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COME PREVENIRE LA PARODONTITE APICALE
Accademia Italiana di Endodonzia (AIE)
Prof. Elisabetta Cotti
Dr. Raffaele Esposito
Dr. Alessandro Fava
Dr. Piero Alessandro Marcoli
INDICE
1. Parodontite apicale: definizione, etiologia e patogenesi
2. Come prevenire la parodontite apicale nei denti affetti da carie
3. Come prevenire la parodontite apicale durante il trattamento endodontico
3.1 Cavità d’accesso
3.2 Sagomatura
3.3 Detersione
3.4 Otturazione
4. Come prevenire la parodontite apicale nei denti traumatizzati
4.1 Probabilità di necrosi pulpare come e tempi di intervento
4.2 Le conseguenze pulpari del trauma dentale
4.3 Raccomandazioni generali
4.4 Esame clinico
4.5 Esame radiografico
4.6 Obiettivi terapeutici
4.7 Follow up
1. Parodontite apicale: definizione, etiologia e patogenesi
Lo scopo del trattamento endodontico è da un lato quello di gestire la patologia
pulpare, anche in presenza di sintomatologia soggettiva e di segni obiettivi a carico
del dente interessato, ma soprattutto di prevenire o guarire la parodontite apicale.
La parodontite apicale è una patologia molto diffusa nel mondo occidentale, dove si
assesta su una prevalenza che va dal 14 al 70% (Caplan 2004).
Con il termine parodontite apicale si definisce una reazione infiammatoria a
carico dei tessuti periradicolari ed in particolare periapicali di un dente affetto
da un’infezione endodontica. Questa reazione infiammatoria è sostenuta da un
incontro dinamico tra i microorganismi patogeni dell’infezione endodontica,
prevalentemente batteri anaerobi facoltativi ed obbligati, che costituiscono un
complesso sistema di biofilm all’interno dei canali radicolari, e la risposta
immunitaria dell’ospite. L’infiammazione periapicale esita in un danno ai tessuti
periapicali con riassorbimento osseo (Nair 1997). Le dinamiche della
distruzione e della riparazione dei tessuti interessati nei vari stadi della
parodontite apicale sono guidate da complesse interazioni tra le cellule immuno-
infiammatorie ed i mediatori solubili originati da queste cellule e dal plasma,
come le citochine, che vengono sintetizzati in un network di meccanismi
regolatori.
La parodontite quindi porta ad una progressiva perdita del tessuto osseo con
formazione di una lesione che, se non arrestata dalla rimozione della causa
batterica che la sostiene, tende ad aumentare di dimensione.
Dal punto di vista istopatologico la parodontite apicale può presentarsi sotto forma di
lesione granulomatosa o cistica, o di lesione cistica e granulomatosa stesso tempo.
Raramente si può invece avere una forma di addensamento osseo chiamata osteite
condensante.
Dal punto di vista radiografico la lesione si manifesta coma una zona di
rarefazione ossea e quindi radiotrasparente (fatta eccezione per l’osteite
condensante).
Dal punto di vista clinico la patologia che è prevalentemente asintomatica, può
diventare sintomatica anche in modo violento ed improvviso (flare-up) spesso anche
a seguito di un trattamento endodontico. La sintomatologia consiste in dolore
spontaneo, o provocato dalla masticazione, pressione e palpazione. Talvolta la
parodontite può presentarsi in forma di ascesso acuto e sintomatico o cronico e
asintomatico (fistola).
Il trattamento clinico della parodontite apicale prevede un intervento endodontico in
termine di terapia canalare ortograda primaria se il dente affetto non è mai stato
trattato in precedenza. Qualora la parodontite apicale non fosse guarita a seguito del
primo trattamento si può procedere ad una terapia canalare ortograda o secondaria,
(ritrattamento). In alternativa la parodontite apicale può essere trattata per via
retrograda effettuando un intervento di endodonzia chirurgica.
La mancata guarigione della parodontite apicale in seguito ad uno o più trattamenti
pone un dilemma clinico importante ed eventuali scelte terapeutiche alternative, e
può portare alla perdita del dente interessato.
E’molto importante, a questo punto, notare che la prognosi del trattamento
endodontico varia in modo significativo a seconda dello stato in cui si trovano i
tessuti periradicolari al momento in cui si comincia la terapia.
In generale infatti se si tratta un dente affetto da pulpite irreversibile o da necrosi
pulpare, verosimilmente a causa di una profonda lesione cariosa o di un trauma, in
una terapia effettuata lege artis, si ha una predicibilità di successo decisamente al di
sopra del 90% per il trattamento endodontico primario e secondario. Ossia se la
parodontite apicale non era presente al momento del trattamento, è improbabile che si
manifesti successivamente, a meno che non intervengano nuovi fattori a carico
dell’elemento considerato (perdita del restauro, frattura..etc.).
Nel caso in cui invece il trattamento canalare primario o secondario venga effettuato
su un dente affetto da parodontite apicale, le percentuali di successo scendono
drasticamente fino all’80% circa (Ng et al. 2007, 2008, 2011 I, 2011 II).
E’ per questo motivo che prima ancora di concentrarsi sul trattamento dei denti affetti
da parodontite apicale sarebbe meglio spostare l’attenzione su come prevenirla.
Dato che l’infezione endodontica normalmente comincia con una carie o meno
frequentemente può essere provocata da un trauma, questa può peggiorare se il
trattamento canalare eventualmente richiesto non è condotto in modo adeguato.
E’ pertanto importante conoscere i protocolli che consentono di prevenire
l’insorgenza della parodontite apicale durante il trattamento delle lesioni cariose,
durante il trattamento endodontico primario e durante la gestione dei traumi.
In questo lavoro cercheremo di ripercorrere tutti gli accorgimenti clinici adeguati,
secondo le attuali conoscenze, per prevenire l’insorgenza della parodontite apicale.
Fig.1. Parodontite apicale a carico del dente 3.6, come osservabile all’esame
cone-beam in proiezione sagittale.
2. Come prevenire la parodontite apicale nei denti affetti da carie
La carie è una delle patologie umane più diffuse. Dalla fine del 1800, con l’aumento
dell’utilizzo degli zuccheri nell’alimentazione, si è verificato un notevole incremento
di carie nella popolazione (Burt, 1978).
La malattia è ad eziopatogenesi multifattoriale; i batteri presenti nei biofilm che
aderiscono alle superfici dentali, in ambiente acido causato dalla fermentazione degli
zuccheri, iniziano ad intaccare i tessuti duri del dente (Fejerskov & Kidd 2003; Marsh
& Martin 1999).
Evidentemente per quanto riguarda la malattia cariosa la prevenzione primaria è
fondamentale, quindi sono necessarie precise nozioni di alimentazione corretta
associate a idonee procedure di igiene orale ed opportuni presidi (dentifrici e collutori
a base di fluoro) (Featherstone 1999).
Nel caso che, nonostante la prevenzione, si verifichi un evento carioso, l’importante è
intercettarlo per tempo, evitando che la patologia distrugga grandi quantità di smalto
e dentina, avvicinandosi pericolosamente alla polpa. Una volta che la lesione cariosa
si è sviluppata bisogna ovviamente mettere in atto tutte le strategie operative per
risparmiare al massimo il tessuto residuo e, possibilmente, evitare di raggiungere la
polpa durante le manovre operative (Ismail et al. 2013).
