crisi di fine '800

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storia italiana del XIX secolo

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Page 1: crisi di fine '800

LA CRISI DELLO STATO LIBERALE IN ITALIA ALLA FINE DELL' '800

Tra il 1893 e il 1901 l'Italia attraversò una profonda crisi politica e istituzionale. Il fenomeno investì anche il

resto d'Europa, ma nel Bel Paese, con Crispi, Di Rudinì e Pelloux, assunse i caratteri di una svolta

autoritaria. La classe di governo scontava tutti i suoi limiti: ovvero l'incapacità di conciliare le convinzioni

liberali con le istanze sociali di una società atomizzata.

INTEGRAZIONE O REPRESSIONE?IL DILEMMA DI FINE '800di ROBERTO POGGI

I moti del 1898 e la battaglia parlamentare contro le tentazioni autoritarie di una parte della classe dirigente

liberale non furono che il momento culminante di una crisi che affondava le sue radici nella ristrettezza delle

basi sociali dello stato unitario. Sarebbe tuttavia errato ritenere che la crisi di fine secolo delle istituzioni

liberali fosse una peculiarità italiana, un fenomeno strettamente legato ai limiti del Risorgimento.

Analizzando, ad esempio, le forti tensioni politico-sociali della Terza Repubblica francese, attraversata da

fremiti boulangisti e da passioni antidreyfusarde, risulta evidente come la crisi di fine secolo fu un fenomeno

europeo che investì, seppur con modalità e caratteristiche diverse, tutte le classi dirigenti della vecchia

Europa. L'essenza della crisi di fine secolo, al di là delle differenze nazionali, consistette nella difficoltà,

culturale prima ancora che politica, delle classi dirigenti di mantenere fede alle proprie convinzioni liberali di

fronte al fenomeno dell'organizzazione delle classi subalterne.

Le tentazioni autoritarie così come il dilemma tra la repressione delle classi popolari e la loro integrazione nel

sistema politico non furono un'anomalia italiana, ma un destino comune alla classe politica europea a partire

sin dagli anni ottanta dell'ottocento.

Il primo tentativo di conquista coloniale, abortito con la sconfitta di Adua del 1896, si inserì nel più ampio

contesto del progetto politico crispino di edificare una democrazia autoritaria che innovasse la tradizione

liberal moderata italiana con elementi democratici, stemperati da suggestioni bismarckiane. L'affermazione

imperialista in Etiopia e la repressione sul piano interno della minaccia socialista e anarchica avrebbero

dovuto dimostrare la forza e la compattezza dello stato, mentre un ampio ventaglio di riforme economiche e

sociali avrebbero dovuto ampliare le basi del consenso allo stato liberale e porre le premesse per lo sviluppo

economico e la conseguente soluzione della questione sociale.

In questa confusa miscela politica, resa seducente dall'irruente personalità dello statista siciliano,

l'autoritarismo finì per avere il sopravvento sulle aperture liberal democratiche. Nelle sue prime esperienze di

governo, tra il 1887 ed il 1891, Crispi riuscì a mantenere un certo equilibrio tra il rafforzamento dei poteri di

controllo e di intervento dello stato e la matrice democratica della sua formazione. Si pensi ad esempio alla

legge comunale provinciale del 1888 che concesse ai comuni maggiore autonomia: ampliò l'elettorato

amministrativo, rese elettivo il sindaco dei centri con più di diecimila abitanti, sottrasse al prefetto la

presidenza della giunta provinciale. A controbilanciare queste indubbie aperture liberal democratiche

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intervenne una più marcata dipendenza degli enti locali dal centro con l'allargamento dei poteri di controllo

del prefetto, posto a capo di un nuovo specifico organo: la giunta provinciale amministrativa.

