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C'era una volta Cernobyl... Когда-то был Чернобыль... 26 Aprile 2016 XXX° anniversario

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C'era

una volta

Cernobyl...

Когда-то был Чернобыль...

26 Aprile 2016

XXX° anniversario

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«“Il nome della stella è Assenzio” è il versetto 8,11

dell'Apocalisse di Giovanni.

Esso preannuncia che, al suono della terza tromba, la stella

Assenzio cadrà dal cielo e irradierà il suo potere come una

torcia ardente rendendo amare le acque dei fiumi e

facendo morire una grande quantità di uomini.» *

* Oxana Pachlovska, Overture dell'Apocalisse. Lina Kostenko, la “grande ribelle”, in AAVV, Il nome della

stella è Assenzio. Ricordando Chernobyl, Viella, Vicenza, p. 79. Cernobyl in lingua ucraina significa “stele nero”,

immagine strettamente legata all'artemisia, componente fondamentale dell'assenzio.

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Introduzione dell'Associazione PAKA

L’associazione PAKA è nata l’11 gennaio 2009, associazione fortemente

voluta dall’esperienza di un gruppo di volontari che operano dal 1995

nell’ambito di un progetto di accoglienza di bambini bielorussi, nato a

Cascina (PI) ed in seguito allargato alla Valdinievole e zone limitrofe.

Negli ultimi anni si era fatta più pressante l’esigenza di darsi una forma

associativa autonoma, che meglio rappresentasse le nostre istanze ed i

nostri progetti di accoglienza e di sostegno a distanza con, in più, una

connotazione anche geografica locale, più vicina alla nostra zona di

residenza e, quindi, che ci permettesse di operare più agevolmente.

E’ così che nasce Paka.

Ad oggi principalmente stiamo lavorando per consolidare la nostra azione,

presentandoci al territorio locale con la nostra nuova forma associativa, nel

tentativo di ottenere maggiori adesioni di famiglie disponibili

all’accoglienza e cercare forme di contributi (attraverso iniziative varie di

raccolta fondi) che possano permetterci di abbassare i costi di viaggio, da

sempre la voce principale del nostro bilancio. Abbiamo inoltre avviato le

opportune relazioni con le istituzioni pubbliche e private della nostra

Regione, per meglio sviluppare i progetti di accoglienza e di sostegno a

distanza.

Cerchiamo di seguire i nostri bambini attivando servizi di aiuto allo studio

perchè siamo convinti che l’istruzione sia la base per la loro crescita e per

garantire loro un possibile futuro lavorativo e, soprattutto, una formazione

dignitosa e rispettosa delle loro istanze. I fondi raccolti servono a garantire

ai bambini i trasporti dai villaggi a Gomel e viceversa per le partenze e i

ritorni dalle vacanze terapeutiche; aiutano inoltre a tamponare le varie

emergenze sanitarie che si verificano durante l’anno e a permettere l’invio

dei pacchi (contenenti vestiti, cibo a lunga conservazione, giocattoli...).

***

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All’1.23 di sabato 26 aprile 1986, durante una fase di spegnimento per

manutenzione del reattore 4 e mentre era in corso un test sperimentale sui

sistemi di emergenza, due esplosioni ne distrussero il contenitore di

cemento da 1000 tonnellate.

Frammenti del nocciolo, materiale e vapore radioattivo vennero

disseminati attorno alla centrale contaminando aria e suolo per più di 100

chilometri.

La nube radioattiva contaminò un'area immensamente più ampia.

I morti direttamente coinvolti nell’esplosione e nei primi soccorsi furono

trenta, 8/10.000 in seguito e circa 20 milioni i contaminati nell’ex URSS.

“ONORE A COLORO CHE SALVARONO IL MONDO”

Questa frase è impressa sul monumento in Ucraina, dedicato ai liquidatori,

uomini che venivano da tutta l’ex Unione Sovietica e che sono stati

impiegati per spegnere l’incendio e per arginare i danni conseguenti

Hanno ripulito la centrale, i villaggi e le strade, hanno spostato con le loro

braccia il materiale contaminato, sepolto con le pale quintali di scorie e

materiale radioattivi, lavato con getti d’acqua la struttura della centrale, i

palazzi di Pripyat e le case dei villaggi.

I primi che intervennero nella centrale si alternarono a turni di 40 secondi,

sprovvisti di protezioni ed attrezzatura, per spostare con le mani pezzi di

grafite che emanavano, in un secondo e mezzo, la dose che una persona

accumula in una vita intera in condizioni naturali.

Da allora Cernobyl è diventata, come altre 178 città e centri evacuati, un

luogo deserto, svuotato (almeno apparentemente) di vita, sullo sfondo di

una foresta silenziosa.

Il 26 aprile del 2016 saranno 30 anni dall’esplosione.

Abbiamo un sogno: vogliamo immaginare Luda, Tatiana, Ivan, Victoria e

tutti gli altri bambini dei villaggi diventare grandi, rimanere sani, pensare a

un futuro, credere in se stessi, avere un obiettivo e lottare per raggiungerlo,

vivere.

Con fatica e a piccoli passi, consapevoli di andare incontro a grandi

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sconfitte, ma sperando in qualche piccola vittoria, vogliamo crederci e

vogliamo continuare ad aiutare i nostri piccoli amici bielorussi.

Tutto questo pensando anche a Natasha, che se n’è andata avvelenata dalle

radiazioni, a Pavel e Aleksandr che nessuno ha potuto aiutare, insieme a

tutti gli altri bambini dei quali non conosciamo il nome, ma sentiamo la

presenza.

Per tutti loro, vogliamo fortemente coltivare speranze e sogni:

“SE SOGNI DA SOLO E’ SOLO UN SOGNO,

SE SOGNI CON GLI ALTRI,

E’ LA REALTA’ CHE COMINCIA”

(Ernesto Che Guevara)

La Presidente Cristina

La Vice-presidente Anna

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Presentazione della Conferenza – Cristina Betti e Lorenzo Pacini

Non eravamo ancora nati quando avvenne l'esplosione del reattore 4 della

Centrare Nucleare V.I. Lenin di Cernobyl, la notte del 26 aprile 1986 alle

ore 01, 23 minuti e 45 secondi. 0,1,2,3,4,5... Una precisa, nonché

inquietante, sequenza numerica.

Non eravamo ancora nati, è vero, ma abbiamo sempre sentito parlare di

questo “incidente” fin da piccoli: a scuola ne discutevamo con gli

insegnanti, oppure ci portavano a vedere mostre od interventi a riguardo;

conoscevamo inoltre bambini provenienti dalla Bielorussia e dall'Ucraina

perché alcuni nostri amici e parenti li “adottavano a periodi”, accogliendoli

nella loro/nostra famiglia per brevi intervalli di tempo, una “vacanza” a

loro necessaria per poter perdere, in un mese, almeno metà delle radiazioni

assorbite durante un anno.

Quest'ultimo aspetto ha soprattutto inciso nella nostra visione d'insieme,

una riflessione sulla natura umana e sulla spinta del progresso che sono

continuate anche durante la nostra collaborazione con l'Associazione Paka.

Quest'anno ricorre il XXX° anniversario della notte che ha contribuito a

cambiare le sorti dell'Europa e dell'idea di energia nucleare. Quella che

ascolterete/leggerete è un proseguimento della conferenza che ci venne

proposta nel 2014. All’epoca non sapevamo bene come costruire e come

proporre al pubblico la presentazione: non volevamo fermarci ad un

semplice resoconto storico e tecnico-scientifico di ciò che avvenne in quei

giorni e nei successivi. Pensammo pertanto ad una conferenza “poetico-

scientifica”. Inevitabile, dati i nostri rispettivi titoli di studio.

Perché accostare questi due mondi così diversi, così lontani tra loro, a detta

dell'opinione pubblica?

Non ci sembrava giusto affrontare l'uno tralasciando l'altro. C'è un

elemento comune alla poesia e alla scienza, e questo elemento, mai

trascurabile, è l'uomo. Per quanto una riflessione sull'aspetto storico e sulla

problematica scientifica di questo orribile evento sia inevitabile, può venir

naturale il pensiero di tralasciare, durante una discussione sulla Centrale

Nucleare, l'aspetto umano della questione. Ma è l'uomo che lancia se

stesso nel progresso, l'uomo che rincorre gli altissimi ideali della scienza,

l'uomo che a volte tralascia le questioni etiche e che provoca danni al resto

dell'umanità, nonché a tutto ciò che ha costruito e prodotto da un punto di

vista culturale. Innato è l'istinto umano che porta alla ricerca, alla scoperta,

al desiderio di sapere. Ogni individuo ha in sé le armi per creare e per

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distruggere e sempre deve rispondere delle sue azioni.

Ma allora, perché la poesia?

Se una parte innata dell'uomo spinge verso la ricerca, per così dire,

scientifica, l'altra spinge verso la costruzione di una dimensione artistica:

si cercano vari linguaggi per cercare di comprendere il mondo, ciò che ci

circonda, ciò a cui la scienza non può rispondere.

Alla fine, entrambe queste forme, rispondono semplicemente al profondo

bisogno dell'uomo di scoprire, di darsi risposte.

I prodotti artistico-culturali che l'umanità plasma in un un caleidoscopio di

forme diverse altro non sono altro che i segni tangibili del passaggio

dell'uomo nel mondo, del legame che sussiste fra esperienza, mente e

linguaggio. Attraverso una lettura dei testi, dei documenti, delle

testimonianze, delle poesie, o attraverso la visione dei dipinti e delle

fotografie, è possibile percepire e comprendere qual è stato lo shock più

profondo che si è verificato nella natura umana con l'incidente di

Cernobyl, un trauma che ha provocato un'irrimediabile frattura

nell'universo e nella vita del popolo ucraino, bielorusso e non solo.

Cernobyl è, nelle parole della poetessa ucraina Lina Kostenko, il “buco

nero della coscienza umana”. Questo non lo dobbiamo mai dimenticare.

Mescolando questi due caratteri, il lato scientifico e il lato poetico, noi

vogliamo invitare il pubblico non solo a ricordare ciò che fu l'incidente in

modo non banale (troppo spesso oggi le ricorrenze sono mero frutto di

finto amor di causa) ma guidarlo ad una migliore e più profonda

conoscenza di un evento storico così importante, così traumatico, inoltrarlo

nelle profondità delle situazioni umane ed invitarlo a riflettere, ad

interrogarsi, ad indagare, a non tralasciare mai l'aspetto etico che

coinvolge, sempre, l'uomo in ogni sua azione.

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Cronistoria della Centrale Nucleare di Černobyl'– Cristina Betti

1970: comincia la costruzione della centrale nucleare V.I. Lenin (Vladimir

Ilyich Lenin) di Černobyl' (in russoЧернобыльская атомная

электростанция имени В. И. Ленина, in ucraino Чорнобильська АЭС,

detta anche ChAES), attualmente in Ucraina, all'epoca ancora Urss.

La sede scelta è la nuova città di Pryp'yat' (nome del fiume che divide

l'Ucraina dalla Bielorussia), distante 16 km dal confine con la Bielorussia e

30 km da Cernobyl, costruita appositamente per ospitare i costruttori e i

futuri lavoratori della centrale. Fin dal primo giorno della sua costruzione

la centrale è posta sotto il controllo del KGB ucraino, il quale provvede

all'attività di controspionaggio e di verifica delle caratteristiche della

centrale. Vengono subito rilevate diverse irregolarità (su norme anti-

incendio, sicurezza, qualità del lavoro e dei materiali...).

Immagine che mostra le contaminazioni da Cesio 137 nell'area

attorno alla centrale, posizionata a confine fra le attuale Ucraina e

Bielorussia.

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All'epoca il segretario del Partito Comunista dell'URSS era Leonìd Il'ìč

Brèžnev, che fin da subito stabilì la duplice importanza della centrale: da

una parte era simbolo massimo del progresso sovietico, dall'altra anche un

laboratorio di una guerra nucleare. La centrale produceva infatti anche

materie prime radioattive necessarie per la costruzione di armamenti

nucleari, prioritari per l'URSS in piena Guerra Fredda.

1977: Il I reattore è operativo (tipologia RBMK per 3515 MW di potenza).

1978: Il II reattore è operativo.

1981: Il III reattore è operativo.

1983: Il IV reattore è operativo (quello dell'incidente). Continua la

progettazione dei reattori V e VI.

1984: Il KGB ucraino rileva i primi difetti nella progettazione dei blocchi

3 e 4.

26 aprile 1986: il Disastro. Nel reattore 4 si sta svolgendo un “test di

sicurezza” destinato a non andare a buon fine: alle ore 01.23.45 si verifica

un'esplosione, il tetto del reattore (composto da materiale infiammabile) si

scoperchia e scoppia un incendio. Una nube di materiale radioattivo

fuoriesce dalla centrale ricadendo nel territorio circostante, evento che rese

necessario l'evacuazione di circa 336.000 persone.

