questa sfida? Riducendo le forze tradizionali e aumentando quelle per affrontare le guerre irregolari oppure la sfida attuale è solo temporanea e il pericolo maggiore è sempre costituito dalle potenze che possono mettere in discussione l’esistenza del paese? O, ancora, cercando una nuova strada?E’ da tempo che negli Stati Uniti si discute di questo problema, da quando il dibattito è stato agitato da ufficiali, anche reduci dall’Iraq, critici dell’impiego di forze tradizionali, artiglieria carristi, in usi di contro insorgenza, sempre più preoccupati dalla perdita di preparazione specifica da parte di quelle truppe. Anche la Commissione Winograd, costituita in Israele per analizzare la crisi delle forze armate di quel paese durante la guerra con gli Hezbollah nel 2006, era arrivata a conclusioni analoghe: uno dei motivi del deficit di combattimento era da ricercarsi proprio nell’uso improprio dei soldati che per anni, durante sia la prima che la seconda Intifada, erano stati usati più come forze di polizia che come esercito.Anche in Italia è noto il dibattito tra il Gen. Leonardo Tricarico e il Ministro della Difesa sulla conduzione delle operazioni in Afghanistan. Per il Generale della Aeronautica è necessario aumentare la difesa dei soldati italiani, ma non attraverso i mezzi indicati dal Ministero della Difesa (in particolare utilizzando i Tornado armati con dei cannoncini che secondo il Gen. Tricarico potrebbero provocare vittime civili poiché sono mitragliette a bassa precisione) ma o utilizzando bombe di alta precisione nelle zone poco urbanizzate o utilizzando i Predator Apr che sono aeromobili a pilotaggio remoto.

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Il problema di fondo è che in Afghanistan si sta combattendo non una guerra ma “la guerra asimmetrica” che è uscita dal controllo degli americano e dell’assetto militare della NATO. Infatti, il Ministro della Difesa italiano, come quelli degli Stati Occidentali, coinvolti nello scenario asiatico imprevedibile e insidioso, si stanno interrogando sul come e se redigere nuove norme di comportamento militare rispettando comunque l’obiettivo primario di istituire e portare le condizioni per la pace.Sostanzialmente il mondo occidentale si sta rendendo conto che la natura della guerra non è cambiata; ogni combattente si trova ad adattare strategie, tattiche e metodi di combattimento sulle modalità d’azione e sulle forze del nemico; ma è cambiata la risposta che bisogna dare al nemico: “improvvisare”. Ma se si vuole che l’improvvisazione segua una sua conduzione logica per raggiungere l’obiettivo della stabilizzazione della situazione politica, economica e sociale di quei luoghi è necessaria una specifica preparazione strategica e decisionale che necessariamente dovrà dare una maggiore elasticità tecnica e mentale agli ufficiali delle forze armate. In questo ambito la preparazione di nuove professionalità interagenti tra il contesto militare e quello civili (i reparti interforze18) assumono un ruolo preponderante.18 Il COI (Comando Operativo Interforze) è nato come effetto della legge n.

25 del 18 febbraio 1997 di ristrutturazione dei vertici delle Forze Armate che pone il Capo di Stato Maggiore della Difesa in posizione sovraordinata rispetto ai Capi di Stato Maggiore delle Forze Armate. Il COI concorre alla Pianificazione Generale della Difesa, sviluppa la dottrina operativa, effettua la pianificazione operativa e dirige le operazioni ed esercitazioni interforze. Sviluppa le metodologie per la simulazione degli scenari strategici ed operativi, analizza le attività traendone ammaestramenti ed elaborando correttivi. Fornisce il contributo alla elaborazione della dottrina NATO e di altre Organizzazioni Internazionali (cfr.: www.difesa.it).

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Solo ufficiali preparati alla interazione tra diversi comparti e ambiti hanno gli strumenti per prendere decisioni che rispondano alle esigenze della guerra asimmetrica.Ogni guerra, e in modo particolare ogni guerra asimmetrica, è diversa dall’altra e quindi improvvisare significa anticipare, conoscere per prepararsi ad agire “prima”, per riprendersi l’iniziativa. Oggi i conflitti moderni non si svolgono solo sul campo di battaglia, sfide e minacce non sono solo strettamente militari. C’è bisogno di un nuovo concetto di sicurezza che trascenda i limiti ristretti delle vecchie dottrine strategiche; un nuovo concetto di sicurezza allargata che sappia far fronte alla molteplicità dei mezzi sia militari che altri, che possono essere usati simultaneamente e non19. Se certamente non è finita la vecchia dicotomia tra grandi conflitti convenzionali e piccole guerre irregolari, bisogna riconoscere la complessità dei tempi. Non solo Al Qaida, attore non statale e per di più di matrice religiosa, ha sferrato un’ attacco globale, ma la stessa guerra israelo-palestinese sta assumendo tratti confusi e spesso sembra una guerra combattuta per procura dove minacce con armi tradizionali, missili e nucleare, si accompagnano al terrorismo e all’uso cinico dei media, delle ONG per i diritti umani, della diplomazia che riescono a far breccia tra i nemici, a dividere il fronte avverso tra duri e i paesi a favore delle trattative. Questa è la nuova sfida per l’occidente. Come riuscire a costruire un esercito in grado di combattere tipi diversi di guerra? Come coordinare il lavoro della NATO, della UE e del Pentagono, spesso in conflitto tra loro come ai tempi dell’Iraq? Come riuscire a gestire un conflitto come qualcosa di più

19 Cfr.: Catia Eliana Gentilucci (a cura di), Le forme multifunzionali della sicurezza globale, CeMiSS, 2008, Roma.

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complicato del “vincere una guerra”, poiché comprende anche una serie di azioni che arrivano dallo scontro fino alla pacificazione e alla ricostruzione del paese?

7. Credibilità delle minacceI conflitti asimmetrici hanno dato maggiore rilevanza al comportamento strategico tenuto dagli avversari. La credibilità delle minacce assume, quindi, una evidente importanza per il raggiungimento degli obiettivi sperati.Vi sono almeno alcuni fattori che danno credibilità alla minaccia: crearsi e usare una certa reputazione; redigere contratti; interrompere le comunicazioni; bruciare i ponti dietro di sè; muoversi a piccoli passi; sviluppare credibilità mediante il lavoro di gruppo; incaricare un agente di concludere le trattative.a. ReputazioneSe si attua una mossa strategica in un gioco e poi ci si ritira si rischia di perdere la reputazione in fatto di credibilità. Nelle situazioni che si verificano una sola volta nella vita difendere la propria reputazione può essere poco importante. Ma se si agisce in contesti diversi e con avversari diversi la credibilità delle azioni strategiche attuate assume un ruolo primario. Durante la crisi di Berlino, nel 1961, J. F. Kennedy spiegò l'importanza della reputazione degli Stati Uniti: “Se non rispettiamo i nostri impegni nei confronti di Berlino, dove andremo a finire? Se in questo frangente non prestiamo fede alle nostre parole, tutto quello che abbiamo raggiunto sul piano della sicurezza collettiva, basato proprio su queste parole, non avrà più alcun senso”20.

20 Cfr.: A.A. Dixit – B. Naleluff, Io vinco tu perdi. Strategie di successo nel business e nella vita, Ed. Il Sole 24 Ore, 2004.

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Un altro esempio è costituito dalla politica risoluta di Israele di non trattare con i terroristi. Si tratta di una minaccia tesa a dissuadere i terroristi dal prendere ostaggi da liberare in cambio di un riscatto o del rilascio dei prigionieri. Se la minaccia di non trattare è credibile, i terroristi dovranno riconoscere la futilità delle loro azioni. Se, invece, Israele cede non significa solo salvare la vita agli ostaggi ma riconoscere la propria debolezza di fronte alle minacce terroristiche.Ma il disconoscere la credibilità delle promesse fatte in fase di trattativa è un'arma a doppio taglio, che può rendere ancora più forte la parte minacciata. Ad esempio: viene dirottato un aereo. Seppur il Governo aveva dichiarato che non sarebbe mai sceso a trattative con i terroristi questi sanno che il Governo messo alle strette di fronte alla opinione pubblica dovrà necessariamente trattare. In questo caso il Governo potrebbe, però, perdere la propria credibilità di fronte ai terroristi; una soluzione potrebbe essere quella di non mantenere le promesse fatte ai terroristi e di ucciderli non appena gli ostaggi saranno liberati. Questa soluzione rende ancor più credibile la minaccia a non negoziare dichiarata dal Governo. Vi è, inoltre, un fattore che si deve considerare per avere una buona reputazione: il senso dell'orgoglio. T. Hobbes scrive che i deboli legami tra le parole possono essere rafforzati in due modi: con la paura delle conseguenze derivanti dal non mantenere la parola data o dalla sensazione di orgoglio che si ha nel mantenerla. L'orgoglio è instillato in noi dalla educazione acquisita o dal condizionamento sociale; e può diventare un obiettivo di vita perchè ci permette di essere credibili nelle nostre relazioni sociali. Ma anche in questo caso vi è il rovescio della medaglia: una persona con alto senso dell'orgoglio è affidabile (prevedibile)

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nei suoi comportamenti e se minaccia una certa reazione sicuramente la attuerà non appena si creano le condizioni; ma anche una persona senza senso dell'orgoglio ha una sua valenza nelle strategie comportamentali. Un uomo che non mantiene la parola data, che è folle (imprevedibile e irrazionale) se minaccia di attuare una azione folle viene creduto. Così l'irrazionalità o la follia assumono un rilevante peso strategico. I terroristi hanno percepito questo principio e hanno messo sotto scacco la razionalità dei Paesi Occidentali che deriva da una strutturata base culturale e storica. Questo è uno dei motivi per cui è importante agire a livello sociale, agendo sulla formazione e portando alternative alla violenza e al vuoto legislativo, nei paesi fucina del terrorismo internazionale. b. Contratti. Un modo per rendere credibile un impegno è di accettare la punizione conseguente al sua defezione. L'approccio contrattuale non è efficace da sé, è necessario che vi sia, da parte di almeno uno dei firmatari del contratto, l'effettivo interesse a far rispettare il contratto. La penale applicata deve essere così grave da far preferire al contraente di rispettare l'accordo preso. La morale è che i contratti da soli non eliminano il problema della credibilità. Per raggiungere lo scopo è necessario qualche elemento di credibilità in più, come l'impiego di persone che hanno un interesse proprio a far rispettare il contratto o con una reputazione da difendere. Di fatto se l'effetto reputazione è abbastanza forte, può non essere necessario formalizzare il contratto.c. Interrompere la comunicazione. Un modo per rendere un impegno credibile è di rendere irreversibile l'azione effettuata, come ad esempio quello di “bruciare i ponti dietro di sè”. Gli eserciti mantengono

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l'impegno dell'attacco negandosi la possibilità di retrocedere. Questa strategia sembra risalire al 1066 quando l'esercito invasore di Guglielmo il Conquistatore bruciò le proprie navi per poter combattere in maniera incondizionata. Cortes adottò la stessa strategia nella conquista del Messico. Sebbene fossero i suoi soldati di gran lunga numericamente inferiori essi non ebbero che una scelta o combattere o morire. Ciò portò la ritirata dell'esercito nemico per due motivi: l'unione dei soldati che sapevano di non poter disertare e che l'unica possibilità di salvezza era combattere; l'effetto sul nemico che sapeva che l'esercito di Cortes sarebbe stato agguerrito mentre egli aveva l'alternativa di ritirarsi. Affinchè questo tipo di impegno abbia l'effetto sperato deve essere capito dai soldati che devono impegnarsi in modo risoluto per vincere.d. Lasciare il risultato al di là del proprio controllo. Pensiamo a dei missili a testata nucleare controllati da una potenza militare “A” al cui comando esplodendo emettono una tale radioattività da eliminare qualunque forma di vita sulla terra. La credibilità della minaccia, che il mondo verrà distrutto se si realizzerà un attacco contro la potenza “A” dipende dalla valutazione di quanto sia possibile che A abbia la risolutezza di innescare gli ordigni nucleari distruggendo anche se stessa. Se la risposta a un attacco non dipendesse dalla volontà di “A” ma avvenisse automaticamente, non appena sferrato l'attacco, è chiaro che il marchingegno nucleare avrebbe una forza deterrente assoluta. Tuttavia questo vantaggio strategico comporta un costo molto alto: un incidente o un attacco non autorizzato potrebbe distruggere il mondo. Per ridurre i costi della deterrenza assoluta, la minaccia non dovrebbe essere più forte di quanto è necessario per dissuadere l'avversario (ad esempio la distruzione di una parte del territorio dell'attaccante); ma può capitare, come nel caso

