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Corso residenziale di formazione IdR - Bienno Assunta Steccanella 22.06.2014 1 Raccontare Dio agli infanti e ai fanciulli attraverso la mediazione delle parabole evangeliche Il tema che mi è stato affidato è particolarmente prezioso, mi auguro quindi di riuscire a tradurre qualcosa di questa preziosità, senza tradire la verità profonda di tutte e tre le coordinate che lo strutturano: 1. come dire Dio oggi, 2. ai nostri bambini, 3. alla sequela di Gesù. Vorrei però iniziare raccontandovi una storia. Prima di essere teologa, anzi alla radice di questa mia vocazione, viene il servizio di catechista, che ho iniziato circa trent’anni fa. Il mio modo di svolgere questo ministero ha naturalmente attraversato diverse fasi, come sa bene ogni educatore: durante uno dei primi anni mi era stato affidato un gruppo di bambini di prima, e la cosa mi aveva creato qualche difficoltà. Comunque cercavo di fare del mio meglio: gran cartelloni fatti insieme, schede da colorare sulla creazione, un bel lavoro su Dio che ci chiama per nome... un pomeriggio, a causa di un’emergenza, telefono all’ultimo minuto a suor Clara chiedendole di sostituirmi, non le posso dare il materiale, mi basta che ci sia qualcuno ad accogliere i bambini. La settimana dopo, prima del catechismo, vado da lei per informarmi su come sono andate le cose: “Tutto bene, mi dice, ho improvvisato raccontando loro la parabola della pecorella smarrita”. La ringrazio, e tutto riprende come il solito. Passano alcuni mesi e arriviamo all’ultimo incontro. Organizzo una piccola festa per i bambini con biscotti e bibite, e provo anche a fare una sorta di verifica. In effetti sono molto soddisfatta del mio lavoro, mi sembra di aver dato il massimo, ma vorrei capire bene cosa funziona con loro. Così chiedo: - Allora, bambini, qual è la cosa più bella che abbiamo fatto durante quest’anno? – e tutti, in coro: - La storia della pecorella smarrita! Non qualcosa che avevo proposto io, nulla di tutto quanto avevo personalmente elaborato preoccupandomi di didattica e di dottrina, ma la semplice, fedele ripetizione di una storia antica. E’ stato il mio primo incontro con la potenza comunicativa delle parabole di Gesù. 1. I bambini e le storie Ma perché l’impressione suscitata dalla narrazione era stata così forte? Uno dei motivi del suo successo, e uno dei motivi che ci spingono oggi a riflettere sulla prassi parabolica del Messia, è individuabile nella propensione alle storie che caratterizza la specie umana fin dall’inizio. Dice Bruner che (cito): “I racconti noi li ascoltiamo in continuazione, li raccontiamo con la stessa facilità con cui li comprendiamo racconti veri o falsi, reali o immaginari, accuse e discolpe li diamo tutti per scontati. Siamo così bravi a raccontare che questa facoltà sembra “naturale” quasi quanto il

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Corso residenziale di formazione IdR - Bienno

Assunta Steccanella

22.06.2014

1

Raccontare Dio agli infanti e ai fanciulli attraverso la mediazione delle parabole evangeliche

Il tema che mi è stato affidato è particolarmente prezioso, mi auguro quindi di riuscire a tradurre

qualcosa di questa preziosità, senza tradire la verità profonda di tutte e tre le coordinate che lo

strutturano:

1. come dire Dio oggi,

2. ai nostri bambini,

3. alla sequela di Gesù.

Vorrei però iniziare raccontandovi una storia. Prima di essere teologa, anzi alla radice di questa

mia vocazione, viene il servizio di catechista, che ho iniziato circa trent’anni fa. Il mio modo di

svolgere questo ministero ha naturalmente attraversato diverse fasi, come sa bene ogni

educatore: durante uno dei primi anni mi era stato affidato un gruppo di bambini di prima, e la

cosa mi aveva creato qualche difficoltà. Comunque cercavo di fare del mio meglio: gran cartelloni

fatti insieme, schede da colorare sulla creazione, un bel lavoro su Dio che ci chiama per nome... un

pomeriggio, a causa di un’emergenza, telefono all’ultimo minuto a suor Clara chiedendole di

sostituirmi, non le posso dare il materiale, mi basta che ci sia qualcuno ad accogliere i bambini. La

settimana dopo, prima del catechismo, vado da lei per informarmi su come sono andate le cose:

“Tutto bene, mi dice, ho improvvisato raccontando loro la parabola della pecorella smarrita”. La

ringrazio, e tutto riprende come il solito. Passano alcuni mesi e arriviamo all’ultimo incontro.