Un significato simile assunse il perfezionamento del carattere garantista dell'ordinamento giuridico. Alla

riforma dei codici penale e di procedura penale - che introdusse maggiori garanzie procedurali, sancì la

libertà di sciopero pacifico e abolì la pena di morte - e al completamento del sistema della giustizia

amministrativa - concretizzatosi nella creazione della quarta sezione del Consiglio di Stato come suprema

istanza di giudizio dei ricorsi contro atti amministrativi - corrispose un accrescimento della discrezionalità del

governo in materia di ordine pubblico e di libertà personali. Crispi affermò un orientamento nettamente

classista, offrendo agli strati sociali inferiori minori e più fragili garanzie. Oziosi, indigenti e vagabondi furono

affidati al controllo preventivo della pubblica sicurezza. L'introduzione di strumenti come l'ammonizione, il

rimpatrio obbligatorio, la sorveglianza speciale e il domicilio coatto furono finalizzati alla repressione delle

cosiddette "classi pericolose".

Nell'ultimo ministero Crispi, tra il 1893 ed il 1896, l'equilibrio tra autoritarismo e liberal democrazia si ruppe

irrimediabilmente. E gli intenti riformisti rimasero impantanati nelle aule parlamentari, a causa delle

contraddizioni della composita maggioranza crispina, in cui coesistevano spezzoni della più dinamica

borghesia produttiva del nord e ampi settori della più retriva e immobile proprietà fondiaria meridionale.

I propositi del ministro delle Finanze Sidney Sonnino di risanare il bilancio introducendo un controllo più

rigoroso e severo della spesa pubblica, tagliando gli sperperi e le spese clientelari, praticando una maggiore

equità fiscale e aumentando la pressione fiscale non solo indiretta, si infransero contro l'ampia opposizione

del Parlamento. La Camera non si oppose al ricorso al tradizionale inasprimento della tassazione indiretta

che gravava sui consumi popolari, come sale, zucchero, alcool, fiammiferi, gas, elettricità; rifiutò invece con

decisione la proposta di Sonnino di aumentare le tasse di successione, di ripristinare l'imposta fondiaria e di

varare una nuova imposta generale sulle rendite, una imposta progressiva sul reddito complessivo delle

persone fisiche e un aggravio della tassazione sui titoli del debito pubblico. Neppure i progetti di legge,

elaborati dallo stesso Crispi, sui contratti agrari, sull'enfiteusi dei beni degli enti morali e sui miglioramenti dei

latifondi privati nelle province siciliane, che avrebbero dovuto colpire il latifondo e affrontare il profondo

disagio sociale delle popolazioni contadine - testimoniato dal movimento dei fasci siciliani -, ebbero miglior

accoglienza in seno alla maggioranza.

L'accordo che era mancato sul terreno delle riforme economiche e sociali, a causa delle resistenze degli

agrari meridionali, si trovò invece sia nella repressione del movimento socialista, a partire dai fasci siciliani,

sia, seppur con maggiori difficoltà per lo scetticismo della borghesia settentrionale, nell'impresa etiopica,

consolidando il volto più arcigno, autoritario ed imperialista del crispismo.

La catastrofe di Adua non provocò soltanto una battuta d'arresto nell'espansione coloniale italiana, ma

compromise la credibilità stessa dello stato liberale, facendo da moltiplicatore delle tensioni sociali

accumulatesi negli ultimi decenni. La pessima prova sul campo dell'esercito, espressione della tradizione

monarchica, ed il fallimento della megalomania di Crispi, che aveva ammaliato una parte dell'opinione

pubblica ed atterrito l'altra, resero più stridenti i contrasti sociali che fino ad allora erano rimasti latenti,

soffocati dalla retorica patriottica tardo risorgimentale e dalle illusioni imperialiste.

Il ritorno al governo, con il marchese Di Rudinì, della tradizione liberale moderata non fu sufficiente a riparare

le crepe apertisi nell'edificio unitario; né coincise con la sperimentazione di nuovi metodi per tentare di

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arginare e di frenare il processo di mobilitazione sociale e l'affermazione dei movimenti socialista e cattolico.