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dell'esplosione di un ordigno nucleare, che le conseguenze non siano controllabili (o divisibili). Per addolcire la minaccia, in questo caso, bisognerà sostituire la certezza che l'esplosione si verifichi con il rischio che questo accada. Ciò rientra nella “politica del rischio calcolato”. Thomas Schelling in The Strategy of Conflict scrive: “La politica del rischio calcolato è la volontaria creazione di un rischio visibile che uno non riesce a controllare completamente. E' la tattica di lasciarsi volontariamente sfuggire un pò di mano la situazione, solo perchè essendo sfuggita di mano può essere intollerabile per l'avversario che verrà spinto ad un accordo. Significa infastidire e intimidire l'avversario esponendolo ad un rischio comune o dissuadendolo con la certezza che se compie una mossa sbagliata rischia di disturbarci al punto che, volenti o nolenti scivoliamo nel baratro trascinandolo con noi”. L'uso di questa strategia costituiva la base della politica di deterrenza nucleare americana. Durante la Guerra Fredda gli Stati Uniti non hanno avuto bisogno di garantire una rappresaglia nucleare in caso di invasione dell'Europa da parte dei sovietici. Perfino una piccola probabilità che scoppiasse la guerra nucleare era sufficiente a frenare l'Unione Sovietica. I russi potevano anche non credere che gli americani avrebbero risposto, ma non potevano escludere con certezza che non lo avrebbero fatto. Vi è solo una probabilità che si verifica la minaccia e la credibilità deve essere acquisita non per la totale azione minacciata, ma solo per la sua probabilità (in caso di attacco dei russi gli americani avrebbero potuto rispondere con una azione anche solo dimostrativa, ma questo i russi non lo potevano sapere con certezza e rimaneva la possibilità che un attacco da parte della Russia scatenasse una escalation incontrollabile). e. Muoversi a piccoli passi.

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La minaccia viene smembrata in piccole parti ognuna delle quali viene risolta separatamente come in una spirale in cui ogni giro rappresenta la chiusura di una parte della minaccia prospettata. Ad esempio, se una coalizione internazionale promette di fare un embargo di beni di prima necessità ad un Paese che esporta in dumping21 i suoi prodotti, minacciando la stabilità del commercio internazionale, il Paese interessato può considerare non proprio credibile l'embargo e tenta “a piccoli passi” di verificare la veridicità della minaccia. Come nel caso del rischio calcolato, anche muoversi a piccoli passi riduce la portata della minaccia e in ugual misura anche l'entità dell'impegno. C'è soltanto un aspetto a cui fare attenzione. Coloro che capiscono il pensiero strategico andranno avanti fino al passo che li comporterà uno svantaggio maggiore del vantaggio acquisito fino a quel momento. Nel nostro esempio, il paese continuerà a esportare in dumping, anche se la coalizione internazionale avrà nel frattempo applicato in piccole dosi dimostrative l'embargo, fino a che il vantaggio acquisito con l'esportazione è maggiore o uguale ai costi sociali dell'embargo. La chance che rimane al paese esportatore è di fare in modo che il vantaggio all'esportazione risulti per più tempo possibile alto, dovrà in sostanza fare in modo che il passo conclusivo arrivi il più tardi possibile.

21 Con il termine dumping si indica, nell'ambito del diritto internazionale (ma il concetto deriva dalla dottrina economica), una procedura di vendita di un bene o di un servizio su di un mercato estero (mercato di importazione) ad un prezzo inferiore a quello di vendita (o, addirittura, a quello di produzione) del medesimo prodotto sul mercato di origine (mercato di esportazione). Le vendite in dumping sono state disciplinate dalle norme internazionali antidumping (in particolare nell'ambito del General Agreement on Tariffs and Trade – GATT) in quanto capaci di determinare perturbazioni anche importanti sul mercato di importazione e di attribuire un vantaggio di base all'impresa importatrice nei confronti degli altri soggetti (produttori o esportatori) che operano nel mercato di importazione per lo stesso bene o servizio.

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f. Lavoro di gruppo. Spesso gli altri possono aiutare a mantenere impegni credibili che richiedono tattiche forti difficilmente sostenibili in modo individuale. Analizziamo il problema della prima linea di un esercito che sta avanzando. Se tutti vanno avanti un soldato che rallenta anche di poco aumenta le proprie probabilità di sopravvivenza senza diminuire in modo significativo la possibilità che l'attacco vada a buon fine. Tuttavia se tutti i soldati la pensano allo stesso modo, l'attacco diventa una ritirata. Ciò non accade perchè un soldato è condizionato dalla fedeltà al proprio paese, dalla lealtà verso i suoi compagni, da un codice di onore che lo lega alle sorti del gruppo di cui fa parte. L'esercito della Antica Roma considerava il fatto di rimanere indietro durante un attacco un offesa capitale. Mentre un esercito avanzava qualunque soldato che avrebbe visto il vicino disertare lo doveva uccidere, pena la sua stessa morte. Allo stesso modo il diritto penale prevede punizioni per coloro che non denunciano un reato rendendosi colpevoli di favoreggiamento. g. Agenti incaricati di condurre le trattative. Se un operaio chiede un aumento salariale del 5%, per quale motivo il datore di lavoro non dovrebbe credere che offrendogli il 3%, in denaro contanti, questi non lo accetti? Se, invece, la trattativa viene fatta da un rappresentate sindacale l'operaio avrà più probabilità di ottenere il 5% di aumento. Allo stesso modo nelle attività diplomatiche tra due paesi è più credibile il raggiungimento di un accordo se la trattativa viene effettuata da una istituzione internazionale terza. Questa nel portare a buon fine l'accordo tra i due paesi terrà in considerazione obiettivi di più lungo periodo e i loro effetti nello scacchiere internazionale, pertanto la risolutezza della sua posizione durante la trattativa è credibile.

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CAPITOLO 8 Istituire sicurezza e stabilità globale

1. La pace è…Secondo un dizionario italiano la Pace è: [in senso oggettivo] condizione di uno Stato che ha buone relazioni con altro o altri; concordia sociale; buon accordo tra singoli individui. [In senso soggettivo] stato d'animo di chi non è turbato da passioni o ansie; tranquillità materiale.La pace è quella condizione oggettiva che ci trasmette un senso di serenità e di tranquillità interiore. E’ in sostanza quella situazione di vita in cui l’uomo non percepisce paura, incertezza, insicurezza, ansia, preoccupazioni e tutti quegli stati di animo che ci coinvolgono negativamente. Stati d’animo che si percepiscono in una condizione oggettiva di conflitto, guerra, contrasto, inimicizia.Al di là delle sensazioni emotive dell’uomo, la pace si concilia molto bene con il concetto di sicurezza e di stabilità sia a livello individuale, sia a livello collettivo.La sicurezza è uno dei beni più importanti per una nazione che voglia progredire e aumentare il suo livello di benessere economico. La sicurezza, infatti è: quella situazione che permette il normale svolgimento delle relazioni economiche, politiche e sociali e che permette il normale svolgimento della vita democratica22.In questo quadro le “politiche di sicurezza” rappresentano tutti quegli interventi di politica interna e di politica internazionale che permettono l’instaurarsi di una situazione di sviluppo sociale e di crescita economica. Tra queste azioni si

22 Cfr.: C.E. Gentilucci, Le forme multifunzionali della sicurezza globale, Ce.Mi.SS, 2008, Roma.

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inseriscono quelle volte alla difesa nazionale, alla deterrenza e alla prevenzione. Sia che si parli di pace interna, con riferimento al mondo morale, che di pace esterna, per pace nel suo significato generale, si intende banalmente assenza di un conflitto. I due concetti sono profondamente connessi tra loro dal momento che la pace esterna dipende da quella interiore, che ne é la condizione necessaria e sufficiente. Se la guerra viene sempre definita per mezzo di caratteristiche proprie, il concetto di pace è più facilmente comprensibile in rapporto alla guerra, come non-guerra. Sempre rimanendo nel campo tecnico e giuridico, il concetto di pace può essere negativo se intesa come non-guerra, positivo se la pace viene vista come uno stato specifico che si forma in seguito a un accordo tra due Stati. In questo caso essa é la conclusione di una guerra, ma anche la formazione di uno Sta-to stabile giuridicamente regolato. Questa definizione tecnica va distinta da quella teologico-filo-sofica che intende la pace unita alla giustizia, "opus iustitiae, pax", stabilendo come essa dovrebbe essere per essere con-siderata un bene assoluto. In questa ottica la pace é sempre giusta, mentre in quella tecnica non vi é distinzione tra pace giusta e ingiusta. Secondo Johan Galtung, l'esponente più noto del movimento dei "peace researchers", la pace negativa consiste nell'assen-za di violenza personale, quella positiva, essendo l'assenza della violenza esercitata dalle istituzioni sui cittadini, coincide con la giustizia sociale, l'uguale distribuzione delle ricchezze e l'abbattimento dello sfruttamento capitalistico. A questa tesi Bobbio risponde che non si può dare al concetto di pace significati che storicamente non gli appartengono quali

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quello di libertà e giustizia sociale, contrariamente a quanto continuano a fare molti dei peace researchers più radicali. La filosofia politica di Hobbes, considerando lo stato di natura come un "bellum omnium contra omnes" e lo stato civile come il raggiungimento della pace, ha sempre contrapposto lo stato di natura allo stato civile, la guerra e la pace come un male e un bene assoluti. Questa concezione é tra l'altro tornata attuale con le due guer-re mondiali dopo le quali si é rivista la guerra come un male assoluto e la pace come un bene assoluto. Tra coloro che, nel corso del pensiero politico, non hanno seguito il modello hob-besiano, alcuni hanno considerato la possibilità che vi siano guerre giuste come paci ingiuste, altri li hanno intesi come va-lori relativi, in relazione al loro fine che può essere buono o cattivo. Per molti di questi filosofi, storici e giuristi, la guerra di difesa, quella rivoluzionaria contro un regime oppressivo o quella di li-berazione nazionale sono da considerarsi giuste in contrappo-sizione a quelle imperialistiche. Pur tenendo conto di queste giustificazioni ci sono quelli, di cui condivido pienamente il pa-rere, che non ritengono che si possa parlare in alcun caso di una guerra giusta dal momento in cui si include nel termine di giustizia anche la non violenza.A questo proposito la guerra rivoluzionaria o di liberazione possono essere incluse tra le guerre di difesa che possono es-sere, e quasi sempre sono, legittime e necessarie ma ciò non vuol dire che esse siano giuste.Inoltre, la pace, militarmente intesa come un trattato che pone fine a un conflitto, possa essere ingiusta dal momento che pre-vede quasi sempre un castigo. Tuttavia se si considera la pace e la guerra come concetti relativi, é difficile stabilire

