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Noi siamo fatti di memoria… guai a quell’uomo, a quella donna che non hanno memoria di quello che è accaduto, di quello che hanno vissuto, senza avere un riscontro degli eventi, delle passioni, delle tragedie, dei sentimenti. Quello che hai trascorso è sulla tua faccia, tu sei fatto delle espressioni di gioia, di dolore, di quello che hai vissuto, mangiato, vomitato… Le nostre facce sono fatte di memoria” (Dario Fo) Com unic azione e gruppo: come rendere manifesto il messaggio non verbale in una dimensione gruppale Il postulato fondamentale all’origine di questo lavoro è quello secondo il quale se il linguaggio del corpo si esprime nel movimento e quello della mente nel pensiero, è altrettanto vero che il corpo possa parlare alla mente e che la mente possa agire per mutare il corpo e il suo linguaggio La conseguenza logica di questa premessa è il considerare la persona come un insieme inscindibile di corpo e mente intrecciati strettamente nella fisicità, nella “corporeità” delle sensazioni, negli affetti, nelle emozioni, nei processi cognitivi. Esploreremo qui come il "corpo" sia parte inscindibile dello strutturarsi del copione di vita e come lavoriamo con la componente somatica (Cornell 1975) di quest’ultimo cercando di integrare nel quadro teorico dell'Analisi Transazionale altre prospettive teoriche, nonché ricerche specifiche riferite al corpo. Nonostante il dualismo cartesiano che separa la mente dal corpo ancora condizioni le scienze sull’uomo è innegabile che già in Darwin (1872) si rintracciano le radici di un’indagine sul significato universale delle espressioni mimiche secondo il quale esiste un linguaggio del corpo innato e comune a tutte le culture che può essere letto direttamente per esperienza intuitiva. Chi ha occhi per vedere e orecchi per intendere si convince che ai mortali non è possibile celare alcun segreto. Chi tace con le labbra chiacchiera con la punta delle dita, si tradisce attraverso tutti i pori”. Questa affermazione di Freud (1905, 1973) chiarisce come già agli albori della psicoanalisi non fosse negata la dimensione

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Noi siamo fatti di memoria… guai a quell’uomo, a quella donna

che non hanno memoria di quello che è accaduto, di quello che

hanno vissuto, senza avere un riscontro degli eventi, delle

passioni, delle tragedie, dei sentimenti. Quello che hai trascorso

è sulla tua faccia, tu sei fatto delle espressioni di gioia, di dolore,

di quello che hai vissuto, mangiato, vomitato… Le nostre facce

sono fatte di memoria”

(Dario Fo)

Com – unic – azione e gruppo: come

rendere manifesto il messaggio non

verbale in una dimensione gruppale

Il postulato fondamentale all’origine di questo lavoro è quello secondo il quale se

il linguaggio del corpo si esprime nel movimento e quello della mente nel

pensiero, è altrettanto vero che il corpo possa parlare alla mente e che la mente

possa agire per mutare il corpo e il suo linguaggio

La conseguenza logica di questa premessa è il considerare la persona come un

insieme inscindibile di corpo e mente intrecciati strettamente nella fisicità, nella

“corporeità” delle sensazioni, negli affetti, nelle emozioni, nei processi cognitivi.

Esploreremo qui come il "corpo" sia parte inscindibile dello strutturarsi del copione

di vita e come lavoriamo con la componente somatica (Cornell 1975) di quest’ultimo

cercando di integrare nel quadro teorico dell'Analisi Transazionale altre prospettive

teoriche, nonché ricerche specifiche riferite al corpo.

Nonostante il dualismo cartesiano che separa la mente dal corpo ancora condizioni

le scienze sull’uomo è innegabile che già in Darwin (1872) si rintracciano le radici di

un’indagine sul significato universale delle espressioni mimiche secondo il quale

esiste un linguaggio del corpo innato e comune a tutte le culture che può essere letto

direttamente per esperienza intuitiva.

“ Chi ha occhi per vedere e orecchi per intendere si convince che ai mortali non è

possibile celare alcun segreto. Chi tace con le labbra chiacchiera con la punta delle

dita, si tradisce attraverso tutti i pori”. Questa affermazione di Freud (1905, 1973)

chiarisce come già agli albori della psicoanalisi non fosse negata la dimensione

corporea dell’Io e, in seguito, lo stesso avanzò la tesi che il primo rudimento del

senso di Sè fosse un’esperienza corporea derivata da una sensazione fisica: l’Io è

“innanzitutto un’entità corporea” (Freud 1923, 1985).

L’importanza della dimensione corporea non sfuggiva neppure a Jung che, definendo

con “Ombra” la parte repressa dell'Ego, ciò che non siamo capaci di riconoscere di

noi stessi, nel 1935, durante una conferenza in Inghilterra indicò come il corpo

potesse sostenere l'Ombra: "A noi non piace guardare la nostra Ombra, tuttavia ci

sono molte persone nella nostra società civilizzata che hanno completamente

smarrito la propria Ombra, la loro terza dimensione, e con essa, solitamente, anche

il senso del corpo. Il corpo è il più dubbio degli amici, perché produce cose che non

ci piacciono: ci sono troppe cose sulla personificazione di quest'Ombra dell'Ego.

Talvolta forma lo 'scheletro nell'armadio' e naturalmente tutti vorrebbero

liberarsene" (Jung 1968).

Da Freud, Jung, citando Winnicot (1960, 1989) il quale ha parlato di “ Psiche insita

nel soma”, senza trascurare Wilhelm Reich (1970) che ha sviluppato l’idea di Freud

di un Io corporeo, sino ad oggi, confortati anche dalle neuroscienze, possiamo

sostenere che l’Io corporeo costituisce il fondamento di tutto lo sviluppo ed è

importante che esso sia coinvolto in ogni vera trasformazione.

In linea con Kohut (1971, 1977), definiamo il Sé come un apparato psichico primitivo

la cui coesione e integrazione è essenziale per lo sviluppo successivo dell’Io. Il Sé

rappresenta non solo una componente fondamentale della struttura psichica, ma

addirittura il centro della personalità all’origine del sentimento per il quale

l’individuo si sente un polo autonomo di percezione e iniziativa.

In riferimento alle neuroscienze ci appaiono fondamentali le scoperte di Allan Schore

(1994) il quale parla di un processo di trasmissione inconscia di stati psicobiologici

attraverso l’emisfero cerebrale destro che, per inciso, risulta essere l’emisfero

dominante nel presiedere al corpo e alle emozioni nei primi tre anni di vita. Secondo

l’autore gli stimoli emotivi vengono elaborati in funzione delle reazioni somatiche

provocate dando così origine ad una sorta di primigenia comunicazione tra corpi o,

secondo quanto detto sin’ora, tra Sé corporei.