La sanguinosa repressione, nel maggio del 1898, dei tumulti popolari, generati dal rincaro del prezzo del

pane, in Romagna, in Puglia, in Toscana, nelle Marche, dapprima con i caratteri tradizionali delle rivolte

contadine, spontanee e distruttive, poi con crescenti contenuti politici nelle grandi città del nord come Milano,

dove il moto ebbe un aspetto quasi insurrezionale, mise in piena luce l'incapacità della classe dirigente

liberale, anche nella sua componente anticrispina, di comprendere la vera origine dei conflitti sociali.

Il governo Rudinì non ebbe esitazioni nel considerare l'ondata di proteste e di sommosse popolari come un

grave problema di ordine pubblico da risolvere con l'uso della forza, senza neppure prendere in

considerazione l'eventualità di incidere sulle cause profonde del diffuso disagio sociale. Accompagnò la

temporanea riduzione del dazio sul grano, volta a contenere il rincaro del prezzo del pane, con il richiamo

alle armi di quarantamila uomini. Accantonò invece frettolosamente l'ipotesi di distribuire grano ad un prezzo

politico per non alterare le inviolabili leggi del libero mercato.

Il proliferare delle manifestazioni di protesta e degli scontri, anziché mettere in evidenza agli occhi dell'élite

liberale l'ansia delle masse popolari di migliorare le proprie condizioni materiali, accreditò l'dea dell'esistenza

di un piano insurrezionale ordito dai tradizionali nemici dello stato unitario nella sua forma liberale e

monarchica: anarchici, socialisti, repubblicani e cattolici. Persino la stampa borghese che inizialmente aveva

parlato di rivolta della fame, senza tacere critiche, anche dure, all'operato del governo, perse ogni obiettività

di analisi, denunciando la presenza di centri di coordinamento occulti della rivolta, non appena la protesta

coinvolse gli operai milanesi. Lo sforzo della dirigenza socialista di contenere i tumulti per il pane, che

considerava una espressione anacronistica, degna del più rozzo sottoproletariato, fu completamente

ignorato sia dal governo, sia dalla stampa.

Alla base del deficit culturale che impediva, tanto a Crispi quanto a Rudinì, di comprendere la vera natura dei

problemi sociali vi era l'illusione, propria del pensiero liberale della prima metà dell'ottocento, di governare

una società atomizzata; illusione che si scontrava con la realtà dei movimenti sociali di fine secolo. Lo statuto

albertino del 1848 taceva, ad esempio, sul diritto di associazione, ribadendo la tradizionale ostilità liberale

agli ordini, alle corporazioni e ai corpi intermedi. Il mancato riconoscimento dei soggetti collettivi come i

legittimi protagonisti della vita politica e sociale era il riflesso di un sistema politico ancora acerbo, del tutto

incapace di immaginare forze organizzate che non fossero semplici agglomerati parlamentari,

temporaneamente uniti attorno a un leader o a un'opinione. Per larga parte della storia dell'Italia liberale i

regolamenti di Camera e Senato non degnarono di considerazione neppure i gruppi parlamentari.

La finzione liberale secondo cui le opinioni potessero coagularsi in Parlamento senza essere organizzate,

senza avere alle spalle una rete di relazioni, di strutture, di interessi, di gruppi sociali non bloccò lo sviluppo

del dibattito politico sui giornali e nelle piazze, né tanto meno soppresse la genesi dei partiti di massa, che

dalla fine dell'ottocento iniziarono la loro lenta marcia all'interno delle istituzioni, ma pose le premesse di un

atteggiamento sospettoso, con forti tentazioni autoritarie, verso ogni domanda sociale.

La stessa formulazione dell'articolo 32 dello statuto che sanciva il diritto di riunione evidenziava la cautela

liberale nel controbilanciare con il controllo poliziesco il riconoscimento di un diritto. "E' riconosciuto il diritto

di adunarsi pacificamente e senz'armi, uniformandosi alle leggi che possono regolarne l'esercizio

nell'interesse della cosa pubblica. Questa disposizione non è applicabile alle adunanze in luoghi pubblici o

aperti al pubblico, i quali rimangono interamente soggetti alle leggi di polizia."