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quando siano giuste o ingiuste poiché manca quel "giudice im-parziale al di sopra delle parti nell'ordine internazionale".Introducendo il concetto di pacifismo Bobbio lo definisce come quello che considera il fine dell'uomo e bene desiderabile, una pace durevole o, per usare le parole di Kant, perpetua. Questa é una pace universale in cui non esistono rapporti tra superio-re e inferiore, debole e forte. Riprendendo il modello hobbesia-no, il pacifismo nega radicalmente la guerra, vista come un male assoluto.Tuttavia non valuta la pace come un bene assoluto bensì é alla ricerca di una pace giusta che non sia quella d'impero ba-sata su rapporti di forza e non su giustizia, libertà e uguaglian-za. Tenendo conto che nei rapporti interni predomina l'ordine e i momenti di disordine sono eccezionali, mentre nei rapporti tra gli stati prevale il disordine, i pacifisti si propongono di ottenere l'ordine anche nei rapporti internazionali. Il Pacifismo é nato principalmente con gli scritti di tre pensato-ri: "Il progetto per rendere la pace perpetua in Europa" dell'abate De Saint Pierre, "Per la pace perpetua " di Kant e la "Riorganizzazione della società europea" di Saint Simon, tutti e tre rappresentanti del pacifismo giuridico che concepisce il processo di formazione di una società internazionale come una sorta di nuovo passaggio dallo stato di natura alla società civile attraverso il patto di unione. Il primo progetta una pace basata su un'alleanza perpetua fra gli stati, il secondo su una confederazione di stati repubblicani, il terzo su uno stato fede-rale superiore ai vecchi stati, "uno stato degli stati", esteso a tutto il mondo. Le filosofie che hanno considerato la pace come un fine positi-vo della storia e cui si sono ispirate diverse correnti pacifiste, sono state l'Illuminismo che, vedendo la causa principale della guerra nel dispotismo e nell'autoritarismo, ne vedeva la fine

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nell'abbattimento del potere politico e di stati basati sulla so-vranità popolare. II positivismo che vedeva il raggiungimento della pace nel pas-saggio da una società militare a una società industriale in cui non ci sarebbe più stato bisogno di guerre; il marxismo secon-do cui la pace sarebbe stata raggiunta con l'abbattimento, at-traverso la dittatura de proletariato, del sistema capitalistico, principale fonte di guerre. Concentrandosi rispettivamente sul piano politico, sociale e produttivo, le tre filosofie trattarono il concetto della pace proponendo rimedi diversi. Questa analisi svolta da Bobbio sul concetto e sulla definizio-ne di pace, dovrebbe aiutarci a rispondere alla domanda "ha la pace un futuro?". Egli prende in considerazione la pace intesa in senso giuridico e che oggi va cercata, o meglio, costruita. Ma quali sono le condizioni per realizzare un progetto di pace concreto e non solo utopistico? Bobbio individua principalmen-te quattro condizioni: l'inesistenza di rapporti del tipo nemico-nemico; la costituzione di un patto di non aggressione tra le varie potenze, che escluda l'intervento militare; un secondo patto che stabilisca la soluzione pacifica dei conflitti futuri; infi-ne, la presenza di un potere comune superiore alle parti e quindi di un "Terzo", che agisca da mediatore, arbitro o giudi-ce. I primi due patti sono stati effettivamente realizzati dall'Orga-nizzazione delle Nazioni Unite per porre fine al sistema di equilibrio che regola il rapporto tra le nazioni. Il sistema di equilibrio, basato sul timore reciproco, impedisce che si possa realizzare una vera pace diversa da una tregua militare. Forse, il motivo per cui oggi vi é ancora questo sistema di equilibrio é che non é stata attuata l'ultima condizione, vale a dire la pre-senza del Terzo che agisca fuori dai propri interessi, come un arbitro imparziale sovra le parti.

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Ma questa soluzione porta a un altro fantasma: la presenza di una forza superiore che impone un trattato di pace assoluto.Mancherebbe, pertanto, la libertà di pensare e agire degli uo-mini che costituiscono gli Stati. La soluzione migliore per rag-giungere la pace, non è una soluzione esterna ma interna: dentro ogni individuo si deve trovare la forza di istituire la pace nei rapporti collettivi. Data l’indole umana dedita alla ricerca del proprio benessere personale è utopistico sperare che tutti gli individui possano ambire alla pace e alla collaborazione.Solo la cultura, la formazione e il progresso sociale può guida-re le scelte dell’uomo verso la costituzione delle condizioni che portano alla pace.E questo è ciò che è stato decretato dalle Nazioni Unite, che secondo sanciscono: “E' nella mente dell'uomo che si deve co-struire la pace”. La pace è, dunque, uno stato d'animo, è un modo di pensare e di agire degli uomini che può diventare abitudine mentale attraverso l'educazione alla cultura di pace.Un grave errore è stato commesso nel XX secolo, è prevalsa l’idea che la pace si può costruire con “la tolleranza del diverso”.Ciò rappresenta una mediocrità intellettuale di cui l'umanità del Terzo Millennio deve liberarsi. Tolleranza implica sopportazione di ciò che noi riconosciamo come diverso. Nella categoria del diverso noi mettiamo tutto ciò che noi non conosciamo. E tanto più siamo ignoranti e tanto più vediamo “diversità” intorno a noi. La diversità religiosa non esiste nella cultura di pace, poiché le religioni sono i diversi modi attraverso cui la mente umana concepisce l'esistenza di un essere superiore.

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Le differenze culturali nella cultura di pace non dividono gli uomini, ma sono elementi che arricchiscono la conoscenza del mondo. Educare alla pace significa aprirsi alla multiculturalità, alla multireligione, alla multidisciplinarietà, alla multietnia. La realtà si presenta a noi sotto molteplici forme giuridiche, politiche, antropologiche, economiche, sociali; tutte forme che sono parte di un insieme globale e che costituiscono una verità. Educare alla pace significa compartecipazione alle peculiarità dei molteplici modi con cui la realtà ci si manifesta. La pace è: compartecipare ai diversi modi attraverso i quali ci si presenta la realtà. Solo così si può aprire la mente per liberarsi dai pregiudizi dottrinari.Ciò richiede un percorso educativo e formativo tutto in salita e ancora inesplorato, ma iniziare a parlarne è già un passo importante.Di straordinaria importanza è al riguardo la Dichiarazione sulla Cultura di Pace, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13/09/1999, nella quale si afferma: dal momento che le guerre hanno inizio nella mente degli uomini, è nella mente umana che bisogna costruire la pace. La pace è, quindi, un obiettivo largamente condiviso, con forza e costanza dalle organizzazioni internazionali, essenziale alla realizzazione di tutti gli altri diritti, al quale, di conseguenza, vengono dedicati numerosi programmi d’azione e progetti educativi. La pace deve comprendere la libertà, le giustizia sociale e l’equità economica: non si può considerare situazione di pace quella in cui pur non essendoci un conflitto vi è omertà, paura, violazione dei diritti fondamentali dell'uomo, soprusi e povertà.

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Pace significa vivere in una situazione nella quale: è possibile cogliere tutte le potenzialità di crescita culturale e economica dell’ambiente in cui si vive; nella quale gli individui interagiscono tra loro nella più perfetta armonia; e nella quale vi sono i presupposti per instaurare l'apertura al dialogo, all'ecumenismo, alla collaborazione socio-economica e alla assistenza dei più bisognosi.Seppur è vero che non è con il prepararsi alla guerra si contribuisce alla pace è anche vero che la pace non si costruisce con il disarmo. E’ in un’altra ottica che dobbiamo affrontare il problema. La pace è desiderabili da tutti, la guerra è un fatto immanente nella storia e dell’evoluzione dell’umanità. La pace in senso assoluto, seppur è la miglior alternativa possibile, è irrealizzabile. Quello che dobbiamo fare, dunque, è riflettere su come limitare le occasioni di conflitto tra popoli; su come contribuire a creare una situazione di stabilità tra gli delicatissimi equilibri geopolitici del pianeta; su come possiamo inculcare nella mente degli uomini che bisogna cercare il dialogo, l’interculturalità, il riconoscimento dei diritti umani, la compartecipazione al principio della libertà di parola, di pensiero. Dobbiamo lavorare sulla diffusione della Cultura di Pace che non esclude, anzi prevede, anche le spese militari come fattore di deterrenza e di garanzia per la sicurezza dell’umanità. Escludiamo da questo ragionamento l’idea che la forza e la potenza di un popolo si misurino in ragione diretta degli apparati militari, la forza di un popolo stà nella capacità di condividere con gli altri popoli cultura, tradizioni, obiettivi di crescita economica, sociale e educativa.

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In questa filosofia rientra il concetto sancito dalla NATO di Pace sostenibile. La NATO è impegnata anche in relazioni con altre organizzazioni internazionali che hanno un ruolo complementare nel promuovere la pace e la sicurezza. Nel contesto delle operazioni di gestione delle crisi, la NATO opera con organizzazioni che hanno gli strumenti per garantire una pace sostenibile attraverso lo sviluppo politico, economico e sociale. Queste sono le Nazioni Unite, l’Unione Europea, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, come pure altre istituzioni come EUROCONTROL ed il Comitato internazionale della Croce Rossa.

2. Pace e ideologia della democraziaLa borghesia ha fatto un grande e storico tentativo per ordinare tutte le relazioni umane in conformità alla ragione, per soppiantare cieche e mute tradizioni con le istituzioni del pensiero critico. Le gilde con le loro restrizioni della produzione, le istituzioni politiche con i loro privilegi, la monarchia assolutista - tutte queste cose erano relitti tradizionali del medio evo. La democrazia borghese esigeva uguaglianza legale per la libera concorrenza. Essa ha cercato di regolare anche le relazioni internazionali alla stessa maniera.Il realismo capitalista accarezza anche l'idea di una pace perpetua basata sull'armonia della ragione. Così essa ha preso ad insegnare alle persone la poesia, la filosofia, l'etica ed i metodi commerciali, che sono molto più utili per loro per diffondere la pace perpetua. Questi sono gli argomenti logici per il pacifismo.

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Uno degli interrogativi più intriganti è se la pace può convivere con il capitalismo. O meglio: se il capitalismo può svilupparsi in una condizione di pace perenne. La risposta sembra essere: ni.Alla base della logica capitalista del libero mercato, quella che ha decretato lo sviluppo economico dell'occidente, vi è la ricerca del “profitto” o della “massima utilità”. In parole povere il sistema capitalistico si muove sulla logica che ogni uomo cerca nel proprio comportamento (come agente economico: imprenditore, intermediario finanziario, commerciante, consumatore) una situazione di massimo tornaconto (banalizzando: se è un imprenditore cercherà di realizzare il massimo profitto minimizzando i costi di produzione e mantenendo alti i prezzi; se è un consumatore cercherà di realizzare la massima utilità acquistando più beni possibili al minor prezzo). Tutto ciò garantirebbe un adeguato livello di sviluppo economico, cioè un aumento del benessere sociale.Se nel sistema nazionale o internazionale, in cui opera il capitalismo, vi sono gli elementi per realizzare il massimo tornaconto per tutte le classi sociali, allora lo sviluppo può avvenire in una situazione di pace. Se, invece, nel sistema capitalistico mancano tali elementi vi sono due possibilità: o si ferma lo sviluppo o bisogna cercare “altrove” gli elementi mancanti. Nel secondo caso ciò può comportare un conflitto. Siccome necessariamente i fattori che garantiscono il massimo tornaconto sono “scarsi” mentre il desiderio di raggiungere sempre maggiori livelli di benessere non ha un “limite” il capitalismo può convivere con la pace solo in certe specifiche condizioni di abbondanza delle risorse produttive; non potrà, pertanto, esistere la connivenza tra capitalismo e pace perpetua.

