critica del non vero. per una teoria dell'interpretazione in th. w

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FILARETE ON LINE Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia Quest’opera è soggetta alla licenza Creative Commons Attribuzione ‑ Non commerciale ‑ Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY‑NC‑ND 2.5). Questo significa che è possibile riprodurla o distribuirla a condizio‑ ne che ‑ la paternità dell’opera sia attribuita nei modi indicati dall’autore o da chi ha dato l’opera in licenza e in modo tale da non suggerire che essi a‑ vallino chi la distribuisce o la usa; ‑ l’opera non sia usata per fini commerciali; ‑ l’opera non sia alterata o trasformata, né usata per crearne un’altra. Per maggiori informazioni è possibile consultare il testo completo della licenza Creative Commons Italia (CC BY‑NC‑ND 2.5) all’indirizzo http://creativecommons.org/licenses/by‑nc‑nd/2.5/it/legalcode . Nota. Ogni volta che quest’opera è usata o distribuita, ciò deve essere fat‑ to secondo i termini di questa licenza, che deve essere indicata esplicita‑ mente. EZIO PARTESANA Critica del non vero. Per una teoria dell’interpretazione in Th. W. Adorno Firenze, La Nuova Italia, 1997 (Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, 171)

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EZIOPARTESANACriticadelnonvero.Perunateoriadell’interpretazioneinTh.W.AdornoFirenze,LaNuovaItalia,1997(PubblicazionidellaFacoltàdiLettereeFilosofiadell’UniversitàdegliStudidiMilano,171)

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PUBBLICAZIONIDELLA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

DELL'UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO

CLXXI

SEZIONE DI FILOSOFIA

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EZIO PARTESANA

CRITICA DEL NON VEROPER UNA TEORIA DELL'INTERPRETAZIONE

IN TH.W. ADORNO

LA NUOVA ITALIA EDITRICE

FIRENZE

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Partesana, EzioCritica del non vero :Per una teoria dell'interpretazione in Th.W. Adorno. -(Pubblicazioni della Facoltà di letteree filosofia dell'Università degli Studi di Milano ; 171.Sezione di Filosofia ; 25). -ISBN 88-221-1891-XI. Tit.1. Ermeneutica - Teorie di Theodor Wiesengrund Adorno121.68

Proprietà letteraria riservataPrinted in Italy

© Copyright 1995 by « La Nuova Italia » Editrice, Firenze l a edizione: febbraio 1997

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a mio padre, Carlo

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INDICE

Prefazione p. 1

CAPITOLO I. INTRODUZIONE. L'INTERPRETAZIONE NEI PRIMISCRITTI DEGLI ANNI '30 » 7L'idea di storia naturale » 17La esatta fantasia » 24

CAPITOLO II. LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA » 35Troppa fiducia nella coscienza attuale » 35Perché Ulisse non ascoltò il canto delle sirene » 43Desiderio, etica e interpretazione » 50

CAPITOLO III. MODELLI INTERPRETATIVI » 61II passaggio dialettico » 77Linguaggio e interpretazione » 87Freud e Kafka » 97

CAPITOLO IV. LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ » 113Verità, processo e immaginazione. La lettura di Hegel » 118La memoria del gioco e il dolore del ricordo » 136Ideologia, utopia e obbligo al concetto » 148Dialettica negativa. La costruzione dell'immaginazione critica » 155

CAPITOLO V. DIALETTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA.LA PARODIA » 161Memoria tra traduzione e desiderio » 161Ontologia e deontologia: l'unità di logica e etica » 174La contraddizione come chiave ermeneutica » 181II debito storico e il rapporto tra verità e piacere » 190Per una teoria dell'interpretazione: la parodia » 202Fine dell'interpretazione » 215

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X INDICE

BIBLIOGRAFIA GENERALE p. 226 Parte prima: opere e saggi di Th.W. Adorno, secondo la datadi pubblicazione in Italia » 226 Parte seconda: edizione tedesca delle opere complete

di Th.W. Adorno » 227 Parte terza: bibliografia critica » 228 Parte quarta: emeroteca » 231 Parte quinta: altri testi » 233

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PREFAZIONE

Anche quando la filosofia pretende di elaborare i rap­ porti secondo principi puri e astratti, essa assume in sé, positivamente o negativamente, categorie immanenti alla società esistente.

Th.W. Adorno 1

II problema che si intende porre in questo volume è quello dei rap­ porti tra Adorno e l'ermeneutica. A prima vista esiste una soluzione im­ mediata: poiché quello dei rapporti tra Adorno e l'ermeneutica è, come direbbero i logici, un insieme vuoto, la soluzione sta nel fatto che non esista alcun rapporto. Tuttavia basta considerare non rapporti tra autori, bensì rapporti tra effettive pratiche filosofiche, che il vuoto si riempie. Ci si trova allora a guardare l'opera di Adorno da un altro punto di vista, e cioè a domandarsi su cosa poggi la straordinaria capacità di penetrazione cri­ tica di quel pensiero; e poiché lo studio dei fondamenti e della pratica interpretativa è l'oggetto attorno al quale oggi si riunisce quell'insieme eterogeneo di teorie che si può chiamare genericamente ermeneutico, vien fatto di pensare se non sia possibile descrivere la forza critico-interpreta­ tiva della dialettica nei termini di una pratica ermeneutica.

Ora, se è palese che Adorno dovesse possedere una prassi interpre­ tativa, e che sia dunque possibile, almeno in linea di principio, individuar­ la e descriverla a partire dai suoi lavori, si presentano, però, per farlo, due vie percorribili entrambe insoddisfacenti. L'una consisterebbe nell'ennesi­ ma sintesi teorica di che cosa sia e come funzioni la negative Dialektik, lavoro che non solo è già stato compiuto da ottimi studiosi, e che dunque non è necessario ripetere, ma che soprattutto non può comprendere in sé, dato il suo carattere filologico, la «battaglia» attuale tra dialettica ed erme-

1 Th.W. Adorno e M. Horkheimer a cura di, Lezioni di sociologia, voi. IV dei «Frankfurter Beitràge zur Soziologie» dell'Instttut fùr Sozialforschung di Francoforte, editi da Th.W. Adorno e W. Dirks, Europàische Verlagsansalt, Frankfurt a. M. 1956, trad. A. Mazzone, Einaudi, Torino 1966, p. 15.

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nautica. L'altra opzione, simmetrica e contraria, sarebbe di interpretare la filosofia critica alla luce, come si suoi dire, dell'ermeneutica, cioè mostrare e dimostrare come e in che misura essa sia all'altezza della contemporanea koyné filosofica. Una strategia di inglobamento che avrebbe il prevedibile difetto di oscurare l'identità specifica del pensar dialettico, e di conse­ guenza di perderne la portata critica anche nei confronti della stessa er­ meneutica.

Qualsiasi scelta si compia per cavar fuori dall'opera di Adorno una teoria generale dell'interpretazione è esposta ai difetti di cui sopra, o ancor peggio al rischio di sistematizzare un pensiero di sua volontà critico atten­ to di ogni totalità. Lo stesso vale per quella qui proposta - che è solo apparentemente semplice - con a suo favore, però, il pregio di derivare dai presupposti teorici dello stesso Adorno. Si tratta, in breve, di porre agli scritti di Adorno le domande della tradizione ermeneutica. In questo modo l'oggetto della ricerca è bensì "illuminato" dall'ermeneutica - è, per dir così, lo stesso oggetto - ma inserito in una configurazione tale (il pensiero di Adorno), che né l'oggetto né la sua comprensione risultino / medesimi dell'ermeneutica. E quindi rimangono presenti per intero le questioni che questa pone alla riflessione, ma senza che questa interezza azzeri lo spe­ cifico della filosofia critica. Ricostruire attraverso le effettive interpretazio- ni critiche di Adorno e, va da sé, attraverso la sua dialettica, una «teoria dell'interpretazione», risulta allora possibile senza dover forzare i testi ad essere quel che non sono, e cioè scritti sull'ermeneutica.

Un simile escamotage è attuabile perché, come dicevamo prima, una pratica critico-interpretativa è costantemente all'opera nei testi di Adorno e sebbene non sia concepita affatto come ermeneutica - anzi sia in forte polemica con la versione heideggeriana di essa - ha anche ricevuto una formulazione teorica in Dialettica negativa. Lo sguardo parziale alla quale intendiamo sottoporla, cioè il fatto che le faremo domande solo circa l'oggetto «interpretazione critica», è una «colpa» non solo inevitabile ma fruttuosa 2 . Essa deriva e trova una sua giustificazione, del resto, proprio nella dialettica tra pensiero filosofico e «categorie immanenti alla socie­ tà» 3 , che costituisce oggetto di tanta parte degli scritti adorniani.

Poiché la filosofia, secondo Adorno, accede all'esperienza solo per tramite di concetti, i quali, a loro volta, sono il risultato di determinazioni

2 Cfr. Th.W. Adorno, «II saggio come forma», in Note per la letteratura, voi. I, Einaudi, Torino 1979, pp. 5-30; L. Althusser, Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967.

3 Vedi l'incipit a questa prefazione.

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PREFAZIONE 3

extra-concettuali, essa deve, quale che sia l'oggetto a cui si applica, ottem­ perare a due obblighi incompatibili: comprendere il non-identico-da-lei e insieme di ricondurlo, in un qualche modo, all'identità con se stessa. Questa precarietà del procedere filosofico, che non ha da nessuna parte un punto di appoggio fermo, e continuamente viene rimandato dalla lo­ gica dei concetti al non-concettuale e viceversa, fa tuttavia sì che compren­ dere filosoficamente non significhi solo ricostruire l'oggetto, ma in pari tempo ridislocare sé in base ad esso. Dall'imbarazzante scelta tra affidarsi all'immediatezza e richiudersi nell'autonomia delle proprie categorie, in­ fatti, la filosofia «esce» grazie al fatto che né i suoi concetti né i suoi oggetti sono esseri ontologici bensì - come riportato nell'incipit a questa prefazione - rapporti elaborati e assunti da categorie immanenti alla socie­ tà. Allora il pensiero, che è mediazione e non rispecchiamento di ciò su cui si esercita, ha il dovere di porsi continuamente di fronte se stesso, compiendo quell'operazione interpretativa fondamentale che consiste nel- l'afferrare le proprie categorie nel concreto della relazione dialettica che esse intrattengono con l'altro da sé, e non nel ciclo tranquillo dell'iperu- ranio. Detto altrimenti: poiché non le è possibile l'immediatezza - né qui troverebbe alcunché - la interpretazione filosofica parte dal mediato, da quel quel che viene per secondo', e la mediazione stessa le diviene essenzia­ le. Così anche riflessione sulla filosofia non può che essere percorsa obli­ quamente, essendole interdetti sia l'abbandonarsi al puro ordine dei con­ cetti, sia l'accettazione incondizionata dell'immediato positivo.

Tutto questo comporta che il confronto tra le categorie adorniane e quelle ermeneutiche, poiché in quanto tali esse sono mediazioni e non essenze eterne né mera matter offacts, sia tanto più vicino all'essenziale quanto più venga condotto in dirczione del rapporto che esse costituisco­ no in quanto interpretazioni ed espressioni della realtà. Ovvero tale con­ fronto deve essere per un lato critica dell'ideologia e per l'altro aggiorna­ mento della teoria. E le due cose, processualmente, coincidono. Non si tratta di capire perché a certi periodi corrispondano certe Weltanschauun- gen filosofiche, quanto di sapere quali strumenti intellettuali siano in gra­ do di comprendere la realtà - e se stessi come parti di quella - e quali no. Un non filosofo direbbe: sapere chi ha torto.

Ma non è certo attraverso un confronto tra idee e realtà, comunque, che può essere formato un simile giudizio; non c'è un grado di rispecchia­ mento da quantificare. Un progetto di ricerca quale quello qui delineato è eminentemente anti-nominalista. Nel senso che la resistenza che gli universali, quelli ermeneutici come quelli impiegati dalla dialettica ador-

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4 CRITICA DEL NON VERO

niana, manifestano alla loro totale sussunzione sotto un processo indutti- vo-deduttivo è irriducibile a questioni definitorie di chiarezza e distinzio­ ne. Limitarsi a prendere categorie chiave della tradizione ermeneutica - quali ad esempio quelle di circolo, precomprensione, orizzonte, ricezione, etc. -, mostrare se ad esse «corrisponda» o meno la realtà, e quindi cer­ carne una versione dialettica negli scritti di Adorno, sarebbe come credere di poter guarire da una malattia stilando l'elenco dei malanni che non si hanno, oppure convincendosi di averne una comoda e ben curabile al posto di quella che realmente si ha. Chiariamo quindi che non si tratta per nulla di compiere l'artificio dello stiracchiare i testi e i modi del pensiero adorniano fino a che questi non confessino - sottoposti a simile tortura - d'essere anch'essi inconsciamente iscritti nella grande madre della tradi­ zione ermeneutica; così facendo si mancherebbe di rispetto tanto agli uni quanto all'altra. E d'altronde, ricondurre Adorno e l'ermeneutica ad una comune radice di critica del razionalismo, per esempio, significherebbe trattare intenti e categorie filosofiche come meri sintomi a partire dai quali si possa risalire indietro ad una loro autentica causa, sociale, psicologica o filosofica che sia. Al contrario, la loro mediatezza, o secondarietà, è sì sedimentata dal momento sociale, ma come per negativo, senza che sia possibile una rappresentazione immediata della mediazione. Il modo in cui il pensiero domina l'essere dopo esserne stato determinato non può semplicemente essere tolto per ritrovare l'essenza di quella determinazio­ ne; allo stesso modo il confronto tra Adorno e l'ermeneutica non può - e non deve - giungere a delle Verità antecedenti entrambi. Porre alla filosofia dialettica negativa le questioni dell'ermeneutica - affermando al contempo che questo comporti, almeno implicitamente, la comprensione del momento sociale di entrambe - non vuoi dire diminuire l'opposizione che esiste tra le due, ma piuttosto mostrare come la dialettica sia in grado di formulare al proprio interno domande e risposte sul medesimo ordine di problemi, conferendo loro un aspetto diverso.

Questo far questione di se stessa che la filosofia porta avanti non è un momento di secondaria importanza. In esso è presente anche il sospet­ to legittimo sul significato stesso del lavorio filosofico. Non che il dimo­ strare che la dialettica negativa sia all'altezza dei temi ermeneutici possa giustificare la sua esistenza, ma se è vero che la filosofia è «il proprio tempo appreso per concetti», e non essendoci dubbio che il nostro tempo si apprenda per una gran parte per concetti ermeneutici, allora presentare una teoria dialettica dell'interpretazione, significa dimostrare che la dialetti­ ca in quanto tale è ancora all'altezza del nostro tempo.

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PREFAZIONE

Si obbietterà forse a questo punto che è dubbio che le ermeneutiche costituiscano un'unità, e che anzi di fatto un oggetto «ermeneutica» non si da. È vero, e non si può certo costruirsi una unità ad hoc riferendosi ad un presunto nucleo di problemi che esisterebbe indipendentemente dalla teoria che li tratta. Questo intento, che è già nella sua sostanza interpre­ tativo, deve poter mostrare non solo quali siano queste contraddizioni ma anche in che modo siano state assunte in essa - dunque conservate e rimosse - e attraverso quale mediazione si sia tentato concettualmente di corrispondervi. Se di ogni filosofia si può affermare, secondo Adorno, che se non è vuota, risponda a contraddizioni essenziali, tuttavia la compren­ sione di tale rispondenza non è a portata di mano, essa dipende piuttosto dalla lettura critica, ma questa è il risultato che qui ci proponiamo, non il punto di partenza. Tuttavia poiché non è nostra intenzione una disamina esplicita di nessuna ermeneutica, ma solo la ricerca di un primo abbozzo di una teoria dell'interpretazione in Adorno, e semmai ci aspettiamo solo di riflesso e implicitamente che una tale teoria dialettica dell'interpretazio­ ne possa essere spunto di riflessione su certi aspetti di alcune prassi di lettura critica contemporanee, non è necessario per noi formulare una unità della scienza dell'interpretazione o della storia delle teoria ermeneu­ tiche, ma è sufficiente sottintendere un riferimento ad un insieme di que­ stioni e soluzioni - e cioè ad una certa convergenza che si verifica oggi nel decidere i criteri di pregnanza di questioni e soluzioni, intorno alle radici del pensiero ermeneutico 4 .

Il processo dell'esecuzione - «esecuzione» nell'accezione adorniana, cioè nel senso in cui si può dire «eseguire un brano musicale» o di «in­ terpretarlo» - che qui ci accingiamo a compiere non consiste dunque affatto nella comparazione della varie teorie per estrarre poi predicati generali da sottoporre a verifica del maglio dialettico. Al contrario; essa si muove perché, restando in metafora, il musicista (nel nostro caso i libri di Adorno) prima di eseguire la partitura deve interpretarla, renderla sua.

4 Giacché non verranno riassunte né espresse sistematicamente nel prosieguo del lavoro, è necessaria qui l'onestà di indicare l'origine delle conoscenze ermeneutiche dell'autore. Esse derivano in parte dallo studio diretto, ma anche dalle lezioni, dai testi e dalle discussioni avute con Paolo D'Alessandro. A questi - e alle sue ricerche sulla lettura sintomale - l'autore è debitore soprattutto dell'incontro con la possibilità di differenziazione tra ideologia e scienza ermeneutica. Così si potrebbe dire che mentre l'autore è responsabile dell'esperienza dell'ermeneutica come ideologia apologetica, deve a D'Alessandro la conoscenza delle questioni di una teoria interpretativa filosofi- ca, in tutta la loro serietà.

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6 CRITICA DEL NON VERO

Questa dialettica ha il suo lato mefistofelico nel mostrare, attraverso dif­ ferenti costellazioni concettuali, tutto quel che è, esplicitamente o impli­ citamente, contenuto in un pensiero ma che dalla prospettiva immanente risulterebbe invisibile. Proprio come nella psicologia individuale, in linea generale ad ognuno è inaccessibile non una rimozione qualsiasi bensì la sua propria, allo stesso modo se sottoponiamo Adorno ai temi dell'erme­ neutica filosofica è perché da questa dislocazione ci aspettiamo emergano ragioni che all'interno del loro proprio paradigma rischierebbero di resta­ re invisibili. In un certo senso si tratta non di togliere ma di cogliere l'ideologia presente nelle problematiche, che in essa deve trovarsi, nasco­ sto, anche il suo contenuto di verità.

Da questo dipende infine quel che più importa: la riflessione dell'er­ meneutica sulla dialettica adorniana deve illuminare il proprio oggetto, interpretare criticamente Vethos ermeneutico, e - se è coerente con il nucleo teoretico dialettico della verità come processo - venir trasformata essa stessa. L'opera di chiarificazione della mediazione concettuale dei suoi contenuti non ha, per dir così, quartiere; del resto Adorno lo espresse nel modo più chiaro: «non si da vita vera nella falsa» 5 , dunque neanche filosofia. Abbiamo così un doppio vuoto da oltrepassare: una prassi inter­ pretativa dialettica che non si è coscientemente posta come tale di fronte ai problemi dell'ermeneutica, e una teoria ermeneutica che riflette 6 su di sé attraverso la dialettica negativa. È un po' come se l'ermeneutica andasse in analisi dalla filosofia di Adorno e noi però trascrivessimo solo le rifles­ sioni private dell'analista. Esse avranno sempre a che fare col dialogo terapeutico ma non direttamente, saranno invece indice di quanto i rac­ conti dell'analizzato siano in grado di destare del pensiero dell'analista.

Detto altrimenti; se Adorno ha scritto la sua filosofia come dialettica negativa, che è lo sforzo di ottenere, secondo le parole del suo autore, la prospettiva dalla quale le cose appaiano dissestate 7 , ed è dunque sempre dipendente dal proprio oggetto o, detto altrimenti, eseguibile solo per modelli, altro non vuole essere questa ricerca su ermeneutica e dialettica negativa che un modello di quest'ultima.

5 Th.W. Adorno, Minima moralia, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1951, trad. it. di L. Ceppa, Minima moralia, Einaudi, Torino 1979, p. 35.

6 Questa pars destruens risulterà, nel presente lavoro, implicita; un suo svolgimen­ to soddisfacente, com'è evidente, richiederebbe una ricerca a sé e non può certo venir fatto en passant.

1 Cfr. Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 304.

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CAPITOLO I

INTRODUZIONE L'INTERPRETAZIONE NEI PRIMI SCRITTI DEGLI ANNI '30

Qualsiasi critica filosofica è oggi possibile come critica del linguag­ gio. Essa deve estendersi non solo alla cosi detta adeguazione delle parole alle cose, ma anche alla situazione delle parole in se stesse; ci si deve domandare quanto siano idonee alla loro propria inten­ zione, quanta della loro forza si sia storicamente estinta, quanto in esse possa divenire configurativamente valido. [...]La struttura reale (sachliche) di un'immagine filosofica può già sta­ re in una tensione figurativa con la sua propria struttura linguistica.

Th.W. Adorno '

Se pure è vero che non si può ricavare dai testi più di quanto si sia disposti a immettervi 2 , tuttavia non si deve poter estrarre l'oro dal piom­ bo. Cosi il fatto che Adorno abbia cominciato la sua riflessione filosofica con scritti dove si pongono esplicitamente le questioni dell'interpretazione e del rapporto tra questa e le strutture linguistiche, costituisce per la presente ricerca più un problema che non una conferma; la formazione culturale in genere e filosofica in particolare di Adorno non consentono una lettura di questi primi lavori come anticipazioni di interessi ermeneu­ tici poi abbandonati. Come già detto nella Prefazione, simili interessi sono estranei all'orizzonte di problemi in cui si muove adesso (e si muoverà in seguito) il giovane Theodor Wisengrund. Semmai è da notare come - prima ancora di un'esaudiente lettura di Hegel - il significato della filo­ sofia fosse, per Adorno, da ricondursi alla critica filosofica, e questa a sua volta avesse un aspetto fondamentale nel rapporto tra configurazione lin­ guistica e struttura reale storica. E vero che questa dialettica è fortemente influenzata da Benjamin, e che dunque manca ancora dell'aspetto più tipicamente adorniano dell'uso delle determinazioni come negazioni senza risoluzione in una forma storica più alta, ma ciò costituisce un indizio

' Th.W. Adorno, Thesen iiber die Sprache des Philosopben, in Th.W. Adorno, Gesammelte Schriften, Band I, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1973, pp. 336-74. Il saggio risale, secondo le indicazione della bibliografia ufficiale Suhrkamp, all'inizio degli anni Trenta.

2 Cfr. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1963; ed. it. Tre studi su Hegel, trad. R. Bodei, II Mulino, Bologna 1971, p. 191.

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CRITICA DEL NON VERPO

prezioso di come i problemi di una teoria dell'interpretazione fossero posti autonomamente da Adorno. Essi cioè ricevettero una formulazione linguistica che se non era dialettica non era neppure ermeneutica. Cosi se non si può dire che questi scritti forniscano già una prima sistemazione della forma critica nella dialettica di Adorno, tuttavia rappresentano la giustificazione e il primo passo del nostro intento, che è quello di tradurre - senza alcuna illusione di fedeltà o neutralità - le questioni ermeneutiche all'interno della dialettica negativa.

Il fatto che questa traduzione la si trovi già compiuta, se da un lato alleggerisce dalla responsabilità di impostarla e dall'arbitrio di compierla, dall'altro, appunto, costituisce evidentemente un problema; nel senso che è da spiegare come mai essa apparentemente scompaia negli scritti succes­ sivi. L'ipotesi che si presenta è, naturalmente, che essa non scompaia affatto, ma che anzi venga continuamente riproposta, alimentandosi con­ temporaneamente delle interpretazioni effettive di fenomeni artistici pro­ poste da Adorno e delle autoriflessioni critiche sui poteri e doveri del discorso filosofico; e che l'espressione che qui riceve il problema interpre­ tativo sia «in una tensione figurativa con la sua propria struttura linguisti­ ca» 5 . Bisogna perciò sciogliere l'aspetto enigmatico di questa tensione perché si dispieghi il contenuto della sua «presenza in assenza».

Nel 1931, dunque, Adorno tenne il suo discorso inaugurale all'uni­ versità di Francoforte: Die Aktualitdt der Philosophie 1*. L'attualità della

3 Th.W. Adorno, Thesen ùber die Sprache des Philosophen, cit. p. 374.4 Th.W. Adorno, Die Aktualitàt der Philosophie, in Th.W. Adorno, Gesammelte

Schriften, Band I, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1973, pp. 325-44; traduzione italiana è comparsa sulla rivista «Utopia» III, 1973, n. 7-8, a cura di C. Pettazzi.

Vista la data di questo discorso inaugurale sulla attualità, viene spontaneo riflet­ tere sulla sua ingenuità politica. E oramai topos riconoscere la poca scaltrezza politica di Adorno nei confronti del nazionalsocialismo, soprattutto vista la violenza di alcuni suoi attacchi nei confronti di Heidegger, e della importanza che i crimini nazisti avran­ no nel suo pensiero. La cosa è certamente vera, e se ne potrebbero portare riscontri oggettivi. Si deve tuttavia ricordare come anche altri autori, e amici di Adorno, pur assai più lungimiranti abbiano molto tardato a riconoscere il carattere irrimediabile degli avvenimenti che si andavano maturando dall'inizio della seconda metà degli anni venti in Germania. A questo proposito si può vedere il libro di E. Rusconi, La crisi di Weimar, Einaudi, Torino 1977, dal quale si possono trarre interessanti notizie e dati sociologici e politici. Ma anche Ernst Bloch ebbe qualche lapsus per eccesso di ottimi­ smo. Un esempio eclatante di ciò si può avere nel libro Erbschaft dieser Zeit, pubblicato la prima volta a Zurigo nel 1935, ma con aggiunte successive fino agli anni Quaranta, e poi uscito per i tipi della Suhrkamp nel 1962, in italiano: Eredità del nostro tempo, traduzione di L. Boella, Coliseum, Milano 1992. Proprio in un testo paradigmatico per

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INTRODUZIONE ^

filosofia si definirebbe innanzitutto per differenza dalla scienza, ma un tipo di differenza che concerna da vicino il nostro oggetto, infatti:

la filosofia non si differenzia dalla scienza [...] per un più elevato grado di gene­ ralità. Essa non si separa dalla scienza né per astrattezza di categorie né per la natura del suo materiale. La differenza consiste piuttosto principalmente nel fatto che la singola scienza accetta i suoi reperti, in ogni caso gli ultimi e i più profondi, come non scioglibili e riposanti su sé, mentre la filosofia intende già il primo reperto che incontra come segno che a lei spetta decifrare. Detto semplicemente: l'idea della scienza è la ricerca, quella della filosofia è la interpretazione 5 .

Questa presa di posizione, che si può ben chiamare programmatica vista l'occasione della sua pronuncia, è tutt'altro che sorprendente. La distinzione tra ricerca (Forschung] e interpretazione (Deutung] appartiene alla tradizione della differenza tra scienze della natura e scienze dello spirito, segnatamente quelle ermeneutiche. Tuttavia l'introduzione alla differenza se espressa «semplicemente» nel detto che per la filosofia non esista "nulla di immediato tra ciclo e terra" 6 , è tutt'altro che scontata e anzi è ulteriormente complicata da una sorta di «realismo ingenuo» - come si legge poco oltre: «le nostre percezioni possono sempre essere forme, ma il mondo, nel quale viviamo e che si costituisce diversamente dalle nostre percezioni, non lo è». Il «realismo ingenuo» deriva senz'altro, dal punto di vista soggettivo, dal distacco di Adorno da Kant - sia quello letto assieme all'amico Krakauer che quello appreso tramite la filosofia del maestro Cornelius ' -, e serve in prima istanza contro l'idealismo specula­

la lucidità delle analisi sociali e politiche, in alcuni passi Bloch si lascia andare alla tesi diffusa che il nazionalsocialismo non avrebbe avuto futuro, e che per smontarlo sarebbe stato sufficiente che prendesse un poco, e per poco tempo, il potere; cfr. pp. 4, 35, 102- 3, etc. Probabilmente uno dei pochi che vide giusto fin dal principio fu M. Horkheimer che riuscì, con la collaborazione di Pollock e Grossman, a salvare per tempo i fondi e spesso i membri stessi dell'Istituto per le ricerche sociali.

5 Th.W. Adorno, Die Aktualitàt der Philosophie, cit., p. 334.6 Cfr. Th.W. Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M.

1966; ed. it. Dialettica negativa, trad. di C. Donolo, Einaudi, Torino 1970, p. 153.1 La tesi di abilitazione di Adorno recava il titolo Der Begriff des Unbewuftten in

der transzendentalen Seelenlehre. Per altro verso non pare si possa condividere appieno la tesi ricostruttiva di un interesse di Adorno per Marx e Freud tardo e dovuto più ad amicizie personali che non a esigenze effettive. Il testo più accurato nell'esaminare la penetrazione adorniana del pensiero di Freud, meglio detto: quella del pensiero di Freud all'interno di Adorno, è Susan Buck-Morss, The ongin of negative dialectics, cfr. pp. 17-20.

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tivo. Ma il suo legame con il carattere di secondarietà del materiale filo- sofico (a differenza di quello scientifico) allarga la sua portata; quella mediatezza non è da riferirsi all'attività del soggetto, o meglio: non è da riferirsi all'attività cosciente del singolo soggetto; la filosofia, anzi, è essen­ zialmente interpretazione proprio perché non va alla ricerca di alcun a- priori né del soggetto né dell'oggetto, non almeno nel senso extrasociale in sui s'intende l'a-priori nella filosofia kantiana:

compito della filosofia non è quello di scrutare le intenzioni nascoste e palesi della realtà, ma quello di interpretare la realtà priva di intenzioni (die intentionslose Wirklichkeit zu deuteri} [...] forse [l'interpretazione] completerebbe proprio l'or­ dito che potrebbe trasformare le cifre in un testo 8 .

Il privo di intenzione che si cifra nel testo, escluso il richiamo kantia­ no, sembra allora indicare più la dialettica sociale (si pensi a Dialettica dell'illuminismo] che non è mai semplicemente duplicata in modo aperto dal pensiero, piuttosto che non un elemento individuale. Quel che condu­ ce la riflessione a farsi interpretazione critica, insomma, non si trova in campo psicologico, ma nell'apparente insensatezza del dato di partenza come immediatamente esso è. Se il primato dell'oggetto, oggetto non naturale, e la critica dell'idealismo e dell'immediato motivano il rifiuto adorniano alla comprensione psicologica, come ben chiarifica la critica fuggevolmente rivolta a Dilthey in Die Idee der Naturgeschichte 9 , il riferirsi al privo di intenzioni nelle cose, desta stupore poiché le cose non hanno, in senso letterale, alcuna intenzione. Il dubbio legittimo è che Adorno pensi già, sebbene in modo ancora incerto, al privo di intenzione all'inter­ no della totalità sociale data 10 , dove «nessuna ragione che faccia giustizia (Rechtfertigende Vernunft) può ritrovarsi in una realtà la cui forma e il cui ordine costernano ogni diritto della ragione» 11 ; con l'attenzione precoce-

8 Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 7.9 Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschichte, in Th.W. Adorno, Gesammelte

Schriften, Band I, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. pp. 345-65. Il saggio è del 1932. La traduzione italiana, a opera di M. Tosti Croce, è comparsa sulla rivista «II cannoc­ chiale», 1977, n. 1-2, pp. 91-112. Il passo in questione è a p. 361 dell'edizione originale.

1(1 Si ricordi che gli scritti di Horkheimer sulla teoria critica iniziano proprio nel 1932. Cfr. M. Horkheimer, Teoria critica. Scritti 1932-41, trad. G. Backhaus, 2 voli., Einaudi, Torino 1974, voi. II, pp. 178-83.

11 Th.W. Adorno, Die Aktualitàt der Philosophie, p. 325. La traduzione che qui offro è grammaticalmente «scorretta» al fine di mostrare meglio i significati del termine tedesco Rechtfertigende...

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INTRODUZIONE 11

mente rivolta a quel nesso di Ragione e Storia dove l'affermazione della ragione illuminista è effetto e insieme condizione dell'affermazione della società borghese — che appunto scrive Storia e Ragione con l'iniziale maiuscola.

Che l'intenzione di levarla di mezzo, quella maiuscola, non sia sorta solo più tardi in Adorno, è testimoniato intanto dalla convinzione di dover preparare una Naturgeschichte [2, e quindi una critica della pretesa ideolo­ gica di immutabilità di ragione e storia che in quelle maiuscole si esprime. Ma poi anche, in modo evidente, dalla possibilità di accostare giudizi espressi da Adorno su quel nesso in scritti della maturità a quelli presenti in questi tre saggi degli anni '30. Nelle Thesen ùber die Sprache des Phi- losophen, ad esempio, si dice che «nessuna società che contraddica il suo proprio concetto, il concetto di umanità, può avere piena coscienza di se stessa» 15 , come ventidue anni dopo, in Prismi: «Senza società conchiusa non si da obiettività e con ciò nessun linguaggio vero e comprensibile» 14 . Deve essere chiaro, quindi, che se non ci fosse società - cioè una storia sociale della ragione - non esisterebbe il privo di intenzione, né linguag­ gio, né critica; solo una società, non un'astratta individualità umana, può cifrarsi nei propri testi come enigma.

Si legga, dunque in proposito, il saggio Die Idee der Naturgeschi- chte 1 ''. In esso vien resa palese la trasformazione del naturale in storico e dello storico in naturale. Questo tema prenderà il suo aspetto genealogico nella Dialettica dell'illuminismo, ma la sua parte nel processo della "filo­ sofia interpretativa", per esprimersi con le parole di Adorno, è chiaro fin d'ora, prima ancora che nella sua rielaborazione all'interno della Dialettica negativa. Il privo di intenzioni è la storia che appare agli uomini come destino, come natura, e allo stesso tempo la natura dalla quale i soggetti e la storia si sono a dura forza staccati. È un privo di intenzioni dove le intenzioni sono quelle del soggetto, del soggetto quale è - nell'intreccio di

12 Cfr. Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschtchte, op. cit. Per la trattazione di questo saggio si veda più avanti nel capitolo.

15 Th.W. Adorno, Prismen. Kulturkritik und Gesellschaft, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1955; ed. it. Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 1972, p. 13, trad. C. Mainoldi.

14 Th.W. Adorno, Thesen ùber die Sprache des Philosophen, cit., p. 367.15 II rapporto tra Benjamin e Adorno è analizzato nei dettagli, e avendo avuto a

disposizione gli archivi con gli inediti, dalla Buck-Morss in The origin of negative dialectics, op. cit. È l'unica, per quanto mi risulti, a dare notevole importanza all'impe­ gno verbale che Adorno e Benjamin presero nell'autunno del 1929 a Kònigstein.

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società e natura trascorsa - e non quale si pretende di essere nell'idealismo filosofico. Ovvero un soggetto che non è psicologico e nemmeno trascen­ dentale 16 , al quale la benjaminiana Urgeschichte des Subjects 17 si riferisce. E proprio in Die Idee der Naturgeschichte si legge, dopo una escursione da Lukàcs atta a chiarire inizialmente la categoria di «seconda natura», una citazione tratta da Benjamin:

La storia in tutto quanto ha, fin dall'inizio, di inopportuno, di doloroso, di sba­ gliato si configura in un volto - anzi: nel teschio di un morto. [...] Non soltanto la natura dell'esistenza umana tout court, ma anche la storicità biografica di un singolo si esprime significativamente, in forma di enigma, in questo suo aspetto, l'aspetto naturale supremamente degradato 18 .