Non ci sembra azzardato poter pensare ad una consapevolezza primitiva del lattante

come un insieme di stati “corpo-mente”(Bowlby 1978, 1989) e non stati mentali.

Ancora le recenti scoperta delle neuroscienze ci sostengono, dice infatti Antonio

Damasio (1994) “ il corpo, così come è rappresentato nel cervello, può costituire

l’indispensabile cornice di riferimento per i processi neuronali che noi avvertiamo

come mente….” e ancora “il corpo è usato come riferimento base per le costruzioni

che elaboriamo del mondo circostante e di quel senso di soggettività, sempre

presente, che è parte integrante delle nostre esperienze”.

Il nucleo primitivo del Sé è dato da un’esperienza con conseguente vissuto fisico

che vede la sua origine nella relazione con un altro da sé

La prospettiva interazionista di Cooley (1963) sottolinea ed estende una definizione

del Sé relazionalmente inteso, attraverso una costruzione di un Sé sociale che implica

l’interiorizzazione di altri significativi. Secondo l’autore il soggetto fa propri gli

atteggiamenti che gli altri esprimono nei suoi confronti, e queste valutazioni riflesse

definiscono quello che metaforicamente viene indicato come il looking-glass-self.

Ciò segna un grande passo avanti nello sviluppo del self e della capacità di

interpretare gesti ovvero la capacità “di assumere la prospettiva dell’altro”. Senza

tale capacità sarebbe impossibile la cooperazione (Castelli 2001) che caratterizza

ogni società, perché implica che l’individuo consideri anche se stesso dal punto di

vista dell’altro: in questo modo, l’Io può meglio valutare le conseguenze del suo agire

nei confronti dell’Altro.

Il Sé è, quindi, anche un’entità relazionale complessa che include relazioni tra

aspetti propri dell’individuo nella sua realtà psichica e fisica e tra l’individuo

nella sua complessità e il mondo

In ambito sistemico si deve alla scuola relazionale di Palo Alto (Watzlawick 1971,

Whitaker 1984, 1991) lo studio sulla comunicazione. Il disagio psicologico, infatti,

viene inteso come una difficoltà di comunicazione verso se stessi e verso gli altri

(Bateson 1976). La comunicazione definisce la relazione tra gli individui attraverso i

messaggi verbali con le modalità linguistiche e vocali, i messaggi non verbali e gli

atteggiamenti del corpo (Onnis 1985, 1994, 2004).

La corrente sistemico – relazionale pone quindi l’accento su comunicazione e corpo

e come il corpo dia chiari segnali dello stato psichico del paziente.

Molto interessanti ci appaiono le indicazioni dell’americana Cohen (1993) che ha

integrato lo studio dell’anatomia e della fisiologia con un’analisi esperienziale dei

sistemi somatici (scheletrico, endocrino, etc.).

La ricercatrice indica col termine embodiment (incorporamento) la relazione

integrata tra sé e il mondo, tra le sensazioni provenienti dall’interno e le percezioni

dall’esterno. La Cohen definisce cinque azioni fondamentali nello sviluppo del

movimento inteso come modalità fondamentale di relazione integrata:

Cedere alla gravità per attivare un contatto primario col mondo oggettuale

altro da me;

Spingere per separarsi da questo contatto primario e ciò implica sentire il

proprio corpo nella sua massa-peso e nella sua posizione spaziale;

La spinta ci fornisce appoggio al tendere la mano agendo per soddisfare il

bisogno di contatto col mondo;

Afferrare e tirare intesi come propaggini logiche del tendere per

l’incorporamento dell’oggetto mondo fuori di me.

In modo conscio o inconscio, la nostra identità è strettamente legata

all’esperienza vissuta di essere un corpo. “ Io sono Corpo ” piuttosto di “ Io ho

un corpo “

Anche nell’ambito più strettamente legato all’Analisi Transazionale la dimensione

corporea dell’Io non è mai stata abbandonata.

Berne (1961, 1992) teorizzando le quattro diagnosi degli stati dell’Io, ha posto

attenzione alla diagnosi comportamentale che ci da indicazione di come il cliente usi

il non verbale. Nel nostro lavoro la diagnosi comportamentale è il grand’angolo di

osservazione. Attraverso la comunicazione non verbale ( Moiso 1985, Moiso e

Novellino 1982, Barnes 1981) rintracciamo cosa il corpo del cliente ci vuole dire e

cosa, nel qui ed ora, sta rappresentando del lì ed allora (Kernberg 1980, 1985, 1996).

Spesso accade che parlando durante un colloquio il cliente riveli qualcosa che in

realtà vuole tacere a chi gli sta davanti con un evidente contrasto tra la

comunicazione verbale, ciò che si sta dicendo a voce, e la comunicazione non

verbale, quello che il nostro corpo concretamente esprime. Imparare a rendere

coerente la comunicazione verbale (Berne 1961, 1964, 1966, 1970) e quella non

verbale permette di essere più chiari migliorando così i rapporti interpersonali. Infatti,

le posizioni del corpo, i segni e i gesti che l'individuo esprime, durante un pensiero,

durante un dialogo o altre forme di interazione, non sono casuali ma correlati ai suoi

stati emotivi. Il toccarsi in determinate zone del viso, l'accarezzarsi le labbra, il

toccare gli oggetti in un certo modo sono gesti che permettono all'esperto della

comunicazione non verbale di decodificare il linguaggio del corpo attraverso il quale

parla la sfera inconscia (Berne 1992).

I canali non verbali sono classificabili in 5 sistemi (Argyle 1975):

Vocale (l'intonazione della voce);

Cinesico (i movimenti);

Aptico (il contatto fisico);

Prossemico (la distanza);

Cronemico (il tempo della comunicazione).

Berne ricordava al terapeuta di utilizzare nel trattamento tutti e 5 i sensi per udire,

vedere, annusare, gustare e toccare, magari anche solo attraverso la stretta di mano,

ogni piccola variazione del cliente di fronte a sé (Ligabue 1985).

L’abbigliamento, ad esempio, veste bene ma le scarpe no, lo sbattere gli occhi,

masticare la lingua, irrigidire le mascelle, aspirare con il naso, torcersi le mani,

picchiare il piede sono definiti da Berne (Berne 1972, James 1971, Stewart 1990),

segnali di copione. Il segnale di copione è un caratteristico atteggiamento, gestualità,

manierismo, tic o sintomo che rivela come la persona vive il suo copione. La

presenza di sintomi, quindi l’attivazione della componente neurovegetativa, è di

solito un segno del copione in azione. Viene chiamata componente fisiologica del

copione ed è legata alle direttive parentali. Berne risaliva alle direttive parentali

attraverso il parlare del corpo.