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3. Operazioni di sostegno alla paceLe operazioni delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace sono un mezzo mediante il quale la comunità internazionale può incoraggiare la creazione di una pace sostenibile in luoghi e situazioni nelle quali il conflitto minaccia di scoppiare o è stato recentemente tenuto a freno. Più spesso, invece, esse vengono utilizzate per contribuire a consolidare quei fragili processi di pace che emergono nelle situazioni post belliche.Le operazioni per il mantenimento della pace vennero inizialmente sviluppate come un mezzo per risolvere il conflitto fra gli Stati schierando del personale militare disarmato, o munito di armamenti leggeri, proveniente da una serie di Paesi, sotto il comando delle Nazioni Unite, quale forza di interposizione fra le forze armate degli Stati precedentemente in guerra. Normalmente doveva essere stato concordato e attuato un cessate il fuoco, e i partecipanti al conflitto avrebbero dovuto acconsentire allo schieramento delle forze ONU. Questo stratagemma offriva alle parti in causa tempo e spazio per realizzare degli sforzi diplomatici volti ad affrontare le cause che soggiacevano al conflitto. Gli operatori di pace non combattevano il fuoco con il fuoco, ma piuttosto controllavano dal terreno che il cessate il fuoco venisse rispettato e riferivano in maniera imparziale in merito alla sua osservanza.Decine di migliaia di operatori di pace militari, di polizia e civili, vennero di conseguenza incaricati di occuparsi delle cause e dei risultati delle guerre all'interno degli Stati, anziché di quelle fra gli Stati, in luoghi come la Cambogia, El Salvador e il Mozambico. Gli operatori di pace divennero parte degli sforzi internazionali per ricostruire gli Stati danneggiati dai conflitti, e per

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appoggiare elezioni e referendum liberi ed equi. I compiti delle operazioni per il mantenimento della pace comprendevano la formazione e la ristrutturazione delle locali forze di polizia, lo sminamento, lo svolgimento delle elezioni, il facilitare il ritorno dei rifugiati, il controllo del rispetto dei diritti umani, la supervisione delle strutture di governo, la smobilitazione e il reintegro degli ex combattenti e la promozione di istituzioni democratiche e di uno sviluppo economico sostenibili. Al loro massimo, raggiunto nel 1993, nelle operazioni delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace vennero dispiegati sul terreno ben 70.000 soldati.In un ulteriore sviluppo nel 1999, il Segretario Generale Kofi Annan chiese a un comitato di esperti internazionali di analizzare le operazioni di pace dell'ONU e di identificare dove e quando le operazioni delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace avrebbero potuto essere più efficaci e in quale modo esse avrebbero potuto essere migliorate. Determinati fattori sono essenziali per il successo di una operazione delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace. Prima di prescrivere una operazione per il mantenimento della pace come cura, la comunità internazionale deve aver correttamente diagnosticato il problema. Una maggioranza o tutti i partecipanti al conflitto debbono inoltre desiderare di interrompere i combattimenti: deve esserci una pace da mantenere. Tutti i più importanti partecipanti al conflitto debbono quindi acconsentire al ruolo delle Nazioni Unite nell'aiutarli a risolvere la loro controversia.I Membri del Consiglio di Sicurezza, dal canto proprio, debbono mettersi d'accordo sul risultato desiderato dall'operazione, e in merito a un mandato chiaro e raggiungibile. Lo schieramento sul terreno, infine, deve essere veloce. Le operazioni per il mantenimento della pace debbono

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essere parte di una strategia complessiva per contribuire a risolvere un conflitto, il che necessita di una miriade di sforzi politici, economici, di sviluppo, attinenti ai diritti umani e umanitari, che debbono essere condotti in parallelo. Attenzione politica ed economica deve essere prestata all'intera regione interessata in modo tale che i progressi ottenuti nel raggiungere la pace in una determinata nazione non vengano minati dai problemi del confinante. La comunità internazionale deve essere preparata a portare a termine quello che deve essere fatto. Una pace reale richiede tempo, costruire delle capacità nazionali richiede tempo, ricostruire la fiducia richiede tempo. Gli operatori internazionali di pace, lavorando con o per le Nazioni Unite, debbono assolvere ai compiti affidati loro dagli Stati Membri con professionalità, competenza e integrità.Il Rapporto del Comitato sulle Operazioni di Pace dell'ONU conosciuto come il rapporto Brahimi dal nome del Presidente del Comitato, Lakhdar Brahimi, un ex diplomatico algerino da lungo tempo consulente del Segretario Generale venne diffuso nell'Agosto del 2000. Esso offriva alcuni chiari pareri in merito a quali condizioni era necessario che esistessero affinché le operazioni per il mantenimento della pace avessero un'opportunità di successo. Queste comprendevano: un mandato chiaro e specifico, il consenso all'operazione da parte delle fazioni in conflitto e risorse adeguate a partire da personale professionale e adeguato per arrivare ad attrezzature e finanziamenti.A seguito di tale rapporto, tanto il Segretariato delle Nazioni Unite quanto gli Stati Membri dell'ONU hanno lavorato duramente per garantire che essi avessero una migliore comprensione delle necessità in termini politici e di risorse delle operazioni di pace, e una molteplicità di iniziative hanno

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migliorato la capacità delle operazioni delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.Il Quartier Generale dell'ONU adesso dispone di maggior personale per supportare le proprie missioni sul campo, e gli uffici dei consulenti militari e di polizia nel quartier generale DPKO a New York sono stati rafforzati. La base logistica del DPKO a Brindisi (Italia), insieme a una capacità di formazione continua, ha inoltre assicurato alle Nazioni Unite una nuova capacità di risposta rapida. Ed è stato richiesto e ottenuto dagli Stati Membri un maggior supporto finanziario, politico e materiale.Ai sensi dello Statuto delle Nazioni Unite, tutti gli Stati Membri concordano di fornire forze armate per l'obiettivo di preservare la pace e la sicurezza internazionali: le operazioni per il mantenimento della pace costituiscono una responsabilità collettiva.La creazione delle operazioni delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace rappresenta uno degli strumenti specifici ed unici che sono a disposizione della comunità internazionale per contribuire a risolvere i conflitti internazionali, e per evitare che, laddove esistano le condizioni per il loro successo, le guerre intestine destabilizzino le regioni. Quale investimento, le operazioni per il mantenimento della pace guidate dall'ONU che si contrappongono a quelle condotte da delle coalizioni ad hoc presentano il netto vantaggio di incorporare un meccanismo per i loro costi finanziari, di materiale e di personale, che debbono essere condivisi globalmente. In aggiunta, il fabbisogno temporale necessario allo spiegamento delle risorse iniziali necessarie alle nuove missioni è stato drasticamente ridotto grazie alla capacità di risposta rapida del DPKO.

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I costi delle operazioni per il mantenimento della pace sono molto piccoli se vengono comparati con i costi del conflitto e il suo pedaggio in vite e proprietà. Nonostante nel 2008 le operazioni delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace siano costate circa 3,2 miliardi di dollari, nel 2008 in tutto il mondo i governi hanno speso più di 900 miliardi di dollari in armamenti, un dato che rappresenta il 2,7 per cento del prodotto nazionale lordo mondiale.

4. Diritto alla paceGli eventi politici verificatesi nei nuovi scenari fuori area hanno messo sotto scacco il diritto internazionale delle Nazioni Unite relativamente ai rapporti di pace e il divieto alla guerra tra gli Stati.Il divieto alla guerra contenuto nell'art. 2.4 della Carta delle Nazioni Unite - con l'eccezione rigorosa della legittima difesa (individuale e collettiva) contro un attacco armato diretto, contenuta nel successivo art. 51 - si è compiutamente radicato come consuetudine generale. Il che significa non solo che le norme contenenti quel divieto e quell'eccezione vigevano anche come norme consuetudinarie (e non più solo come norme pattizie). In tutta questa ampiezza venivano ad integrare la nostra Costituzione, cosicché, quanto alla disciplina della guerra, il diritto costituzionale interno, il diritto ONU e il diritto consuetudinario generale venivano a coincidere: il primo (attraverso i rimandi contenuti negli artt. 10 e 11) si identificava con gli altri.Detto in altri termini: nell'interpretare gli artt. 11, 78 e 87 della Costituzione ogni argomento doveva cedere a quello sistematico che sottoponeva gli articoli predetti al divieto generale contenuto nell'art. 2.4 della Carta ONU;

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conseguentemente non si poteva affiancare alla fattispecie vietata (amplissima e onnicomprensiva: uso o minaccia della forza) un concetto "diverso" di guerra (desunto a contrario dal testo della Costituzione italiana, assumendo una definizione restrittiva e formalistica del termine "guerra"), non vietata.Queste premesse, però, oggi non sono più diffusamente accettate. Durante una riunione del precedente Consiglio Direttivo dell'Associazione dei Costituzionalisti, giunse una lettera dei colleghi iugoslavi, mentre erano in corso i bombardamenti su Belgrado, che chiedevano ai costituzionalisti italiani di pronunciarsi sulla vicenda. Il Comitato Direttivo si spaccò immediatamente, ed anche in modo piuttosto vivace, tanto che si decise di organizzare un seminario (tenutosi poi a Torino) per offrire almeno una tribuna di discussione, visto che l'Associazione non poteva offrire una presa di posizione concorde.Anche tra i costituzionalisti, come tra gli internazionalisti, si sono dunque diffuse teorie volte ad indebolire e ad aggirare il divieto della guerra. Innanzi tutto la teoria che, operando una totale inversione rispetto a quanto sembrava acquisito alla fine degli anni Ottanta, considera di nuovo la Carta dell'ONU come un diritto pattizio speciale (e cedevole) rispetto alle norme del diritto internazionale consuetudinario pre-ONU, che consideravano il "diritto alla guerra" come un diritto naturale degli stati. E' questo, ovviamente, il punto cardinale, perché riesumare la naturalità del jus ad bellum come componente essenziale, incomprimibile ed irrinunciabile della statualità significa far franare l'intero ordinamento costruito sulla base della Carta dell'ONU. Questa tesi, invocata apertamente e senza infingimenti solo dalla superpotenza USA, in funzione di un riordino unilaterale

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degli assetti geopolitici che è al centro dell'attenzione generale, e che non è qui possibile ricostruire, viene sostanzialmente condivisa anche all'interno della nostra gius-pubblicistica, seppur rivestendola di argomenti più obliqui e dissimulati. Se, infatti, il divieto della guerra contenuto nella Carta ONU è stato radicalmente svuotato perché l'equilibrio del terrore si reggeva proprio sulla minaccia dell'uso della forza che la Carta stessa vietava; se in questo contesto l'Italia delegò alla NATO, e al suo paese leader, il compito di garantire la sua sicurezza, partecipando all'organizzazione della minaccia rinunciando ad ogni autonomia di politica estera e militare, ne consegue che il divieto di cui all'art. 11 Cost. (il divieto "locale") è privo di oggetto, perché un divieto ha senso solo se, per il suo destinatario, il comportamento vietato è possibile, e libera è la scelta tra il metterlo in atto o no. E l'Italia non era, di fatto, nella possibilità né di non esercitare la minaccia dell'uso della forza, in quanto aderiva ad un blocco che tale minaccia esercitava al sommo grado, in reciprocità con l'altro; né di esercitare autonomamente la forza nelle "sue" relazioni internazionali (data sempre l'appartenenza ad un blocco).L'adempimento del dovere (il ripudio della guerra) era dunque impossibile per due motivi diversi: perché il dovere era sistematicamente violato attraverso il comportamento "collettivo" cui l'Italia partecipava, ed era impossibile da violare attraverso il suo comportamento individuale. Di qui a sostenere che l'Italia, nelle nuove condizioni internazionali, caduti i blocchi, deve assumersi le proprie responsabilità ed i propri oneri, e deve quindi prepararsi a saper gestire la guerra come "scelta" (e cioè come esercizio

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del "suo" jus ad bellum) in funzione della sicurezza di cui vuole godere, il passo è brevissimo.In quest'ottica si potrebbe dire che la decostituzionalizzazione in corso dell'art. 11 rappresenta l'esito di un processo a tenaglia: una sequela di acquiescenze passate cui si sono sovrapposte prospettive attuali di attivismo militare (proiettate nell'ottica dell'Unione europea).Accanto a questo attacco frontale al divieto legale, in sé considerato (tanto internazionale che interno), della guerra, si pongono le tesi che variamente erodono la portata del divieto interno, costituzionale. Dal punto di vista della struttura dell'argomentazione queste tesi sono raggruppabili in due tipi. Alcune fanno leva su un'interpretazione estensiva dell'art. 11 Cost., altre su una sua interpretazione letterale. Le prime possono a loro volta essere distinte in due gruppi. Alcune tendono ad estendere la portata implicita del suo primo comma, e cioè la legittimazione del diritto di difesa (ricomprendendo nella guerra di difesa anche quella volta non a difendere il territorio dello Stato, ma i valori di cui esso è portatore: in primis i diritti umani, come a proposito del Kosovo; oppure ad ampliare il concetto di autotutela - anche in riferimento all'art. 51 della Carta ONU e 5 del Trattato Nato - come a proposito della "guerra al terrorismo"). Altre tendono invece ad estendere la portata del suo secondo comma, ampliando le fonti - e le ipotesi - delle limitazioni di sovranità: facendole derivare, come obblighi prevalenti sul divieto costituzionale, da trattati internazionali di contenuto militare, il cui collegamento finalistico con la pace tra le nazioni può ovviamente, con un po' di disinvolta dialettica, essere sempre sostenuto.

