cass. pen. 26 novembre 2009 n. 48868

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Documento aggiornato al 8 marzo 2010 Pagina 1 di 5 Limitazione di responsabilità Importante. Il testo del provvedimento non riveste carattere di ufficialità e non è in alcun modo sostitutivo della pubblicazione ufficiale cartacea. Per ulteriori informazioni consulta i Ternini e le condizioni d’uso del servizio all’indirizzo http://www.lawgle.it/termini-di-utilizzo http://www.lawgle.it Lawgle Cass. Pen. Sez. VI 15 dicembre 2009, n. 48868 Massima n. 1 Titolo ESTORSIONE, LAVORO, RETRIBUZIONE, PAGA INFERIORE Testo Un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, nel senso dell'accettazione da parte di quest'ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative, non esclude, di per sè, la sussistenza dei presupposti dell'estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo può essere usato per scopi diversi da quelli per cui e apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia, ingiusta, perchè è ingiusto il fine a cui tende, e idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi comunque una possibilità di lavoro, altrimenti esclusa per le generali condizioni ambientali o per le specifiche caratteristiche di un particolare settore di impiego della manodopera.

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Cassazione penale 48868/2009

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Limitazione di responsabilità

Importante. Il testo del provvedimento non riveste carattere di ufficialità e non è in alcun modo sostitutivo della pubblicazione ufficiale cartacea. Per ulteriori informazioni consulta i Ternini e le condizioni d’uso del servizio all’indirizzo http://www.lawgle.it/termini-di-utilizzo

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Cass. Pen. Sez. VI 15 dicembre 2009, n. 48868 Massima n. 1 Titolo ESTORSIONE, LAVORO, RETRIBUZIONE, PAGA INFERIORE Testo Un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, nel senso dell'accettazione da parte di quest'ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative, non esclude, di per sè, la sussistenza dei presupposti dell'estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo può essere usato per scopi diversi da quelli per cui e apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia, ingiusta, perchè è ingiusto il fine a cui tende, e idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi comunque una possibilità di lavoro, altrimenti esclusa per le generali condizioni ambientali o per le specifiche caratteristiche di un particolare settore di impiego della manodopera.

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SENTENZA N. 48868

ANNO 2009

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

Sentenza 26 novembre - 21 dicembre 2009, n. 48868 Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Cagliari, con sentenza in data

18/10/2007, confermava la sentenza del Tribunale di Cagliari, appellata da D. A., dichiarato colpevole dei

delitti di estorsione e tentata estorsione continuata

(per aver minacciato, nella sua qualità di titolare della ditta individuale D.F.S. Forniture Alimentari, diversi

dipendenti di licenziarli se non avessero accettato di

ricevere una retribuzione mensile inferiore a quella

pattuita, con un ingiusto profitto di L. 700.000 mensili per ciascuno dei dipendenti) e condannato, con le

attenuanti generiche e la diminuente per il rito, alla

pena di anni due, mesi quattro di reclusione e L. 1 milione di multa.

I difensori dell'imputato proponevano ricorso per

cassazione deducendo i seguenti motivi:

a) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 629

c.p., mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità

della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del

processo specificamente indicati nei motivi

(violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)), mancando il requisito strutturale del reato costituito

dalla minaccia finalizzata a lucrare un ingiusto

profitto in danno delle persone offese;

b) inosservanza, erronea applicazione dell'art. 62 c.p., n. 6, e art. 81 capoverso c.p., mancanza,

contraddittorietà manifesta illogicità della

motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del

processo specificamente indicati nei motivi

(violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)), non avendo la Corte accolto la richiesta di applicazione

dell'attenuante del risarcimento del danno, sul

presupposto che non vi sarebbe stata la prova

dell'avvenuto integrale risarcimento che avrebbe riguardato solo due dipendenti (F. e Fo.).

Motivi della decisione

1. Il nodo centrale della decisione si rivela quello

della qualificazione giuridica della condotta ascritta

all'imputato; a tal fine occorre verificare se la ricostruzione del fatto storico sia suscettibile di

censura sotto il profilo logico e, quindi, accertare se

la fattispecie sia stata correttamente inquadrata nel

paradigma dell'ar.t 629 c.p.. Questa Corte ha già affermato che integra il delitto di estorsione la

condotta del datore di lavoro che, approfittando della

situazione del mercato di lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell'offerta sulla domanda, costringa i

lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento,

ad accettare la corresponsione di trattamenti

retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro

contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi (Sez. 2,

Sentenza n. 36642 del 21/09/2007 Ud. (dep. 05/10/2007) Rv. 238918).