Organizzo una piccola festa per i bambini con biscotti e bibite, e provo anche a fare una sorta di

verifica. In effetti sono molto soddisfatta del mio lavoro, mi sembra di aver dato il massimo, ma

vorrei capire bene cosa funziona con loro. Così chiedo: - Allora, bambini, qual è la cosa più bella

che abbiamo fatto durante quest’anno? – e tutti, in coro: - La storia della pecorella smarrita! –

Non qualcosa che avevo proposto io, nulla di tutto quanto avevo personalmente elaborato

preoccupandomi di didattica e di dottrina, ma la semplice, fedele ripetizione di una storia antica.

E’ stato il mio primo incontro con la potenza comunicativa delle parabole di Gesù.

1. I bambini e le storie

Ma perché l’impressione suscitata dalla narrazione era stata così forte? Uno dei motivi del suo

successo, e uno dei motivi che ci spingono oggi a riflettere sulla prassi parabolica del Messia, è

individuabile nella propensione alle storie che caratterizza la specie umana fin dall’inizio. Dice

Bruner che (cito):

“I racconti noi li ascoltiamo in continuazione, li raccontiamo con la stessa facilità con cui li

comprendiamo – racconti veri o falsi, reali o immaginari, accuse e discolpe – li diamo tutti per

scontati. Siamo così bravi a raccontare che questa facoltà sembra “naturale” quasi quanto il

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linguaggio [...] La nostra frequentazione dei racconti comincia presto, nella vita, e continua senza

sosta”1.

L’impulso a narrare è profondamente naturale, segna tutte le culture. La narrazione è infatti una

prassi antropologica fondamentale, è in primo luogo una forma di pensiero, attraverso cui ogni

esperienza viene organizzata in una successione di fatti, legati coerentemente tra loro e orientati

verso una meta2.

Narrare è quindi mettere ordine, comporre la realtà in un insieme ricco di senso3: questa

sottolineatura è particolarmente significativa oggi, in un tempo in cui la frammentarietà segna

tanto a fondo la cultura, portando con sé il rischio molto concreto di indurre disorientamento e

confusione4.

Comprendiamo allora come questa prassi diventi preziosa se riferita ai più piccoli, che chiedono di

essere guidati nella loro scoperta di un senso verso cui crescere.

Questo funzione ordinatrice del presente (anche se si racconta qualcosa che è riferito al passato –

c’era una volta) è rafforzata dal fatto che narrare significa anche ri-presentare una realtà, ossia

fare in modo che tale realtà divenga in un certo senso contemporanea tanto a chi narra quanto a

chi ascolta.

Così, nel momento in cui incrocia la realtà di chi ascolta, l’atto del narrare consente di far

emergere significati noti e aspetti nuovi, e diventa una provocazione ad agire5.

Potremmo dire che nell’atto della narrazione il racconto funziona come una sorta di “specchio”,

nel senso che offre una certa immagine di mondo in cui è possibile riconoscersi, e che esercita la

sua influenza sui modi di vedere dei soggetti coinvolti, portandoli ad adottare certi valori piuttosto

che altri6.

1 BRUNER J., La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, Laterza, Roma-Bari 2002, 3; Bruner ritiene che vi sia una

predisposizione innata negli esseri umani a organizzare il pensiero in forma narrativa. 2 Cfr. BAUMGARTNER E. – DEVESCOVI A., I bambini raccontano. Lettura, interazione sociale e competenza narrativa,

Erickson, Trento 2001, 17, in cui leggiamo anche: «il pensiero narrativo è diverso da quello razionale e scientifico sia per modalità di funzionamento che per campo di applicazione. Il pensiero scientifico infatti si basa sulle assunzioni e le procedure proprie della logica e costituisce un valido sistema esplicativo per i fenomeni naturali e fisici e per i ragionamenti astratti propri della matematica. Il pensiero narrativo si basa invece sugli aspetti costitutivi degli eventi sociali (le persone che agiscono, i loro scopi, lo “scenario” in cui si muovono, gli strumenti a loro disposizione per risolvere i loro problemi) e sul modo in cui gli eventi si susseguono (sequenzialità)». 3 Cfr. STECCANELLA A., Ti racconto il nostro Gesù. Il catechista narratore, in «Catechesi» 82 (2012-2013) 5, 41-56.

4 Cfr. BAUMAN Z., Modernità liquida, Laterza, Roma 2006.

5 A proposito di questa terza dimensione, sappiamo che i testi biblici contengono sempre un appello alla vita del

lettore, una dimensione performativa, implicita o esplicita. Il racconto della salvezza (l’aspetto informativo della narrazione) è anche un racconto in vista della salvezza (aspetto performativo): cfr. PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Documento L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, 15 aprile 1993, cap. I, B, n. 2 “analisi narrativa”, in http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_19930415_interpretazione_it.html 6 Cfr. PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, L’interpretazione della Bibbia..., cit..