Quel che importa qui vedere, prima delle parti relative all'interpreta- zione come decifrazione, è come la storia e la natura siano condensate in oggetti naturali morti, anzi supremamente morti - ma appunto: che furo­ no altro da morti. Se fossero subito immediatamente la loro propria fissità, nulla in essi potrebbe essere da leggere. Poco più oltre Adorno afferma che in Benjamin sia da superare (welter zu gehen - non 'aufheberì) proprio l'idea che la storia come natura sia venuta prima della natura come storia. Il problema di un eventuale primato mancherebbe, secondo Adorno, il suo proprio oggetto: «non si tratta qui solo di dimostrare che nella storia si presentano sempre di bel nuovo motivi di storia originaria, ma che la storia originaria stessa ha in sé, in quanto caducità, il motivo della sua

16 In questo senso è semmai proto-marxiano. Cfr. M. Barzaghi, Dialettica e ma­ terialismo in Adorno, Bulzoni, Roma 1982, pp. 18-19; A. Schmidt, Begriff des Materia- lismus bei Adorno, in Adorno-Konferenz 1983, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1983, pp. 14-34.

17 Sebbene sia piuttosto vacuo citare testi ufficiali per i rapporti tra i due, vista la mole di conversazioni dirette, scambio di abbozzi e epistole, cfr. W. Benjamin, // dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1971.

Per una ricognizione dei rapporti tra Adorno e Benjamin si possono vedere, quasi estremi opposti, i saggi: S. Buck-Morss, The origin of negative dialectics, op. cit., G. Agamben, // principe e il ranocchio. Il problema del metodo in Adorno e Benjamin, in «Aut Aut», 1979, n. 165-66, pp. 105-17. In quest'ultimo saggio, in particolare, ci sono alcune sorprendenti affermazioni non tanto sul rapporto o sul pensiero di Benjamin stesso, quanto nella ricostruzione operata da Agamben del pensiero di Adorno la cui dialettica negativa viene letta come uno storicismo sospettoso ma assolutamente immo­ bile su se stesso.

18 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, pp. 102-03. Adorno sta citando W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Berlin, 1928, ed. it., Il dramma barocco tedesco, op. cit.

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INTRODUZIONE 13

storia» I9 ; nulla di ontologico, nel senso che «proprio l'illusione dell'inizio è ciò che soggiace [...] alla critica» 20 . Nei fatti questo è quanto Adorno, prima di conoscerlo adeguatamente, tuttavia considerò essenziale del materialismo di Marx, che fosse eliminato come falso problema il proble­ ma dell'origine: «il movimento che si esegue qui per gioco lo esegue il materialismo sul serio. Sul serio vuoi dire che la risposta non continua a restare nello spazio chiuso della conoscenza, ma viene impartita dalla prassi» 21 . In che modo?

Il materialismo ha chiamato questo rapporto con un nome che è filosoficamente giustificato: dialettica. [...] Quando Marx rimproverò di aver solamente interpre­ tato (interpretieren} in modi diversi il mondo [...] la affermazione era legittimata non soltanto dalla prassi politica, ma altrettanto da quella filosofica.

nel senso che l'unione di dialettica e materialismo è in grado finalmente di porre il problema dell'interpretazione (Deutung) filosofica in una pro­ spettiva che non sia quella del mero interpretare (interpretieren} idealisti­ co; questa prospettiva è quella che assume a suo oggetto l'incongruità che esso oggetto mostra, e ne rintraccia la logica; perché anche per la filosofia:

il testo che [...] deve leggere è incompleto, pieno di contrasti e lacunoso e molto vi può essere attribuito alla cieca demonfa; allora il leggere è forse proprio il nostro compito, perché con ciò noi, leggendo, si possa imparare a meglio riconoscere e bandire le potenze demoniache 22 .

Se teniamo presente come in questo testo siano presenti a titolo di «lettori prodigiosi» 23 Marx e Freud, allora ha perfettamente ragione la Buck-Morss a richiamare l'attenzione sul fatto che le parole di Ricouer sui «maestri del sospetto», si possano applicare trent'anni e più prima ad Adorno 24 . Prendiamo allora per chiaro intanto questo: la interpretazione è per Adorno esercizio di sospetto, contro la soggettività in entrambe le

19 Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschichte, cit., pp. 359-60.20 Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 9.21 Ibidem, p. 7.22 Ibidem, p. 7.23 L. Althusser, Lire le Capital, Librairie Francois Maspero, Paris 1965; ed. it.

Leggere il Capitale, a cura di R. Rinaldi e V. Oskian, Feltrinelli, Milano 1968. Il passo sul che cosa significhi leggere e perché sia cruciale si trova alle pp. 14-16 del testo italiano.

24 S. Buck-Morss, The origin of negative dialectics, cit., p. 236.

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sue forme idealistiche - di soggetto assoluto o di primato ontologico - contro l'idea di una interpretazione che non sia prassi di modifica del reale, e infine contro le potenze demoniche che rendono il testo della fi­ losofia lacunoso e irregolare. Qualcosa nel reale è cifrato, omesso, eppure nascosto, forse addirittura costituisce l'essenza del reale, ma esso non è a disposizione. «Il vivere non è a disposizione» scrisse Brecht 25 , e tuttavia: «l'idea di interpretazione non incoraggia la supposizione di un [...] dua­ lismo di intelligibile e empirico», ovvero di «una separazione tra la verità dell'esistente e la sua apparenza» 26 ; dopo la Scienza della logica di Hegel tale separazione è impensabile. Vero è che Adorno non studiò Hegel sistematicamente fin ben oltre gli anni dei quali ci stiamo occupando. È tuttavia certo che egli conoscesse bene sia la persona che l'opera di Bloch, e quindi un certo «sapore» dialettico hegeliano doveva essergli del tutto noto 27 , infatti scrive, contro la separazione di empirico e intelligibile, che

chi interpretando ricerca dietro al mondo fenomenico un mondo in sé [...] si comporta come chi in un enigma voglia ricercare il riflesso di un essere che gli sta dietro, un essere che l'enigma riflette e dal quale si lascia sorreggere, laddove la funzione della soluzione dell'enigma è quella di rischiarare a lampi e di sciogliere (aufheben) la forma dell'enigma, non quella di persistere dietro l'enigma e d'esser- gli simile 28 .

L'enigma non è rappresentazione della sua soluzione, al contrario la sua soluzione è espressione della falsità dell'enigma come qualcosa che viene annientato da questa, e insieme la scoperta della necessità dell'enig­ ma come unica forma di testo possibile. La presenza di un residuo non intenzionale nell'oggetto è traccia della dialettica di natura e storia; tanto più questa si presenta come naturale - perdendo così la sua trasparenza - tanto più quella diventa enigmatica, intreccio di natura e storia sotto l'aspetto della sola natura. Che la natura debba comprendere in sé la storia originaria del soggetto dalla quale ancora non s'è usciti, ed anche la storia sociale riflessa, questo è quanto costituisce l'enigma. Non a torto allora Adorno indica nella dialettica come riflessione contro l'originario e nel

25 B. Brecht, Gegen Verfùhrung, traduzione italiana con testo a fronte della poesia si trova in B. Brecht, Poesie e canzoni, tr. F. Fortini e R. Leiser, Einaudi, Torino 1981. Uria quartina della poesia è citata da Adorno in Terminologia filoso/tea.

26 Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 7.27 Cfr. S. Buck-Morss, The origin of negative dialectics, cit., p. 4.28 Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 7.

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materialismo come prassi concreta contro la fonte dell'oscuramento, la lettura critica che dalla stessa forma del falso - una volta compreso come tale - può attingere il vero, secondo il classico schema marxiano della critica dell'ideologia. Già qui è evidente come la soluzione dell'enigma sia entrambe le cose: la soppressione del suo carattere di enigma e la sua conservazione nel passaggio alla prassi. Ecco perché Adorno prende come esempio di interpretazione filosofica proprio il passo in cui Marx rim­ proverava ai filosofi di aver meramente interpretato il mondo senza mu­ tarlo. E per lo stesso motivo Adorno non ha affatto in mente la prassi come lotta politica, bensì parla esplicitamente di «prassi filosofica» che deve passare dalla interpretazione alla modificazione del suo oggetto. Che cosa sia tale prassi, e perché meriti questo nome, è spiegato poco oltre:

e - come le soluzioni degli enigmi si costruiscono mediante un procedimento che consiste nel condurre gli elementi singoli e dispersi della domanda in differenti disposizioni, fino a che essi non si riuniscano a formare una figura, da cui salti fuori la soluzione, mentre la domanda dilegua - così la filosofia deve condurre i suoi elementi, che essa riceve dalla scienza, in mutevoli costellazioni, o, per dirla con una espressione meno astrologica e scientificamente più attuale, in mutevoli tentativi di disposizione, fino a che essi formino una figura, che sia leggibile come risposta, mentre la domanda dilegua 29 .

Si deve innanzitutto far attenzione a non confondere questa metafora con un modello euristico: non è che il carattere enigmatico sussista solo grazie alla sua configurazione, e che dunque per prova ed errore si possa mutarla fino a che non salti fuori bella e pronta la soluzione. Ma neppure l'enigma in quanto tale è, una volta svelato come enigma, la sua soluzione. Carattere enigmatico e risposta stanno in opposizione, la lettura che dis­ solve il primo è la medesima che fornisce la seconda. Non si tratta in alcun modo di sostituire la struttura dell'enigma come risposta alla domanda determinata che l'enigma pone. Non perché tale struttura non esista; così come quella linguistica o storica - e Adorno lo riconoscerà in più occasio­ ni - essa è scientificamente valida, ma quale che sia il suo potere assumerla come origine e da essa trarre le leggi della interpretazione della cosa signi­ ficherebbe assumere a priori che la cosa si risolva interamente nella pro­ pria struttura, il che è proprio quel che Adorno fin da allora contestava. Egli, in un certo senso, radicalizza l'idea di decostruzione delle varie mi-

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tologie sul soggetto, la volontà, l'intenzione e via dicendo, mostrando come sia esse che il loro rischiaramento non siano dati ultimi né primi, ma ancora e sempre formazioni scientifiche che costituiscono proprio il pro­ blema della filosofia, i suoi enigmi, con tanto di carattere demoniaco,

la filosofia deve procedere continuamente interpretando, con la pretesa alla verità senza mai possedere una chiave certa dell'interpretazione e senza che le venga dato qualcosa di più dei cenni fugaci che dileguano nelle figure enigmatiche dell'ente e nei loro strani intrecci. La storia della filosofia non è altro che la storia di questi intrecci; per questo sono dati cosi pochi «risultati»; per questo essa deve comin­ ciare sempre da capo; per questo essa non può fare a meno del più piccolo filo che tempi remoti hanno filato e che forse completerebbe proprio l'ordito che potrebbe trasformare le cifre in un testo 30 .

Si fatica a trattenere le metafore adorniane in quella specie di limbo tra l'uso moderno della metafora e il semplice poetico traslare, limbo che possiamo chiamare costellazione, o meglio: campo di forze della costella­ zione. Che la filosofia debba pretendere alla verità è, oggi, tutt'altro che pacifico - anche se pure questo stato di guerra contro la pretesa alla verità sarebbe passibile di interpretazione come enigma, e la sua materia andreb­ be cercata probabilmente nello sviluppo della scienza come forza produt­ tiva e nel parallelo evolversi della filosofia come ricerca e strumento di consenso. Ma ancora più sorprendente è il richiamo a che non si rinunci finanche al «più piccolo filo che tempi remoti hanno filato». Non è chiaro se si tratti di filatura filosofica, sociale o storica tout court. Se rileggiamo la frase ricomponendola in una costellazione diversa troviamo: la storia della filosofia è la storia degli «strani intrecci dell'ente», per questo essa, la storia della filosofia, deve possedere tutti i fili degli intrecci al fine di trasformare l'ordito, e cioè la propria storia, in un testo, e tramite questo le cifre del reale, esse stesse in un testo. Parrebbe che Adorno non riesca a tener distinti il destino della filosofia da quello degli enigmi reali, o detto altrimenti: da quello degli enigmi dell'effettuale privo di intenzione. La cosa è ulteriormente complicata da quanto è scritto poco oltre, che impa­ rare a leggere possa consentirci di bandire le forze demoniache che risie­ dono negli enigmi. Si potrebbe avanzare l'ipotesi che le forze demoniache siano proprio ciò che costituisce il carattere di enigma dell'enigma, e che in qualche modo esse e la filosofia abbiamo in comune più di quanto si

30 Ibidem.

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sospetti, al punto che essa legga se stessa in loro, e la soppressione del­ l'enigma come risposta, ovvero un variare dispositivo che sciolga l'enigma, sia al tempo stesso compito e morte della filosofia; qualcosa di dialettica­ mente simile a quanto annunciato in Dialettica negativa: «l'utopia della conoscenza sarebbe di aprire con concetti l'a-concettuale senza renderlo identico a essi» 31 .

L'IDEA DI STORIA NATURALE

«L'intenzione vera e propria di ciò che dirò è volta ad abolire l'anti­ tesi tradizionale di natura e storia», «... la frattura fra soggetto e oggetto che esso [l'illuminismo] vieta di colmare, diventa index della falsità pro­ pria e della verità» 32 . Queste due frasi si trovano rispettivamente nel sag­ gio Die Idee der Naturgeschichte e nel libro Dialettica dell'illuminismo. Il testo del saggio è costituito da un discorso tenuto da Adorno alla Kant Gesellschaft nel 1932. Segue dunque di un anno Die Aktualitàt der Philo- sophie. Ed è un saggio assai particolare. Intanto è un quasi ininterrotto lapsus stilistico di Adorno: in esso, unica volta, egli utilizza parole e con­ cetti tratti dalla tradizione fenomenologica e ontologica, senza farne paro­ dia. È vero che ciò avviene in altri scritti ma quel che rende sorprendente questa acquiescenza di Adorno verso una terminologia che ha combattuto per tutta la sua opera, è che questo saggio è stato scritto dopo aver già acquisito tutta la conoscenza necessaria (e non prima, come accade per esempio alla tesi di laurea o alla tesi su Kierkegaard) a dire le stesse cose ma con termini diversi. Ma poiché non è mai possibile dire le stesse cose con termini diversi, quel che è detto in questo saggio non doveva, al tempo, essere esprimibile in nessun altro linguaggio. Questo comporta che uno dei punti fermi del pensiero di Adorno, l'idea di storia naturale ap­ punto che ritornerà sia nella Dialettica negativa sia nella Teoria estetica, abbia avuto bisogno di esser formulato in un linguaggio estraneo, se cosi si può dire, al pensiero del suo autore. La cosa è rilevante. Vediamo ora di segnare le costellazioni principali del saggio, tramite di esse sarà possi-

31 Th.W. Adorno, Negative Dialektik, cit., p. 21.32 Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschichte, cit., p. 345; e M. Horkheimer &

Th.W. Adorno, Dialektik der Aufkldrung. Philosophische Fragmente, S. Fischer Verlag, Frankfurt a. M. 1969, in italiano Dialettica dell'illuminismo, trad. R. Solmi, Einaudi, Torino 1982, p. 47.

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bile avanzare un'ipotesi di spiegazione.Il saggio comincia con la decifrazione del titolo, in particolare con

due definizioni - altra cosa che Adorno non farà mai più: iniziare con delle definizioni! Anzi indicherà in più luoghi come l'esigenza di defini­ zioni iniziali sia il marchio di un pensiero filosofico reificato - una relativa al termine 'natura' e l'altra al termine 'storia'. Il concetto di natura, segna­ tamente non la natura stessa, è «un concetto che volendolo tradurre nel tradizionale linguaggio concettuale filosofico, si può rendere tout court con il concetto di mitico. [...] Intendo con ciò quello che è insito da sempre, quello che la storia umana porta come Essere ad essa congiunto e supposto per destino, quello che in essa appare come a lei sostanziale» 33 . 'Storia' invece secondo l'autore: «significa quel modo di comportarsi degli uomini [...] caratterizzato soprattutto dal fatto che in esso appare un ele­ mento qualitativamente nuovo, dal fatto che esso è un movimento che non si svolge in pura identità [...] ma che fa emergere il nuovo e che acquista il suo vero carattere nell'apparizione del nuovo» 34 .

Dopo queste definizioni di partenza, Adorno spiega le sue intenzioni, vuole prendere le mosse criticando l'ontologia giacché

la questione sull'ontologia, come oggi viene posta, non è nient'altro che ciò che ho inteso per natura 35- e più oltre? - è merito della questione ontologica aver elabo­ rato in maniera radicale l'inscindibilità degli elementi di natura e storia 36 .

La proposta che vorrei avanzare, di fronte a queste «stranezze», è che il tema della revisione della scissione tra natura e storia sia identico alla tesi centrale della Dialettica dell'illuminismo, ovvero del rovesciamento dell'illuminismo in mitologia e del mito in illuminismo. La trasposizione della natura in mito ce la fornisce Adorno nello stesso saggio. Quella tra storia e illuminismo può destare più dubbi. Tuttavia se ripercorriamo i passaggi della dialettica dal mito all'illuminismo, troviamo che l'accezione del tutto ampliata in cui questo secondo termine viene utilizzato da Ador­ no e Horkheimer, consente, ad esempio, di porre la religione e il sacrificio

33 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, p. 91; ho lasciato immutata la tradu­ zione di M. Tosti Croce: la scelta della maiuscola per la parola 'Sein' è, com'è evidente, del tutto indecidibile traducendo dal tedesco, e tuttavia per il tono e il contenuto di questo saggio, mi è sembrata del tutto appropriata.

34 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, cit., p. 92.

Ibidem, p. 99.

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ad essa legato come primo illuminismo; qualcosa di simile a quanto soste­ nuto da Freud in Totem e Tabù. Anzi, il mito stesso è già una scissione operata, che crea quel che poi dolendosi della scissione da forza al mito. L'illuminismo è esattamente quel processo di scissione e allontanamento che fa emergere ogni volta il nuovo. Col che ovviamente il vecchio viene ricacciato nel mitico, e la paura di fronte all'ignoto viene sostituita dalla paura di fronte all'obliato. Questo è per Adorno, e lo resterà anche nel­ l'ultima elaborazione della teoria estetica, il movimento del qualitativa­ mente nuovo per eccellenza: il movimento con cui sorge l'individuo, o meglio detto la separazione tra oggetto e soggetto 37 .

Ma in questo saggio «manca» ancora, rispetto al capolavoro scritto con Horkheimer, un'analisi della relazioni tra l'illuminismo e il mito all'in­ terno del concetto stesso - o della ragione, se si preferisce - che sia autenticamente dialettica. Questo fa sì che per esprimere la natura come storia - l'emergere dell'azione umana entro il mito, secondo le definizioni appena riportate - si debba far riferimento ad un rapporto tra idee, e quindi all'ontologia che ha il merito di «aver elaborato in maniera radicale [...] natura e storia». Si potrebbe anzi azzardare che l'ontologia delle idee di storia e natura lasci scoperto e accessibile un campo che, dopo le analisi della Dialettica dell'illuminismo sul mito, risulterà chiuso per sempre con la proibizione scritturale di farsi immagini, e cioè l'elemento utopico di uscita dalla falsa alternativa tra mito e illuminismo. Questa ipotesi rende­ rebbe anche ragione della funzione che qui Adorno assegna alla benjami- niana allegoria (anch'essa simbolo della storia impietrita); funzione che in seguito verrà svolta differentemente dall'interpretazione nella dialettica negativa.

Ma vediamo come Adorno disegna l'idea di storia naturale. La sezio­ ne al riguardo inizia col riportare un testo di Lukàcs sulla «seconda natu­ ra», e passa poi a esaminare la categoria benjaminiana di allegoria. «Benja- min parte dal fatto che l'allegoria non è un rapporto di mere casualità secondarie; l'allegorico non è un segno casuale per un contenuto in esso sotteso; piuttosto tra l'allegoria e il pensato allegoricamente esiste un rap­ porto causale: "l'allegoria è espressione"» 38 . Oltre a non essere segno di

5 ' È poi certamente vero che i passaggi di tale movimento sono molteplici. La divisione del lavoro, il progresso scientifico, il mercantilismo, e via dicendo, sono altret­ tanti punti nodali indicati da Adorno in varie sue opere. Nessun dubbio tuttavia che nella Dialettica dell'illuminismo questa prima scissione sia la fondamentale.

58 Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschtchte, p. 358. Adorno sta citando una frase di Benjamin «Allegorie sei Ausdruck» che si trova nel // dramma barocco tedesco.

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una causalità, l'allegoria come espressione non è neppure simbolica d'una essenza non concettualizzabile; piuttosto si dovrebbe dire che nell'mter- pretazione filosofica essa si sostituisce alla funzione sintetico-appercettiva del simbolo ma senza rassomigliargli. Scrive Adorno che

da tempo l'interpretazione si è separata da ogni domanda relativa al senso; detto in altri termini, i simboli della filosofia sono andati in rovina. [...] La filosofia [...] deve imparare a farcela senza la funzione simbolica, nella quale finora, almeno nell'idealismo, il particolare pareva rappresentare l'universale 39 .

È così evidente che, a meno di postulare una contraddizione infecon­ da, allegoria e funzione simbolica sono profondamente diverse. Alla pre­ tesa simbolica, che l'altra metà della verità sia nascosta e solo pagando la contromarca del simbolo essa sia immediatamente disponibile a introdurre alla totalità, si contrappone l'allegoria, dove rapporto causale e espressione sono identici e dunque non possono venir attraversati né percorsi con dirczione univoca: «... la relazione tra ciò che appare allegoricamente e ciò che è significato non è affatto una relazione di segno casuale; si verifica piuttosto un fatto particolare, essa è 'espressione'» 40 . Detto a nostra volta in altri termini, si potrebbe dimostrare che la «soluzione del simbolo» è la verità del simbolizzato, in presenza del quale il simbolo sarebbe inutile e immobile; mentre la soluzione dell'allegoria non è la soppressione del­ l'allegorico, giacché se nel rapporto espressivo si toglie l'espressione nulla più conduce all'espresso. Solo il segno sta per il segnato, nell'allegorico è il rapporto espressivo che sta per l'allegorizzato, un rapporto che sta per una sua parte: una sineddoche.

Con il che il paragone con l'enigma si ribalta: se l'oggetto dell'inter- pretazione fosse preso come simbolo allora in esso si troverebbe già pron­ ta la verità, l'altra metà dell'apparenza - ma nell'interpretare l'allegoria si scioglie il carattere espressivo affinchè l'espresso giunga alla luce: ciò che si svolge e si esprime nello spazio dell'allegoria «non è nient'altro che un rapporto storico. Il tema dell'allegorico è semplicemente la storia» 41 . Di fronte ad esso «si tratta non di concetti da spiegare traendoli l'uno dall'al­ tro, ma di fissare una costellazione di idee» 42 ; ecco ripetuta, quasi uguale,

' 9 Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 8.40 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, cit., p. 102.41 Ibidem. Corsivo mio.42 Ibidem, p. 103. Corsivo mio.

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la formula del gioco di combinazioni proposta da Adorno a proposito della soluzione dell'enigma.

È possibile adesso pensare che, nonostante tutto questo, non si dia nulla se non nella forma dell'allegorico enigma? Nulla, nel senso di: nulla di originario? e che quindi l'uccisione dell'enigma significhi solo una per­ dita di senso? Se Adorno sostiene «come la risposta relativa all'enigma non sia il "senso" dell'enigma [e che] la risposta sta [...] in stretta antitesi all'enigma; essa ha bisogno della costruzione a partire dagli elementi del­ l'enigma ed essa distrugge l'enigma stesso» 43 , non sarebbe piuttosto da dire che la risposta distrugga il carattere di enigma dell'enigma ma non il suo materiale? Cosa vuoi dire altrimenti che la risposta deve essere costru­ ita a partire dagli elementi dell'enigma, e che anzi, la risposta stia in una diversa configurazione, o costellazione, degli elementi materiali dell'enig­ ma?

La storia in tutto quanto ha - Adorno sta citando da Benjamin -, fin dall'inizio, di inopportuno, di doloroso, di sbagliato si configura in un volto - anzi: nel teschio di un morto [...] non soltanto la natura dell'esistenza umana tout court, ma anche la storicità biografica di un singolo si esprime significativamente, in forma di enig­ ma, in questo suo aspetto, l'aspetto naturale supremamente degradato. E questo il nucleo della concezione allegorica, dell'esposizione barocca, mondana della sto­ ria [...]; che è significante soltanto nelle stazioni del suo decadere. Tanto è il significato e tanto è l'abbandono alla morte, perché è la morte che più profonda­ mente scava la merlettata linea di demarcazione tra la physis e il significato 44 .

Prima del passo qui riportato Benjamin distingueva il simbolo dall'al­ legoria in base al rapporto che istituiscono nella caducità: il simbolo tra­ sfigura la caducità facendo apparire il «volto trasfigurato della natura nella luce della redenzione», mentre nell'allegoria «si propone agli occhi dell'os­ servatore la facies hippocratica della storia come un pietrificato paesaggio primevo» 45 - Adorno commenta:

Che cosa significa parlare qui di caducità e che cosa vuoi dire storia originaria del significare? [...] Si tratta non di concetti da spiegare traendoli l'uno dall'altro, ma di fissare una costellazione di idee: cioè l'idea della caducità, del significare e l'idea

43 Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 8.44 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, p. 103. Adorno sta citando da: W.

Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Berlin 1928, p. 178. Traduzione italia­ na: // dramma barocco tedesco, a cura di E. Filippini, Eindaudi, Torino 1971.

45 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, cit., pp. 102-03.

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della natura e l'idea della storia. A queste non si ricorre come invarianti. [...] In Benjamin c'è innanzitutto la concezione - ed è questo il punto da superare - che esistano alcuni fondamentali fenomeni storico-originarii che, presenti alle origini, sono poi trapassati e, assunto significato solo nell'allegorico, ritornano in esso, ritornano nel loro aspetto letterale. [...] Il termine "significato" ci dice che i momenti 'natura' e 'storia' non si risolvono uno nell'altro, ma piuttosto erompono contemporaneamente l'uno dall'altro e si intersecano in maniera tale che il natu­ rale si presenta come segno per la storia, e la storia, anche nel suo lato più schiet­ tamente storico, come segno per la natura. [...] In eguai modo il "significare" stesso si trasforma da problema dell'ermeneutica storico - filosofica [...] in mo­ mento che transustanzia, per sua stessa costituzione, la storia in storia originaria 46 .

Si deve innanzitutto cercare di chiarire che cosa è in gioco in questo confronto. Si tratta della questione della verità - detto nel modo più chiaro tra quelli possibili: solo se esiste una soluzione all'enigma tale per cui l'enigma scompaia si può opporsi al relativismo, o a uno storicismo frainteso, ma se quel che ci si ritrova dopo la scomparsa dell'enigma è la nuda e pura verità, allora si cade nelle braccia della verità extratemporale, eterna, metafisica. Se il tema dell'allegorico è la storia, e se essa giunge in questo ad espressione perché analoga è la struttura dell'uno e dell'altra, allora l'allegoria è in grado di comprendere non solo l'apparenza della successione temporale degli eventi ma in questa anche quel privo di inten­ zione che, vedremo, costituisce propriamente l'oggetto da interpretare, ricollegando i suoi fili. Chiariamo con un esempio; il cristianesimo è pa- radigmatico della ricostruzione simbolica della storia, in esso il significato è predisposto agli avvenimenti che si ordinano gerarchicamente rispetto all'unico evento, il Cristo - e ogni deviazione è, per quanto significativa, accidentale, anzi la sua significatività si costruisce proprio ex negativo rispetto al corso della storia. Questo è il modello concettuale di storia simbolica (si badi bene: il concetto di storia simbolica, non la storia sim­ bolica), dove il senso trascorre senza rischio dall'evento agli avvenimenti. La costruzione allegorica, al contrario, non si affida alla rappresentazione bensì all'wterpretazione, e il significato non è disponibile nel testo ma va ottenuto tramite il testo nella disposizione dei suoi materiali. Così il testo è cieco ma l'interpretazione non si sostituisce ad esso - non è, nella ter­ minologia di questi lavori adorniani, la spiegazione dell'enigma che lo dissolve, come se sotto di esso si mostrassero, entrambe autentiche, do­ manda e risposta; bensì l'enigma è l'allegoria da interpretare. Non solo;

Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschichte, cit., p. 360.

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INTRODUZIONE 23

questo problema, centrale nella teoria estetica come rapporto tra l'opera d'arte e il suo significato, ha anche la sua facies hippocratica appunto, cioè quella che concerne l'interpretazione finita o infinita, e soprattutto la possibilità che essa ottenga di uscire dall'orbita schiacciante del testo; questione che ci riporta all'assunto critico iniziale, che cioè natura e storia siano oggetti dell'interpretazione critica in quanto «idee» risultanti dal processo dialettico stesso di natura e storia, e non identità ontologiche.

Adorno commentando la categoria di «seconda natura» di Lukàcs spiega: la storia degli uomini si irrigidisce a natura, essi la trovano estra­ nea, priva di intenzione, meglio: come se fosse priva di intenzione - la storia quando appare immutabile e mitico destino del genere umano as­ sume i tratti della natura 47 , ma la stessa dialettica coinvolge anche l'imma­ gine naturale. La natura irrigidita è storica, il privo di intenzione, quel che davvero resta oggi come natura, è relativo all'intenzionale che pure oggi appare come mitico e naturale. La costituzione della natura e della storia è storica, non nel senso di uno storicismo, o relativismo, assoluto, ma nella dirczione di un totale abbandono dell'idea stessa di immediato. L'idea di storia naturale ha il suo telos in questo: la storicizzazione della natura corrisponde alla sua secolarizzazione. E una mossa del pensiero illumini­ stico, una sua autocritica, perché riconosce l'istituzione del significato come legata alla istituzione del soggetto. E questo è lo skandalon della filosofia naturale di Adorno: «II termine "significato" ci dice che i momen­ ti 'natura' e 'storia' non si risolvano l'uno nell'altro, ma piuttosto erompo­ no contemporaneamente l'uno dall'altro» 48 . Se non c'è risoluzione possi­ bile questo significa, in una categorizzazione in un certo senso pre-dialet- tica, che come signoria e servitù ognuno abbisogna dell'altro come suo altro per poter essere se stesso, e quindi «... il naturale si presenta come segno per la storia, e la storia [...] come segno per la natura» 49 . È la relazione dialettica che è da riconoscere nel carattere di «segno» che l'una per l'altra assumono natura e storia: «In eguai modo il "significare" (be- deuten] stesso si trasforma da problema dell'ermeneutica storico-filosofica (addirittura da problema nel senso trascendentale) in momento che tran- sustanzia, per sua stessa costituzione, la storia in storia originaria» 50 . Ed

47 Ibidem.48 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, cit., p. 104.49 Ibidem.5(1 Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschichte, cit., p. 360.

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è proprio per questo che in Benjamin «si parla di storia originaria del significare» 51 ; non perché si possa allegoricamente riferirsi ad un lingua adamitica, bensì perché la storia originaria del significare non è problema ermeneutico (nel senso ristretto che Adorno dava a questa parola di 'filo­ logia interpretante') ma a pieno titolo dialettica dell'illuminismo, spiega­ zione della costituzione dell'uomo e in uno della natura come unità della differenza e diversità nell'identità: «qualsiasi critica filosofica oggi è pos­ sibile come critica del linguaggio» 52 .

Poiché la filosofia non accetta nulla come dato primo, nemmeno il significato e il suo contrario, il privo di significato, o il privo di intenzione, sono da essa accettati come origine.

Il grido di terrore con cui è esperito l'insolito, diventa il suo nome. [...] Lo sdop­ piamento della natura in apparenza ed essenza [...] nasce dalla paura dell'uomo, la cui espressione diventa una spiegazione... In cui è già implicita la separazione di soggetto e oggetto. Se l'albero non è più considerato solo come albero, ma come testimonianza di qualcos'altro, come sede del mana, la lingua esprime la contrad­ dizione, che una cosa, cioè, è se stessa e insieme è qualcos'altro da ciò che è, identica e non identica. Tramite la divinità il linguaggio diventa, da tautologia, linguaggio".

Ma allora, su quali basi comporre e interpretare l'allegorico?

LA ESATTA FANTASIA

II ricorso alla facoltà d'una esatta fantasia si trova in posizione cen­ trale per lo meno in tre testi di Adorno: la Teoria estetica, i Tre studi su

" Per questo tema cfr. W. Benjamin, Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1955, in italiano: W. Benjamin, Angelus Novus, tr. R. Solmi, Einaudi, Torino 1962; in particolare i saggi: II compito del traduttore, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo, Sulla facoltà mimetica.

È curioso che proprio W. Benjamin abbia commentato, per la radio berlinese, dal 1929 al 1932, tra le altre, la leggenda di Kaspar Hauser, che tratta proprio della «na­ scita» a quarantenni di un uomo che fino ad allora era rimasto chiuso in una torre. L'esperienza fondamentale è proprio di tipo linguistico-concettuale. Cfr. W. Benjamin, Aufklàrung fùr Kinder. Rundfunkvortràge. Hrsg. von R. Tiedemann, Surhkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1985.

52 Th.W. Adorno, Thesen iiber die Sprache des Philosophen, cit., p. 369.55 M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., pp. 22-23.

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Hegel e i Minima moralia™. Nel discorso Die Aktualitdt der Philosophie, essa compare per la prima volta in campo filosofico. Eravamo giunti, prima di addentrarci nella questione allegorica, alla delucidazione sul fatto che il metodo di variare il materiale per ottenere tramite nuova disposizio­ ne il dileguare dell'enigma avesse suo nome proprio: dialettica, in partico­ lare la dialettica di Marx. Commentando questo passo si era richiamata l'attenzione sul fatto che solo tramite il riferimento a Marx si comprende perché Adorno chiami la lettura atto fondamentale e soprattutto prassi teoretica. In seguito Adorno riprende e integra la critica sia al relativismo storicista che alle invarianze psicologiche, compare il nome di Klages e inizia a chiarirsi il rapporto tra l'arte di disposizione del materiale e l'al­ legoria. Infine leggiamo:

Nella trattazione del materiale concettuale da parte della filosofia non parlo a caso [...] di costruzione e di costellazione. Infatti le immagini storicbe [...] non sono semplice autodatità. Esse [...] debbono venire prodotte dagli uomini e legittimarsi in definitiva solo attraverso il fatto che la realtà si condensa intorno a loro in maniera stringente. [...] Esse sono i modelli con i quali la ratio si avvicina [...] a una realtà che sfugge alla legge. [...] Si può vedere qui un tentativo di riprendere quella vecchia concezione della filosofia che Bacone formulò e sulla quale Leibniz di affaticò una vita: una concezione che l'idealismo derise come stravagante: quella della ars inveniendi. "

Reso chiaro intanto quanto sopra affermato, e cioè il carattere storico e non psicologico del privo di intenzione e del suo carattere enigmatico, Adorno chiama in soccorso un nome da tempo caduto in proscrizione. Non è solo la provocazione a dettar legge. Ci ritroviamo bensì di fronte allo stesso problema che più tardi molti critici Vl indicheranno sotto la

54 Th.W. Adorno, Astetische Theorie, a cura di G. Adorno e R. Tiedemann, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1970. In Italiano: Teoria estetica, tr. E. De Angelis, Einaudi, Torino 1975; Th.W. Adorno, Drei Studien ^u Hegel, op. cit., ; Th.W. Adorno, Minima moralia. Reflexionen aus dem bcscbadigten Leben, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1951. In italiano Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, tr. R. Solmi. Einaudi, Torino 1954. In questo testo il tema della «esatta fantasia» viene elaborato all'interno di una teoria dell'esperienza, esso prende pertanto nomi diversi. Si guardi per esempio l'ultimo aforisma.

" Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 10. Corsivo mio.56 Cfr. i saggi: G. Pasqualotto, Teoria come utopia, studi sulla scuola di Franco-

forte, Bertani, Verona 1974; M. Pretti, Homo teoreticus, Franco Angeli, Milano 1978; ancora M. Pretti, Teoria come prassi e «politico» m Th. W. Adorno, in «Rassegna italiana di sociologia» XX, 1980, n. 2, pp. 265-90. Inoltre i volumi collcttane!: a) Die Neue

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celebre frase dei Minima moralia: «Non si da vita vera nella falsa» 57 . Se tutto è falso, nel senso che nulla è sottratto alla mediazione falsificante della forma mercé, a partire da che cosa è possibile la critica? qual è il punto archimedeo? Adorno lo esprime con la metafora del Barone di Mùnchhausen che si solleva da sé afferrandosi per il codino 58 . In realtà una categoria estremamente affilata di «esperienza» si proporrà di risolve­ re negli scritti degli anni Sessanta questo problema. Tuttavia quel che qui interessa è la proposta dell'^ry inveniendi, il fatto che tanto presto compaia l'idea della fantasia come struttura interpretativa della storia, meglio: delle immagini storiche, è estremamente importante. In un saggio del 1950, Adorno cita dal manoscritto benjaminiano dei Passagen, a proposito delle «immagini dialettiche»:

queste immagini sono proiezioni del desiderio, e la collettività cerca in esse sia di eliminare che di trasfigurare l'imperfezione del prodotto sociale. [...] Nel sogno in cui, ad ogni epoca, si presenta in immagini la seguente, questa appare sposata ad elementi della preistoria, cioè di una società senza classi. Le esperienze della quale, depositate nell'inconscio della collettività, producono, compenetrandosi col nuo­ vo, l'utopia, che ha lasciato le sue tracce in mille configurazioni della vita, dalle costruzioni durevoli alle mode effimere.

E così commenta:

tali immagini erano tuttavia per Benjamin qualcosa di più che archetipi dell'incon­ scio collettivo come in Jung: per esse egli intendeva delle cristallizzazioni obiettive del movimento storico e le denominò col nome di immagini dialettiche 59 .

Linke nach Adorno, hrsg. von W.F. Schòller, Mùnchen 1969; b) Hamburger Sympho- sion, hrsg. von M. Lòbig und G. Schweppenhàuser, Dietrich zu Klampen Verlag, Lùneburg 1984; e) Die frankfurter Schule im Licht des Marxismus, materiali dello Istituì fùr marxistische Studien und Forschungen, raccolti in occasione di due giornate di studi in occasione del centenario della nascita di Lenin, Frankfurt a. M. 1970.

57 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 35.58 È questa una delle metafore più spesso usate da Adorno. La si ritrova, ad

esempio, sia nei Minima moralia, che nella Terminologia filolofica e nella Dialettica negativa. Indica il pensiero senza fondamenti, cioè per Adorno, quello che non si preoccupa di partire dalla doxa e procedere in forma raposodica. Cfr. Th.W. Adorno, Philosophische Terminologie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1973; ed. it. Termino­ logia filosofica, a cura di Anna Solmi, Einaudi, Torino 1975. Il testo raccoglie lezioni tenute da Adorno a Francoforte nel 1962-63. La cura dell'edizione tedesca è di R.Z, Lippe.

59 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 243.

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Com'è facile vedere in questa citazione compaiono molti dei termini che costituiscono il problema anche del saggio del 1931 del quale ci stia­ mo occupando. Aggiungiamo un'ultima citazione da Die Aktualitdt der Philosophie prima di passare al commento; è la parte immediatamente seguente a quella suil'<m inveniendi:

Organo di questa ars inveniendi è la fantasia. Una fantasia esatta, una fantasia che si trattiene con fermezza sul materiale. [...] Se l'idea di interpretazione filosofica [...] sussiste a buon diritto, allora essa si lascia esprimere come esigenza di dare risposta alle domande di una realtà che si trova davanti, mediante una fantasia che raggnippa assieme gli elementi della domanda, senza andare al di là del perimetro degli elementi stessi, e la cui esattezza diviene controllabile al dileguarsi della domanda 60 .

Se si potesse dire che «cifrato nel privo di intenzioni» sia il rapporto tra soggetto e oggetto - nota dolente della filosofia tutta - allora il richia­ mo alla fantasia come arte dislocatrice si chiarirebbe; perché dislocare non significa solo rimescolare le carte a casaccio nell'attesa che esca la combi­ nazione vincente. Del materiale enigmatico - nell'ipotesi sia il rapporto tra soggetto e oggetto, nelle varie forme che questi assumono - è parte inte­ grante il soggetto. Ovvero: dislocare è impiegare un atteggiamento dialet­ tico che riguarda anzitutto il soggetto. In questo senso la fantasia è la facoltà adatta a questo operare nella misura in cui è libera dalle costrizioni dell'empirico immediato, tanto quanto dalle illusioni di interezza del sog­ getto. Che essa abbia poi il modello nella pratica del materialismo dialet­ tico richiama alla mente in modo quasi letterale Marx: il rapporto tra soggetti e oggetti non è teoretico ma pratico, è un rapporto che si deter­ mina e si concretizza in particolari modi di produzione. Il commento a Benjamin conferma questa proposta interpretativa. Alla dialettica spettava il nome della decifrazione degli enigma perché essa da il «modello delle soluzioni delle quali solo la prassi materialistica dispone» 61 , ovvero quello secondo il quale la risposta non deve lasciare intatta la domanda. La nozione di modello ritorna anche a proposito dell'esatta fantasia, -citata poco più sopra, in esso la 'transustanziazione' di Adorno e la 'trasfigura­ zione' del passo di Benjamin trovano comunanza. Si tratta di un doppio legame: da un lato non esistono immagini che non siano già una trasfigu-

Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 10. Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 243.

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razione, come si esprime Benjamin, dall'altro esse giungono al presente sotto forma fratta e l'opera della filosofia consiste nel porre il loro mate­ riale in modo che il carattere enigmatico si transustanzi e dilegui. È, detto metaforicamente, la messa in dialettica del celebre «intuizioni cieche e concetti vuoti», con in più la consapevolezza che anche questa, come tutte le immagini dialettiche, possiede la sua storia; la prima interpretazione è compiuta dal soggetto sotto pressioni irrimediabili: essa consiste nel­ l'espulsione di «parti del testo» affinchè in esso non sia leggibile la sua origine. Compito della filosofia è secondo Adorno quello di disporre le parti presenti, senza credere loro ma senza tuttavia aggiungere nulla dal di fuori, affinchè esse da cifra e frammento assumano l'aspetto di un testo. Testo è cioè: qualcosa di umano e sociale che parla di altro da sé. La esatta fantasia fa appello negativo critico: si contrappone al metodo della legge scientifica, per la quale il vincolo al pensiero razionale (nel senso della Dialettica dell'illuminismo) è insuperabile.

Ma qual è il movimento nel quale si compie la fantasia? e che signi­ fica l'aggettivo «esatta»? Nel saggio Thesen ùber die Sprache des Philo- sophen scrive Adorno che «la differenza tra forma e contenuto nel linguag­ gio filosofico non è una disgiunzione eterna e senza storia. Essa si richiama esplicitamente al pensiero idealistico: corrisponde all'idealistica differenza di forma e contenuto della conoscenza» 62 . Differenza che, si chiarisce subito, è falsa e tuttavia non revocabile d'un gesto, che anzi forse proprio la sua revocabilità costituisce il principale problema della filosofia, nonché suo compito. A tale differenza si associa il bolso pretendere che «si parli chiaro», pretesa che, prima di ogni altra, suppone che lingua e cose stiano in buono rapporto tra di loro, un rapporto appunto per il quale cosa e parola entrino serenamente in contatto senza bisogno di alcuna tensione da parte del linguaggio 63 . Non solo, ma tale pretesa è per lo più avanzata da coloro ai quali il ruolo sociale nella oscurità del parlar filosofico non dovrebbe essere del tutto incomprensibile, come sostiene Adorno: «L'astratta idealistica pretesa che siano adeguati linguaggio, oggetti e so­ cietà, è l'esatto contrario della effettività del linguaggio reale (wirklicher Sprachrealitàt]» M . Il potere del linguaggio, insomma, tanto quanto i suoi limiti non sono sovrastorici ma dipendono dalla configurazione nella quale

Th.W. Adorno, Thesen ùber die Sprache des Philosophen, cit., p. 366. Ibidem, pp. 366-67. Ibidem, p. 367.

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è sorto e dal rapporto di questa con l'attuale - perché il linguaggio è fenomeno sociale: «senza società conchiusa non si da alcuna obiettività, e con ciò nessun linguaggio vero e comprensibile» 65 . Anche se in effetti la connessione tra linguaggio e società non è in questo saggio esplicitata con chiarezza, è sufficiente, per ora, riassumere l'idea che il linguaggio cifri la realtà del privo di intenzione in una immagine enigmatica, la risposta alla quale consiste nel far sparire il carattere di enigma, tramite disposizioni diverse del medesimo materiale, affinchè ne salti fuori il carattere storico come segno della natura e quello naturale come cifra della storia - un'al­ legoria interpretativa che veda nel morto le cifre del sogno del futuro, e che abbia un nesso causale espressivo con la storia: questo è il linguaggio, nella cui forma è sedimentato il contenuto. Nessuno dei fili di tale sedi­ mentazione è non indispensabile: attraverso di essi la filosofia può, forse, ricostruire il testo e se stessa. «Ogni critica filosofica è oggi possibile come critica del linguaggio» e aggiunge Adorno, tale critica significa domandare la propria verità alle parole e alle cose, citare in giudizio il linguaggio, ma altrettanto le cose.

Un'altra maniera per indagare la questione è di rivolgere attenzione alla facoltà del nominare le cose, cioè all'aspetto intensivo del concetto. La posizione di Adorno nella querelle tra nominalismo e realismo è sempre stata estremamente dialettica 66 : per un verso il realismo mente quando pone come originaria l'essenza della cosa e da essa fa discendere, a secon­ da delle correnti, o la non esistenza della cosa (individuo significa: sogget­ to assoluto, se nessun uomo è soggetto assoluto allora nessun uomo è un individuo) o la reale esistenza dell'essenza (l'uomo è essere per essenza libero, ergo in ultima istanza, qualunque uomo è già ora e adesso libero semplicemente per il fatto di essere uomo), ma per altro verso esso ha perfettamente ragione contro il nominalismo sulla pretesa di poter chia­ mare il giudizio la realtà quanto non corrisponde al suo proprio concetto. Per il semplice fatto che gli uomini, secondo le parole scritturali, pur non essendo la loro testa il mondo, hanno tutto il mondo nella loro testa. Questa posizione, è facile vedere, resta fedele all'idea che la differenza tra forma e contenuto sia da criticare e insieme innegabile. Ma come è pos­ sibile far funzionare i nomi realisticamente senza dar loro spessore onto-

65 Ibidem.66 Per un'analisi di questo tema ci si potrebbe servire delle pagine della Termino­

logia filolofica, cit., pp. 16-28, 39-40, nonché l'interessantissima «difesa» adorniana della prova ontologica alle pp. 92, 95 e 100 e sgg.

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logico e metafisico? «[...] nuove parole dei filosofi si configurano oggi solamente come modificazione (Verànderung) della configurazione delle parole, che stanno nella storia, e non nella creazione di una nuova lin­ gua» 67 , risponde Adorno, quasi che la possibilità di avere parola sia iden­ tica all'operazione che si compie per sciogliere gli enigmi: variare la costel­ lazione materiale, fino a quando il carattere mitico e enigmatico non scom­ paia. Meglio: non si muti in altro, all'interno della prassi filosofica, per far scomparire il demoniaco stesso, forse. Adorno è singolarmente vicino alla concezione della inutilità di cercare nelle singole parole verità o falsità, ma bensì nella loro configurazione. Tranne per il fatto che nelle parole è sedimentata la storia:

... [la] critica del linguaggio non deve solamente investire la mera «adeguazione» di parola e cosa, bensì altrettanto la situazione delle parole in se stesse; si deve chiedere alle parole fin dove siano idonee a portare a conclusione (tragen) la loro pretesa intenzione, fin dove la loro forza storica si sia consumata, fin dove esse possano affermare qualcosa configurativamente... 68 .

Le parole hanno quindi un lato realistico poiché in esse è compresa una intenzione, e questa è al contempo il loro lato sociale. Ma esse sono anche dei puri nomi ai quali nulla vale, se nulla corrisponde, contrapporre come desiderio. Ciò in forza di cui è possibile scavare con le e nelle parole è il loro «carattere di linguaggio figurativo». Ma «figurativo» e «esatta fantasia» hanno già troppo in comune, meglio affrettarsi a precisare che qui Adorno non ha affatto in mente un linguaggio carico di pathos, o con variazioni melodiche, o retoriche etimologiche; proprio Heidegger è citato come esempio negativo del tentativo di restituire alle parole la loro dignità qualche riga prima. Il carattere figurativo si riferisce qui alla «configura­ zione», mutando la quale è possibile creare un linguaggio che possa essere portatore di vero, e comprensibile.

Configurazione; è già stato incontrato questo termine negli altri due saggi, come documentato da Pierre V. Zima in Adorno et la crise du langage... 69 esso non è altro che una variazione terminologica, che verrà poi definitivamente abbandonata, della costellazione. Questo vuoi dire

67 Th.W. Adorno, Thesen ùber die Sprache des Philosophen, cit., p. 368.68 Ibidem, pp. 369-70.69 P.N. Zima, La crise du langage, cit., ma cfr. anche: a) M. Jay, Th.W. Adorno,

II Mulino, Bologna 1987; b) M. Barzaghi, Dialettica e materialismo in Adorno, op. cit.

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che solo un linguaggio in forma di costellazione può esprimersi senza tradire. Un linguaggio in costellazione dove «la struttura reale di un'imma­ gine filosofica può già stare in una tensione figurativa con la sua propria struttura linguistica» 70 . Differenza tra struttura della cosa e struttura del linguaggio che diventa produttiva: la domanda è: su quale delle due si debba calare l'esatta fantasia della quale andiamo cercando ragione?

Il tema dell'allegorico è «semplicemente» la storia, «un rapporto storico tra ciò che appare, la natura apparente, e ciò che è significato, vale a dire la caducità» 71 . Solo quel che è stato, in quanto non è più, o meglio è come forma cifrata, è in grado di esprimere significativamente la natura dell'esistenza umana. Il significato come il significare sono originari, nel commento di Adorno, perché dell'istitutiva distanza tra soggetto e oggetto fanno tema di esposizione: «Si deve partire dal fatto che la storia, così come ci si presenta, si configura come completa discontinuità in quanto contiene non solo fatti e avvenimenti disparati, ma anche disparità di tipo strutturale» 72 . Tale discontinuità è la stessa categoria di caducità che Benjamin e Lukàcs hanno rappresentato nel testo di Adorno. Ora quando Adorno critica la filosofia che ha bisogno per farcela della funzione sim­ bolica è perché «la funzione, che la domanda filosofica tradizionale si aspettava da idee sovrastoriche e simbolicamente significative, viene inve­ ce svolta da idee a-simboliche intrastoricamente costruite» 73 . Insomma: la categoria di simbolo viene rifiutata perché, ad avviso di Adorno, in essa non è possibile immettere appieno la dimensione storica, proprio perché il simbolo è funzione di superamento della storia anche quando simboleg­ gia per eccellenza l'inizio della storia - la croce cristiana. O più propria­ mente si tratta di una differenza tra due tipi di storia; la prima intenzio­ nale, sensata e progressiva, le seconda discontinua, continuamente costret­ ta a cifrarsi in allegorie, e dispiegare le proprie differenze temporalmente, nella caducità che fa sì che ogni morto passato rappresenti la cifra del presente, come il teschio di Benjamin,

«... secondo la mia concezione, la storia non sarebbe più il luogo a partire dal quale le idee si elevano, si pongono in risalto da sole e scompaiono di nuovo, ma le immagini storiche sarebbero esse stesse idee e sarebbe la loro connessione ad

'" Th.W. Adorno, Thesen ùber die Sprache des Philosophen, cit., p. 370.71 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, cit., p. 102.72 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, cit., p. 105. '' Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 8.

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accertare la verità priva di intenzione, invece che la verità a venire nella storia come intenzione» 74 .

Le immagini storiche, nelle quali è cifrata la natura come storia e la storia come natura, sono esse stesse idee di una verità non intenzionale, e la loro connessione, parente stretta della costellazione degli elementi materiali dell'enigma, come della disposizione strutturale nuova delle pa­ role, è anzi l'unico criterio per accertare la verità. Cosa sia una connessio­ ne di immagini di una realtà che è radicalmente discontinua è difficile da immaginarsi. E tuttavia è da ricordare il passo nel quale Adorno sostiene che la filosofia sia in grado di leggere nella propria discontinuità se stessa e tramite di ciò anche attaccare il demonico che l'ha costretta a «nascon- dersi» in enigmi. Secondo questa suggestione, così, la discontinuità storica sarebbe la porta di ingresso dell'interpretazione, che non prende nulla per proprio dato, ma anzi lo sfrutta affinchè tramite nuove composizioni degli elementi scompaia il carattere di enigma:

la filosofìa [...] si tratterrà là dove la realtà irriducibile fa irruzione. [...] L'irruzione dell'irriducibile si compie in maniera concretamente storica e perciò la storia or­ dina l'alt al movimento del pensiero verso i presupposti. La produttività del pen­ siero può dialetticamente dar buona prova di sé soltanto nella concrezione storica. Entrambe vengono in comunicazione attraverso i modelli 75 .

Anche le immagini originarie sono descritte come «modelli», così come anche la fantasia esatta, organo della ars inveniendi, «si trattiene con fermezza sul materiale», allo stesso modo della filosofia nei confronti della concrezione storica, - l'incontro finale avviene nei modelli, dunque nelle immagini storiche, che sono «idee» la cui connessione, costellazione creata dalla ars inveniendi, accerta la verità del privo di intenzioni. L'organo della ars inveniendi, la fantasia esatta, è organo nel senso letterale: organo di senso, non metodo o mezzo tecnico. Non si tratta di fantasticare tutte le soluzioni possibili, sperando che ne cavi fuori il coniglio giusto, ma di utilizzare l'organo della fantasia, cioè quello della immaginazione, che crea immagini storiche radicalmente per rappresentarsi la storia la cui verità non è l'avvento intenzionale, ma al contrario il residuo, il non intenziona­ le, anzi meglio: la verità è cifrata nel non intenzionale, che è quasi un testo,

74 Ibidem.75 Ibidem, p. 10.

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INTRODUZIONE 33

in attesa che da tutti i fili tessuti in tutti i tempi la filosofia riesca a ricostruire la storia naturale, la storia del privo di intenzioni.

Se paragoniamo l'irruzione dello storico di Adorno, con l'irruzione della storia nell'inconscio di Freud, abbiamo un confronto suggestivo, ancorché probabilmente filologicamente inconsistente (per ora). Con la differenza che è il privo di intenzione a irrompere e far rimettere in moto l'intenzionale che appare in moto ma è fermo. È una questione temporale. Qualcosa accade nella storia, originaria e naturale ma poi ordinaria e umana, che crea degli strappi nel tessuto delle immagini che pure parreb­ be non doversi interrompere mai; l'idea, la cosa stessa, diventa «strano intreccio» e «enigma». Di qual sorta sia questa rottura sarà mostrato più avanti, per ora quel che conta, in conclusione, è dimostrare una forma di questa frattura: quella del linguaggio. Quale modello ha in mente Adorno? Uno dove, perlomeno,

il linguaggio configurativo diviene [...] l'esplicita procedura che presuppone l'inin­ terrotta dignità delle parole senza doverla aggirare, [...] si determina il linguaggio configurativo [...] come unità dialettica incrociata, e insolubile, di concetto e cosa 76

ma nelle parole è sedimentata la storia, e esse ne prendono possesso solo all'interno della modificazione del campo di forze entro cui sono messe a operare. La forma e lo stile sono dunque - come è sostenuto nella Teoria estetica - un contenuto sedimentato e sottratto alla coscienza e all'intenzione. Le parole sono quindi in grado di decifrare solo se ricono­ scono tale sedimento e lo mettono in moto contro la sensibilità attuale: «La struttura reale di un'immagine filosofica [immagine storica e dialetti­ ca] può già stare in una tensione figurativa [cioè stilistica e formale, dun­ que contenutistica] con la sua propria struttura linguistica [formale e sti­ listica, dunque contenutistica]» 77 . Sono due forme, cioè due contenuti, che entrano in tensione figurativa, poiché sono diacronici in misura diver­ sa, appartengono a due gradi differenti del processo di trasformazione in immagine 78 . L'organo di senso di tale appercezione non può che essere la fantasia, che le immagini produce, a partire dalla memoria. Questa produ­ zione è fantastica in quanto le immagini non devono rispecchiare bensì

' 6 Th.W. Adorno, Thesen ùber die Sprache des Philosophen, cit., p. 369. Corsivo mio.

77 Ibidem, p. 370.78 Cfr. la «trasmutazione» della forma di enigma, nel saggio Die Aktualitàt der

Philosophie, op. cit.

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decifrare il reale e il linguaggio; ma è anche in funzione della memoria perché il contenuto dei nomi è espressione della loro storia, anche se tramite una «trasmutazione in forma» (Verwandlung ins Gebilde) che la rende non intenzionale.

Certamente le immagini non sono immediatamente identificabili con la forma, né il figurativo. Ma per risolvere questo problema abbiamo bi­ sogno di procurarci e esplorare altre categorie adorniane. Per adesso possiamo concludere dicendo che il processo interpretativo della filosofia è un compito di decifrare, nel senso stretto di far scomparire la cifratura, e esso è eseguito dalla facoltà di creare immagini a partire da quel che è stato dimenticato.

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CAPITOLO II

LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA

Al pensatore odierno non si chiede niente di meno che questo: essere nello stesso momento nelle cose e al di fuori delle cose; e il gesto del barone di Mùnchhausen, che si solleva dallo stagno affer­ randosi per il codino, diventa lo schema di ogni conoscenza che vuoi essere qualcosa di più che constatazione o progetto.

Th.W. Adorno 1 .

TROPPA FIDUCIA NELLA COSCIENZA ATTUALE

La Dialettica dell'illuminismo, dedicata a E. Pollock, esprime chiara­ mente il proprio intento: «comprendere perché l'umanità, invece di entra­ re in uno stato veramente umano, sprofondi in un nuovo genere di bar­ barie» 2 . Sono evidenti gli accenti etici di questo progetto, ma, proseguono i due autori, l'opera non ha potuto essere eseguita fino a fondo, «avevamo ancora troppa fiducia nella coscienza attuale» 3 . Il punto di vista che sareb­ be necessario per una protostoria (Urgeschichte] del capitalismo è sottratto dalla storia del capitalismo. Poiché l'identità attraverso la quale sia possi­ bile individuare le determinazioni proprie della totalità (sociale) e ricono­ scere le svolte decisive attraverso le quali si è instaurata e ha prodotto l'individualità (sociale), non è a disposizione, diventa un controsenso an­ dar in cerca dell'uomo-in-sé, come se esso esistesse prima della storia e indipendentemente da essa. Come scrisse Freud, le forze che contrappon­ gono l'individuo alla società e quelle che lo costituiscono come tale sono le stesse; toglietele e non avrete l'Io puro ma un puro bel niente. Ma c'è anche un'altra ragione per la quale va criticato il mito di una spiegazione della storia a partire dalla sua origine: il fatto che «l'illuminismo è totali­ tario», e cioè scrive la propria storia all'indietro, mentre nello stesso momento cancella la trama dell'ordine storico. Ne risulta una scrittura

Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 79.M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., p. 3.Ibidem.

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inversa sovrapposta a quella originaria, per dir così «dritta», che non è più leggibile immediatamente. Però questo non significa che la protostoria del capitalismo sia una bizzarria: essa corrisponde intanto all'idea che il me­ todo di ricerca debba muoversi da ciò che è più prossimo verso quel che è più lontano 4 , e in secondo luogo esegue l'istanza prima della critica: interpretare il particolare alla luce della totalità, tanto più accanitamente quanto più questa connessione sembri scomparire in una totalità struttu­ rale assente.

Qualcosa di simile è stato tentato, in un saggio di commento all'opera di Adorno, da C. Tùrke. Cercando gli snodi di una storia della secolariz­ zazione del lavoro umano e del suo concetto - se sia una maledizione o una nota caratteristica dell'essenza umana a immagine di Dio - afferma il Tùrke che in entrambi i casi o la maledizione è stata scagliata da Dio per vendetta («ti guadagnerai il pane col sudore della fronte») o a Dio è sfuggito che chi nella società non ha lavoro è «abbandonato da Dio e dagli uomini [e] si trova privo della sua essenza» 5 . Per fare il verso a Kierke- gaard, che faceva il verso ad Hegel, «che tu lavori o non lavori, sarai comunque dannato» 6 . Simile è l'inizio della Dialettica dell'illuminismo:

La condanna naturale degli uomini è oggi inseparabile dal progresso sociale. [...] Il singolo, di fronte alle potenze economiche, è ridotto a zero. Queste, nello stesso tempo, portano a un livello finora mai raggiunto il dominio della società sulla natura. Mentre il singolo sparisce davanti all'apparato che serve, è rifornito da esso meglio di quanto non sia mai stato. Nello stato ingiusto l'impotenza e la dirigibilità della massa cresce con la quantità di beni che le viene assegnata 7 .

Qualunque destino pare migliore dell'impotenza e del terrore di fron­ te alla strapotenza della natura, ma la natura insegna che c'è un destino peggiore. Cosi il lavoro da lotta contro la natura - lotta mediante la quale il singolo si realizza - è divenuto controllo sulla natura del singolo, il

4 Cfr. Barzaghi, cit., e G.B. Vaccaro, Attualità di Adorno?, in «Critica marxista», 1989, n. 5, pp. 133-48.

5 Cfr. C. Tùrcke, Gottesgeschenk Arbcit. Theologisches zu einem profanen Begriff, in AA.VV., Hamburger Adorno-Symphosion, cit., pp. 87-98.

Dello stesso autore si può vedere anche in traduzione italiana Gewalt und Tabu. Philosophische Grenzgànge, Dietrich zu Klampen Verlag, Mùnchen 1987, Violenza e Tabù, tr. U. Colla, Garzanti 1991.

6 Cfr. S. Kierkegaard, Enten-Eller, trad. it. A. Cortese, Adelphi, Milano 1978, pp. 98-100. •

7 M, Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., pp. 6-7.

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quale, se si è liberato dalla schiavitù della miseria, ha tuttavia perduto la sua relazione con il senso di quella liberazione. I beni materiali che può procurarsi li paga dando loro la sua propria identità, che potrà poi riavere in forma allucinatoria solo surrogando la sua storia con l'immobile palude delle sempre uguali merci.

L'ipotesi del libro è nota: il mito è già illuminismo e l'illuminismo si rovescia in mitologia; non in ultimo, poiché l'infrazione del mito è, al contempo, l'effrazione della ragione attraverso l'autocritica: «solo il pen­ siero che fa violenza a se stesso è abbastanza duro da infrangere il mito» 8- e questa violenza necessaria si determina non astrattamente bensì, come una sorta di risarcimento, soffermandosi presso quel che è stato sacrifi­ cato: «lungo l'itinerario verso la nuova scienza gli uomini rinunciano al significato. Essi sostituiscono il concetto con la formula, la causa con la regola e la probabilità» 9 . Violenza e sacrificio sono paradigmi mitici non meno che razionali, anzi: la razionalità stessa con la quantità di rinuncia che comporta, con i suoi «sacrifici», si instaura né più né meno che come forma mitica, ovvero come violenza diretta verso l'interno a difesa da quella «naturale» che possiede una medesima quantità di violenza, ma con il peggioramento di una gratuità inarrestabile. Scriveva, nella stessa pro­ spettiva, Benjamin in un saggio intitolato Per una crìtica della violenza (Gewalt) 10 , che

la violenza, per cominciare, può essere cercata solo nel regno dei mezzi e non in quello dei fini - però - essa non è mezzo, ma manifestazione. E questa violenza conosce manifestazioni affatto oggettive, in cui può essere sottoposta alla critica. Esse si trovano - in modo altamente significativo - anzitutto nel mito. La violenza mitica nella sua forma esemplare è semplice manifestazione degli dèi. Non mezzo ai loro scopi, appena manifestazione della loro volontà, essa è soprattutto manife­ stazione del loro essere 11 .

Quel che Benjamin esprime nel doppio carattere della violenza - indipendentemente dall'ambito giuridico nel quale egli situa il suo saggio- come mezzo e come espressione dell'essere, viene forse districata da Adorno e Horkheimer nell'inevitabile aspetto di violenza interna e ester­ na, dominio sulla natura come tecnica e dominio sull'interno come repres-

8 Ibidem, p. 12.9 Ibidem, p. 13.10 W. Benjamin, Angelus Novus, cit., Per una critica della violenza, pp. 5-38.11 Ibidem, p. 6 e p. 23.

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sione. La violenza attraverso la quale si effettua la rinuncia al significato è quella attraverso la quale il significato regredisce, così

le molteplici affinità fra ciò che è vengono scacciate dall'unico rapporto fra il soggetto datore e l'oggetto privo di senso, fra il significato razionale e il portatore accidentale di esso. Nella fase magica sogno ed immagine non erano considerati solo come un segno della cosa, ma erano uniti a essa dalla somiglianzà o dal nome. Non è un rapporto di intenzionalità ma di affinità 12 .

Il movente è chiaro: il mezzo attraverso il quale si opera la violenza è «l'astrazione, lo strumento dell'illuminismo», essa «opera coi suoi ogget­ ti come il destino di cui elimina il concetto: come liquidazione» 13 - liquidazione che è il contrario dell'esecuzione, che Adorno indica nella Teoria estetica come medium sia dell'interpretazione, sia della creazione. Esecuzione dunque cantra paura: «il grido di terrore con cui è esperito l'insolito, diventa il suo nome [...] l'illuminismo è angoscia mitica radica- lizzata» 14 , dando nome e astraendo esso prende le distanze, espelle quel che vorrà dominare, prepara una pelle abbastanza spessa da ricevere lo shock senza ferirsi.

L'illuminismo è l'angoscia mitica radicalizzata. La pura immanenza positivistica, che è il suo ultimo prodotto, non è che un tabù per così dire universale. Non ha da esserci più nulla fuori, poiché la semplice idea di un fuori è la fonte genuina dell'angoscia. [...] La proposizione spinoziana «Conatus sese conservandi primum et unicum virtutis est fundamentum», è la vera massima di ogni civiltà occidentale 15 .

Quanto si è appreso come modello di autoconservazione rimane come struttura per tutte le future operazioni, anche quando queste non siano più direttamente volte alla autoconservazione, e per quanto com­ plessa possa diventare la rete di bisogni che costituiscono la conservazio­ ne. Anzi, il processo si svolge a tal punto che il mezzo, tramite la violenza del quale ci si è una volta salvati, acquista magica autonomia e promuove da solo il comportamento del suo creatore. Davvero ha ragione Tùrcke, la società offre una secolarizzazione della religione che è una parodia della palinodia 16 .

12 M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., p. 18.13 Ibidem, p. 21.14 ìbidem, pp. 22-23.15 ìbidem, pp. 23 e 36-37.16 Cfr. C. Tùrke, Gottesgeschenk..., op. cit.

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II linguaggio è il mezzo dell'illuminismo nel mito che rivela la sua identità con l'impulso illuministico 17 ; così «i miti che cadono sotto i colpi dell'illuminismo erano già il prodotto dell'illuminismo stesso» 18 , e il lin­ guaggio del mito è il linguaggio dell'illuminismo. Quale che sia il linguag­ gio dell'interpretazione, esso non ha niente a che spartire con la regressio­ ne, la quale, del resto, non conduce all'origine ma all'originaria rimozione. È necessario che l'interpretazione sia non l'espressione dell'origine ma la comprensione dell'originato, non la chiarificazione del mito, ma il dispie­ gamento allegorico è lo scopo della critica. Il mito:

voleva raccontare, nominare, dire l'origine.. [...] Questa tendenza si è rafforzata con la stesura e la raccolta dei miti. [...] Le divinità olimpiche non sono più direttamente identiche agli elementi, ma li significano [...] sono già ai limiti del­ l'allegoria. [...] L'essere si scinde d'ora in poi nel logos [...] e nella massa di tutte le cose e creature esterne. Una sola differenza [...] assorbe tutte le altre 19 .

Significato e allegoria vanno di pari passo nella separazione dell'espe­ rienza da ciò di cui è esperienza. In un senso diverso - visto che mito e illuminismo parlano la stessa lingua - diventa allora cruciale l'origine del mito, ovvero in quanto esso sviluppa già pienamente la logica del controllo razionale.

Lo sdoppiamento della natura in apparenza ed essenza [...] nasce dalla paura dell'uomo, la cui espressione diventa una spiegazione. Non è che l'anima venga «trasferita» nella natura [...]; mana, lo spirito che muove, non è una proiezione, ma l'eco della strapotenza reale della natura nelle deboli anime dei selvaggi. [...] Se l'albero non è più considerato solo come albero, ma come testimonianza di qual- cos'altre, come sede del mana, la lingua esprime la contraddizione che una cosa, cioè, è se stessa e insieme qualcos'altro da ciò che è, identica e non identica 20 .

Ma c'è ancora un passo da compiere prima che l'espressione lingui­ stica, o meglio simbolica, diventi linguaggio:

tramite la divinità il linguaggio diventa, da tautologia, linguaggio. Il concetto [...] è stato [...] fin dall'inizio, un prodotto del pensiero dialettico, dove ogni cosa è ciò

17 P.C. Lang ha mostrato quale funzione svolga il linguaggio nella creazione del pensiero astratto senza il quale non c'è identità, Cfr. P. Lang, Hermeneutik, Ideolo- giekrìtik, Asthetik - \Jber Gadamer und Adorno sowie Fragcn eìner aktuallen Asthetik, Forum Academicum, inder Verlagsgruppe, Kònigstein 1981, pp. 71 e sgg.

18 M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., p. 16.19 Ibidem.20 Ibidem, pp. 23, 26 et passim.

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che è solo in quanto diventa ciò che non è. [...] Ma questa dialettica rimane impotente nella misura in cui si sviluppa dal grido di terrore, che è la duplicazione, la tautologia del terrore stesso 21 .

Secondo Adorno, insomma, la paura è davvero elemento primo del linguaggio; tramite di essa si appronta una sede all'identico a sé nella natura; in tale sede è poi possibile sacrificare la parte che recalcitra di fronte alla rinuncia che impone l'autoconservazione, e il mondo si scinde nell'allegorico e nel simbolico; l'uno scienza dell'accaduto, l'altro equiva­ lenza dell'accadibile. Solo se il linguaggio conserva l'allegorico in sé, è possibile ali'interprelazione sfuggire l'equivalenza imposta dal sacrificio del significato a favore della manipolabilità. È per questo allora che «l'il­ luminismo prova un orrore mitico per il mito», perché esso avverte la presenza del mito «non solo in concetti e termini confusi, come crede la critica semantica, ma in ogni espressione umana, in quanto non abbia un posto nel quadro teleologico dell'autoconservazione» 22 . Il terrore è quindi suscitato, per dir cosi, da tutto ciò che accade senza intenzione; qualun­ que cosa è meglio di essa, finanche immaginarsi di venir puniti da dèi irosi e nascosti - l'imprevisto al rischiaramento illuminista è proprio il «privo di intenzione» che trovammo nei primi scritti filosofici di Adorno. In quel caso ci premette sottolineare la portata antipsicologistica e anti­ soggettivistica, in questa posizione si precisa, come anticipammo allora, la causa della scissione che imporrà, d'allora in poi, la questione della di­ stanza e del rapporto tra soggetto e oggetto. Il «realismo ingenuo» si è fatto adulto 23 .

