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Provence historique – Fascicule 256 – 2014 CITTÀ E SERVIZI SOCIALI NEL MEZZOGIORNO MEDIEVALE. Il caso di Napoli DECORO URBANO, RELIGIOSITÀ DELLE OPERE E SERVIZI SOCIALI Nel 1987 il Centro italiano di studi di storia e di arte di Pistoia orga- nizzò un convegno su Città e servizi sociali nell’Italia dei secoli XII-XV, i cui Atti, pubblicati nel 1990, costituiscono ancora oggi un valido punto di partenza per lo studio di uno dei settori più importanti della vita delle città italiane del pieno e del tardo Medioevo. Gli studiosi che vi furono coinvolti, ad eccezione di Henri Bresc, che si occupò della Sicilia 1 , concentrarono però la loro attenzione, dati i loro interessi di ricerca, sull’Italia centro-settentrio- nale, contribuendo così indirettamente ad alimentare la communis opinio che le città meridionali, essendo prive di autonomia politica e di un numero consistente di abitanti, non sarebbero state in grado né avevano bisogno di organizzare servizi sociali paragonabili a quelli offerti dai Comuni. Sulla base dei progressi realizzati nell’ultimo ventennio dalla storiografia sul fenomeno urbano nel Mezzogiorno medievale, con la conseguente crescita, lenta ma progressiva, del manipolo di coloro che ritengono che vada quanto meno sfumata l’immagine storiografica delle « Due Italie », anche la problematica dei servizi sociali è apparsa meritevole di attenzione da parte dello storico delle città meridionali, per cui ad essa è stato dedicato nel novembre del 2013 uno degli incontri di studio promossi dal Centro interuniversitario per la storia delle città campane nel Medioevo, ovviamente non con l’obiettivo di annullare le caratteristiche peculiari che il fenomeno urbano ebbe nelle diverse aree dell’Italia e dell’Occidente europeo, bensì con quello di indivi- duare i modi particolari con i quali nei vari contesti politico-sociali si cercò di dare una risposta ai bisogni di comunità più o meno grandi 2 . 1. Henri BRESC, « École et services sociaux dans les cités et les “terres” siciliennes (XIII e -XV e siècles) », in Città e servizi sociali nell’Italia dei secoli XII-XV, Pistoia, 1990, p. 1-20. 2. Città, spazi pubblici e servizi sociali nel Mezzogiorno medievale (Napoli, 26 au 28 novembre 2013), i cui Atti sono in corso di stampa.

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Provence historique – Fascicule 256 – 2014

CITTÀ E SERVIZI SOCIALI NEL MEZZOGIORNO MEDIEVALE.

Il caso di Napoli

decoro urBano, religiosità delle oPere e servizi sociali

Nel 1987 il Centro italiano di studi di storia e di arte di Pistoia orga-nizzò un convegno su Città e servizi sociali nell’Italia dei secoli XII-XV, i cui Atti, pubblicati nel 1990, costituiscono ancora oggi un valido punto di partenza per lo studio di uno dei settori più importanti della vita delle città italiane del pieno e del tardo Medioevo. Gli studiosi che vi furono coinvolti, ad eccezione di Henri Bresc, che si occupò della Sicilia1, concentrarono però la loro attenzione, dati i loro interessi di ricerca, sull’Italia centro-settentrio-nale, contribuendo così indirettamente ad alimentare la communis opinio che le città meridionali, essendo prive di autonomia politica e di un numero consistente di abitanti, non sarebbero state in grado né avevano bisogno di organizzare servizi sociali paragonabili a quelli offerti dai Comuni. Sulla base dei progressi realizzati nell’ultimo ventennio dalla storiografia sul fenomeno urbano nel Mezzogiorno medievale, con la conseguente crescita, lenta ma progressiva, del manipolo di coloro che ritengono che vada quanto meno sfumata l’immagine storiografica delle « Due Italie », anche la problematica dei servizi sociali è apparsa meritevole di attenzione da parte dello storico delle città meridionali, per cui ad essa è stato dedicato nel novembre del 2013 uno degli incontri di studio promossi dal Centro interuniversitario per la storia delle città campane nel Medioevo, ovviamente non con l’obiettivo di annullare le caratteristiche peculiari che il fenomeno urbano ebbe nelle diverse aree dell’Italia e dell’Occidente europeo, bensì con quello di indivi-duare i modi particolari con i quali nei vari contesti politico-sociali si cercò di dare una risposta ai bisogni di comunità più o meno grandi2.

1. Henri Bresc, « École et services sociaux dans les cités et les “terres” siciliennes (xiiie-xve siècles) », in Città e servizi sociali nell’Italia dei secoli XII-XV, Pistoia, 1990, p. 1-20.

2. Città, spazi pubblici e servizi sociali nel Mezzogiorno medievale (Napoli, 26 au 28 novembre 2013), i cui Atti sono in corso di stampa.

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Sia a Parigi, a Milano, a Firenze sia a Napoli, a Salerno, a Cosenza, a Palermo c’era bisogno di costruire acquedotti, fontane, pozzi, condotti sotterranei in cui convogliare le acque reflue provenienti dalle abitazioni e dagli impianti produttivi, di smaltire i rifiuti, di seppellire i defunti, di regolamentare il commercio, di rifornire il mercato di generi alimentari, di disciplinare in qualche modo l’attività edilizia e l’uso del suolo pubblico, di garantire un minimo di sicurezza. Naturalmente non era la stessa cosa farlo per 50 000, per 10 000 o per 3 000 abitanti né a parità di densità demo-grafica si poteva disporre delle stesse risorse finanziarie, delle stesse abilità tecniche o dello stesso grado di coscienza civica e di patriottismo cittadino. Nei Comuni dell’Italia centro-settentrionale la grande dilatazione degli spazi di partecipazione politica, il carattere assai largo della vita associata, la dispo-nibilità di mezzi e l’alto livello della produzione artistica e culturale crearono condizioni particolarmente favorevoli non solo per l’assunzione da parte dei governi locali di tutta una serie di compiti, di cui fino ad allora non si era mai pensato che dovesse farsi carico l’autorità pubblica, ma anche per il loro espletamento con interventi molto innovativi e destinati a segnare in maniera vistosa e definitiva il tessuto urbano. Si pensi a quelli di carattere urbanistico, con l’apertura di piazze, strade e mercati, con la costruzione di grandi ponti, acquedotti e maestose fontane pubbliche, o assistenziale, con la fondazione di ospedali : realizzazioni per le quali non solo si mirò alla funzionalità, ma si prestò anche molta attenzione all’aspetto estetico, dato che il decoro urbano (l’ornamentum, il decus) fu un’esigenza largamente avvertita3.