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A livello oggettivo, quindi, la narrazione mette ordine, ri-presenta, provoca ad agire.

Questi caratteri si integrano con ciò che avviene a livello soggettivo7.

La narrazione coinvolge fortemente la dimensione affettiva-emotiva.

Narrare non è fare un semplice resoconto o una lista di eventi. Di solito nelle storie è presente un

“paesaggio duplice”:

- lo scenario dell’azione, cioè gli eventi e gli accadimenti,

- lo scenario della coscienza, costituito dai vissuti emotivi e dagli eventi mentali dei

protagonisti.

La narrazione innesca tante emozioni: da quelle più mentali - come la curiosità, l’interesse, il

divertimento, la suspence - a quelle affettive - come la gioia, la tristezza, la paura - che nascono dal

coinvolgimento empatico con gli stati interiori e i punti di vista dei personaggi.

A partire dagli anni ’90 infatti si sono fatte strada ricerche che hanno studiato il modo in cui il

cuore, oltre alla mente, è implicato dalla narrazione di una storia8.

Questa affermazione consente di far emergere un dato rimasto finora implicito:

oltre a toccare diverse dimensioni della persona, la narrazione tesse legami, poichè il

coinvolgimento non riguarda solo chi riceve, ascolta una storia, ma anche chi la porge: narrare

infatti è un atto relazionale nel quale sono coinvolti in pienezza diversi soggetti.

Per supportare questa affermazione, è sufficiente considerare alcuni motivi per i quali i bambini

amano molto ascoltare le storie:

- narrando l’adulto normalmente si pone a completa disposizione del bambino. È una

condizione assai rara, soprattutto oggi, anche in ambito scolastico dove, spesso, si lavora in

prospettiva utilitaristica (per ottenere...), e il bambino ha la sensazione di partecipare ad

attività in seguito alle quali verrà poi ‘verificato’. Nell’ascolto di una storia, invece,

l’atteggiamento fondamentale che viene sollecitato è quello dell’accoglienza, della

gratuità, del dono ricevuto;

- il racconto è fonte di piacere per il bambino perché coinvolge la realtà fantastica e mette in

confronto le sue conoscenze con altri punti di vista;

- l’adulto è chiamato a sintonizzarsi con i bambini, sia a livello empatico che cognitivo; quindi

egli stesso cresce nella capacità di ascolto, accoglienza, comprensione di chi ha di fronte.

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FABBRI P., L’importanza della narrazione. I bambini e le storie, consultabile in http://www.psicoterapia.it/rubriche/approfondimenti/template.asp?cod=9942 8 Cfr. LEVORATO M.C. - NESI B., Imparare a comprendere e produrre testi, in CAMAIONI L. (Ed.), Psicologia dello sviluppo del

linguaggio, Il Mulino, Bologna 2001, 179-213.

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Nel rapporto tra il racconto con tutti i suoi contenuti e virtualità e la situazione vitale di chi narra e

di chi ascolta si origina quindi un dialogo9: si tratta di qualcosa di più che una semplice

trasmissione di informazioni, ci troviamo di fronte ad un atto relazionale, che chiama in causa

narratore e ascoltatore, creando tra di loro una sorta di legame, una sintonia.

L’intreccio tra la cura e l’attenzione amorevole del narratore e la sua proposta comprensibile e

provocatoria agli interlocutori fa della narrazione l’espressione viva di una esperienza viva10.

Sinteticamente: è possibile affermare che la narrazione è un atto simbolico, attraverso cui è

possibile tessere dei legami non solo fra soggetti, ma anche tra elementi distinti, che nella

narrazione vengono raccolti in un insieme sensato, dischiudendo così nuovi significati.

2. Gesù insegnava in parabole

Tutto quello che abbiamo detto è frutto degli studi di psicopedagogia che si sono moltiplicati negli

ultimi anni.

Però, da sempre, queste cose sono presenti a livello implicito nella prassi educativa. Ogni

educatore, ogni maestro che intendesse comunicare nuove conoscenze agli allievi, si è servito

della narrazione, di racconti, di esempi, di allegorie e parabole: si trattava e si tratta di un mezzo

che avvicina una realtà non nota al pensiero di coloro a cui la si vuol presentare, fa entrare nuove

cose nel campo visivo degli interlocutori, offre prospettive diverse per considerare una realtà che

già faceva parte del loro campo di esperienza.