Il coinvolgimento pulpare durante il trattamento della carie porta infatti, nella
maggior parte dei casi, all’inevitabile trattamento endodontico, causando così un
ulteriore sacrificio di tessuto dentale e delineando anche un ipotetico rischio di
insorgenza di una successiva parodontite apicale.
In caso di esposizione pulpare una tecnica proposta per evitare un coinvolgimento
pulpare massivo è quella dell’incappucciamento diretto; la prognosi di questa
procedura è altamente favorevole nel caso di esposizioni causate da traumi (quindi
evento accidentale con scopertura di polpa sana), mentre in caso di esposizione
pulpare per carie le percentuali di successo scendono considerevolmente (Thompson
2008).
Per evitare di arrivare ad un trattamento endodontico su un dente affetto da lesione
cariosa profonda, una possibilità terapeutica (entrata nei protocolli restaurativi in
tempi recenti) consiste nella rimozione parziale e selettiva della dentina cariata,
facendosi guidare da criteri anatomici (vicinanza o meno alle strutture pulpari) e non
dalla rimozione completa di tutto il tessuto infetto. Indubbiamente solo certe
configurazioni cavitarie sono ritenute favorevoli per la messa a punto di un protocollo
di rimozione selettiva della carie ed il dente coinvolto non deve avere nessun segno e
sintomio di chiaro coinvolgimento pulpare. Al momento, pur essendo questa tecnica
un’opzione proposta da molti autori, non esiste ancora una importante evidenza
scientifica che possa funzionare in modo prevedibile; di certo è che in questo modo si
semplificano notevolmente le terapie, evitando l’endodonzia, e si riducono i costi
(Uribe 2006, Ricketts et al. 2006, Ricketts et al. 2013).
In ogni caso il monitoraggio accurato delle condizioni pulpari è fondamentale per
intercettare il rischio di complicanze successive in caso di lesioni cariose profonde,
indipendentemente dal fatto che il trattamento scelto sia un restauro effettuato su
dentina completamente sana, dentina ancora cariata o sia associato ad
incappucciamento diretto della polpa.
Per seguire correttamente questa evoluzione bisogna monitorare i sintomi del dente
coinvolto (sensibilità a stimoli termici e chimici ed eventuale dolorabilità spontanea o
alla pressione/masticazione) unitamente ai test di sensibilità pulpare (Thompson
2008).
I cosiddetti test di sensibilità pulpare rappresentano una parte importante ed
essenziale del processo diagnostico della patologia pulpare. Durante la diagnosi
questi test possono essere utilizzati per riprodurre i sintomi riportati dal paziente, o
per evocare sintomi non presenti, ai fini di diagnosticare se il dente affetto da
patologia pulpare e lo stato della malattia. Tuttavia un limite importante di questi test
è che forniscono solo indirettamente un'indicazione dello stato della polpa misurando
una risposta neuronale piuttosto che l'apporto vascolare, quindi possono dare sia
risultati falsi positivi che falsi negativi (Jafarzadeh & Abbott 2010). In base a queste
considerazioni la terminologia corretta è cambiata negli ultimi anni passando da test
di vitalità a test di sensibilità.
Per effettuare suddetti test generalmente si utilizzano i test termici (caldo e freddo), il
test pulpare elettrico (EPT) ed il cosiddetto “cavity test” o test cavitario.
Sono disponibili due tipi di test termici, uno utilizza uno stimolo freddo e l'altro
utilizza uno stimolo caldo e ciascuno di essi ha vari metodi di applicazione. Se questi
test vengono utilizzati correttamente è altamente improbabile che causino lesioni alla
polpa (Jafarzadeh & Abbott part I 2010).
Il test elettrico è un tipo di test di sensibilità pulpare che può essere un ausilio nella
diagnosi dello stato della polpa dentale. Tuttavia, come per quanto riguarda i test
termici, non fornisce alcuna informazione diretta sulla vitalità del dente. Il cavity test
invece è probabilmente meno a rischio di false risposte rispetto ai test termici ed
elettrici, ma è un test invasivo che ha quindi un impiego decisamente ristretto a
circostanze estreme (Jafarzadeh & Abbott part II 2010).
Per quanto riguarda l’affidabilità dei suddetti test sono decisamente corrette le
risposte sia dei test termici con il freddo che dei test elettrici (Weisleder et al. 2009;
Petersson et al. 1999), con una leggera prevalenza di risposte corrette dei test termici
per quanto riguarda l’accertamento della polpa vitale rispetto a quelli elettrici
(Petersson et al. 1999).
I test termici effettuati con la somministrazione di calore sono relativamente allineati
per quanto riguarda l’affidabilità con i test elettrici per l’accertamento della polpa
vitale, mentre sono decisamente più imprecisi dei test termici al freddo e dei test
elettrici nell’accertare una polpa necrotica (Petersson et al. 1999).
A margine dell’utilizzo degli apparecchi per i tester pulpari elettrici giova ricordare
che gli stessi, unitamente ai localizzatori apicali elettronici, non interferiscono con la
funzione dei pacemaker cardiaci (Sriman et al. 2015).
Sulla base di quanto emerge dalla letteratura, quindi, in presenza di una lesione
cariosa profonda radiologicamente visibile, ma in assenza di dolore spontaneo o
provocato dai test termici ed elettrici ed allo stesso tempo in presenza di risposta
positiva ai suddetti test, è assolutamente indicata una terapia conservativa, senza
ricorrere ad un più invasivo trattamento endodontico. Inutile sottolineare che a
questo punto il mantenimento delle buone condizioni pulpari dipende interamente
dalla qualità del restauro che deve essere eseguito con un corretto isolamento del
campo, nel rispetto dell’anatomia del dente e con l’applicazione corretta dei
protocolli di adesione.
E’ poi importante che dopo un trattamento conservativo adeguato, in un caso di carie
profonda, vengano effettuati i controlli clinici a distanza, associati ai test di sensibilità
per la prevenzione della parodontite apicale futura.
Fig.2. Grave lesione cariosa distale a carico del 26 precedentemente restaurato con
una voluminosa otturazione in amalgama. Il dente al momento del trattamento
conservativo non mostrava segni clinici di patologia pulpare irreversibile e
rispondeva positivamente ai test termici ed elettrici
Fig.3. Nel controllo a distanza di 10 anni si evidenzia come un trattamento con onlay
in composito si sia rivelata una soluzione corretta e duratura. Il dente è vitale ed
asintomatico.
Fig. 4. Radiografia periapicale a distanza di 12 anni. L’immagine rivela salute dei
tessuti periradicolari. La risposta ai test di sensibilità è normale, e non ci sono segni
obiettivi di sofferenza periapicale.
Anche in caso di eventuale insuccesso pulpare (pulpite acuta o necrosi) a distanza il
trattamento endodontico su questo elemento dentale, potrebbe essere eseguito in
modo non invasivo (build-up diretto in composito, preparazione e cementazione
attraverso una ridotta cavità occlusale, facilmente otturabile con un piccolo
composito diretto), che non comprometterebbe l’integrità del restauro eseguito.