Non si trattava però di prerogative esclusive delle città-stato. Tutte le città europee si trovarono, sia pur in misura diversa, a dover far fronte a problemi analoghi, cercando di risolverli nell’ambito degli spazi di autonomia di cui godevano all’interno degli organismi politici nei quali erano inserite : monarchie, principati territoriali, signorie4. È quel che accadde anche in Italia meridionale, compresa a partire dal 1130 in un regno dotato di un apparato politico-amministrativo tra i più avanzati, che tuttavia non valse ad impe-dire ricorrenti e pericolosi episodi di insofferenza da parte della feudalità, né cancellò ogni margine di azione delle comunità cittadine, le quali, in forme e con esiti diversi da un caso all’altro, impegnarono la monarchia in quella che Pierluigi Terenzi ha definito una « contrattazione continua » : contrattazione che era legata, da un lato, alla loro capacità di pressione (economica e poli-tica), dall’altro allo stato di salute della monarchia, periodicamente in grave

3. Jean-Claude Maire vigueur, « Les inscriptions du pouvoir dans la ville : le cas de l’Italie communale (xiie-xive siècle) », in Villes de Flandre et d’Italie (xiiie-xive siècle). Les enseigne-ments d’une comparaison, par Élisabeth Crouzet-Pavan et Élodie LecuPPre-desJardin, Turn-hout, 2008, p. 207-233 : p. 230-233 ; Giovanni CHeruBini, « La ricerca del decoro urbano », in La ricerca del benessere individuale e sociale. Ingredienti materiali e immateriali (città italiane, XII-XV secolo), Pistoia, 2011, p. 361-380 ; Francesca BoccHi, Per antiche strade. Caratteristiche e aspetti delle città medievali, Roma 2013, p. 360-363.

4. Jacques Heers, La città nel Medioevo, trad. it., Milano 1996, p. 321-415 ; BoccHi, Per antiche strade, op. cit., p. 177-379.

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affanno a causa di turbolenze interne e minacce esterne5. Essa divenne una pratica generalizzata e assunse caratteri e modalità sempre meglio definiti nel corso del Tre-Quattrocento, ma i precedenti risalivano già ai decenni che precedettero la nascita del regno (1130), dato che Ruggero II dovette contrat-tare con le singole città le condizioni della resa e fare loro concessioni a volte di una certa rilevanza, come nel caso di Salerno e di Amalfi, alle quali fu lasciato il controllo delle loro opere difensive6. Al tempo di Federico II ci fu molto meno da contrattare, e lo stesso sembrava che dovesse avvenire con gli Angioini, ma le difficoltà del potere regio in seguito alla crisi del Vespro apri-rono uno scenario nuovo, avendo sempre più bisogno i sovrani dell’aiuto sia della feudalità sia delle comunità cittadine, la prima tutta protesa ad ampliare le proprie prerogative di carattere giurisdizionale, le altre impegnate ad otte-nere più ampi margini di autonomia nel funzionamento dei propri organismi municipali e soprattutto nella gestione della finanza locale.

Le risorse finanziarie locali

La questione destinata a diventare sempre più importante a partire dagli inizi del Trecento era quella dei dazi, la principale risorsa finanziaria che le università potevano destinare al soddisfacimento dei propri bisogni. La monarchia si riservò il diritto di autorizzarli, perché temeva che, facendo aumentare quella che oggi si chiama pressione fiscale, fossero di ostacolo al pagamento della colletta, l’imposta diretta i cui proventi erano intera-mente ad essa destinati. In genere accolse le richieste, ma pensò di mettere in sicurezza le entrate statali, precisando che le università avrebbero potuto utilizzare per i loro bisogni il gettito dei dazi solo dopo aver saldato quanto dovuto per la colletta. Il risultato fu che le risorse su cui poterono contare le amministrazioni cittadine per servizi sociali e infrastrutture, anche se ebbero un incremento nel Tre-Quattrocento, furono sempre molto limitate, solo in parte compensate da lasciti testamentari di cittadini per la riparazione delle mura7, per la costruzione o la manutenzione di strade, ponti e fontane (in beneficio viarum et pontium vel fontium, pro aptandis viis ineptis Gaiete, pro costruenda et aptanda et concianda via qua itur ad ecclesiam Sancti Francisci

5. Pierluigi Terenzi, « Una città superiorem recognoscens. La negoziazione fra l’Aquila e i sovrani aragonesi (1442-1496) », Archivio Storico Italiano, 2012, p. 619-651.

6. Francesco Calasso, La legislazione statutaria dell’Italia meridionale, Roma, 19712, p. 47.

7. Placido Mario TroPeano, Codice Diplomatico Verginiano, vol. XI, Montevergine, 1998, p. 209 (Scala, 1199) ; Carmelo LePore, « La Biblioteca Capitolare di Benevento », Rivista storica del Sannio, 2004, p. 248 (Benevento, 1272) ; Errico Cuozzo, Jean-Marie Martin, Le pergamene di S. Cristina di Sepino (1143-1463), Roma, 1998, p. 295 (Sepino, 1442). Il lascito fu di mezza oncia a Benevento e di tre ducati a Sepino ; a Scala fu lasciato alla determinazione degli esecutori testamentari.

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de Gaieta a Sancto Paulo ultra versus dictam ecclesiam, operi pontis)8 o gene-ricamente ad utilitatem civitatis9.

Le testimonianze al riguardo non sono molte, anche se nella realtà il fenomeno dovette essere più diffuso ; è significativo comunque il fatto che esse non vengano soltanto dagli strati alti della società, ma anche dagli espo-nenti del ceto dei piccoli e medi proprietari, alcuni dei quali disposero lasciti a favore di tutti gli abitanti di un villaggio10, della Regia Curia11 e perfino del sovrano, dichiarando esplicitamente in quest’ultimo caso di aspettarsene benefici per la propria anima (pro anima mea)12: elemento che è senz’altro spia della formazione di una coscienza del regno, che coesisteva con quella cittadina e con lo spirito comunitario in generale.

Un benefattore del tutto particolare fu Bartolomeo di Capua, protono-taro e logoteta del regno dal 1290 al 1328, il quale non si limitò a fondare e a dotare chiese, cappelle e monasteri a Napoli e a Capua, ma, come annota-rono i suoi primi biografi cinquecenteschi, « hebbe cura di ordinare et lasciare buone somme di denari per ripararsi ponti in diverse parti del regno, et per far un bagno a Pozzuolo a pubblica commodità, opere non meno gloriose