Ma l'allarme non viene dato immediatamente.

Il governo centrale si considera l'unico in grado di prendere decisioni e

rimuove poteri decisionali alle autorità locali. Si sceglie di non dare nessun

allarme internazionale e ci si prepara ad affrontare un evento di cui, fino a

quel momento, nessuno aveva avuto esperienza.

Numerose squadre di vigili del fuoco, di militari e di volontari si preparano

ad affrontare l'incendio: nessuno viene avvisato della pericolosità delle

radiazioni, nessuno viene fornito di materiale protettivo. Gli operai che

lavoravano alla costruzione del reattore 5 e 6 si recano come se nulla fosse

a lavoro. L'incendio dura diversi giorni, durante i quali molte squadre di

elicotteristi gettarono materiali necessari (quali boro, sabbia...) alla

schermatura del reattore. Tutto ciò costituirà la base del successivo

“sarcofago” che verrà costruito nei successivi anni attorno al reattore 4.

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Per spengere del tutto l'incendio viene utilizzata anche l'acqua, la quale

contribuisce a disperdere ulteriore vapore radioattivo nell'atmosfera,

destinato a diffondersi in buona parte d'Europa.

I morti riconosciuti nell'incidente sono 65 (di cui 28 “liquidatori”

ufficialmente lodati per il loro coraggio).

27 aprile: durante la notte viene decisa l'evacuazione della città di

Pry'pjat'. Ai cittadini viene detto di portare con sé solo pochi oggetti

personali.

Nel frattempo in Svezia alcuni lavoratori della centrale nucleare di

Forsmark fanno scattare un allarme radioattività: i loro rilevatori

confermano la presenza di materiale radioattivo. Comincia un controllo

degli impianti che non porta ad alcun risultato; cercarono pertanto l'origine

della fonte radioattiva nel territorio dell'Unione Sovietica. Il governo

svedese chiede spiegazioni, ma l'Urss cerca di sminuire la gravità della

situazione. La notizia fa il giro del mondo e in breve tempo le autorità

sovietiche cominciarono a rilasciare le prime (scarne) notizie sull'accaduto.

28 aprile: viene dato il

vero allarme. La protezione

civile ucraina crea un

cordone sanitario di 10 km

attorno alla centrale.

Possono adesso entrare

soltanto gli addetti ai lavori.

La nube radioattiva intanto

colpisce anche i paesi del

Nord-Ovest d'Europa fra

cui Regno Unito, Paesi

Bassi, Polonia, Danimarca.

Gli elementi radioattivi, di

fatto, colpiscono il suolo soltanto nelle zone in cui ha piovuto.

29 aprile: la nube radioattiva colpisce, fino al 2 maggio, anche il Sud

d'Europa fra cui Austria, Italia settentrionale (ed in parte centrale),

Svizzera, Francia di sud-est, Germania.

Rappresentazione della nube radioattiva che ha colpito l'Europa (in

data 1° maggio 1986).

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1 maggio: la Festa del Primo Maggio viene effettuata come se nulla fosse

successo. La popolazione limitrofa alla centrale ancora non è stata avvisata

della gravità della situazione.

2 maggio: da Mosca arrivano gli ufficiali di governo.

Viene stabilita l'evacuazione di tutti coloro che risiedono in un raggio di 30

km dalla centrale, questa diventerà la “zona proibita” o “zona di

esclusione” di Cernobyl, destinata all'accesso esclusivo di liquidatori,

scienziati, militari e ricercatori.

L'evacuazione, lunga e difficile, termina il 6 maggio.

Prima della fine del 1986 verranno evacuati 188 centri abitati, per un totale

di 116.000 persone.

4 maggio: la nube radioattiva investe l'Ucraina e Russia meridionale, per

spostarsi poi verso Romania, Moldavia, Penisola Balcanica fino in Grecia

e Turchia.

9 maggio: le 5000 tonnellate di materiale scaricato sul reattore (boro,

dolomio, argilla...), utilizzato per spengere l'incendio della grafite, gravano

così tanto sulla struttura che si verifica un ulteriore crollo, tale da

provocare l'apertura di una voragine. Un'ulteriore ondata di materiale

radioattivo si riversa in un raggio di 35 km attorno alla centrale.

10 maggio: cessa l'emissione di vapore radioattivo.

L'incidente ha emesso un totale di 185 milioni di Curie (l'unità di misura

dell'attività di un radionuclide), pari allo scoppio di 270 bombe atomiche

di Hiroshima.

Comincia il lavoro di costruzione del “sarcofago” di contenimento del

reattore che impiegherà il lavoro di 600.000 liquidatori provenienti da

varie località dell'ex unione sovietica.

I tempi di costruzione sono stati da record (fra il maggio e il novembre del

1986) ma, data la velocità di realizzazione accompagnata dalla scarsità di

qualità dei materiali, mancanza di una vera progettazione e

dall'inesperienza di un simile evento, varie falle si riaprono nel reattore nel

corso di vari anni. L'attuale sarcofago non è mai stato dichiarato come una

vera e permanente struttura di contenimento (tanto più che l'area di

Pry'pjat' è soggetta a rischio sismico).

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Nel 2007, durante il G7 tenuto a Denver, viene fondata la Chernobyl

Shelter Fund per raccogliere fondi destinati alla progettazione e alla

costruzione di un nuovo sarcofago. I costi si aggirerebbero attorno al

miliardo di dollari per la messa in sicurezza del sito per altri 100 anni. Si

stima che l'attuale sarcofago possa resistere fino al 2016 e sia pertanto

necessaria la sostituzione dell'impianto di sicurezza. Ancora non è

cominciato nessun reale progetto o lavoro.

Non si è ancora riusciti a stimare il numero approssimativo delle vittime

dell'incidente, che si aggira fra i 4.000 e i 40.000 individui.

Nel 2005 nei registri ucraini sono presenti 2.424.000 persone per i danni

causati dalla catastrofe.

Gravissimi sono i danni e le conseguenze biologico-ambientali.

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Le radiazioni e l'incidente di Cernobyl – Lorenzo Pacini

Nelle persone il termine radiazione spesso induce un senso di inquietudine,

giustificato da eventi come il disastro di Hiroshima e Nagasaki o

l'incidente di Cernobyl. La realtà però è che sono le radiazioni provenienti

dal sole che permettono la vita sulla terra, riscaldando l'ambiente e

permettendo la fotosintesi nelle piante. Le radiazioni solari che arrivano

sulla terra sono composte da luce che viene generata all'interno della stella

tramite delle reazioni nucleari che trasformano l'idrogeno in elio. La luce è

composta di fotoni, le particelle “scoperte” da Max Planck e Albert

Einstein, che hanno varie energie. Ad ogni energia dei fotoni è associato

un colore e dal sole fuoriesce una radiazione che contiene, oltre tutti i

colori da noi conosciuti, anche una parte ultravioletta ed infrarossa. Le

radiazioni provenienti dal sole sono dannose se assorbite in grandi

quantità, come sa chiunque sia stato al mare senza protezione solare!

Quando si pensa quindi all'energia nucleare è necessario aver chiaro che

non è il fenomeno fisico ad essere pericoloso, ma l'utilizzo che ne fa

l'uomo. Come vedremo in seguito, infatti, nel caso dell'incidente di

Cernobyl ci sono stati una serie di errori, sia in fase di progettazione che

da parte dei lavoratori della centrale.

Per meglio comprendere quello che è accaduto descriverò in maniera

molto semplificata il fenomeno fisico di fissione nucleare e reazione a

catena. L'Uranio in natura è costituito per il 99% di Uranio238, ma per

essere utilizzato nelle centrali viene arricchito con Uranio235. Il nucleo di

Uranio235 fissiona spontaneamente, cioè si rompe in due o più parti,

producendo dei neutroni lenti. Questi neutroni lenti possono colpire un

altro nucleo di uranio facendo fissionare anche questo, producendo così

una reazione a catena che permette la produzione di energia, ma può anche

provocare esplosioni se la quantità di uranio supera una soglia critica.

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Una domanda sorge spontanea: come mai allora in natura l'Uranio235 non

provoca continue reazioni a catena?

La risposta è un po' tecnica ma essenziale per capire l'incidente che è

avvenuto a Cernobyl.

I neutroni che fuoriescono dalla fissione dell'Uranio sono troppo “veloci” e

non non interagiscono con gli altri nuclei di uranio. La reazione a catena

quindi non può avvenire. Per far sì che avvenga la reazione i neutroni

vanno rallentati, e questo si ottiene facendo passare i neutroni stessi

attraverso materiali come l'acqua o la grafite (chiamati materiali

mediatori): nelle centrali nucleari è quindi la combinazione di mediatori e

uranio a regolare la produzione di energia.

In una centrale con reattori del tipo RBMK (il tipo usato a Cernobyl), si fa

avvenire una reazione a catena che, producendo calore, mette in rotazione

delle turbine che generano l'energia. Per “spegnere” la reazione, invece, si

inseriscono delle barre di controllo, di solito costituite da carbonato

di boro, che fermano i neutroni: questo metodo non è però molto sicuro.

In una centrale di nuova generazione è sufficiente togliere il mediatore

(grafite, nel caso dei reattori di Cernobyl) per far rallentare la reazione.

Nelle centrali del tipo RBMK, invece, se l'acqua viene estratta dal reattore

o evapora a causa di un aumento di temperatura, si ha un aumento della

reazione a catena: sono quindi solo le barre di controllo che, in questa

eventualità, possono bloccare la reazione. Questi tipi di reattori si dicono a

coefficiente di vuoto positivo.

Immagine di un neutrone che fissiona un nucleo di Uranio235, che a

sua volta produce neutroni che danno il via alla reazione a catena.

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Una nota importante: di seguito fornirò una descrizione dell'incidente,

premetto però che l'esatta ricostruzione dei fatti è molto difficile a causa

dei diversi tentativi del governo russo di mascherare ciò che è realmente

accaduto.

Il 25 aprile 1986 era stato programmato lo spegnimento del reattore

numero 4 per normali operazioni di manutenzione. In quell'occasione fu

deciso di eseguire anche un test sui sistemi di sicurezza della centrale: in

particolare si voleva verificare se, in caso di una mancanza di corrente, le

turbine avrebbero continuato ad alimentare le pompe dell'acqua. Il test era

fissato durante il pomeriggio, ma a causa del guasto di un’altra centrale

elettrica, fu rinviato a quella stessa notte. E' molto probabile che il

personale del turno di notte (diverso da quello del pomeriggio in cui era

previsto il test) non fosse stato preparato in maniera adeguata a partecipare

al test. Questa mancanza di preparazione potrebbe essere il motivo

dell'errore commesso dal personale all'inizio del test: le barre di controllo

furono inserite troppo in profondità facendo calare la potenza del rettore.

Immagine semplificata di un reattore del tipo RBMK, Le barre di combustibile (Uranio arricchito)

sono contenute in canali di un materiale mediatore (grafite) e le barre di controllo regolano la

reazione a catena.

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In una centrale di nuova generazione un calo di potenza del reattore non è

un grosso problema, ma nei reattori RBMK si creano degli effetti che

rendono instabile la reazione a catena. Questi effetti erano in parte

sconosciuti al personale e per questo il test non fu interrotto. Purtroppo

l'instabilità del reattore provocò un aumento di potenza improvviso, tale da

far evaporare parte dell'acqua, facendo quindi aumentare ancora la

temperatura e la reazione a catena. Il personale cercò di spegnere la

reazione inserendo velocemente tutte le barre di controllo ma, anche in

questo caso, era stato commesso un errore in fase di progettazione delle

barre, errore che fece sì che la reazione invece di diminuire aumentò

improvvisamente. Le barre infatti iniziavano con un supporto in grafite

che, essendo un materiale moderatore, aumentano l'efficienza della

reazione a catena. A quel punto il risultato era inevitabile: la temperatura

aumentò fino a fondere le barre di controllo e il combustibile provocando

la prima esplosione che fece crollare il tetto. Il disastro era cominciato.

Nei mesi successivi all'incidente fu rapidamente costruita una volta in

cemento per coprire il reattore esploso, nota al mondo come il “sarcofago”.

Nonostante questa soluzione abbia inizialmente funzionato, i difetti di

progettazione, il calore e radiazioni lo hanno fin da subito danneggiato

provocando l'apertura di fessure nella volta. Durante la costruzione del

sarcofago il livello di radiazioni nei pressi del reattore era molto alto, tant'è

che molti operai hanno pagato con la vita quel fondamentale lavoro.

Ancora oggi non è possibile lavorare nei pressi del sarcofago a causa del

livello di radiazioni.