3. Come prevenire la parodontite apicale durante il trattamento
endodontico del dente
Il trattamento endodontico primario effettuato su un dente privo di parodontite ha la
responsabilità di risolvere il problema pulpare, per cui è indicato, prevenendo allo
stesso tempo l’insorgenza di parodontite apicale.
Una terapia canalare eseguita seguendo gli standard di qualità in vigore attualmente
dovrebbe portare al facile raggiungimento di questo obiettivo.
L’attenzione deve essere posta sui seguenti momenti terapeutici:
1. Un accesso adeguato (il più efficace ai fini della reperibilità dei canali,
strumentazione e disinfezione). 2. La scelta di una lunghezza di lavoro accurata (non
dovrebbe essere inferiore ai 2mm di distanza dall’apice, e non dovrebbe superare
l’apice). 3. L’uso di un protocollo di irrigazione prevedibile (ipoclorito + EDTA) per
il controllo dell’infezione. 4. La strumentazione del canale in linea con una buona
rimozione del biofilm, con particolare attenzione al terzo apicale del canale ed al
forame. 5. L’otturazione dello spazio endodontico nel modo più tridimensionale
possibile. 6. Il restauro coronale.
Lo spazio endodontico rappresenta la cavità interna del dente costituita, nella
porzione coronale, dalla camera pulpare e, nella porzione radicolare, dal
sistema dei canali radicolari.
La terapia endodontica comporta ad oggi l’uso di un trattamento chimico-meccanico,
biologicamente accettato, del sistema dei canali radicolari e prevede la preparazione e
l’otturazione di tutti i canali radicolari.
Il trattamento deve permettere un’adeguata strumentazione del sistema con un buon
accesso al le soluzioni disinfettanti senza provocare gli errori più comuni come
perforazioni, trasporto canalare, fratture di strumenti e la non necessaria rimozione di
struttura dentale.
Fig.5.Trattamento endodontico sul dente 3.6 affetto da pulpite irreversibile, senza
parodontite apicale. Si nota la radiografia preoperatoria che mostra un restauro
profondo ed infiltrato. Le due radiografie successive mostrano l’apertura della cavità
d’accesso e la fase di pre-flaring manuale. La detersione e disinfezione è stata
effettuata con ipoclorito di sodio al 5,25% alternata a EDTA al 17%.
Fig. 6. Caso completato, i canali sono stati strumentati usando strumenti rotanti in
NiTi, con lavaggi a base di ipoclorito di sodio al 5.25% ed EDTA. L’otturazione
tridimensionale del sistema è stata eseguita con guttaperca e cemento, il restauro
coronale è stato fatto con resina composita ed adesivo. I controlli a sei anni
evidenziano il mantenimento della salute dei tessuti periapicali.
3.1 Cavità d’accesso
Il principio alla base che guida la realizzazione di una corretta cavità di accesso per il
trattamento endodontico è che il tetto della camera pulpare vada rimosso interamente,
risultando in una cavità che avrà pareti divergenti e che sarà la continuazione
dei singoli canali che si affacciano nella camera pulpare. La cavità di accesso deve
evidenziare tutti gli imbocchi dei canali radicolari, il suo disegno finale dovrà essere
dettato esclusivamente dall’estensione della camera pulpare.
Attualmente, considerata l’abitudine a procedere con restauri post-endodontici
adesivi e sempre più conservativi, si è sviluppata anche una tendenza particolarmente
attenta alla massima conservazione di tessuto coronale sano durante l’apertura della
cavità d’accesso che quindi, si approccia oggi con un’ottica dinamica, adattando
progressivamente la preparazione all’anatomia del dente in esame.
Abbiamo infatti a disposizione tipologie di strumenti e attrezzature in grado di
facilitare una corretta esecuzione della cavità d’accesso, e della terapia endodontica
in generale, in un’ottica conservativa (microscopio, illuminazione, punte soniche e
ultrasoniche) rendendo più agevole il reperimento degli imbocchi canalari, senza
dover ricorrere ad aperture troppo ampie (Gluskin et al., 2014).
Al fine di eseguire con successo una corretta cavità di accesso ed automaticamente
una terapia endodontica adeguata sono:
- una buona conoscenza dell’anatomia
- la lettura attenta della radiografia preoperatoria endorale periapicale
- l’utilizzo di una buona illuminazione e possibilmente di un ingrandimento
- lo strumentario adeguato.
3.2 Sagomatura
L’uso routinario degli strumenti rotanti in lega nichel-titanio ha apportato notevoli
miglioramenti della preparazione canalare. Ricerche cliniche e sperimentali hanno
evidenziato che il trattamento endodontico effettuato con gli strumenti NiTi, usati sia
con movimento rotatorio continuo che reciprocante risulta in un notevole
miglioramento delle preparazioni dei canali e in una drastica riduzione degli errori
iatrogeni.
Come concetto universale oggi, è suggerito precedere la strumentazione del canale
(con qualunque tipologia di strumento NiTi) con una fase detta di preflaring,
effettuata con due o tre strumenti manuali (es: 8,10,15), che ha lo scopo di creare un
adeguato sentiero di scorrimento (gilde path) agli strumenti rotanti che porteranno al
raggiungimento di una preparazione troncoconica tridimensionale.
Il concetto di shaping presuppone lo sviluppo di una preparazione specifica per
ogni radice, che tenga conto di tutte le sue dimensioni. La procedura clinica deve
rispettare l’anatomia originale e la struttura dentale residua.
Gli obiettivi meccanici della sagomatura del sistema canalare sono:
- Preparazione canalare uniformemente conica con il diametro minore in
corrispondenza del punto in cui il forame è in contatto con l’apparato di sostegno.
Considerando le variabili anatomiche del canale originale, la conicità stampata in fase
di sagomatura deve esistere su piani multipli creando un senso di scorrimento e di
armonia strutturale. Lo sviluppo di una conicità progressiva favorisce sia l’azione
delle soluzioni irriganti nella fase operativa, che l’espansione del complesso
guttaperca-cemento per la via di minore resistenza (delta apicale e canali laterali).
- Rispetto e mantenimento dell’anatomia originale con preparazione conservativa.
Questo è un parametro che influenza anche la resistenza strutturale post-endodontica
dell’elemento trattato nell’ottica della sua riabilitazione funzionale conservativo-
protesica.
- Mantenimento delle dimensioni del forame apicale per evitare modifiche
dimensionali non necessarie, allargandolo in modo sufficiente per ottenere una buona
rimozione del tessuto infetto.
Durante la preparazione si crea così un controllo ad ogni livello e si armonizza la
forma tronco-conica del canale per sfruttare le proprietà termodinamiche di sigillo
tridimensionale della guttaperca. Portare nel terzo apicale, con una sequenza errata,
file manuali in acciaio di calibro maggiore o strumenti NiTi con una rigidità
strutturale intrinseca eccessiva, può determinare il trasporto esterno del forame (apice
a goccia) nonché predisporre alla formazione di tappi di dentina, perforazioni,
gradini. estrusione di materiale infetto nei tessuti periapicali e/o cemento oltre che
complicazioni postoperatorie e sviluppo della parodontite apicale.
- Mantenimento della posizione del forame apicale per evitare trasporti ed alterazioni
dello stesso che andrebbero ad inficiare sia la disinfezione, che soprattutto il sigillo.