8. Abbazia di Montevergine. Regesto delle pergamene, a cura di Giovanni Mongelli, vol. III, Roma, 1957, p. 99, nr. 2288 (Taurasi, 1275: mezzo augustale per il ponte di Frigento) ; Archivio Storico Provinciale di Benevento (presso il Museo del Sannio), Fondo SS. Annun-ziata, vol. I, n. 15 (Benevento, 1348: 10 once, ma da utilizzare anche per altre opere di bene, a libera scelta degli esecutori testamentari, tra cui il maritaggio di orfane) ; Riccardo Bevere, « Suffragi, espiazioni postume, riti e cerimonie funebri dei secoli XII, XIII e XIV nelle provincie napoletane », Archivio storico per le province napoletane, 1896, p. 119-132 : p. 129 (Gaeta, 1357, per le strade cittadine malagevoli) ; Bevere, art. cit., p. 129 (Venosa, 1289, per il ponte di Venosa). Sull’importanza, per l’economia del territorio, delle strutture viarie e dei ponti in particolare c’è ampia bibliografia, soprattutto per l’Italia comunale. Cfr. Federico Melis, I trasporti e le comunicazioni nel Medioevo, a cura di L. Frangioini, Firenze, 1984 ; Thomas SzaBó, Comuni e politica stradale in Toscana e in Italia nel Medioevo, Bologna, 1991 ; Pietro Dalena, Ambiti territoriali, sistemi viari e strutture del potere nel Mezzogiorno medie-vale, Bari, 2000, p. 36-50. Anche al Sud è documentata l’esistenza di chiese e di ospedali di ponte a servizio soprattutto di stranieri e di pellegrini. Per Benevento, ad esempio, se ne parla in vari documenti del Chronicon Sanctae Sophiae (cod. Vat. Lat. 4939), a cura di Jean-Marie Martin, Roma, 2000, indice dei nomi.

9. Giuseppe Gargano, La città a mezza costa. Patriziato ed urbanesimo a Ravello nei secoli del Medioevo, Ravello, 2006, p. 98 (Ravello, 1201) ; Carmine Carlone, I regesti dei documenti della certosa di Padula (1070-1400), Salerno, 1996, p. 148-149 (Laurino, 1346). In entrambi i casi il lascito fu di un’oncia. Non è dato invece di conoscere né l’entità né l’università destinataria del lascito fatto dal giudice Giovanni Capocia con testamento del 10 agosto 1359: Bevere, Suffragi, op. cit., p. 129.

10. Alfredo Franco, « Sarno e dintorni nel Rinascimento. Luoghi, istituzioni ed élite », in Studi storici sarnesi dal Quattrocento al Cinquecento, a cura di Alfredo Franco, Benevento, 2012, p. 67-116 : p. 109-112 (Sarno, 29 dicembre 1381).

11. Bevere, Suffragi, op. cit., p. 129 (Napoli, 15 aprile 1286).12. Giancarlo Bova, Cristina AlPoPi, Villaggi abbandonati e territorio tra Capua e Castel-

volturno (X-XV secolo), Napoli, 2013, p. 191 (1280: lascito di mezzo augustale a Carlo d’Angiò da parte di Pietro de Primicerio, figlio naturale del fu Riccardo, primicerio capuano) ; Bevere, Suffragi, op. cit., p. 129 (1328 : lascito di due once da parte di Matteo Orimina, il quale vi aggiunse tre once a saldo di un debito annotato in un registro della curia).

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al suo nome, che utili et benefiche alla generazione humana »13. Nella sua munificenza c’è chi tende giustamente a vedere « una sorta di imitatio di costumi antichi » e la coscienza dei doveri che gli derivavano dall’alta carica che ricopriva14, ma i casi di altri benefattori prima menzionati mostrano che era diffusa in tutti i ceti sociali la consapevolezza della crescita dei bisogni, ai quali gli organismi di governo locali non erano in grado di far fronte con le loro risorse finanziarie : consapevolezza, che alimentava quella “religiosità delle opere”, come è stata chiamata, che proprio tra Due e Trecento si andava diffondendo all’interno dei laicato pio e alla quale è da ricondurre la spiri-tualità dello stesso Bartolomeo di Capua, se si considera che al monastero napoletano di Santa Maria di Alto Spirito, da lui fondato e affidato ai monaci di Montevergine, fu annesso un ospizio capace di rifornire dodici poveri di vitto, alloggio, vestiti e quant’altro loro necessario15.

Provvedimenti urbanistici e decoro urbano

Un altro elemento sul quale va richiamata l’attenzione è quello relativo agli interventi dei sovrani, prima angioini e poi aragonesi, in materia urba-nistica, specie ora che siamo attrezzati per decodificare i privilegi da loro concessi, da sempre considerati emanazione diretta ed esclusiva della bene-volenza regia, ma che oggi sappiamo bene come fossero piuttosto il risul-tato di richieste più o meno insistenti delle comunità locali sia per ottenere l’autorizzazione del sovrano a realizzare determinate opere, dato che era lui il titolare dei diritti pubblici sulla città, sia per il reperimento delle relative risorse. In altre parole avveniva allora quello che accade anche oggi attraverso il trasferimento dallo Stato ai Comuni, in aggiunta alla dotazione finanziaria ordinaria, di contributi speciali a carico della finanza pubblica per la realiz-zazione di particolari opere (un inceneritore, il disinquinamento di un’area, una ricostruzione post-terremoto ecc.), spesso attraverso l’interessamento di politici locali, ma allora grazie alla capacità di pressione delle università più influenti, che non mancavano di farsi supportare da autorevoli espo-nenti degli uffici centrali del regno o comunque da personaggi ben introdotti a corte. In altri termini, le dichiarazioni che compaiono nelle arenghe dei privilegi sono sì espressione di una particolare sensibilità dei sovrani per il decoro e la prosperità delle città, ma non rispecchiano interamente la realtà delle cose, perché non danno pienamente conto di tutto quello che sta dietro alla realizzazione di opere pubbliche.

13. Scipione Ammirato, Delle famiglie nobili napoletane, Firenze, 1580-1651, vol. II, p. 53 ; Ingeborg Walter, Maura Piccialuti, « Bartolomeo da Capua », in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. VI, Roma, 1960, p. 697-704.

14. Giuliana Vitale, Élite burocratica e famiglia. Dinamiche nobiliari e processi di costru-zione statale nella Napoli angioino-aragonese, Napoli, 2003, p. 178.

15. Giovanni Vitolo, « Religiosità delle opere e monachesimo verginiano nell’età di Fede-rico II », Benedictina, 1996, p. 135-150 : p. 145.