La parabola, in particolare, sembra svolgere questa funzione di ponte che consente di raggiungere

ciò che prima era sconosciuto11.

Se ci soffermiamo sul significato del termine, scopriamo che nella sua radice greca parabola

(parabolè) deriva da parà (di fianco) e ballein (gettare), che significa mettere a fianco, confrontare.

Le parabole vengono descritte come brevi racconti che hanno lo scopo di far comprendere

attraverso concetti semplici contenuti difficili, o dare insegnamenti di tipo morale. Ancora più

ampio è il significato del termine ebraico mashal – tradotto con parabolè – nel cui campo

semantico vengono raccolti generi assai diversi tra loro: la parabola, il paragone, l’allegoria, la

9 Le teorie narratologiche, che costituiscono una corrente del pensiero ermeneutico, affermano che la narrazione ha lo

scopo di dialogare con un testo applicandolo alla propria situazione: «chi vuol comprendere un testo deve essere pronto a lasciarsi dire qualche cosa da esso. Perciò una coscienza ermeneutica educata deve essere preliminarmente sensibile all’alterità del testo. Tale sensibilità non presuppone né un’obiettiva ‘neutralità’ né un oblio di se stessi, ma implica una precisa presa di coscienza delle proprie pre-supposizioni e dei propri pre-giudizi», GADAMER H. G., Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, 316. 10

Paul Ricoeur, citato in VILLEPELET D., Il concetto di narratività in Paul Ricoeur, in BIEMMI E. - BIANCARDI G. (a cura), La catechesi narrativa, Elledici, Torino 2012, 21-31. 11

Cfr. RATZINGER J. BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, 228.

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favola, il proverbio, il discorso apocalittico, il detto enigmatico, lo pseudonimo, il simbolo, la figura

fittizia, l’esempio, il motivo, la giustificazione, la discolpa, l’obiezione, lo scherzo12.

Questi brevissimi cenni possono farci intuire come il termine ‘parabola’ abbracci una grande

varietà di significati e come sia davvero inadeguato ogni tentativo di ricondurle ad un unico genere

o ad un preciso scopo; tali cenni sono di aiuto anche per approfondire la comprensione di ciò che

narra l’evangelista Marco, quando dice che:

“Gesù insegnava loro molte cose in parabole. Con molte parabole di questo genere annunziava loro

la parola secondo quello che potevano intendere. Senza parabole non parlava loro; ma in privato,

ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa” Mc 4,2. 33-34

Gesù quindi, era un bravo maestro, usava questa tecnica con abilità, tanto che all’udirlo parlare

spesso le folle restavano stupite (Mt 7,28).

Ma il successo delle parabole del Messia è dovuto solo a questo? Tutto qui?

Riformulando la domanda da un altro versante, se la narrazione, offerta e ricevuta, è una prassi

antropologica fondamentale, presente in tutte le culture, che cosa rende speciale la prassi

parabolica di Gesù?

Rispondere a questa domanda porta in primo luogo a riconsiderare in modo più profondo quanto

abbiamo già detto dal versante antropologico. La narrazione di una storia, un esempio, una

parabola

mette ordine, ri-presenta, provoca ad agire

coinvolge la dimensione affettiva-emotiva

è un atto relazionale e simbolico, attraverso cui è possibile tessere dei legami

Potremmo ripercorrere ogni parabola del vangelo, individuandovi queste dimensioni, e

chiedendoci: Che cosa le qualifica evangelicamente?

Ad un primo livello, è interessante ricordare come gli studi di esegesi sottolineino il nesso

profondo che esiste tra i racconti di miracoli e le parabole: sia gli uni che le altre sono opere da

interpretare13. I miracoli sono opere compiute (opere somatiche), le parabole sono opere dette

(opere narrate): sono cioè eventi di linguaggio che

12

Cfr. JEREMIAS J., Le parabole di Gesù, Paideia, Brescia 19732, 14.

13 Cfr. BORDONI M., Gesù di Nazaret. Presenza, memoria, attesa, Queriniana, Brescia 2000

4, 156-157.

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1. Introducono nelle situazioni una nuova possibilità reale.

2. Costringono l’ascoltatore ad una decisione.

Per comprendere le parabole occorre quindi prestare attenzione all’azione dei personaggi. È

nell’azione che si cela il messaggio, e proprio attraverso l’azione emerge la provocazione che esse

contengono14.

Possiamo vedere qui, oltre alla concretizzazione di quanto detto sulla funzione provocatoria della

narrazione (funziona come uno specchio, provoca ad agire), un elemento molto importante per

comprendere la fecondità di questi racconti in relazione agli infanti e ai bambini, che ancora non

sono in grado di eseguire operazioni formali, ma sono legati alla concretezza15.