Sovente l’angolo di accesso, ossia l’orientamento dei file lungo l’asse di discesa
del lume canalare, e quello di incidenza, ossia la curvatura richiesta per seguire
il sentiero di scorrimento del canale, differiscono tra di loro. Quando il forame
di uscita viene ostruito da detriti subisce uno spostamento interno portando
potenzialmente alla perforazione esterna della radice tramite falsa strada:
si crea così un trasporto interno del forame, fenomeno evitabile con la
ricapitolazione e la conferma della pervietà apicale.
Il fallimento nella precurvatura del file, una strumentazione aggressiva, la
mancanza di pervietà e l’uso di strumenti di diametro eccessivo portano al
trasporto esterno del forame.
Nelle tecniche di sagomatura miste attualmente in uso, in cui sia la
strumentazione manuale che quella meccanica con NiTi possono fare la
differenza in trattamenti complessi, l’attenzione va posta sul movimento del file:
lo strumento deve essere usato per pochi secondi alla volta con il massimo
controllo manuale nelle fasi di inserimento, taglio ed uscita.
Lo strumento manuale dovrebbe sempre essere precurvato per ottenere il massimo
rispetto della morfologia radicolare la cui terza dimensione sfugge all’indagine
radiografica standard e che quindi non permette una corretta valutazione di
eventuali anastomosi e curvature repentine nascoste.
Lo strumento NiTi, montato su micromotore a torque controllato, lavora nel lume
canalare con la massima efficienza di taglio e superelasticità se si adotta una
tecnica basata sulla filosofia Kiss and good-bye ossia un inserimento graduale
e progressivo, esercitando una pressione minima, ed una repentina uscita nel
momento in cui si avverte un impegno delle spire sulla parete.
L’ approccio operativo di tipo crown down, in cui il terzo apicale viene preparato per
ultimo e l’allargamento corono-apicale riduce drasticamente lo stress degli strumenti
NiTi nella progressione verticale resta una metodica efficace.
I vantaggi principali di questa preparazione consistono nella rimozione precoce
delle interferenze dentinali del terzo medio e coronale (che elimina lo stress delle
lame più coronali dei file conferendo all’operatore maggiore sensibilità tattile e
controllo nella sagomatura apicale), nell’allargamento coronale precoce che facilita il
passaggio passivo attraverso le curvature apicali, nella possibilità che il canale
svasato coronalmente mantenga i detriti in sospensione e ne faciliti la rimozione,
accogliendo una maggiore quantità di irrigante e favorendone l’efficacia (Peters et
al.,2003, Boessler et al., 2007, Shen et al., 2013).
Per riassumere: la fase di strumentazione meccanica deve essere intesa come un
completamento della fase di scultura canalare: la fase preliminare di preflaring
manuale, irrinunciabile per il sondaggio e la verifica di pervietà, creano un sentiero di
scorrimento (gilde path) adatto al passaggio, senza eccessivi stress, degli strumenti
NiTi successivi che stampano la conicità finale e la preparazione apicale in funzione
della detersione e dell’ otturazione che ne sfrutta la struttura tronco-conica
progressiva per un riempimento tridimensionale.
Il rispetto rigoroso di ogni fase del processo di sagomatura rende più semplice il
raggiungimento del successo clinico finale con risultati predicibili nel tempo e
scongiura l’insorgenza di una parodontite apicale che può essere causata facilmente
dal residuare di detriti di tessuto necrotico infetto all’interno del canale.
3.3 Detersione
Gli irriganti sono parte integrante e sinergica della strumentazione meccanica, infatti,
l’irrigante penetra nella profondità del canale grazie al progressivo allargamento
corono-apicale dello stesso, ed allo stesso tempo, lubrifica lo strumento riducendo ,
tra l’altro, il torque di lavoro (Plotino et al., 2007, Plotino & Grande 2015, Ruddle
2007, Sleimann et al., 2005).
La detersione e disinfezione del sistema permettono di liberare lo spazio canalare
dal tessuto pulpare integro o in disfacimento, dai batteri e dalle sostanze irritanti da
questi prodotte.
La maggior parte dei microrganismi all’interno del sistema endodontico sono
organizzati in un biofilm, ossia una comunità strutturata di batteri chiusi in una
matrice polisaccaridica protettiva che aderisce tenacemente alla superficie dei canali.
Frammenti di biofilm possono disgregarsi, spostarsi per poi riattaccarsi a qualsiasi
superficie del sistema dei canali radicolari, inclusi i tubuli dentinali. La detersione
tridimensionale deve essere volta a rimuovere la quantità massima di biofilm,
rompendone la matrice e portando questa massa infetta in soluzione così da poterla
eliminare dallo spazio endodontico. Bisogna inoltre tenere conto dello smear layer o
fango dentinale, che si forma sulle pareti del canale come sottoprodotto degli
strumenti utilizzati per tagliare la dentina, che può ospitare residui pulpari e batteri e
non asportabile con semplici lavaggi (Clegg et al., 2006, De Gregorio et al., 2012,
Desai & Himel 2009)
Gli irriganti in endodonzia dovrebbero quindi garantire:
• Un’azione antimicrobica e antibatterica efficace anche sul biofilm
• La dissoluzione dei tessuti organici e inorganici
• Il mantenimento in sospensione dei residui da strumentazione
• Una alterazione minima della struttura dentinale con nessun effetto tossico.
Allo stato delle conoscenze attuali, nonostante la continua ricerca nel settore e
l’immissione sul mercato di nuove soluzioni, lo standard di qualità per l’irrigazione e
la disinfezione dei canali radicolari e di tutto il sistema endodontico prevede l’uso
dell’ipoclorito di sodio, con e senza tensioattivi, associato ad un chelante ( EDTA,
Acido Citrico).
L’ipoclorito di sodio ( NaOCl) è un lubrificante antisettico utilizzato in diluizioni
che vanno dallo 0,5% al 6%, tutte accettate e sperimentate in campo endodontico.
Ha un’azione battericida, dissolve il materiale organico e contribuisce, seppur in
misura ridotta, alla lubrificazione degli strumenti e del canale. Riscaldato a circa
60°C, o attivato mediante ultrasuoni, agisce più rapidamente e più efficacemente . I
limiti principali di questo disinfettante sono la sua scarsa penetrazione periferica che
non permette di raggiungere le regioni più inaccessibili del sistema (canali laterali,
anastomosi, delta apicali), l’insufficiente penetrazione nei tubuli dentinali (300
micron circa) dovuta all’alta tensione superficiale del prodotto e sua la bassa efficacia
contro le componenti inorganiche dei detriti intracanalari.
Per fare fronte a questi limiti, recentemente, sono stati incorporati nelle soluzioni di
ipoclorito di sodio detergenti con azione tensiottiva, che ne hanno aumentato la
bagnabilità e la capacità di penetrazione nei tubuli dentinali. Due prodotti in
commercio a base di NaClO, modificati con surfattanti con valori di tensione
superficiale significativamente inferiori a quelli dell’ipoclorito NaClO 5,25% puro
(rispettivamente 29 e 33 contro i 48 mJ/m2), si sono dimostrati nei test in vitro più
efficaci nei confronti dei batteri ed in particolar modo nei confronti dell’e.faecalis,
aumentando la capacità penetrativa dell’irrigante nei sistemi radicolari complessi.