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Lo stesso discorso va fatto per i privilegi concessi dai signori feudali, nei quali sono inserite tutta una serie di norme per il governo delle comunità locali, tra cui anche quelle di carattere urbanistico : norme variamente definite (usus, consuetudines), che tutto lascia credere siano state il risultato di dibat-titi e di trattative, prima, all’interno degli organismi assembleari cittadini e poi con l’autorità superiore, ancorché poi redatte da un esperto di diritto per incarico delle parti o, più probabilmente, della universitas, limitandosi il signore ad esaminarle e, una volta approvate, a farle inserire in un suo privilegio. Un caso particolarmente interessante sia per le piccole dimensioni del centro abitato sia per la levatura del redattore dell’atto è quello di Castello (oggi Castel Baronia in provincia di Avellino, allora in Principato Ultra), che faceva parte del principato di Altamura (BA), nel 1487 confiscato a Pirro del Balzo, potente barone coinvolto nella congiura dei baroni contro Ferrante d’Aragona, e passato a Federico d’Aragona (il futuro Federico III, ultimo re aragonese di Napoli), figlio di re Ferrante e genero del predetto Pirro, come dote della moglie Isabella. Orbene, nel 1490 il nuovo signore feudale emanò un regolamento amministrativo scritto da Antonio de Gennaro (1448-1522), un giureconsulto per lungo tempo ai vertici degli uffici centrali, prima, del regno aragonese e poi del viceregno spagnolo, pubblicato anni addietro da Giuliana Vitale, la quale lo considera giustamente espressione più della cultura e dell’etica politica degli ambienti di corte che di quelle degli abitanti di Castello16. Questo però, se indubbiamente influì sulla formulazione del testo e quindi sull’enunciazione dei principi di buon governo al quale esso appare ispirato, non significa necessariamente che si trattasse di un ordina-mento calato dall’alto, dato che vi si fa riferimento a cariche e a pratiche che a fine Quattrocento, in seguito ai continui interventi di riforma delle ammi-nistrazioni locali attuati dai sovrani aragonesi, non erano affatto nuove nelle università demaniali e probabilmente anche in non poche di quelle infeudate, le cui dinamiche politico-sociali non erano meno vivaci delle prime. Tralas-ciando le varie norme relative al funzionamento degli organismi municipali, è da sottolineare in questa sede quella sulla destinazione degli eventuali attivi di bilancio, che avrebbero dovuto essere impiegati per cose che siano orna-mento, beneficio, satisfatione et utile de ditta terra17 : dove è da sottolineare il termine « ornamento », che, indipendentemente dal significato preciso che si vorrà dare ad esso, mostra come agli amministratori locali si richiedesse non solo di dotare le loro città di infrastrutture utili, ma anche che esse, con la loro decorazione o comunque con la loro buona fattura, obbedissero ad un criterio di decoro urbano.

16. Giuliana Vitale, « L’ideale del “buon governo” delle Universitates nell’ultima fase dell’età aragonese nel Regno di Napoli e il regolamento amministrativo dell’Università di Castello in Principato Ultra », Atti dell’Accademia Pontaniana, 1994, p. 373-380 : p. 375. Sul De Gennaro : Franca Petrucci, « De Gennaro (De Jennaro, Gennari) Antonio », in Dizionario Biografico degli Italiani, 36 (1988), p. 120-122.

17. Giuliana Vitale, « L’ideale del “buon governo” delle Universitates », art. cit., p. 379.

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il diritto allo studio

Indipendentemente però da chi prendesse l’iniziativa di costruire un acquedotto, una fontana, un ponte, una porta urbica o un’intera murazione, si trattava poi di garantirne la manutenzione e la funzionalità nel corso del tempo, di cui è certo che non si occupavano abitualmente né i signori feudali né tanto meno i sovrani o i funzionari regi centrali e periferici, che avevano altri compiti. Un ruolo di grande importanza come collegamento tra centro e periferia aveva, come è noto, il capitano, che esercitava un attento controllo sull’operato degli organismi di governo cittadini ed era il garante dell’ordine pubblico e dell’amministrazione della giustizia, ma che non aveva tra i suoi compiti anche quello di provvedere all’assistenza sanitaria e all’edificazione di fontane e ponti. Di servizi sociali era quindi indispensabile che ci si occu-passe in sede locale e con soluzioni che, anche in uno Stato caratterizzato da una legislazione di vigenza generale, non potevano non essere diverse da un posto all’altro, legate come erano alle capacità di iniziativa e alle risorse economiche delle varie comunità, alcune delle quali estesero nel corso della seconda metà del Quattrocento i loro campi di intervento, occupandosi anche di quello che oggi chiameremmo sostegno al diritto alla studio, sia ingaggiando buoni maestri sia contribuendo alle spese per il mantenimento di studenti all’Università di Bologna o più frequentemente a quella di Napoli, allora l’unica esistente nel regno.

Il caso più chiaro, e anche più antico, è quello di Amalfi, dove il cardi-nale Pietro Capuano il 20 ottobre 1208 istituì una scola liberalium artium, nella quale avrebbero potuto studiare gratuitamente chierici e laici di Amalfi e Atrani, stabilendo in dieci once d’oro lo stipendio annuo del maestro, ricava-bili dalle rendite di una serie di beni immobili da lui acquistati in varie località delle costiere amalfitana e sorrentina : maestro di cui riserva la nomina a sé e ai suoi eredi, e che avrebbe potuto essere rimosso se si fosse rivelato non idoneo o non più abile per vecchiaia o per motivi di salute. Garanti del rispetto delle sue volontà sarebbero stati l’arcivescovo e il capitolo cattedrale, ma, in caso di loro negligenza o se avessero intenzionalmente tentato di contravvenire a quanto da lui disposto facendo un uso diverso delle rendite destinate al funzionamento della scuola, avrebbe avuto facoltà di intervenire la commu-nitas civitatum Amalfie et Atrani, a beneficio delle quali essa era stata creata, ma fatto sempre salvo il divieto di destinare ad altri usi le risorse necessarie per lo stipendio del maestro ; come rimedio estremo, se anche gli amministra-tori delle due comunità si fossero dimostrati maliciosi et negligentes, sarebbe intervenuta direttamente la Chiesa Romana, ut per summum pontificem libere et absque alicuius vel aliquorum contradictione ordinetur et statuatur in civi-tate Amalfie scola ipsa cum omni integritate possessionum et reddituum18.

18. Werner Maleczek, Pietro Capuano, patrizio amalfitano, cardinale, legato alla quarta crociata, teologo († 1214), Amalfi, 19972, p. 239-241.

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Fino a quando la scuola abbia funzionato e quale sia stato il livello dell’insegnamento che vi veniva impartito, non è dato di sapere sulla base di dati precisi, ma può dirsi con certezza che nel 1309 e nel 1387 poteva ancora contare sulle rendite dei beni di Agerola e di Maiori, ad essa destinati dal cardinale19, e che nel 1383 godeva di una certa considerazione, se ebbe un lascito da parte di un privato20. Quello che comunque qui va sottolineato è il ruolo svolto dagli organi di governo delle due comunità cittadine nel garan-tire la vita della scuola. È pur vero che le autorità garanti erano principal-mente quelle ecclesiastiche (arcivescovo, capitolo cattedrale e curia romana), ma non è da considerare irrilevante il ruolo degli eredi e dei due organismi municipali : un concorso pubblico/privato e laico/ecclesiastico, che, almeno per il Due-Trecento, esprime bene il carattere della società medievale, la quale al Nord, al Centro e al Sud dell’Italia e nell’Occidente europeo non vedeva tra gli elementi delle due coppie di aggettivi dianzi menzionate la netta distin-zione che noi oggi vi operiamo.