L'orrore che la «critica semantica» prova di fronte all'inutile è diretto contro l'illusione positiva dell'eliminazione della comprensione con la previsione, senza dubbio. E tuttavia qualcosa di tale orrore resta in qual- siasi teoria tratti semplicemente la struttura linguistica sotto il modello inespresso delle scienze fisiche matematizzate. La fungibilità, la scambia­ bilità, sono il tratto distintivo della logica del linguaggio che emerge attra-

21 Ibidem.

23 Sia R. Solmi che L. Ceppa notano, nelle rispettive introduzione e prefazione ai Minima moralia, come questo sia il libro più nietzscheano di Adorno, il quale non nasconde a sua volta l'opinione, in Dialettica dell'illuminismo, che Nietzsche sia stato il più radicale degli anti-nominalisti.

Per la questione si vedano, per esempio: F. Nietzsche, Genealogia della morale, a cura di G. Colli e M. Montinari, Mondadori, Milano 1979, e i suggerimenti e le critiche di S. Natoli, Ermeneutica e Genealogia, Feltrinelli, Milano 1981.

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verso il sacrificio mitico fino alla terminologia scientifica dell'illuminismo. Il livello di astrazione che si richiede è già tutto contenuto, appunto, nel sacrificio, ma il «sacrificio» linguistico non comporta necessariamente l'abolizione della semantica.

Nella magia la sostituibilità è specifica. Ciò che accade alla lancia del nemico, ai suoi capelli, al suo nome, è fatto anche alla persona; la vittima sacrificale viene massacrata al posto del dio. La sostituzione nel sacrificio è un progresso verso la logica discorsiva. [...] A ciò mette fine la scienza. Non c'è, in essa, sostituibilità specifica: vittime sì, ma nessun dio. La sostituibilità si rovescia in fungibilità uni­ versale 24 .

La struttura di significante e significato, in qual che sia versione la si voglia moltiplicare, se ci si limita al suo aspetto trascendentale, è assai più affine alla fungibilità della scienza - dove ogni termine deve servire a costruire, o costituire, l'insieme delle operazione possibili - piuttosto che alla magia simbolica, dove il nome può ancora essere vero o falso; e Adorno non crede che la cosa possa piacere a tutti.

Nella fase magica sogno e immagine non erano considerati solo come segno della cosa, ma erano uniti ad essa dalla somiglianzà o dal nome. Non è un rapporto di intenzionalità, ma di affinità. La magia è, come la scienza, rivolta a scopi, ma li persegue mediante la mimesi, non in un crescente distacco dall'oggetto. Essa non riposa affatto sull'«onnipotenza dei pensieri», che il primitivo si attribuirebbe come il nevrotico [...]. La «fiducia incrollabile nella possibilità di dominare il mondo» che Freud attribuisce anacronisticamente alla magia, corrisponde solo al dominio del mondo secondo il principio di realtà ad opera della scienza posata e matura 21 .

Il dominio insomma passa per la separazione - istitutiva - mentre non così la paura. La prima opera di trasposizione, quindi di interpreta- zione, viene rivolta contro la paura: l'ignoto trapassa in rimosso. Il resto di tale calcolo dorme nelle parole, nel linguaggio. La sua necessaria astra­ zione rimanda al non astratto, e poiché l'astrazione è fondata sull'identità, l'identità del linguaggio rimanda al non identico. La interpretazione originaria fu una identificazione cui si pervenne tramite una soppressione di quel che identificabile non era - la forma inidentificabile torna al pen-

24 M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, op. cit., p. 18.25 M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., pp. 18-19.

Adorno sta citando Freud da Totem e Tabù, in Gesammelte Werken, X Band, pp. 106 sgg, Ed. it. S. Freud, Opere 1912-14, Boringhieri, Torino, p. 91.

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siero come rimosso; «orrore mitico» scrive Adorno, che è tutt'altro che metaforico:

il distacco del soggetto dall'oggetto, premessa dell'astrazione, è fondato nel distac­ co dalla cosa, a cui il padrone pervenne mediante il servitore. [...] L'universalità delle idee, sviluppata dalla logica discorsiva, il dominio nella sfera del concetto, si eleva sulla base del dominio reale. [...] Il Sé, che ha appreso l'ordine e la subor­ dinazione alla scuola della sottomissione del mondo esterno, ha presto identificato la verità in generale col pensiero disponente, senza le salde distinzioni del quale essa non potrebbe sussistere. Esso ha bandito, con la magia mitica, la conoscenza che coglie effettivamente l'oggetto. Tutto il suo odio è rivolto all'immagine della preistoria superata e alla sua immaginaria felicità 26 .

Vedremo come tale immaginaria felicità sia il punteruolo col quale scardinare la gabbia del mitico illuminismo. Per ora constatiamo come l'oggetto del quale si occupa l'interpretazione, in Adorno, abbia di fronte qualcosa di cui teme l'essenziale come la minaccia peggiore alla sua stabi­ lità, forse anzi a se stesso intero. E se vogliamo chiarire i termini che abbiamo visti impiegati negli anni '30 a illustrare la filosofia come inter- pretazione, diciamo che sciogliere la forma dell'enigma vorrebbe dire, davvero, sciogliere la forma del soggetto per come esso è oggi costituito, anche se lo scioglimento del soggetto non è la liquidazione dell'individuo; perché la liquidazione è il gesto tipico dell'illuminismo regredente a mito­ logia - liquidazione come contrapposta alla ragione della cosa, liquidazio­ ne cantra dialettica. Essa non esegue sul serio il movimento dell'interpre- tazione, si limita a distaccare l'enigma dall'ente, lasciando gli individui soli col carattere di enigma, che poi appare ad essi come natura mitica, indo­ mabile, e che risospinge la immagine di libertà sempre più indietro: la libertà si colloca là dove certo non può esistere: prima che ci fosse il soggetto della libertà. Per questo Adorno potè scrivere nella Attualità della filosofìa che il materialismo storico esegue sul serio il movimento di critica del linguaggio che l'interpretazione svolge «solo» nel pensiero. Nella destituzione dell'individuo la scienza moderna nasconde quella del soggetto, già avvenuta, e invola la colpa in un a-storico presente che pure presenta sé come pura natura, e nel linguaggio inchioda l'inafferrabile bugia, la cui verità non è compatibile con l'impostazione della domanda. Anche le domande possono, a buon diritto essere false, e non l'ultimo compito dell'interpretazione sarebbe l'awedersene. Così come la coazione

26 M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., pp. 21-22.

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antica si ridispone nell'obbligo di fornire una risposta anche quando que­ sta esigerebbe di ribaltare l'essenza, che appare, in quella che sarebbe dovuta apparire: «Vero sarebbe il pensiero che desidera il giusto» ma «l'urgenza di una questione non può costringere a dare una risposta, se non si riesce a ottenerne una vera» perché

la volontà di non farsi saziare, di apprendere qualcosa di essenziale [...] viene deformata da risposte tagliate sul bisogno, ambigue tra l'obbligo legittimo di of­ frire pane, non pietre, e la convinzione illegittima, che debba essere pane, perché così deve essere 27 .

PERCHÉ ULISSE NON ASCOLTÒ IL CANTO DELLE SIRENE

Nel tredicesimo canto de\Y Odissea, Ulisse sfugge all'incanto con mezzi astuti. Nella sua versione dell'accaduto Kafka, che guarda da molto più lontano, spiega benissimo il meccanismo attraverso il quale si può sfuggire alla seduzione delle sirene: si tratta della riflessione 28 . Nella pro­ gressione del racconto kafkiano - Ulisse non sente, finge di non sentire, le sirene non cantano fingono solamente, Ulisse non sente che le sirene non cantano, Ulisse finge di non sentire che le sirene non cantino - c'è tutta la vertigine dialettica dei giochi dei bambini che scoprono l'infinito della riflessione e ci si perdono nel ritornello del "io so che tu sai che io so che tu sai...". Anche Brecht, per molti versi all'opposto della scuola di Francoforte, registra l'esperienza secondo la quale la seduzione alla paura debba essere il fondamento della civiltà moderna. Questo nesso è illustra­ to da Adorno e Horkheimer nell'excursus su Odissea, o mito e illuminismo all'interno della Dialettica dell'illuminismo. La paura esige il sacrificio per placare gli dèi, ma gli dèi sono, fuor di metafora, quel naturale che minac­ cia la natura, così che il nesso di sacrificio e scissione - ovvero creazione - è indissolubile.

Il Sé strappa se stesso al dissolvimento in cieca natura, della quale il sacrificio torna sempre a far valere i suoi diritti. [...] Il Sé permanente identico, che sorge dall'aver superato il sacrificio, è direttamente a sua volta un rituale sacrificale

2/ Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 83, 189, 63. 28 F. Kafka, Das Schweigen der Sirenen, del f9f7, tr. it. in F. Kafka, Schizzi-

Parabole-Aforismi, tr. A. Lavagetto, Mursia, Milano 1983.

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rigido, e implacabilmente osservato, che l'uomo celebra a se stesso opponendo la propria coscienza al contesto naturale 29 .

L'incanto al quale Ulisse s'impone di resistere con la duplicazione e scissione propria della riflessione è proprio la regressione all'indistinto. Senza questa operazione, che è il potere della astrazione e, in ultima analisi del linguaggio, non si da vita umana, ma

dal momento in cui l'uomo si recide la coscienza di se stesso come natura, tutti i fini per cui si conserva in vita [...] e fin la coscienza stessa, perdono ogni valore, e l'insediamento del mezzo a scopo, che assume, nel tardo capitalismo, i tratti della follia aperta, si può già scorgere nella preistoria della soggettività 30 .

Da qui - dalla Urgeschichte del soggetto - inizia la storia della civiltà, e Horkheimer e Adorno ne danno un resoconto fulminante assumendo a prototipo dell'individuo moderno Ulisse che sfugge all'incanto delle sire­ ne.

Odissee non tenta di seguire un'altra via da quella che passa davanti all'isola delle Sirene. E non tenta neppure di fare assegnamento al suo sapere superiore e di porgere libero ascolto alle maliarde, nell'illusione che gli basti come scudo la sua libertà. [...] Proprio in quanto - tecnicamente illuminato - si fa legare, Odissee riconosce la strapotenza arcaica del canto. Egli si china al canto del piacere, e lo sventa, così, come la morte. L'ascoltatore legato è attirato dalle Sirene come nes­ sun altro. Solo ha disposto le cose in modo che, pur caduto, egli non cada in loro potere. [...] Le Sirene hanno quel che loro spetta, ma già ridotto e neutralizzato - nella preistoria borghese - al rimpianto di chi prosegue. [...] Nasce così la coscienza del significato. [...] Odissee scopre, nelle parole, ciò che nella società borghese sviluppata si dirà formalismo: la loro validità permanente è pagata col distacco dal contenuto che di volta in volta le riempie, onde possano riferirsi - in questo distacco - ad ogni contenuto possibile, a nessuno o allo stesso Odissee. Dal formalismo dei nomi e dei decreti mitici, che vogliono comandare, indifferenti come la natura, sugli uomini e sulla storia, emerge il nominalismo, il prototipo del pensiero borghese 31 .

Concludendo che:

la storia della civiltà è la storia dell'introversione del sacrificio. In altre parole la storia della rinuncia. [...] Come gli individui hanno troppo poche, e non troppe

M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialektik der Aufklàrung, cit., p. 21. M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., p. 62. Ibidem, pp. 66-68.

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inibizioni, senza essere per questo di un briciolo più sani, un metodo catartico che non trovasse il proprio criterio nell'adattamento [...] dovrebbe condurre gli uomi­ ni alla coscienza dell'infelicità 32 .

In un illuminante tardo saggio di Freud 33 la stessa sostituzione degli scopi con i mezzi della quale parla Adorno è attribuita all'inconscio processo di difesa, il quale abbandonerebbe la paura della minaccia contro la quale eresse le difese in favore del terrore di perdere le difese stesse. Ancora Adorno scrive che

ognuna delle figure mitiche è tenuta a fare sempre la stessa cosa. Ognuna consiste nella ripetizione: il cui fallimento segnerebbe la sua fine. [...] Sono immagini della coazione: le atrocità che commettono sono la maledizione che pesa su di esse. L'ineluttabilità mitica è definita dall'equivalenza fra quella maledizione, il delitto che la paga e la colpa che ne deriva e che riproduce la maledizione.

E un attimo prima ancora,

l'umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell'uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia. [...] Il pensiero di Odissee [...] conosce due sole possibilità di scampo. Una è quella che prescrive ai compagni. Egli tappa loro le orecchie con la cera, e ordina loro di remare a tutta forza. Chi vuoi durare e sussistere, non deve porgere ascolto al richiamo dell'irrevocabile. [...] L'altra pos­ sibilità è quella che sceglie Odissee, il signore terriero, che fa lavorare gli altri per sé. Egli ode, ma impotente, legato, all'albero della nave, e più la tentazione diventa forte, e più strettamente si fa legare, cosi come, più tardi, anche i borghesi si negheranno più tenacemente la felicità quanto più - crescendo la loro potenza - l'avranno a portata di mano 34 .

L'orrore che il mito prova di fronte alla natura è lo stesso che l'illu­ minismo prova di fronte al mito e alla natura di sé: «Si realizza, l'angoscia più antica, quella di perdere il proprio nome» 35 .

Il nesso non è esplicito, ancora in questi anni, nel pensiero di Ador­ no. Lo ritroveremo con molta forza nella Dialettica negativa. Tuttavia già nella protostoria del soggetto la colpa della sostituzione delle difese con

32 Ibidem e Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., pp. 63-63.33 S. Freud, Analisi terminabile e interminabile, in Opere voi. XI, pp. 499-538, in

particolare p. 521.34 M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., pp. 65 e 41.35 Ibidem, p. 38.

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46 CRITICA DEL NON VERO

l'amore delle difese - il che altro non significa che la rimozione di esse e della loro origine - è sullo stesso piano della scissione che da origine ai nomi, e poi ai concetti, anch'essa una sostituzione, anzi la prima sostitui­ bilità: «misero un agnello al posto di un uomo - dunque anche questo era possibile?» 36 . Così come un sacrificio enorme dovette costare la separazio­ ne della natura dal Sé, allo stesso modo allontanarsi dal proprio nome - prima con rituali mimetici, poi con segni universali - realizza proprio ciò contro cui avrebbe dovuto preservare: nessuno più verrà ucciso per pla­ care le divinità, ma ognuno è trasmutabile con un agnello. Il nome sta per le cose a patto che le cose se ne stiano fuori di se stesse a sufficienza da essere scambiabili, segnicamente, l'una con l'altra 37 . La colpa alla quale non si può sfuggire con un balzo è quella della astrazione: senza di essa c'è solo caos, ma l'ordine che essa porta con sé ha le sue vittime, e la sua polizia: il linguaggio. Il linguaggio perde la sostituibilità specifica a favore di una generica allorquando si instaura come linguaggio comune, o detto altrimenti, come struttura linguistica, dove il rimando appare interno e la memoria è rimossa: «l'astrazione [...] opera coi suoi oggetti come il desti­ no di cui elimina il concetto: come liquidazione» 38 , operata a partire dal «grido di terrore con cui è esperito l'insolito» che diventa il nome dell'in­ solito e d'ora innanzi potrà stare al posto di esso, e tutto sarà fatto purché tale sostituzione non riemerga alla coscienza: «l'illuminismo è angoscia mitica radicalizzata. [...] Non ha da esserci più nulla fuori, poiché la sem­ plice idea di un fuori è la fonte genuina dell'angoscia» 39 . Ed ecco che «prima i feticci sottostavano alla legge dell'uguaglianza. Ora l'uguaglianza diventa essa stessa un feticcio - che apre la possibilità di mettere qualcun altro al proprio posto di fronte al pericolo, e -

come segno, la parola passa alla scienza, come parola vera e propria, viene ripartita tra le varie arti. [...] Come segno, il linguaggio deve limitarsi a essere calcolo; per conoscere la natura, deve abdicare alla pretesa di somigliarle. Come immagine,

36 C. Wolf, Kassandm, Luchterhand Verlag, Darmstadt 1983, tr. it. A. Raja, Cas­ sandra, E/O edizioni, Roma 1987. Il geniale romanzo epico-tragico della Wolf è tutto registrato sulla sostituibilità determinata e indeterminata e sul principio del terzo escluso.

37 Vorrei, a questo proposito, rimandare anche se solo con breve cenno, a F. Rossi Landi, Metodica filoso/tea e scienza dei segni, Bompiani, Milano 1985, dove è trattato l'aspetto della relazione tra l'instaurazione del segno linguistico e la prima attuazione della divisione sociale del lavoro.

38 M. Horkeimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., p. 21.39 Ibidem, p. 23.

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LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA 47

deve limitarsi a essere copia: per essere interamente natura, abdicare alla pretesa di conoscerla 40 .

Per cominciare a mettere ordine, nel nostro discorso, dovremmo dire che un'interpretazione che voglia fedeltà al proprio oggetto dovrebbe te­ nere fermo il carattere apparentemente irresolubile di questa alternativa, e trattare il linguaggio come se fosse una cosa in sé scissa di apparenza e essenza, sul modello dell'albero di cui abbiamo parlato più sopra;

la separazione di segno e immagine è inevitabile. Ma se è ipostatizzata con ingenuo compiacimento, ognuno dei due principi isolati tende alla distruzione della verità. L'abisso che si è aperto in questa separazione, è stato individuato e trattato dalla filosofia nel rapporto di intuizione e concetto, e a più riprese, ma invano, essa ha cercato di colmarlo 41 .

Di fronte alla stessa alternativa si trova l'interpretazione: dopo che la realtà è stata interpretata per difendersi da essa, la scissione non è recupe­ rabile. Allora, che fare? Si comprende ora meglio cosa fosse la «dignità della parole» di cui parlava Adorno nei saggi esaminati nel capitolo pre­ cedente. Ma esiste l'altra faccia della medaglia.

Fin da quando il linguaggio entra nella storia, i suoi padroni sono sacerdoti e maghi [...] il mondo è già diviso in una sfera di potere e in una sfera profana. [...] Il linguaggio stesso conferiva ai rapporti di dominio, l'universalità che aveva assun­ to come mezzo di comunicazione e [all'interno di questa situazione] i simboli prendono l'aspetto di feticci. Il loro contenuto, la ripetizione della natura, si rivela poi sempre, in seguito, come la permanenza [...] della costrizione sociale [così che] il dominio si oppone al singolo come l'universale, come la ragione nella realtà. [...] Nell'imparzialità del linguaggio scientifico l'impotente ha perso del tutto la forza di esprimersi, e solo l'esistente trova il suo segno neutrale [ma] questa neutralità è più metafisica della metafisica. Infine l'illuminismo ha consumato non solo i simboli, ma anche i loro successori, i concetti universali, e non ha lasciato altro, della metafisica, che la paura del collettivo dalla quale essa è nata 42 .

Il linguaggio - all'interno del quale giostra l'interpretazione - assume l'aspetto di natura; i nomi scivolano e da concetti si fanno meri sintomi del terrore che rimosso e sforzo della rimozione facciano irruzione di nuovo. Non dunque la parola, il nome, regge il complesso di colpa, ma il movi-

40 Ibidem, pp. 24-25.41 Ibidem, p. 26.42 Ibidem, pp. 29-30.

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mento della sua autonomia, che anziché consegnare le chiavi della città impone che essa stessa resa gabbia sia scambiata per natura; l'illuminismo, sostiene Adorno, non può che essere nominalistico. Nello stesso senso l'illuminismo che «liquida» il mito è totalitario: «Quali che siano i miti a cui ricorre la resistenza, per il solo fatto di diventare, in questo conflitto, argomenti, rendono omaggio al principio della razionalità analitica che essi rimproverano all'illuminismo. L'illuminismo è totalitario» 43 .

L'aver consumato i simboli è analogo all'imperativo prescritto al pen­ siero in Attualità della filosofia: dover rinunciare alla funzione simbolica, farcela senza di essa, e infine, nella ricostruzione e memoria anche di ogni più piccolo filo, prospettare la soluzione dell'intreccio strano - mitico - dell'ente. Infatti l'illuminismo, come nominalistico, «si arresta davanti al nomen, al concetto inesteso, puntuale, al nome proprio» 44 . Nella religione ebraica, prosegue Adorno, il legame tra nome e cosa è ancora riconosciuto nel divieto di pronunciare il nome di Dio. Pegno della fede è rinunciare alla sostituzione di questa con un'altra: «la conoscenza è la denuncia dell'illusione» di poter aver accesso e possesso del nome di Dio 45 . Ma questa negazione non è astratta:

questa esecuzione, «negazione determinata», non è garantita a priori. [...] La ne­ gazione determinata respinge le rappresentazioni imperfette dell'assoluto, gli idoli, non, come il rigorismo, opponendo loro l'idea alla cui stregua non reggono. La dialettica rivela piuttosto ogni immagine come scrittura, e insegna a leggere nei suoi caratteri l'ammissione della sua falsità, che la priva del suo potere e lo appro­ pria alla verità 46 .

Il potere dell'eguaglianza e della difesa, della paura e della sostituibi­ lità, dell'astrazione e del calcolo, dell'agnello al posto di un uomo, della divisione del potere fondata sul potere del nome di dividere l'ente stesso in apparenza e essenza, è la sede del mana magico e di se stesso. La dialettica come interpretazione deve spogliare l'apparenza di natura di questo processo, quindi l'apparenza di natura di ogni linguaggio. E, nel suo stesso carattere, leggere l'ammissione che neppure esso, come le cose, è più se stesso, ma cela altro. Solo così «il linguaggio diventa più di un semplice sistema di segni» 47 .

43 Ibidem, p. 14.44 Ibidem, p. 31.45 Ibidem.46 Ibidem, pp. 31-32.47 Ibidem, p. 32.

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II nesso di particolare e universale così descritto, si presenta anche, come ricerca della «dialettica deU'illuminismo« nascosta in ogni oggetto d'esperienza, nei Minima moralia, i quali sono, in quanto «scienza del­ l'esperienza [odierna]», l'ideale proseguimento del volume scritto con Horkheimer. Però qui la riflessione da per compiuta la protostoria del soggetto e si attacca direttamente ai risultati, all'esperienza come è, al suo carattere di impenetrabilità che va sciolto:

[il pensiero] deve passare attraverso l'impenetrabile, attraverso la durezza del particolare, per essere in grado di raggiungere l'universale, la cui sostanza è custo­ dita nell'impenetrabilità stessa. [...] Si potrebbe quasi dire che la verità stessa dipende dalla durata, dalla pazienza e dalla tenacia con cui si sosta o si indugia presso il singolo oggetto 48 .

Questa dialettica dell'interpretazione è svolta nell'oggetto, e non è un esercizio che compia il filologo; né l'oggetto né l'universale che lo indica sono semplici segni, rimandi ciechi che basti seguire; piuttosto si tratta di «intrecci» da decifrare 49 . Non si da una realtà nuda e cruda dalla quale partire. Se Adorno, in Terminologia filosofica, prende partito per la prova ontologia di Anselmo 50 , questo avviene perché il linguaggio delle cose è un problematico realismo degli universali che si tratta di raggiungere. Ma l'universale come connessione che determina le possibilità linguistiche e espressive del particolare, è impenetrabile allo sguardo del connesso: la partecipazione non consente la distanza. Il nominalismo dell'illuminismo opera una reductio ad unum e il potere dell'universalità si stempera nell'in­ dividuale che è reso cieco dell'origine della sua relazione con l'universale. Basti ricordare qui quanto scritto, e commentato, nel saggio L'idea di storia naturale, nel capitolo precedente. Qualunque lettura, o interpreta- zione, che si attui prima della disconnessione di quell'accecamento, legge, per dir così, i comunicati stampa dell'universale senza neppure sospettarlo - un universale che è, come tutto, posto. Anche se al posto dell'origine fosse un abisso, VAbgrund. Ma non solo, gli attribuisce anche un soggetto che da gran tempo non esiste, un soggetto umano che nella sua autonomia regge solamente grazie all'illusione della sostanzialità dell'individuo, il particolare che perde il nome di fronte all'astrazione scambiabile del con­ cetto. Ma mentre l'individuo è solo empiricamente sostanziale, il nomina-

Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 81.Cfr. il primo capitolo.Cfr. Th.W. Adorno, Terminologia filolofica, cit., p. 93 e sgg.

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50 CRITICA DEL NON VERO

lismo gli affida, al contrario, la responsabilità della cosa, come se le cose fossero oggetti prima e indipendentemente dalla relazione che le ha sepa­ rate dal soggetto, dando origine a entrambi.

Se nella differenza tra universale e particolare è nascosta in piccolo tutta l'ideologia del nominalismo, l'interpretazione che si voglia liberare dal suo modello deve iniziare dal riconoscimento del «carattere di falsità» di «ogni immagine come scrittura», nel carattere ideologico della loro identificazione e nella falsità della loro scissione. Vediamo dunque come si presenta questo materiale ad una «fenomenologia» della quotidiana «vita offesa».

DESIDERIO, ETICA E INTERPRETAZIONE

Scriveva F. Schlegel che: «per capire una persona bisogna anzitutto essere più intelligenti di lei, in secondo luogo intelligenti quanto lei e anche stupidi allo stesso modo» 51 , e gli fa eco Adorno:

ciò che vale per la vita istintiva, vale anche per quella spirituale: il pittore o il compositore che si vieta questa o quella combinazione di colori o serie di accordi perché la giudica dozzinale e di cattivo gusto, lo scrittore a cui determinate forme linguistiche danno sui nervi perché gli sembrano pedantesche e banali, reagisce cosi vivacemente contro di esse perché anche in lui ci sono, per così dire, degli strati che sono attirati in quella dirczione 52 .

L'idea che l'organo di sensibilità dello spirituale poggi sulla mimesi, e la sua finezza, in ultima istanza, sulla repressione degli istinti contro i quali si protesta, non è, come visto, esclusiva di Adorno, senza tuttavia che questo comporti un ritorno all'indietro nell'ordine della produzione. An­ corché doversi liberare dalla repressione: «i tabù che costituiscono, nel loro insieme, il rango intellettuale di una persona [...] sono sempre diretti contro impulsi e tendenze che sono presenti anche in essa» 53 . Come dire che non si supera mai l'isola delle sirene, ci si limita a girarci intorno a cerchi più o meno ampi - e questo è l'essenziale. E oltre è scritto: «Non solo, come Nietzsche ben sapeva, tutte le cose buone sono state un tempo cose cattive: anche le cose più delicate, abbandonate alla loro forza di

51 F. Schlegel, Schriften und Fragmente, Behler Verlag, p. 158.52 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 21.53 Ibidem.

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gravita, tendono a sfociare nella brutalità senza limiti» 54 . La capacità di reagire ali'indurimento è legata non alla purezza - all'immediatezza - ma al contrario all'esperienza non rimossa ma contrastata. E tutto ciò funzio­ na, per così dire, fin nelle fibre dell'Io come ben si vede anche nella descrizione che Adorno offre della propria sorte: «Ogni intellettuale nel­ l'emigrazione è - senza eccezione - minorato. [...] Espropriata è la sua lingua, e livellata la dimensione storica da cui la sua conoscenza attingeva ogni energia» 55 ; indifferentemente, si suppone, al livello di controllo o di rapporti presenti nello stato soggettivo dell'intellettuale emigrante.

Ma c'è di più, il testo in se stesso subisce la tensione della lotta fra la necessità di opporre resistenza e la necessità di avvicinarsi al burrone a sufficienza da poterlo riconoscere; nell'aforisma numero 50, «Lacune», leggiamo che

si richiede [...] allo scrittore di riprodurre esplicitamente tutti i passi che lo hanno condotto alla sua affermazione. [...] Questa richiesta [...] è falsa, anche come criterio dell'esposizione. Poiché il valore di un pensiero si misura alla sua distanza dalla continuità del noto [...]; quanto più si avvicina allo standard prestabilito, e tanto più sparisce la sua funzione antitetica; e solo in questa sua funzione, nel rapporto patente col suo opposto, e non nella sua esistenza isolata, è il fondamento della verità'6 ;

così come il rango intellettuale di una persona, anche il rango di verità di uno scritto sembra essere nella quantità di rimozioni che esso riesce a mettere in gioco, in gioco non in atto. Infatti

la conoscenza si attua in una fitta rete di pregiudizi, intuizioni, nervature, corre­ zioni, anticipi e esagerazioni, cioè nel contesto dell'esperienza, che, per quanto fitta e fondata, non è trasparente in ogni suo punto 57 .

Sembreremmo spinti in dirczione freudiano-dialettica, cioè in una prospettiva di imposizione o retorica del significato, legata più all'espe­ rienza che non alla obiettività. Ma c'è una messa in guardia che non si può trascurare:

in ogni pensiero non ozioso resta il segno dell'impossibilità di una completa legit-

54 Ibidem, p. 84.55 Ibidem, pp. 26-27.56 Ibidem, pp. 85-65.57 /£«/«», p. 86.

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52 CRITICA DEL NON VERO

Umazione: come, in sogno, sappiamo di lezioni di matematica perdute per una beata mattina in letto, e che non sono più recuperabili. Il pensiero attende che un giorno il ricordo di ciò che è stato perduto lo ridesti, e lo trasformi in teoria 58 .

Adorno rivendica una parte non concettuale, diciamo meglio: non chiara e distinta, alla vera conoscenza. E questo concorda con l'insieme del suo pensiero. Ma quel che è strano è, se sciolto dal carattere enigma­ tico, l'esempio che egli produce. Il pensiero non ozioso, che è impossibile legittimare fino in fondo, è quello della lezione di matematica perduta o della mattina beata nel letto? Non sono forse, oggi, entrambi irrecupera­ bili? Dir che la verità stia nella lezione perduta significherebbe affermare che si debba commettere un atto proibito per poi avere la verità della proibizione, senz'altro vero ma piuttosto contorto. Ma del resto, se l'ille- gittimabile è l'aver preferito il sonno alla lezione, cos'è di un pensiero che aspetta la pigrizia per essere ridestato? La cosa non funziona. Un aiuto ci viene da poche pagine dopo: «La tecnica letteraria impone di rinunciare anche a pensieri fecondi, se la costruzione lo richiede. I pensieri soppressi contribuiscono alla sua forza e alla sua ricchezza» 59 . La forza qui evocata resta come le lacune del testo, inespressa. È qualcosa di simile al rimosso, ma solo in apparenza. Esso non prenderà partito per il vero cosi com'è, ma solo quando «il ricordo di ciò che è stato perduto lo ridesti e lo trasformi in teoria».

Altre «lacune» le abbiamo già trovate; esse erano l'aspetto lacunoso, quasi demoniaco, che l'interpretazione doveva sciogliere, nel saggio L'at­ tualità della filosofia®1 . Cos'ha dunque infine questa mattina trovata e le­ zione perduta, e che cosa sono le lacune che essa evoca e che daranno la forza al pensiero nel suo ricordo, liberandolo dal demoniaco? Essa è ricor­ do di una felicità passata che non è incatenata all'apologià del dato cosi com'è, giacché essa è felicità solo nel ricordo; ora sappiamo che quella era felicità: «il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine: ed è ciò che costituisce la sua dignità incomparabile» e che «... non c'è felicità senza feticismo» 61 . Che cosa abbia la felicità di tanto importante di fronte all'interpretazione è chiaro: senza desiderio, non c'è conoscenza, neppure quella interpretativa:

Ibidem, p. 87.Ibidem, p. 91.Cfr. il primo capitolo.Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 127 e p. 139.

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poiché anche le più remote oggettivazioni del pensiero traggono alimento dagli impulsi (Triebe], il pensiero, distruggendoli, distrugge la condizione di se stesso. [...] Ma se gli impulsi non sono superati e conservati nel pensiero [...] non si realizza conoscenza alcuna, e il pensiero che uccide suo padre, il desiderio, è colpito dalla nemesi della stupidità. [...] Espulsa la fantasia, è esorcizzato anche il giudizio, il vero atto conoscitivo 62 .

Non è semplice comprendere perché desiderio, fantasia e conoscenza siano cosi strettamente legati. Ancora la «esatta fantasia» del testo del 1931 era rimasta in debito di una spiegazione. È certamente questione di «precomprensione» come si esprimerebbe Gadamer, ma in senso del tutto particolare.

Il desiderio partorisce il pensiero come desiderio di sottrarsi allo strapotere delle forze, interne e esterne della natura. Nel far questo la natura, la sua esperienza, gli si trasforma tra le mani: essa diviene sempre più simile a quel che dovrebbe essere per non impaurire: un regno di dominio. Per far questo anche la natura interna ha dovuto essere violata e frenata, e sotto la cenere cova l'incendio passato. Entrambe sono ora insieme quel che erano e quel che sono divenute - l'esperienza, che non è atto esclusivo dell'io del principio di realtà, registra inevitabilmente, e per lo più inconsciamente, anche il passaggio dall'una all'altra. Tale regi­ strazione subisce, ad opera del linguaggio la chirurgica resezione della parte viva, per renderla inoffensiva. Ora non c'è strada all'indietro, ma solo la chance di riportare a ricordo la memoria rimossa. Essa è il terreno infatti sul quale nasce il desiderio.

La psicoanalisi si vanta di restituire agli uomini la loro capacità di godere, turbata dalle nevrosi. [...] La felicità prescritta è appunto di questo tipo; per poterla condividere, il nevrotico beneficato deve bandire anche l'ultimo resto di ragione che rimozione e regressione gli avevano lasciato, e, per amor dello psicanalista, prender gusto ai film di quart'ordine, ai pranzi cari ma cattivi [...], ai compunti drinks e ad un sex sapientemente dosato. [...] Come gli individui hanno troppo poche, e non troppe inibizioni, senza essere per questo di un briciolo più sani, un metodo catartico che non trovasse il proprio criterio nell'adattamento e nel suc­ cesso economico, dovrebbe condurre gli uomini alla coscienza dell'infelicità, del­ l'infelicità generale e della propria, indissolubilmente connessa alla prima, e toglier loro le soddisfazioni apparenti. [...] Appartiene al meccanismo dell'oppressione vietare la conoscenza del dolore che produce, e una via diretta conduce dal van­ gelo della gioia alla costruzione dei campi di sterminio. [...] Questo è lo schema

Ibidem, pp. 141-42.

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dell'intatta capacità di godere. Chi lo denuncia avrà, dallo psicanalista, la conferma di essere afflitto da un complesso edipico 63 .