Per complementare l’azione dell’ipoclorito di sodio con riferimento alla rimozione
del fango dentinale, il protocollo di detersione e disinfezione del sistema prevede
l’associazione di questo all’uso di un agente chelante. I chelanti sono sostanze
chimiche in grado di legare ioni metallici formando un complesso stabile e solubile.
Alternato all’ipoclorito di sodio un agente chelante rimuovendo la parte inorganica
dello smear layer, permette una maggiore penetrazione dello stesso all’interno dei
tubuli dentinali. I chelanti maggiormente usati sono l’ EDTA (acido
etilenediaminotetracetico) e l’ acido citrico.
L’EDTA viene utilizzato solitamente a concentrazioni dal 10 al 17%,
ha un discreto impatto nei livelli di erosione dentinale sulle pareti del canale
radicolare, contribuisce alla disgregazione dello smear layer e
facilita la rimozione del biofilm nelle zone canalari non raggiunte dagli strumenti.
L’ acido citrico è un’alternativa all’EDTA e viene usato in un range di concentrazioni
che variano dall’1% al 50%. Rispetto all’ EDTA possiede anche un effetto
antibatterico, mentre le capacità di rimozione dello smear layer risultano praticamente
indifferenti tra i due chelanti e comunque non completamente efficaci nel terzo medio
e apicale da parte di entrambi.
Per quanto riguarda la problematica della demineralizzazione dentinale l’acido
citrico al 10% rispetto all’ EDTA al 17% risulta, per diversi tempi di permanenza nel
canale, marcatamente più aggressivo (Machado-Silveiro et al., 2004).
La ricerca di nuove sostanze più efficaci degli irriganti di uso comune ha messo in
evidenza un’altra caratteristica: la sostantività. Tale proprietà, intesa come il contatto
prolungato tra un materiale ed un substrato con un legame maggiore e più duraturo,
permette agli irriganti che la posseggono di mantenere a lungo termine una attività
antimicrobica sulle pareti canalari, prevenendo una reinfezione del sistema canalare
stesso (Dunavant et al., 2006, Mohammadi & Abbott 2009, Giardino et al., 2013.,
Giardino et al., 2014).
Due prodotti che esprimono questa caratteristica sono la clorexidina (CHX) ed il
cetrimide.
La clorexidina è un disinfettante di sintesi chimica, idrofobico e lipolitico, ad
azione antisettica ad ampio spettro, attiva contro i batteri gram - e gram +,
(maggiore sui secondi) ed anche contro miceti e virus con capside.
La clorexidina agisce sui batteri del biofilm, ma non è in grado di distruggere la
struttura del biofilm stesso e non ha potere di dissoluzione sul tessuto
organico residuo. L’effetto di questo irrigante può essere fortemente inibito, anche se
non impedito del tutto, dalla presenza di residui dentinali e più in particolare dalla
matrice organica. L’attività antimicrobica della clorexidina, se rapportata all’NaOCl,
è inferiore, in presenza o meno di smear layer, in un periodo inferiore o pari a 60
minuti, mentre allungando i tempi di azione i due irriganti si equivalgano.
L’associazione di NaOCl e CHX può essere un ottimo complemento in caso di
infezioni ostinate in quanto ne aumenta l’azione antibatterica immediata.
Viene utilizzata solitamente al 2% e per la sua maggiore azione nei confronti dei
gram + rispetto ai gram -, è preferibile nei ritrattamenti rispetto che
nel trattamento delle infezioni endodontiche primarie (Molander et al.,1998).
Il contatto diretto tra CHX e NaOCl dovrebbe essere evitato a causa della
formazione di precipitati, tra i quali la paracloroanilina che sembra avere
effetti cancerogeni e mutageni, inoltre questa associazione può provocare
cambiamenti cromatici nelle strutture dentali.
Nei casi di denti perticolarmente infetti, si può optare per un protocollo di
disinfezione con l’uso combinato di CHX 2% e NaOCl 5.25%. L’ipoclorito deve
essere usato durante tutta la disinfezione del canale radicolare e poi “annullato” da un
lavaggio con soluzione salina. Dopo l’uso del chelante l’ultimo lavaggio viene
effettuato con la clorexidina che rinforza l’azione antibatterica desiderata.
Il cetrimide, surfattante cationico con attività antimicrobica e con la
capacità di far diminuire la stabilità meccanica del biofilm è presente in
combinazione con NaOCl o in associazione alla clorexidina in alcuni preparati
commerciali. Se usato in soluzione al 0,2% si è dimostrato simile per sostantività
alla Clorexidina al 2%. L’aggiunta di cetrimide nelle soluzioni irriganti ne
aumenterebbe l’effetto antibatterico in particolare contro l’e. faecalis nei tubuli
dentinali (Maria Ferrer-Luqueet al., 2014).
Le soluzioni irriganti possono essere usate con irrigazione passiva o attiva.
L’irrigazione passiva si ottiene iniettando lentamente un irrigante nel canale,
utilizzando una varietà di aghi flessibili di calibro diverso, appositamente dedicati
all’endodonzia. L’ago deve essere libero nel canale, non impegnato, per fare rifluire
l’irrigante e spostare i detriti coronalmente. Gli aghi devono essere provvisti di
aperture laterali e di una estremità chiusa. L’irrigazione passiva ha i suoi limiti perchè
una riserva statica di irrigante riduce la capacità che ha ogni reagente di
penetrare, circolare ed esercitare la su azione di detersione in ogni aspetto del
sistema dei canali radicolari.
L’irrigazione attiva è concepita come l’attivazione idrodinamica fluida e
promette una detersione più efficace del sistema canalare.
La semplice attivazione manuale (file, coni di guttaperca) o meccanica ( file,
strumenti sonici, brush rotanti) nel tempo è stata sostituita da metodiche più
performanti, tra queste, quelle che ad oggi sembrano dare i risultati migliori
sono l’irrigazione a pressione apicale negativa, l’attivazione ultrasonica e
l’attivazione dell’irrigante con il laser (Haapasalo et al., 2015, Haapasalo & Shen 2012,
Haapasalo et al, 2014).
3.4 Otturazione Canalare
Secondo le migliori indicazioni attuali, un canale adeguatamente preparato e disinfettato
deve essere otturato nel modo migliore possibile per prevenire la reinfezione del sistema.
Idealmente l’otturazione deve adattarsi alla superficie del canale preparato e sigillarlo
fino all’apice.
Normalmente le tecniche di otturazione prevedono l’uso di un materiale semirigido sotto
forma di cono (preferibilmente la guttaperca) associato ad un cemento endodontico o
sealer. Dopo un corretto posizionamento di uno strato sottile di sealer lungo tutto il
canale, il cono di guttaperca viene inserito semplicemente nel canale (cono singolo),
oppure inserito e compattato con tecniche a caldo (compattazione verticale a caldo),
oppure ancora inserito e successivamente accompagnato da ulteriori coni accessori
compattati lateralmente (compattazione laterale a freddo) per essere adattato
tridimensionalmente alla sagoma del canale. In alternativa la guttaperca può essere
veicolata all’interno del canale con un carrier più rigido di materiale plastico o a base di
guttaperca modificata, sempre in associazione con un sealer.