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La proclamazione dello stato d'assedio in quattro province, Milano, Livorno, Firenze e Napoli, diede mano

libera nella repressione ai militari, ansiosi di risollevare il proprio prestigio compromesso ad Adua. A Milano il

generale Bava Beccarsi arrivò ad impiegare l'artiglieria per disperdere la folla, lasciando sul selciato, in tre

giorni di scontri, circa cento morti.

Fin dagli albori dello stato unitario, la classe dirigente impiegò l'esercito per la repressione delle forme più

acute di dissenso sociale. Il potere militare, in virtù del suo ruolo di baluardo dell'ordine borghese e di fedele

servitore della corona, assunse un peso notevole nel quadro istituzionale.

Il credo liberale trovò un limite nella diffidenza, che a tratti mutò in vero e proprio terrore, verso le classi

subalterne, le cosiddette plebi, considerate incapaci di esprimere istanze politiche che non coincidessero con

la sedizione, con la sovversione dell'ordine costituito, sulla spinta di pulsioni irrazionali. L'ordinamento

liberale era apertamente classista: riconosceva la piena espressione delle libertà e dei diritti statutari soltanto

al ceto borghese, il cui principale elemento distintivo era la proprietà. Ai gruppi sociali percepiti come

minacciosi estranei al sistema liberale, lo stato unitario riservava un trattamento in cui il ricorso alla

repressione illiberale non era infrequente.

Alla spropositata e assurda repressione militare seguì immediatamente quella politico-guidiziaria. A farne le

spese furono gli anarchici, i socialisti, i repubblicani e, seppur in misura minore, i cattolici. I tribunali militari

irrogarono complessivamente, con procedure sommarie, pene detentive per oltre tremila anni. Nella sola

Milano furono comminati quattordici secoli di reclusione. Filippo Turati e il deputato repubblicano De Andreis

furono condannati a dodici anni di reclusione, don Albertario, esponente di spicco dell'intransigentismo

cattolico milanese, a tre.

Neppure la magistratura ordinaria si sottrasse al dovere patriottico di soddisfare la volontà repressiva del

governo. Nelle sentenze comparve spesso il concetto di "folla delinquente", ispirato alle teorie sociologiche e

politiche antidemocratiche che allora godevano di ampio credito.

Il governo provvide ad adottare per decreto un pacchetto di provvedimenti eccezionali fortemente restrittivi

delle libertà statutarie. Militarizzò i ferrovieri ed i dipendenti delle poste, aggravò la legge sul domicilio coatto,

vietò lo sciopero e l'associazione per gli addetti ai servizi pubblici, limitò la libertà di stampa, di associazione

e di insegnamento; soppresse circa un centinaio di giornali socialisti, repubblicani, radicali e cattolici,

scompaginò tutte le organizzazioni sospette di sovversione.

La stampa liberale assecondò la politica governativa, mise da parte i contrasti tra le componenti crispine e

quelle anticrispine e fece ogni sforzo per enfatizzare la pericolosità per le istituzioni della situazione sociale.

Soltanto il direttore del Corriere della Sera, Eugenio Torelli Viollier, non si unì al coro a sostegno del governo,

parlando apertamente di colpo di stato autoritario. L'appello di Torelli a non sacrificare inutilmente la

tradizione liberale statutaria cadde tuttavia nel vuoto.

Sebbene il disegno di imprimere una svolta autoritaria fosse largamente condiviso all'interno della borghesia

liberale, Rudinì fallì nel tentativo di stringere attorno a sé un'ampia maggioranza parlamentare. La polemica

dell'autorevole ministro degli Esteri Visconti-Venosta verso l'atteggiamento anticlericale del governo,

caldeggiato invece da Zanardelli, la freddezza di Umberto I, che non faceva mistero di preferire un gabinetto

guidato da un militare di sua piena fiducia, e soprattutto il veto dei crispini costrinsero Rudinì alle dimissioni

dopo un secondo brevissimo tentativo ministeriale.