Dagli anni novanta si parla della realizzazione di un nuovo sarcofago ma i

lavori, finanziati da oltre 40 paesi per un importo complessivo che

ammonta a circa un miliardo e mezzo di euro, sono iniziati soltanto a

partire dal 13 marzo del 2012. Il nuovo sarcofago, composto da due arcate

principali, è alto 110 metri (17 metri in più della Statua della Libertà),

lungo 164 e largo 257 metri (per fare un confronto, pensate che la

dimensione media di un campo da calcio è 105 x 68 metri). Gli archi sono

costruiti essenzialmente da tubi in acciaio che formano la struttura di

appoggio del cemento. La durata stimata di questa nuova struttura è di

circa 100 anni poiché a causa delle radiazioni è possibile eseguire soltanto

pochissimi lavori di manutenzione. Per questo sono stati studiati alcuni

accorgimenti: all'interno delle arcate, per esempio, sarà fatta circolare aria

secca per mantenere un basso livello di umidità e proteggere le strutture di

metallo. Il 26 novembre 2014 è stata portata a termine la costruzione

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dell'arcata principale.

Per concludere è interessante analizzare il funzionamento di un altro tipo

di reattore molto comune in centrali tuttora in funzione nel mondo: il

BWR. Questo reattore elimina il problema della grafite utilizzando l'acqua

sia come mediatore che come materiale refrigerante. La sicurezza di questi

reattori è maggiore ma nel caso sfortunato del blocco delle turbine, anche

questi reattori subiscono un aumento di temperatura che provoca la fusione

del nocciolo. Questo è ciò che è successo a Fukushima, centrale del tipo

BWR. In questo caso i generatori di emergenza smisero di funzionare a

causa dello tsunami, cataclisma che fermò il ricircolo del liquido di

raffreddamento.

A mio parere non esistono tuttora delle

centrali che possano garantire norme di

sicurezza adeguate al rischio che comporta

un disastro come quello di Cernobyl, ma

questo non devo assolutamente fermare la

ricerca scientifica in questo ambito: la vita

sul nostro pianeta dipende dalle reazioni

nucleari che avvengono nel sole, che sono

reazioni di fusione (non di fissione come

nelle centrali), e se mai riuscissimo a

riprodurre quelle reazioni sarebbe una svolta

per la storia dell'uomo.

Immagine che schematizza la reazione

di fusione che avviene nel sole: il

deuterio, che è un isotopo dell'idrogeno,

e il trizio, altro isotopo di idrogeno, si

fondono creando l'elio e l'energia che

fuoriesce dal sole. Questa energia

arriva sulla terra sotto forma di luce.

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Cernobyl: la zona di alienazione – Cristina Betti

Non è stato facile selezionare i testi e i documenti per questa conferenza,

sia perché il tempo a disposizione per l'esposizione è poco, sia perché la

lettura stessa di queste opere non è affatto semplice.

Questi racconti ti scavano nell'animo, le immagini ti bucano gli occhi ed il

cuore.

Spesso, durante la lettura, dovevo fermarmi e staccare il cervello, riportare

la mia testa a qualcosa di più tranquillo, di più “normale”. Dentro questi

scritti è presente tutto ciò a cui si pensa che l'uomo non arriverà mai,

situazioni che sfiorano la fantascienza, ma purtroppo non è così. L'uomo

ha già fatto un passo oltre. E durante il Secolo Breve, il nostro Novecento,

vari “passi oltre” sono stati compiuti.

Sul Disastro di Cernobyl esistono vari tipi di narrazione, ma una cernita è

necessaria.

Non volevo puntare ad un'esposizione macabra, all'orrido, ben presente

nelle descrizioni post-atomiche. E' un tipo di genere che sì, colpisce, ma a

mio avviso in modo sbagliato. Non ho intenzione di terrorizzare, voglio

portare a riflettere.

La letteratura che coinvolge quest'area geografica è poco trattata. Si tratta

di uno mancanza enorme invece, perché permette di comprendere in modo

maggiore il quadro Europeo e, come ogni letteratura che si rispetti, di dare

un completo quadro umano. Con questa Conferenza ho avuto modo di

soffermarmi su questa cultura che non conoscevo, trovandomi pagina dopo

pagina sempre più personalmente coinvolta nella loro visione d'insieme. Il

territorio limitrofo alla centrale ha subito ogni sorta di persecuzione,

specialmente in relazione all'ambiente sovietico. Hanno vissuto il

genocidio (Holodomor, la morte per fame), lo sterminio di opposizioni

politiche e di figure di intellettuali, il tentativo di rimozione della loro

lingua materna, varie guerre, il pressante tentativo di cancellazione di tutta

una cultura e una storia antica, basata per lo più sul culto della terra, sul

senso religioso della natura. E proprio qui è bene soffermarsi.

L'Ucraina è stata il più grande granaio d'Europa, a questo non si potrà mai

più porre rimedio.

In quel territorio viveva il cuore pulsante della società ucraina ed

ortodossa, Cernobyl era infatti il punto centrale delle più antiche civiltà

della zona, impregnate di un profondo panteismo.

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Dopo il Disastro, dopo il 26 aprile 1986, si è giunti ad un punto di non

ritorno: l'intera area è un non-luogo, lo spazio è azzerato, così come la vita

e la Natura non è più benefica. Ed anche il tempo, il tempo della storia, il

tempo dell'uomo, ha subito il collasso: in pochi giorni il passato, il

presente ed il futuro sono stati cancellati per un intero popolo. I

sopravvissuti, trattati come appestati (identico destino che subirono gli

hibakusha, i sopravvissuti al bombardamento atomico di Hiroshima e

Nagasaki), non hanno più una terra madre, sono dei novelli Adamo, dei

nomadi senza radici che subiranno per sempre i danni delle radiazioni, il

nemico invisibile ma ben presente in ognuno di loro, destinato a colpire i

figli, gli affetti, per un imprecisato numero di anni.

La terra che li ha fatti nascere, crescere, prima certezza di continuità e di

religiosità, è ora un nemico, è aliena. I frutti della terra, spesso mutanti,

non possono più nutrire l'uomo, anzi, lo avvelenano. Tutto ciò che prima

era familiare adesso è estraneo, avverso, ma il pericolo non è palpabile né

visibile. Un confine ipotetico di filo spinato segna il punto in cui, dalla

Centrale, si può ricostruire la vita. Ma è possibile ricominciare?

Queste sono le principali tematiche delle narrazioni che ho dovuto

selezionare. Il mondo post-nucleare in cui vivono ha cancellato le loro

basi, le loro certezze, la loro identità. E il futuro non dà aspettative

migliori.

Per motivi di tempo e di reperibilità del materiale, ho scelto delle letture di

Svetlana Alexievich e di Lina Kostenko; la prima, una giornalista

bielorussa che ha dato voce, attraverso vari stili letterari, agli inascoltati di

Cernobyl, pubblicando una raccolta di testimonianze dirette; la seconda,

una poetessa appartenente alla Sistdesjatnyky, la generazione degli

intellettuali ucraini degli anni Sessanta, ribattezzata “la Grande Ribelle”

per le sue posizioni nei confronti dell'ex Unione Sovietica.

Preghiera per Cernobyl di Alexievich mette in scena, attraverso diversi

punti di vista, l'alienazione, la solitudine, la nostalgia del passato, la

mancanza dei cari, il legame con gli oggetti della propria tradizione,

l'ombra invisibile delle radiazioni che si manifestano, spesso, attraverso

“macchie”, la paura per il futuro (percepibile soprattutto nel terrore di

amare, di procreare figli malati), l'odio verso chi ha provocato questa

distruzione, verso chi cercava di tenere tutto occulto, nascosto.

La giornalista mette in scena un gap culturale, dato che nessun libro ha mai

parlato di una tragedia come questa, che non si sa come sanare. Mostra il

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sentimento dei sopravvissuti di percepirsi come “esperimenti umani”,

svela la paura che hanno di vedere la propria memoria osservata solo come

se si trattasse di una merce in esposizione.

Lina Kostenko scrive in ucraino, usando la simbologia e le tradizioni del

suo popolo per costruire le immagini della distruzione. La sua è a tratti una

preghiera, a tratti una maledizione. Nelle sue poesie la percezione del

mondo è sconvolta, la Natura è stata violata dalla mano superba dell'uomo

che l'ha devastata; la “candela atomica” (o “Vij atomico”, il reattore 4 non

ancora spento) ancora brucia come un Satana assonnato attendendo

un'azione finale.

L'arte ha senso, in questo Eden distrutto, in quanto permette di tenere

sveglia la società, a farle ricordare chi è, a spingerla di nuovo all'azione. La

creatività umana ha creato questo incubo ma, al contempo, possiede in sé

la possibilità sia di porre rimedio, sia di dire “no” alla ripetizione di simili

eventi storici. Unica via possibile per la salvezza è, sempre secondo la

poetessa, l'amore, accompagnato da un irrequieto desiderio di scrivere per

mantenere viva non solo la memoria, ma lo spirito etico umano, senza il

quale eventi simili possono ripetersi.

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2015: il Premio Nobel per la letteratura a Svetlana Aleksievich

L'Accademia di Svezia ha motivato il riconoscimento lodando

“i suoi scritti polifonici, monumento alle sofferenze e al coraggio del nostro tempo”. “Nei miei libri persone reali parlano dei grandi eventi della nostra epoca, come la guerra, il disastro di Chernobyl, la caduta di un immenso impero”.

Svetlana Alexandrovna Alexievich, nata il 31 maggio del 1948 nella città

ucraina di Ivano-Frankivsk (un tempo Stanislav), ha iniziato la sua carriera

come insegnante di storia, per poi diventare giornalista, dopo la laurea

all'Università di Minsk tra il 1967 e il 1972. Ha poi sentito l’esigenza di

scavare dentro i lati più oscuri della storia del suo Paese, denunciando i

danni che le guerre hanno lasciato sul campo, nella psicologia delle

persone. Ha dato voce ai sopravvissuti, agli spettatori e ai reduci degli

orrori.

Dell’incidente nucleare ha cercato di portare a compimento una

“ricostruzione non degli avvenimenti, ma dei sentimenti”.

E, soprattutto, scegliendo la parte dei più deboli, contro il potere.

Questa sua dichiarazione non lascia dubbi sulla sua opposizione politica:

"Amo la Russia, ma non quella di Stalin e Putin". L'intervento russo in

Ucraina è "un'occupazione, una invasione straniera". E aggiunge: "Non mi

piace neanche l'84% dei russi che chiede che gli ucraini vengano uccisi".

La scrittrice ha lanciato un monito contro il totalitarismo: "È difficile

essere una persona onesta, ma non bisogna fare concessioni a un potere

totalitario". Il Cremlino risponde: "Probabilmente Svetlana non possiede

tutte le informazioni necessarie per dare una valutazione positiva di ciò

che sta accadendo in Ucraina", così Dmitri Peskov, portavoce di Putin.

Sempre avversa a ogni tipo di regime totalitario e dunque anche molto

critica nei confronti del presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, che

l’accusava di essere un’agente in incognito della Cia, è stata costretta nel

2000 a lasciare il suo Paese, rifugiandosi a Parigi, in Svezia e poi a

Berlino. Solo nel 2011 Aleksievich è tornata a Minsk.

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Non manca chi legge nella scelta dell’Accademia Svedese un atto politico,

in un momento storico in cui le tensioni tra l’Europa e la Russia sono più

vive che mai. Per le sue posizioni anti-regime e le sue critiche, la scrittrice

è stata a lungo invisa alle autorità sovietiche, e ha dovuto trascorrere molti

anni all’estero. “Nello scegliere Aleksievich”, scrive Alexandra Alter sul

New York Times, “il comitato svedese continua una lunga tradizione

dell’uso del premio per punzecchiare l’autorità sovietica e ora post-

sovietica”.

Tra i cinque Nobel per la letteratura attribuiti ad autori di lingua russa,

ricorda la giornalista, quattro hanno ritirato il premio durante l’esilio, o

non hanno ottenuto il visto per poter presenziare alla consegna

dell’onorificenza a Stoccolma.

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Letture da: Svetlana Aleksievic “Preghiera per Cernobyl”

1) Monologo su come si possa parlare sia coi vivi che coi morti

“Nottetempo un lupo è entrato nella corte. Ho guardato dalla finestra: è lì, fermo, con gli occhi scintillanti. Come fari…

Ormai ho fatto l’abitudine a tutto. Vivo da sola da sette anni, sette anni da quando se ne sono andati via tutti… Di notte mi capita di starmene seduta finché spunta l’alba, e penso, penso. Anche stavolta sono rimasta seduta tutta la notte, rannicchiata sul letto, e poi sono uscita sull’aia a vedere che bel sole c’era. Cosa posso dirle? La cosa più giusta del mondo è la morte. Nessuno è riuscito ancora a imbrogliarla. La terra accoglie tutti, i buoni e i cattivi, e i peccatori. E non c’è nessun’altra giustizia in questo mondo. Io ho lavorato duramente e onestamente per tutta la vita. Ho vissuto con coscienza. Ma non ho ottenuto nessuna giustizia. Dio avrà fatto anche le parti, ma quando è arrivato il mio turno, non gli era rimasto più niente da darmi. Anche un giovane può morire, ma un vecchio deve… All’inizio ho aspettato il ritorno della gente, pensavo che sarebbero tornati tutti. Nessuno era mai partito per sempre, se andavano via era per qualche tempo. Adesso

In foto: "Baba Katia" è una signora che vive ancora nella

Zona Proibita, cara amica dell'Associazione Paka. La

testimonianza di Zinaida Kovalenko, trascritta da Svetlana

Aleksievic ,è molto simile alle vicende vissute in prima

persona da "nonna Katia".