Tutte le tecniche attualmente in uso si sono dimostrate egualmente efficaci per garantire
un buon sigillo del canale. Recentemente una categoria di cementi endodontici (cementi
bioattivi, detti anche BECs) sembrano promettenti nel migliorare le capacità di chiusura
del binomio guttaperca + sealer nel canale otturato col cono singolo, date le loro
caratteristiche di adattabilità all’ambiente umido e la loro capacità di nucleare apatite
creando un sigillo con le pareti del canale.
Gli aspetti pratici di una buona otturazione endodontica prevedono una adeguata scelta
del cono principale (che si deve adattare alla preparazione del canale in termini di
conicità, ma soprattutto agli ultimi due-tre millimetri della preparazione apicale in modo
da produrre una buona chiusura del termine del canale. Prevedono inoltre una corretta
asciugatura del canale, un buon posizionamento del sealer e del cono, l’esecuzione
dell’otturazione mediante la tecnica selezionata e soprattutto la valutazione radiografica
della qualità del lavoro. Come specificato parlando della lunghezza di lavoro,
l’estensione dell’otturazione deve essere contenuta all’interno del canale terminando
idealmente in corrispondenza del forame. E’estremamente importante per la prognosi del
trattamento che l’otturazione endodontica non sia effettuata ad una lunghezza inferiore a
2 mm rispetto all’apice radiografico del canale (Li et al. 2014)
Infine i migliori risultati a lungo termine si ottengono quando il dente trattato
endodonticamente viene restaurato tempestivamente con una lavoro di buona qualità.
Fig. 7. Trattamento endodontico dell'elemento 16 con pulpite irreversibile e assenza
di segni di parodontite apicale e successiva finalizzazione con corona in disilicato di
litio.
4. Come prevenire la parodontite apicale nei denti traumatizzati
4.1 Probabilità di necrosi pulpare come e tempi di intervento.
Il trauma dentale è da considerarsi però un accidentale che non esaurisce le sue
conseguenze una volta risolta l’emergenza: spesso è difficile prevedere una corretta
prognosi degli elementi dentali coinvolti e bisogna poter monitorare a lungo il
paziente per intervenire tempestivamente anche dopo settimane, mesi o anni. Il
follow-up attento consentirà di limitare la comparsa di parodontite apicale acuta o
cronica e di aumentare il tasso di sopravvivenza dei denti traumatizzati.
Gli infortuni della regione orale sono molto frequenti nei primi dieci anni di vita e
tendono progressivamente a diminuire con l’aumentare dell’età: costituiscono il 5%
degli eventi per cui la popolazione richiede un intervento, in età prescolare addirittura
il 18% (prima causa di eventi traumatici) (Andreasen et al. 2007; Petersson et al.
1997). Tra questi le fratture coronali e le lussazioni sono in assoluto i più frequenti
(Andreasen et al. 2007; Petersson et al. 1997; Glendor et al. 1997).
I traumi dentali si manifestano nel 92% dei pazienti che hanno subito un incidente a
carrico della zona orale e spesso hanno conseguenze non solo sull’individuo
coinvolto, ma anche sulla sfera familiare, con un grosso impatto da un punto di vista
psicologico, sociale ed economico (Andersson 2013; Eilert-Petersson et al. 1997;
Glendor et al. 2007; Andersson et al.2010).
In questo senso rappresentano pertanto un problema di salute pubblica e, in alcuni
paesi dove l’incidenza della patologia cariosa è sensibilmente diminuita negli anni,
possono essere considerati la maggior minaccia per la dentizione anteriore
(Andreasen et al. 2007).
Il programma dell’OMS Health Promoting School Program sottolinea che trovare
soluzioni per la gestione dei traumi dentali sia un argomento che interessa non solo
l’ambiente medico: queste possono passare attraverso lo sviluppo delle politiche
socio comportamentali (controllo e prevenzione di violenza e bullismo), la maggior
diffusione di placche protettive negli sport di contatto, per arrivare fino al
miglioramento delle competenze cliniche dei servizi sanitari (WHO 1998; Sheiham et
al. 2000).
La prognosi di molti traumi dentali dipende dalla tempestività e correttezza del primo
intervento (Andersson et al. 2012; Maguire et al. 2000; Kahabuka et al. 1998):
diversi studi hanno dimostrato come la qualità del servizio di emergenza risulti
inadeguato e purtroppo anche la realtà italiana mostra grosse lacune. La IADT ha
proposto linee guida per la gestione dei traumi dentali consultabili online (www.iadt-
dentaltrauma.org). In questo senso sono state sviluppate anche diverse applicazioni
per smartphone alla portata di tutti, esperti e non, per potersi muovere correttamente
nei momenti dell’emergenza.
4.2 Le conseguenze pulpari del trauma dentale
Le conseguenze a carico degli elementi dentali traumatizzati possono essere varie a
seconda del tipo di lesione e gestione del trauma stesso.
Le conseguenze cliniche e la possibilità di necrosi pulpare (quando la letteratura ci
fornisce dati in merito), anche a distanza di tempo sono riportate di seguito
(Andreasen et al. 2007; Diangelis et al. 2012):
• Infrazione (crack dello smalto senza perdita di sostanza): rischio necrosi
pulpare 0-3,5%
• Frattura dello smalto (perdita di sostanza limitata allo smalto): rischio necrosi
pulpare 0-1% (fig.1)
• Frattura smalto dentinale non complicata (perdita di sostanza che coinvolge
smalto e dentina senza esposizione del tessuto pulpare): rischio necrosi pulpare
0-6%; aumenta fino al 25% dei casi se associata a lussazione (evento che
peraltro si verifica frequentemente) (fig.1 e fig.2.).
• Frattura smalto dentinale complicata (perdita di sostanza che coinvolge
smalto e dentina con esposizione del tessuto pulpare) fig. 4
• Frattura corono radicolare non complicata (perdita di sostanza smalto-
dentinale con coinvolgimento radicolare senza esposizione del tessuto pulpare)
• Frattura corono radicolare complicata (perdita di sostanza smalto-dentinale
con coinvolgimento radicolare ed esposizione del tessuto pulpare)
• Frattura radicolare (sono coinvolti dentina, cemento e tessuto pulpare,
relativamente poco frequenti nei traumi dentali, rappresentando lo 0,5-7% di
tutti gli eventi).
• Frattura alveolare (coinvolgimento del tessuto osseo alveolare di supporto
del dente, spesso si sovrappongono ad altre conseguenze a carico dei tessuti
circostanti).
• Concussione (lesione alle strutture di supporto del dente, senza aumento di
mobilità e senza dislocazione, ma con dolore alla percussione): rischio necrosi
pulpare 3%
• Sublussazione (lesione alle strutture di supporto del dente, con aumento di
mobilità e dolore alla percussione, ma senza dislocazione; possibile
sanguinamento dal solco gengivale): rischio necrosi pulpare 6%
• Lussazione estrusiva (dislocazione del dente dall’alveolo con lacerazione del
legamento parodontale, mobilità e spostamento assiale del dente; spesso anche
protrusione e retrusione; l’osso alveolare può essere intatto): rischio necrosi
pulpare 26%
• Lussazione laterale (dislocazione non assiale del dente con possibili
incrinature fratture dell’osso alveolare; compressione e conseguente
lacerazione del legamento parodontale; mobilità spesso assente): rischio
necrosi pulpare 58%)
• Lussazione intrusiva (dislocazione all’interno dell’osso alveolare con
incrinature o fratture ossee; certa compromissione del fascio vascolo nervoso):
rischio necrosi pulpare 85%
• Avulsione (fuoriuscita del dente dalla sede alveolare)
Fig. 8. Frattura dello smalto su dente 1.1
Fig.9. Frattura smalto-dentinale non complicata su dente 1.2
Fig. 10. Frattura smalto-dentinale non complicata su dente1.2,visione occlusale
La frequenza di necrosi pulpare in seguito a lussazione varia quindi dal 15 all’85%.