La sinistra liberale in questa fase non riuscì ad esprimere una linea politica alternativa né a prendere

apertamente le distanze dalle tentazioni autoritarie. Lo stesso Giolitti, uno degli uomini più rappresentativi

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della sinistra liberale, espresse, nel giugno del 1898, la propria fiducia al generale Luigi Pelloux che raccolse

l'eredità di Rudinì nel segno della continuità del progetto autoritario, pur sfrondato dei suoi eccessi nei

confronti delle forze cattoliche.

La reputazione liberale di Pelloux, rafforzata dal suo rifiuto di ricorrere allo stato d'assedio in Puglia, dove era

stato comandante della regione militare durante la fase più tesa dei conflitti sociali nella primavera del 1898,

generò, sia nella sinistra liberale, sia nella sinistra estrema, la speranza che al superamento dell'emergenza

granaria, grazie al buon raccolto dell'estate, facesse seguito un definitivo accantonamento dei provvedimenti

restrittivi delle libertà statutarie adottati dal precedente governo. Tali aspettative furono frustrate prima dalla

richiesta del governo Pelloux, approvata dalla Camera nel luglio 1898, di prorogare di un anno i

provvedimenti eccezionali introdotti dal Rudinì, poi dalla presentazione, nel febbraio del 1899, di tre disegni

di legge volti a rendere permanenti le misure restrittive della libertà di riunione, di sciopero, di associazione e

di stampa. Se approvate queste proposte avrebbero conferito al governo uno strumento legale per attuare

una politica reazionaria, che avrebbe potuto spingersi sino a realizzare quella revisione autoritaria degli

ordinamenti liberali che era stata anticipata da Sidney Sonnino nel discusso articolo "Torniamo allo Statuto",

pubblicato sulla Nuova Antologia, il primo gennaio 1897. Seppur in forma anonima, Sonnino aveva indicato

nel ritorno alla lettera statutaria, che assegnava alla corona la titolarità del potere esecutivo, senza alcun

vincolo fiduciario con il Parlamento, la soluzione della crisi politico-istituzionale innescata dalla crescente

pressione esercitata dalle classi subalterne nei confronti dello stato liberale.

Inizialmente l'estrema sinistra, poi, dopo alcuni tentennamenti, anche la sinistra liberale di Zanardelli e di

Giolitti si convinsero che i disegni di legge presentati dal governo Pelloux avrebbero potuto costituire una

pericolosa premessa all'annullamento dell'evoluzione parlamentare che lo statuto aveva conosciuto a partire

dall'età cavouriana.

Nel giugno del 1899, dopo un rimpasto di governo reso necessario dalla presa di distanze di Giolitti e

Zanardelli, che avevano criticato il goffo tentativo dell'esecutivo di inaugurare, sull'esempio delle altre

potenze europee, una politica imperialista nei confronti della Cina, Pelloux, ormai sbilanciato a destra in

seguito all'accordo con Sonnino, tornò a presentare alla Camera i disegni di legge definiti liberticidi

dall'estrema sinistra.

Socialisti, radicali e repubblicani ingaggiarono una coraggiosa battaglia parlamentare, impiegando, per la

prima volta, lo strumento dell'ostruzionismo. Il moltiplicarsi degli emendamenti, delle eccezioni procedurali e

le estenuanti maratone oratorie dei deputati dell'opposizione colsero di sorpresa il governo Pelloux,

riuscendo nell'obiettivo di bloccare l'iter parlamentare della riforma. Ispirato da Sonnino, Pelloux tentò di

aggirare l'ostacolo proponendo una modifica del regolamento della Camera che neutralizzasse la tattica

dilatoria dell'opposizione.