La fantasia e il desiderio, legati alla eliminazione del dolore, sono, non affatto per scherzo, il terreno prodotto dall'Edipo: essi denunciano la realtà e ne producono un'altra - ma questo è lo schema di ogni interpretazione, far di un testo un testo leggibile; anche l'ermeneutica è così affetta dal complesso edipico. Quel che importa non è, come nella psicoanalisi, ammesso che lì lo sia, la storia individuale e le sue lacune rimosse, ma il fatto che tali lacune, senza mai poterlo confessare, sono state create dal pensiero/ricordo della felicità e a essa segretamente com­ misurano ogni reale, senza scegliere nella «umiliante alternativa di fronte alla quale il tardo capitalismo mette segretamente tutti i suoi sudditi: di­ ventare un adulto come tutti gli altri o restare un bambino» 64 . Poiché non si tratta di restare bambini, non si può far finta che il testo sia immedia­ tamente il significato, ma neppure l'apparenza reale lo è. Solo la fantasia, ovvero il desiderio che ritorni quello stato del quale ci si ricorda, ma che probabilmente non è mai esistito, dove s'è stati felici, decide dell'interpre- tazione; è facile darne un esempio nei testi di Adorno. Con la famiglia, scrive ad esempio il nostro,

è scomparso non solo l'organo più efficiente della borghesia, ma la resistenza che, se opprimeva l'individuo, d'altro canto lo rafforzava, o addirittura lo produceva. La fine della famiglia paralizza le controforze. L'ordine collettivistico nascente è una tragica parodia di quello senza classi: e col borghese liquida l'utopia che si nutriva dell'amore per la madre 65 .

Ma se l'unica possibilità fosse legata al ritorno dell'utopie© saremmo nei guai; non è attraverso la contrapposizione di immagini ideali alla triste condizione reale che il pensiero diviene in grado di penetrarla. Anzi, le immagini utopiche, quasi come un soddisfacimento allucinatorio - una metonimia della critica - sono contrarie alla dialettica interpretativa, e come tali proibite.

La famosa proibizione di farsi immagini adorniana, la si ritrova in uno dei luoghi meno aspettati, la Estetica di Hegel, ovvero le lezioni rac­ colte sotto questo titolo da H.G. Hotho e pubblicate nel 1836-38. Dove

65 Ibidem, pp. 63-64.64 Ibidem, p. 155.65 Ibidem, p. 13.

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si dice che la riproduzione della natura rimane spesso indietro rispetto a se stessa, Hegel racconta: «James Bruce, nel suo viaggio in Abissinia, avendo mostrato ad un turco un quadro raffigurante pesci, dapprima lo sbalordì, ma subito dopo ne ebbe questa replica: "Se questo pesce si leverà contro di te il giorno del giudizio e ti dirà: tu mi hai dato sì un corpo, ma non un'anima viva, come ti giustificherai allora di fronte a questa accusa?"» 66 . Adorno diffida delle immagini per lo stesso motivo: il loro carattere espressivo è troppo forte per dir che siano solo un gioco, ma la loro possibilità è troppo debole perché siano un risarcimento. Per con­ tinuare con la metafora, nel giorno del giudizio il pesce avrà sì avuto l'anima, al contrario di quanto narra Hegel, ma accuserà allora di averlo lasciato senza terra. Allo stesso modo la proibizione di Adorno contro le immagini felici non è rivolta a tutelare la sacralità o inarrivabilità dell'im- maginato, ma bensì a evitare che si confonda l'immaginato con il reale. L'esatta fantasia non è fantasia produttrice di immagini, la Produktive Einbildungskraft di Kant, essa è una fantasia senza immagini, che utilizza il materiale dell'enigma, sul quale si applica, come se fosse l'unico mate­ riale esistente - è, come scrisse Adorno, un'arte combinatoria, cioè di composizione di forze. Forze della cosa, che il soggetto, non spezzato il pensiero dal desiderio pone in forma. Ed è un soggetto tutt'altro che onnipotente o perfettamente centrato, anzi

la ragione dialettica è l'irragioncvolezza di fronte alla ragione dominante. [...] La dialettica non può arrestarsi davanti ai concetti di sano e di malato, e neppure davanti a quelli, strettamente affini, di ragionevole e irragionevole. Una volta che ha conosciuto per malato l'universale dominante [...] vede la sola cellula di gua­ rigione in ciò che, commisurato a quell'ordine, appare malato, eccentrico, paranoi- de o addirittura folle - e ancora prosegue - E essenziale al pensiero, un momento di esagerazione, un trapassare oltre le cose, un liberarsi dalla gravita del puro fatto - per concludere infine che - veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi 67 .

L'esatta fantasia è tanto del soggetto quanto della cosa, è il loro possibile incontro, dove l'uno presta la forma di avvenimenti, esperienze e ricordi, all'altro affinchè questo abbia oltre che l'immagine anche l'anima.

La stessa cosa accade per i testi, e le interpretazioni. Vediamo di comporre una possibile costellazione di ciò a partire da quanto Adorno

66 G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, Einaudi, Torino, 1963, p. 53.67 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., pp. 76, 147 e 231.

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racconta sul proprio esilio. L'intellettuale è minorato, una volta che sia avvenuta nell'emigrazione l'espropriazione della lingua. Essa non è qual­ cosa di morto, ma partorisce a seconda dell'inseminazione: la parole han­ no una storia 68 , anzi per la maggior parte, esse sono la loro storia: quel che indicano è il riassunto di quel che sono servite a indicare, in ogni tempo e fin nel più piccolo filo tessuto 69 . Quella dell'emigrato è condizione stori­ ca di chiunque non sia a casa propria, e per Adorno certo, nessuno è a casa propria in questo mondo; ogni lingua è stata espropriata, anche in questo caso vale la massima secondo la quale «la pagliuzza nel tuo occhio è la migliore lente d'ingrandimento» 70 . Se l'espropriazione è compiuta, solo «la sensibilità per tutto ciò che è discosto e appartato, l'odio per la banalità, la ricerca ci ciò che non è ancora consunto [...] è ancora l'ultima chance del pensiero» 71 ; «la ragione si è rifugiata - interamente ed ermeti­ camente - nelle idiosincrasie personali» 72 , che così personali non sono poi, ma anzi, come nella brutta letteratura le frasi che vengono messe in bocca ai protagonisti e che dovrebbero essere le più a loro intime proprie e individuali suonano invece generalissime secondo i più noti cliches, allo stesso modo nelle idiosincrasie personali si scopre l'universale:

è vero che nessuna idea è esonerata da questa connessione, che nessuna di esse può persistere ciecamente nella sua chiusura particolare. Ma tutto dipende dal modo in cui si compie il trapasso. La iattura viene dal pensiero come violenza, dall'abbreviazione indebita del percorso, che deve passare attraverso l'impenetrabi­ le, attraverso la durezza del particolare, per essere in grado di raggiungere l'univer­ sale, la cui sostanza è custodita nell'impenetrabilità stessa 1 ^.

Le idiosincrasie personali, come le lacune testuali, sono l'impe­ netrabile, nel quale si conserva la sostanza della cosa; perché «le cose non sono quello che sono» come abbiamo già letto nella Dialettica dell'illumi­ nismo. Lo stesso viene ribadito, in termini più obicttivanti poco oltre: «In un testo filosofico tutte le proposizioni devono essere ugualmente vicine al centro»: nessuna principale significa anche: nessuna secondaria. Il con­ centrico, o l'a-centrico (Adorno si esprime esattamente al contrario nella Dialettica negativa, tutte le proposizioni devono essere ugualmente lontane

6rt Cfr. Th.W. Adorno, Tbesen ùber die Sprache des Philosophen, op. cit.69 Cfr. Th.W. Adorno, Die Aktualitàt der Philosophie, op. cit.70 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 48.71 Ibidem, p. 70.72 Ibidem, p. 73.73 ìbidem, p. 81. Corsivo mio.

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LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA 57

dal centro), hanno a che fare con l'«indugio» presso la cosa, entrambi devono scoprire il particolare in modo da non farne un semplice passo sul cammino dell'universale, cosa che sarebbe segretamente la radice di ogni idealismo 74 ; «la conoscenza veramente allargante è quella che indugia presso il singolo fenomeno finché, sotto l'insistenza, il suo isolamento si spezza» - l'insistenza è ben inteso quella del desiderio - «ciò presuppone, evidentemente, un rapporto con l'universale, ma non un rapporto di sus­ sunzione, anzi piuttosto il contrario. La mediazione dialettica non è il ricor­ so a qualcosa di più astratto, ma il processo di risoluzione del concetto in se stesso» 7\ E Adorno prosegue citando il Nietzsche della Gaia scienza con­ tro la vis eclettica e conciliatrice delle storie del pensiero: «la morale del pensiero è appunto qui: il suo procedere non deve essere né ottuso né sovrano, né cieco né vuoto, né atomistico né consequenziario» - qualcosa di contrario al circolo ermeneutico fa capolino: il particolare ancorché concorrere alla costituzione del tutto, e viceversa, è un elemento che tende alla sua rottura, e tuttavia tale forza di rottura è data solo dal circolo entro il quale gli elementi sono spinti: non è il circolo da scoprire ma la forza che ha spinto gli elementi dentro di esso. Per questo la richiesta di ripro­ durre tutti i passaggi che hanno portato al testo è giudicata inutile prima ancora che impossibile.

Non si tratta di stabilire un percorso ma, al contrario, di rappresenta­ re un campo di forze, dove anche le lacune sono conservate come forza del testo. Però le lacune conservano la loro forza solo entro un pensiero che non rinunci all'obbligo di esprimersi per concetti. Dopo aver parlato delle lacune, nello stesso aforisma 50, si legge:

II pensiero che rinuncia, in nome del rapporto al proprio oggetto, alla piena trasparenza della sua genesi logica, resta pur sempre in difetto, in quanto rompe la promessa che è implicita nella forma stessa del giudizio ' 6 ,

e quindi

quando i filosofi, a cui si sa che il silenzio riuscì sempre difficile, si lasciano trascinare in una discussione, dovrebbero parlare in modo da farsi dare sempre torto, ma - nello stesso tempo - da convincere l'avversario della sua non-verità 77 .

74 Ibidem, p. 77.1 ~' Ibidem, p. 78. Corsivo mio.76 Ibidem, p. 87." Ibidem, pp. 73-74.

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58 CRITICA DEL NON VERO

Non c'è modo di allungare direttamente le mani verso la cosa ma solo la possibilità di farla risultar fuori dal testo, attraverso la forza che si instaura tra rigore e non conciliazione formale. Se manca il rigore, la forza si mescola, gli elementi si sciolgono, se abbonda la conciliazione nella forma, le tensioni sono appianate in una struttura rigida e stabile. Obbligo alla forma e fedeltà agli elementi che di per loro distruggerebbero la forma come

il talento [che] non è forse altro che rabbia felicemente sublimata, la capacità di tradurre quelle energie che, un tempo, si esaltavano oltre ogni limite nello sforzo di distruggere gli oggetti che opponevano resistenza [...] e di essere altrettanto tenaci e implacabili nella ricerca del segreto degli oggetti 78 ,

giacché

il mondo [...] il suo principio unificatore è lo sdoppiamento, ed esso concilia solo in quanto attua la perfetta inconciliabilità di universale e particolare. La sua essen­ za è l'inessenza: ma la sua apparenza, la menzogna mercé la quale sussiste, è l'esponente della verità 79

- ogni negazione deve essere, insomma, determinata.L'interpretazione è chiamata a rispettare l'essenza del testo anche se

questa è inessenziale, giacché tramite di essa può scorgere e far sorgere l'esponente della verità. E una mimesi cosciente, ossimoro, alla quale Adorno chiama l'interpretazione, una identificazione con l'aggressore dove «non valga far paura». C'è un racconto, nei Minima moralia, com­ movente e triste, a proposito delle due lepri che si salvano dal cacciatore fingendo d'essere morte,

Fin da quando cominciai a riflettere, mi rese sempre felice la canzone che comincia con le parole «tra il monte e la profonda, profonda valle»: la storia delle due lepri che, mentre si sollazzano sull'erba, sono abbattute dal cacciatore, e, quando si rendono conto di essere ancora in vita scappano via. Ma solo più tardi ho com­ preso il monito contenuto in quella storia: la ragione può resistere solo nella disperazione e nell'eccesso; occorre l'assurdo per non soccombere alla follia ogget- tiva;

e Adorno commenta che: "bisognerebbe fare come le due lepri [...] cadere follemente come morti, raccogliersi, riprendere coscienza, e, se si è ancora

Ibidem, p. 123. Ibidem, p. 129.

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LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA 59

in grado di respirare, scappare a tutta forza 80 . Forza che è la stessa della contraddizione, delle lacune, e del padre del pensiero, il desiderio, infatti:

la forza dell'angoscia e della felicità sono la stessa cosa: la stessa apertura illimitata [...] all'esperienza, in cui il soccombente si ritrova. [...] Solo l'eccentrico sarebbe in grado di resistere e di imporre un alt all'assurdo. Egli solo potrebbe capacitarsi dell'apparenza del male. [...] L'astuzia delle lepri impotenti riscatta - con le lepri - anche il cacciatore, a cui invola la sua colpa 81 .

Contro il nominalismo: la verità è un indugio, una imitazione del falso. Una imitazione che ami le sue lacune e soppressioni, la parte ingiustificabile, la non autocomprensione, dove «le bugie abbiano le gam­ be lunghe» e si possa dire «precorrano i tempi» 82 . Ma tale estraneità, unico rimedio, secondo le parole di Adorno, all'estraniazione, non è pos­ sibile procurarsela che attraverso un ricordo della memoria, la trasforma­ zione degli impulsi in impulsi intellettuali; non perché queste proprietà del soggetto siano esse, psicologicamente, il vero, ma perché solo attraverso di esse la fantasia può capacitarsi della storia del testo. Lo spirito non è che istinto che ha avuto fortuna; «i tabù costituiscono, nel loro insieme, il rango intellettuale di una persona», le soppressioni il rango di un testo, e «ciò che vale per la vita istintiva, vale anche per quella spirituale» 83 . Ma compiere tale esperienza è, nel mondo oggi, la cosa più difficile.

Questa impossibilità è forse il tema più noto nel pensiero di Adorno; scrive «l'idiozia è oggettiva», neppure l'ironia è ancora in grado di resiste­ re alla follia.

Il medium dell'ironia, la differenza tra ideologia e realtà, è scomparso. L'ideo­ logia si rassegna a confermare la realtà attraverso la duplicazione pura e semplice della stessa. L'ironia diceva di una cosa: questo è ciò che afferma di essere, ma ecco com'è in realtà; ma oggi, anche nella menzogna radicale, il mondo si fa forte del fatto che le cose stanno proprio cosi, e questa semplice constatazione coincide, per lui, col bene 84 .

La celebre chiusa dei Minima moralia che afferma essere la prospet­ tiva di interpretazione delle cose la più facile a ottenersi e insieme

80 Ibidem, p. 240.81 Ibidem, p. 241.82 Ibidem, p. 123.83 Ibidem, p. 21.84 Ibidem, p. 255.

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l'assolutamente impossibile, per quel che essa richiederebbe all'interpre­ tante di non essere nel mondo in cui è necessario interpretare, indica tuttavia una prospettiva: «considerare tutte le cose come si presenterebbe­ ro dal punto di vista della redenzione». Un punto di vista che non si instaura senza il desiderio e l'esperienza dell'individuo, ma che solo trami­ te questa si fa falso in un attimo: «II pensiero che respinge più appassio­ natamente il proprio condizionamento per amore dell'incondizionato, cade tanto più inconsapevolmente, e quindi più fatalmente, in balìa del mondo» 85 .

Il condizionato non è chiuso, non è la totalità. Il tutto è falso, ma il Falso non è il Tutto. Perché il tutto è storico, è storia naturale, cioè natura sotto la cifra storica e storia sotto la cifra naturale. Fino al punto in cui sia possibile riconoscere che: «l'individuo è talmente storico in tutte le sue fibre da essere in grado di ribellarsi, con la trama sottile della sua costi­ tuzione tardoborghese, alla trama sottile della costituzione tardoborghe- se» 86 . Questo è lo schema della parodia, la teoria interpretativa di Adorno.

La teoria si vede rinviata all'obliquo, all'opaco, all'indeterminato, che, come tale, ha senza dubbio qualcosa di anacronistico, ma non si esaurisce nell'invecchiato, perché ha giocato un tiro alla dinamica storica,

come Benjamin ha lasciato in eredità il compito di

non affidare esclusivamente questo tentativo [di mettere filosoficamente a frutto ciò che non è ancora determinato dalle grandi intenzioni] ai rebus sconcertanti del pensiero, ma di recuperare ciò che è privo di intenzione attraverso il concetto: l'obbligo di pensare dialetticamente e non dialetticamente ad un tempo 87

così che per questo:

al pensatore odierno non si chiede niente di meno che questo: essere nello stesso momento nelle cose e al di fuori delle cose; e il gesto del barone di Mùnchhausen, che si solleva dallo stagno afferrandosi per il codino, diventa lo schema di ogni conoscenza che vuoi essere qualcosa di più che constatazione o progetto 88 .

85 Ibidem, p. 304.86 Ibidem, p. 171.87 Ibidem, p. 179.88 Ibidem, p. 78.

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CAPITOLO III

MODELLI INTERPRETATIVI

La dialettica è come il sole: se la guardi ti acceca, ma se aspetti che passi diventa notte.

Franco Fortini

Tra due posizioni divergenti, spesso il vero non trova affatto posto nel mezzo. Quasi tutti i commentatori hanno fatto riferimento all'estetica come al luogo dove Adorno è costretto a lasciar vigere un concetto enfa­ tico di verità; con due posizioni che possono essere presentate l'una come critica del dogmatismo/estetismo, l'altra come riconduzione della verità della filosofia alla verità dell'arte. Peter Lang 1 può ben rappresentare la prima posizione. Egli reperisce tanto in Gadamer quanto in Adorno un riferimento dogmatico alla verità dell'arte, operato per togliersi d'impac­ cio dalla indecidibilità delle rispettive teorie ermeneutiche e di critica dell'ideologia. All'altro estremo possiamo trovare soprattutto i lavori fran­ cesi 2 dove, sotto la doppia cifra dello strutturalismo e del surrealismo, la teoria estetica destituita, almeno nelle intenzioni, dal regno soggettivo, si

1 P.C. Lang, Hermeneutik-Ideologiekritik-Asthetik. Uber Gadamer und Adorno sowie Fragen einer aktuallen Asthetik, Forum Academicum, inder Verlagsgruppe Athenàum-Hain-Scriptor-Hanstein, Kònigstein 1981, pp. 96-97.

2 Per una breve panoramica si possono vedere i due numeri monografici della «Revue d'Esthétique», Présences d'Adorno, nel n. 1-2, del 1975, in particolare i saggi di Baucar, Jimenez, Ladmiral; Adorno, nel n. 8, nuova serie, 1985, in particolare i lavori di Ladmiral, Heyndels, Zima.

Assai indicativo è anche il libro di O. Revault d'Allones, tradotto in italiano, Destrutturazioni. Contro l'imperialismo culturale, ed. Faenza, Imola 1976, sebbene lasci perplessi la ostentata struttura surrealista. Ad esempio a p. 75 leggiamo che Adorno non sarebbe stato in grado di «pensare fino in fondo il rifiuto della categoria borghese, ottocentesca, di coscienza» e pertanto scrive l'autore, «mi prendo la libertà, ogni volta che Adorno scrive il termine "coscienza" di leggere: «le forze sociali rivoluzionarie"», sostituzione indebita in Adorno e discutibile nella realtà. Certamente Adorno pensava che la coscienza borghese, vista la sua liquidazione de facto avvenuta nella struttura produttiva sociale, potesse esercitare il ruolo di richiamo e contestazione, esattamente

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presenta quasi in uno schema schellinghiano come modello dell'azione delle forze nel mondo. In Italia, un tentativo simile è stato condotto, per esempio, da P. R. Felicioli, in Esperienza, estetica e soggettività in Th.W. Adorno\ sempre sulla scia del possibile rapporto tra Adorno e Gadamer - questa volta implicito 4 - nella ricerca di un modello di esperienza della tradizione che abbia al suo interno la tematizzazione piena dell'individuale e del suo rapporto affettivo con le cose.

In tutti questi casi, il rapporto tra Gadamer e Adorno - come più tardi, morto Adorno, quello tra la Scuola di Costanza e la teoria critica - è probabilmente spinto troppo oltre i termini comuni. È vero che entram­ bi si richiamano allo hegeliano "Philosophie ist ihre Zeit in Gedanken erfafit"; è anche probabile che su questo, come sulla possibilità da parte dell'esperienza artistica di possedere la chiave per dischiudere l'enigma di come avvenga l'interpretazione, i due concordino. Tuttavia mi sembra che il problema ermeneutico si ponga solo dopo questo punto. La nozione di «orizzonte» e quella di «ideologia» definiscono entrambe la formazione di una Bildung che non è padroneggiata dall'individuo. Ma la differenza consiste in questo: mentre per Gadamer la comprensione dell'orizzonte, la fusione, è la situazione ermeneutica nella quale, in ultima istanza, c'è da apprendere soprattutto il proprio apprendere, l'essere come medio tra­ scendentale della costituzione dell'esperienza storica dei soggetti, per Adorno, al contrario, il proprio tempo appreso è tanto poco compreso quanto qualsiasi altra esperienza di irrazionalità eteronoma, e non apre affatto alla possibilità d'esperienza di invarianti ontologiche. Anzi su di esso di appunta proprio la critica dialettica, per portare fuor di se stessa questa «apprensione». Quando Gadamer conclude alla ontologia del lin­ guaggio, è molto più vicino allo Hegel del manuale, quello della nozione idealistica dello spirito come assoluta comprensione e espressione della sostanza (e cioè come soggetto), che non Adorno, per il quale l'unico

come nella teoria marxista della letteratura la differenza tra strutture produttive e coscienza di esse può portare a percepire le prime, finalmente, come non naturali. In nessun caso, tuttavia, Adorno avrebbe potuto chiamare forza sociali rivoluzionaria una forma in larga misura ideologica e per lo più in via di sparizione.

3 P.R. Felicioli, Esperienza estetica e soggettività in Th.W. Adorno, in «Itinerari», anno XXII, 1983, pp. 163-182. Probabilmente influenzato dai precedenti lavori di E. Ruschi, il lavoro è di estremo interesse. È l'unico, ad esempio, che elabori il tema della «monade» presente nella Teoria estetica di Adorno, in collegamento con G.B. Vico.

4 Cfr. le notazioni di G. Vattimo contenute nella presentazione dell'edizione ita­ liana del libro di Gadamer, Verità e metodo, ed. Bompiani, Milano 1983.

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MODELLI INTERPRETATIVI 63

assoluto che esiste è quello falso presente nella coscienza, che presenta a se stesso lo stato sociale di cose come naturale e immutabile.

Il rapporto tra ontologia ermeneutica e dialettica ermeneutica, se passa l'ossimoro, è da vedere all'opera semmai, nelle differenti nozioni di essere. Un paradigma di come questo tema sia stato affrontato - e a volte anche distorto dal contesto ideologico - la da, per esempio, Fulvio Car­ magnola 5 . Nella esposizione della tesi adorniana sulla necessità che il concetto - che «è in sé differenza» - trovi nella dialettica l'espressione del non concettuale, Carmagnola, a proposito dell'obbligo di far questo tra­ mite concetti, usa «pretesa» al posto di «obbligo» 6 . Ebbene, nel passaggio tra «obbligo» e «pretesa» è racchiusa in piccolo la storia della ricezione adorniana dalla fine degli anni Sessanta ai giorni nostri. Scrive dunque Carmagnola:

Se ci poniamo ad analizzare la torsione cui Adorno sottopone le strutture, in Hegel sovrane e oggi vacillanti, del pensiero dialettico, un elemento traspare immediata­ mente: il potere che Adorno tuttora riconosce al concetto, quello di costituire un ponte tra lo spirito e la realtà. [...] Guardare all'hegelismo radicale di Adorno [...] attraverso la lente della genealogia nietscheana, può scoprire, in questa versione ultima e cosi raffinata del pensare dialettico, la sua ultima hybris 1 .

Come dire che dopo la morte di Dio, gli obblighi della ragione sono solo tracotanza, e quindi «pretesa» appunto, quella adorniana compresa: che la filosofia riesca infine a parlare di altro da sé senza renderselo iden­ tico. La ragione deve condurre a fondo la critica a se stessa fino a inde­ bolirsi. A favore di che? - si domanderebbe Adorno. «Separare verità e menzogna è il fine del metodo materialistico, non il suo punto di partenza. In altre parole il suo punto di partenza è l'oggetto permeato di errore, di

5 F. Carmagnola, Conoscenza degli estremi. Sulla nozione di apparenza in Hegel, Nietzsche, Adorno, Unicopli, Milano 1986, p. 117 e sgg.

In proposito, sempre in italiano, anche i lavori di R. Racinaro e T. Perlini, trattano questo tema. Racinaro, in Hegel nella prospettiva di Bloch e Adorno, in «Critica marxi­ sta», 1974, n. 1, pp. 127-53, illustra perfettamente il rapporto tra reale/astratto/falso e irreale/concreto/vero, riconducendolo sia al tema dell'identità del concetto sia, paral­ lelamente e quasi in una sorta di nuova Fenomenologia dello spirito, alla società come totalità e alla lettura adorniana dei Grundrisse marxiani. Perlini in Dialettica e utopia, in «Aut Aut», 1970, n. 119-120, pp. 135-56, parla di una «doppia categoria di totalità» in Adorno, una del «già», quella sociale, e l'altra aperta, del «non ancora».

6 F. Carmagnola, Conoscenza degli estremi, cit., pp. 117-21.7 Ibidem, p. 117.

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64 CRITICA DEL NON VERO

doxa» 8 - «concetto enfatico di verità» 9 . All'ontologia, come regno della necessità, si contrappone la deontologia come regno della possibilità - questo è il principio di tutte le interpretazioni adorniane.

Sarebbe nullo il pensiero senza bisogno, [...] vero sarebbe il pensiero che desidera il giusto - sebbene - [...] il pensiero a partire dal bisogno si confonde se il bisogno viene concepito in modo meramente soggettivo. I bisogni sono un conglomerato del vero e del falso: vero sarebbe il pensiero che desidera il giusto 10

- è il bisogno, la doxa, dalla quale sempre prende l'avvio la filosofia. Non certo per scelta, ma perché il pensiero non può attingere alla fonte del vero, bello e buono. Radicale è per Adorno, come per Marx del resto, non la riflessione sull'origine in quanto tale, ma la penetrazione e comprensio­ ne delle «conseguenze»; semmai la «foce» del razionale, non la fonte. In questo senso, porre desiderio a fondamento della interpretazione significa affidarla a un organo fragile e fallibile, a quel ricordo che, abbiamo visto, produce il materiale del desiderio. È allora che la questione di una reden­ zione complessiva - di un Dio che interpreti le cose e con questo ci salvi- diviene nel suo risultato «pressoché indifferente» 11 . Il problema sta piuttosto nel mettersi nella prospettiva di Dio, di fronte al quale «poiché egli le ha fatte egli le comprende» 12 , le cose della natura, s'intende - e anche l'uomo, che deve porsi nella distanza dalla quale ogni cosa sembri revocabile. Nell'ontologia nulla è revocabile. In Heidegger nulla è revoca­ bile. La differenza tra interpretazione corretta e scorretta diviene, nono­ stante ogni contraria polemica, di nuovo affidata alla capacità del singolo uomo empirico - purché sia nella situazione di ascolto corretta. In Ador­ no, per contro, la possibilità di comprensione viene affidata alla possibilità di desiderare il giusto: «[...] pensiero e pensato sono reciprocamente mediati. Propriamente si può comprendere filosoficamente solo ciò che è vero. Realizzare il giudizio, in cui si comprende, coincide con la decisione sul vero e sul falso» 13 . E «vero» per Adorno è solo la negazione determi-

s M. Jay, Th.W. Adorno, Fontana Paperbacks, London 1984; ed. it. trad. S. Pom- pucci Rosso, II Mulino, Bologna 1987. M. Jay sta citando da Th.W. Adorno, Charles Baudelaire. Einer Lyriker in Zeitalter des Hochkapitalismus, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1969.

9 Th.W. Adorno, Wozu noch Philosophie?, op. cit.10 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 87.11 Cfr. Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 304.12 II riferimento è, ovviamente, a Vico.15 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 55-56.

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MODELLI INTERPRETATIVI 65

nata del falso che ora regna. Comprensibile è quindi solo la negazione del falso - ma perché non l'affermazione del vero?

Scrive Bodei 14 che la forma-identità della riproduzione sociale ha fatto da modello a ogni sviluppo individuale, introiettata con terrore, e conclude:

la logica dell'identità ha il suo supporto economico nel progressivo affermarsi di ciò che appare come scambio di equivalenti. [...] Si genera così, in questa catena di mediazioni dell'identico, la scomparsa e l'ottundimento dell'esperienza. L'impres­ sione del déjà vu colpisce i sensi non meno del pensiero 15 ;

e Adorno commenta se stesso dicendo che se proprio di ontologia si dovesse parlare «di fronte alla possibilità concreta dell'utopia, la dialettica è l'ontologia dello stato falso» 16 . Ma si tratta di una ontologia negativa - e non «nera» come scrive Carmagnola, forse troppo suggestionato dalla presenza di Nietzsche 17 -, in quanto concepisce il vero solo come negazio­ ne del falso e non accetta nulla di ontologico propriamente detto, ma anzi riconosce nell'ontologia una produzione della coscienza di fronte alla tra­ dizione e alla società. In questo stato, prosegue Bodei,

la lotta di classe non è scomparsa, è diventata solo «virtualmente invisibile» e strumentalizzata alla logica dell'equilibrio. Non potendosi manifestare come lotta aperta, si manifesta in sede privata. [...] In tutte le società che colpiscono il dis­ senso, la speranza di un mondo nuovo giace nella resistenza e nel rifiuto di piccole minoranze. [...] Adorno prefigura una lunga guerra di posizione. [...] Al concetto di lotta di classe si sostituisce quello di resistenza al dominio

e in questo, che sembra individualismo borghese, non però è assente la coscienza della sua insufficienza, proprio là dove meno ce la si attende: «[l'arte] è il "luogotenente" del soggetto collettivo assente [...] essa costi­ tuisce l'agnizione e la revoca del rimosso sociale» 18 , o come si esprime

14 R. Bodei, Adorno e la dialettica, in «Rivista critica di storia della filosofìa», anno XXX, ottobre-dicembre 1975, fase. IV, pp. 432-57.

15 Ibidem, p. 435.16 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 10.'' F. Carmagnola, Conoscenza degli estremi, cit., p. 121 : «... utopia nera che è

consapevole di doversi esaurire nell'infinito analizzare e disporre quei pochi e frusti concetti della tradizione» - posizione inaccettabile da parte di Adorno. Tra l'altro Carmagnola cita I. Fetscher, Ein Kampfer ohne lllusion, che parla di «Hòffnungslos Liebe» che è certo qualcosa di molto diverso da una utopia nera...

18 R. Bodei, Adorno e la dialettica, cit., pp. 438-40.

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Adorno nella teoria estetica, essa è «storiografia inconscia». Alla filosofia come interpretazione spetta di mostrare come l'arte menta sul mondo per poter dire il vero, si procuri cioè un'estraneità necessaria, che la filosofia non può possedere - pena la regressione, tanto forti sono in essa le ten­ denze ad assimilarsi al dominio - ma che solo essa può giustificare. Allo stesso modo di fronte alla realtà, si potrebbe dire, l'arte senza filosofia è cieca e la filosofia senza arte è vuota.

Arte e filosofia hanno un elemento in comune non nella forma o nel procedimento formativo, bensì in un atteggiamento che rifiuta la pseudomorfosi. Entrambe resta­ no fedeli al loro contenuto al di là della loro opposizione; l'arte indurendosi contro i propri significati; la filosofia rifiutando di accettare qualsiasi immediato 19 .

E Bodei, parlando dei tre saggi giovanili dei quali anche noi ci siamo occupati, scrive che:

come nella psicoanalisi freudiana (che qui costituisce uno dei modelli accanto ad altre forme di ermeneutica), compito della filosofia è decifrare testi lacunosi, ve­ dere significativi i vuoti quanto i pieni, puntare l'attenzione su quei «resti del mondo fenomenico» - quali sono, ad esempio, i lapsus in Freud - che apparen­ temente non hanno senso, mentre sono invece il filo conduttore verso il rimosso sociale 20 ,

concludendo che

difficilmente tale dialettica [...] priva del momento risolutivo della positività me­ diata, può ottenere una fondazione legittima, poiché la sua vera fondazione è sul non ancora, su ciò che attende di realizzarsi e la cui assenza brilla nel mondo come contraddizione 21 .

L'unione di «non ancora» e ermeneutica psicoanalitica è del resto professata esplicitamente da Adorno, secondo il quale: «la speranza non è il ricordo tenuto fermo bensì il ritorno dell'obliato» 22 : una società senza classi. Ed è quindi vera l'interpretazione di Bodei, che la fondazione della

19 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 14. Traduzione in parte da me modificata, corsivi compresi.

20 R. Bodei, Adorno e la dialettica, cit., p. 446.21 Ibidem, p. 456.22 Th.W. Adorno, Noten zur Literatur, Suhrkamp Verlag, 4 Banden, Frankfurt

a. M. 1958, 1961, 1965, 1974, ed. it. Note per la letteratura, 2 volumi, Einaudi, Torino, 1979, tr. E. De Angelis, G. Manzoni, A. Frioli, voi. II, p. 131.

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dialettica, ovvero di quel tipo di interpretazione che si comprende come prassi in quanto modifica e distrugge il carattere di enigma della cosa, poggia sulla speranza come ritorno dell'obliato; speranza che è, in termini ancora da chiarire, esperienza di una sorpresa.

Proprio Freud nello scritto sulla negazione 2 ' aveva affermato che la risposta: «l'avevo sempre saputo ma non me lo ero mai ricordato» sia per essenza la risposta che si ottiene quando si è avanzata una ricostruzione e interpretazione corretta all'analizzando. Allo stesso modo Adorno è alla ricerca di una unità morale ricostruita dall'interpretazione opposta all'im­ pressione di frammentarietà e estraniazione, che «il compito della filosofia sarebbe piuttosto quello di cercare - nell'opposizione di sentimento e intelletto - la loro unità: che è appunto l'unità morale» 2*.

Si tratta, in entrambi i casi, di una anamnesi di tipo del tutto parti­ colare, perché al contrario dell'ontologia platonica, quel che viene «ricordato» a rigore non esiste prima del ricordo: meglio detto, esiste nella forma della sua assenza, che come le lacune del testo, di cui abbiamo letto nei Minima moralia, contribuiscono alla forza del testo non meno delle presenze. Scrive Adorno nella Teoria estetica che:

il linguaggio delle opere d'arte è costituito [...] da una corrente sotterranea collet­ tiva [...]; la loro sostanza collettiva parla del loro stesso carattere di immagini - e quindi - ... il contenuto di verità delle opere d'arte è storiografia inconscia, solidale con quel che fino ad oggi è sempre di nuovo soccombente 25 .

Ed è chiaro che tale «solidarietà», che si costituisce attraverso il momento magico &e\Y «apparition» cui è sempre connesso il fascino del bello, ha strette relazioni con la memoria: «Senza una memoria storica non ci sarebbe alcuna bellezza» 26 , «quell'esperienza è memore di una situazio­ ne senza dominio, che probabilmente non c'è mai stata» 21 . Questa interpre­ tazione fondata sul «non ancora», come scrive Bodei un «non ancora» che è memoria di una situazione che probabilmente non c'è mai stata, è lo scandalo ermeneutico della teoria critica, il suo passaggio dalla verità-che- cosa alla verità-per-che, o detto chiaramente: il passaggio dalla verità non

21 Cfr. S. Freud, La negazione e altri scritti teorici, a cura di C. Musatti, tr. Baruffi, Colorni, Fachinelli, Einaudi, Torino 1981.