Due fattori in particolare incidono significativamente sulle conseguenze a carico della
polpa: il tipo di lussazione (il maggiore rischio è rappresentato dall’intrusione, poi a
Fig. 11. Frattura smalto-dentinale complicata su dente 2.1
seguire dalla lussazione laterale, dall’estrusione, dalla concussione e dalla
sublussazione) e lo stadio di sviluppo della radice (maggiore, 38% contro 8%, per i
denti con formazione dell’apice completata) (Andreasen et al. 2007).
La possibilità di necrosi è direttamente correlata alle dimensioni del forame apicale:
Andreasen e Kahler evidenziano che un diametro di 1.2mm ha una maggiore
possibilità di recupero di vitalità puplare se paragonato ad un diametro di 0.7mm
(Andreasen et al. 2015).
4.3 Raccomandazioni generali
Il rispetto delle linee guida garantisce fin dal primo contatto telefonico con il paziente
(motivo per il quale anche il personale dello studio deve essere informato ed istruito a
saper gestire queste situazioni) di poter mettere in atto tutte le misure necessarie per
stilare una corretta diagnosi e un adeguato trattamento, oltre che per poter fornire se
ce ne fosse bisogno un supporto medico legale.
4.4 Esame clinico
E’ opportuno raccogliere dal paziente, o da chi ne fa le veci, il maggior numero di
informazioni riguardo il trauma stesso. La compilazione della cartella clinica (meglio
se dedicata ai traumi in modo da non trascurare alcun dettaglio) deve essere integrata
da breve anamnesi medica e dentale e da foto della situazione iniziale.
L’esame clinico alla poltrona valuterà lo stato dei tessuti orali, periorali e gli
eventuali danni a carico dei denti. Talvolta sarà necessario pulire viso e cavità orale
con acqua o soluzione salina. Spesso in questa fase iniziale risulta difficile una
corretta esplorazione se presenti edema, gonfiore ed intenso dolore.
Le misure cliniche da eseguire in prima visita sono le seguenti:
• Esame dei tessuti molli orali e facciali alla ricerca di eventuali lesioni
• Palpazione dello scheletro facciale alla ricerca di eventuali fratture
• Ispezione dentale per evidenziare fratture, dislocazioni, mobilità, anomalie di
posizione
• Sondaggio parodontale
• Test termico, elettrico, mobilità e percussione
Come sottolineato ciascuna di queste manovre deve essere registrata nel diario clinico
del paziente per poter controllare nel tempo l’evoluzione del quadro.
I test di sensibilità (termico, percussione, compressione, elettrico) immediatamente
dopo un trauma possono risultare negativi anche per diverse settimane prima che il
tessuto pulpare possa rispondere normalmente; non devono essere quindi interpretati
in modo rigido (Diangelis et al. 2012). I test eseguiti a settimane di distanza devono
essere confrontati per studiare l’evoluzione dello shock vascolo nervoso e trarne
considerazioni terapeutiche e prognostiche.
Andreasen (Andreasen 1986) ha infatti introdotto il concetto di transient apical
breakdown (shock apicale transitorio), fase in cui l’organo pulpo-dentinale non
risponde ai classici test ed ha proposto di monitorare nel tempo alcuni traumi dentali
in modo non invasivo in assenza di altri segni o sintomi di patologia pulpare.
4.5 Esame radiografico
In genere si predilige una radiografia endorale della zona interessata eseguita con
centratore, ma non si può escludere di dover ricorrere ad una proiezione angolata
della stessa area, ad una radiografia del piano occlusale o ad una ortopantomografia.
Il ricorso ad esami più dettagliati come una CBCT può essere preso in considerazione
soppesando sempre prima i benefici diagnostici rispetto alla somministrazione di una
dose radiogena importante (Andreasen et al. 2007; Diangelis et al. 2012) soprattutto
nei bambini.
4.6 Obiettivi terapeutici
Il primo obiettivo a seguito di un evento traumatico è il recupero del tessuto pulpare e
dei tessuti parodontali e dipende in gran parte dal mantenimento dell’integrità pulpare
(in presenza di un ridotto apporto vascolare), dalla perdita di sostanza dentale e dalla
presenza di batteri (Lam 2016). Una percentuale variabile dal 26 al 76% degli
infortuni comporta infatti la perdita permanente di tessuto duro dentale (Robertson et
al. 1997; Kirzioglu et al. 2005).
Le complicanze a carico del tessuto pulpare possono essere processi pulpitici
reversibili o irreversibili, necrosi, calcificazioni canalari e riassorbimenti interni. I
tessuti periradicolari possono essere coinvolti da parodontiti apicali, riassorbimenti
esterni (infiammatori o da sostituzione), disturbi nel completamento dello sviluppo
radicolare, anchilosi, recessione dei tessuti molli. Altre complicanze sono
rappresentate da disallineamenti, discromie, malocclusioni, difficoltà masticatoria,
inestetismi.
La prognosi di molti incidenti dipende in gran parte dalla gestione corretta e
tempestiva del trauma.
Stilare una percentuale di successo e mantenimento dell’integrità pulpare e dei tessuti
periradicolari non è semplice a causa dell’alta variabilità delle tecniche e dei materiali
utilizzati, dei protocolli di gestione dell’urgenza e non ultimo a causa delle diverse
metodiche di registrazione dei casi che spesso non consente di confrontare i dati
raccolti.
Come visto nella parte introduttiva, fratture dentali confinate nell’ambito dello smalto
o della dentina rappresentano una potenziale porta d’ingresso batterica e di
conseguenza causa di infiammazione pulpare, tuttavia la necrosi in seguito a fratture
coronali non complicate è molto rara (0-6%).
Allo steso tempo un dente spesso subisce più danni in seguito ad un singolo trauma
(fig. 5): ad esempio un dente con frattura coronale non complicata può avere subito
anche una lussazione aumentando così il rischio di necrosi pulparefino al 25% dei
casi (Andreasen et al. 2007; Robertson et al. 2000).
Fig. 12. Trauma complesso dentale e coinvolgente tessuti orali e periorali Secondo alcuni autori (Wang et al. 2014) la probabilità di necrosi è maggiore per
denti che non hanno ricevuto una precoce protezione dell’organo pulpo-dentinale
rispetto a quelli dove sono state messe in atto le procedure di copertura dentinale con
tecniche adesive.
La protezione dell’organo pulpo-dentinale esposto diventa quindi un fattore
discriminante: anche senza esposizione del tessuto pulpare, la dentina esposta deve
essere protetta.
Anche la prognosi di fratture dentali complicate da esposizione del tessuto pulpare è
favorevole se vengono praticati i protocolli di protezione pulpare in modo corretto e a
breve distanza temporale dall’impatto che le ha provocate. L’intervento di
pulpotomia parziale porta ad alte percentuali di successo nel mantenimento della
vitalità pulpare (Cvek 1978).