L'azione ostruzionista si trasferì prontamente dalla discussione sui disegni di legge a quella sul regolamento,

costringendo il governo a mostrare il suo volto più autoritario, alienandosi così le residue simpatie della

borghesia liberale e spingendo la sinistra liberale, che non si era associata alla tattica ostruzionistica

ritenendola lesiva della dignità del Parlamento, ad assumere l'iniziativa politica. Nell'estate del 1899 Giolitti si

propose come leader di un vasto schieramento sostenuto dalle forze progressiste, suscitando, nonostante le

vive proteste di Salvemini, un grande entusiasmo in Turati e nel partito socialista, che videro nello statista

piemontese l'espressione di una borghesia illuminata capace di ripristinare la legalità e di promuovere il

progressivo allargamento delle basi sociali dello stato unitario.

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Le elezioni amministrative di Milano del giugno 1899, in cui socialisti, repubblicani e radicali ottennero una

netta affermazione, mostrarono l'emergere anche nell'opinione pubblica borghese di un orientamento

chiaramente ostile a ogni ipotesi di involuzione illiberale del sistema politico.

Nella vana speranza di consolidare la maggioranza che si stava sgretolando, il re indisse nuove elezioni nel

giungo del 1900

sentenza della Corte di Cassazione che dichiarò nullo, nel febbraio 1900, il decreto-legge con cui il governo

Pelloux aveva tentato di porre in essere, senza l'approvazione della Camera, i disegni di legge liberticidi,

segnò il definitivo fallimento del progetto autoritario, preordinato o meno che fosse, della borghesia

conservatrice. L'abbandono, nell'aprile del 1900, dell'aula di Montecitorio da parte dell'estrema sinistra e

delle sinistra costituzionale, per protestare contro l'approvazione del regolamento della Camera, pose

Pelloux di fronte al dilemma se continuare a governare con una Camera dimezzata.

Nella vana speranza di consolidare la maggioranza che si stava sgretolando, il re indisse nuove elezioni nel

giungo del 1900. Lo spostamento a sinistra dell'opinione pubblica borghese, che costituiva la parte

preponderante dell'elettorato, fu pienamente confermato. Il successo elettorale dell'estrema sinistra, che

arrivò a contare 96 seggi (29 repubblicani, 34 radicali e 33 socialisti) rispetto ai 67 della precedente

legislatura, convinse Pelloux a rassegnare le dimissioni. La sinistra liberale giolittiana e zanardelliana

mantenne intatte le sue posizioni, diventando, con i suoi circa 120 deputati, il fulcro del sistema politico.

L'ottantenne presidente del Senato Giuseppe Saracco costituì un governo di transizione che si impegnò ad

emendare la riforma del regolamento della Camera approvata in extremis da Pelloux. L'assassinio di

Umberto I, nel luglio del 1900, a opera di Gaetano Bresci, se da un lato provocò la completa paralisi del

fragile esecutivo dall'altro favorì, con l'unanime condanna della violenza da parte delle forze parlamentari,

l'affermarsi di un clima di pacificazione nazionale: conciliò, almeno temporaneamente, l'estrema sinistra con

le istituzioni e sembrò dissuadere la classe dirigente dal ricorrere nuovamente a una politica reazionaria.

L'incoronazione del giovane Vittorio Emanuele III, che aveva fama di liberale sensibile alle istanze

democratiche, restituì all'istituto monarchico una parte di quel prestigio che era stato intaccato dalle torbide

vicende della crisi di fine secolo.

In questo rasserenato clima politico, la decisione del prefetto di Genova Garroni di sciogliere, nel dicembre

del 1900, la locale Camera del Lavoro, che avanzava rivendicazioni a tutela dei portuali, portò nuovamente

alla ribalta il tema dei rapporti tra le istituzioni liberali e le forze sociali emergenti, lasciando intravedere

ancora una volta il pericolo che le tentazioni autoritarie e antipopolari della classe dirigente potessero

prendere il sopravvento.