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aspetto la morte… Morire non è difficile, ma mi fa paura. Non abbiamo la chiesa. Il prete non viene… Non ho nessuno a cui consegnare i miei peccati… La prima volta ci hanno detto che qui da noi c’era la radiazione e noi abbiamo pensato: sarà una malattia, chi si ammala muore, punto e basta. No, ci hanno spiegato, è una cosa che finisce sul

terreno e si infila anche sotto, ma non si può vedere. Per gli animali è diverso, la vedono e la sentono, l’uomo no. E invece non è vero! Io l’ho vista… Questo cesio era finito nel mio orto e c’è rimasto finché non l’ha inzuppato la pioggia. Ha il colore dell’inchiostro… Era lì per terra e luccicava, a pezzetti iridescenti… Ero venuta via un momento dal kolchoz, per dare un’occhiata al mio orto… Era un pezzetto così, tutto blu… E duecento metri più in là, ancora un altro… Grande come il fazzoletto che ho in testa. Ho chiamato la vicina, le altre donne, siamo corse qua e là. Per gli orti, i campi vicini… Un paio d’ettari… Solo di pezzi grossi ne abbiamo trovati quattro… Uno anche rosso…L’indomani ha cominciato a piovere. Fin dalla mattina. E all’ora di pranzo erano spariti tutti. Quando sono arrivati quelli della milizia non c’era più niente da far vedere. Abbiamo potuto solo raccontarglielo. Erano pezzi così… (Ne mostra le dimensioni a gesti.) Come il mio fazzoletto. Blu e rossi.

Questa radiazione non ci faceva molta paura… Se non l’avessimo trovata nell’orto, se non avessimo visto com’era, magari ci avrebbe fatto più paura, ma ormai non era più il caso. Gli agenti della milizia e i soldati hanno messo dei cartelli davanti ad alcune case e sulla strada, e c’era scritto: settanta curie, sessanta curie… E a noi che da una vita campavamo delle nostre patate, delle nostre buone cipolle, di punto in bianco sono venuti a dire che non si poteva più! Da non sapere se ridere o piangere… Per i lavori nell’orto ci hanno consigliato di mettere delle mascherine di cotone e guanti di gomma… Ed è anche venuto uno

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scienziato di quelli importanti a tenere una conferenza al circolo del villaggio per dirci che dovevamo lavare la legna… Cose dell’altro mondo! Non credevo alle mie orecchie! Ci hanno ordinato di lavare le lenzuola, le federe e le tende, anche se erano pulite… Ma se si trovavano dentro casa! Nei canterani e nei bauli. Come poteva essere entrata dentro casa quella radiazione? Dentro una casa con le finestre? Con tanto di porta? Da non credere! Ma andate a cercarla nella foresta e nei campi… Hanno messo il lucchetto ai pozzi, li hanno coperti con teli di plastica… L’acqua è “sporca” dicevano… Ma dov’è che è sporca, se è l’acqua pura di sempre! Morirete tutti… Bisogna andar via… C’è l’ordine di evacuazione…

La gente s’è spaventata… S’è presa paura… Alcuni hanno cominciato a sotterrare i loro beni. Anch’io ho fatto i miei preparativi… I diplomi di merito per i tanti anni di onesto lavoro e i pochi soldi che avevo messo da parte. Ma provavo una pena! Una pena che mi rodeva il cuore!

Mi venga un colpo se non le dico la pura verità! E proprio allora qualcuno mi ha raccontato che in un paese i soldati avevano evacuato la popolazione, ma un vecchio e sua moglie erano rimasti. Il giorno prima dell’evacuazione, di quando cioè avevano obbligato tutti quanti a salire sugli autobus, i due avevano preso la loro vacca e, senza allontanarsi di molto, si erano nascosti nella foresta. Avevano aspettato là che tutto fosse finito. Come durante la guerra… […]

Se almeno passasse a trovarmi qualcuno ogni giorno, come oggi, anche solo per un saluto. Non lontano da qui c’è un altro villaggio. Anche lì c’è una donna che vive tutta sola. Le ho già detto di venire a stare con me. Può darsi che possa essere di aiuto, o forse no, ma almeno avrei qualcuno con cui poter scambiare quattro parole. Da poter chiamare… […]. Ho delle figlie e anche dei figli… Vivono tutti in città… Ma io non voglio

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andare da nessuna parte! Dio mi ha dato molti anni, ma poca buona sorte.[...]. Il mio signor marito è qui… Giace in una tomba… Al cimitero. Se non fosse dov’è, vivrebbe altrove e io con lui. (Facendosi improvvisamente allegra.) Perché partire poi? E’ un bel posto! E’ tutto un germogliare e un fiorire. Dal moscerino al grosso animale, tutto vive. Per lei, cercherò di ricordare ogni cosa… Gli aerei vanno avanti e indietro. Tutti i giorni. Bassi sulle nostre teste. Volano verso il reattore. Verso la centrale. Uno dopo l’altro. Da noi è in corso l’evacuazione. La migrazione. I soldati danno l’assalto alle nostre case. La gente si è chiusa dentro, si nasconde. Il bestiame muggisce, i bambini piangono. La guerra! E il sole splende placido… Io aspetto in casa senza uscire, ma non chiudo a chiave. I soldati bussano: “Allora, padrona, sei pronta?”. Io chiedo loro: “Mi porterete fuori legata mani e piedi?”. Restano un po’ lì, senza dire più niente, poi se ne vanno. Erano giovani giovani. Dei ragazzini! Le donne si erano buttate in ginocchio davanti alle case, li avevano supplicati, ma i soldati le avevano prese per le braccia, una dopo l’altra, e caricate sugli autobus. Io però li avevo minacciati, a ogni buon conto: il primo che mi avesse toccato o avesse cercato di afferrarmi, si sarebbe preso una bastonata. Li avevo anche insultati! E pesantemente! Ma senza piangere. Quel giorno non avevo pianto.

Me ne sto seduta in casa. Prima gridavano. E come se gridavano! Poi si è fatto silenzio… E tutto è diventato calmo… Quel giorno io… Io quel primo giorno non sono uscita di casa…

Me l’hanno raccontato: una colonna di persone… Una colonna di bestiame. Come in guerra!

Mio marito amava dire che è l’uomo a sparare, ma è Dio a dirigere le pallottole, Ognuno ha il suo destino! Dei giovani che sono partiti, alcuni

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sono già morti. Nel nuovo posto dov’erano. Invece io col mio bastone cammino ancora. A fatica, ma vado. Se mi prende la malinconia, piango un po’ e mi passa. Il villaggio è vuoto… Ma ci sono uccelli di ogni tipo… Che volano… E capita di vedere un alce che passeggia come se niente fosse…(Piange.) Ricorderò tutto, vedrà… Sono partiti, ma i gatti e i cani li hanno lasciati. I primi giorni facevo il giro e gli versavo del latte e a ogni cagnolino davo un pezzetto di pane. Cani e gatti restavano nel cortile dei propri padroni e aspettavano il loro ritorno. Hanno aspettato a lungo. I gatti affamati si sono messi a mangiare i cetrioli… i pomodori… Fino all’autunno, ho tagliato l’erba davanti al cancello della mia vicina. E’ caduta la palizzata , e io gliel’ho aggiustata. Anch’io aspettavo il loro ritorno… I vicini avevano un cagnolino, si chiamava Žučok. “Žučok” gli dicevo, “se incontri qualcuno per primo, chiamami.”

La notte sogno che mi stanno evacuando… Un ufficiale mi grida: “Padrona, adesso bruciamo e interriamo tutto quanto. Vieni fuori!”. E mi portano chissà dove, in un luogo sconosciuto. Che non si capisce cosa sia. Non una città e neanche un villaggio. E neanche la terra…

Le racconto un fatto che mi è successo… Avevo un bel gattino. Vas’ka. In inverno hanno cominciato ad attaccarmi dei topi affamati, non c’era scampo. Mi si infilavano anche sotto la coperta... Sono perfino riusciti a fare un buco nella botte del grano… E’ stato Vas’ka a salvarmi… Senza di lui, sarebbe stata la fine… Parlavamo, pranzavamo insieme. E poi, un giorno, è scomparso… Forse dei cani affamati gli sono saltati addosso e l’hanno mangiato? Se ne vedevano parecchi, i primi tempi, correre avanti e indietro, famelici, finché non sono crepati tutti, e i gatti lo stesso, avevano talmente fame che si mangiavano i piccoli, in estate no, solo d’inverno. Misericordia di Dio! Una donna è stata dilaniata dai topi… L’hanno divorata… Dei topi rossi… Non so se sia vero o falso, ma lo

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raccontano. Ogni tanto arrivano anche dei vagabondi, per vedere di rimediare qualcosa… All’inizio c’era parecchia roba abbandonata… Camicie, golfini, pellicce… Bastava servirsi e portarla al mercatino dell’usato…

Si ubriacavano e cantavano delle canzoni. A squarciagola. E giù bestemmie! Uno è caduto dalla bicicletta e si è addormentato in mezzo alla strada. La mattina dopo hanno ritrovato solo due ossicini e la bicicletta. Vero o falso? Non saprei. Ma così raccontano. Qui tutto vive. Ma proprio tutto! La lucertola vive, la ranocchia vive. E vive anche il lombrico. E ci sono anche i topolini campagnoli. C’è di tutto! Soprattutto in primavera è una meraviglia. Mi piace quando fioriscono i lillà. E il profumo del ciliegio selvatico. […]. Quando gli agenti della milizia vengono al villaggio per i loro controlli, mi portano il pane. Cos’avranno poi da controllare? Ci siamo solo noi, io e il gattino. Quello che ho adesso è uno nuovo. Quando sentiamo il clacson da lontano, lui ed io siamo felici. Ci precipitiamo incontro alla macchina della milizia. A lui portano degli ossicini. E a me chiedono sempre la stessa cosa: “E se ti aggrediscono i banditi?”. “Di sicuro non si arricchiscono! Cosa potrebbero prendermi? L’anima? Non ho altro che quella.” Sono dei bravi ragazzi… Ridono… Mi hanno portato delle pile di ricambio e adesso posso ascoltare la radio. […].

Ma adesso le racconto come ho trovato il nuovo gatto. Già le ho detto del mio Vas’ka che ad un certo punto era sparito… Aspetto un giorno, due… Un mese intero… Ero dunque rimasta tutta sola. Senza nessuno con cui chiacchierare un po’. Vado su e giù per il villaggio, nei giardini delle case, e chiamo: Vas’ka! Micio! Nei primi tempi ce n’erano in giro molti, poi sono spariti tutti chissà dove. Sembravano estinti. La morte non guarda in

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faccia nessuno… La terra accoglie tutti, la buona terra… E io cammino e cammino. Ho chiamato per due giorni. Il terzo giorno lo vedo seduto davanti al negozio… Ci siamo guardati. Lui era contento, e io lo stesso. Soltanto che lui non poteva spiccicare una parola. “Su, andiamo” gli dico, “si va a casa”. Resta seduto… Miao… E allora ho cominciato a pregarlo. “Perché vuoi restartene lì, tutto solo? Ti mangeranno i lupi. Ti faranno a pezzettini. Andiamo. Ho delle uova, ho del lardo”. Ma come spiegarglielo? I gatti non capiscono la lingua degli uomini, già… ma allora, come mai quella volta ha capito? Quando mi sono avviata, ha cominciato a venirmi dietro di corsa. Miao… “Staremo benissimo in due”… Miao… “Ti chiamero Vas’ka”… Miao… E così abbiamo già passato due inverni insieme…

[…].