Ma, ancora, questa dimensione pratica si presta al rischio di una lettura riduttiva, di stampo

morale: Jeremias ci aiuta a mantenere una riserva critica verso questa riduzione, quando afferma

che «nessuno metterebbe in croce un maestro che racconta storie piacevoli per rafforzare

l’intelligenza morale»16, ossia per trasmettere solo un modo buono di agire.

Facciamo allora un altro passo. Nei sinottici le parabole sono il cuore della predicazione di Gesù,

addirittura la forma privilegiata dell’annuncio del Regno: esse non costituiscono un modo per

rendere il messaggio chiaro ed accessibile, né uno strumento che serve di appoggio ad una

dottrina (teorica) indipendente, o un aiuto per parlare semplice a gente semplice: Gesù parlava in

parabole anche ai dottori della legge17.

Questo, per noi, significa che dire Dio ai nostri bambini attraverso le parabole evangeliche implica

qualcosa di più che l’utilizzo di una tecnica di comunicazione (la narrazione) per trasmettere in

modo semplice (la parabola) dei contenuti difficili (il discorso su Dio).

E allora?

“Quando poi fu solo, i suoi insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole” Mc 4,10

In fondo sperimentiamo sempre di nuovo come accada anche a noi quello che succedeva ai

contemporanei di Gesù: siamo condotti a chiedergli che cosa vuole dirci con ognuna delle sue

parabole.

14

Cfr. DUPONT J., Il metodo parabolico di Gesù, Paideia, Brescia 2007, 5. 15

Cfr. le fasi dello sviluppo mentale del bambino in Piaget. 16

Jeremias, 15. 17

Cfr. Maggioni B., Le parabole evangeliche, Vita e pensiero, Milano 1992, 7.

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Ci avviciniamo così al nucleo della riflessione: rinunciare alla pretesa di aver già capito, dischiudere

mente e cuore alla possibilità di un significato altro, ulteriore rispetto a quanto potrebbe apparire

ad un primo livello, è elemento fondamentale per dire la preziosità di questa prassi.

Abbiamo anticipato che le parabole sono la forma privilegiata dell’annuncio del Regno: esse cioè

narrano la signoria di Dio e ne affermano la presenza, già qui e ora.

A proposito di Dio e del suo mistero non è infatti possibile altro linguaggio che questo: «Dio è al di

sopra dei nostri pensieri e delle nostre parole: per parlare di Lui dobbiamo utilizzare le esperienze

che abbiamo a disposizione»18. È proprio da questa origine che derivano le tre caratteristiche del

linguaggio parabolico:

1. È inadeguato perchè deriva dal quotidiano ma pretende di esprimere l’assoluto.

2. È aperto, ossia capace pur nei suoi limiti di alludere al Regno, che trascende la nostra storia

ma le è anche intimamente legato.

3. Costringe a pensare perchè non definisce, non lascia tranquilli, ma allude, provoca,

costringe ad andare oltre.

Per questo si dice che le parabole sono ambivalenti, capaci di svelare e nascondere: si possono

affermare molte cose su una parabola, senza tuttavia coglierne il senso.

Esse sono pienamente comprensibili e condivisibili solo in una prospettiva di fede, ma vale la pena

sottolineare che per fede non si intende in primo luogo una esplicita fede religiosa.

Ad essere implicata è, più radicalmente la fede in senso antropologico, intesa come dinamismo

aperturale dello spirito umano, necessario per vivere, assolutamente personale ma che si

manifesta solo nell’incontro con l’altro da sé, all’interno di un tessuto sociale19; tale fede

elementare si manifesta quindi come apertura all’altro, in senso relazionale: è questa apertura che

è feconda, consente un avvenire, rende possibile il riconoscimento e l’accoglienza dell’annuncio20.

Se analizziamo la prassi parabolica di Gesù (penso p. es. al contesto in cui viene narrata la parabola

del buon Samaritano) vediamo che Gesù fa in modo che le persone si sentano chiamate in causa, e

18

Maggioni, 7; cfr. anche ibid., 8. 19

Interessanti osservazioni sullo spirito umano come strutturale apertura, invocazione e anticipazione di senso, che rende possibile, tra l’altro, il riconoscimento del Dio che si rivela, in K. RAHNER, Uditori della parola, Borla, Roma 1977

2,

p. es. 83; E. SALMANN, Presenza di spirito. Il cristianesimo come gesto e come pensiero, EMP, Padova 2000, 25-27; cfr. anche P. SEQUERI, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996, 370-371. Per un esauriente quadro della struttura originaria della coscienza credente, cfr. R. TOMMASI, La forma religiosa del senso, EMP, Padova 2009, 438-447. 20

Cfr. STECCANELLA A., Alla scuola del Concilio per leggere i “Segni dei tempi”, EMP-FTTr, Padova 2014, 268-269.