24 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 237. Corsivo mio.25 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 146 e 232.26 Ibidem, p. 110.2/ Ibidem, p. 131. Corsivo mio.

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ÒO CRITICA DEL NON VERO

dialettica, in ultima istanza sempre trascendentale, a quella dialettica, che è la differenza tra esperienza e sapere,

... scrittura sorgente in un lampo e scomparente che tuttavia non si lascia leggere per ciò che significa 28 - in particolare nell'opera d'arte dove - ciò che è sfuggente viene obbiettivato e chiamato a durare; per questo essa è concetto, solo che non è il concetto della logica discorsiva 29 .

Lo stesso concetto non discorsivo era, in Die Aktualitàt der Philoso- phie, l'unica possibilità della filosofia di liberarsi dal gioco dell'esattezza cartesiana e mordere il pane che ricostruisce un testo facendo scomparire il carattere di accecamento nel mentre che fornisce una risposta. Sempre nella Teoria estetica si dice che:

l'autorità delle opere d'arte risiede in questo: esse costringono a riflettere su quale base mai esse, figure dell'esistente e incapaci di chiamare all'esistenza ciò che non esiste, potrebbero divenirne l'immagine travolgente, se il non esistente non esistes­ se di per se stesso 30 ,

questa è l'esistenza del «non ancora» di cui parlava Bodei, la medesima ancora intrecciata al ricordo individuale che si scontra con una memoria di una situazione che forse non c'è mai stata. A tal punto è obiettivo, questo «non ancora», una volta che ci si sia liberati dal modello scienti­ stico di oggettività, che esso funge anche da index veri, infatti:

il criterio di oggettività non è la verifica della tesi enunciata tramite un esame iterativo, ma è la esperienza individuale compresa tra speranza e delusione. Nel ricordo essa da rilievo alle proprie osservazioni, confermandole o confutandole 31 .

Sia la verità della filosofia che quella inconscia delle opere d'arte - che sono «storiografia del desiderio di memoria» - hanno la loro chiave d'accesso nell'interpretazione. Scrive in proposito P. Biirger, per molti versi critico di Adorno, che l'arte è storiografia inconscia perché «il ma­ teriale artistico di un'epoca è il risultato di un processo storico, in esso è

28 Ibidem, p. 137.29 Ibidem, p. 124.30 Ibidem, p. 141.31 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 11. Corsivo e spaziatura

miei.

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MODELLI INTERPRETATIVI 69

congelata un'esperienza storica» 32 - e Adorno spiega che se la forma va comunque sentita come un contenuto è perché essa: «altro non è che un contenuto sedimentato» 53 . Insomma, il contenuto delle opere d'arte, che fa sì che esse registrino inconsciamente un'esperienza che soccombe, è la loro forma, la quale a sua volta è stata la registrazione di un contenuto d'esperienza; è tra questi due estremi che si cifra la verità, tanto che «l'arte ha tante prospettive quante ne ha la forma e non di più» 34 , o, detto altrimenti:

la forma che tocca a un contenuto è essa stessa un contenuto sedimentato. [...] Quanto più profondamente il contenuto materiale (esperito fino a che diviene irriconoscibile) si converte in categorie formali, tanto meno commensurabili al contenuto già elaborato delle opere d'arte divengono i materiali non sublimati. Tutto ciò che si manifesta nell'opera d'arte è effettualmente e con lo stesso diritto sia forma che con tenuto J\

La forma è il medium dell'arte - così come ugualmente lo è della filosofia 36 - , la mediazione della forma - il cui carattere principale è in arte il rinunciare e il tagliare 37 - la mediazione di contraddizioni che è in

32 Peter Bùrger, Vermittlung-Rezeption-Funktion. Asthetische Theorie una Metho- dologie der Literaturwissenschaft, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1979.

33 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 237-246.34 Ibidem, p. 239.35 Ibidem, pp. 244-45.36 Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, p. 51.Per una ricognizione sul tema si possono consultare: per l'aforisma come stile J.R.

Ladmiral, Dialectique negative de l'écriture aphoristique, in AA.VV., Adorno, in «Revue d'Esthétique», nuova serie, 1985, n. 8, e il suo corrispettivo critico P. Reichel, Verab- solutierte Negation, op. cit., il quale rimprovera l'inconclusività politica dell'aforisma e la sua facilità e non stringenza al povero Adorno; per un paragone tra lo stile di Adorno e le scelte formali di Derrida, P. Zima, Adorno et la crise du langage: pour une critique de la parataxis, in «Revue d'Esthétique», nuova serie, 1985, n. 8; R. Tiedemann che parla di «linguaggio interpretante» a proposito delle scelte lessicali di Adorno, in Be- griff-Bild-Name. Uber Adornos Utopie von Erkenntnis, in Hamburger Adorno-Sympo- ston, op. cit.; per una ricerca degli effetti stilistici nella ricerca sociologica contrapposta all'empirismo matematico delle scienze sociali negli Stati Uniti, cfr. G. Rose, The Melancoly science: an introduction to thè thought of Th.W. Adorno, Free Press, New York 1978, forse la migliore studiosa delle questioni stilistiche in Adorno. Per una visuale diversa, infine, per il rapporto di Adorno con il materialismo cfr. N. Tertullian, Materialismo e morale nella Dialettica negativa di Adorno, in «Critica marxista», 1985, n. 4, pp. 149-72.

37 Per l'idea che formare significhi tagliare, rimuovere e diminuire, piuttosto che aumentare, cfr. Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 240 e sgg.

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70 CRITICA DEL NON VERO

sé contenuta nell'empiria: «diventa il per sé della coscienza solo attraverso l'atto del ritirarsi, compiuto dall'arte. In ciò tale atto è un atto di cono­ scenza» 38 .

Nella Terminologia filosofica, scrive Adorno che «ciò che è più importante per l'uso della terminologia filosofica, vale a dire la qualità strutturale delle parole» 39 , significa che «la terminologia [...] deve essere usata in connessioni, in costellazioni nuove, dove possa acquistare un nuovo valore di posizione» 40 .

Se la filosofìa è davvero filosofia [...] le è essenziale il linguaggio, e cioè la forma in cui i concetti sono esposti. [...] La differenza fra il significato puramente con­ cettuale delle parole e ciò che il linguaggio esprime con esse è in verità il medium in cui soltanto si sviluppa il pensiero filosofico,

tale modo di procedere

è possibile soltanto in un medium che non è propriamente concettuale, ma lingui­ stico: lo stile o la forma espositiva. In questo senso nella filosofia il linguaggio o lo stile non è anteriore alla cosa stessa, ma appartiene costitutivamente alla cosa 41 .

La spiegazione di tale accento è duplice: per un verso solo così la filosofia è in grado di sciogliere il carattere irrigidito dei suoi concetti, la rigida loro universalità che si impone come forma di coscienza al di sopra e contro l'esperienza delle cose, per l'altro, giacché non siamo uomini primitivi, e allo stesso modo, si può scrivere che:

i termini filosofici sono, propriamente, dei punti nodali della storia del pensiero che si sono conservati e intorno ai quali poi ruota [...] la storia della filosofia [...]: ogni termine filosofico è la cicatrice di un problema irrisolto 42 .

38 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 244.39 Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, cit., p. 30.Tra l'altro W. BonIS sostiene essere l'interpretazione adorniana chiaramente strut­

turale, a differenza di quella hegeliana che sarebbe procedurale, pur restando stretta­ mente dialettica, in W. BonB, Empirie und Dechiffrierung von Wirklichkeit, in AA.VV., Adorno-Konfernz 1983, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1983.

40 Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, cit., p. 50.41 Ibidem, p. 51.42 Ibidem, p. 213. Corsivo mio. Sul contenuto storico e sociale che i concetti

conservano, nell'impiego filosofico che ne fa Adorno, Cfr. A. Schmidt, Begriff des Materialìsmus bei Adorno, in AA.VV., Adorno-Konferenz 1983, cit., pp. 14-20.

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MODELLI INTERPRETATIVI 71

Pensare è identificare tramite astrazione, su questo Adorno non ha alcun dubbio. Tuttavia tale pensiero produce, dialetticamente, delle ferite fin nel fondo della propria terminologia. Finanche l'arte è impegnata nel riconoscimento e nella rimarginazione di quei colpi, ma senza la possibilità di riferirsi ad un immediato, anche «le opere d'arte - come la filosofia - possono guarire le ferite [...] solo mediante un aumento di astrazione che impedisca la contaminazione dei fermenti concettuali con la realtà empi­ rica: il concetto diventa parametro» 45 . Ma che il concetto filosofico rag­ giunga una tale insperata nobiltà, è una questione che si decide a seconda del modo in cui, sia in arte che in filosofia, il contenuto è conservato nella forma, che è collettiva, inconscia e, finalmente, tradizione. Il rapporto costitutivo della tradizione con la forma mediante la rimozione sociale, punto archimedeo della filosofia, Adorno le deriva proprio da Freud.

«Una tradizione - scrive Freud [...] - deve aver subito la rimozione, lo stato di permanenza nell'inconscio, prima di poter produrre al suo ritorno effetti cosi imponenti, di poter costringere le masse al suo incantesimo». Ma non solo la tradizione religiosa, anche quella estetica è ricordo di un fattore inconscio, addi­ rittura rimosso. Quando essa sprigiona di fatto «effetti grandiosi», questi non nascono dalla coscienza rettilinea e di superficie della continuazione, ma semmai dal luogo in cui il ricordo inconscio spezza la continuità. La tradizione è presente nelle opere accusate di sperimentalismo, e non in quelle intenzionalmente tradizionalistiche 44 .

4Ì Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 168. Spaziatura mia.Per uno studio della doppia astrazione operata dall'arte, e il suo parallelo con la

intentio obliqua della intentio obliqua, di cui parla Adorno in Metacntica della gnoseo­ logia e in Parole chiave, cfr. G. Carchia, Sulla teoria estetica di Adorno, in «Verri», 1976, n. 4, pp. 66-73, dove si prospetta un parallelo tra la metacritica della gnoseologia che scopre attraverso il primato dell'oggetto la mediazione soggettiva, e la «mimesi secon­ da» delle opere d'arte che imiterebbero se stesse per poter rappresentare l'altro.

44 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 153.Per il rapporto tra tradizione e inconscio nel pensiero di Adorno, cfr. T. Perlini,

Dialettica e Utopia, in «Aut Aut», 1970, n. 119-120, pp. 135-56; un interessante detour su Adorno e Lacan è stato tentato da A. Rescio, Oggetto e critica del soggetto in Adorno, in AA.VV., Psicoanalisi e semiotica, Milano 1975; sulla permanenza di caratteri «natu­ rali» nella ragion formale e sulla impossibilità di una regressione a «prima della sepa­ razione e intreccio» tra ragione e natura, cfr. F. Porcarelli, // concetto di natura in Nietzsche e nella scuola di Francoforte, in «II Cannocchiale», 1977, pp. 61-83; il rappor­ to tra rimosso sociale e rimozione individuale in Adorno, è stato affrontato da M.G. Meriggi, Nota su Adorno e Freud, in «Utopia», I, 1971, n. 5-6; una ricognozione sul­ l'evoluzione dei concetti adorniani nel romanticismo tedesco è stata fatta, con successo, da H.R. Jauss, Das literarische Prozeft des Modernismus von Rousseau bis Adorno, in Adorno-Konferenz 1983, op. cit., rinvenendo soprattutto ih Schiller e Schlegel possibili

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Abbiamo già visto che «inconscio» e «collettivo» sono termini che spettano al contenuto presente delle opere d'arte quando esse sono poste in forma, ovvero in quella particolare tensione che mostra le contraddizio­ ni senza appianarle, giacché il tutto sopravvive solo grazie alle parti. Nella Teoria estetica è scritto: «... in forza dell'opera di configurazione artistica il suo [del soggetto] proprio contenuto oggettivo - latente - viene alla luce» 45 . L'altro, cui l'arte si procura di procurare diritto di replica, è il medesimo che abbiamo già incontrato con Bodei: il ricordo. Ad esso si contrappone il mitico, lo strapotere naturale che imprime paura, che viene rimosso e diventa con ciò una forma - proprio come la ratto illuministica diviene la forma della rimozione della propria formazione. La dialettica dell'illuminismo è il contrario dialettico della verità delle opere d'arte: quella ricade nel mito che era già illuminazione, queste creano dei miti per poter ricalcare la differenza tra quel che vuole presentarsi insieme e iden­ ticamente come ragione e come natura, affinchè la ragione stessa, non l'arte (le opere d'arte non parlano a se stesse, sebbene parlino solo tra di loro, precisa Adorno), si accorga di essere un mito, un «grido di terrore cristallizzato».

Se «ogni progresso della ragionevolezza è accompagnato dalla paura che possa scomparire ciò che l'ha messo in moto e che da essa minaccia di essere inghiottito: la verità» 46 , la memoria del «non ancora» è struttu­ ralmente simile alla memoria collettiva latente che è contenuto delle opere d'arte. «I contenuti delle opere d'arte sono fatti collettivi» 47 , ma nei fatti collettivi - nella divisione sociale - il segno si separa dall'immagine e con questo la conoscenza si scinde in due parti, ognuna delle quali, come l'uomo platonico, è da se stessa impotente. Così anche nelle esperienze estetiche (o filosofiche) «la fallacia della scissione non viene affatto retti­ ficata [...] l'immagine ne è colpita non meno del concetto» 48 . Data questa

precedenti della teoria negativa di Adorno; infine Schmidt, nel già più volte citato lavoro, ha messo in rilievo l'importanza della nozione di Trieb dall'opera di Marx a quella di Adorno, nozione senza la quale, a detta di Schmidt, la dialettica si troverebbe immobile. Per l'impostazione della ricezione freudiana in Adorno, cfr. W. Bon$,Psychoanalyse als Wissenschaft una Kritik. Zur Freudrezeption der Frankfurter Schule, e J. Benjamin, Die Antinomien des patriarchaliscehn Denkens. Kritisce Theone und Psychoanalyse, entrmabi in AA.VV., Sozialforschung als Kritik, hrsg. von W. Bonft und A. Honneth, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1982.

45 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 597.46 Ibidem, p. 136.47 Ibidem, p. 145.48 Ibidem.

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MODELLI INTERPRETATIVI 73

situazione, la ragione deve oggettivamente, al di là di qualsiasi pathos utopico, affidarsi a forme almeno apparentemente opposte a se stessa; come il saggio che:

sfiora la logica della musica, rigorosa arte di passaggi e tuttavia priva di concetti, per restituire al linguaggio parlato ciò che la tirannide della logica discorsiva gli aveva tolto [...] esso svolge i pensieri secondo procedimenti differenti da quelli della logica discorsiva 49 .

Mentre tuttavia le opere d'arte, cui la forma saggio si rifa, «diventano immagini perché i processi stessi che in loro si sono coagulati a obbietti- vità, parlano»,

i processi latenti nelle opere d'arte ed erompenti nell'attimo, la loro storicità in­ terna [che altro non è se non, ancora, la forma come contenuto sedimentato e non più cosciente], sono la storia esterna sedimentata. Il carattere vincolante della obiettivazione delle opere cosi come le esperienze di cui esse vivono sono fatti collettivi. Il linguaggio delle opere d'arte è costituito [...] da una corrente sotter­ ranea collettiva. [...] L'esperienza soggettiva arreca immagini che non sono imma­ gini di qualcosa 50 .

Possiamo allora dire - per stabilire un parziale punto fermo - che la memoria del «non ancora» è una memoria formale? Di una forma in senso stresso? E cioè di un contenuto che è stato strappato all'immediato per divenire obiettivamente forma vincolante? E che tuttavia è una forma diversa da quella della ratto illuministica?

L'esperienza soggettiva arreca immagini che non sono immagini di qualcosa e proprio esse sono di essenza collettiva [...] in forza di tale contenuto d'esperienza - che è esperienza sui generis poiché - le opere d'arte [...] sono empiria tramite deformazione empirica. Questa è la loro affinità col sogno 51 .

Non è forse, infatti, il sogno il materiale con il quale sono fatti i desideri, indifferentemente parrebbe, alla volontà del sogno? Anzi: prima della volontà del sogno, visto che il sogno non vuole, a rigore, nulla? La risposta di Adorno è semplice: no. Poiché «non va a buon fine nessuna sublimazione che non conservi in sé ciò che sublima» 52 , la tradizione è

49 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 28.50 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 145-46.51 Ibidem, p. 146.52 Ibidem, p. 160.

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74 CRITICA DEL NON VERO

tanto forte quanto più il motivo della sua assunzione è stato rimosso, o meglio sublimato nella tradizione stessa, per questo:

la tradizione è in contraddizione con la razionalità, sebbene questa si formi all'in­ terno di quella. Il suo mezzo non è la coscienza, ma il carattere vincolante dato, irriflesso, di determinate forme sociali, la presenza del passato, è tale carattere che si trasferisce immediatamente nella sfera spirituale 53 ,

ma allora qual è la differenza tra la memoria di un passato diverso, che forse non è mai esistito, e la memoria/sublimazione della tradizione? se «chi ama il passato e, per non impoverire, non intende rinunciare a tale amore, da subito adito all'equivoco perfidamente entusiasta che il suo pensiero non vada interpretato in tal senso e che egli sia aperto a un discorso sul presente»? 54

Così come, nei Minima moralia, l'«intatto schema della capacità di godere» viene diagnosticato come complesso edipico perché sfrutta la memoria di un passato felice per protestare sul presente anche se come 'dato di fatto' tale passato non fu affatto felice, anzi a rigore non fu pro­ prio, ma è solo alla luce del suo seguente, allo stesso modo quel che colpisce, spezzandola, la possibilità di una tradizione razionale è il verdetto della società, è essa a rendere impossibile un rapporto trasparente con la tradizione, e a bollare come «edipica» la capacità individuale di godimen­ to. Eppure tra la memoria e il ricordo, tra la situazione per come essa fu, e la situazione per quel che significa oggi, esiste un rapporto di reciproca determinazione.

L'oblio è disumano perché fa dimenticare la sofferenza accumulata. [...] Per que­ sto la tradizione si trova oggi davanti a una contraddizione insolubile: nessuna è attuale né da resuscitare, ma quando ogni tradizione è spenta, la marcia verso la disumanità è iniziata 55 .

Si tratta di due tradizioni diverse - quella che rimossa si impone come forma e quella che ricordata da materiale alla felicità - o sono la medesima? «La natura affermativa della tradizione crolla; è la tradizione stessa, nient'altro che con la sua esistenza, ad affermare che il significato

53 Th.W. Adorno, Ohne Leitbild. Parva Aesthetica, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1967, ed. it. Parva Aesthetica, trad. E. Franchetti, Feltrinelli, Milano 1979, p. 27.

^ Ibidem, p. 30. 55 Ibidem, p. 33.

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MODELLI INTERPRETATIVI 75

si conserva, si trasmette attraverso la successione temporale» 5h . Tradizione che è la medesima della quale si dice si trovi di fronte ad una contraddi­ zione insolubile qui, e che, nel saggio Die Aktualitàt der Philosophie, si diceva conservasse tutti i fili, anche il minimo, che servono alla filosofia critica per interpretare la realtà affinchè ne risulti un testo, la cui forza sarà poi dipendente dalla capacità di far risaltare quel che nel testo è stato soppresso, le «lacune». Allora la forma che il testo prende, ovvero il rap­ porto tra la tendenza centrifuga degli elementi e la necessità della unità per manifestare tale forza centripeta, è composta da

contenuti precipitati, in cui sopravvive ciò che sarebbe altrimenti dimenticato e che non è più in grado di parlarci direttamente. Ciò che una volta cercava rifugio nella forma, sussiste senza nome nella durata di questa. Le forme dell'arte registra­ no la storia dell'umanità più esattamente dei documenti: e non c'è indurimento della forma che non si possa interpretare come negazione della durezza della vita".

È certo che anche la «durezza della vita» e la «durata» della forma sono forme, appunto, della coscienza. Non avrebbe nessun senso dire che la vita è in sé dura, così come il durare della forma morta nell'arte, è immanente alla coscienza collettiva. Tuttavia se nell'arte «ciò che è sfug­ gente viene obbiettivato e chiamato a durare: per questo essa è concet­ to» 58 , le opere d'arte sono sottratte alla legge dell'oblio e del mito proprio grazie al loro sottomettersi alla legge della forma 59 . La tradizione, insom­ ma, non è cosa che si possa rifiutare o accettare a seconda del giudizio che si esprime sulla sua funzione sociale; essa c'è e fonda l'essenza stessa del pensiero (in questo caso artistico) rispetto alla tradizione. Un'arte senza tradizione è tanto poco pensabile quanto una filosofia senza oggetto, an­ che se questo non significa che esse debbano essere solidali con la tradi­ zione e l'oggetto. Piuttosto questi sono le «cicatrici» della storia alle quali vanno tolte le bende. L'elemento concettuale, di cui tanto l'arte quanto la filosofia si servono per questa operazione, è sì «inalienabile così alla lingua come a qualsiasi arte» ma vi «diventa qualcosa di qualitativamente diverso

56 Ibidem, p. 37. Spaziatura mia.97 Th.W. Adorno, Philosophie der Neue Musik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M.

1948; in italiano, Filosofia della musica moderna, tr. L. Rognoni, Einaudi, Torino 1975, p. 49.

58 Th.W. Adorno, 'Teoria estetica, cit., p. 124.''' Ibidem, p. 147 e sgg.

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rispetto ai concetti intesi quali unità di segno degli oggetti empirici» 60 ; proprio come le parole, che conservano e mutano qualitativamente il loro contenuto, perché esse stesse sono un contenuto. L'attività dell'interpre­ tare che si attua tramite la loro disposizione in sempre nuove costellazioni, è - come leggemmo - una sorta di ars inveniendi tramite fantasia esatta; come nell'opera d'arte, per terminare il raffronto, è «la razionale attività dispositoria esercitata dalle opere su tutto ciò che è a loro eterogeneo» a conseguire la verità 61 .

Arte e filosofia sono identiche nella non identità. Nell'opera d'arte grazie alla legge della forma, la tradizione, nella costrizione che esercita sui materiali, si disvela ancora una volta come un contenuto sociale rimosso; la filosofia identifica tramite concetti, ma nella disposizione nella quale li organizza cerca, nel contempo, un'espressione al non-identico 62 . La loro unità è reale solo come protesta contro la separazione di intuizione e concetto, sebbene essendo effettuale questa non è affatto un'identità reale limitata. Nelle costellazioni che entrambe mettono in scena, si tratta di smontare il carattere naturale e storico per scoprire il carattere naturale (dello storico) e storico (della natura). Non sono questi problemi che possano essere risolti con una risposta. Come leggemmo nei saggi degli anni '30, la critica è prassi in quanto modifica il testo enigmatico del concetto di natura e dell'aspetto storico, scioglie, per così dire, la questio­ ne dal suo carattere inintelligibile. Arte e filosofia danno voce al «privo di intenzione» che è il soggetto dell'enigma, in modo differente eppure, in una certa misura, solidale. Non nel senso che il carattere di enigma sia immediatamente il rimosso sociale - come invece accadrebbe, per esem­ pio, se si volesse riscrivere la storia dal punto di vista degli sconfitti -, ma perché mostrano che il non-intenzionale è traccia per negativo di ciò a cui si potrebbe rivolgere intenzionalmente. Insomma, riconoscere l'irraziona­ lità della ragione non comporta assumere l'irrazionale come Soggetto, bensì il riferimento per negativo alla razionalità del razionale - ad una razionalità che sia anche giusta, non solo potente - e di conseguenza all'esperienza dell'oggetto per come vi comparirebbe.

Arte e filosofia, intese come interpretazioni, sono memento mori di quel che non è accaduto. La differenza tra le due consiste in questo: che la filosofia si applica alla doxa, l'arte se ne distanzia. Come in ogni auten-

Ibidem, p. 164.Ibidem, p. 163 e sgg.Cfr. Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., pp. 73-74.

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tico pensiero dialettico, il divenuto è nel suo divenire il vero (mentre non lo è il risultato), allo stesso modo il contenuto di verità dell'interprelazione filosofica e estetica sta, per Adorno, nel divenire del rapporto di distanza dell'arte mediato dalla vicinanza della filosofia. Non è sublime, per quanto possa ricordare certi autori del primo romanticismo, quella unità prospet­ tata, perché se è vero che

l'autoconsapevolezza nei confronti del sublime naturale anticipa qualcosa della conciliazione con la natura. La natura non più oppressa dallo spirito, si libera dalla scellerata connessione di primordialità e sovranità soggettiva. Tale emancipazione sarebbe il ritorno della natura e questa, immagine contraria della pura esistenza, è il sublime. [...] La conciliazione [...] non è il risultato del conflitto ma unica­ mente il fatto che il conflitto trova un linguaggio.

Tuttavia

con ciò il sublime diventa latente. [...] In corrispondenza la categorie del gioco decadono. [...] Ciò che si presenta come sublime suona vuoto, ciò che gioca indefessamente regredisce al puerile da cui deriva 65 ,

giacché il sublime, che conserva il rimosso dandogli linguaggio, non parla più della conciliazione ma della regressione. Al contrario, tutto il proble­ ma dell'interpretazione è racchiuso nella differenza tra regressione e conciliazione, dialettica micidiale perché

una dialettica, che non resti più «incollata» all'identità, provoca se non l'accusa di non aver terreno sotto i piedi [...] quella di far venire le vertigini. [...] Invece per essere feconda la conoscenza si getta a fona perdu negli oggetti. La vertigine che ne deriva è un index veri M .

IL PASSAGGIO DIALETTICO

Se non c'è dunque una via d'accesso immediata ad una visuale senza punto di vista, e se l'interpretazione non può rinunciare a prender le mosse dall'esperienza empirica ma neanche affidarlesi ingenuamente, il problema diviene, per noi, capire come la dialettica sbrogli questo intrico.

Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 330-31. Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 29-30.

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Un modello lo abbiamo nel processo di spiritualizzazione che è pro­ prio dell'opera d'arte, dove interviene il passaggio dall'interpretazione simbolica a quella letterale del materiale:

proprio l'arte radicale, mentre si rifiuta ai «desiderata» del realismo, è in rapporto di tensione col simbolo. Si potrebbe dimostrare che i simboli [...] nella nuova arte si rendono tendenzialmente autonomi rispetto alla loro funzione di simboli. [...] L'arte assorbe i simboli grazie al fatto che essi non simboleggiano più niente; [...] ciò che prima era simbolico diviene letterale. [...] Il fatto che nessuna opera sia simbolo rende conto del fatto che in nessuna opera l'assoluto si manifesti imme­ diatamente; altrimenti l'arte non sarebbe né apparenza né gioco ma realtà 6'.

Anche l'interpretazione filosofica, che «deve fare a meno del simbo­ lico», non ha accesso diretto all'assoluto. Tuttavia essa cifra nel particolare la immagine dell'assoluto, ovvero del sociale. È questo il così detto «me­ todo micrologico» 66 . Quella che Althusser chiamò la pretesa espressiva, «taglio d'essenza», della dialettica è in effetti presente, anche se a titolo del tutto particolare 67 ; infatti il valore e il significato delle parole e dei concetti è dovuto alla storia. Poiché le parole si riferiscono al reale, la mutazione del loro significato non dipende solo dal contesto linguistico e concettuale ma altrettanto dal rapporto del pensiero con la realtà, perciò «bisogna confrontare ciò che le parole storicamente evocano con il proprio livello di coscienza, e chiedersi se quel che si tratta allora di esprimere possa ancora essere considerato come qualcosa di sostanziale dal punto di vista della cosa» 68 . Ordine di non facile esecuzione, che di nuovo trova sulla stessa linea arte e filosofia.

Processo l'opera d'arte lo è essenzialmente nel rapporto di tutto e parti. [...] Questo rapporto è a sua volta un divenire. [...] Il tutto resta qualcosa che si produce solo in virtù della tendenze che in essa agiscono. D'altro canto le parti non sono ciò per cui quasi inevitabilmente l'analisi le scambia, cioè non sono

65 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 162-62.66 Segnalo l'esistenza di un lavoro su Foucault e Adorno, purtroppo incentrato

sul tema, un poco troppo generico, della critica alla cultura, si tratta di A. Honneth, Foucault e Adorno: due forme per una critica del moderno, in «Fenomenologia e socie­ tà», 1989, n. 1, pp. 39-56.

67 Cfr. L. Althusser, Lire le Capital, cit., p. 17 sgg. et passim; e Pour Marx, Fran­ cois Maspero, Paris 1965, italiano, Per Marx, tr. F. Madonia, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 82-87, 165-66, 175-76.

68 Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, cit., p. 64. Traduzione parzialmente da me modificata.

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MODELLI INTERPRETATIVI 79

datila: piuttosto sono centri di forza che spingono al tutto e, naturalmente, di necessità sono da quello anche preformate. Il vortice di questa dialettica inghiotte in definitiva il concetto stesso di significato 69 .

La dialettica, questa come ogni altra, ha bisogno della categoria di tempo per funzionare. Se davvero esistesse un pensiero senza tempo, se l'inconscio, per esempio, pensasse, ad esso sarebbe preclusa la dialettica. La tensione tra parte e tutto sarebbe risolta nella possibilità di influenza da parte di quel che viene dopo su quel che viene prima. Ancora Althusser nella categoria di «causalità strutturale» presentava come scandalo la re­ troazione dell'effetto sulla causa 70 , ma come osservò Deleuze, in tutt'altro contesto 71 , il fatto che un effetto retroagisca sulla causa non è una confu­ tazione della dialettica se la retroazione avviene sulla causa dopo che l'ef­ fetto ne è sorto fuori. Qualcosa del genere avviene per le opere d'arte, e per l'interpretazione, che nella durata - permanenza e insieme mutamento - ha il suo tempo. Il vortice che inghiotte il concetto stesso di significato è originato dall'impossibilità di fissare in alcun elemento il significato appunto. Cosa che nemmeno è fattibile riferendosi alla totalità, che non è meno relativa delle sue parti. Non è per sommatoria né per depurazione che il pensiero trova fondamento; la prescrizione che ogni singola parte sia ugualmente lontana dal centro significa anche questo. Solo la costel­ lazione, riconoscendo ogni centro di forza come falsa espressione, riesce a far smentire ogni gravita da un'altra, e in questo far emergere il vero. È quasi una interpretazione che si opera da sé:

[...] i concetti non costituiscono il continuum delle operazioni, il pensiero non procede tutto chiuso in se stesso, ma i vari aspetti si intrecciano l'uno con l'altro come in un tappeto ['tappeto' che ricorda l'intreccio e la trama del reale in Die Aktualitàt der Philosophie]. Dalla fittezza di questo intreccio dipende la fecondità dei pensieri

che dunque sono tanto fecondi quanto riesce loro l'interpretazione che:

a voler essere precisi, il pensante non pensa affatto, ma si fa teatro dell'esperienza intellettuale, senza dipanarla. E mentre da essa scaturiscono gli impulsi anche per il pensiero tradizionale, questo, per la sua forma, ne elimina il ricordo 72 .

69 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 299./0 Cfr. L. Althusser, Leggere il Capitale, op. cit. et passim, e Per Marx, et passim.71 G. Deleuze, Différence et répétition, Presse Universitaires de France, Paris

1968, ed. it. Differenza e ripetizione, trad. G. Guglielmi, II Mulino, Bologna 1971.72 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 17.

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80 CRITICA DEL NON VERO

Questa esperienza intellettuale è non meno concreta della esperienza tout court; e di nuovo troviamo che il «pensiero tradizionale» rimuove il ricordo di tale esperienza. La conclusione che Adorno ne trae è come si debba scrivere un saggio: i suoi concetti

vanno esposti in maniera che si sorreggano a vicenda e che ciascuno riceva la propria precisa articolazione soltanto dalle figurazioni che forma nel rapporto con altri. In esso elementi discreti e tra loro differenziati si raccolgono in un unico contesto leggibile; il saggio non crea costruzioni né strutture. Tuttavia attraverso il loro movimento gli elementi si cristallizzano in configurazione. Questa è un campo di forze così come nella visuale del saggio, ogni produzione spirituale deve tradursi in un campo di forze 73 .

Il modus procedendi del saggio è uguale a quello che trovammo nel- l'interpretazione come dissoluzione dell'enigma: richiamare gli elementi materiali, disporli in una costellazione di forze, affinchè il testo strappato degli «strani intrecci dell'ente» risulti finalmente come testo leggibile. Il saggio - a metà secondo Adorno tra arte e filosofia - è dunque così affine all'interpretazione? È addirittura la forma interpretativa di Adorno? E se davvero è situato a metà tra arte e filosofia, come costituisce le sue imma­ gini «astrali»?

Il bello naturale è mito trapassato nell'immaginazione e in tal modo forse liquida­ to. [...] Le immagini estetiche non sono invarianti arcaiche [piuttosto] le opere d'arte diventano immagini perché i processi che in loro si sono coagulati a obiet­ tività parlano. [...] I processi latenti sono fatti collettivi - e di essi - non esiste imago senza immaginario. L'esperienza soggettiva arreca immagini che non sono immagini di qualcosa e proprio esse sono di essenza collettiva 74 .

L'emancipazione delle immagini estetiche da quelle mitiche si attua tramite il sottomettersi delle opere d'arte alla loro propria irrealtà, che non è l'irrealtà del delirio né quella irrazionale dell'empirico, bensì la legge della forma: «questa è la loro methexi alla ragionevolezza» per cui «illu-

73 Ibidem, p. 18.Gli scritti sul rapporto tra Lukàcs e Adorno, sia in generale, sia in particolare sulla

forma saggio, sono molti. Si possono consultare, tra gli altri: T. Perlini, Sul concetto di totalità nella riflessione estetica di Adorno, in «Nuova Corrente», 1970, n. 52; M. Bar- zaghi, Dialettica e materialismo in Adorno, op. cit.; S. Buck-Morss, The origin of thè negative dialectics, op. cit.; AA.VV., Die Neue Link nach Adorno, hrsg. von F. Schòller, Munchen 1969.

74 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 113 e 145-46.

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MODELLI INTERPRETATIVI 81

minate sono quelle opere d'arte che in inflessibile distanza dall'empiria rendono testimonianza di una giusta coscienza» 75 . Il mito come la tradi­ zione appartiene a processi tendenzialmente inconsci e collettivi, mentre l'immaginazione è davvero sul confine tra individuale e collettivo; inoltre essa è più simile al desiderio che non alla paura, e come tale essa è nemica del mitico. La natura fu mito finché dovette essere dominata e suscitava terrore; oggi è bello naturale. Ma poiché il dominio su essa è totale, forma stessa della razionalità, e poiché questa totalità è diventata nel frattempo seconda natura, cioè immagine naturale di un non naturale, allora l'intrec­ cio di mito e immaginazione è tuttora all'opera. E stato scacciato dal ciclo, ma per essere spedito in un iperuranio ancora più lontano. Giacché l'ope­ ra che crea immagini espone questo intreccio, essa rassomiglia, per un verso, ed è questa la sua forza, alla realtà.