Quando mi viene la malinconia, piango un po’. Vado a visitare le tombe. La mia mamma riposa laggiù… E una mia figlia piccolissima… Se l’è portata via il tifo durante la guerra… L’avevamo appena seppellita quando il sole si è affacciato da dietro le nuvole. E come brillava! Faceva venir voglia di tornare indietro e tirarla fuori dalla fossa. E’ lì anche mio marito… Fedja… Me ne resto un po’ seduta, vicino a loro. Mando qualche sospiro. Si può parlare sia coi vivi che coi morti. Per me non fa differenza. Io li sento allo stesso modo, gli uni come gli altri. Quando sei sola… E ti prende la tristezza… Una grande tristezza… Nell’ultima casa, proprio accanto al cimitero, viveva il maestro del villaggio, Ivan Prochorovič Gavrilenko, che poi si è trasferito presso il figlio, in Crimea. La casa accanto era quella di Pëtr Ivanovič Miusskij…

Il trattorista… Uno stacanovista… Un tempo tutti smaniavano di diventare stacanovisti. Pëtr aveva le mani d’oro. Dal legno sapeva tirar

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fuori i merletti. La sua casa era l’orgoglio di tutto il paese. Un gioiello. Oh, mi sentivo dentro una grande pena, ma anche il sangue che mi ribolliva, quando l’hanno demolita… E interrata. L’ufficiale gridava: “Non affliggerti, madre. La casa è proprio sopra una macchia”. Ma era ubriaco. Mi avvicino e vedo che sta piangendo anche lui: “Va’, madre, va’! Va’ via!”. […]… Un tempo si viveva nell’allegria. Nei giorni di festa si cantava e si ballava. C’era la fisarmonica. E adesso invece, è come stare in prigione. Qualche volta chiudo gli occhi e mi sembra di passeggiare tra le case… Ma quale radiazione, dico ai vicini, se volano le farfalle e ronzano le api? E il mio Vas’ka prende i topi? (Piange.) E tu, tesorino mio, hai capito la mia tristezza? La porterai alla gente, ma forse io non ci sarò più. Mi troveranno sottoterra… Sotto le radici…”.

Zinaida Evdokimovna Kovalenko, Residente non autorizzata

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2) Monologo su tutta una vita registrata sulla porta di casa.

“Voglio rendere testimonianza…

E’ successo allora, dieci anni fa, e ogni giorno lo rivivo di nuovo. E’ sempre con me.

Vivevamo nella città di Pripjat’. Proprio in quella.

Non sono uno scrittore. Non sarei in grado di descriverlo. La mia ragione non arriva a comprenderlo. E neanche gli studi superiori aiutano. Stai vivendo… Da uomo qualsiasi. Piccolo. Come tutti gli altri, vai al lavoro e ritorni dal lavoro. Ricevi una retribuzione

media. Una volta l’anno vai in ferie. Un uomo normale! E di punto in bianco, un giorno ti trasformi in un uomo di Černobyl’. In un fenomeno da baraccone! In qualcosa che incuriosisce tutti e nessuno sa cosa sia. Tu vorresti essere come tutti, ma non puoi. Non ti è più possibile. Ti guardano con occhi diversi. Ti fanno delle domande: hai avuto paura laggiù? Hai visto bruciare la centrale? Com’era? Cos’hai visto? E, in generale, puoi avere dei figli? Tua moglie non t’ha lasciato? All’inizio siamo diventati dei fenomeni ambulanti… Tuttora la parola “černobyliano” è come un segnale acustico… Si voltano tutti a guardarti… Viene da laggiù!

I primi giorni, era questa la sensazione… Di aver perduto non soltanto la città, ma tutta la nostra vita… Abbiamo lasciato la nostra casa il terzo giorno… Il reattore stava bruciando… Mi sono rimaste impresse le parole di un nostro conoscente: “C’è odore di reattore”. Un odore indescrivibile. Ma ne hanno già parlato

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anche i giornali. Hanno voluto fare di Černobyl’ una fabbrica degli orrori, anche se poi quello che è venuto fuori è un cartone animato. Io racconterò solo quello che ho vissuto in prima persona… La mia verità… E’ andata in questo modo… L’avevano annunciato per radio: proibito portare via i gatti! Subito la gatta nella valigia! Ma non ci voleva stare, si divincolava. Ha graffiato tutti! Proibito portare con sé le proprie cose.

E io non mi sarei portato via niente comunque. Tranne una cosa, una cosa sola! Dovevo togliere la porta d’ingresso dell’appartamento e portarla via, non potevo in nessun caso lasciarla lì… E avrei sbarrato l’ingresso con assi e chiodi…

La nostra porta… Il nostro talismano! La reliquia della famiglia. Quand’era morto, mio padre era stato messo disteso su questa porta. Non so in base a quale usanza, e se sia diffusa e dove, ma da noi, mi ha detto mia madre, si usava mettere il defunto sulla porta di casa. Avrebbe aspettato lì l’arrivo della bara. Ho vegliato tutta la notte mio padre steso su quel catafalco… E la casa è rimasta aperta… Tutta la notte. Sulla porta ci sono delle tacche fin quasi al bordo superiore… Di quando crescevo… E c’è anche indicato: classe prima, seconda. Settima. Inizio del servizio militare. E accanto, la crescita di mio figlio… Di mia figlia… Su questa porta è registrata tutta la nostra vita. Come potevo lasciarla?

Ho chiesto a un vicino che aveva la macchina: “Dammi una mano!”. Mi ha fatto capire gesticolando che dovevo avere qualche rotella fuori posto. Ma l’ho recuperata lo stesso… Due anni dopo… La porta… Di notte… In motocicletta… Attraverso la foresta… Il nostro appartamento era ormai stato depredato. Ripulito. Avevo alle calcagna quelli della milizia: “Fermo o spariamo! Fermo o spariamo!”. Sicuramente mi avevano preso per un saccheggiatore. Non ci avrebbero mai creduto che stavo rubando la porta di casa mia…

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…Ho fatto ricoverare in ospedale mia moglie e mia figlia. Avevano delle macchie nere diffuse in tutto il corpo. Che apparivano e scomparivano. Grandi come monete da cinque copechi… Indolori… Hanno fatto tutti gli esami. Ho chiesto: “E i risultati?”. “Non sono per lei”. “E per chi sono allora?”. A quel tempo, tutti non facevano altro che ripetere: moriremo moriremo… E dicevano che per l’anno 2000 sarebbero scomparsi tutti i bielorussi. Mia figlia aveva sei anni. La metto a letto e lei mi sussurra all’orecchio: “Papà. Voglio vivere, sono ancora piccola”. E io ch epensavo che non potesse capire…

Riesce ad immaginarsele sette bambine piccole completamente calve, tutte in una volta? Nella stanza erano in sette… No, ne ho abbastanza! Ho finito! Quando racconto di questo ho come la sensazione, è il cuore a suggerirmelo, di commettere un tradimento.

Perché devo descriverla come un’estranea… Le sue sofferenze… Mia moglie rientra dall’ospedale… Non ce la fa più a resistere: “Sarebbe meglio se morisse, invece di soffrire a quel modo! O che muoia io piuttosto, per non doverla più vedere!”. No, basta! Ho finito! Non posso. No! L’abbiamo posata sulla porta… Su quella porta dove a suo tempo era stato disteso mio padre. Finchè non hanno portato la piccola bara… Era piccola, come la scatola di una bambola, di quelle grandi.

Voglio rendere testimonianza che mia figlia è morta a causa di Černobyl’. E si pretenderebbe da noi che dimenticassimo…”.

Nikolaj Formič Kalugin, un padre

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3) Senza Cechov e Tolstoj non siamo capaci di vivere

«Per che cosa prego? Me lo chieda. Io non prego in chiesa. Prego dentro di me... Io voglio amare! Io amo! E prego per il mio amore! E io... (Si interrompe. Vedo che non ha voglia di parlare.) Ricordare? Se almeno questo significasse allontanare da sé... Rimuovere quei ricordi... Non ho letto dei libri che parlassero di questo. E non ho neanche visto dei film... La guerra sì, l’ho vista al cinema. I miei nonni non ricordano di aver avuto un’infanzia, ma ricordano la guerra. La loro infanzia è stata la guerra e la mia C ernobyl’. Io vengo da lì... Lei è una scrittrice, ma finora nessun libro mi ha aiutata, mi ha spiegato qualcosa. Né il teatro né il cinema. E allora cerco di capirci per conto mio. Io stessa. Riviviamo dentro di noi tutto quanto, ancora e ancora, ma in definitiva non sappiamo cosa farcene. Con la mente non ci arrivo a capirlo. Soprattutto mia madre non riesce a riprendersi dallo smarrimento, lei insegna lingua e letteratura russa a scuola e mi ha sempre insegnato a vivere secondo i libri. E ad un tratto non ci sono più libri utili... Mia madre si è sentita perduta... Senza i libri lei non è capace di vivere... Senza C echov e Tolstoj. Ricordare? Voglio ricordare e al tempo stesso non vorrei... (Sembra ascoltare una voce interiore o forse discute con sé stessa.) Se gli scienziati non sanno niente, se gli scrittori non sanno niente.

Allora li aiuteremo noi con la nostra vita e la nostra morte. E’ quello che pensa mamma... E io invece non vorrei pensarci per niente, vorrei soltanto essere felice. Perché non posso essere felice? Abitavamo a Pripjat’, vicino alla centrale nucleare – io sono nata e cresciuta lì – al quarto piano di un grande edificio prefabbricato. Le nostre finestre davano sulla centrale. Il ventisei aprile... In realtà è durato due giorni... gli ultimi due giorni che abbiamo passato nella nostra città.

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Che non esiste più. Quello che ne è rimasto non è più la nostra città. Quel giorno il nostro vicino si era piazzato sul balcone con un binocolo e osservava l’incendio. E noi... Ragazzine e ragazzini, facevano avanti e indietro dalla centrale, quelli che non avevano la bicicletta ci invidiavano. E nessuno ci sgridava. Nessuno! Né i genitori né gli insegnanti. A mezzogiorno non c’era più i soliti pescatori lungo la riva del fiume, erano rientrati a casa tutti neri, con un’abbronzatura che neanche un mese a Soc i... L’abbronzatura nucleare! Il fumo sopra la centrale non era né giallo né nero, era blu. Ma nessuno ci diceva niente... Probabilmente questo dipendeva dall’educazione ricevuta, per la quale l’unico pericolo poteva venire dalla guerra: uno scoppio di granata a sinistra, un altro a destra... Mentre qui si trattava di un normale incendio, con dei normali vigli del fuoco che lo stavano spengendo... I ragazzi scherzavano: “Mettetevi tutti in fila per il cimitero. Quelli più alti moriranno per primi.” Io ero piccola. Non ricordo di aver avuto paura, ma ricordo molte cose strane. Una compagna di giochi mi ha raccontato di aver aiutato sua madre a sotterrare nel cortile soldi e oggetti d’oro, e che ora temevano di dimenticare il posto esatto. Quando avevano festeggiato mia nonna che andava in pensione, le avevano regalato un samovar di Tula, e adesso tutta la sua preoccupazione era appunto per questo samovar e per le medaglie del nonno. Oltre che per la vecchia macchina da cucire Singer. Siamo stati evacuati... E’ stato papà a tornare dal lavoro con la parola “evacuazione”: “La città viene evacuata”. Come nei libri di guerra... Avevamo già preso posto sull’autobus quando papà si è accorto di aver dimenticato qualcosa. Corre a casa. Torna con le sue due camicie nuove... Appese alla gruccia... Una cosa stravagante. I soldati sembravano degli extraterrestri, pattugliavano le strade in tute bianche di protezione e maschere. La gente li avvicinava: “Che sarà di noi?”. “Avete sbagliato indirizzo” si spazientivano i soldati, “le vedete quelle Volga bianche ferme

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laggiù? Sono lì i capi, rivolgetevi a loro”.[...] se la guerra era quella, dai libri me n’ero fatto un’idea diversa. Uno scoppio di granata a destra, un altro a sinistra... bombardamenti... Ci muovevamo piano anche perché eravamo intralciati dal bestiame. Branchi di vacche e cavalli procedevano anch’essi sulle strade... C’era odore di polvere e di latte... Gli autisti imprecavano, se la prendevano coi mandriani: “Perché li fai andare sulla strada, figlio di tua madre?! Sollevate la polvere radioattiva! Non potevate passare per i campi, per i prati?”. Gli altri rispondevano anche loro male parole, dicendo che era un peccato calpestare il grano verde, l’erba appena nata. A nessuno poteva venire in mente che non saremmo più tornati. Era la prima volta che si verificava un fatto del genere. Avevo la testa che mi girava un po’ e sentivo un raschio alla gola. Le donne anziane non piangevano, piangevano quelle giovani. Piangeva mia madre... Siamo partiti per Minsk... Ma i posti in treno abbiamo dovuti comprarli dalla conduttrici a un prezzo triplicato. Poi lei aveva servito il tè agli altri passeggeri ma a noi aveva detto: “Datemi le vostre tazze o bicchieri”. Non avevamo afferrato subito. A tutta prima avevamo anzi pensato che non avesse bicchieri a sufficienza per tutti. E invece no! Non voleva che usassimo i suoi bicchieri. Tutti avevano paura di noi... “Da dove venite?”. “Da C ernobyl’”. E il curioso si allontanava subito, rasentando i finestrini del corridoio e proibisce ai figli di correre dalla parte del nostro scompartimento. Siamo arrivati a destinazione, da un’amica della mamma. Lei si vergogna ancora oggi di quella nostra irruzione, coi nostri vestiti e scarpe “sporchi”, la sera tardi, in casa d’altri. Ma ci avevano accolti, rifocillati. Confortati. Si erano affacciati anche i vicini: “Avete ospiti? Da dove?”. “Da C ernobyl’”. Anche loro si erano affrettati ad allontanarsi... Di lì a un mese hanno autorizzato i miei genitori a fare una breve visita

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all’appartamento per controllare che fosse tutto in ordine. Sono tornati con una coperta calda, il mio soprabito autunnale e la raccolta completa delle lettere di C echov, l’opera preferita di mamma. [...] sulla coperta è saltata fuori una “macchia”... Mamma l’ha lavata, l’ha passata con l’aspirapolvere, senza risultato. L’ha portata in tintoria... La “macchia” ha continuato a “brillare”... Finché non l’abbiamo tagliata via con le forbici. Erano cose familiari, normali: la coperta, il soprabito... Ma ormai non potevo più dormire sotto quella coperta. Infilarmi quel soprabito... Non avevamo i soldi per comprarne uno nuovo, ma io non potevo... Odiavo quella roba! Quel soprabito! Non era paura, mi creda, ma proprio odio! Un odio infinito! Tutto questo rancore... Non riesco a capacitarmene... Dappertutto si parlava dell’incidente: a casa, sull’autobus, per strada. Lo paragonavano a Hiroshima. Ma nessuno ci credeva.