Il corpo "trattiene”, infatti, sia l'ingiunzione e il divieto, sia i messaggi della

"programmazione" parentale, sia le decisioni di adattamento (Berne 1961, Cornell

1992, Mellor 1980).

Il "corpo" dunque è custode, sia dei sentimenti più profondamente celati o negati, sia

di quelli consentiti a sé ed espressi nella relazione con gli altri. Se accettiamo l'idea

che il corpo allestisca la scena per le decisioni di copione (Steere 1985) e utilizzi ogni

genere di difese per mantenere le sue convinzioni di copione, allora dobbiamo trovare

delle modalità d'intervento, delle tecniche per comprendere come questo accada, e

come riorganizzare la scena in modo che nuove idee e decisioni possano farsi strada.

Berne ha indicato alcuni segnali di copione (1972) che il terapeuta può osservare nel

cliente come segnali vocali di base:

1. Suoni di respirazione

2. Accenti

3. Voci del G, A, B

4. Vocabolario delle terminologie del G, A, B

5. La scelta delle parole

Parti del discorso, aggettivi e nomi astratti, avverbi.

Parole OK, approvate dalla parte parentale (ricorda che una

signora si offende se un uomo le fa una proposta scandalosa).

Parole di copione forniscono importanti informazioni sui ruoli e

sulle scene di copione.

Metafore, estensione delle scene di copione e un cambiamento

delle metafore significa un cambiamento di scena.

Frasi di sicurezza, ovvero rituali o gesti, indirizzati al G, al fine di

proteggersi (forse, penso forse di si).

Il condizionale (se, se solo, vorrei, potrei, dovrei).

Struttura della frase ( si fa attenzione a bilanciare ogni parola con

congiunzioni oppure l’uso di eccetera o così via).

6. La transazione della forca.

7. Tipi di risata, risate da copione, risate sane.

8. Tipi di protesta, rabbia e pianto.

9. La storia della tua vita, ovvero come si manifesta il copione di una

persona.

10. Gli scambi di copione, ovvero i ruoli che gioca (1964) una persona nel

suo copione.

Attraverso il corpo mettiamo in scena il nostro copione

Col modello integrativo, Erskine (1980, 1988, 1996, 1997) ha posto l’attenzione al

corpo come indicatore dei segnali di copione, coniugando le basi teoretiche berniane

con il concetto di Contatto. Quando il bambino si trova a vivere situazioni

traumatiche risponde ad ingiunzioni o, in qualche modo, a bisogni che non vengono

soddisfatti. Il suo corpo reagisce in modo autoprotettivo ed il processo di formazione

del copione comporta una reazione somatica del corpo. Essa costituisce una difesa

muscolare o chimica contro quello che il bambino sperimenta come minaccioso: è

una chiusura fisiologica a scopo autoconsolatorio del bisogno insoddisfatto, una

sospensione, o inibizione dentro il corpo che sopprime i bisogni insoddisfatti e le

emozioni non espresse, quello che Reich (1970) definì alla base dello sviluppo della

"corazza caratteriale". Quanto piu' il bambino è piccolo o il trauma è grave tanto

maggiore sarà la reazione fisiologica. Ciò porta alla formazione del “copione

corporeo”, causa di molte malattie fisiche. La principale premessa della psicoterapia

integrativa è che il bisogno di relazione costituisce la principale esperienza che

motiva il comportamento umano e il contatto è il mezzo attraverso il quale tale

bisogno è soddisfatto. Il focus è sempre su dove la persona è aperta o chiusa al

contatto. Il Sistema di Copione si rivolge alle credenze intrapsichiche e alle emozioni,

ai comportamenti, alle fantasie, alle memorie, alle esperienze fisiologiche e su come

queste credenze centrali sono manifestate nel comportamento, nelle fantasie e nelle

tensioni fisiologiche.

La riorganizzazione della personalità avviene nella integrazione dei processi

intrapsichici affettivi, cognitivi e fisiologici con il comportamento manifestato

attraverso una relazione terapeutica piena di contatto ( Fig. 1).

Nella relazione terapeutica i frammenti non integrati del Genitore e del Bambino

sono avvicinati attraverso una comprensione di come i bisogni arcaici, i bisogni non

incontrati nelle primarie relazioni, sono riattualizzati nel transfert. (Erskine 1997). La

guarigione del copione a livello fisiologico consiste nel lasciar andare le tensioni,

l'armatura corporea e le restrizioni interne che impediscono alla persona di vivere a

pieno e a proprio agio nel proprio corpo: aspetto rilassato, aumento di energia,

movimenti più liberi e un livello di peso corporeo adeguato (1999).

Fig. 1: Sistema Relazionale ( Erskine 1996)

cognitivo

comportamentale

fisiologico

affettivo

Sistema

relazionale

Perché il Gruppo

Ad un certo punto del nostro lavoro come psicoterapeute ci è sembrato importante

cercare da una parte, una sempre maggiore connessione tra articolazione verbale e

non verbale, dall’altra ampliare lo spettro delle aree di intervento integrando diversi

livelli di operatività (corporeo, verbale e cognitivo, dell’immagine, della sensazione,

dell’emozione) di grande efficacia curativa, sia in situazioni di intervento breve

(workshop esperienziali) sia in quelle classicamente a breve o lungo termine

(counseling e psicoterapia), sia nell’ambito del setting individuale sia, a nostro

avviso, più pregnante in quello di gruppo.

Una delle caratteristiche più importanti della psicoterapia di gruppo è la sua maggiore

concretezza e capacità di impatto sulla realtà se paragonata alla seduta individuale.

Nella terapia individuale capita anche troppo spesso che l'analizzando, dopo aver

lavorato su un sogno o un problema, e dopo averlo « capito », abbia difficoltà nel

trasferire concretamente il risultato della sua introspezione nelle situazioni che sta

vivendo. Le situazioni che sono tipiche della vita non necessariamente si presentano

anche nello studio dell'analista. Troppo spesso il cliente evita di confrontarsi con la

realtà nuda e cruda, persino con l'unica persona di cui si suppone abbia fiducia.

Nel gruppo, invece, i contenuti non vengono semplicemente discussi come fatti di

ieri, possono manifestarsi proprio durante l'analisi e sono portati alla luce nel corso di

una reciproca interazione. In un gruppo è molto più difficile sfuggire con

razionalizzazioni ed evasioni.