Le tecniche proposte per la pulpotomia parziale variano dall’utilizzo del classico
medicamento a base di idrossido di calcio, all’impiego di MTA e dei materiali
bioceramici, alcuni dei quali a rapido indurimento, che consentono di procedere al
reincollaggio di un eventuale frammento o all’esecuzione di un restauro estetico
adesivo anche in una singola seduta.
Mantenere vitale il tessuto pulpare è possibile anche in seguito a fratture radicolari,
anche se queste comportano un maggiore rischio di necrosi.
I traumi che comportano una sublussazione o lussazione, quindi una dislocazione più
o meno importante del dente, hanno maggiore probabilità di compromettere il fascio
vascolo nervoso e quindi interrompere l’afflusso sanguigno all’organo pulpare.
La stabilizzazione mediante splintaggio (legatura) degli elementi traumatizzati è
richiesta per tutti gli eventi che hanno provocato una dislocazione.
Attualmente è indicato uno splintaggio di breve durata con contenzione morbida (es.
fili ortodontici di ridotto calibro e flessibili) in seguito a lussazioni, avulsioni e
fratture radicolari. Né il tipo di splint, né la durata dello stesso possono essere messi
in relazione alle possibilità di recupero del dente, per cui si predilige oggi il
riposizionamento corretto del dente per agevolare il comfort del paziente e la sua
funzione (Kahler et al. 2008, Andreasen et al. 2004).
La concussione non richiede (se non associata ad altre conseguenze) nessun
intervento se non il monitoraggio nel tempo.
La sublussazione può essere gestita con un semplice follow-up o con uno splint
morbido mantenuto per non più di 2 settimane.
La lussazione estrusiva richiede una riduzione manuale e stabilizzazione con splint
morbido per 2 settimane.
La lussazione laterale richiede una riduzione manuale o con pinze e stabilizzazione
con splint morbido per 4 settimane.
La lussazione intrusiva può essere gestita sia attendendo un’eruzione passiva del
dente, che con estrusione chirurgica o ortodontica. Il dente, una volta riposizionato,
deve essere stabilizzato per 4-8 settimane con splint morbido.
4.7 Follow-up
Le linee guida fornite dalla IADT prevedono il follow-up descritto di seguito in base
all’evento traumatico (Diangelis et al. 2012):
INFRAZIONE: no follow-up, a meno che non sia associata a concussione o
sublussazione
FRATTURA DELLO SMALTO: esame clinico e radiografico a 6-8 settimane e a 1
anno di distanza
FRATTURA SMALTO DENTINALE NON COMPLICATA: esame clinico e
radiografico a 6-8 settimane e a 1 anno di distanza
FRATTURA SMALTO DENTINALE COMPLICATA: esame clinico e radiografico
a 6-8 settimane e a 1 anno di distanza
FRATTURA CORONO RADICOLARE NON COMPLICATA: esame clinico e
radiografico a 6-8 settimane e a 1 anno di distanza
FRATTURA CORONO RADICOLARE COMPLICATA: esame clinico e
radiografico a 6-8 settimane e a 1 anno di distanza
FRATTURA RADICOLARE: a 4 settimane (4 mesi nei casi di fratture del terzo
cervicale della radice) rimozione dello splint; esame clinico e radiografico a 6-8
settimane, 4 mesi, 6 mesi, 1 anno e 5 anni di distanza
FRATTURA ALVEOLARE: a 4 settimane rimozione dello splint; esame clinico e
radiografico a 6-8 settimane, 4 mesi, 6 mesi, 1 anno e 5 anni di distanza
CONCUSSIONE: esame clinico e radiografico a 4 settimane, a 6-8 settimane e a 1
anno di distanza
SUBLUSSAZIONE: a 2 settimane rimozione dello splint; esame clinico e
radiografico a 4 settimane, 6-8 settimane, 6 mesi, e a 1 anno di distanza
LUSSAZIONE ESTRUSIVA: a 2 settimane rimozione dello splint; esame clinico e
radiografico a 4 settimane, 6-8 settimane, 4 mesi, 6 mesi, 1 anno e ogni anno per i 5
anni seguenti al trauma
LUSSAZIONE LATERALE: a 2 settimane rimozione dello splint; esame clinico e
radiografico a 4 settimane, 6-8 settimane, 4 mesi, 6 mesi, 1 anno e ogni anno per i 5
anni seguenti al trauma
LUSSAZIONE INTRUSIVA: a 2 settimane rimozione dello splint; esame clinico e
radiografico a 4 settimane, 6-8 settimane, 4 mesi, 6 mesi, 1 anno e ogni anno per i 5
anni seguenti al trauma
Il paziente o i genitori (nel caso si tratti di un minore) vanno informati su ogni
possibile conseguenza del trauma in modo che possano intervenire prontamente per
arrivare all’osservazione dello specialista: comparsa di dolore spontaneo, gonfiore dei
tessuti molli circostanti, discromie (rosa, rosso, giallo, grigio, nero), sono eventi che
possono subentrare e che devono essere segnalati e gestiti.
Riteniamo tuttavia di consigliare protocolli di controllo clinici (esame obiettivo, test
di sensibilità) più rigidi nell’osservazione a distanza di tempo del dente
traumatizzato: lievi discromie segno di differenti condizioni cliniche (es giallo:
restringimento del lume; rosa: riassorbimento infiammatorio) possono essere
sottovalutate dal paziente soprattutto a distanza di tanti anni dal trauma stesso (figg.
6-9).
Fig. 13. Raccolta ascessuale su dente che aveva subito 9 anni prima una frattura
smaltodentinale non complicata non seguita nel tempo
Fig. 14. Ampia tumefazione dei tessuti periorali
Fig. 15. Ampio riassorbimento osseo evidente alla cbct
Riassumendo, i traumi dentali possono essere così classificati in ordine crescente di
rischio di sviluppare una necrosi pulpare: concussione, sublussazione, estrusione,
lussazione laterale, intrusione. L’intrusione rappresenta la peggiore forma di
lussazione dove l’evoluzione necrotica è inevitabile nel dente ad apice maturo
(Andreasen 1970, Humphrey et al. 2003).
Per concludere un caso clinico di reincollaggio di un frammento in seguito ad una
frattura smalto-dentinale non complicata in cui la tempestività dell’intervento e la
corretta conservazione del frammento integro in soluzione fisiologica abbinate ad uno
stretto follow-up clinico e radiografico hanno consentito il mantenimento estetico e
funzionale dell’elemento dentale interessato e preservato la vitalità pulpare.
Fig. 16. Frattura smalto-dentinale non complicata dell’1.1.
Fig. 17. 1.1 visione occlusale: tessuto pulpare in trasparenza non esposto
Fig. 18. Radiografia iniziale
Fig. 19. Frammento del 1.1 mantenuto in soluzione fisiologica
Fig. 20. Isolamento del campo
Fig. 21. Reincollaggio del frammento del 1.1
Fig. 22. Sorriso del paziente subito dopo la rimozione della diga
Fig. 23. Controllo clinico a 3 anni di distanza
Fig. 24. Controllo radiografico a 3 anni di distanza: i tessuti periapicali sono in stato
di salute.
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