Come credere a qualcosa di incomprensibile? Per quanto ti sforzi, per quanto ce la metti tutta, non riesci comunque a capire. Quel che ricordo: noi partivamo e il cielo era di un azzurro intenso. La nonna... Non si è mai abituata alla nuova sistemazione. Soffriva di nostalgia. [...] Per seppellirla l’abbiamo riportata al suo villaggio natio, Dubrovniki... Ormai si trova in una zona proibita, circondata da una barra di filo spinato. E sorvegliata da soldati armati. Solo gli adulti hanno potuto superare la recinzione: papà, mamma e alcuni parenti... Ma non io: “I bambini non possono entrare”. Ho capito che non potrò mai più fare visita alla mia nonna... Ho capito... Dove si può leggere una cosa come questa? È mai successo niente di simile da qualche altra parte? Mamma me l’ha confessato: “Sai, ormai detesto i fiori e gli alberi”. E ha avuto paura delle proprie parole... Al cimitero... Sull’erba... Avevamo disteso una tovaglia, apparecchiato uno spuntino, la vodka... Ma i soldati avevano controllato col dosimetro e buttato via tutto... L’erba, i fiori, tutto quanto

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“crepitava”. Ma dove l’avevamo portata, la nostra povera nonna? Ho paura... Ho paura di amare... Ho un fidanzato, abbiamo già presentato la nostra domanda di matrimonio all’ufficio di stato civile. Ha mai sentito parlare degli “hibakushi” di Hiroshima? Quelli che sono sopravvissuti a Hiroshima... Possono sposarsi solo fra loro. Da noi su questo argomento non si scrive niente, non se ne parla. Ma ci siamo anche noi... Gli “hibakushi” di C ernobyl’... Mi ha portato a casa sua e mi ha presentato sua madre... [...] Ma quando la buona mamma ha saputo che la mia era una famiglia di profughi da C ernobyl’, si è meravigliata: “Piccola mia, è sicura di poter mettere al mondo dei bambini?”. Abbiamo già fatto domanda all’ufficio di stato civile... Lui mi scongiura: “Me ne andrò di casa. Ci prenderemo un appartamento per conto nostro”, ma io mi sento nelle orecchie: “Piccola mia, per alcuni procreare è un peccato”. Il peccato di amare... In precedenza ho avuto un altro ragazzo. Un artista. Anche allora avevamo l’intenzione di sposarci. Tutto andava per il meglio fino a che non era accaduto un fatto. Ero entrata nel suo studio e l’avevo sentito gridare al telefono: “Non sono cose che capitano tutti i giorni! Non hai idea della fortuna che hai avuto!”. Di solito era così tranquillo, perfino flemmatico, uno che parlava senza punti esclamativi. E all’improvviso! Di cosa si trattava? Il suo amico viveva in un convitto studentesco. Si era affacciato nella stanza accanto e aveva visto una ragazza impiccati. Si era strangolata appendendosi alla finestrella d’areazione. Con una calza. Il suo amico l’aveva tolta da lì... Distesa per terra... E il mio ragazzo conteneva a stento l’entusiasmo, tremava per l’eccitazione: “Non ti puoi immaginare quel che ha visto! Quel che ha vissuto! L’ha tenuta tra le braccia... Le ha toccato il viso... Aveva una schiuma bianca sulle labbra... Andiamo, magari facciamo in tempo...”. Sul fatto che la ragazza era morta

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neanche una parola, non una sola espressione di rammarico. L’unica cosa che gli premeva era vederla e imprimerla nella memoria... Per poi disegnarla... E qui a un tratto mi sono ricordata delle domande che mi faceva in continuazione: di che colore era l’incendio della centrale, se avevo visto dei cani e gatti abbattuti nelle strade, che aspetto avevano? Come piangeva la gente? Avevo visto qualcuno morire? Dopo quel fatto... Non potevo più rimanere con lui... (Resta in silenzio.) Sa una cosa?, non sono sicura di aver voglia di incontrarla di nuovo. Me sembra che lei mi osservi nello stesso modo di lui... Che si limiti a studiarmi. E a memorizzare. Che si tratti di un esperimento... Non posso liberarmi da questa sensazione... Non ci riuscirò mai... Magari me lo sa dire lei: su chi ricade questo peccato? Il peccato di procreare... Non mi era mai capitato di sentire parole del genere...»

Katia P.

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4) Monologo sul fatto che San Francesco predicava gli uccelli È un mio segreto. A parte un amico al quale l’ho confidato, nessun altro lo conosce…

Sono un operatore cinematografico. Sono andato laggiù ricordando quello che ci avevano insegnato: è in guerra che si diventa veri scrittori e roba del genere. Il mio scrittore preferito era Hemingway, il libro prediletto Addio alle armi. Sono arrivato sul posto. La gente zappava nei proprio orti, nei campi lavoravano trattori e seminatrici. Cosa dovessi filmare era un mistero. Non c’erano esplosione da nessuna parte.

Prima ripresa. In un circolo rurale. Avevano sistemato un televisore sul proscenio e convocato un po’ di gente. Per ascoltare Gorbačëv: va tutto bene, è tutto sotto controllo.

Nel villaggio dove eravamo andati per le riprese era in corso la decontaminazione. Lavavano i tetti. Ma come si fa a lavare un tetto se il tetto perde e fa piovere in casa? La superficie del terreno andava tolta fino alla profondità di una vangata, vale a dire tutto lo strato fertile. Sotto questo strato, da noi, c’è solo una sabbietta gialla. Ecco che una vecchia contadina, seguendo le disposizione del Soviet rurale, scava la terra da eliminare, ma prima ne raschia via accuratamente il letame. Mi dispiace non aver filmato la scena… Dovunque arrivassimo: “Ah, i cineasti, adesso vi troviamo degli eroi”. Eroi come un vecchio e suo nipote che per due giorni di fila avevano condotto fuori dal Kolchoz più vicini a Černobyl’ le mandrie di vacche da evacuare. Dopo le riprese, il veterinario del posto mi ha accompagnato fino a un’enorme trincea nella quale stavano seppellendo con un bulldozer quelle stesse vacche. Ma non ho filmato neanche questo, non mi è venuto in mente. Dando le spalle allo scavo ho invece ripreso un episodio nelle migliori tradizioni della cinematografia

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documentaristica tradizionale: i trattori leggono la Pravda sulla quale campeggia un titolo a lettere cubitali “Il paese non vi abbandona nella disgrazia”. E ho anche avuto un colpo di fortuna: su un campo, proprio lì vicino, stava posandosi una cicogna. Un simbolo! Qualsiasi sciagura accada, noi vinceremo! La vita continua…

Strade di campagna. Polvere. Ormai avevo capito che non si trattava della solita polvere e che questa era radioattiva. Tenevo al riparo la mia cinepresa perché non si impolverasse, in fondo era uno strumento ottico delicato. Era un maggio secco secco. Chissà quanta ne avevamo inghiottita di quella polvere! Fatto sta che da lì a una settimana avevamo i gangli linfatici infiammati. Ma risparmiavamo i nastri di pellicola come fossero munizioni, perché era imminente l’arrivo del segretario generale del PC bielorusso Slljun’kov. Non c’era stato nessun annuncio circa il luogo preciso in cui sarebbe arrivato, ma noi l’avevamo individuato senza difficoltà. Quella via sterrata che ancora il giorno prima avevamo percorso sollevando un gran polverone, oggi la stavano asfaltando, e che asfaltatura!, due o tre strati. Non c’erano dubbi: ecco dov’erano attese le alte autorità. Le ho poi riprese mentre si muovevano sul nastro d’asfalto appena posato, stando bene attente a non spostarsi di lato neanche di un passo! Ho filmato anche questa sequenza che però in definitiva non ho utilizzato per il mio soggetto…

Nessuno capiva niente e questa era la cosa più terribile. I dosimetristi ci davano determinate cifre mentre i giornali ne pubblicavano altre, diverse. Ma sì piano piano ci ero arrivato pure io… A casa c’era la mia amata moglie, e il nostro piccolo figlio… Dovevo proprio essere un cretino per trovarmi lì! D’accordo, magari mi sarei preso una medaglia… Ma mia moglie non avrebbe finito col lasciarmi? Si cercava di volgere le cose

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tristi in burla. Le barzellette imperversavano. Un vagabondo si ferma in un villaggio evacuato dove sono rimaste quattro contadine. Chiedono loro: “Come se la cava questo vostro ometto?”. Un assatanato. Ogni tanto fa una corsa anche nell’altro villaggio”. Se devo essere sincero fino in fondo… Černobyl’… la strada si stende… il ruscello scorre, scorre come se nulla fosse. Ma tutto questo è veramente successo… Ho provato la stessa sensazione quando è morta una persona alla quale ero molto vicino. Il sole… Volano gli uccelli… Le rondini… Ha cominciato a piovere … E lui è morto… Capisce? Cerco di cogliere con le parole un’altra dimensione, di comunicare in che modo tutto ciò agiva dentro di me…

Ho visto un melo in fiore e ho cominciato a riprenderlo… nel ronzio dei bombi, quel colore bianco, nuziale… E, di nuovo, gente al lavoro, frutteti pieni di fiori… Nell’obiettivo della mia cinepresa… Ma c’è qualcosa che non riesco a capire, che non mi torna… L’esposizione è normale, l’inquadratura buona, eppure… E all’improvviso mi trafigge un pensiero: non ci sono odori! La fioritura è in pieno rigoglio ma non manda nessun odore! Ho saputo solo successivamente che l’organismo può reagire alle forti radiazioni bloccando qualche organo. Però sul momento mi sono ricordato di mia madre che aveva settantaquattro anni e si lamentava di non sentire più gli odori. E ho pensato che qualcosa del genere stesse capitando anche a me. Ho chiesto anche agli altri della nostra squadra, eravamo in tre: “Che odore ha il melo?”. “Ma non ha nessun odore!”. Ci stava succedendo qualcosa… Il lillà non aveva odore… Il lillà!… E ho cominciato a provare la sensazione che tutto quello che mi circondava fosse falso. Mi sembrava di essere in mezzo ad una scenografia… Ed era qualcosa che superava le mie capacità di comprensione. Non avevo neanche mai letto niente del genere…

Un ricordo d’infanzia… Una vicina, ex partigiana, aveva raccontato che

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durante la guerra il loro gruppo stava cercando di uscire da un accerchiamento.

Lei aveva in braccio un bambino piccolo, di un mese, avanzavano nella palude, braccati dai reparti punitivi tedeschi… Il bambino piangeva… Avrebbe potuto farli scoprire e sarebbe stata la fine per tutto il gruppo. E lei l’aveva soffocato. Ne aveva parlato con distacco, come se non fosse successo a lei ma a qualche altra donna, e come se il bambino non fosse stato il suo. Non ricordo più, ormai, per quale motivo avesse rievocato questo episodio. Ma ricordo distintamente un’altra cosa, l’orrore che avevo provato: che cosa aveva fatto? Come aveva potuto? A me sembrava che i partigiani avrebbero dovuto rompere l’accerchiamento proprio per salvare il più piccolo. E invece, per far sì che degli uomini grandi e grossi restassero in vita, era stato strangolato proprio il bambino. Dov’era, allora, il senso della vita? Dopo una cosa del genere non avevo più voglia di vivere. Io, ragazzino, mi sentivo imbarazzato a incrociare lo sguardo di quella donna, per quello che sapevo ora di lei. E chissà cosa provava lei di fronte al mio disagio? (Resta per qualche tempo in silenzio.) Ecco perché non desidero ricordare… Quei giorni nella zona… M’invento varie spiegazioni… Non voglio aprire quella porta… Laggiù ho voluto capire che cosa dentro di me era autentico e che cosa era falso. Ero già padre. Avevo un bambino. Quando era nato avevo smesso di aver paura della morte. Mi era stato rivelato il senso della vita…

Una notte, in albergo, mi sono svegliato, dalla finestra proveniva un rumore incessante, balenavano lampi azzurri. Ho scostato le tende: sulla strada stavano passando decine di UAZ con la croce rossa e i lampeggianti. A parte il rumore delle macchine c'era un grande silenzio. Ho sentito una specie di choc. Mi sono tornati alla memoria i fotogrammi

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di un film… Della mia infanzia… Eravamo i figli del dopoguerra e amavamo i film di guerra. E sequenze simili a quelle… Una sensazione… La tua città si era svuotata, tu eri rimasto solo e dovevi prendere una decisione. Ma quale? Far finta di essere morto? O fare invece qualcosa? E se dovevi fare qualcosa, che cosa?