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che la risposta venga da dentro di loro. Così le coinvolge e le costringe ad uscire dalle proprie

precomprensioni.

Quando Gesù educa attraverso le parabole, infatti, conduce chi lo ascolta dalla vita al Vangelo.

Ciò che racconta parte da una esperienza, in cui egli è coinvolto ma in cui anche chi lo ascolta può

riconoscersi.

In tal modo i protagonisti della storia sono l’ascoltatore, che sente un messaggio che lo tocca nella

propria esistenza, Dio che si fa vicino, Gesù stesso, che narra implicando la propria esperienza nel

racconto.

La buona notizia che egli trasmette, il contenuto della parabola, è straordinaria: Dio cammina con

te, ti dà la forza per superare gli ostacoli, ti sostiene attraverso i tuoi fratelli.

Il linguaggio con cui si esprime è tale che chi ascolta non può rimanere indifferente, in quanto si

sente implicato nella storia, se ne sente protagonista, ed è provocato a modificare il proprio modo

di vedere le cose, e quindi il proprio modo di agire.

Così, l’azione di Gesù che è partita dalla vita concreta per seminarvi il Vangelo, ha come effetto

una spinta ad essere nuovi, il passaggio dal Vangelo alla vita.

Questo è ciò che viene attivato dal nostro versante.

E da parte di Gesù? Che cosa ci offre?

Attraverso le parabole Gesù ci offre il significato della sua missione: per comprendere questa

affermazione sarebbe sufficiente ripercorrere tutte le parabole che parlano del seme (il

seminatore ed il seme che cade in terreni diversi, il Regno che è presente come un piccolo seme, il

buon seme e la zizzania: il seme è presenza del futuro, anticipo di ciò che verrà) e cogliere ciò che

Egli svela la domenica delle Palme: “Se il chicco di grano caduto interra non muore, rimane solo; se

invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Gesù stesso è il seme. E’ quindi sulla croce che le

parabole vengono decifrate, è nella luce di Pasqua che diventano vere.

Le parabole, come in generale la Scrittura, non sono mai storie a se stanti, narrazioni episodiche e

contestuali, ma vanno lette in unità e totalità, perché

1. contengono una conoscenza che ci reca un dono: ora, nel tempo che ci è dato di vivere, il

Dio che è amore è in cammino verso di noi.

2. Ed è una conoscenza che ci chiede qualcosa: credi e lasciati guidare dalla fede.

Abbiamo raggiunto quindi un risultato importante: a livello antropologico, la narrazione emergeva

come atto relazionale attraverso cui due persone, narratore e ascoltatore, intessono un legame.

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Quando avviene in ambito di fede, tale l’atto si arricchisce di un nuovo protagonista: dice mons.

Bruno Forte che «per la fede biblica il racconto delle gesta di redenzione operate dal Signore è

“memoria pericolosa”, capace di attualizzare nel presente la salvezza di Dio»21.

Nell’atto di narrare la fede si intrecciano quindi non due ma tre storie personali:

1. La storia di Dio che in Cristo si fa vicino

2. La storia del narratore che racconta ciò che ha vissuto in prima persona (l’incontro con Dio

che trasforma la vita)

3. La storia di chi accoglie il racconto, che si lascia coinvolgere perché sente che lo riguarda.

Tessendo insieme queste tre storie è possibile “dare un nome” alle cose e agli eventi della propria

vita e scoprirvi la presenza di Dio.

3. I bambini come parabola

Per questo possiamo acconsentire alla pretesa del Vangelo: le sue storie sono logoi – storie vere.

Una storia è vera quando contribuisce con qualcosa di importante alla comprensione delle cose,

quando ha qualcosa di illuminante da dire sulle nostre difficoltà interiori (Bettleheim).

Potremmo chiederci come mai questo non accada con la frequenza che vorremmo. C’è forse

qualcosa nella nostra prassi di comunicazione del Vangelo che va integrato? Qualche

suggerimento ci viene ancora da un racconto, una pièce teatrale in cui c’è un dialogo tra una

bimba e il suo papà:

ANNA – Dove si va quando si dorme? Quando tutto si spegne, quando non si sogna nemmeno?

Dove si passeggia? (dolcemente) Dimmi papà, se noi ci risvegliassimo da tutto questo, da Vienna,

dal tuo ufficio, da questi muri, e da loro… e se venissimo a sapere che anche tutto questo non era

che un sogno… dove avremmo vissuto?