Da questo punto di vista le testimonianze che seguono, relative alla seconda metà del Quattrocento, potrebbe dirsi che siano rivelatrici, e non solo nel Mezzogiorno, di una diversa temperie storico-culturale, che vede le amministrazioni municipali operare con i propri mezzi per rendere possibile ai giovani l’accesso agli studi e il conseguimento di un titolo dottorale. L’am-ministrazione comunale dell’Aquila non solo si preoccupava abitualmente di ingaggiare buoni maestri per l’insegnamento di base21, ma con i capitoli del 1458 e del 1464 chiese di poter istituire uno Studio generale (Studium cuiuscunque doctrine et scientie) con le stesse prerogative di quelli di Siena, Bologna e Perugia : iniziativa che però non ebbe alcun seguito22.

A Napoli la creazione dello Studio era stata una iniziativa di Federico II, senza che la città vi avesse parte alcuna. Essa però, almeno al tempo di Roberto d’Angiò, non mancava di interessarsene, chiedendo al sovrano che vi chiamasse come docente di diritto Cino da Pistoia : cosa che il 15 agosto 1330 egli effettivamente fece, anche se, a quel che sembra, di malavoglia ; ma, contrariamente a quanto era avvenuto fino ad allora, mise il suo stipendio a carico non dell’erario regio, bensì di quello della città23.

A Taranto il governo cittadino aiutava economicamente gli studenti che si recavano a studiare all’Università di Napoli, allora l’unica esistente nel

19. Il Codice Perris. Cartulario amalfitano. Sec. X-XV, a cura di Jole Mazzoleni, Renata Orefice, Amalfi, 1985-1989, vol. III, p. 786 ; vol. IV, p. 1308-1309 ; Le pergamene dell’archivio arcivescovile di Amalfi. Regesto a. 1103-1914, a cura di Renata Orefice, Massalubrense (NA), 1981 (Centro di Cultura e Storia Amalfitana, VI), p. 64-65.

20. Il Codice Perris, op. cit., vol. IV, p. 1301.21. Liber reformationum 1467-1469, a cura di Maria Rita Berardi, L’Aquila, 2012, p. 199 ;

Giovanni Vitolo, « Città, monarchia, servizi sociali : i verbali dei Consigli comunali dell’Aquila (1467-1469) », Studi Storici, 2012, p. 753-759 : p. 756.

22. Terenzi, « Una città superiorem recognoscens », art. cit., p. 638.23. Giuseppe de Blasiis, « Cino da Pistoia nell’Università di Napoli », Archivio storico per

le province napoletane, 1886, p. 139-150 : p. 144-145.

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regno, versando a ciascuno di loro due once all’anno24. La documentazione finora nota induce a credere che questo sia avvenuto in Sicilia con maggiore impegno, e fin dai primissimi anni del Trecento, non solo a Palermo, Messina, Catania, Siracusa, Trapani, Noto, Lentini, bensì anche in centri più piccoli, quali Nicosia, Corleone, il casale di Adragna, nel territorio di Sambuca di Sicilia (AG)25; ma non è da escludere che nel futuro possano essere acquisiti nuovi dati anche per il Mezzogiorno.

il caso naPoli

Interventi regi e amministrazione cittadina

Un caso particolare è quello di Napoli, dove la presenza stabile della corte e degli uffici centrali del regno non poteva non influire sulla vita comples-siva della città e sugli equilibri politici locali, creando le condizioni perché i sovrani intervenissero sul piano urbanistico, della dotazione di infrastrutture e del controllo degli spazi pubblici con una intensità ed una regolarità di gran lunga superiori rispetto a quel che fecero altrove, anche se in misura minore rispetto a quanto appare dalla tradizione erudita. Innanzitutto all’arrivo di Carlo d’Angiò Napoli era in crescita in tutti i campi e importanti scelte di carattere urbanistico, a lui attribuite, erano già state fatte da tempo, come ad esempio il trasferimento del mercato dalla zona dell’antico foro all’ampio spazio al di fuori delle mura corrispondente all’attuale piazza Mercato, anche se non sappiamo se per volontà di uno degli ultimi duchi, per decisione di organismi municipali o, come è più probabile, attraverso una lenta e progres-siva delocalizzazione delle attività commerciali, che cominciavano ad essere ostacolate nel loro sviluppo dalla mancanza di spazio nell’antica sede. Quello che è sicuro è che il trasferimento era già avvenuto tra la fine del sec. XI e i primissimi anni del sec. XII e che nella zona operavano almeno dagli anni Quaranta del Duecento mercanti marsigliesi, che poi vi fondarono nel 1270 la chiesa-ospedale di Sant’Eligio su un suolo concesso da Carlo d’Angiò26.

Altrettanto sicuro, sebbene questa nuova acquisizione storiografica stenti ancora ad entrare nel comune sentire degli addetti ai lavori, è che l’area fu inserita in una nuova murazione solo nel 1350, al tempo di Giovanna I,

24. Codice aragonese o sia lettere regie, ordinamenti ed altri atti governativi de’ sovrani aragonesi di Napoli riguardanti l’amministrazione interna del reame e le relazioni all’estero, a cura di Francesco TrincHera, vol. III, Napoli, 1874, p. 143. La notizia si riferisce all’ottobre del 1491, quando però la città sospese l’erogazione del sussidio.

25. Bresc, « École et services sociaux », art. cit., p. 5-8 ; Patrizia Sardina, Palermo e i Chia-romonte : splendore e tramonto di una signoria. Potere nobiliare, ceti dirigenti e società tra XIV e XV secolo, Caltanisetta-Roma, 2003, p. 292-293.

26. Il trasferimento del mercato dall’antico foro romano e la formazione nell’area del Mercato Nuovo di un quartiere attrezzato in funzione di esso richiamano quanto giusto un secolo prima era avvenuto, rispettivamente, a Firenze e a Pisa : Duccio Balestracci, « Gli edifici di pubblica utilità nella Toscana medievale », in L’architettura civile in Toscana. Il Medioevo, a cura di Amerigo Restucci, Cinisello Balsamo, 1995, p. 227-267 : p. 235.

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nell’imminenza della seconda discesa in Italia di Luigi d’Ungheria, e quindi non per volontà del primo sovrano angioino. Un intervento su quel lato della cinta urbana era invece avvenuto già prima del suo arrivo, tra il 1245 e il 1263, con il conseguente inserimento all’interno di essa della chiesa-ospedale di San Giovanni a Mare27. Diversa datazione è stata negli ultimi decenni attribuita anche ad altri interventi di carattere infrastrutturale, quali debbono essere considerati, in relazione alle esigenze della società medievale, le chiese in generale e la cattedrale in particolare, e i monasteri, che furono sì interessati da radicali opere di restauro e di ampliamento, ma a partire dalla fine degli anni Ottanta, al tempo di Carlo II.

All’iniziatore della dinastia va invece senza alcun dubbio il merito di aver assicurato all’area del mercato un saldo inquadramento sul piano reli-gioso e su quello urbanistico, favorendo la costruzione ai due lati opposti di essa, oltre che del complesso di Sant’Eligio, anche della chiesa-convento dei Carmelitani, sede di quel culto della Madonna bruna destinato a diventare nel corso del Tre-Quattrocento una delle devozioni più diffuse e durature in tutti i ceti sociali della città e nella stessa corte regia. Fu tuttavia la costruzione della reggia-fortezza di Castelnuovo ad avere l’impatto più forte sull’assetto urbanistico della città, di cui divenne ben presto il simbolo stesso, orientan-done lo sviluppo in direzione nord-ovest anziché sud-est, come sembrava che stesse avvenendo in precedenza.