Giolitti colse l'occasione per sferrare il suo attacco all'incolore governo Saracco, insorgendo contro la politica

ottusamente repressiva, che per decenni aveva insanguinato le campagne e le piazze. Il netto rifiuto di ogni

intervento repressivo preventivo verso il movimento operaio e le sue rivendicazioni, la teorizzazione di un

atteggiamento neutrale dello stato nei conflitti tra capitale e lavoro costituirono i punti centrali del programma

giolittiano di rinnovamento dello stato liberale, volto a dissolvere le tentazioni autoritarie e ad ampliare le basi

del consenso al sistema politico, misurandosi, senza preconcetti, con le istanze delle organizzazioni di

massa.

Il manifesto politico di questa svolta epocale fu il vigoroso discorso pronunciato da Giolitti alla Camera dei

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Deputati nel febbraio del 1901. Tra gli applausi della sinistra ed i mormorii della destra affermò: «Pur troppo

persiste ancora nel governo (...) la tendenza a considerare come pericolose tutte le Associazioni di

lavoratori. Questa tendenza è effetto di poca conoscenza delle nuove correnti economiche e politiche che da

tempo si sono determinate nel nostro come in tutti i paesi civili, e rivela che non si è ancora compreso che la

organizzazione degli operai cammina di pari passo con la civiltà. La tendenza, della quale ora ho parlato,

produce il deplorevole effetto di rendere nemiche dello stato le classi lavoratrici, le quali si vedono guardate

costantemente con occhio diffidente anziché con occhio benevolo dal governo il quale pure dovrebbe essere

il tutore imparziale di tutti i cittadini. (...) Io credo che bisogna mettere allo stesso livello di fronte alla legge

tanto il capitalista quanto il lavoratore; ognuno dei due deve avere la sua rappresentanza legittima

riconosciuta dallo stato. (...) Io poi non temo mai le forze organizzate, temo assai più le forze inorganiche ...

(Bravo!Bene!) perché su di quelle l'azione del governo si può esercitare legittimamente ed utilmente, contro i

moti inorganici non vi può essere che l'uso della forza. (...) Il governo quando interviene per tenere bassi i

salari commette una ingiustizia, un errore economico, ed un errore politico. Commette una ingiustizia, perché

manca al suo dovere di assoluta imparzialità fra i cittadini, prendendo parte alla lotta contro una classe.

Commette un errore economico, perché turba il funzionamento della legge economica dell'offerta e della

domanda, la quale è la sola legittima regolatrice della misura dei salari come del prezzo di qualsiasi altra

merce. Il governo commette infine un grave errore politico, perché rende nemiche dello stato quelle classi le

quali costituiscono in realtà la maggioranza del paese».

In piena sintonia con i settori più dinamici della borghesia produttiva settentrionale, Giolitti espresse la

consapevolezza che la mobilitazione sociale delle classi popolari era un fenomeno intimamente legato allo

sviluppo dell'economia italiana, che lo stato doveva sostenere e non affossare con una politica grettamente

conservatrice. La solidità delle istituzioni liberali e la funzionalità dell'apparato produttivo non potevano che

trarre enormi benefici dall'esistenza di interlocutori organizzati come il partito socialista ed il movimento

sindacale, da incanalare nell'ambito del sistema politico ed economico borghese.

La soluzione della crisi di fine secolo attraverso le elezioni e le dinamiche proprie del sistema

rappresentativo fu anche una vittoria della borghesia industriale settentrionale, ansiosa, pur con le sue

contraddizioni, di rimuovere tutti gli ostacoli sulla via del progresso e dello sviluppo economico, rispetto alla

grande proprietà terriera meridionale che affidava a un anacronistico immobilismo sociale la difesa dei propri

interessi.