A Chojniki, nel centro cittadino, c’era un Albo d’Onore. Un tabellone con le foto delle persone più degne della Provincia. Però ad andare nella zona contaminata a prelevare i bambini di un asilo non era stato quell’autista che faceva bella mostra di sé sull’Albo d’Onore, ma un altro che era sempre ubriaco. Nella circostanza ciascuno ha mostrato la sua vera natura. Oppure, prendiamo un bell’esempio di evacuazione.

Per primi sono stati evacuati i bambini. In grandi pullman da turismo Ikarus. Mi rendo conto di star filmando la scena degli addii così come l’ho vista rappresentata nei film di guerra. E mi rendo conto che anche le altre persone coinvolte nell’azione si comportano in modo analogo. Gli atteggiamenti sono esattamente gli stessi di quel film che tutti abbiamo tanto amato, Quando volano le cicogne: una lacrima furtiva, sobrie parole di addio… Tutti noi ci sforzavamo di adeguarci a una forma di comportamento che già conoscevamo. Di corrispondervi il più possibile. Questo mi è rimasto particolarmente impresso nella memoria. La bimba che saluta la mamma facendo ciao con la manina, come per dire che va tutto bene, che lei è coraggiosa. Vinceremo!

Pensavo: magari adesso torno a Minsk e anche lì stanno evacuando la città. Come mi sarei separato dai miei, da mia moglie, da mio figlio? E mi immaginavo tra l’altro mentre facevo questo gesto: vinceremo! Noi guerrieri. Mio padre, per quanto posso ricordare, indossava sempre delle uniformi militari anche se non era nell’esercito. Preoccuparsi per i soldi

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era considerato meschino, e darsi pensiero per la propria vita un indice scarso di patriottismo. La condizione normale era la fame. Loro, i nostri genitori, avevano patito distruzioni e sfacelo e anche noi eravamo tenuti a passare per qualcosa di analogo. Diversamente non saremmo diventati dei veri uomini. Ci insegnavano a combattere e a sopravvivere in qualsiasi condizione. Di ritorno dal servizio militare, anche a me la vita civile era sembrata insulsa. Di notte girovagavamo per la strada in cerca di forti sensazioni. Nella mia infanzia ho letto un libro, I ripulitori, l’autore non lo ricordo, nel quale si dava la caccia a sabotatori e spie. Inseguimenti! Emozioni! Siamo fatti così. Lavorare e mangiare a sazietà tutti i giorni non fa per noi: è disagevole, è intollerabile!

Vivevamo in un pensionato di un istituto tecnico insieme ai liquidatori. Ragazzi giovani. Ci hanno dato una valigia piena di bottiglie di vodka. Per estirpare la radiazione. E improvvisamente siamo venuti a sapere che in quello stesso pensionato alloggiava un reparto del servizio medico. Di sole ragazze. “Adesso sì che ce la spassiamo!” avevamo detto. Due sono andati in avanscoperta e sono rientrati quasi subito con gli occhi stranulati… Illustrazione: alcune ragazze per il corridoio… Portano camiciotti militari e sotto sporgono calzoni e mutandoni da uomo di quelli da allacciare alla caviglia, i lacci sono slegati e si trascinano per terra, ma nessuno ci bada.

Tutti indumenti vecchi, usati, non della misura giusta. Su di loro sembrano appesi come degli attaccapanni. Qualcuna è in ciabatte, qualcun’altra indossa stivali scalcagnati. E sopra ai camiciotti portano dei giubbetti di protezione imbevuti di una soluzione chimica e impermeabilizzati… Alcune di loro non se li tolgono nemmeno per dormire. Un vero spavento… E non erano neanche delle infermiere, le

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avevano prese dall’istituto, dai corsi di preparazione militare. Avevano loro promesso che si trattava solo di un paio di giorni, ma al nostro arrivo erano lì da più di un mese. Ci hanno raccontato che le avevano portate in prossimità del reattore e che avevano visto tante di quelle ustioni da non poterne più, ma quella faccenda delle ustioni l’ho sentita solo da loro. Mi sembra di vederle ancora vagare per il pensionato come sonnambule…

Sui giornali hanno scritto che, fortunatamente, il vento non soffiava in quella direzione… Non in direzione della città… Non verso Kiev… Ma ancora nessuno sapeva… Nessuno poteva immaginare che soffiasse verso la Bielorussia… Su di me e il mio piccolo Jurik. Quel giorno io e lui eravamo andati a spasso per la foresta, a spiluccare l’erba detta uva di volpe. Mio Dio, perché nessuno mi aveva avvertito!

Sono rientrato a Minsk dopo la spedizione. Prendo il filobus per andare a lavoro. Mi arrivano dei frammenti di conversazione: stavano girando un film su Černobyl’ e un operatore è morto proprio durante le riprese. Per la radiazione. Mi chiedo: “Chi potrebbe essere?”. Sento ancora: era giovane, due figli. Dicono anche come si chiama: Vitja Gurevič. In effetti abbiamo un operatore che si chiama così ma è un ragazzino. Due figli? Come mai ce l’ha tenuto nascosto? Stiamo arrivando allo studio cinematografico e qualcuno precisa: non Gurevič, ma Gurin, e il nome è Sergej. Santo cielo, ma è di me che parlano! Adesso fa anche ridere ma allora, andando dalla fermata della metropolitana allo studio, pensavo a cosa sarebbe successo quando avessi aperto quella porta… E mi tormentava anche un pensiero incongruo: “Ma dove avevano preso la mia fotografia? All’ufficio personale?”. Com’era venuta fuori quella voce? Forse dalla differenza di scala tra l’enormità di ciò che era successo e il numero di vittime nell’immediato? Ad esempio, la grandiosa battaglia di Kursk. Migliaia di vittime rimaste sul campo… Ed è qualcosa che si capisce. Ma a Černobyl’ nei primi giorni, a quel che dicono, solo sette

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pompieri in tutto… Poi ancora qualcuno…

E in più alcune indicazioni troppo astratte per la nostra coscienza: “nel giro di qualche generazione”, “l’eternità”, “il nulla”. In compenso hanno cominciato a correre molte voci: uccelli con tre teste, galline che ammazzano le volpi a beccate, porcospini pelati…

E poi… E poi qualcuno doveva essere mandato di nuovo nella zona. Un operatore ha presentato il certificato medico: aveva l’ulcera, l’altro se l’è svignata mettendosi in ferie… Chiamano me: “Ci devi andare!”. “Ma se sono appena tornato!”. “Cerca di capire tu lì ci sei già stato. Per te non fa differenza. E poi: tu hai già dei bambini. Invece loro sono giovani”. Ma porca vacca, e se io invece volessi averne ancora di marmocchi, magari altri cinque o sei!! Beh, cominciano a premere, presto si riunirà la commissione per gli avanzamenti, e con una carta così in mano… L’aumento di stipendio è assicurato… Una storia triste e ridicola. L’ho relegata ai margini della coscienza…

Mi è capitato di riprendere degli ex internati, persone che erano state in un campo di concentramento. Tra loro non si incontrano volentieri. Li capisco. C’è qualcosa di innaturale nel fatto di riunirsi per ricordare la guerra. Coloro che hanno subito insieme delle situazioni umilianti o che hanno conosciuto fin dove può arrivare l’uomo, nel profondo della coscienza preferiscono evitarsi. A Černobyl’ ho conosciuto e percepito qualcosa di cui non si vorrebbe parlare. Del fatto, ad esempio, che tutte le nostre idee umanistiche hanno un valore relativo… In situazioni estreme, l’uomo sostanzialmente non è affatto come ce lo descrivono i libri. Quell’uomo dei libri non l’ho mai trovato. Mai incontrato. E’ tutto l’opposto. L’uomo non è un eroe. Tutti noi non siamo altro che venditori di apocalissi. Piccole e grandi. Mi balenano nella mente frammenti di

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ricordi…. Delle immagini… Il presidente del Kolchoz è in preparativi per sgombrare la propria famiglia, insieme alle suppellettili e ai mobili, su due autocarri, così il segretario della locale sezione del partito fa presente che anche lui ha la stessa esigenza e ne vuole per sé almeno un altro. Anzi lo pretende, ne fa una questione di giustizia. E questo, posso testimoniarlo, in un momento in cui si ha difficoltà perfino a evacuare un gruppo di bambini dell’asilo! Per mancanza di mezzi di trasporto. E qui non bastano neanche due autocarri, per contenere tutte le masserizie, compresi i vasi da tre litri con le confetture e le salamoie. Ho visto caricare tutte queste cose alla vigilia. Ma neanche questo ho filmato.(Si mette improvvisamente a ridere.)

Nel negozio del posto abbiamo comprato salame e altri prodotti alimentari, ma abbiamo avuto paura a mangiarli. E così ci siamo portati in giro delle reticelle cariche di provviste. Anche a noi dispiaceva buttare via tutta quella roba. (Tornando serio.) Il meccanismo del male continuerà a funzionare anche quando ci sarà l’apocalisse. Me ne sono convinto. Si continuerà a spettegolare, a leccare i capi, a mettere in salvo il televisore e la pelliccia di astrakan. Anche il giorno della fine del mondo l’uomo resterà tale e quale. Come è adesso. Sempre.

Trovo imbarazzante il fatto di non essere riuscito a ottenere qualche agevolazione per la mia squadra. A uno dei nostri ragazzi serviva un alloggio, sicchè sono andato al comitato sindacale.: “Dateci una mano, siamo rimasti sei mesi nella zona. Abbiamo diritto a delle facilitazioni”. “D’accordo” mi hanno detto, “però deve portarci i certificati. Certificati con timbri e firme”. Siamo tornati laggiù per farci dare i certificati, al comitato locale del partito e nei corridoi c’era solo una brava donna, Nastja, con la sua ramazza. Avevano tutti tagliato la corda. Da noi c’è un

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regista che di certificati come quelli ne ha una pila: dov’è stato, cos’ha ripreso. Un eroe!

Ho in testa, è tutto qui nella memoria, un grande film che non ho girato. In molte puntate… (Tace.) Siamo tutti dei venditori di apocalissi….

Coi soldati entriamo in una casa. Ci vive una vecchia sola.

Su, nonna, dobbiamo andare.

D’accordo, figlioli.

E allora preparati, nonna.

L’aspettiamo fuori. Fumiamo una sigaretta. Ed ecco che la vecchietta esce. Ha con sé un’icona, un gatto e un fagottino. Non porta via nient’altro.

Nonna, il gatto no. E’ vietato: ha il pelo radioattivo.

No, tesorini, senza il gattino non vengo. Come faccio ad abbandonarlo? Non posso lasciarlo qui tutto solo. E’ la mia famiglia.