In punto di diritto va premesso che l'oggetto della

tutela giuridica nel reato di estorsione è duplice, nel senso che la norma persegue l'interesse pubblico

all'inviolabilità del patrimonio e, nel contempo, alla

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libertà di autodeterminazione. L'evento finale della disposizione patrimoniale lesiva del patrimonio

proviene, infatti, dalla stessa vittima ed è il risultato di

una situazione di costrizione determinata dalla violenza o dalla minaccia del soggetto agente. In

particolare il potere di autodeterminazione della

vittima non è completamente annullato, ma è, tuttavia, limitato in maniera considerevole: in altri

termini il soggetto passivo dell'estorsione è posto

nell'alternativa di far conseguire all'agente il

vantaggio economico voluto ovvero di subire un pregiudizio diretto e immediato (tamen coactus,

voluit).

In questa prospettiva anche lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può

assumere un significato ricattatorio e genericamente

estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l'altrui volontà; in tal caso l'ingiustizia del

proposito rende necessariamente ingiusta la

minaccia di danno rivolta alla vittima e il male minacciato, giusto obiettivamente diventa ingiusto

per il fine cui è diretto (cfr. Cass. pen. Sez. 2A, 17

ottobre 1973, n. 877). Allo stesso modo la

prospettazione di un male ingiusto può integrare il delitto di estorsione, pur quando si persegua un

giusto profitto e il negozio concluso a seguito di essa

si riveli addirittura vantaggioso per il soggetto destinatario della minaccia (cfr. Cass. pen. Sez. 2A,

5 marzo/28 aprile 1992 n. 1071).

Ciò in quanto la nota pregnante del delitto di estorsione consiste nel mettere la persona violentata

o minacciata in condizioni di tale soggezione e

dipendenza da non consentirle, senza un apprezzabile sacrificio della sua autonomia

decisionale, alternative meno drastiche di quelle alle

quali la stessa si considera costretta (cfr. Cass. pen.

Sez. 2A, 7 novembre 2000, n. 13043).

Si spiega così perchè la "minaccia", da cui consegue

la coazione della p.o., possa presentarsi in molteplici forme ed essere esplicita o larvata, scritta o orale,

determinata o indeterminata, e finanche assumere la

forma di esortazioni e di consigli. Ciò che rileva, al di

là delle forme esteriori della condotta, è, infatti, il proposito perseguito dal soggetto agente, inteso a

perseguire un ingiusto profitto con altrui danno,

nonchè l'idoneità del mezzo adoperato alla coartazione della capacità di autodeterminazione del

soggetto agente.

Ciò precisato in via di principio, osserva il Collegio che le censure del ricorrente si rivelano generiche e,

comunque, afferenti a valutazione riservate al

Giudice del merito per quanto attiene alla ricostruzione dei fatti storici e all'interpretazione del

materiale probatorio, mentre, sotto il profilo della

violazione di legge, risultano infondate, avendo la

Corte territoriale fatto corretta applicazione del disposto dell'art. 629 c.p..

Un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, nel senso dell'accettazione da parte di

quest'ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi

retributivi, non esclude, di per sè, la sussistenza dei

presupposti dell'estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo

può essere usato per scopi diversi da quelli per cui e

apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia, ingiusta, perchè è ingiusto

il fine a cui tende, e se è idonea a condizionare la

volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi comunque una possibilità di lavoro,

altrimenti esclusa per le generali condizioni

ambientali o per le specifiche caratteristiche di un

particolare settore di impiego della manodopera (ex plurimis Cass. pen., Sez. 2A, 24/01/2003, n. 3779;

Cass. pen., Sez. 1A, 11/02/2002, n. 5426). E'

questione, poi, riservata al Giudice del merito valutare se la condotta dell'imputato sia stata posta

in essere nella sola prospettiva di conseguire un

ingiusto profitto con altrui danno, attraverso un

comportamento che, al di là dell'aspetto formale dell'accordo contrattuale, ponga concretamente la

vittima in uno stato di soggezione, ravvisabile nella

alternativa di accedere all'ingiusta richiesta dell'agente o di subire un più grave pregiudizio,

anche se non esplicitamente prospettato, quale

l'assenza di altre possibilità occupazionali.