La forza del discorso giolittiano travolse sia il governo Saracco, sia il tentativo di Sonnino di aggregare

attorno a sé una maggioranza parlamentare. Preso atto del mutato quadro politico, Vittorio Emanuele III

incaricò Zanardelli di formare il governo in cui Giolitti entrò come ministro dell'Interno, sperimentando di

fronte al dilagare degli scioperi che fecero da corollario alla ripresa economica, la sua politica di neutralità nei

conflitti tra capitale e lavoro.

Solo nel 1901 vi furono 1.671 scioperi con circa 400.000 partecipanti, rispetto ai 410 scioperi con 43.000

scioperanti dell'anno precedente. Nel mondo industriale solo il 24% degli scioperi ebbe esito sfavorevole ai

lavoratori, gli scioperi negativi in agricoltura furono appena l'11%. Rilevanti furono i miglioramenti salariali.

Questa esplosione di forze troppo a lungo compresse determinò un progresso considerevole per il

movimento delle classi lavoratrici non solo sotto il profilo dei successi economici, ma anche per lo sviluppo

delle loro organizzazioni. Il numero delle Camere del Lavoro aumentò da 17, nel 1900, a 57 nel 1901 e a 76

nell'anno successivo, con più di 300.000 iscritti; le leghe contadine diventarono circa 1.000, con 250.000

aderenti.

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Il pieno riconoscimento del diritto di sciopero, con la sola eccezione per i dipendenti dei pubblici servizi, e gli

inviti ai prefetti a svolgere opera di mediazione e di conciliazione tra le parti sociali non arrestarono del tutto

gli eccidi proletari, che rimasero frequenti, soprattutto nel Mezzogiorno, non solo a causa degli eccessi dei

tutori dell'ordine pubblico, ma anche della resistenza degli agrari meridionali ad accettare come legittime le

rivendicazioni salariali. La neutralità giolittiana, pur dibattendosi entro queste contraddizioni, imposte

dall'impossibilità di incidere a fondo in tempi brevi sia sulla mentalità dei servitori dello stato, sia sugli

equilibri sociali tradizionali, non fu tuttavia né effimera né di facciata, e si accompagnò ad un sostanziale

rafforzamento della libertà di riunione, di associazione e di stampa, traducendosi in un generale

consolidamento del carattere liberale dello stato.

Sul piano istituzionale uno dei più importanti risultati del governo Zanardelli-Giolitti fu il decreto del novembre

1901 sulle attribuzioni del consiglio dei ministri che, in perfetta antitesi con il "Torniamo allo statuto"

sonniniano, rafforzò la posizione del governo nei confronti della corona, mediante l'attribuzione al consiglio

dei ministri, come organo collegiale, della competenza esclusiva su una serie di nomine e di atti che

riguardavano l'amministrazione militare e quella degli affari esteri, tradizionalmente molto esposte

all'influenza, se non addirittura all'ingerenza, del sovrano. Questo restringimento della sfera di influenza della

corona pose, all'indomani della svolta liberale del 1901, un argine alle velleità autoritarie emerse durante il

regno di Umberto I.

BIBLIOGRAFIA

* L'Italia giolittiana (1896-1915). Le premesse politiche ed economiche, di A. Aquarone - Il Mulino,

Bologna 1981

* Storia dell'Italia moderna (vol. IV). Lo sviluppo del capitalismo e del movimento operaio, di G. Candeloro

- Feltrinelli, Milano 1970

* L'Italia giolittiana 1899-1914, di E. Gentile - Il Mulino, Bologna 1990

* Il colpo di stato della borghesia, di U. Levra - Feltrinelli, Milano 1976

* L'Italia liberale, 1861-900, di R. Romanelli - Il Mulino, Bologna 1990

* Storia dello stato italiano dall'unità ad oggi, di R. Romanelli - Donzelli, Roma 1995

* Adua. La battaglia che cambiò la storia d'Italia, di D. Quirico - Mondadori, Milano 2004

* Giolitti, lo statista della nuova Italia, di A. Mola - Mondadori, Milano 2006