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5. Pagine sparse. Situazione geopolitica attuale e sue prospettive

A. L’Asia Centrale Dopo lo storico 11 settembre, quando la NATO acquartierò i propri soldati in Asia Centrale,molti analisti hanno cominciato a constatare che, a 10 anni dal dissolvimento dell’URSS, la Russia non è più stata in grado di formare un blocco politico-militare, alternativo a quello delle forze armate sovietiche. Dopo l’uscita dal “Trattato di sicurezza collettiva” di alcuni stati della CSI, questa organizzazione ha significativamente indebolito le proprie posizioni, e Mosca già da tempo non viene più considerata da molti stati della Comunità come garante della sicurezza. Fino all’inizio dell’operazione antiterroristica in Afghanistan, USA, Cina e Russia avevano diviso in modo preciso i ruoli, che essi giocavano nella regione centroasiatica. A Mosca veniva riservato il diritto alla presenza politico-militare (Trattato di sicurezza collettiva e la 201° divisione in Tagikistan), a Pechino l’esportazione di merci e l’importazione di materie prime, a Washington il rafforzamento degli interessi economici (investimenti e progetti relativi a petrolio e gas). Ma dopo gli avvenimenti dell’11 Settembre, gli Stati Uniti hanno cominciato ad occupare attivamente il posto della Russia in Asia Centrale. Nella regione è così venuta a determinarsi una situazione paradossale: i partecipanti centroasiatici al Trattato di Sicurezza Collettiva hanno cominciato a concedere i propri territori e aeroporti militari all’Alleanza nord atlantica. In risposta Mosca ha ripetutamente manifestato la propria preoccupazione. E la posizione di Mosca a tal proposito è stata sostenuta anche da Pechino.

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Ora è necessario ricordare che, fino all’estate dello scorso anno, gli stati del Trattato di sicurezza collettiva avevano la consapevolezza della necessità di rafforzare la sicurezza in Asia Centrale. Al momento dell’attacco dei terroristi agli USA, i partecipanti al Trattato avevano già formato delle Forze collettive di pronto intervento, di cui facevano parte reparti specializzati russi, kazachi, kirghisi e tagiki. Queste forze erano state fornite della necessaria assistenza tecnica aerea (aerei da trasporto, caccia ed elicotteri). Ciononostante le Forze collettive di pronto intervento non disponevano di mezzi sufficienti per la partecipazione ad operazioni antiterroristiche su vasta scala in Afghanistan. Tale situazione si è protratta per più di un anno, fino a quando l’esistenza di tali contingenti, alla luce della presenza di soldati NATO in Asia Centrale, è sembrata inutile. Negli ultimi anni la situazione è cambiata, dal momento che in Kirghisia è iniziata l’installazione di una base dell’aeronautica militare dei paesi partecipanti al Trattato di Sicurezza Collettiva, coinvolgendo le forze armate russe. Aerei da trasporto russi sono atterrati nell’aeroporto kirghiso della città di Kant, con un carico di attrezzature necessarie ad allestire la base. I velivoli russi rappresentano la componente aerea fondamentale delle Forze Collettive di pronto intervento. Si sa che la base del Trattato di sicurezza collettiva collaborerà con le unità della coalizione antiterrorista, che ormai da più di un anno si trovano nell’aeroporto kirghiso “Manas”. A parere degli analisti, le autorità della Kirghisia sono in tal modo orientate a compensare la presenza militare USA sul proprio territorio. Inoltre, dando il loro assenso alla dislocazione nell’aeroporto della città di Kant della base del

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Trattato di sicurezza collettiva, i poteri kirghisi “civettano” con la Russia e la Cina, che ultimamente hanno visto avvicinare le proprie posizioni. E’ evidente che la Russia, che non ha abbandonato l’idea di rimanere la forza politico-militare dominante in Asia, stia cercando alleati per istituire un asse tra Cina, Russia e India. L’allentamento delle frontiere geopolitiche dello spazio post-sovietico e l’inefficienza della Comunità degli Stati Indipendenti (Csi) hanno spinto la Russia ad attribuire maggiore importanza a organizzazioni sub-regionali come l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Otsc), ma è stato solo in seguito alle cosiddette rivoluzioni colorate del 2003 (Georgia) e del 2004 (Ucraina) che Mosca ha cominciato a riformulare il sistema regionale di sicurezza dello spazio post-sovietico, anche alla luce della crescente insofferenza ucraina, moldava e georgiana, per alla presenza delle basi militari russe, e della tendenza turkmena alla neutralità. Un simile atteggiamento va visto, del resto, come parte di un più vasto ritorno internazionale della Russia, a sua volta frutto tanto di un consolidamento interno economico-amministrativo-militare quanto della esigenza di rispondere al crescente attivismo di marca occidentale. Buoni, per esempio, i rapporti per lo meno economico-militari con la Cina (collaborazione nell’ambito della Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, esercitazioni congiunte dell’agosto del 2005), in intensificazione quelli, mai problematici, con l’India e in miglioramento quelli, mai facili, con il Giappone, mentre per quanto concerne sia l’Europa che gli Stati Uniti, va notata una certa assertività energetico-militare (crisi del gas del dicembre 2005-gennaio 2006, addestramento navale congiunto con la Nato del febbraio del 2006) che diplomatico (presidenza russa del G8 per tutto l’anno in corso, posizione non certo

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arrendevole relativamente ai colloqui sullo status finale del Kosovo). Rilevante, poi, è la presenza russa anche in America Latina (Cuba, Venezuela, Brasile, Bolivia), mentre la opposizione di Mosca all’intervento anglo-statunitense in Iraq nel 2003, la visita di Putin in Israele nella primavera del 2005, l’apertura ad Hamas all’inizio del 2006, l’appoggio alla Siria anche relativamente al caso Hariri e la disponibilità alla mediazione in relazione alla questione non solo nucleare iraniana, segnano il percorso diplomatico russo in relazione a un mondo islamico con il quale Mosca, Paese osservatore alla Organizzazione della Conferenza Islamica (Oci), è anche in costante contatto tanto in Asia Centrale e nel Caucaso del sud quanto all’interno dei propri confini (Caucaso del nord, Tatarstan, Bashkhorostan, presenza musulmana - immigrata dall’estero e non - nelle maggiori città, estrema cautela sulla questione delle vignette danesi). Nel maggio del 1992, viene firmato il Trattato di Sicurezza Collettiva (Tsc), altrimenti detto Trattato di Tashkent, e vi aderiscono (a differenza di Ucraina, Turkmenistan e Moldavia): Russia, Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. La Csi, almeno parzialmente efficace come contesto per uno scioglimento dell’Urss quanto più indolore possibile, non si è invece dimostrata adatta a creare un blocco politico-militare pro-russo teso alla reintegrazione dello spazio post-sovietico e a una opposizione più efficace all’espansione della Nato e della UE, mentre la cooperazione al suo interno è stata influenzata negativamente prima di tutto dalle aspirazioni nazionalistiche della varie Repubbliche. Georgia, Azerbaigian e almeno in parte Ucraina e Moldavia hanno infatti cercato di dirigersi verso le strutture politico-

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militari occidentali. L’Uzbekistan ha puntato al ruolo di leadership in Asia centrale (questi Stati hanno dato vita a una organizzazione di cooperazione, il Guuam, sostenuta dagli Usa), mentre Azerbaigian, Georgia e di nuovo Uzbekistan hanno abbandonato il Trattato di Tashkent nel 1999.Il programma Nato della Partnership for Peace (PfP), ricevuto nuovo impulso a seguito del più recente allargamento del 2004, si è nel frattempo rivolto verso il Caucaso del Sud e anche se al momento non è previsto l’ingresso di Tbilisi o Baku, hanno tuttavia avuto luogo esercitazioni congiunte, percepite dalla Russia come i prodromi di un’ulteriore espansione dell’Alleanza Atlantica. La Repubblica ex-sovietica più coinvolta nella cooperazione con la Nato è l’Ucraina (primo paese della Csi ad aderire al programma PfP, Commissione Nato-Ucraina del 1997, Piano di Azione del 2002), tanto che, nell’aprile del 2005, si è giunti al Dialogo Intensificato: una formula già usata nel 1997 per Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria poi entrate nell’Alleanza nel 1999. La reazione iniziale di Mosca è stata improntata alla cautela. La Russia infatti, da un lato considera l’entrata di Kiev nella Nato un “meno peggio” rispetto a quella nella UE, dall’altro è cosciente dei legami storici ed energetici che la connettono all’Ucraina. La presenza militare russa nella Csi include 14,000 uomini in Armenia, Bielorussia, Kirghizistan, Tagikistan, Georgia, Moldavia e Ucraina, con Mosca a interpretarne la presenza sia in funzione di stabilizzazione post-conflitto (Moldavia, Georgia, Armenia) sia in ragione di specifici accordi (Bielorussia), ma è solo con la creazione del Otsc, nell’ottobre del 2002, che la Russia ha dato il via alla ristrutturazione del sistema di sicurezza relativo al suo “estero vicino”.