Indipendentemente però dai tempi e dalla ripartizione tra i primi due sovrani angioini della paternità delle varie iniziative di carattere urbanistico e infrastrutturale, resta il problema della gestione e della manutenzione delle opere realizzate. Per quanto riguarda il mercato, che si teneva due volte alla settimana (lunedì e venerdì), chi regolamentava orari, occupazione del suolo, pesi e misure, smaltimento dei rifiuti, eventuali contenziosi ? Chi provvide ad impiantarvi la croce che ancora esiste e che, come ha mostrato Francesca Bocchi28, di solito era presente nei mercati del tempo ? Tutto lascia credere che a Napoli come altrove a questo abbiano provveduto non gli ufficiali regi, ma gli organi del governo municipale. Lo stesso vale per le mura, che avevano bisogno di manutenzione ordinaria e straordinaria sia per far fronte ai danni ad esse arrecati dagli eventi bellici, dal tempo e dalle intemperie (si pensi alla violenta mareggiata del 25 novembre 1343 di cui parla anche il Petrarca), sia perché esse non avevano in tutto il loro circuito il carattere compatto e continuo, che noi immaginiamo sulla base di quanto ci è noto per la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, ma in più punti sfruttavano le caratteristiche del terreno con palizzate, fossati e altre strutture rudimentali, e per ciò stesso deperibili. Gli ospedali potevano contare per la costruzione e per interventi di manutenzione straordinaria sull’aiuto dei sovrani e di bene-fattori, oltre che sulle risorse, solo in pochissimi casi ingenti, provenienti dai

27. Giovanni Vitolo, Rosalba di Meglio, Napoli angioino-aragonese. Confraternite, ospe-dali, dinamiche politico-sociali, Salerno, 2003, p. 48-61.

28. BoccHi, Per antiche strade, op. cit., p. 176.

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loro patrimoni immobiliari, ma per la gestione ordinaria non potevano fare a meno del sostegno delle autorità locali. La stessa costruzione della nuova cattedrale, indipendentemente da chi ne sia stato il promotore, l’arcivescovo o Carlo II, fu possibile, come ha ampiamente documentato di recente Mario Gaglione, grazie alle notevoli somme messe a disposizione dal sovrano, che però addossò alla città una parte della spesa29 : chi provvede a raccoglierla, dopo averla evidentemente ripartita tra i cittadini ?

Una caratteristica della Napoli medievale e moderna, ampiamente cele-brata da scrittori e cronisti, è l’abbondanza delle acque sia sorgive sia prove-nienti dall’esterno attraverso i corsi d’acqua che la lambivano e gli acquedotti che alimentavano mulini, pozzi e una gran quantità di fontane, alcune anche monumentali, disseminate lungo le strade, le piazze, i cortili interni delle abitazioni : infrastrutture, soprattutto gli acquedotti, che avevano bisogno più di tutte le altre di manutenzione ordinaria, dovendosi procedere perio-dicamente a interventi di ripulitura e di consolidamento. Il problema era già ben chiaro a fine Cinquecento a Giovanni Antonio Summonte, il quale ebbe a scrivere :

Sono gli aquedotti del re, però la città ne tiene l’amministratione, facendoli a sue spese purgare e riparare, che perciò si eliggono i Deputati de’ Nobili e del Popolo, i quali usano diligenza che l’acqua sia ben conser-vata, della quale i cittadini partecipano abbondantemente in particolare et in universale ; perciocché la maggior parte delle case tengono pozzi o fontane di detta acqua e può ogni cittadino farsi il pozzo con licenza però de’ detti Deputati, da’ quali si tiene pensiero che il pozzo sia atto a ricevere l’acqua, che non si perda30.

Il riferimento ai deputati dei nobili e del popolo preposti al rifornimento idrico della città ci fornisce lo spunto per richiamare, dopo la condizione di capitale e l’intervento diretto dei sovrani nella sua amministrazione, una seconda particolarità di Napoli rispetto non solo alle altre città del regno, ma anche a quelle del resto della penisola italiana. Chi erano i predetti deputati, e soprattutto chi li eleggeva ? Erano essi, come altrove, designati da un orga-nismo consiliare più o meno grande e rappresentativo dei vari ceti sociali, che procedeva a queste e ad altre nomine ?

Come è noto, dopo le riforme degli enti locali, attuate a più riprese nella seconda metà del Quattrocento da Ferrante d’Aragona, dovunque opera-vano consigli comunali, che non solo esprimevano giunte ristrette ancorché variamente composte, ma conferivano anche tutta una serie di incarichi per compiti ordinari e straordinari. Il caso meglio noto, perché ampiamente documentato, è quello dell’Aquila grazie alla conservazione dei verbali delle assemblee consiliari, di cui Maria Rita Berardi ha iniziato la pubblica-

29. Mario Gaglione, « La cattedrale e la città. Monarchia, episcopato, comunità cittadina nella Napoli angioina », Studi Storici, 2011, p. 195-227.

30. Giovanni Antonio Summonte, Historia della città e regno di Napoli, Napoli, 1748-17503, vol. I, p. 283-284.

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zione31. Orbene, da tempo mi sono convinto che L’Aquila non rappresenti una anomalia nel contesto delle città meridionali, ma solo un caso estremo in una vasta gamma di condizioni giuridiche, che erano il risultato di quella “contrattazione continua” tra monarchia e comunità cittadine dianzi ricor-data, per cui all’Aquila avveniva ad un livello qualitativo e quantitativo più alto quello che si tentava di realizzare dappertutto, vale a dire una forma più o meno larga di partecipazione al governo locale attraverso l’ingresso di un maggior numero di cittadini negli organismi consiliari e/o l’assunzione di cariche pubbliche, in genere a titolo gratuito, non disponendo allora le università di risorse per stipendiare personale dipendente.

La giunta degli Eletti

La vera anomalia non era quella dell’Aquila, bensì, come ha osservato Giovanni Muto, quella di Napoli, che era governata non da un consiglio cittadino formalmente rappresentativo dei vari ceti sociali, ma da una giunta ristretta, quella degli Eletti, che peraltro fino al 19 maggio del 1495 rappre-sentò solo i cinque seggi nobili, vale a dire una porzione minima non soltanto della popolazione complessiva, ma dello stesso ceto dirigente cittadino, dato che di essa non fece parte prima di allora un rappresentante del seggio del Popolo, che comprendeva, oltre a mercanti e a liberi professionisti (notai, avvocati, medici), anche autorevoli esponenti dell’apparato giudiziario e burocratico del regno32. In altra sede ho mostrato, spero in maniera convin-cente, che questa esclusione non comportò affatto una totale irrilevanza del Popolo sul piano della gestione del potere locale, essendo operanti altri meccanismi e canali di partecipazione politica, attivi soprattutto nei momenti di crisi, tra cui le balìe, ben note alla storiografia napoletana e presenti peraltro in casi analoghi anche nei Comuni dell’Italia centro-settentrionale33.