I nostri simili possono e osano provocare, e riescono anche ad afferrare una varietà di

reazioni emotive molto maggiore di quella suscitata dalla singola persona dell'analista

(Stern 1998).

Ai fini del processo di conoscenza/comprensione dell’altro, “vedere” e “sentire” sono

importanti quanto “ascoltare”. Solo il confronto tra ciò che vediamo con i nostri

occhi, ciò che ascoltiamo con le nostre orecchie e ciò che sentiamo nella nostra

pancia e nel nostro cuore, ci permette una lettura più complessa della realtà.

Il nostro lavoro nel Gruppo

Con questo lavoro vogliamo porre l’accento su alcune linee guida dei nostri interventi

nell’ambito della dimensione corporea in un setting di gruppo. Il lavoro viene svolto

in base a coordinate:

Spaziali l’individuo è in uno spazio e questo spazio è dinamico, in

movimento

temporali l’individuo è in un qui ed ora nel quale ha la possibilità di un

cambiamento rispetto ad un lì e allora.

relazionali l’individuo è rispetto a parti di sé e ad un altro/i da sé.

L’obiettivo della psicoterapia di gruppo è di stimolare la presa di coscienza dei

singoli componenti del gruppo delle parti scisse e dei conflitti tra Sé, Sé – Altro da

Sé, Sé complesso nel Gruppo. Lavorando con la dimensione corporea ci è sembrato

fondamentale includerla e sostenerla in un ambito relazionale, perché un peso

eccessivo attribuito alla propriocezione può divenire un modo per eludere le

problematiche inerenti alla relazione e la separazione.

Scrive Cohen (1993): “ Se spinta troppo oltre c’è immersione totale in sé; c’è una

certa consapevolezza che questo sono io, ma non la consapevolezza che tu sei tu. Se

riguarda solo ciò che sono io e non ciò che non sono, allora non c’è nessun

controbilanciamento, nessuna definizione”. La relazione è il punto cardine del nostro intervento terapeutico. Il bisogno di

relazione costituisce la principale esperienza che motiva il comportamento umano e il

contatto è il mezzo attraverso il quale tale bisogno è soddisfatto (Erskine 1996).

L’integrazione è nella relazione

Vogliamo rappresentare graficamente la relazione come un sistema circolare, un

processo che partendo dal Sé individuale, accede al Sé relazionale e si integra e

rinforza attraverso un Sé sociale, un processo che si alimenta e si concretizza

attraverso il movimento del corpo, di un corpo in uno spazio proprio e condiviso, di

un corpo che nel presente si muove verso la presa di coscienza di automatismi che

hanno origine nel passato.

Partendo dall’individuo nel qui ed ora, attraverso la sua narrazione, arriviamo a

definire la sua origine in una relazione con un Altro da Sé (Kernberg 1980, 1985,

1996), per giungere alla visione allargata altro da Sé – Gruppo. (Fig. 2)

Fig. 2: Sé relazionale

L’unità sta nella relazione e sulla compartecipazione di pensare sentire e fare. Nella

relazione duale l’individuo si relaziona con un altro diverso da sé, nella relazione di

gruppo con più individui, nella relazione terapeutica con la coppia terapeutica.

Anche la scelta di una coterapia è di supporto alla dimensione relazionale. I terapeuti

si relazionano col paziente integrando stili e osservazioni diverse, in sintonia o

alternandosi in un processo che vede tutti impegnati insieme a tener conto dell’altro

da sé, sia esso il paziente o l’altro terapeuta.

Possiamo quindi parlare di Sé individuale, Sé relazionale, Sé sociale. L’implicazione

voluta è che la psiche è intrinsecamente relazionale, vale a dire è un “Sé in

connessione – con – altri” anziché una specie di unità chiusa (Kernberg 1980, 1985,

1996, Greenberg 1986).

L’individuo è corpo in relazione un corpo che ha un’interiorità, una soggettività,

un senso di essere capace d’azione, di movimento

In linea con le definizioni di Katya Bloom (2006) intendiamo con:

- Incorporamento la tendenza ad integrare e armonizzare i diversi aspetti del sé

(sensoriali, emotivi e mentali) entro i confini inclusivi della struttura corporea,

reattiva a stimoli interni ed esterni;

- Movimento le reazioni corporee agli stimoli suddetti comprendendo nel

concetto di movimento posture, gesti, posizioni, movimento nello spazio e le

Sé (pensare

sentire

fare)

Altro da

Altro da

Sé -

Gruppo

T1 T2

sensazioni avvertite nello stato di immobilità quali i vissuti di restrizione fisica

o psichica.

Il lavorare sul corpo e col corpo è per noi essenzialmente lavorare sul movimento e

col movimento del corpo proprio inteso come espressione spesso inconscia di parti

del sé in ombra che, non solo si esprimono, ma possono anche essere riincorporate

secondo un linguaggio preverbale, il linguaggio del movimento. E’ noto a tutti come

spesso l’azione venga usata come mezzo di fuga per sostituire il pensiero o rimuovere

emozioni attraverso l’acting out. Crediamo che il corpo, attraverso i movimenti,

possa offrire un potente mezzo per entrare in contatto con strati profondi del Sé al

fine di promuovere sintonia psichica, al fine, cioè, di creare “ponti” tra modalità

diverse dell’esperienza, cognitiva, sensoriale, affettiva. Bilanciare o armonizzare

queste varie modalità permetterà all’individuo di non privilegiarne una a scapito di

un'altra o, addirittura, di non usare un aspetto dell’esperienza di sé come difesa contro

un altro.

Nel nostro intervento ci proponiamo di illustrare una serie di tecniche riguardanti la

dimensione corporea diventata, per noi, un originale e incisivo spazio di lavoro

psicoterapeutico, capace di fornirci una conoscenza profonda del mondo interiore del

paziente e capace di fornire al paziente uno strumento originale per il cambiamento.

Le vie per parlare al corpo, attraverso il corpo e col corpo sono varie. Ci sembra,

tuttavia, importante citare quelle che più comunemente usiamo adattando le tecniche

al contesto relazionale che, in quel momento, ci sembra importante privilegiare nel

lavoro col paziente. Sottolineiamo che, con contesto relazionale, intendiamo sia la

dimensione intrapsichica di relazione tra parti di sé, sia quella più comunemente detta

relazionale con altro/i da sé.