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I membri del Otsc sono l’Armenia, la Bielorussia, il Kazakhstan, il Kirghizistan, la Russia e il Tagikistan e il vertice di Mosca del 22-24 giugno 2005, accanto a quello della Csi del 24 del medesimo mese, ha sancito lo spostamento della cooperazione militare post-sovietica dal secondo organismo al primo. Del resto, Georgia, Moldavia e Turkmenistan non hanno partecipato all’incontro, mentre l’Ucraina si è dichiarata membro soltanto osservatore. Tre le tematiche principali alle quali l’Otsc dedica la propria attenzione: la situazione in Afghanistan, il terrorismo e il rafforzamento della mutua cooperazione (presenza militare russa in Asia Centrale, raggruppamento militare russo-bielorusso, raggruppamento militare russo-armeno). Non mancano, peraltro, alcune divergenze fra i contraenti. Nonostante il dissenso russo, il Kazakhstan ha, infatti, intensificato le proprie attività nel Mar Caspio, forze armate kazake e armene sono presenti in Iraq e il Kazakhstan e il Kirghizistan non hanno partecipato alla parte attiva delle esercitazioni del settembre del 2005 relative alla difesa aerea comune. D’altro canto, però, la dirigenza kirghiza post-Akayev si sta rivelando molto meno lontana da Mosca di quanto i più non avessero inizialmente pronosticato, mentre l’Uzbekistan, dopo i fatti i Andijan della primavera del 2005, ha effettuato una drastico cambio in fatto di politica estera, riavvicinandosi decisamente alla Russia. Sembra essersi quindi profilata, all’interno della Csi, una frattura fra la complessivamente filo-russa Otsc e le altre Repubbliche dello spazio post-sovietico, con una Russia che, tra l’altro forte della guida di un sub-blocco di non certo lieve entità, è difficile però sia disposta a non voler esercitare la

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propria influenza in quello che considera il suo “estero vicino”. (da: Pagine di Difesa, marzo 2006). Il 4 febbraio 2009 si è tenuto a Mosca il vertice speciale dei Paesi membri dell'Organizzazione del Trattato di Sicurezza collettiva (OTSC) della Comunità degli Stati indipendenti (CSI), a cui hanno presenziato i presidenti di Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan, e di altri Paesi. I leader dei suddetti paesi hanno acconsentito all'unanimità alla creazione di una forza collettiva di reazione rapida e hanno firmato l'accordo relativo. Lo stesso giorno il presidente russo Dimitri Medvedev ha detto che la forza collettiva di reazione rapida che verrà istituita dell'OTSC non sarà inferiore alle forze militari del genere della NATO. Gli analisti osservano che il possesso di una forza "collettiva" di attacco militare da parte dell'OTSC è un importante passo in avanti sulla via della trasformazione dell'organizzazione da una situazione dissociata e vaga ad una completa alleanza politica e militare, il che va seguito da vicino. L'Organizzazione del Trattato di Sicurezza collettiva della CSI ha come precursore il Trattato di Sicurezza collettiva della CSI, firmato il 15 maggio 1992 durante la riunione di Tashkent, capitale dell' Uzbekistan, dai laeder dei paesi della CSI, ossia Russia, Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan, Armenia, Kirghizistan. Nel 1993 Georgia, Azerbaigian e Bielorussia hanno aderito al trattato, che è ufficialmente entrato in vigore nel 1994, con una validità di 5 anni. Secondo quanto appreso, il compito della Forza Collettiva di reazione rapida dell'OTSC sarà la difesa dalle aggressioni militari, l'attuazione di operazioni speciali di lotta alle forze terroristiche ed estremiste internazionali, la lotta alla criminalità organizzata trasnazionale e alle attività di traffico di

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stupefacenti, oltre alla risposta alle emergenze provocate da calamità naturali e da altri disastri. La Forza Collettiva costituirà un sistema di comando unificato permanente. In realtà questa forza non compare all'improvviso. Infatti nell'aprile 2003 si è tenuto a Dushanbe, capitale del Tagikistan, il vertice dell'Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva della CSI, in cui i paesi presenti hanno deciso all'unanimità di istituire il quartier generale congiunto e le truppe di reazione rapida dell'OTSC, per affrontare le crescenti minacce alla sicurezza nell'Asia Centrale. Il quartier generale congiunto ha iniziato a funzionare nel gennaio 2004. L'attuale vertice speciale di Mosca ha definito su questa base i problemi del dispiegamento e del comando unificato della forza collettiva di reazione rapida. Gli analisti hanno notato che la creazione della Forza Collettiva di reazione rapida dell'OTSC avviene sotto la dirigenza della Russia. L'attiva proposta della Russia di accelerare la sua costituzione si deve probabilmente alle seguenti due considerazioni: primo, gli scontri militari avvenuti l'anno scorso fra Russia e Georgia hanno fatto realizzare ai leader russi l'urgenza della creazione di una garanzia della sicurezza collettiva della CSI, che ha portato il paese a decidere di accelerare la creazione di un nuovo meccanismo di reazione rapida; secondo, affrontare le necessità del quadro circostante la CSI, specie quello dell'Asia centrale. L'assistente del presidente russo Sergei Prihodiko ha affermato che le minacce principali che hanno di fronte i Paesi membri dell'OTSC provengono da sud, in particolare dall'Afghanistan, dove sono molto attive varie forze estremiste, e alcune zone correlate di conflitti potenziali del Pakistan.

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Gli analisti osservano che il giorno precedente la decisione del vertice dell'OTSC di Mosca di costituire la forza collettiva di reazione rapida, Russia e Bielorussia hanno firmato un accordo di costituzione di un sistema unificato di difesa aerea regionale. Lo stesso giorno, il presidente russo Medvedev ha comunicato che la parte russa offrirà 2 miliardi di USD di prestiti e 150 milioni di USD di assistenza a fondo perduto al Kirghizistan. Dal canto suo, il presidente del Kirghizistan, Kurmanbek Bakiyev, ha detto che il governo del Paese ha deciso di chiudere la base aerea americana di Manas sita nel suo territorio. Per capire se quanto sopra sia o meno collegato, e come svolgerà il suo ruolo la futura Forza Collettiva di reazione rapida dell'OTSC, saranno necessarie ulteriori osservazioni. B. Sicurezza transfrontaliera nell’Europa comunitaria(di Febo Ulderico della Torre di Valsassina23)Quando parliamo di sicurezza transfrontaliera ci riferiamo, di norma, ad uno stato di quiete, cioè ad un punto d’arrivo di un più articolato progetto di consolidamento della sicurezza in zona di confine. Nel corso di questa riflessione verrà presa in considerazione la condizione stabile e duratura che viene raggiunta a seguito di accordi ed attività, svolte di concerto tra Stati confinanti al termine di un processo di collaborazione volto, essenzialmente, al controllo di un territorio che in virtù della sua particolare posizione geografica, è da considerarsi sensibile sotto il profilo dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza.

23 Febo della Torre di Valsassina è assistente di Storia del Pensiero Economico all’Università di Camerino.

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In questo contesto sarà, quindi, valutata la sicurezza transfrontaliera sotto un aspetto che non la connaturi direttamente ed esclusivamente alle operazioni militari strictu sensu, cioè a dire quelle svolte in teatri internazionali da “pacificare”, né su territori nei quali rafforzare e stabilizzare la pace è ritenuta una missione prioritaria, ma la affronteremo valutando quanto sia egualmente essenziale, per la vita democratica in uno Stato, anche in situazioni di assenza di conflitto, addivenire ad una condizione in cui ordine e sicurezza siano intesi, prima di tutto, come un patrimonio comune ed allo stesso tempo come l’esercizio delle prerogative proprie di uno Stato su una fascia di territorio sulla quale affermare una efficace vigilanza ha il senso intrinseco di richiamarne valori di identità nazionale e di appartenenza culturale. Uno Stato che informi la propria politica di sicurezza interna e transfrontaliera a quanto sopra specificato è, senza dubbio, fattivamente impegnato nel mantenere e consolidare, quella pace che, nel rispetto delle differenze, consente di interloquire e strutturare un programma condiviso ed internazionale, il cui obiettivo è raggiungere la Sicurezza attraverso l’integrazione. V’è da tenere presente, però, che ogni sforzo compiuto in assenza di coordinamento e compartecipazione tra gli Ordinamenti degli Stati nazionali non avrebbe risultato e segnerebbe un inutile spreco di energie politiche ed economiche. In questi anni ultimi abbiamo imparato a comprendere che la movimentazione delle merci e gli spostamenti delle persone o, addirittura dei gruppi sociali, può avvenire con sempre maggiore facilità raggiungendo, altresì, dei livelli di rapidità tali da porre in discussione la capacità che le autorità degli Stati interessati hanno, di controllare questi fenomeni. Alla sempre

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maggiore facilità negli spostamenti dei beni (dove per beni ormai dobbiamo intendere anche le persone) ed alla scarsa possibilità di esercitare controlli efficaci su di essi è corrisposta una progressiva affermazione dei gruppi criminali che da sempre hanno manifestato interesse al controllo ed alla gestione degli scambi e dei transiti di frontiera. Tale progressiva ingerenza ha fatto sì che il ruolo romantico e se vogliamo, addirittura “simpatico”, del contrabbandiere, “dello spallone”, che attraversava i confini alpini tra la Svizzera e l’Italia con la grappa nelle gerle, non ha più nulla a che vedere con il trafficante moderno che ha mutato i propri metodi di veicolazione delle merci e di gestione delle rotte sino ad affermare e difendere il monopolio sulle stesse con vere e proprie azioni di guerriglia. Il contrabbandiere moderno, quindi, è un imprenditore spregiudicato che nel crimine ha trovato la forza di affermare il proprio commercio; la sua figura non è più assimilabile a quella di un piccolo mercante disonesto, ma, piuttosto, a quella di un manager che allo zaino ed ai doppi fondi delle auto, ha sostituito flotte d’imbarcazioni o di aerei ed a bordo di questi mezzi, equipaggiati con le più moderne e sofisticate tecnologie traghetta, partendo dalle coste dell’Albania, dei paesi dell’Africa settentrionale che si affacciano sul Mediterraneo e del Montenegro o da improbabili e sconosciuti aeroporti dei balcani, ogni sorta di merce. Da queste organizzazioni del crimine internazionale sono commerciati, o sarebbe più opportuno dire trafficati, esseri umani, tabacchi lavorati esteri o stupefacenti, con una tale indifferenza e distacco da consegnare alla cronaca episodi di viltà ed orrore disumani. Infatti, quando nemmeno dopo aver “ingaggiato” le motovedette delle Forze Armate poste in campo a presidio delle acque nazionali, i briganti riescono a porsi al riparo da una probabile cattura, eccoli “disfarsi” del

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carico, qualunque esso sia, con la medesima, atroce, indifferenza. A fronte di questi rapidi processi evolutivi che hanno condotto

alla internazionalizzazione ed alla globalizzazione delle metodologie operative usate dal crimine organizzato, si può ben comprendere come la Sicurezza da fenomeno locale, da “Bene” prettamente interno ad uno Stato, sia mutato di natura e possa essere oggi, a buon diritto, definito ed annoverato come un bene collettivo tra i più preziosi. Un bene, la sicurezza, che non conosce confini territoriali perchè affonda la propria essenza, il suo genus, in una categoria dell’anima che si riverbera, direttamente, nella condizione del vivere quotidiano dei gruppi sociali politicamente organizzati e la cui essenzialità è talmente sentita da esulare, da prescindere, il diverso e del tutto autonomo modo di intendere l’assetto politico e l’ordine sociale di ogni singolo ordinamento statuale. La Sicurezza è il bene collettivo per l’ottenimento del quale è richiesto sempre maggiore e crescente impegno da parte della Comunità Internazionale e gli sforzi in tal senso sono volti a creare nuove e migliori, sinergie tra i servizi di sicurezza, la Difesa e gli organi di polizia nazionali. La diversificazione delle metodologie e l’asimmetria del fronte d’attacco sul quale terrorismo e criminalità organizzata internazionale solidarizzano sempre più nelle strategie operative, impegnando “la sicurezza” di più Stati contemporaneamente, porta a una imprescindibile riconsiderazione dell’assunto sulla base del quale si ritiene che un Territorio può essere sicuro anche se non concorre nel creare sicurezza, anzi tendenzialmente gli stati applicano la legge del “minor costo per il maggior beneficio” e tendono a far ricadere sugli altri Paesi l'onere di creare sicurezza

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sapendo che, comunque, ne trarranno beneficio dalla sua instaurazione. Tale presupposto, infatti, è da considerarsi sempre vero e rispondente dal punto di vista della Sicurezza quando le diamo una accezione militare e la consideriamo dal punto di vista della Difesa; ma parzialmente vero se riconosciamo alla Sicurezza il significato ulteriore che assume in tema di lotta alla criminalità ed al terrorismo internazionali. Una guerra, ancorché non convenzionale, dove alle parti in campo non v’è spazio per rimanere ai bordi dello scenario tattico e, quindi, per assumere atteggiamenti da freerider24. Rimane fermo ed indiscusso, però, il presupposto teorico sulla base del quale alla Sicurezza è dato il valore di bene pubblico puro, cioè non escludibile, pertanto anche chi si “impegna meno” ne godrà in pari misura come chi tanto s’è impegnato. Ciò conduce ad una riflessione, ulteriore: oggidì non è assolutamente possibile pensare ad un processo di messa in sicurezza di un’area riferendosi ad essa come ci si riferirebbe ad un’isola; tutto comunica e tutto è in relazione. Ad una attenta valutazione di come gli Stati, anche quelli europei, stanno iniziando ad approcciare il tema i questione, oggi possiamo parlare della Sicurezza come se ci riferissimo ad un output. La Sicurezza, in questo caso, è il prodotto di un complesso di attività a cui sono chiamate le alleanze di Stati, conferendo energie e materie prime (es.: l’impegno militare logistico e di polizia), massimi fruitori stessi del bene prodotto. In tale articolato ed atipico, “processo di produzione” non sono coinvolti, come si diceva prima, solo i Paesi i cui territori appartengono all’area direttamente interessata, ma anche

24 Freerider: letteralmente scroccone; vocabolo usato in economia per definire un comportamento teso a sfruttare, per un vantaggio proprio, l’energia e lo sforzo profusi da un altro soggetto.