Né l’anomalia finiva qui. I seggi (prima cinque e poi sei con quello del Popolo) non si riunivano insieme, ma separatamente, e non solo per eleg-gere ognuno il proprio Eletto e le altre cariche sia interne sia pubbliche, su cui si ritornerà più avanti, ma anche per discutere e decidere in merito alle questioni attinenti al governo della città, per le quali bastava la maggio-ranza di quattro seggi. Il risultato è stato che non solo non è esistito né nel Medioevo né in Età moderna un vero e proprio archivio comunale, dato che la documentazione era custodita nei singoli seggi, ma essi si dividevano le

31. Si veda sopra, nota 21.32. Giovanni Muto, « Spazi urbani e poteri cittadini. I Seggi napoletani nella prima

Età Moderna », in Ordnungen des sozialen Raumes. Die Quartieri, Sestieri und Seggi in den frühneuzeitlichen Städten Italiens, a cura di Grit Heidemann, Tania Michalsky, Berlin, 2012, p. 213-228 : p. 221.

33. Giovanni Vitolo, « Associations religieuses et dynamiques sociales et politiques à Naples dans la première moitié du xve siècle », in René d’Anjou (1409-1480). Pouvoirs et gouver-nement, sous la direction de Jean-Michel matz et Noël-Yves tonnerre, Rennes, 2011, p. 269-286.

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varie competenze dell’amministrazione sulla base di quella che oggi chiame-remmo una lottizzazione e le gestivano con grande autonomia, a volte anche dalle abitazioni private degli Eletti, attraverso apposite Deputazioni, alcune permanenti altre temporanee, formate da persone da loro designate. Esse sono state ampiamente illustrate dal Summonte e sulla sua scorta anche da altri autori, tra cui Bartolommeo Capasso, per cui non è il caso di insistervi in questa sede34. È necessario però richiamare alcuni dati ai fini del discorso che stiamo facendo sulla gestione degli spazi pubblici e dei servizi sociali, per mostrare come, nonostante le interferenze dei sovrani e le non infrequenti ridefinizioni delle competenze tra funzionari regi e organi di governo locali, la città, sia pur attraverso il complicato ordinamento amministrativo dianzi descritto, fosse in grado non solo di curare la manutenzione delle sempre più complesse infrastrutture di cui era dotata, ma anche di prestare ai propri abitanti servizi la cui qualità non siamo in grado di valutare, ma che è da credere non lontana dagli standard del tempo35.

Casi di interferenze e di ridefinizione di competenze furono quelli che riguardarono la pulizia delle strade con il connesso smaltimento dei rifiuti e l’approvvigionamento dei grani. Del primo problema si erano occupati diret-tamente i sovrani angioini, soprattutto Carlo II e Roberto36, ma re Ferrante verso la fine del suo regno ne incaricò gli Eletti, assegnando loro anche la riscossione delle multe ai contravventori, da destinare all’ospedale dell’An-nunziata. All’approvvigionamento dei grani avevano invece sempre provve-duto gli Eletti, che avevano anche la facoltà di infliggere multe e pene corporali ai contravventori, ma la cui autonomia nel 1560 venne limitata, perché a loro fu affiancato un grassiere di nomina regia, posto a capo del tribunale che giudicava i reati nell’ambito del commercio dei generi alimentari.

Le deputazioni permanenti, alcune delle quali dotate di giurisdizione e quindi definite tribunali, e per la cui attività non è rimasta documentazione anteriore ai primissimi anni del Cinquecento, ci danno un’idea chiara dell’am-piezza dei campi di intervento dell’amministrazione cittadina, finanche in ambiti che si sarebbe portati a credere di esclusiva competenza dei funzionari regi, come ad esempio la difesa, di cui si occupava il Tribunale della Fortifi-cazione (la città era dotata anche di armamenti, che all’occorrenza venivano prestati ai responsabili della difesa della città)37, mentre quello detto di Acqua

34. Bartolommeo CaPasso, Catalogo ragionato dei libri registri e scritture dell’archivio municipale di Napoli (1387-1806), Napoli, 1899 ; nuova edizione, Battipaglia (SA), 2011 (da cui si cita), parte I.

35. Come si vede dai dati raccolti da Heers, La città nel Medioevo, op. cit., p. 326-335, Napoli non era più sporca delle altre grandi città europee. Molto più pessimistico il quadro delineato per metà Quattrocento da Amedeo Feniello, « Gli interventi sanitari dei secoli XIV e XV », in Napoli nel Medioevo. Segni culturali di una città, vol. I, Galatina (LE), 2007, p. 123-135.

36. Giuseppe de Blasiis, « Le case dei principi angioini nella piazza di Castelnuovo », Archivio storico per le province napoletane, 11 (1886), p. 442-481 ; 12 (1887), p. 289-435 : p. 305.

37. CaPasso, Catalogo ragionato, op. cit., parte II, p. 28-30.

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e mattonata provvedeva alla manutenzione degli acquedotti e delle fontane nonché alla pavimentazione delle strade.

Una deputazione priva di giurisdizione era invece quella dei Monasteri, che provvedeva al loro sostegno non solo materiale, ma anche morale, soprat-tutto di quelli femminili, intervenendo, quando necessario, a loro favore presso le autorità ecclesiastiche : cosa di cui ci fu particolarmente bisogno nella seconda metà del Cinquecento, quando l’applicazione dei decreti tridentini, volti ad eliminare stili poco rigorosi di vita monastica consolidatisi nel corso dei secoli, mise in forte allarme non poche famiglie del patriziato, che avevano proprie parenti nei monasteri della città. Dovunque le ammi-nistrazioni cittadine si fecero allora carico del sostegno ai monasteri, ma fu solo a Napoli che ad occuparsene era un vero e proprio ufficio, evidente-mente a causa delle dimensioni del fenomeno. Al che è da aggiungere che fin dall’Alto Medioevo, quando i seggi nobiliari erano molti di più dei cinque che si formarono tra Due e Trecento in seguito all’aggregazione di quelli più antichi, essi esercitavano un diritto-dovere di protezione sui minori e sulle vedove nonché sulle istituzioni ecclesiastiche dei loro quartieri, di cui in alcuni casi avevano, in quanto fondatori, un controllo quasi totale.