Tecniche

Sintonizzazione

Con il termine sintonizzazione si indica “essere in armonia”, ovvero rendere

concordanti e in equilibrio le varie parti del Sé, mente – corpo. E’ un processo

composto di due parti, l’empatia e la comunicazione dell’empatia e, perché sia

efficace, richiede che il terapeuta rimanga simultaneamente cosciente del confine tra

cliente e terapeuta, così come dei suoi processi interiori (Erskine 1996).

La comunicazione della sintonizzazione convalida i processi del cliente, i suoi

sentimenti e pone il fondamento per riparare agli errori che sono accaduti nelle

precedenti relazioni.

a) sintonizzazione ritmica: consiste nel procedere con i passi lenti e regolari

dell’indagine e del coinvolgimento, prendendo il tempo e la cadenza che meglio

facilitano il processo elaborativo del cliente, sia delle informazioni esterne, sia delle

sensazioni interne, dei pensieri e dei sentimenti. Spesso il processo d’elaborazione

mentale di un’emozione procede ad un grado diverso di velocità dal processo

evolutivo. In questa fase si possono proporre "esercizi a freddo" cioè esercizi-stimolo

a partire dalla corporeità, riferite ad esempio alle modalità di contatto della persona,

alla postura, alla respirazione. Tramite essi oltre a nuove informazioni sul proprio

Body – script, la persona può ricevere input circa un funzionamento psico-fisico

maggiormente integrato e sano. Lavorare direttamente con le strutture del corpo può

includere il toccare, il massaggio muscolare, modificazioni dei comportamenti di

respirazione e l’incoraggiare o inibire i movimenti (Erskine 1980/1997).

Gli aspetti, prima in ombra, che vengono evidenziati possono essere stimolo e

supporto al cambiamento che ciascuno prefigura di fare. Attraverso la sintonizzazione

si giunge ad un punto che Downing (1995) chiama stadio del tremito, ovvero, quando

il corpo inizia a fremere e i muscoli a fibrillare. Da qui inizia la fase principale, lo

stadio dell’emozione, cioè quando un’emozione si insinua nella coscienza del cliente,

come se vi arrivasse dal nulla.

b) sintonizzazione affettiva: l’emozione è relazionale – transazionale nella sua

natura e richiede una risonanza emotiva nell’altro e questo produce il contatto

affettivo, che è essenziale nelle relazioni umane. Quindi la sintonizzazione affettiva è

la risonanza con l’emozione dell’altro che produce contatto interpersonale verbale e

non verbale che riconosce, convalida e normalizza l’affetto del cliente.

c) sintonizzazione evolutiva: rispondere al cliente al livello d’età nel quale c’era una

perdita di contatto nella relazione. Il terapeuta ascolta e osserva per capire quanto e

quando è accaduto per cui il cliente ha preso determinate decisioni di copione.

d) sintonizzazione ai bisogni relazionali: cioè quegli elementi che accrescono la

qualità della vita e un senso di essere in rapporto. L’assenza continuata della

soddisfazione dei bisogni relazionali può essere manifestata come frustrazione,

aggressività, perdita di energia e si mostra in opinioni di copione quali: “non c’è

nessuno per me” oppure “a che serve” difese di tipo cognitivo contro la

consapevolezza dei bisogni e/o in comportamenti e segnali corporei più o meno

evidenti.

Sculture

Si ripropone di ricreare simbolicamente nello spazio stati d’animo e rapporti emotivi,

attraverso una rappresentazione tridimensionale delle relazioni tra i membri della

famiglia del cliente, dove relazione, sentimenti, cambiamenti possono essere

rappresentati e sperimentati simultaneamente ( Erickson 1978, Andolfi, 1977). Se è il

corpo familiare che si esprime attraverso i linguaggi analogici, analogico deve essere

anche il linguaggio con cui il sistema terapeutico si rapporta al gruppo di

psicoterapia. Durante l’esecuzione di una scultura viene fatto pochissimo uso delle

parole, se non per quanto concerne indicare la posizione che ciascuno deve assumere.

La scultura è significativa proprio in quanto rappresentazione spaziale di una

situazione emotiva agita e non verbalizzata (Lowen 1967, Lammer 1992) e come tale

supera i limiti espressivi delle parole e permette la liberazione di stati emotivi e di

modalità comunicative spesso sopite o inespresse. Il primo passo, in direzione del

cambiamento, è vedere la relazione, il passo successivo è muoversi da un posto

all’altro. Così nella fase finale noi chiediamo allo “scultore” ( ovvero il cliente che

crea la scultura) e agli altri partecipanti come si sono sentiti in quella determinata

posizione e li invitiamo a spostarsi in una posizione più congeniale, ad assumere un

atteggiamento diverso se quello attuale è insostenibile.

L’uso di metafore e di oggetti metaforici e la loro drammatizzazione

Il linguaggio metaforico può essere definito come un modo di comunicare riguardo a

una cosa che somiglia a qualcos’altro (Bowen 1979, 1990). Ciò è particolarmente

evidente con i pazienti psicotici, laddove la metafora sembra essere un canale di

comunicazione privilegiato. Un uso attivo della metafora è quando noi vogliamo

raccogliere delle informazioni altrimenti impossibili da esplicitare da parte del cliente

(Andolfi 1977). L’uso della metafora può limitarsi alla dimensione verbale oppure

includere quella corporea, per cui, scegliendo un argomento che somigli alla

situazione – problema ed evitando di renderne esplicita la connessione, si può

drammatizzare una metafora.

L’uso di tecniche non verbali

Se il corpo è la via che la psiche sceglie per dire l’indicibile, il corpo può ben essere

la via maestra per fare una diagnosi che colga l’essenza della sofferenza e l’immagine

che ognuno ha di sé in rapporto agli altri. Ciò facendo ognuno è messo nelle

condizioni di “vedersi” e “vedere” il che può essere il primo passo per un

cambiamento. Ad esempio si può chiedere ai componenti del gruppo di comunicare

ad uno di essi un messaggio di “stima” senza parole e solo con il non verbale. Già

solo con questo esercizio si può cogliere la capacità di ognuno di trasmettere il

messaggio e come questo arriva al ricevente ( Boscolo et al. 1975).

La drammatizzazione del materiale inconscio

La drammatizzazione come viene qui descritta non va confusa con l'« acting out ».

Quest'ultimo, guardato con disapprovazione, è l'espressione inconscia, di solito

coatta, di un comportamento aggressivo o distruttivo. La drammatizzazione viene

d'altra parte definita in questa presentazione come uno sforzo conscio e deliberato per

trovare un'espressione non distruttiva, spesso simbolica, ai fatti dell'inconscio allo

scopo di realizzarli. Questo viene effettuato tramite verbalizzazione e/o espressione

corporale con o senza verbalizzazione (Whitmont 1993). Abbiamo trovato

vantaggioso provare prima con l'espressione non verbale, e usare poi la

verbalizzazione unicamente per colmare i vuoti lasciati da questa. Una

verbalizzazione prematura comporta il rischio di una razionalizzazione e

intellettualizzazione.