Opera d'arte e realtà sono identiche e non identiche. Se non avessero nulla a che fare l'una con l'altra, allora non avrebbero alcun senso le opere d'arte, ma se fossero identiche, allora le opere sarebbero mera duplicazio­ ne, come volle credere l'«artista» Fiatone, o sogno a occhi chiusi. Per questo, al contrario della tradizione psicologica dell'ermeneutica, Adorno può scrivere che «l'analisi ripercorre soggettivamente la via che aggettiva­ mente l'opera d'arte descrive in sé», indifferentemente all'autore, alle sue condizioni. La storia cifrata nell'opera è ugualmente cifrata nel soggetto, ma questi non la possiede. L'unica esperienza che ne fa, è quando essa è all'opera come mediazione della costituentesi soggettività dell'opera d'ar­ te. Ma anche questa è un'esperienza nel mezzo della contraddizione. In­ fatti perché si colga il peso della tradizione è necessario che qualcosa nell'individuo faccia resistenza, seppure d'un poco, alla sua coazione. Così la particolarità dell'individuo si oppone all'universale storico della tradi­ zione, cioè al potere delle sue forme, ma se l'individuo non fosse anche particolare, allora non ci sarebbe alcuna resistenza alla forza delle connes­ sioni sociali, e l'arte non potrebbe prendere le distanze dall'empirico, condizione invece della sua verità 76 .

75 Ibidem, p. 147.' 6 Su questi problemi si possono consultare i seguenti lavori: W. Boni?, Empirie

und Dechiffrierung von Wirklichkeit, op. cit., che ricostruisce un breve ma interessante collegamento in proposito alla funzione dell'esperienza come centro della costellazione teoretica tra Adorno, Benjamin, Feyerabend e Dilthey; M. Barzaghi, Dialettica e mate­ rialismo in Adorno, op. cit., che affronta il tema del rapporto con Benjamin in una luce originale, ovvero dal punto di vista dello sviluppo del marxismo critico senza lasciare troppo spazio alla polemica; F. Carmagnola, Conoscenza degli estremi, op. cit., che vede

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82 CRITICA DEL NON VERO

Lo stesso meccanismo dialettico si svolge nel rapporto tra individuo e pensiero. Mentre si deve riconoscere che il soggetto «non pensa affatto», è sbagliato credere di poter eliminare il residuo empirico che si cela sotto ogni funzione senza soggetto 77 . Non perché la riflessione debba prender partito per il dominio del soggetto, che anzi questo è semmai il suo pec­ cato originale, ma al contrario perché il riconoscimento della base empi­ rica di ogni operazione di pensiero è il primo passo di un'autocritica dell'illuminismo. Non perché l'empirico sia immediato, ma al contrario, solo perché l'empirico si presenta come realtà immediata e non lo è, la critica del soggetto è altro dalla liquidazione dell'individuo. Tale liquida­ zione, per altro, è empirica e difende non l'individuo ma la struttura di produzione dell'individuale, senza nominarla. Probabilmente è questo l'intreccio che l'esperienza dipana, proprio come teoria dell'interpretazio- ne, indipendentemente dalla intenzione del soggetto: l'interpretazione è atto tanto falsificante quanto critico. E la distinzione spetta, in ultima istanza, alla felicità 78 .

Il tema del ricordo e quello della produzione di immagini appaiono determinanti per l'interpretazione, forse addirittura coincidenti. Nel senso che il termine di giudizio dell'interpretazione, anche se si riferisce in ul­ tima istanza alla felicità, non è dato ma va prodotto. In che senso, si chiarisce leggendo un passo di Prismi, nel saggio Profilo di Walter Benja- min, dove Adorno cita, dal manoscritto dei Passagen.

Alla forma del nuovo mezzo di produzione [...] corrispondono, nella coscienza collettiva, immagini nelle quali il nuovo si compenetra col vecchio. Queste imma-

nel ruolo utopico negativo dell'indentila dell'individuo un tratto di collegamento tra il pensiero di Adorno e quello di G. Deleuze; A. Rescio, Oggetto e critica del soggetto in Adorno, op. cit.; e infine G. Carchia, Sulla teoria estetica di Adorno, op. cit., dove l'autore parla di una specificità della Ratto aisthesis.

77 Cfr. Th.W. Adorno, Metacntica della gnoseologia, op. cit., et passim.78 Sul tema identità, individuo e soggetto, cfr. i seguenti lavori: A. Schmidt, Be-

griff des Matenalismus bei Adorno, op. cit., per la distinzione tra «soggetto datore di forma» e il «soggetto come centro di esperienza»; per un'analisi del Unwescn nella dialettica adorniana, cfr. R. Racinaro, Hegel nella prospettiva di Bloch e Adorno, in «Critica marxista», 1974, n. 1, pp. 127-53, tra l'altro uno dei pochi lavori su Adorno e Bloch, oltre al già citato saggio di R. Tiedemann; per la differenza tra la posizione nietzschana e quella adorniana sul destino del soggetto, e sulla contrapposizione tra volontà di potenza e ricordo, cfr. F. Carmagnola, La conoscenza degli estremi, op. cit.; infine per il tema specifico della differenza tra liquidazione dell'individuo e critica del soggetto, i termini della questione sono perfettamente illustrati da T. Pedini, Autocritica detta ragione illuministica, in «Ideologie», 1969, n. 9-10.

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gini sono proiezioni del desiderio. [...] Queste tendenze rimandano alla fantasia configurativa, che dal nuovo ha tratto il suo impulso, all'antichissimo. Nel sogno in cui, ad ogni epoca, si presenta la seguente, questa apparirà sposata ad elementi della preistoria, cioè di una società senza classi. Le esperienza della quale, depositate nell'inconscio della collettività, producono, compenetrandosi col nuovo, l'utopia, che ha lasciato le sue tracce in mille configurazioni della vita 1 ''.

In questa citazione troviamo molti dei termini che Adorno usa per descrivere, e prescrivere, l'interpretazione. Ed egli commenta che per tali immagini Benjamin «intendeva delle cristallizzazioni obiettive del movi­ mento storico e le denominò col nome di immagini dialettiche» 80 . Le immagini dialettiche, in questo la differenza tra Benjamin e Adorno 81 , hanno il loro modello nelle opere d'arte e non nella storia. «Oggi che non si può immaginare alcuna configurazione dello spirito» scrive Adorno «le opere d'arte sono il prototipo della sua configurazione. [...] In quanto tensione tra gli elementi dell'opera d'arte lo spirito [...] è processo e con ciò è l'opera d'arte stessa» 82 . Ma la tensione a cui si fa riferimento è per Adorno, abbiamo visto sopra, quella tra la forma, processo opposto e necessario all'esperienza individuale, e il contenuto, inteso come esperien-

/9 W. Benjamin, citato da Adorno in Prismi, cit., p. 243. Corsivo mio.80 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 243.81 P. Bùrger ha scritto un interessante saggio sulla differenza tra Benjamin e

Adorno che vorrei qui indicare. Secondo Bùrger Benjamin farebbe riferimento, come modello, soprattutto all'avanguardia surrealista, mentre Adorno alla modernità estetica. E lo scontro tra i due sarebbe riconducibile alla modalità espressiva propria del surre­ alismo in antitesi a quella critica riflessiva dell'espressionismo. E tra l'altro l'anteceden­ te dell'arte d'avanguardia andrebbe ricercato nel romanticismo, mentre quello del moderno nel processo di autonomizzazione dell'arte, p. 86 e sgg. Così mentre l'avan­ guardismo negherebbe la divisione del lavoro e radicalizzerebbe lo shock dell'esperien­ za, Adorno sarebbe esponente dell'opposizione all'avanguardismo, in nome della resi­ stenza alla regressione. Cfr. P. Bùrger, Das Altern der Moderne, in Adorno-Konferenz 1983, cit., pp. 177-201; P. Bùrger, L'anti-avantguardisme dans l'esthétique d'Adorno, in «Revue d'Esthétique», nuova serie, 1985, n. 8.

H.R. Jauss, nello stesso volume, Adorno-Konferenz 1983, nel saggio Der literari- sche Prozejl des Modcrnismus von Rousseau bis Adorno, op. cit., propone un bivio a partire dalla revisione della categoria della modernità operata da Dialettica dell'illumi­ nismo, da una parte, come esponenti esemplari, P. Bùrger e Lyotard (e il primo forse non sarebbe contento di trovarsi in compagnia del secondo...) dall'altra la critica radi­ cale di Adorno. Ancora da citare la tesi di M. Jay, Th.W. Adorno, II Mulino, Bologna 1987, secondo la quale dalla coppia dell'elaborazione surrealista e benjaminiana si potrebbero derivare due strade, divaricantesi, una Adorno e l'altra Derrida, aventi in comune solo il radicalismo della lettura nietzscheana della «morte di Dio».

82 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 150. Traduzione d'a me parzialmente modificata.

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84 CRITICA DEL NON VERO

za storica non individuale. Il soggetto sente come legge una forma, perché è stato rimosso il ricordo contenuto nella sua forma. Contro di essa si richiamano le armate dell'esperienza, che costruisce la tensione. Ricono­ scere e interpretare significa allora impadronirsi di quel processo, riper­ correre soggettivamente un processo oggettivo, infatti:

10 spirito delle opere d'arte non è concetto, ma tramite esso le opere divengono commensurabili con concetto. [...] Perciò la critica è necessaria alle opere. Nello spirito delle opere essa riconosce il loro carattere di verità oppure ve lo separa. In questo atto soltanto [...] l'arte e la filosofia convergono 83 ,

convergono in questo: che l'arte consta dell'espressione del vero, o in termini benjaminiani del suo sogno, ma tuttavia non possiede di per sé la capacità di dividerlo dal falso. Questa capacità spetta alla critica, all'inter- pretazione, che sente ovunque la forma come contenuto, e la storia cifrata nella forma immanente dell'opera.

Si potrebbe quasi scriver che l'arte e il concetto compiano lo stesso lavoro: la prima fornendo la costellazione della soluzione all'impossibile,11 secondo rendendo ragione ad essa. Scrive Adorno che «ciò che prima era simbolico diviene letterale» 84 , e solo grazie a questo l'arte, che è ten- denzialmente ostile al mito come spiegazione della natura, può assorbire i simboli: essi non simboleggiano più niente. Ancora nella tarda antichità greca, ad esempio, alcuni modi di modulazione minore venivano avvertiti come imitazione simbolica. Oggi, al tempo di Adorno, il tema dell'alle­ gretto della prima sinfonia di Mahler, Fra Martino volto sulla triade mino­ re anziché su quella maggiore, non è in alcun modo un simbolo, ma piuttosto una funzione formale immanente allo sviluppo dell'idea secondo la quale il tragico e il comico insieme, la marcia funebre e il canto di bambini, sono gli unici eredi del sublime naturale 85 . Nella intuitività col­ legata al simbolico, che mercé la spiegazione perde il suo carattere simbo­ lico, è nascosta, tuttavia «una mediazione non concettuale» 86 .

Il «desideratum» della intuitività vorrebbe conservare [...] il momento mimetico, ed è cieco nei confronti del fatto che quel momento seguita a vivere solo attraverso

85 Ibidem.84 Ibidem, p. 163.85 Per l'eredità del sublime kantiano, cfr. Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p.

133 et passim.86 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 161.

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MODELLI INTERPRETATIVI 85

la sua antitesi cioè attraverso la razionale attività dispositoria esercitata dalle opere su tutto ciò che è a loro eterogeneo 8 '.

L'impulso mimetico, quello che nella dialettica dell'illuminismo fu il vero avversario della mitologia illuminista, e nel quale sopravvive il deside­ rio ma non la realtà della conciliazione, è la fonte del pensiero. Per questo Adorno, lo abbiamo visto, richiama la importanza di un pensiero che non «uccida suo padre, il desiderio», e al contempo la necessità di non con­ fondere la spinta e il materiale mimetico con la forma mimetica o col pensiero stesso. Tale impulso:

investe anche la mediazione, il concetto, il non presente. [...] L'arte è tanto poco concetto quanto intuizione, e proprio così protesta contro la separazione dei due. [...] Essa è intuizione di un non intuibile ed è paraconcettuale ma senza concetto. È però grazie ai concetti che l'arte pone in libertà il suo strato mimetico, nonconcettuale 88 .

A questo punto, davvero il concetto diviene metro di comprensione, non modello, dell'opera d'arte. «Il concetto diventa "parametro"» e «la loro propria obiettivazione [delle opere d'arte] le rende "res" di secondo grado» 89 .

Come la natura oggi è natura mediata, e in questo viene confusa alla natura seconda, che è società, allo stesso modo l'arte rende i suoi prodotti delle cose che cose non sono affatto, ma rapporti. In essi, come nei rap­ porti extra-artistici, è nascosta l'essenza, ovvero la storia, di quei rapporti. La loro espressione dipende dalla possibilità di obicttivarli senza fissarli, ma la verità richiede anche che l'interpretazione raccolga attorno al mo­ mento della cristallizzazione tutta la storia - «Qui non intellegit res, non potest ex verbis sensum elicere» 90 .

In un saggio di Wolfgang Fritz Haug, Zur Kritik dcr Warenàsthetik^, troviamo un esempio di modificazione del principio di realtà, per il tema che qui ci interessa. La dialettica signoria/servitù, spiega Haug, viene duplicata nell'esistenza di pubblicità, desiderio e produzione. All'interno della produzione, l'apparenza estetica passa da funzione simbolica a una

87 Ibidem, p. 163.88 Ibidem, p. 164.89 Ibidem, pp. 168-69.90 Martin Luterò, citato da Gadamer in Verità e metodo.91 W.F. Haug, Zur Kritik der Warenàstbetik, in «Kursbuch», 20, 1970, pp.

140-58.

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schiettamente di realizzazione del capitale. Si manipolano le confezioni delle merci perché il valore d'uso ha ritrovato una funzione simbolico- sociale, la medesima che era stata espulsa dal passaggio dalla manifattura all'industria. Tuttavia questo richiede che la coscienza degli acquirenti venga preparata a spostare il proprio desiderio dal valore d'uso «puro» a un valore d'uso simbolico, d'identità sociale. Affinchè i desideri possano essere soddisfatti nella forma della mercé attuale, il desiderio deve essere determinato da obbligo a forme di valore irrazionali. Ma dopo si è costret­ ti a seguire ciecamente e in ogni modo la legge che tali desideri dettano. E non solo nel senso leggero per il quale si produce ciò di cui si è convinti gli uomini di aver bisogno - ma anche nella micidiale inversione per la quale poiché si è sempre mediati dall'altro, cioè dal desiderio dell'altro, se si modifica il desiderio se ne viene mediati di conseguenza. Possiamo leggere questa dialettica allargandola al di fuori della sfera, per altro nien- t'affatto ristretta della circolazione e produzione delle merci, anche alla produzione e circolazione di quei valori sui generis che sono la coscienza e le idee. Nella prefazione al Capitale Marx ha dato un'allegoria minaccio­ sa. È il celebre «de te fabula narratur» con il quale egli rivolge il proprio libro contro i suoi lettori inglesi e tedeschi. È importante sottolineare che egli concepì il proprio lavoro come valore che avrebbe trovato la propria corrispondenza solo a patto che fosse pensato come riflessione della dia­ lettica di tutti gli individui coinvolti in quel modo di produzione. Detto in modo semplice: quel che retoricamente apre il Capitale alla dialettica costi­ tutiva della società è un'allegoria. Si può leggere il Capitale come una favola che parla di noi, a patto che non lo si legga come una favola. Le favole, cioè, raccontano in allegoria, di solito, il momento del processo di formazione del senso della vita. Hanno a loro oggetto la coscienza, a volte, l'ideologia. Parlano del brutto, del crudele o dell'amore e della solitudine, o ancora della morte e della lotta, del padre e della madre. Sono questi temi della così detta sovrastruttura. Essi non possono essere scritti inge­ nuamente e direttamente nella parole della società, perché così facendo li si presenterebbe come uguali ad essa; perdendo con questo il loro carat­ tere relativo all'assoluto, per come esso è dato e pensato nella nostra attuale società. Così il linguaggio delle merci è, fino a un certo punto, il linguaggio della produzione delle merci, mentre gli argomenti che si sareb­ bero detti spirituali usano di questo linguaggio come un'allegoria, per non rimanergli appiattiti sopra. È una strana inversione: non si racconta lo spirito santo sotto la forma della luce e del pane - così come allora - ma è lo spirito ad aver bisogno della luce e del pane. Il piano dell'allegoria

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teologica è ribaltato 92 : lì il vero si esprime nell'ombra di una figurazione - qui è il falso che si smaschera nel corpo della produzione, poiché esso è la falsa immagine creata e nascosta proprio da quella produzione che dovrebbe esprimere. Fare la critica significa allora, forse, usare il linguag­ gio dei rapporti di produzione come se fosse una favola dei rapporti so­ ciali umani, ovvero non stabilire, perché non c'è, un primum tra desiderio e bisogno, valore materiale e spirituale?

«Lo spirito - scrive Adorno - è indifferente alla distinzione tra sen­ sualità e idealismo» 95 . Le opere d'arte corrodono l'idea di spirituale fino a quanto questo non assomigli a loro stesse, e con ciò demoliscono lo spirituale. Ma «nella negazione determinata dello spirito esse restano tut­ tavia legate a lui [...] esse non lo simulano ma la forza che rivolgono contro di lui è la sua stessa presenza» 94 . Se interpretare significa portare a coscienza soggettiva un processo oggettivamente avvenuto, e se la media­ zione avviene tramite il desiderio, allora uno dei suoi passi è la traduzione del desiderio. Se la dialettica dell'interpretazione non potrebbe funzionare senza il tempo, la cui assenza scioglierebbe la contraddizione tra esperien­ za e sapere - senza desiderio, senza un'allegoria capitale del desiderio, di un passato diverso e migliore, la dialettica dell'interpretazione sarebbe altrettanto impotente e immobile, sia che falsifichi sia che critichi.

LINGUAGGIO E INTERPRETAZIONE

La mediazione che dobbiamo dunque ora indagare è quella, davvero costitutiva, tra desiderio e linguaggio o, detto altrimenti e in termini di filogenesi, quella del rapporto tra desiderio e principio di realtà; senza scordare tuttavia che il principio di realtà del quale stiamo parlando è interamente sociale, non certo psicologico-neutro. Naturale conseguenza è che quello strumento sociale della divisione del lavoro che è il linguaggio deve poterci condurre alla comprensione del modo con il quale fantasia, desiderio e ricordo, entrino a far parte del processo interpretativo. Vedia­ mo dunque di analizzare la sua forma principale e più semplice: la critica immanente. Scrive Adorno che:

92 Un esempio è la già citata analisi, e interpretazione in secolarizzazione, fatta da C. Tùrcke in Gewalt und Tabù, op. cit.

93 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 160.94 Ibidem, p. 150.

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50 CRITICA DEL NON VERO

il procedimento immanente [...] prende sul serio il principio secondo cui non l'ideologia in se stessa è non vera, bensì la sua pretesa di corrispondere alla realtà. Fare la critica immanente delle configurazioni spirituali significa cogliere nell'ana­ lisi della loro forma e del loro senso la contraddizione tra la loro idea obiettiva e quella pretesa 95 .

È questa una tra le più semplici delle molte definizioni che Adorno offre del metodo immanente. Esso è veramente dialettico; si potrebbe dire che aspetta, guardando la cosa, che essa esprima i suoi parametri per confrontarla poi, successivamente, con questi. L'analisi immanente è og- gettiva e costituisce l'altra faccia del richiamo alla fantasia esatta, al desi­ derio, alle lacune, e via dicendo. Scrive il Nostro, ad esempio, che quando la coscienza della critica immanente si avvicina all'oggetto e ne «rinviene un'insufficienza, non la ascrive frettolosamente all'individuo e alla sua psicologia [...] cerca invece di desumerla dall'inconciliabilità dei momenti costituenti l'oggetto» 96 . In questa determinazione il concetto non va con­ fuso con il concetto definitorio tradizionale, esso è concetto forte, del quale si può predicare falsità o verità, secondo quanto spiegato da Adorno a proposito del concetto di società 97 , e deve essere costruito come costella­ zione, con tutte le sue parti, ed è in tale costruzione che si possono com­ mettere errori.

Se questa è la categoria di critica immanente, tuttavia neanch'essa è esente da perplessità, giacché:

per quanto fedelmente si possa seguire il principio della critica immanente, esso non può essere applicato in forma acritica là dove si erige a solo e unico criterio la stessa immanenza logica, prescindendo da qualsiasi contenuto particolare. [...] La critica immanente ha il proprio limite nel principio feticizzato della logica immanente: anche questo deve essere chiamato per nome 98 ;

e in tutt'altro campo, nel paragrafo sull'opera d'arte come monade e l'ana­ lisi immanente, si legge:

95 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 19.96 Ibidem, pp. 19-20.97 Th.W. Adorno, Soziologische Schnften I, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M.

1972, ed. it. Scritti sociologici, trad. A.M. Solmi, Einaudi; Torino 1976, p. 5.98 Th.W. Adorno, Die Positivismusstreit in der deutscken Soziologic, hrsg. von H.

Maus und F. Fùrstenberg, Einleitung, H. Luchterhand Verlag, Nuewied und Berlin 1969, ed. it. Dialettica e positivismo in sociologia, Introduzione, trad. A. M. Solmi, Einaudi, Torino 1972, p. 10.

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nondimeno all'analisi immanente è associato l'autoinganno. [...] Il concetto deve essere portato alla monade dall'esterno per aprirla dall'interno e di nuovo sgreto­ larla; se esso pretendesse di essere attinto solo alla sostanza obbiettiva dell'opera prenderebbe un bell'abbaglio. La costituzione [...] delle opere d'arte qua talis da indicazioni che rimandano al di là di essa stessa. Se viene assolutizzata, l'analisi immanente cade preda dell'ideologia. [...] Con una regolarità che indica un fatto strutturale, le analisi immanenti, se il loro contatto con ciò che ha ricevuto una forma è sufficientemente stretto, conducono a definizioni universali mentre speci­ ficano all'estremo. [...] L'interazione di universale e particolare, che nelle opere d'arte avviene inconsciamente e che l'estetica deve innalzare alla coscienza, è ciò che veramente costringe ad una concezione dialettica dell'arte".

Il limite della critica immanente non è dunque stabilito solo dal feti­ cismo dell'immanenza logica, ma ha anche a che fare con il particolare modo di penetrazione dell'universale nel particolare. Alla critica imma­ nente spetta una parte fenomenologica la quale, tuttavia, facilmente si lascia trasportare alla fenomenologia dell'immediato come se esso fosse reale e non un posto del pensiero. Una tale ipostasi costituirebbe il suo limite di validità. La critica immanente è portata, per la sua natura, a fare il pelo alla pretesa dell'ideologia di essere vera.

Funzionare all'infinito può anche il terrore, ma il funzionare come fine a se stesso, separato da ciò per cui funziona, è una contraddizione non meno di una qualsiasi contraddizione logica. [...] Critica non significa solo decidere se le ipotesi proposte possono essere dimostrate come esatte o come false: la critica penetra fino all'og­ getto. Se i teoremi sono contraddittori, non è detto che di questo debbano essere sempre e necessariamente responsabili i teoremi lon .

Il limite della critica immanente sta allora nel fatto che non solo i concetti, ma anche le cose possano essere false.

È questo davvero un punto nevralgico delle interpretazioni adornia- ne. La critica deve essere capace di porsi tanto di fronte al testo quando di fronte al reale, anzi, non manca il suo scopo solo quando compie con­ temporaneamente entrambe le operazioni. Non si può fingere tuttavia che il «reale» sia categoria o realtà priva di questioni. E la principale è questa: se la dialettica critica non ammette alcun originario, nemmeno tra idea e realtà, a partire da che cosa parla? A partire, risponde Adorno, dalla sua forma, la forma-saggio, dove

Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 302, 302-04. ' Th.W. Adorno, Dialettica e positivismo in sociologia, cit., Introduzione, p. 37.

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gioia e gioco sono per il saggio essenziali. Esso non prende le mosse da Adamo e Èva, ma da ciò che vuoi trattare; dice quanto gli viene in mente e finisce quando si sente esso stesso esaurito e non quando è esaurito l'oggetto: e così si colloca tra le quisquilie 101 .

Il saggio non prende per suo l'interesse della cosa, ma ha termine «quando si sente esso stesso esaurito e non quando è esaurito l'oggetto». La forma saggio non è ben collocata né ben fondata. Il saggio, scrive Adorno, è una forma di interpretazione che rifiuta il problema della com­ prensione di «che cosa l'autore abbia voluto dire», che passa di importan­ za di fronte alla obiettivazione di ciò che l'autore ha effettivamente detto; se «non c'è risultato interpretativo che al tempo stesso non sia proiezione all'interno dell'opera», il criterio della riuscita è «la possibilità di concilia­ re l'interpretazione con il testo e con se stessa, e la sua capacità di far parlare tutti quanti i fattori che costituiscono l'oggetto» 102 .

Ma cosa significa «conciliare l'interpretazione con se stessa», e con la necessità di esaurire tutti i fattori dell'oggetto? Il saggio, puntualizza Adorno, non è una forma d'arte, esso deve «rispettare l'obbligo a espri­ mersi per concetti, contratto non appena abbia usato concetti in una frase o in un giudizio» 103 ; e non può, neppure il saggio, fidare ciecamente nel linguaggio, nelle sue torsioni e tensioni, che altrimenti: «l'ambiziosa tra­ scendenza del linguaggio sul significato finisce in una vacuità di signifi­ cato» 104 . La trascendenza del linguaggio svela la trascendentalità sociale di esso rispetto agli uomini, ma non rispetto alla società. Anziché cercare il primato in questa o in quello si dovrebbe, a detta di Adorno, riconoscerne l'intreccio, la dialettica insomma. E in essa il fatto che il linguaggio appaia trascendente alla coscienza dovrebbe esso stesso essere un motivo e un oggetto di riflessione. Cosi come l'illuminismo deve criticarsi se vuole sospendere almeno la ricaduta nel mito, allo stesso modo per il linguaggio «il tentativo di emancipare l'esposizione dalla ragion riflettente», il tenta­ tivo cioè di eliminare il carattere mitico e immaginifico del nominare dalla «vertigine dialettica»:

è il tentativo sempre già disperato fatto dalla lingua, spingendo all'estremo la sua intenzione determinatrice, di guarire dal negativo della sua intenzionalità, dalla

101 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 6.102 Ibidem, p. 7.103 Ibidem, p. 10.104 Ibidem.

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manipolazione concettuale degli oggetti, e di far venire avanti il reale in maniera pura, non disturbato dalla violenza degli ordinamenti delle parole. [...] Nessuna narrazione ha mai avuto parte alla verità senza aver guardato nell'abisso in cui precipita il linguaggio che vorrebbe separarsi in nome e immagine 105 .

Adorno sta qui parlando della «ingenuità epica», cioè della speranza che nella narrazione oggettiva, prelirica, degli avvenimenti si faccia avanti il senso delle cose stesse. Solo la pretesa scientifica che il linguaggio debba misurarsi su di una struttura strettamente scientifica, fatta cioè di defini­ zioni e stati di cose, allontana di tanto il nesso tra parola e cosa da farlo scomparire nella interminabile catena interna dei rimandi. Adorno cerca di tenere «memoria di ciò che propriamente già non si lascia proprio più ricordare» 106 , ovvero del fatto che anche il linguaggio intrattenne stretti rapporti con la costituzione e dell'individuo e della società; e che se en­ trambi sono mediati dal linguaggio, e dunque a loro volta lo mediano come sarebbe semplice mostrare, tuttavia non possono essere identificati con esso. «La fuga di pensieri in cui si configura il sacrificio del discorso, è la fuga della lingua dalla sua prigione» e se nella poesia omerica si ha l'autonomizzazione della metafora rispetto al significato:

l'immagine linguistica elaborata dimentica in parte il proprio significato per incor­ porare nell'immagine la lingua stessa invece di rendere trasparente l'immagine. [...] Non che i poemi epici fossero dettati da intenzione allegorica. Ma la potenza della tendenza storica in lingua e contenuto è in essi così grande che nel corso del processo fra soggettività e mitologia gli uomini e le cose [...] si trasformano in semplici luoghi. [...] È l'obbiettivo capovolgimento della pura esposizione non significante in allegoria della storia a diventar visibile 107 .

Il linguaggio parla di se stesso, si fa ricorsivo, nel tentativo di elimi­ nare la propria mediazione. Ma «l'esigenza della parola verginale, è in se stessa sociale» 108 , nella poesia lirica «si promette una seconda immedia­ tezza» perduta la speranza nella prima, «una [...] immediatezza: l'umano, il linguaggio stesso, appare come se fosse ancora una volta la creazione, mentre tutto ciò che è esterno si smorza nell'eco dell'anima» 109 così come in quell'eco si irrigidì un tempo il primo moto, di terrore per l'esterno,

105 Ibidem, p. 34.106 Ibidem.107 Ibidem, p. 36.108 Ibidem, p. 49.109 Ibidem, p. 51.

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dell'anima. Ma tale tentativo sfrutta per riuscire la radice della propria smentita: il carattere della lingua, infatti:

la lingua è essa stessa qualcosa di doppio. Con le sue configurazioni essa si impone totalmente ai moti soggettivi; anzi manca poco dal poter pensare che è essa in generale a portarli a maturazione. D'altra parte essa rimane il medium dei concetti, ciò che produce l'ineluttabile rapporto con l'universale e con la società. Le pro­ duzioni liriche supreme sono perciò quelle nelle quali il soggetto risuona nella lingua [...] finché il linguaggio stesso si lascia udire [...] in tal modo il linguaggio media intimamente lirica e società 110 . [...] D'altra parte però il linguaggio non va assolutizzato. [...] L'attimo dell'autocancellazione, nel quale il soggetto si cala e annulla nella lingua, non è un suo sacrificarsi all'essere 111 ;

anzi giacché il soggetto è storico e dovrebbe poter essere cosciente della propria azione nella storia, il fatto che esso come soggettività individuale debba per un istante scomparire nella storia è semmai:

un attimo di conciliazione: la lingua parla direttamente soltanto se non parla come qualcosa di esterno al soggetto bensì come voce [che dovrebbe essere] propria di quest'ultimo, ovvero nella poesia lirica, mediante l'identificazione col linguaggio, il soggetto nega tanto la sua semplice contraddizione monadologica nei confronti della società quanto il suo semplice funzionare all'interno della società 112 .

Anche nella Teorìa estetica si trova l'affermazione che l'esperienza del soggetto sia l'immagine collettiva che si aggiunge alla legge formale del­ l'opera d'arte. Si può ora comprendere come il carattere collettivo, quello

110 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 53.111 per quanto questi temi inducano a farlo, non si esaminerà qui la querelle tra

Adorno e Heidegger. Per un tentativo - invero forse un poco troppo conciliante e psicologico - di dare ragione del contrapporsi violento del primo al secondo, cfr. H. Mòrchen, Macht una Herrschaft im Denken von Heidegger und Adorno, Klett-Cotta, Stuttgart 1980, Adorno und Heidegger, Klett-Cotta Verlag, Stuttgart 1981. L'autore si impegna in un certosino lavoro di ricerca filologica di tutte le citazioni, implicite e esplicite, di Heidegger nell'opera di Adorno, per concludere che: a) Adorno citava Heidegger in maniera capziosa; b) l'accanirsi di Adorno verso Heidegger risulterebbe «sospetto»; e) entrambi sarebbero «pensatori della tecnica»; d) la scuola heideggeriana dovrebbe tuttavia prendere sul serio le critiche adorniane, sostanzialmente di apologe­ tica indiretta. Mòrchen inoltre si prende la briga di ricostruire i rapporti, periodizzando cinque fasi, l'ultima della quali (1967-69) vedrebbe un tendenziale affievolirsi dei motivi polemici di Adorno. Il segreto impulso della critica di Adorno starebbe in una altret­ tanto segreta affinità, rimossa dal francofortese, perché sia la dialettica critica sia la domanda sull'essere deriverebbero da una radice hegeliana. L'unione tra i due si do­ vrebbe poter scorgere nella «sfiducia nella ragione» e nel loro «antiumanesimo».

112 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 54.

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linguistico e quello di enigma, siano determinazioni che non posano ferme e indifferenti, ma ognuna è la soluzione delle tensioni dell'altra o, per esprimerci come Adorno, ognuna risolve il carattere di enigma dell'altra per diventare essa stessa, in nuova configurazione, enigma del vero. «Tutte le opere d'arte [...] sono enigmi, [esse] ripropongono il carattere di enig­ ma sotto l'aspetto della lingua» 113 ; e Adorno spiega:

del carattere enigmatico dell'arte può accertarsi in modo elementare il così detto mancante di orecchio che non capisce il «linguaggio della musica», percepisce solo guazzabugli e si chiede meravigliato che cosa mai questi rumori debbano signifi­ care; la differenza tra quel che ode lui e ciò che ode il musicista, identifica la zona del carattere di enigma 114 .

La differenza tra chi non capisce il linguaggio e chi lo capisce, ovvero per lo meno sa che è un linguaggio, definisce la possibilità di porre una frase del linguaggio come problema ermeneutico. Infatti «di fronte al carattere enigmatico lo stesso capire è una categoria problematica» 115 . Se in Die Aktualitdt der Phtlosophie avevamo trovata espressa la convinzione che comprendere volesse dire togliere di mezzo il carattere di enigma, di modo che l'enigma e la soluzione non potessero stare tranquillamente uno accanto all'altra, qui Adorno scrive ugualmente che «l'enigma non è riso­ lubile, solo la sua conformazione è decifrabile e proprio questo tocca alla filosofia. [...] Tuttavia il carattere di enigma non è estinto dal capire. [...] [Nelle opere d'arte] sciogliere l'enigma equivale a dare la ragione della sua insolubilità» 116 . E ancora: «come negli enigmi [anche nelle opere d'arte] la risposta viene taciuta e estorta con la struttura. A ciò serve la logica immanente» 117 - quella della legge formale a cui le opere si sottopongono per poter essere più di imitazione e meno di realtà. Citando l'opera di Klee, conclude l'autore che:

tutte le opere d'arte sono scritture (écriture] [...], geroglifizzanti, per le quali il codice andò perduto ed a costituire il contenuto delle quali contribuisce non da ultimo quella mancanza. Solo in quanto scrittura le opere d'arte sono linguistiche. [...] Ma la risposta taciuta e determinata delle opere d'arte non si manifesta ali'in - terpretazione d'un colpo, come nuova immediatézza, bensì solo passando attraver-

Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 204. Ibidem, traduzione da me parzialmente mutata. Ibidem, p. 206. Ibidem, p. 207. Ibidem, p. 211.

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so tutte le mediazioni. [...] Il carattere di enigma sopravvive all'interpretazione che ottiene la risposta 118 .

La differenza rispetto alla metafora dell'enigma degli anni '30 consi­ ste dunque in questo: il carattere di realtà-che-domanda non viene dissolto dalla risposta data dall'interpretazione; poiché il codice andò perduto, rimane la forma linguistica, la struttura entro la quale si forma la doman­ da, e che solo l'interpretazione filosofica, quella che non prende nulla per immediato e tutto sul serio, riesce a portare alla luce. È una differenza portata da un aumento, per dir cosi, della consapevolezza linguistica; è, insomma, la mediazione tra struttura linguistica e oggetti, insieme alla sicurezza che la forma non esaurisca la sostanza della cosa, che richiede l'interpretazione, e non più solo l'ontologia del rapporto tra storia e na­ tura. Mentre il carattere di domanda appartiene alla mediazione tra singo­ larità e universalità, la loro costellazione non è a portata di mano, né un possesso che possa essere esibito, moneta sonante. La sua esistenza, la legge della forma alla quale si vorrebbe ridurre la cosa, è perduta nel senso che è divenuta una costrizione formale perché introiettata nella ratto, sia in generale, sia in quella affatto particolare dell'opera d'arte. L'«ambiguo intreccio» dell'ente incontrato all'inizio della parabola filosofica di Ador­ no, ritorna in questo che è l'ultimo scritto del filosofo, a chiarire che cosa sia mai l'enigma: «enigmatico è infatti che un ambiguo intreccio possa non di meno essere univoco e come tale venir capito» 119 .