L’assistenza sociale

Un caso particolare era quello dei conventi mendicanti che, come è noto, godevano in Italia centro-settentrionale della protezione dei governi citta-dini, ai quali prestavano peraltro tutta una serie di servizi, che andavano dalla gestione delle risorse finanziarie alla riforma degli statuti. A Napoli potrebbe sembrare che le cose siano andate diversamente e che sia stata la monarchia a monopolizzare il rapporto con i frati, conferendo loro tutta una serie di compiti e facendone i destinatari principali della sua beneficenza. Si tratte-rebbe però di un’impressione infondata, perché il governo municipale fu non meno attivo nella protezione dei conventi mendicanti ancora una volta attra-verso i seggi, sia quelli nobiliari sia quello del Popolo, la maggior parte dei quali avevano un rapporto privilegiato con uno di loro38.

Il seggio del Popolo attraverso il suo Eletto aveva giurisdizione sui vendi-tori di generi alimentari e si occupava della gestione dei due maggiori ospe-dali cittadini : l’Annunziata e Sant’Eligio, di cui fin dal Trecento nominava gli amministratori, lasciandone però in entrambi uno ai seggi nobili, rispettiva-mente, di Capuana e di Portanova, ma più che altro con un ruolo di rappre-sentanza, essendo la direzione dei due enti tutta nelle mani di governatori che venivano dal mondo della mercatura e delle professioni, e ai quali si riconos-cevano la competenza e l’esperienza per tenere in ordine i conti. Inoltre nomi-nava, unitamente al seggio di Porto, i componenti della deputazione della

38. Rosalba di Meglio, « Nobiltà di seggio e istituzioni ecclesiastiche nella Napoli dei secoli XIV-XV », in Ordnungen des sozialen Raumes, op. cit., p. 32-52.

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Peste, che, com’era ovvio, non era permanente e si occupava della prevenzione del contagio, decretando la quarantena per i vascelli provenienti dalle zone sospette e rilasciando certificati sanitari a coloro che partivano dalla città.

Come si vede, non sembra che ci fosse una deputazione preposta espres-samente ed in maniera esclusiva a quella che oggi chiamiamo assistenza sociale, ma si tratta di una impressione infondata, provocata dal particolare ordinamento politico-amministrativo della città, che prevedeva lo svolgi-mento di determinate funzioni da parte non direttamente del governo muni-cipale, ma dei seggi, sia di quelli nobili sia di quello del Popolo, e questo già prima che esso venisse ammesso nella giunta comunale. Si trattava in parti-colare del mantenimento di ospedali, dell’erogazione di sussidi ai poveri (tra cui anche i cosiddetti poveri vergognosi), della costituzione della dote per fanciulle povere e dell’organizzazione, oltre che di cerimonie e festeggiamenti occasionali, di varie feste, tra le quali particolarmente importanti, perché cariche di valori religiosi e di implicazioni politico-sociali, quelle del Corpus Domini e del Santo Patrono : feste che si svolgevano dovunque in Italia e nel resto dell’Europa, dove più o dove meno, a carico del bilancio comunale39. Potrebbe sembrare che questo non sia avvenuto anche a Napoli, ma in realtà non è così : è solo che le spese venivano sostenute dai seggi, i quali nell’orga-nizzazione di quegli eventi celebravano, insieme al Santo Patrono e all’Eu-carestia, anche se stessi. Infatti nel percorso, tra l’andata e il ritorno, dalla cattedrale alla chiesa di Santa Chiara, alla cui fondazione Roberto d’Angiò e la moglie Sancia avevano conferito una complessa simbologia religiosa e politica, la processione, come è documentato per il 1507, sostava davanti alle chiese private (staurite) dei cinque seggi nobili e nella piazza della Sellaria, dove il Popolo erigeva a sue spese un grande catafalco, il cosiddetto catafalco del Pennino, dal quale veniva impartita la benedizione generale40.

In sostanza, anche se affrontiamo il tema dei servizi sociali dal versante delle motivazioni religiose, da cui essi nel Medioevo, ma ancora per larga parte dell’Età moderna, traevano impulso, arriviamo ugualmente alla conclu-sione che, se andiamo al di là dell’aspetto formale degli ordinamenti politico-istituzionali e cerchiamo di cogliere il concreto funzionamento della società e la dimensione pragmatica della politica, non è difficile cogliere anche a Napoli, come in tutte le città dell’Italia e dell’Europa, al di là delle parti-colarità locali, gli stessi bisogni e tassi più o meno grandi di originalità nei tentativi di soddisfarli.

Giovanni VITOLO

39. Noël Coulet, Processions et jeux de la Fête-Dieu en Occident (xive-xve siècle), in Nicole Bériou, Beatrice Caseau, Dominique Rigaux (a cura di), Pratiques de l’eucharistie dans les Églises d’Orient et d’Occident (Antiquité et Moyen Âge). Actes du seminaire tenu à Paris, Institut catholique (1997-2004), t. I., L’institution, Paris 2009 (Collection des Études Augusti-niennes. Série Moyen Âge et Temps Modernes, 45), p. 497-518 : 499-500.

40. Francesco Ceva Grimaldi, Della città di Napoli dal tempo della sua fondazione sino al presente, Napoli, 1857, p. 212-214.

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RIASSUNTOLe città del Mezzogiorno medievale, come le altre dell’Europa del tempo, dovet-

tero farsi carico di organizzare tutta una serie di servizi, sempre più complessi man mano che cresceva la popolazione. Essi richiedevano la disponibilità di risorse finan-ziarie, che provenivano per lo più da imposte locali, ma anche da lasciti testamentari di privati cittadini e da contributi straordinari dei sovrani, soprattutto per la realizzazione e la manutenzione di opere di grande importanza militare ed economica, quali mura, castelli e porti. Alcune città, ma anche piccoli centri, intervennero anche nel campo dell’istruzione e del sostegno agli studenti universitari. Un caso particolare è quello di Napoli sia perché i sovrani, interessati al decoro della capitale, fecero ripetuti interventi nel campo dell’urbanistica e dell’igiene pubblica sia perché la gestione dei servizi era ripartita tra gli organismi associativi della nobiltà e del popolo (seggi), i cui rappresen-tanti (eletti) formavano il governo municipale.

RÉSUMÉ Au Moyen Âge les villes du Mezzogiorno, comme les autres cités de cette

époque, devaient prendre en charge et organiser tout un ensemble de services publics qui devenait toujours plus complexe à mesure que la population augmentait. Il leur fallait disposer de ressources financières qui provenaient en majeure partie des impôts locaux, mais aussi des legs que des particuliers de la ville faisaient dans leurs testa-ments et des contributions extraordinaires accordées par les souverains, surtout desti-nées à réaliser et entretenir les ouvrages de grande importance militaire, tels que les murs, les châteaux et les ports. Certaines villes, mais aussi des petites agglomérations, intervenaient également dans le domaine de l’instruction publique et apportaient un soutien aux étudiants des universités. Naples représente un cas particulier parce que, d’une part, les souverains, attentifs à l’honneur de leur capitale, intervenaient à plusieurs reprises dans les domaines de l’urbanisme et de l’hygiène publique et que, d’autre part, la gestion des services publics était répartie entre les associations dans lesquelles se regroupaient la noblesse et le peuple (les seggi) dont les délégués (eletti) formaient le gouvernement municipal.

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