La tecnica della drammatizzazione può essere di grande aiuto anche per il

chiarimento di sogni le cui associazioni coprono un campo cosi vasto o indefinito che

le implicazioni ne rimangono oscure, oppure nei casi in cui la scarsità di associazioni

personali rende possibile soltanto una generica comprensione archetipica che non può

essere messa in relazione, in modo adeguato, con alcuna situazione personale

concreta.

Tensioni vaghe e indefinite, angosce o emozioni « fluttuanti » possono essere portate

ad una maggiore consapevolezza dapprima, puntando l'attenzione sul luogo e sul

modo in cui vengono sentite come tensioni del corpo e, in un secondo tempo,

provocando movimenti o azioni che scaricano o alleviano la tensione (Andolfi 1977,

Watzlawick 1971, Withaker 1991). Il sollievo o consapevolezza possono venire da

una smorfia, da un’esclamazione, da un gesto simbolico, come stringere il pugno

oppure scagliare un cuscino per terra. L'atto liberatorio può essere ripetuto più volte

finché non ci si immerge nell'attività e spontaneamente si presenta un'immagine,

ricordo o associazione, verbale o non verbale, che getta luce sulla situazione.

Tutti vengono vissuti nella loro qualità emotiva di «ora e qui », non come ricordi

astratti di fatti accaduti nel passato.

Le tecniche corporali possono essere considerate come espansione o amplificazione

dell'immaginazione attiva o guidata, estesa ad abbracciare non solo il livello eidetico,

ma anche quello dell'immagine propriocettiva totale del corpo.

Come si può notare tutti gli strumenti fin qui esaminati condividono il privilegiare la

dimensione esperenziale ed i linguaggi non – verbali. Inoltre hanno lo scopo

principale di favorire la possibilità per il singolo e per il gruppo di dire ciò che, in

genere, non si riesce a dire, a riconoscere.

Contrariamente alle parole, queste tecniche non permettono di cognitivizzare

completamente in quanto presentano una serie di segnali che non sono solo cognitivi,

ma che attengono molto di più al mondo dei significati.

Tutti gli strumenti di osservazione e cura presentati condividono l’uso dei linguaggi

analogici e valorizzano il ruolo del “vedere” dei terapeuti, il “sentire”e il “fare” dei

pazienti.

Anche nel caso di patologie che si sono instaurate nelle primissime fasi di vita e/o di

situazioni che hanno raggiunto un notevole grado di cronicizzazione, specialmente in

quei casi nei quali si sia verificato un intoppo evolutivo nel dialogo pre-verbale fra il

bambino e le sue figure di attaccamento, risulterà estremamente utile poter far ricorso

a situazioni psicoterapeutiche che utilizzino modalità comunicative più arcaiche, che

vedono nel corpo lo strumento privilegiato di espressione del disagio e attraverso il

corpo la sua cura. In questi casi è il terapeuta che deve mettersi in gioco anche con il

proprio corpo (Onnis 2004, Erskine 1996).

È molto difficile descrivere in parole ciò che capita in una seduta in cui si lavora sul

corpo, perché il non-verbale predomina. Ciò non significa che non si parli. Significa

solo che vengono messe in gioco altre importanti dimensioni dell'essere e dell'entrare

in relazione.

Ad esempio, se un cliente tende a posizionarsi all’interno del triangolo drammatico di

Karpman (1968) come un Persecutore proponiamo di drammatizzare la figura di un

dittatore.

Quello di cui ha bisogno è proprio una possibilità di viversi consciamente come

dittatore. Ora gli si può chiedere di cercare deliberatamente di essere il dittatore, e di

agire il suo ruolo.

A questo punto si potrebbe incorrere in opposizioni: il paziente non vuole farlo, non

può, « non è nella sua natura ». Gli si domanda, allora, di esprimere il suo

atteggiamento interiore senza parole, in una pantomima, di dire poi in prima persona

come sente se stesso in quel ruolo e come sente il mondo e le altre persone.

Nel corso della pantomima il gruppo o le terapiste gli fanno notare il modo in cui si

muove, il suo portamento, le tensioni del suo corpo. Gli si chiede quello che sente,

dove sente localizzate le proprie emozioni, siano esse espresse in una tensione o in un

cambiamento del portamento, nella schiena, nelle spalle o dovunque esse siano. Gli

viene poi chiesto di « porsi » con la consapevolezza di queste tensioni appena

scoperte e di vedere quali associazioni, ricordi o emozioni nascono «da esse » e di

fare attenzione alle occasioni e alle circostanze in cui analoghe tensioni e sentimenti

si verificano nella vita di tutti i giorni. A questo punto il dittatore viene già vissuto e

amplificato dalla consapevolezza di una serie di segnali del corpo di solito ignorati e

dall'apporto di materiale emotivo ed immaginativo che prima non veniva collegato ad

esso. Nel riallacciarsi a uno qualsiasi di questi fatti, il paziente può essere indotto a

comprendere che anche altre volte, in un dato momento, agisce il ruolo del dittatore.

Nel verbalizzare questo ruolo, potrà dire qualcosa del tipo « Non mi importa dei

sentimenti degli altri, io ho sempre ragione, io so tutto meglio di loro ».

Questo metodo non solo taglia corto e raggiunge direttamente quello intorno a cui

girano le consuete associazioni verbali: l'impatto emotivo è perciò trasformatore, e le

consapevolezze immediate sono indescrivibilmente maggiori.

Classificazione degli interventi che coinvolgono la dimensione corporea

A. I. Lavoro sul Sé Individuale in gruppo.

Esercizio Collettivo: “Lancia e lasciati andare”.(Manes 1997)

In questo esercizio facciamo nostre le osservazioni della Cohen e proponiamo

l’incorporamento di una relazione integrata tra sé e il mondo. I pazienti accovacciati a

terra in posizione fetale e con un largo nastro di tessuto leggero in mano

raggiungeranno la posizione eretta, lanceranno il nastro e lo riafferreranno.

A. II. Lavoro sul Sé Individuale in gruppo

Esercizio Individuale: “Esercizio guidato di visualizzazione del sé corporeo”

Attraverso questo esercizio emergono facilmente le zone del corpo negate o

comunque investite nel conflitto. Il terapeuta invita ed aiuta il paziente a guardarsi

attraverso gli occhi della mente: “ Chiudi gli occhi….Prendi contatto con il tuo

corpo….Sentilo…Guardalo….il volto…senti la tua testa etc…”.Questo esercizio

permette al paziente di “vedere e sentire” ciò che vede e ciò che rifiuta del proprio Sé

corporeo.