FREUD – Tu sei rimasta una piccola bambina. I bambini sono spontaneamente filosofi: pongono

delle domande.

ANNA – E gli adulti?

FREUD – Gli adulti sono spontaneamente stupidi: rispondono”22.

21

Cfr. FORTE B., Narrare la vita, narrare il Sacro, Chieti, 19 dicembre 2008, in

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/55/2008-12/20-195/narrare%202008.pdf 22

Il dialogo è tratto da SCHMITT E.- E., Le Visiteur, Actes Sud, Arles, 1994. Le Visiteur è una pièce teatrale ambientata a Vienna nel 1938: i nazisti hanno invaso l’Austria e perseguono gli ebrei. Sigmund Freud rimane ottimista e non vuole ancora partire; ma, in una sera d’aprile, la Gestapo prende la figlia Anna per interrogarla. Freud è disperato. Riceve però una strana visita: un uomo in frac, un po’ dandy, cinico, entra dalla finestra e propone discorsi incredibili. Chi è? un matto? un mago? un sogno di Freud? una proiezione del suo inconscio? O proprio colui che pretende di essere, Dio stesso? Come Freud, ciascuno deciderà, in questa notte folle e pesante, chi è il visitatore…

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La definizione è estrema, ma descrive bene ciò che ci mette in difficoltà nei confronti, in questo

caso, delle parabole: non abbiamo domande. Siamo convinti di aver capito, in noi albergano solo

risposte.

Spesso siamo intrappolati nel meccanismo della ricerca scientifica (uno degli idoli del nostro

tempo, che ci dice come è nata la parabola, per quale comunità, in quali circostanze... e ci

convince di saperne tutto)23 o abbiamo il pilota automatico innestato, per cui siamo assuefatti a

sentire il racconto e non ci lasciamo più sorprendere.

Invece lo stupore, la sorpresa che nascono dall’apertura accogliente sono caratteristici dei piccoli,

che assumono una prospettiva assai vicina a quella che caratterizzava i contemporanei di Gesù e

che quindi determinava la sua prassi di predicazione24. In tal modo essi hanno qualcosa da

insegnarci, e non solo da apprendere.

E’ infatti a questo sguardo aperto, capace di stupore, umile ed accogliente che ci sollecita Gesù,

quando fa dei bambini la nostra parabola fondamentale:

“In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini non entrerete nel

regno dei cieli” Mt 18,3: non ci vuole innocenti, ci vuole aperti!

4. Alcuni elementi didattici

Le parabole vivono di una dinamica dialogica, simbolica, circolare, che deve continuamente essere

tenuta in considerazione e che, operativamente, ci chiede di adottare alcune semplici strategie.

I - Accogliere

Come abbiamo visto, la prima dimensione, previa ad ogni parassi narrativa, è quella dell’apertura.

Dobbiamo farci accoglienti, metterci nella disposizione dell’ascolto, secondo le tre determinazioni

che abbiamo già incontrato:

1. Ascoltare/accogliere la storia di Dio che cammina con noi: lasciarsi provocare dalle pagine

della Scrittura, per scoprirvi la bellezza sempre nuova e sempre antica che il Signore,

attraverso la Sua parola luminosa, dissemina nella nostra vita25; consentire che questa

parola ci provochi e ci scuota.

2. Ascoltare/accogliere ciò che la nostra vita ci propone: Quali sono i valori e le relazioni che

ho scoperto essere più importanti per essere felici/salvi? Come la mia quotidianità

promuove oppure ostacola l’incontro con Cristo e con i bambini? Più radicalmente, come

mi sento? Cosa mi preoccupa? Cosa mi dice oggi questa parabola, come intercetta mio

modo di vivere e di pensare? 23

Cfr. Maggioni 16-17 24

Cf. Maggioni, 10. 25

AGOSTINO, Confessioni, X, 38.

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3. Ascoltare/accogliere le narrazioni dei bambini: cosa possono narrare i bambini? Le proprie

esperienze, la vita familiare, di gioco... Se non possiamo chiedere loro, direttamente, di

raccontarsi, possiamo e dobbiamo cercare di capire la loro situazione vitale, conoscerli,

ascoltandoli nei momenti di dialogo, familiarizzando con il loro linguaggio... dobbiamo

averli in sim-patia.

Mi permetto una piccola chiosa su questo atteggiamento: in un suo articolo, il card. Martini

diceva: «Seguendo rigorosamente il principio che in interiore homine habitat veritas, cioè che la

verità abita nell’interno dell’uomo, Agostino è del parere che nessuna persona può insegnare

alcunché a un’altra. È soltanto possibile far risuonare dall’esterno dei segni che, se approfonditi

dalla persona stessa, la aiutano a mettersi con autenticità di fronte a ciò che cerca»26.