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Orbene, nelle vicende all'esame, i Giudici di merito hanno elencato da parte del datore di lavoro

comportamenti prevaricatori del datore di lavoro in

costante spregio dei diritti delle lavoratrici, avendo evidenziato che il D. non ha rappresentato ai

lavoratori una situazione di difficoltà economica

aziendale che avrebbe potuto comportare la cessazione del rapporto di lavoro, ma coartò la loro

volontà con la minaccia di licenziarli qualora non

avessero apposto la firma per quietanza sulle buste

paga recante somme inferiori rispetto a quelle effettivamente ricevute.

Ritiene il Collegio che le osservazione del ricorrente,

non scalfiscono la valenza motivazionale della decisione impugnata, la quale si fonda

implicitamente sul principale rilievo dell'irrilevanza del

formale ricorso al contratto, allorchè questo risulta strumentalizzato al perseguimento di un ingiusto

profitto.

La condotta del ricorrente, integra, quindi, come correttamente ritenuto dalla Corte territoriale, il reato

di estorsione.

Infatti un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, nel senso dell'accettazione da parte di

quest'ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi

retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative, non esclude, di per sè, la sussistenza dei

presupposti dell'estorsione mediante minaccia, in

quanto anche uno strumento teoricamente legittimo può essere usato per scopi diversi da quelli per cui e

apprestato e può integrare, al di là della mera

apparenza, una minaccia, ingiusta, perchè è ingiusto

il fine a cui tende, e idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi

comunque una possibilità di lavoro, altrimenti esclusa

per le generali condizioni ambientali o per le specifiche caratteristiche di un particolare settore di

impiego della manodopera (ex plurimis Cass. pen.,

Sez. 2A, 24/01/2003, n. 3779; Cass. pen., Sez. 1A, 11/02/2002, n. 5426). Lo stesso principio, sia pure

afferente ad altra fattispecie, è stato affermato da

Sez. 2, Sentenza n. 10542 del 11/12/2008 Cc. (dep.

10/03/2009) Rv. 243858).

E' questione, poi, riservata al Giudice del merito

valutare, come effettuato in senso positivo nella sentenza impugnata, se la condotta dell'imputato sia

stata posta in essere nella sola prospettiva di

conseguire un ingiusto profitto con altrui danno,

attraverso un comportamento che, al di là dell'aspetto formale dell'accordo contrattuale, ponga

concretamente la vittima in uno stato di soggezione,

ravvisabile nella alternativa di accedere all'ingiusta richiesta dell'agente o di subire un più grave

pregiudizio, anche se non esplicitamente prospettato,

quale l'assenza di altre possibilità occupazionali.

Orbene, nelle vicende all'esame, i Giudici di merito

hanno elencato comportamenti prevaricatori del

datore di lavoro in costante spregio dei diritti delle lavoratrici (si pensi all'erogazione di retribuzioni

inferiori ai minimi sindacali e alla correlativa pretesa

di far firmare prospetti-paga per importi superiori a

quelli corrisposti) da rendere evidente, da un lato, che l'imputato, al di là del ricorso ad esplicite

minacce, si è costantemente avvalso della situazione

del mercato del lavoro ad esso particolarmente favorevole e, dall'altro che il potere di

autodeterminazione delle lavoratrici è stato

compromesso dalla minaccia larvata, ma non per questo meno grave e immanente, di avvalersi di

siffatta situazione.

Ciò che rileva agli effetti dell'art. 629 c.p. è che l'"accordo" non fu raggiunto liberamente, ma (nella

descritta situazione) estorto.

Nel complesso, quindi, la decisione impugnata trova sostegno in un solido apparato argomentativo,

giuridicamente corretto e immune da palesi vizi

logici.

2) Anche il secondo motivo è manifestamente

infondato, trattandosi di una censura di merito ad una

motivazione che appare immune da vizi logici.

La Corte territoriale, invero, conformemente a quanto

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già ritenuto dal Tribunale, ha rilevato come manchi la prova dell'avvenuto integrale risarcimento del danno

da parte dell'imputato che, peraltro, non ha

contestato di non aver risarcito il danno nei confronti delle numerose persone offese, ad eccezione di F. e

Fo..

Nel complesso la decisione impugnata trova sostegno in un solido apparato argomentativo,

giuridicamente corretto e immune da palesi vizi

logici. Inoltre, le eventuali minime incongruenze sono ininfluenti, una volta che le deduzioni difensive,

anche se non compiutamente esaminate, siano

tuttavia incompatibili con la decisione impugnata.

Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., con il

provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso,

l'imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del

procedimento, nonchè - ravvisandosi profili di colpa

nella determinazione della causa di inammissibilità -

al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente

fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il

ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle

ammende.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2009.