B. I. Lavoro sul Sé in relazione duale con altro da Sé.

Esercizio Collettivo: “Schiena a schiena”

In questo esercizio i partecipanti seduti a terra schiena contro schiena simulano una

situazione conflittuale. L’elaborazione del conflitto intesa come uso dell’energia

impiegata nella situazione conflittuale diviene oggetto di osservazione.

B. II. Lavoro sul Sé in relazione duale con altro da Sé.

Esercizio Individuale: “L’altro è il mio specchio”.

Il paziente coinvolto nel lavoro chiede ad un altro partecipante del gruppo di

“prestargli il corpo” col quale realizzerà una scultura di sé stesso.

C. I. Lavoro sul Sé Sociale

Esercizio Collettivo: “La culla” (Manes 1997)

Questo esercizio prevede la possibilità di farsi realmente cullare in un grande e solido

telo dagli altri partecipanti del gruppo che ad uno ad uno si alterneranno nella culla.

Esercizio potenzialmente regressivo può essere usato altrimenti in un gruppo

“avanzato” per agevolare il “diritto alle carezze” in modo giocoso e partecipativo.

C. II. Lavoro sul Sé Sociale

Esercizio Individuale: “In piedi e in alto”.

Il paziente in piedi su una sedia si mostra al gruppo. Troviamo questo esercizio molto

utile per rappresentare ad esempio, ma non solo, la dimensione solipsistica del "sii

perfetto", in alto, ma solo.

Frammenti di interventi

Il Topolino

La cliente che chiamiamo J è una giovane donna di 36 anni. Bella, intelligente,

professionalmente affermata, spesso ricorre all’alcool e ha collezionato negli anni

numerose relazioni amorose fallimentari. Vive in una famiglia composta da una

madre e tre fratelli, due femmine (di cui una è lei) e un maschio. La madre presenta

un disturbo depressivo maggiore con manifestazioni psicotiche (DSM IV-TR 2001),

per la sorella maggiore, a seguito della descrizione di J ,si può dedurre sia affetta da

disturbo borderline di personalità e il fratello da psicosi schizoaffettiva con gravi

manifestazioni suicidarie. La cliente, invece, presenta un disturbo borderline di

personalità con tratti schizoidi. Il padre, morto da alcuni anni, viveva separato dalla

famiglia, ma non ha mai sciolto il legame coniugale.

In termini sistemico – relazionali questa famiglia viene definita ad alta emotività

espressa, tipicamente invischiata, centripeta; in termini analitico transazionali è un

nucleo familiare altamente simbiotico, in cui viene premiata la dipendenza piuttosto

che l’autonomia. Centrale nella simbiosi il fenomeno della passività e il concetto di

ridefinizione, quale meccanismo usato dalla persona per mantenere una visione

prestabilita ( non minacciosa) di se stesso, del mondo (sistema di riferimento) e degli

altri, onde rispettare il proprio copione di vita. Gli Schiff (1980) sembrano portare

avanti l’ipotesi di un copione schizofrenico, mentre da un punto di vista berniano ci

troviamo di fronte ad un’organizzazione psicotica di personalità di tipo compensato

con un funzionamento borderline. Gli Schiff affermano che l’agito suicidale o

l’autolesionismo sono eventi di copione e sono l’output derivante dalla sommatoria

negativa di messaggi ingiuntivi specifici. Questi messaggi se di una certa gravità, sul

piano fisico e sulla vita propria e altrui, possono portare alla formazione di copioni

perdenti di terzo grado. Nel copione (Steiner 1974) di J possiamo osservare come

driver primario il Sii forte ( non avere sentimenti e bisogni ) e il Compiaci, come

ingiunzioni il non esistere (Goulding 1979), non godere, non sentire, non farcela, non

fidarti, non essere sano di mente. La posizione esistenziale è senza sbocco Io non

sono OK – Tu non sei OK, i giochi gamba di legno, si ma, il racket di confusione, il

tornaconto di copione è diventare pazzo.

Nell’incontro al quale si riferisce lo stralcio, J riferisce l’ennesimo insuccesso rispetto

alla “decisione” di acquistare una casa per sé. J, pur essendo molto ricca, ha tentato

più volte di realizzare questo “desiderio di separazione”, ma le negoziazioni sono

sempre “magicamente” fallite. Nel corso del lavoro la invitiamo a riflettere sul

significato profondo del separarsi dalla famiglia e sulle difficoltà che ne scaturiscono.

J: sono paralizzata, mi sento come un topolino da laboratorio, un topolino su una

ruota che gira in tondo.

T1: con l’idea di girare intorno a chi o che cosa?

J: alla mia famiglia

T2: è un modo di muoverti intorno a loro?

J: si.

T1: scegli tua mamma, tuo fratello, tua sorella nel gruppo ( i singoli membri del

gruppo possono decidere di partecipare o meno all’esercizio).

T2: bene, sistemali fisicamente nella stanza, mettili nella posizione che vuoi e

controllane anche la postura, così come tu li vedi, così come vedi la tua famiglia.

J si appresta a disporre.

T1: gira in tondo a loro, fallo per un po’.

J: (inizia a ruotare intorno alla scultura) non mi vedono, non si accorgono neanche

che ci sono.

T2: è questo il motivo per cui giri in tondo, nella speranza che ti vedano?

J: (sospiro)

T1: Gira, gira….

J continua a girare intorno alle figure rappresentate dalla scultura della famiglia.

T1: cosa stai cercando?

J: non ce l’ho la risposta.

T2: continua…cosa senti quando giri intorno?

J: sento un po’ di angoscia, non lo so dire…

T1: quali sensazioni?

J: angoscia non riesco a sentire altro.

T2: li stai guardando?

J: no.

T2: guardali.

J: messi così sembrano senza speranza, in catene.

T1: sembrate tutti senza speranza….

J sospira

T1: cosa senti?

J: paura.

T1: cosa associ a paura?

J: davvero non lo so.

T2: prova ad associare.

J: paura come perdita, paura come incapacitazione…….impotenza.

Lo sguardo è smarrito, J si ferma.