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Stati che possano, a volte indirettamente, avere un ruolo ancorché indiretto, o un vantaggio.Abbiamo compreso, quindi, che il concetto di “sicurezza” ed ancora più quello di “sicurezza transfrontaliera”, per i motivi sopra richiamati e sviluppati, si è evoluto, trasformato ed ha ampliato il suo ambito di pertinenza sino a mutare il modo di coinvolgere ed interessare gli Stati favorendone il dialogo e la cooperazione. Tale policy ha altresì avuto il merito di riavvicinare territori divisi dai confini implicitamente rafforzando l’affascinante ed esaustiva, interpretazione che ridefinisce così: “mentre il confine è una linea materiale o immaginaria che separa, la frontiera divide unendo e porta quindi in sé una sorta di paradosso concettuale”25, le differenze tra confine e frontiera. Le operazioni di monitoraggio e vigilanza, svolte dalle Forze di Polizia che hanno ancora Reparti dislocati nelle zone di confine, attualmente in atto per mantenere il controllo sulla fascia confinaria implicano l’esigenza di mettere in sicurezza quei territori transfrontalieri. Tale attività, però, richiede di ammettere che vi siano state delle derive, cioè a dire, delle omissioni che hanno consentito alle organizzazioni criminali (ma la responsabilità non è unicamente attribuibile alla supposta superficialità o alla sottovalutazione del problema da parte degli addetti ai lavori) di affermarsi e di strutturare dei capisaldi in territori particolarmente esposti ed appetibili. Un esempio ci sovviene dal Nord Est italiano: emplosa la Jugoslavia; venuti meno i tradizionali commerci di confine che avevano retto l’economia di città come Gorizia, Udine e Trieste, il fenomeno della disoccupazione ha favorito la penetrazione di investitori (con capitali liquidi) così detti “a

25 Chiara Brambilla, “Ripensare le frontiere in Africa”. p.24; Ed. L’Harmattan Italia - collana “Logiche Sociali”, 2009 -

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rischio” (si pensi alla formazione delle chinatown) ai quali l’assoldamento di manovalanza, di passeurs, da parte della criminalità organizzata legata al traffico ed al contrabbando di esseri umani ha fatto da corollario.L’allocuzione creare sicurezza, quindi, ci consente di riferirci a quel complesso di attività ad iniziativa legislativa e di polizia giudiziaria, poste in essere dagli Stati che, seppur divisi da un confine, egualmente sentono la necessità di perseguire, attraverso una politica di ordine e sicurezza pubblica coordinata e condivisa, il fine comune di affermare e mantenere, un assetto di legalità, d’imperio, su un territorio che per sua particolare connotazione geografica, storica e di componente etnica, corre il rischio di restare una ibridazione che facilmente può rimanere sotto l’influenza di bande criminali di matrice comune o politica. La frontiera in sicurezza è quindi il locus integrato in cui si sviluppa un’entità territoriale ed etnica a sé stante e nella quale si riconosce un senso della legalità transnazionale e condiviso; la frontiera è un “organismo” che vive, completandosi, su un “fronte non più contrapposto” ma compenetrato delle sue diverse anime. In tale ottica l'assetto attuale dell’Europa è connotato dalla sempre maggiore assenza di confini ma dal crescere di frontiere, il che richiede, però, un progressivo, costante ed efficace impegno da parte degli organismi di sicurezza dei Paesi comunitari aderenti al Trattato di Schengen26 teso alla condivisione delle strategie di contrasto alle penetrazioni fraudolente dei rispettivi territori. Alla luce di un’attenta analisi delle difficoltà oggettive che si incontrano nel porre in essere una efficace vigilanza

26 Trattato di Schengen : la firma del (…) avvenuta il 14 giugno 1985 sancisce in quegli anni la libera circolazione di persone e merci fra il Belgio, la Francia, la Germania, il Lussemburgo e i Paesi Bassi.

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transfrontaliera, a cui peraltro l’osservazione scientifica ci obbliga, si può affermare che il Trattato con il quale si è intesa affermare come implicita la sicurezza del territorio comunitario e che esso fosse ragionevolmente presidiato e vigilato, tanto da garantire ai cittadini “una tutela, integrata ed efficace”, s’è rivelato, in alcuni casi, lacunoso e la sua attuazione, talvolta, non corroborata da garanzie e in tale quadro da considerarsi prematura. L’impossibilità, attuale, di censire i cittadini cinopopolari che, provenienti dai balcani e dalla Russia, hanno attraversato le frontiere comunitarie e che oggi dimorano nelle chinatown delle città europee, nonché gli episodi terroristici di Madrid e Londra non offrono confroto né danno conferme troppo rassicuranti. L’abolizione forse frettolosa dei controlli ad alcuni confini e la libera circolazione di merci e persone in un tempo lontano salutata con entusiasmo (perché no, anche dalle organizzazioni criminali) oggi viene riletta, da molti esperti di economia, come una operazione lungimirante ed accorta che già nel decennio che gli seguì alla ratifica del trattato di Schengen fu improntata ad ampliare le dimensioni di un territorio internazionalizzandolo, sul quale “spalmare” gli effetti dell’incombente crisi economica ed occupazionale che, con l’apertura di alcuni mercati estrattivi e siderurgici ad Est e la delocalizzazione dei grossi sistemi di produzione, risultava estremamente pronosticabile. E’ fuor di dubbio che l’allargamento delle frontiere nazionali e la loro elevazione al rango di frontiere comunitarie ha contribuito ad aumentare la “mobilità dei lavoratori”, ma anche ad una lettura, forse in qualche caso troppo poco attenta, dei dati sulla realtà economica del polo minerario e siderurgico centro europeo, obbedendo unicamente all’imminente esigenza di abbassare

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la soglia di percezione di un indicatore di crisi molto importante: la disoccupazione.In materia di sicurezza transfrontaliera, se la consideriamo nell’accezione che la vede riconoscersi nell’ordine e sicurezza pubblica integrata, prenderemo contezza che a regolare e coordinare il controllo delle frontiere e degli spazi contigui, vi sono poche norme; una, la più importante e forse la più operativamente efficace, riconosce agli agenti del corpo di polizia di uno Stato il diritto di proseguire l’inseguimento del criminale, per qualche chilometro, nel territorio del paese confinante sino all’intervento della polizia locale. Ad oggi i provvedimenti adottati in considerazione di una proficua cooperazione transfrontaliera sono ancora dettati, come nel caso dei citati inseguimenti, da necessità contingenti o dal proliferare di un susseguirsi vertiginoso di accordi programmatici e di massima che, talvolta, sfociano in occasionali eventi in cui la collaborazione è da considerarsi, essa stessa, un “risultato di servizio” di rilievo. Le organizzazioni criminali con interessi transfrontalieri (internazionali) operano con estrema disponibilità di mezzi e di risorse, beneficiando, talvolta, di connivenze politiche con governi di Paesi che, per motivi storici o di opportunità politica, si rivelano in grado di esercitare la propria influenza anche nei confronti di Stati comunitari (non è un caso che vi sono governi comunitari che per tentare di ottenere il rispetto degli accordi bilaterali sottoscritti in tema di contrasto all’immigrazione clandestina con paesi non comunitari, debbano giungere a sottoscriverne di ulteriori con clausole che definire vessatorie o capestro, sarebbe eufemistico) che direttamente non hanno alcun coinvolgimento attività men che legali.

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Un riscontro giudiziario oggettivo che conferma le collusioni tra Stati e delinquenza organizzata internazionale, lo si acquisisce, per la prima volta, tra 1995 ed il 2001, quando alcune Procure e le polizie italiana, slovena ed austriaca, conducono sinergicamente, ma sulla base di accordi diretti tra i singoli magistrati e funzionari delle forze dell’ordine, indagini condivise tese al contrasto dei sodatisi criminosi dediti al traffico di esseri umani. In quel contesto emergono interessi economici che, con chiarezza, delineano l’esistenza e l’operatività di una rete di Stati mafia27 che, agevolando la latitanza di criminali internazionali o il traffico di esseri umani, ponevano le frontiere comunitarie in stato d’assedio. La lotta a queste strategie del crimine, però, rimaneva una battaglia di singole istituzioni. Questa criminalità organizzata vincente, intrisa di contatti e legata da operazioni economiche alle reti del terrorismo internazionale, stringe alleanze che vedono il consolidarsi di “cartelli” tra mafie dell’Est Europa e quelle dell’Africa sub-sahariana nella gestione dei mercati degli armamenti o la Triade cinese con la fratellanza balcanica, nella gestione dei mercati dello stupefacente e del trafficking28. A tal punto appare palese che per coordinare e dare una direzione unitaria alle indagini di polizia, in modo che possano essere ritenute idonee a fronteggiare queste potenti alleanze politico-criminali non è pensabile affidare la Sicurezza Comunitaria Transfrontaliera solamente ai Centri di Cooperazione Internazionale dislocati a ridosso delle frontiere comunitarie interne, con il ruolo istituzionale di gestire lo scambio delle informazioni tra le polizie dei Paesi comunitari

27 I QUADERNI SPECIALI DI LIMES - Geopolitica delle mafie jugoslave di Francesco Strazzari e Giovanni Dognini. Pag.21

28 “trafficking”: Trafficking of human beings - letteralmente “traffico di esseri umani”

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cooperanti, né alla struttura di Polizia Europea (Eurogol) così com’è ora concepita e strutturata. Struttura che offre validi ausili, ma che al di là di una attenta e rispondente analisi dei fenomeni criminali e del modus operandi dei sodalizi d’eccellenza, in termini operativi militari non può molto.Sembra a questo punto evidente che la strategia di contrasto con cui affrontare le indagini criminali di polizia venga centralizzata ed al contempo estrapolata dalle tecniche di contrasto alla “guerra asimmetrica”. Asimmetria nel pensiero29

e militare chiarezza d’analisi; ecco i requisiti attraverso i quali giungere all’ottimizzazione delle risorse umane e dei mezzi.La direzione verso cui è d’uopo proseguire oggi è quella di ottenere, quanto prima, una normativa comunitaria che disciplini le attività di sicurezza e di polizia in ambito Schengen dando ad Europol un significato e scopi propri; conferendole, cioè, il taglio di un organismo di polizia propriamente detto con un settore investigativo e ciò destinando ai settori dinamici risorse umane di indiscusso valore professionale in grado non soltanto, come in effetti sta succedendo ora, di analizzare, monitorare le grosse organizzazioni malavitose o terroristiche, ma di attuarle con altrettanta celerità ed incisività. La credibilità di una politica europea in tema di sicurezza transfrontaliera deve rinvenirsi dall’impegno nel perseguire le finalità proprie di tale tematica, un impegno concreto come lo fu, a suo tempo, quello volto alla creazione di una forza militare di pronto impiego da proiettare efficacemente sui teatri bellici di interesse comunitario. E’ nella medesima ottica che ricorrendo al vetusto quanto paradigmatico, ma sempre attuale,”Vom Kriege” di Carl von Clausewitz, bisogna riscoprire