Ebbene, la risonanza acustica è un fenomeno fisico per cui un suono si trasmette a due strumenti

- diapason, corda tesa o simili - accordati sulla stessa nota. E’ sufficiente fare vibrare uno dei due,

che anche l’altro si mette a vibrare e suona per risonanza. I fisici dicono che la risonanza si verifica

per simpatia.

II – Narrare

La Parola di Dio che troviamo nelle Scritture chiede di essere raccontata proprio perché è viva

Dobbiamo quindi scoprire il piacere di raccontare

ricordandoci che siamo chiamati a dare vita alle parole scritte: questo è possibile se amiamo le

Scritture, e cerchiamo di aprirci e andare oltre quello che crediamo di sapere. C’è sempre di più, la

Parola di Dio è sempre una sorpresa!

Un elemento indispensabile è conoscere le storie nella Bibbia. Narrare le storie evangeliche

significa intendere il testo sacro non come un insieme di episodi isolati, accostati uno all’altro, ma

come un racconto unitario, in cui il significato dei brani precedenti trova progressivamente

chiarezza e arricchimento nei brani successivi27.

Purtroppo l’attenzione ad avvicinare una parabola o una storia della bibbia non come un

frammento a se stante, ma inserito nella globalità della Scrittura, è ancora troppo debole nella

nostra prassi, e questo moltiplica le nostre difficoltà.

26

C. M. MARTINI, Le risposte e le verità da non nascondere, in http://www.corriere.it/cultura/speciali/2009/martini01/notizie/test10_5682e830-600f-11de-bd53-00144f02aabc.shtml 27

Cfr. ALTER R., L’arte della narrativa biblica, Queriniana, Brescia 1990, 22. Per chiarire, recupero solo il racconto di Marta e Maria, che si trova nel medesimo capitolo del vangelo in cui c’è il racconto del Samaritano (Lc 10): “scegliersi la parte migliore” per il samaritano consiste in un agire concreto, che non si risolve solo nel pregare e studiare la Legge, come fanno invece il sacerdote e il levita; nel caso delle sorelle sembra però che Gesù affermi il contrario, poiché rimprovera Marta che agisce. Allora si comprende che il riferimento alla “parte migliore” non riguarda la differenza, e la presunta superiorità, tra vita contemplativa e vita attiva, ma la disposizione con la quale le avviciniamo, la capacità di dare l’importanza adeguata alle cose e alle persone, facendoci illuminare dallo Spirito di amore.

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III – Cercare insieme

La narrazione è un passo importante, ma come abbiamo detto il cammino è circolare, e

prolungato. Si tratta di un processo nel quale noi, e chi ci è affidato, siamo chiamati a cercare

insieme. Il compito specifico dell’educatore è creare spazi di riflessione e risonanza.

Le modalità per farlo sono molte, e le conosciamo e le attuiamo spesso. Dobbiamo provare a far

interagire i bambini con la parabola, attraverso le strategie del ri-racconto, del dialogo, della

drammatizzazione, della rappresentazione grafica... In tal modo la Parola raccontata, vissuta,

giocata con gli altri lungo il percorso scolastico, può dischiudere le proprie ricchezze e potenzialità.

Sette regole minime:

1. Lasciarci interrogare personalmente dalla parabola.

2. Non proiettare le nostre preoccupazioni sul racconto.

3. Assumere uno stile scorrevole, sobrio.

4. Insistere sull’azione concreta, raccontare fatti senza indugiare su descrizioni di luoghi o

spiegazioni/motivazioni.

5. Mantenere l’indeterminatezza.

6. Superare la tentazione del riduzionismo etico, evitando la moralizzazione.

7. Creare spazi di restituzione anche attraverso l’interazione tra bambini: un dialogo o una

rappresentazione comune rafforzano il senso di appartenenza comunitaria.

“Ad un rabbi, il cui nonno era stato discepolo di Baalshem, fu chiesto di raccontare una storia.

“Una storia egli disse, va raccontata in modo che sia essa stessa un aiuto”. E raccontò:” Mio nonno

era storpio. Una volta gli chiesero di raccontare la storia del suo maestro. Allora raccontò come il

santo Baalshem solesse saltellare e danzare mentre pregava. Mio nonno si alzò e raccontò e il

racconto lo trasportò tanto che ebbe bisogno di mostrare saltellando e danzando come facesse il

maestro. Da quel momento guarì”. Così vanno raccontate le storie28.

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