La mamma è di spalle,le

braccia stese sul capo dei

figli in ginocchio,tutti a

capo chino, non si

guardano

T1: Ok, basta così ( il tono è rassicurante e comprensivo).Ora diamo la parola alle

figure della scultura:

fratello: mi sono sentito arrabbiato verso J perché girava a vuoto, un po’ come

facevo io con mia madre….

sorella: prostrata e non all’altezza, un po’ come mi sento io nei confronti di mio

padre…..

madre: nulla per me, emozionata per J, avrei sperato che mi avesse alzato la testa, un

po’ come ho fatto io quest’estate , vedo meglio mia madre, ora…

Ora diamo la parola ai membri del gruppo se vogliono dire qualcosa:

B: mi sono sentita angosciata, tutto fermo, statico. Mi sarei spostata, mi dava rabbia,

sottomissione……

C : mi sentivo ipnotizzata..

T1 e T2 rivolte a J : tu hai sentito l’effetto di questo movimento perfetto di orologio

(girava sempre nello stesso modo) , quasi ipnotico, tu hai sentito l’effetto di questo

meccanismo familiare, l’incapacitazione, l’impotenza e l’angoscia che ne deriva.

A distanza di cinque mesi J acquista una casa.

X e lo stomaco

X è la secondogenita di due sorelle. La sua famiglia di origine vive in un paese

dell’Italia meridionale. I suoi genitori si separarono quando x aveva 15 anni con

grande felicità di entrambe le sorelle. X descrive il padre come un grande narcisista,

sempre attento alla sua immagine estetica e professionale e la madre passiva, fredda e

formale. La sua famiglia si può descrivere disimpegnata e nel contempo

simbioticamente adesiva con il nucleo allargato ( famiglia della madre). X ha

sviluppato nel corso della sua vita un disturbo narcisistico di personalità e un disturbo

aspecifico dell’alimentazione (DSM IV-TR). I principali messaggi spinta che ha

ricevuto sono sii perfetto e sii forte, le ingiunzioni sono non essere te stessa (sii

questa immagine idealizzata che ho nella mia testa di chi tu dovresti essere), non

essere intimo o fidarti (Goulding 1979), non sentire ciò che senti – senti ciò che io

sento, non pensare ciò che pensi – pensa ciò che io penso.

E’ una professionista affermata, intelligente e vivace, curata e ricercata

nell’abbigliamento. La cliente inizia a lavorare in gruppo partendo da un sentimento

di rabbia che ha percepito nei confronti della coppia delle terapeute T1 e T2 perché

nel precedente incontro le avevamo detto che è affezionata al “dolore”; nel triangolo

drammatico si posiziona nel ruolo di vittima, (Karpman 1968). Qualche giorno prima,

in occasione di una visita alla famiglia, riferisce di essersi messa in una situazione di

umiliazione con il padre, ed è arrabbiata con la madre perché anche in questa

circostanza si è preoccupata più per il ruolo di rispettabilità del padre piuttosto che di

protezione della figlia ( nella storia di X il padre ha “giocato” sessualmente con le sue

figliolette con la probabile omertà della madre). La cliente “sente” un nodo allo

stomaco. Le si chiede di drammatizzare la percezione di nodo e X lo definisce come

un uovo sodo, mostra sofferenza e dolore epigastrico, da qui riferisce un “senso di

nausea” e dichiara di voler dimagrire perché si sente grassa ( storia di disturbo

alimentare del tipo anoressia).

La si fa stare con la sensazione di vomito e le si chiede di posizionarsi in ginocchio e

simulare dei conati di vomito e poi di stare con ciò che prova. Durante l’esercizio

della durata di qualche minuto, la cliente piangendo fa due affermazioni, “ uovo sodo

come qualcosa che le ha messo il padre” e “uovo sodo come acido”, come descrive la

madre che non l’ha protetta.

La cliente piange per quella bambina che ha subito l’abuso.

Y e la passività

Y è una brillante professionista di 40 anni. Non ha mai avuto relazioni intime, non

guida l’auto e solo recentemente ha definito la sua autonomia rispetto alla famiglia

d’origine acquistando un’abitazione. Y presenta un grave disturbo alimentare di

bulimia con condotte espulsive ed obesità (DSM IV-TR), associato ad

un’organizzazione di personalità borderline. Le sue principali controingiunzioni sono

dacci dentro, sii forte e compiaci (Goulding 1979), le ingiunzioni non esistere, non

fidarti, non essere intimo, non sentire, non crescere, non essere importante, non essere

te stesso. I giochi che maggiormente attiva in gruppo sono il si …. ma (Berne 1964),

prendimi a calci e spalle al muro.

Numerose diete iniziate si sono concluse con clamorosi insuccessi.

In questa seduta Y riferisce la propria incapacità a seguire un regime alimentare sano

e la decisione di “ rimanere ferma è più comodo”. Mentre annuncia questa decisione

Y la agisce, tutto in lei è fermo: la voce è atona, la mimica facciale è assente, è seduta

con il busto accasciato a destra, la mano destra piegata all’interno del collo sorregge

il capo, il braccio e la gamba sinistra sono rispettivamente costretti dietro e sotto il

busto. E’ visibilmente scomoda e altrettanto visibilmente non ne ha consapevolezza.

La decisione copionale di passività così chiaramente espressa viene rinforzata con la

negazione del corpo, con la negazione della sofferenza del corpo che diviene così

solo “un pilastro per la testa”.

Y sta ferma, allora T1 la invita a visualizzare il proprio corpo.

T1: Ok, Chiudi gli occhi e comincia a sentire il tuo corpo. Accorgiti della tua

testa….del tuo volto….lentamente scendi al collo…le spalle ….. ….

Y: sono molto contratta.

T1: Bene, ora concentrati sul piede a terra e sul tuo ginocchio piegato sotto la gamba

destra. Cosa senti?

Y: è molto sofferente. Il bacino è storto, il braccio destro è scomodo, il sinistro è

costretto, le spalle sono contratte, il collo è storto.

T2: adesso dì quello che hai detto prima “è comodo stare fermi”.

Y: sì non è comodo, ma mi da meno fatica di fare qualcosa.

T2: se continuiamo la metafora di A e B( pazienti che hanno lavorato poco prima)

“sei testa senza corpo”, per vederlo , averne cura e godere del tuo corpo hai bisogno

di sentirlo .

Y: adesso non sento più il corpo.

T1: continua a concentrarti sul tuo corpo, ripeti l’esercizio di prima…………..occupa

lo spazio di cui hai bisogno………

Y: (piange) ora lo sento…., è un peccato che per sentirlo lo devo far esplodere.

Y Inizia a muoversi per darsi sollievo

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Dott. Antonella Liverano psicoterapeuta T.S.T.A Università Pontificia Salesiana SSSPC

Dott. Marina Del Bono psicoterapeuta Associazione Lekton