29 “Della guerra e delle indagini” e “Il cittadino militante” di Febo U. della Torre di Valsàssina - Articoli pubblicati su OMPAX; febbraio 2009

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il valore comune e condiviso di parole come cooperazione, solidarietà, libertà e pace, cui l’Europa comunitaria si pretende informata; per far ciò bisogna, con coraggio, rileggere l’attuale situazione sociale internazionale dall’angolo prospettico del generale prussiano, riassegnando il ruolo che compete alla società civile europea. Di fronte ad un tale, preoccupante, scenario il valore morale ed etico a cui gli Stati comunitari, a cui le genti europee, devono informare l’organizzazione centralizzata della sicurezza transfrontaliera è rinvenibile nella Volkwehr (difesa popolare) clausewitziana che ci viene in aiuto e ci sollecita all’assunzione di un impegno responsabile, personale, nella gestione della costruzione della sicurezza. Oggi, quindi, non è più ipotizzabile che tale responsabilità sia lasciata in capo al singolo Stato; è l’Europa comunitaria e comune che deve farsi carico del coordinamento della struttura deputata a combattere i sodalizi criminali internazionali perché, dopo la firma del trattato di Schengen, non esiste, di fatto, più alcuna problematica che si arresti sulla linea di confine di uno Stato; nulla può essere più ritenuto di esclusivo interesse nazionale. In tale quadro, non troppo rassicurante, l’efficacia e la garanzia offerta al cittadino italo-comunitario nella vigilanza transfrontaliera è rappresentata dagli sforzi delle nostre polizie che si concretano nei così detti servizi di retrovalico. Di che si tratta? Sono dei servizi svolti da pattuglie delle varie forze dell’ordine che, durante la consueta ed istituzionale perlustrazione del territorio, attuata con cadenza saltuaria, occasionale o ciclica (a discrezione del responsabile dell’ufficio) presidiano le arterie stradali che portano ai valichi di frontiera con la finalità di prevenire o reprimere i traffici criminali – piccoli o grandi - che si svolgono nelle zone prossimali ai confini.

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Nel processo di costruzione della Sicurezza Transfrontaliera, almeno per quanto riguarda i confini italiani, il presidio delle zone confinarie non è purtroppo oggetto di preordinate e mirate strategie; l’attuazione di servizi di vigilanza coordinata è affidata, molto spesso, alla buona volontà del singolo. E’ l’iniziativa dei Dirigenti o dei Comandanti degli uffici di polizia, nei cui territori di competenza ricadono i confini comunitari, che cercano dribblando l’esasperata burocratizzazione dei dialoghi internazionali, di attuare concretamente il coordinamento dei servizi volti al contrasto di traffici illeciti. E’ il rapporto ad personam tra omologhi degli Stati confinanti a compiere “il miracolo dell’ottimizzazione delle risorse umane e dei mezzi impiegati” impiegati nel presidiare, efficacemente, le frontiere.In Europa, ancora oggi, parte della politica di sicurezza transfrontaliera non poggia sull’impiego dell’alta tecnologia di satelliti che pattugliano cieli e terra o degli occhi invisibili che, dal fitto della boscaglia, video-registrano i transiti clandestini, ma sulla simpatia dei due funzionari statali che riescono coordinare informazione ed azione.A questo punto possiamo dire che si è individuata “la sofferenza” del sistema di sicurezza comunitaria, un problema di difficile comunicazione che inerisce la concertazione ed la gestione delle strategie; un problema che è dato dalla sottovalutazione dei processi integrati decisionali da cui dipendono le tecniche operative coordinate e che non riesce ad essere concepito come il futuro delle odierne attività legate ad una concezione partitaria dell’ordine pubblico e della sicurezza condivise. In particolare, l’Europa, ancora poco attenta a strutturarsi secondo i dettami del rapporto costi benefici, hanno la meglio le difficoltà oggettive nelle quali spesso arrancano i singoli Stati nel tentativo di esercitare un

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presidio polidirezionale (integrato orizzontalmente e coordinato verticalmente) efficace cui sottoporre le fasce costiere, i confini terrestri o gli spazi aerei che rimangono il vero punto debole, il tallone di Achille, di una struttura potenzialmente eccellente ed impermeabile, su cui si attende di dibattere per giungere ad una condivisa e coerente mobilitazione che dia al tema della Sicurezza Transfrontaliera il risalto ed il senso che essa merita in termini di Ordine Pubblico Europeo. Le operazioni legate alla sicurezza, anche quelle che perseguono crimini particolarmente odiosi ed efferati, sono ancora oggi seguite come se riguardassero le strutture e le istituzioni interne ad ogni singolo Paese; tale atteggiamento mentale non è in linea con l’europeismo e fa sì che non si riesca ad opporre, colpo su colpo, una strategia legale Europea efficace improntata al contrasto della sempre meglio attrezzata e globalizzata, criminalità internazionale. Presidiare le frontiere della Comunità e coinvolgere gli Stati che vi si affacciano, al fine di portarvi sicurezza ed ordine pubblico, è una responsabilità comune, che se non sentita potrebbe condurra ad una pericolosa “deriva” che vedrebbe il concretarsi di un futuro “comunitario nella forma”, ma sempre meno “comunicante nella sostanza”.La Commissione Europea e gli Organismi comunitari preposti alla sicurezza devono affrontare senza ritardo e con coraggio, il problema che mina la percezione del livello di sicurezza tra la popolazione degli Stati membri; cioè deve porre rimedio alla totale, o quasi, assenza di sinergia nel gestire le informazioni e le operazioni che si pongono alla base delle indagini di polizia giudiziaria che riguardano reati a connotazione internazionale o che coinvolgono, a qualunque titolo, uno o più Paesi comunitari.

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Sicurezza Transfrontaliera e Ordine Pubblico Europeo sono concetti, esigenze, interdipendenti che non è più il tempo di trattare su tavoli separati.

C. L’asse del caos: rivisitazioni di uno scenario (di: Elvio Ciccardini)30

Riprendendo un’espressione dell’ex presidente americano George Bush, sono ormai diversi gli studiosi che definiscono gli attuali scenari geopolitici con il nome de “l’asse del caos”. Questo asse si compone di nazioni caratterizzate da almeno tre elementi di instabilità: politica, economica e sociale. Il ragionamento parte da una attenta analisi, effettuata da Niall Ferguson, sulle cause principali che determinarono i due conflitti mondiali della prima metà del ‘900. Alla radice delle due grandi guerre vengono individuati almeno tre processi: la disintegrazione etnica, l’instabilità economica e il processo di declino degli imperi. Questo ultimo fattore, in particolare, avrebbe portato ad un inasprimento delle lotte per il potere politico e contribuito in maniera determinante all’instabilità sia politica sia militare.Ritornando al presente, secondo Ferguson, esiste almeno una regione in cui due di questi fattori sono già presenti da anni. E’ il Medio Oriente. In questa area, gli scontri etnici si susseguono da decenni e, anche a seguito degli insuccessi riportati in Iraq e in Afghanistan, gli Stati Uniti sembrano sul punto di ridimensionare la loro presenza nella regione. La terza variabile, cioè l’instabilità economica, è, al contrario, un fattore recente. India e Cina, in particolare, hanno svolto un ruolo fondamentale nella crescita del PIL mondiale. Tuttavia

30 Elvio Ciccardini studioso di Economia collabora con l’Università di Camerino e l’Università di Bologna.

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anche per questi paesi sono previsti: una sostanziale impennata della disoccupazione e un calo dei redditi.Partendo dalle stesse premesse, Jeffrey Gettleman ha descritto l'incessante anarchia che turba la Somalia. Mentre Arkady Ostrovsky ha analizzato la nuova aggressività russa. Sam Quinones ha esplorato i disordini innescati in Messico dalle guerre tra narcotrafficanti. Nel frattempo, l’Iran continua a spalleggiare sia Hamas sia la sua controparte sciita in Libano, Hezbollah, e va avanti con il programma di armamenti nucleari che gli israeliani vedono come minaccia alla loro stessa esistenza. A questo si aggiungono i recenti scontri interni post elettorali. I governi di Kabul e Islamabad vengono definiti come i più deboli del pianeta. Tanto che, da più parti, si paventa il rischio di una disintegrazione delle istituzioni sotto ondate crescenti di violenza. Sul confine orientale dell'Iran, il problema principale è quello di riportare la pace in Afghanistan. Tuttavia, a rendere più difficile questa impresa, è l'anarchia che regna nel vicino Pakistan. E, ancora una volta, la crisi economica svolge un ruolo cruciale. Infatti, la classe media pakistana, potente politicamente, è stata travolta dal crollo del mercato azionario. Anche per i lavoratori pakistani si affaccia lo spettro disoccupazione. Ad avvalorare questo scenario sono le cronache riportate dai giornali, anche nazionali, negli ultimi mesi. Il 18 maggio di questo anno, il Corriere titolava “Le atomiche non finiscano ai talebani”. Il riferimento è all’arsenale atomico Pakistano. Gli Stati Uniti hanno organizzato un Commandos appositamente addestrato per intervenire nel caso che l'arsenale nucleare possa sfuggire al controllo militare del Pakistan. Il corpo speciale sarebbe pronto a impossessarsi delle armi nucleari, a disattivarle e a nasconderle in località sicure. Ufficialmente, la

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notizia è stata divulgata dalla tv Fox, fornendo dettagli sulla missione e sulle esercitazioni tenutesi nel Nevada. Se da un lato l’esercito statunitense sembra essere intento ad evitare nuovi scenari indesiderati, dall’altro lato, sempre gli Stati Uniti stanno attuando una politica di apertura commerciale con l’India, rivolta a rafforzare il peso militare del paese nell‘area. L’india, definita una delle più importanti democrazie mondiali, verrebbe così a svolgere un ruolo di garante per la pace in Asia e Medio Oriente. Nel luglio del 2009 India e Stati Uniti hanno sottoscritto due accordi sulla vendita di armi e sull’individuazione di due siti dove costruire centrali nucleari. La notizia è stata ufficializzata dal segretario americano Hillary Clinton, assieme al ministro degli esteri indiano SM Krishna. Gli USA potranno vendere armamenti all' India che si impegna a dimostrarne l' utilizzo e a non rivenderle, aprendo così le porte agli Usa del mercato indiano, finora appannaggio della Russia. Anche l’Italiana Financantieri è impegnata in una commessa per fornire navi da guerra all’esercito indiano. L’obiettivo sarebbe quello di contrastare l’ormai ingombrante presenza navale cinese nell’Oceano Indiano. Nel mese di agosto, infine, viene varato il primo sottomarino nucleare indiano. Così l’India entra ufficialmente nel club delle superpotenze militari.Se è vero che “gli studiosi di storia militare e di strategia sanno che la forza militare non è inutile quando non viene impiegata. Anzi, è tanto più utile proprio in questo caso. Infatti consente ai responsabili politici di conseguire i loro obiettivi con la dissuasione e la compellenza, senza dover combattere“. (riprendendo le parole del Generale Carlo Jean, pronunciate al convegno “Soldati di pace in scenari operativi”). E’ altrettanto vero che l’attuale crisi economica sta portando i governi delle principali superpotenze ad impegnarsi

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maggiormente nell’affrontare la crisi in casa e a considerare come un lusso gli interventi internazionali di pace. Lusso, che potrebbe corrispondere ad una fatale distrazione, considerando che in quelle aree risiede la maggior parte della popolazione mondiale e che potrebbe determinare un ulteriore allargamento dell’asse del caos.