Proprio da questa nonnina… E da quel melo in fiore di prima… E’ dalla nonnina e dal melo che è cominciato tutto… Adesso riprendo solo gli animali selvatici… Gliel’ho già detto: mi si è aperto il senso della vita…

Un giorno ho mostrato i miei documentari su Černobyl’ a dei bambini. Sono stato criticato: a che scopo? Non è il caso. Non si deve. Già così vivono nella paura, sempre in mezzo agli stessi discorsi, hanno la composizione del sangue modificata, il sistema immunitario compromesso. Contavo che venissero cinque o dieci persone. Invece la sala era piena zeppa. Mi hanno posto le più svariate domande, ma una mi è rimasta impressa nella mente. Un ragazzo, evidentemente un tipo di solito timido e taciturno, balbettando e arrossendo, mi ha chiesto: “E non si potevano aiutare anche gli animali che sono rimasti laggiù?”. Questo

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era già un uomo del futuro. Non ho saputo cosa rispondergli… La nostra arte parla soltanto delle sofferenze e dell’amore degli esseri umani e non di tutti i viventi. Solo degli esseri umani! Noi non ci abbassiamo a considerarli: animali, piante… Questo mondo separato… Ma con Černobyl’ l’uomo ha alzato la mano su tutto… E ha dovuto risolversi a tutto… Ha cercato… Indagato… Mi hanno raccontato che nei primi mesi dopo l’avaria, quando si discuteva l’idea del trasferimento della gente, è apparso un progetto per trasferire insieme agli uomini anche gli animali. Ma in che modo? Come trasferire tutti quanti? Forse si poteva pensare di condurre in qualche modo altrove gli animali che si muovevano sulla superficie, ma quelli che erano sottoterra, come gli scarabei o i vermi? E quelli che erano sopra? Nel cielo? Come fare a evacuare i passeri o i colombi? Come procedere con loro? Ci mancano i mezzi per comunicare loro le necessarie informazioni. E’ anche un problema filosofico. Quello della riorganizzazione dei nostri sensi…

Vorrei girare un film… Gli ostaggi… Sugli animali. Se la ricorda la canzone “Veleggiano i bai sull’oceano come un’isola rossastra?” Affonda la nave, i naufraghi si imbarcano sulle scialuppe. Ma i cavalli che erano a bordo non sapevano che non c’erano posti per le loro scialuppe…

Un apologo moderno. L’azione si svolge su un lontano pianeta. Un cosmonauta nel suo scafandro. Capta negli auricolari un rumore crescente. Vede una cosa enorme precipitarsi verso di lui. Un’ombra gigantesca. Un dinosauro?! Senza neppure capire di cosa si tratta, spara. Di lì a un istante gli si avvicina di nuovo correndo una bestia. Egli distrugge anche quella. Ancora un istante e ne arriva un intero branco. E lui fa una carneficina. Di cosa si trattava? C’era un incendio e gli animali, in cerca di salvezza, fuggivano proprio seguendo quel sentiero sul quale si era messo il cosmonauta. L’uomo! Laggiù mi è accaduta una cosa singolare. Mi sono avvicinato agli animali… Agli alberi… Agli uccelli…

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Adesso li sento più vicini di un tempo… La distanza tra noi si è ristretta… Tutti questi anni ho continuato ad andare nella zona… Da una casa abbandonata e saccheggiata dagli uomini balza fuori un cinghiale… Esce un alce femmina… Ho ripreso ogni cosa. Voglio farne un film… E vedere tutto attraverso gli occhi degli animali… “Ma cosa stai filmando?” mi

dicono. “Ma guardati un po’ attorno… Non lo vedi che in Cecenia c’è la guerra?”. Ma san Francesco predicava agli uccelli. E parlava con loro da pari a pari. E se fossero stati gli uccelli a parlargli nel loro linguaggio cinguettante e non li a condiscendere nei loro riguardi fino a farsi capire? Egli capiva il loro segreto linguaggio. Ricorda, in Dostoevskij, quell’uomo che frustava il cavallo sugli occhi mansueti. Pazzo, come può esserlo solo l’uomo! Non sul dorso, ma sugli occhi mansueti…”*.

Sergej Gurin, cineoperatore

*Accade in Delitto e castigo, in un sogno morboso del protagonista Raskol’nikov.

Tesserino di un liquidatore: Gennadiy Ciubai, padre di uno dei bambini ospitati

dall'Associazione Paka.

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Poesie di Lina Kostenko (dalla raccolta: Opere Scelte, 1989)

1

Il Vij* atomico abbassò le ciglia di cemento

Sigillò d'attorno un cerchio di terrore

Perché la Stella Assenzio cadde nei nostri fiumi?!

Chi seminò questa tragedia? Chi ne raccoglierà i frutti?

Chi ci procurò questa maledizione, questa devastazione?

Quale orda calpestò il nostro orgoglio?

Se la scienza ha bisogno di vittime,

perché mai non inghiottì voi, responsabili di tanto?!

La terra e i boschi sprofondano in cimiteri atomici.

Respira Cornobyl'**, snodo letale di tre fiumi.

Quale cannibale fece tutto questo?

Rintocca la campana funebre. Fine delle illusioni.

In quali altri boschi sono in agguato questi malfattori?

Che altro annienteranno ancora questi mercenari?

I morti, i vivi e i non ancora nati

Non ve lo perdoneranno per secoli a venire, mai.

*“Vij” è il nome del Re degli Gnomi delle leggende russe, un personaggio enigmatico con l'aspetto

di albero, dotato di enormi ciglia che toccano terra le quali, una volta aperte, sono in grado di

decifrare il confine fra bene e male. Dopo l'incidente nucleare, Lina Kostenko associò questa figura

al Reattore 4 della Centrale Nucleare, battezzandolo “Vij atomico”.

** “Cornobyl” è la pronuncia ucraina del russo “Cernobyl”

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2

Solo il nome è rimasto. Il fiume non c'è più.

Rinsecchiti i salici, ingialliti i fossi.

L'anatra selvatica mesta sfugge

le chiazze di palude rimaste.

Solo la steppa c'è. E solo afa, afa, e ancora afa

e magri sprazzi lacustri.

In cielo una cicogna stanca

e sul pilone il suo nido vuoto.

Dove sei finito, rigagnolo? Sgorga ancora!

Le labbra delle rive sono piene di crepe.

Più non conoscono le primavere vere i prati

variopinti.

Solo la calura riluce sulle costole del ponte.

Ponti e ponti e ponti sui fiumi morti.

La cicogna traccia ancora un cerchio.

Lungo le rive che non ci sono più

vanno giunchi con candele nere.

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3

Sulla riva del Pryp'jat'* dorme Satana,

facendo finta, quel maledetto, di essere un salice secco.

Sulla riva del Pryp'jat', sulla riva, sulla

riva del fiume che un tempo era azzurro.

Gli brucia accanto la nera candela atomica.

Le sue campagne giacciono devastate e vuote.

Affondò le unghie di ceppo nella sabbia

e il vento soffia nel suo orecchio cavernoso.

Dappertutto nelle case ha scritto bestemmie.

Rubò le icone. Smarrì il respiratore.

E adesso gli venne voglia di schiacciare un pisolino.

Questo è il suo regno. Qui lui impera.

Quel reattore nero è il suo inferno e il suo trono.

Dorme sulla sabbia, accoccolato sulle ginocchia.

E sogna catturata nell'aureola di cornacchia

ormai tutta l'Ucraina... l'Ucraina tutta...

*”Pryp'jat'” è il fiume nella zona di Cornobyl, affluente destro del Dniprò. E' anche il nome della

città costruito appositamente per costruire per servire la Centrale Nucleare.

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4

Ci libriamo nello spazio o vaghiamo prostrati?

E' progresso il nostro, o solo degrado?

Le radiazioni han reso rauche le voci dei nostri usignoli.

Al nostro Eden è stato tolto tutto.

Il mondo non ci ha ancora scoperto come Colombo l'America.

Vecchie saranno ormai tutte le civiltà

quando rinasceremo e riprenderemo a ballare in TV.

E solo i grilli finiranno dai mille angoli deserti di questa terra.

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5

Salici d'oro hanno dato come frutti pere selvatiche.

Sparisce il mio popolo, in mille schegge, quasi fosse un cristallo.

Quel demonio scabbioso compra anime per quattro soldi.

Ed erige così il piedistallo a nuovi potenti.

Compra, compra, compra! Quelle anime non valgon niente.

E su coi piedistalli! Svanirà anche questo inganno.

Tutta l'umanità è già arrivata a destinazione.

Solo noi stiamo ancora per partire.

E un abisso s'apre davanti a noi,

o un muro ci blocca la strada.

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6

Questa pioggia è come una doccia. Così dolce è il giorno.

Fioriscono i giardini. Nelle betulle vibra la linfa.

E' un'opera di usignoli, La Scala!

Cornobyl'. Zona. Secolo ventunesimo.

I lillà inondano i cortili,

irrompono rovesciando i cancelli tutti.

Il luccio s'avvicina grosso come un sottomarino

e le oche selvatiche tornano ogni primavera.

Però i piccoli aceri sbucano in mezzo ai portici.

C'era una volta il popolo su Pryp'jat' ed è sparito.

Nel Bosco Rosso* son cresciuti funghi velenosi.

E a raccoglierli qui viene solo la Morte.

*Il “Bosco Rosso” (detto anche “Foresta Rossa”) è il bosco accanto alla Centrale di Cernobyl, uno

dei posti più contaminati del pianeta. “Rosso” perché, a causa delle radiazioni, gli alberi hanno

assunto un colore rosso marrone (i giorni successivi l'Incidente, qualcuno affermò di aver visto

alberi color Bordeaux). Di notte queste piante sono luminescenti. Ad oggi è utilizzato come

“laboratorio” per lo studio dell'influenza delle radiazioni sulle piante.

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Nel passato ci hanno derubato del futuro

Nel futuro ci restituiranno il passato.

Ma dov'è, dov'è la nostra vita di oggi?!

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Siamo selvaggi, non teniamo in conto i costumi antichi.

Devastiamo i boschi. Diamo del “tu” alla madre.

Avviciniamo così solo la nostra fine, sempre di più,

alla selva di solitudine che ci accomuna.

Anima nostra, ancora in ostaggio a secondini.

Culto della personalità, ieri. Oggi, cultura di massa.

In passato, si diceva, eravamo scimmie.

Torneremo ad essere scimmie in futuro.

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Come i bambini di Cernobyl vedono il Disastro

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BIBLIOGRAFIA

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1986.

• Frederik Pohl, Chernobyl: a Novel, Bantham Spectra, New York,

1987.

• Grigorij Medvedev, Chernobyl: tutta la verità sulla tragedia nucleare,

SugarCo Edizioni, Milano, 1991.

• Lina Kostenko, Intarsi, Piovan Editore, Padova, 1994.

• Christa Wolf, Guasto, Edizioni e/o, Roma, 1997.

• Pino Bertelli, Chernobyl. Ritratti dall'infanzia contaminata, Edizioni

Tracce, Pescara 2002.

• Mario Petrucci, Heavy Water: a poem for Chernobyl, Enitharmon

Press, London, 2004.

• Svetlana Aleksievic (o Alexievich), Preghiere per Cernobyl, edizioni

e/o, Roma 2005.

• Igor Kostin, Cernobyl: Confessioni di un reporter, Corbis Umbrage

Edition, Brooklyn NY 2006.

• Luigi Ottani, Pierluigi Senatore, Niet problema, Chernobyl 1986-

2006, Edizioni Artestampa, Modena, 2006.

• Paolo Parisi, Chernobyl. Di cosa sono fatte le nuvole, Becco Giallo,

Padova, 2006.

• Silvia Pochettino, Bugie nucleari, Carlo Spera Editore, Chieti, 2006.

• Massimo Bonfatti, Il naso lungo di Chernobyl: fra scienza e libertà

di informazione, Carlo Spera, Chieti 2010.

• Yuri Andrukhovych, "The Star Wormwood: Notes in remembrance of

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a bitter anniversary" Text on Chernobyl, for the Heinrich Böll

Foundation, 2011.

• Francesco Cataluccio, Chernobyl, Sellerio Editore, Palermo, 2011.

• Francesca Lomastro, Andrii Omelianiuk e Oxana Pachlovska (a cura

di),“Il nome della stella è Assenzio” Ricordando Chernobyl, Viella

editore, Roma 2011.

• Javier Sebastiàn, Il ciclista di Chernobyl, Guanda Editore, Parma,

2012.

• Davide Ribella, Chernobyl. Pripyat e la zona di esclusione,

youcanprint selpf-publishing, 2013.

• www.progettohumus.it

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VIDEO CONSIGLIATI

• Io, cittadino di Chernobyl

(http://www.youtube.com/watch?v=OUsyU7glBk4 ; fonte 26 marzo

2014)

• La storia siamo noi: l'incidente di Chernobyl (a cura di Gianni

Minoli)

(https://www.youtube.com/watch?v=6pNclc_o2HY ; fonte 27 aprile 2014)

• Detonazioni nucleari dal 1945 al 1998 e i nomi dei test nucleari

(“1945-1998 overkilled and the names of experiments) di Isao

Hashimoto

(https://www.youtube.com/watch?v=WAnqRQg-W0k ; fonte 24 aprile

2014)

• Chernobyl: Il tributo del Progetto – I video di Humus: Patrizio

Maggiori: "La storia di Chernobyl"

(http://www.progettohumus.it/chernobyl.php?name=storiacherno ; fonte 28

marzo 2014)

• Chernobyl and Pripyat Ghost Town by Elena Filatova

(https://www.youtube.com/watch?=_VY0fdA7WVM ; fonte maggio 2014)

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Questo libretto sarà disponibile anche in formato ebook sul sito

dell'associazione.

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“Sulla strada di Pripyat mi imbatto in un albero,

un pino dalla forma anormale […].

Lo si direbbe una croce.

Mi raccontano che, sotto l'occupazione,

i tedeschi lo usavano come forca per i partigiani.

Scatto diverse foto di quell'albero […]

Alcuni anni dopo l'albero è caduto da solo.

Si sbriciolava un po' alla volta quando lo si toccava.

Era diventato troppo debole per resistere alla pioggia e al vento.”

(Igor Kostin)