Il paradigma di colui che si pone l'ente, la cosa, l'opera o il pensiero, come problema, il modello della filosofia, è per Adorno quello dell'esecu­ tore:

la facoltà mimetica si manifesta nella prassi della rappresentazione artistica quale imitazione della curva di movimento del rappresentato; tale imitazione è la quin­ tessenza della comprensione al di qua del carattere di enigma 120 .

Non è luogo questo per intervenire sull'esecuzione come comprensio­ ne mimetica, secondo il suggerimento della Rose 121 . Tuttavia ritorna la

118 Ibidem, traduzione da me in parte alterata e spaziature mie.119 Ibidem, p. 212. Spaziatura mia.120 Ibidem.121 Cfr. Gillian Rose, The melancholy science. An introduction to thè tought of

Theodor W. Adorno, The MacMillan Press, London 1978. Il testo è estremamente insolito, tanto quanto interessante. Nella prefazione Rose chiarisce il suo intento: «Io

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praxis, che nel saggio sull'attualità della filosofia era la soluzione del carat­ tere di enigma. Anche adesso si tratta di «eseguire sul serio», in qualche modo di riassumere e conservare tutti i caratteri evolutivi, i «mille intrec­ ci» del testo, perché solo nel movimento di questo e della sua storia, il problema è un problema. Ma il guaio viene proprio dal fatto che il lin­ guaggio, modello di struttura di forze come l'opera d'arte, è un medium due volte mediato, dal mediato e dall'altro. Nulla è più, semmai lo sia stato, mosso in una dialettica diadica. Questa sarebbe, per esprimerci poeticamente, possibile solo nel paradiso terrestre, dove nessun terrore costrinse alcunché a esprimersi nella forma della rimozione a forma. Ma

ragiono che i testi di Adorno debbano essere letti da un punto di vista metodologico con una particolare attenzione agli strumenti stilistici» (p. 10). Il tutto sembra corri­ spondere benissimo a quanto lo stesso Adorno afferma essere il compito dell'arte, da cui non si sentì mai fratto, cioè quello di assumere tutte le questioni di contenuto come se fossero questioni di stile. La Rose prosegue: «i suoi testi potrebbero senz'altro essere descritti come anti-testi, come di fatto egli descrisse quelli hegeliani» (p. 21), e passa ad analizzare alcune figure tipiche dello stile adorniano, ricollegandole volta per volta a specifici contenuti e intenti, fra queste: la costruzione passiva (p. 12), il chiasme (p. 13). Segue l'analisi degli intenti che soggiacciono a tali figure formali: la differenza tra espressione e comunicazione (p. 15), i rimandi mitici (p. 15), l'ironia (p. 16), l'inversio­ ne (p. 17). Per la tradizione dell'ironia Adorno viene accostato a Nietzsche, al punto che la Rose sostiene essere quella di Adorno una lettura nietzscheana di Hegel, con in più la discoperta del carattere metafisico delle stesse conclusioni di Nietzsche. Quindi (p. 23) un'interessante terminologia - «necessary illusion» - descrive il passaggio dal nichilismo al marxismo, dove il termine «illusion» è usato dalla Rose per rendere l'idea che si tratti di superare la gabbia del solipsismo empirista. Saltiamo alcune dense parti di ricostruzione storica e teoretica del lavoro di Adorno, per approdare al rapporto con Lukàcs; cosi si esprime la Rose al termine del capitolo: «il criterio lukacsiano per la distruzione della ragione è per Adorno paradigma della possibilità stessa d'esistenza della cultura», intendendo con questo il valore formale ineliminabile che Adorno repe­ risce come istinto critico della cultura. A pag. 124 si trova una delle rarissime citazioni del tema della parodia in Adorno; questione davvero centrale per una teoria dell'inter- petazione dialettica. Purtroppo la Rose si sofferma su di essa solo per contrappore la preferenza lukàcsiana per il realismo contro quella adorniana per la parodia formale. Ancora più oltre (pp. 139 e sgg.) la Rose riconosce come nel pensiero di Adorno: «il significato delle categorie concettuali è una proprietà della struttura sociale. [...] La produzione di senso è quindi opposta alla sua comunicazione (illusione); in questo caso, significato e illusione sono contrapposti. Ad ogni modo, più generalmente, il significato è identificato con il modo illusorio nel quale la struttura sociale appare essere intelligibile o meno». Dato questo, la Rose sostiene essere le forme il terminus ad quem della ricerca adorniana, in quanto in esse è oscurato il significato nel contesto sociale del tardo capitalismo; e per tanto tale ricerca va effettuata, data l'espulsione delle forme significanti nella produzione, tra le maglie dei resti non produttivi. Da qui la «micrologia» adorniana. Essa tenderebbe a ricostruire quello shock d'esperienza che solo rende accettabile la struttura paratatticca della critica della dialettica negativa.

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l'illuminismo ha davvero scacciato Dio dal paradiso. L'uomo al suo posto non può farsi garante. Cartesio aveva perfettamente ragione, nonostante i rimproveri di poca astuzia filosofica, a sostenere che solo Dio può garan­ tire il passaggio dal pensiero alla cosa. Eliminato l'ontologico, l'assoluto vero immutato, resta solo la vertigine, che è quella nietzscheana ina anche quella che Adorno afferma essere il carattere distintivo, e quasi stretta di riconoscimento, tra dialettica e coscienza. Nessuna delle due può arrestar­ si a se stessa. Così il carattere linguistico, inconscio e collettivo delle opere d'arte lo rincontriamo adesso per riconoscerei il volto dell'utopia del lin­ guaggio: «il carattere linguistico dell'arte porta a riflettere su che cosa parli dell'arte; ciò che parla è propriamente il suo soggetto mentre non lo sono né chi la produce né chi la recepisce», e segue l'esempio:

l'Io grammaticale della poesia è posto solo da quello che parla latentemente attra­ verso la creazione artistica. [...] l'Io è obbiettivamente immanente alla sostanza dell'opera, si costituisce nella creazione artistica, attraverso l'atto del linguaggio di questa. [...] La forza di tale alienazione dell'io privato alla sostanza dell'opera è data dall'essenza collettiva in esso accumulata; essenza che costituisce il carattere linguistico delle opere. [In esse] parla un noi e non un io. [...] Questo noi fa entrare il proprio aspetto letterale, si cambia in impulso immanente e tuttavia conserva il carattere parlante. Le poesie [...] hanno riferimento ad un noi; per amore della propria linguisticità devono darsi da fare per liberarsi della linguisti- cità a loro esterna;

secondo il processo di interiorizzazione della forma a contenuto proprio, e questo processo è proprio anche delle altre arti, come quella figurativa:

il suo noi è senz'altro il «sensorium» al suo livello storico, fino a che esso rompe, in virtù della compiuta formazione del suo linguaggio formale, la relazione con una mutata oggettività 122 .

Questa possibilità di rottura, vedremo, coincide con le possibilità dell'interpretazione. Essa andrebbe condotta dal punto di vista di un sog­ getto che non esiste ancora, e perciò non può essere isolata da una parte di impulso e desiderio e elaborazione dell'esperienza, ma anzi «è tenuta ad anticipare tutta quanta una società non esistente ed il suo non esistente soggetto» 123 . Il carattere di enigma viene eliminato, come sostenuto nel

122 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 281-83.123 Ibidem, p. 283.

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millenovecento e trentuno, poiché viene, dalla risposta, eliminata la par­ venza del soggetto e l'ideologia della sua naturalità e il corollario della trascendentalità delle strutture entro le quali si trova a vivere, o ancora meglio: il piglio filosofico che rende immortale e immutabile, nuovo Dio senza volto, ogni trascendentale. Ma al contempo il carattere di enigma si conserva perché il soggetto a nome del quale si parla non esiste affatto, e il suo desiderio non può far le veci. Una società accecata non può soste­ nere la forma del soggetto, né può volerla.

FREUD E KAFKA

Perché Freud e Kafka? Intanto perché la dialettica negativa, peculiar­ mente, essendo negazione oltre che della sociale anche della propria tota­ lità, trova espressione teoretica solo per modelli. Ma in secondo luogo per vedere all'opera, in una interpretazione effettiva, due soluzioni del rappor­ to tra soggetto e oggetto che Adorno considerò paradigmatiche. Queste soluzioni costituiranno, per noi non solo un momentaneo punto fermo sulla questione, ma anche una guida per affrontare, nel seguente capitolo quarto, gli snodi centrali della mediazione soggetto/oggetto per la formu­ lazione che in essa ricevono le questione di una interpretazione filosofica.

Adorno sarebbe probabilmente il più radicale degli ermeneuti, se dovessimo prendere a metro di giudizio il riconoscimento della determi­ nazione del contesto sul testo: «non c'è pensiero che sia immune dalla sua comunicazione, e basta formularlo nella falsa sede e in un senso equivo- cabile per minare la sua verità»124 . Forse questa è la spiegazione dello strano rapporto di Adorno con Freud, che tra l'altro rassomiglia, curiosa­ mente, a quello con Marx. A entrambi Adorno non ha dedicato che pa­ gine occasionali, notazioni e aforismi, eppure non c'è alcun dubbio che essi siano due colonne portanti del pensiero dell'autore francofortense.

Aveva scritto Adorno che «nella psicoanalisi non c'è nient'altro di vero che le sue esagerazioni» 125 , e questa frase gli era stata più volte rim­ proverata. Né altrove il rapporto con Freud è più sereno.

L'illuminismo non illuminato di Freud porta acqua al mulino dello scetticismo borghese. Tardo nemico dell'ipocrisia, egli sta a metà strada tra la volontà di

Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 17. Ibidem, p. 47.

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un'aperta emancipazione degli oppressi, e l'apologià dell'aperta oppressione. La ragione è per lui una semplice sovrastruttura, e non tanto [...] per via del suo psicologismo [...] quanto piuttosto perché rigetta lo scopo, senza significato e senza ragione, solo in funzione e in vista del quale la ragione potrebbe dimostrarsi razionale: il piacere. Se quest'ultimo è svalutato e incluso tra gli espedienti della conservazione della specie, e risolto così, in qualche modo, in ragione astuta [...] la ratio scade di colpo a razionalizzazione. La verità è affidata alla relatività e gli uomini al potere. Solo chi riuscisse a definire l'utopia nel cieco piacere fisico, che non ha intenzione e anzi la placa, sarebbe in possesso di un'idea stabile e certa della verità. Ma nell'opera di Freud si riproduce, contro la volontà dell'autore, la duplice ostilità contro il piacere e contro lo spirito, di cui la psicoanalisi ha sco­ perto la comune radice. [...] ... quel non so che di vacuo e di meccanico che si osserva in molti di coloro che sono stati sottoposti con successo all'analisi, non va attribuito solo alla malattia, ma anche alla guarigione, che spezza ciò che libera 126 .

È questa probabilmente una delle più semplici e cattive prese di posizione verso Freud. Eppure i Minima moralia sono senz'altro, nel senso letterale del termine, un testo (anche) di psicoanalisi freudiana. Moltissime delle categorie che Adorno impiega per descrivere l'alienazione e la sua storia, introiezione, identificazione, rimozione, sublimazione, dialettica dell'istinto, etc., sono nella loro forza costitutiva freudiane. Ancora, i passi che abbiamo già utilizzato, sulla funzione di forza che le lacune, del testo e dei pensieri, esercitano sul testo e sui pensieri, sono suggestioni psico­ analitiche. L'impianto stesso dell'attacco a Freud, è decisamente freudia­ no. E allora?

Adorno pare voler separare la potenza critica e categoriale della psi­ coanalisi dalla metodologia terapeutica, accusando questa seconda di aver sottobanco introdotto delle finalità, bloccate, o meglio apologetiche, con­ trarie o per lo meno estranee alla psicoanalisi.

Il celebre transfert, indispensabile alla terapia, e la cui risoluzione costituisce - non per nulla - il punto cruciale dell'analisi, la situazione artificiale in cui il soggetto opererà - infaustamente e volontariamente - quell'annullamento di se stesso che un tempo era prodotto, con felice spontaneità, dalla devozione e dall'affetto, è già lo schema della condotta riflessa che, in forma di marcia agli ordini del capo, liquida, insieme allo spirito, anche gli analisti che lo hanno tradito 12 '.

126 Ovviamente non si potrà qui fare disamina della correttezza della ricezione adorniana di Freud. Per quanto possa essere interessante capire quanto Adorno lo conoscesse davvero, qui ci riguarda solo quanto egli crede di pensare in riferimento al fondatore della psicoanalisi...

127 Ibidem, pp. 62-63.

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Se il rigore, per Adorno, risiede nella autoriflessività, ovvero nell'ap- plicare a se stessi le proprie categorie, allora si tratta di far psicoanalisi anche alla psicoanalisi, giacché essa è, come tutti i pensieri, fondata sul desiderio. I fatti incontrovertibili - crinale tra capacità euristica e dogma­ tismo - sono, se utilÌ2zati come dati di fatto immediati, anch'essi una proiezione e una paura. La psicoanalisi, come tutto il sapere, è allora, secondo Adorno formato da Freud, una formazione di compensazione, spostamento e rimozione del terrore. La natura che essa scopre è dipen­ dente dalla natura delle categorie che impiega - altro semplice principio ermeneutico - e quindi essa non scopre affatto la natura, perché non affatto naturali sono le sue categorie; una certa mimesi con il modo col quale le scienze fisiche e matematiche concepiscono se stesse anziché raf­ forzare la psicoanalisi, le precluderebbe al contrario la possibilità di pene­ trare in quella concezione, e non potendovi penetrare - seguendo le regole che essa stessa ha scoperto - le introietta: «poiché anche le più remote oggettivazioni del pensiero traggono alimento dagli impulsi, il pensiero, distruggendoli, distrugge la condizione di se stesso» 128 . Ma c'è anche dell'altro. Secondo Adorno, il pensiero psicoanalitico prende per buone non solo categorie ma anche giudizi borghesi, che significa di quella bor­ ghesia europea del primo ventennio del Novecento 12q . Un esempio di ciò lo troviamo, per restare ai Minima moralia, nell'aforisma: «Invito alla danza». Lo schema della felicità è, a detta di Adorno, elaborato sul com­ plesso edipico. Lo psicoanalista affermerà: è un complesso edipico irrisol­ to. Adorno si domanda, e allora? Il fatto che il progetto illuministico di giungere finalmente a una società dove le contraddizioni non siano sempre le medesime, sia costruito dal fragile Io, utilizzando un ricordo che probabilmente acquista molta della sua forza da un fantasma di felicità che non è mai esistita, non sminuisce affatto il valore del desiderio.

Come per molti altri pensatori borghesi, anche di Freud, Adorno sostiene che fosse un radicale, giunto al limite possibile. Il problema ulti­ mo è quello della identificazione: Freud si sarebbe arrestato prima di riconoscere l'influsso di entrambe le nature, non solo quella interna e esterna, ma anche e soprattutto quella sociale. Adorno accetta e fa sua

128 Ibidem, p. 141.129 Questa storicità è per Adorno legata a quella dell'individuo e non semplice­

mente a un problema di prospettiva; in modo non dissimile la pensava Marcuse, cfr. H. Marcuse, Dae Veralten der Psychoanalyse. Versione tedesca di A. Schmidt della conferenza Obsolescence of Psuchoanamysis, tenuta a New York nel 1963, ora in H. Marcuse, Cultura e società, Einaudi, Torino 1969, pp. 223-242.

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l'idea secondo la quale la forma razionale che si apprende per sopravvive­ re, resti poi a determinare il visibile e l'invisibile del mondo. Ma integra la natura e l'eredità ben oltre l'inconscio individuale. L'individuo moder­ no è ancora più sociale: comprende la storia della razionalità, la sua genesi difensiva - e tuttavia l'origine non è il senso, né lo scopo, né tanto meno stabilisce il rango di una cosa. La manifestazione non è identica alla causa, non è semplice effetto di essa:

l'espressione nega la realtà, mettendole davanti ciò che non le somiglia, ma non la rinnega; e guarda in faccia il conflitto, che «risulta» ciecamente nel sintomo. Ciò che l'espressione ha in comune con la rimozione, è che in essa l'impulso è bloccato dalla realtà. A quell'impulso, e a tutto il complesso di esperienza a cui appartiene, resta vietata la comunicazione immediata con l'oggetto. Come espressione, esso perviene alla manifestazione non deformata di se stesso, e per ciò anche della resistenza, in una sorta di mimesi sensibile 130 .

La «mimesi sensibile» è, era nella Teoria estetica, il modello originario dell'interpretazione e comprensione. Si deve quindi, a questo punto, pro­ porre la mimesi e il ricordo come funzioni dell'interpretazione, e rimprove­ rare a Freud, o ai suoi seguaci, di aver un'ennesima volta confuso l'origine con la verità, l'inconscio con la verità? Di aver confuso la secondarietà del pensiero razionale con un buon motivo per sostenere il rafforzamento delle difese erette dal principio di realtà? L'aporia, scrive Adorno:

rimanda alla psicoanalisi in quanto tale. Da un lato essa considera la libido come la vera realtà psichica, la soddisfazione come positiva e il rifiuto come negativo, perché porta alla malattia. Ma d'altro lato essa accetta la civiltà, che determina coattivamente il rifiuto, con un atteggiamento che se non è addirittura acritico è tuttavia rassegnato. In nome del principio di realtà essa giustifica i sacrifici psichici dell'individuo, senza sottoporre lo stesso principio della realtà a un esame razio­ nale 131 .

Se in questo Freud è in immenso vantaggio rispetto ai suoi avversar! revisionisti:

la grandezza di Freud, come di tutti i pensatori borghesi radicali, consiste nel fatto che egli lascia queste contraddizioni irrisolte, e disdegna di pretendere un'armonia sistematica dove la cosa stessa è internamente lacerata 132

Ibidem, p. 258.Th.W. Adorno, Scritti sociologici, cit., p. 32.Ibidem, pp. pp. 32-33.

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tuttavia il rimprovero a Freud rimane; egli non avrebbe considerato come la società possa, senza essere ridotta a dimensione antropologica, entrare a far parte violentemente del patrimonio gestito dalla mente. Le introiezio­ ni, insomma, sono tanto contenutistiche quanto formali, nel senso che quel che viene introiettato come forma è semplicemente un contenuto che le generazioni precedenti hanno internalizzato e rimosso come tale, e si sono protette assumendo la forma di elaborazione del dato più consona. Ma dato che questa consonanza si scontra da un lato con i bisogni origi- nari dell'uomo e dall'altro con le esigenze, altrettanto rigorose, di soprav­ vivenza in questa società, in molti casi è stato necessario nascondere quel che si era imparato.

L'Io assume consapevolmente al proprio servizio, come propria attrezzatura, l'uo­ mo intero. Nel corso di questa ristrutturazione radicale l'Io come direttore della produzione cede tanto di sé all'io come strumento della produzione, da ridursi a un astratto punto di riferimento: l'autoconservazione perde il suo sé. Le qualità [...] non fanno più parte del soggetto, ma il soggetto si rivolge ad esse come al proprio oggetto interno. Nella loro sconfinata docilità all'io, si sono estraniate da esso; totalmente passive, cessano di alimentarlo. Questa è la patogenesi sociale della schizofrenia. La separazione delle qualità dal fondo istintivo come dal sé che le comanda, dove prima le teneva semplicemente insieme, fa che l'uomo paghi la sua crescente organizzazione interna con una crescente disintegrazione 153 .

Dunque nelle funzioni dell'Io, la contraddizione della ratio assorbita insieme alla morale viene pagata con la scissione dell'elemento che fu unificante. Ancora nello scritto a difesa di Freud contro la Horney, Ador­ no dichiara di credere in una «duplicazione», per dir così, della vecchia triade freudiana tra Io, Es, e Superlo. L'Io, originariamente al servizio del principio di realtà, deve ora accettare di far le veci della realtà sociale. Ma questa, come insieme di norme e proibizioni, è oggettivamente guardata e rappresentata dalle istanze del Superlo. L'Io è così costretto a cedere una parte del suo territorio a un giudice severo e punitivo, che confonde principi morali e principio di realtà. Disubbidire ai giudici sociali è sentito come un male, e esige una punizione. L'analisi o rinuncia all'adattamento, oppure si trova nella sgradevole situazione di instaurare una nuova allean­ za, non più con l'Io, ma col rappresentante del principio sociale di realtà: il Superlo. Il bene e il vero, in una parodia della filosofia platonica, tor­ nano ad essere la stessa cosa, ma in una realtà che è l'indice del falso, per

" 3 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., pp. 280-81.

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voler restare in termini rigorosamente freudiani, una realtà che è il risul­ tato di una rimozione di cui è da lungo morto il soggetto ma rimasto il motivo. Così:

il Superlo, l'istanza della coscienza, non mette solo davanti agli occhi del singolo ciò che è socialmente vietato come se fosse il male in sé, ma fonde irrazionalmente l'antica paura della distruzione fisica con quella molto più recente di non appar­ tenere più alla comunità sociale che circonda gli uomini al posto della natura 134 .

La funzione dell'Io diventa produzione di fantasmi da quanto la re­ altà è sottratta alla sua mediazione. I desideri, che venivano prodotti mediando e trasfigurando le pulsioni, sono ricacciati nell'immaginario, e viene buttata la mappa della loro posizione. L'Io diviene quasi una funzio­ ne inconscia. Ma giacché è necessario mantenere l'illusione della singola­ rità - a questo stadio dello sviluppo del soggetto essa è irrinunciabile - socialmente si insiste sempre più sulla psicologia dell'Io, e sempre più gli si addossano responsabilità. La motilità, come nel sogno, è bloccata. E il desiderio si fa allucinazione. Non c'è più nessuna possibilità di lavorare per modificare il reale a favore dell'impulso dell'Es. L'individuo è portato a pensare di coincidere con i propri impulsi - come se il vero fosse l'in­ conscio - non vedendo come l'Es sia il deposito dei desideri bloccati, che per l'uomo sociale sono impulsi socialmente bloccati. Il deposito così, dove dovrebbe «voltolarsi la calda bestiola dell'anima» 135 , è in effetti l'espressione della manipolazione sociale. Quel che sembra più a portata di mano, l'intimo individuale, se espresso in questi termini, è in realtà il più comune e stereotipo prodotto della industria culturale. E ciò è il risultato della situazione per la quale tanto più il soggetto si sente debole tanto maggiore è il suo desiderio di identificarsi con qualcosa di stabile e grande. Così l'Io rinuncia a pensarsi come Io, l'istanza critica viene inibita, e si instaura una preoccupante alleanza, che sempre è stata sottintesa, fra le pressioni sociali del Superlo e quelle dell'Es. Questi a sua volta deve reinghiottire il desiderio di poter modificare il reale affinchè corrisponda al suo piacere, e farsi piacere i prodotti apprestati alla sua soddisfazione. Deve contenere sia la sedimentazione delle vecchie funzioni dell'Io in un'area non più accessibile, sia quel che era il suo originario territorio. In questo contesto scrive Adorno: «il fatto che nessuna realtà sociale possa

134 Th.W. Adorno, Scritti sociologici, cit., p.40.155 S. Esenin, Pugacev. I versi citati si trovano cosi tradotti nell'edizione Einaudi,

Torino 1971.

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essere pensata senza fare riferimento alla totalità [...] ma non traducibile in alcuna immediatezza evidente e tangibile [...] conferisce ali 'interpreta- zione l'importanza che essa possiede in sociologia» 136 ; tale interpretazione è «fisionomica», essa esercita il criterio del dubbio su tutto quel che le si presenta, comprese le proprie proiezioni. Indica la guida di questo sguar­ do fisionomico il poietico:

questo elemento non letterale, ludico (secondo l'espressione di Nietzsche) defini­ sce il concetto dell'interpretazione, che interpreta un essente rapportandolo a un non essente. La mancanza di una completa letteralità testimonia la tesa non iden­ tità di essenza e fenomeno 137

La logica di questa interpretazione è simile a quella del linguaggio musicale, dove la presenza avviene per tramite del tutto, ma il tutto non è la verità della presenza; mentre il luddismo ci riporta alla mente Vars invenìendi che, così la definì Adorno, è l'organo di senso della esatta fantasia, a sua volta medium dell'interpretazione. Però, nonostante l'unio­ ne di gioco e fantasia,

non per questo l'interpretazione è arbitraria. La mediazione tra il fenomeno e il suo contenuto bisognoso di interpretazione avviene attraverso la storia: ciò chedell'essenziale appare nel fenomeno è ciò attraverso cui esso è diventato quello che è, ciò che in esso è stato represso e ciò che, nel dolore del proprio indurimento, genera quello che si sta appena formando. Su questo [...] si dirige lo sguardo della fisio-

Quel che appare appartenere all'ambito soggettivo, la fantasia, la critica, il desiderio e via dicendo, rispetto a una realtà falsa, rivendica invece la verità obiettiva per la quale il mondo non avrebbe dovuto essere così. Mentre, al contrario, l'elemento oggettivo, l'essere così e basta, è un prodotto del soggetto, nel quale esso non ha più la possibilità di ricono- scersi. Se la precedente citazione è tratta dagli scritti di sociologia, il modello è ancora una volta quello artistico, nel saggio Bach difeso contro i suoi ammiratori^ si legge che «finché la musica ha bisogno di essere interpretata, la sua legge formale consiste nella tensione tra l'essenza com-

Th.W. Adorno, Dialettica e positivismo in sociologia, cit., p. 44.Ibidem, p. 47.Ibidem, pp. 48-49. Corsivo mio.Cfr. Th.W. Adorno, Prismi, cit., pp. 129-43.

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positiva e l'apparenza sensibile. Ogni opera è in realtà un campo di for­ za» 14t) . Come il saggio, essa deve rinunciare a mettere in scena il soggetto, perché esso si è ritirato e sopravvive solo nell'eccentrico. «Il saggio è [...] la forma critica per eccellenza» 141 - non si difende quel che sta scompa­ rendo imitando la sua presenza, ma rintracciando le tracce della sua verità - «la sua libertà nello scegliersi gli oggetti, la sua sovranità di fronte a tutte le priorities di fattualità o teoria, derivano dal fatto che tutti gli oggetti sono per esso alla stessa distanza dal centro» 142 che non c'è più. La forma saggio è storicamente affine alla retorica perché si fortifica nei testi, e, scrive Adorno, Benjamin l'ha praticata fino in fondo. «Tutte le sue asser­ zioni sono ugualmente vicine al centro. [...] Egli ottemperò alla massima deirEmbahnstrafie secondo la quale tutti i colpi decisivi oggi sono portati con la mano sinistra, senza per questo recedere in nulla dalla verità» 143 . La retorica benjaminiana, che si affida al testo, ne è, insomma, il modello insuperato: «il suo saggismo consiste nel trattare testi profani come se fossero sacri. [...] La chiave di quelle figure enigmatiche è perduta; deb­ bono [...] "parlar esse stesse"» 144 . E allora:

interpretazione, traduzione, critica sono gli schemi del suo pensiero [...] alcune volte parlò del suo metodo come di una parodia del metodo filologico. Anche qui non è disconoscibile un modello teologico [...] Tra le operazioni per secolarizzare la teologia al fine di salvarla non l'ultima è quella di considerare i testi profani come se fossero sacri l45 .

La teologia è sì il discorso che Dio fa agli uomini, ma è soprattutto il rintracciare degli uomini, nel libro della natura e nel libro dello spirito, secondo l'idea di Agostino, nei segni la traccia della speranza, nel minimo passaggio la porta attraverso la quale ad ogni istante può entrare il Mes- siah. È una logica del sintomo-del-ricordo 146 . Anche Adorno concorda, e però meno fiducioso corregge:

140 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 167.141 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 24.142 Ibidem, p. 25.145 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 237.144 Ibidem, p. 240.145 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. II, p. 249.146 Per la questione del rapporto tra sintomo, memoria e desiderio, si può con­

sultare: R. Heyndels, Discontinuité et question du sens: quelques remarques sur Adorno et Pascal, in AA.VV., Adorno, in «Revue d'Esthétique», nuova serie, 1985, n. 8; oltre al già più volte citato lavoro di Carchia, Sulla teorìa estetica di Adorno, per il rapporto tra mimesi e memoria, dove la seconda fonderebbe la possibilità della prima.

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il saggio si garantisce un terreno, seppur incerto, sul quale poggiare, così come un tempo faceva l'esegesi teologica delle scritture. Ma la sua tendenza è opposta, è una tendenza critica: mettere i testi a confronto con il loro concetto enfatico, con la verità che ognuno di essi, anche involontariamente, esprime. [...] Allo sguardo del saggio la seconda natura acquista consapevolezza di sé come prima natura 147 .

La dialettica che Adorno trovava arrestata in Freud, bloccata dalla paura delle proprie conseguenze, viene rimessa in moto: da un lato ogni testo è sacro, indica cioè oltre se stesso, dall'altro la fedeltà a esso consiste nel costringerlo a confessare quel che vorrebbe ma non può: il proprio impulso critico. Il medium di tale interrogatorio sono:

i passaggi scandalosi della retorica, dove l'associazione, la polivalenza dei termini, l'omissione della sintesi logica rendevano facile il compito dell'ascoltatore - e - nel saggio la suasività della comunicazione [...] è alienata dal suo fine originario, per divenire pura determinazione dell'esposizione in sé;

per questo il saggio lavora, per:

far capire insomma che ogni qual volta un termine connota alcunché di diverso, il diverso non è più del tutto tale, per far capire che l'unità del termine indica una unità, comunque nascosta, della cosa stessa. [...] Anche qui il saggio sfiora la logica della musica, rigorosa arte di passaggi e tuttavia priva di concetti, per restituire al linguaggio ciò che la tirannide della logica discorsiva gli aveva tolto 148 .

Di nuovo il senso risiede nella storia, nel movimento dell'intera strut­ tura sui propri cardini, senza che si possa a piacere sceglierne uno fisso. Il mutamento di verità e di contenuto dei termini, è vero e falso, index veri e del falso. Secondo una logica, che la logica odierna sociale relega all'arte, alla religione, e all'inconscio affettivo. Ma anche nell'affetto «la filosofia si ispessisce a esperienza affinchè le si dischiuda la speranza» 149 , e così si proteggono le verità filosofiche.

Ogni volta che si stava insieme con lui [con Benjamin] si ricostruiva una cosa altrimenti morta senza la possibilità di recupero, la festa. Standogli vicini si aveva la sensazione che ha il bambino nell'attimo in cui si apre uno spiraglio della stanza

147 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 26.148 Ibidem, pp. 27-28.149 Cfr. Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 247.

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natalizia e un flusso di luce costringe l'occhio alle lagrime, più commovente e più certo di quanto non sia tutto il chiarore che lo saluta quando il bimbo è invitato a entrare nella stanza. In Benjamin tutta la forza del pensiero si riuniva per pre­ parare tali attimi e in essi soltanto è trapassato quel che una volta veniva promesso dagli insegnamenti della teologia 150 .

Il richiamo non è semplicemente un ricordo biografico. Qualcosa della filosofia abbisogna dell'esperienza, senza la quale nessuna promessa è mantenuta. Nei Minima moralia avevano trovato l'oblio dell'obbligo, la «mattina perduta nel letto», come metafora del vero che sorge dal ricordo- ma gli esempi potrebbero continuare per pagine. Il fatto è che se la logica del discorso non racchiude più la possibilità di opporsi all'apparen­ za reale, solo l'eccedenza dell'individuo - né soggetto né signore del reale- può scardinare le costellazioni irrigidite nella forma. E l'esperienza del­ l'individuo è un minimo, un passaggio minimo, qualcosa di espulso, ri­ mosso. Un residuo, e dunque:

l'interprelazione non sequestra ciò che trova considerandolo verità valida e tutta­ via sa che non ci sarebbe verità senza la luce di cui segue le tracce nei testi. A ciò essa da il colore del lutto, del quale l'asserzione del senso non sospetta nulla e che viene spasmodicamente negato da chi insiste su ciò che ritiene faccia al caso 151 .

E questo «colore del lutto» - memoria dell'assenza - che deve essere unito allo shock, all'attimo di stupore e di erotismo che, ad esempio, le parole straniere, vecchie o in nuove costellazioni, possono procurare. Esse:

potrebbero conservare qualcosa di quell'utopia del linguaggio, di un linguaggio senza terra, non legato alla signoria di ciò che storicamente esiste, che vive incon­ sapevolmente nel loro uso infantile. Disperate come teschi, le parole straniere aspettano di venir destate in un ordine migliore 152 .

Ma tutte le parole che non siano parole d'ordine dell'ordine sociale presente, sono «parole straniere» 153 . E del resto perché mai le parole sarebbero indifferenti alla costruzione entro la quale vengono pronuncia­ te? A proposito de Spùren di Ernst Bloch, scrive Adorno:

150 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. II, p. 257.151 Ibidem, voi. I, p. 123.152 Ibidem, voi. II, p. 211.153 Ibidem, p. 219.

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Le tracce discendono dall'indicibile dell'infanzia, che una volta diceva tutto. [...] Ma l'adulto che ricorda tutto ciò porterà alla vittoria le pedine che a suo tempo ha perso al gioco, senza tuttavia tradirne l'immagine alla ragione troppo adulta; quasi ogni ermeneutica accoglie in sé la spiegazione razionalistica e poi la strapazza per bene. Le esperienze sono tanto poco esoteriche quanto ciò che una volta commuoveva nelle campane di Natale e che non si lascia mai completamente cancellare: quel che è ora e qui non può essere tutto 154 .

La spiegazione razionalistica viene strapazzata perché l'interpretazio- ne che non conservi le tracce del futuro attraverso le pedine del passato, si appiattisce sul qui e ora come se qui e ora fosse il concreto. Così «le opere d'arte non le si capisce come una lingua straniera [ma nemmeno una lingua straniera si comprende come una lingua straniera, abbiamo appena visto] o come concetti, giudizi e deduzioni della propria lingua [...] piuttosto come una specie di rifacimento, come il ricompimento delle tensioni sedimentate nell'opera» 155 . A quest'idea di una «mimesi» come interpretazione adeguata, quella che ricostruisce soggettivamente il pro­ cesso oggettivo e immanente dell'oggetto, è tempo di dar nome: esecuzio­ ne 156 , nel senso in cui: «eseguire correttamente un dramma o un brano musicale significa formularlo correttamente come problema» 157 .

Nel libro Dissonanze 178, che cosa sia l'esecuzione viene spiegato più a fondo: eseguire significa ripetere, in sé, l'opera di composizione delle tensioni della costellazione, la loro parte che si è sedimentata in forma, cioè in tradizione-contenuto, e la parte che sopravvive come contenuto sociale latente, il carattere linguistico, cifrato, mosso dal «non ancora», dal materiale espulso sia dall'Io che dalla rappresentanza dell'inconscio. Ese­ guire, identicamente al tradurre benjaminiano, significa interpretare, e viceversa: l'interpretazione deve essere un'esecuzione. L'opera, la cosa, non sono, come la verità, un possesso, un risultato che possa essere acqui-

154 Ibidem, pp. 220-21.155 Ibidem, p. 113.156 L'idea che il modello dell'interpretazione filosofica possa essere venuto a

Benjamin dal suo lavoro di traduttore e a Adorno dalla sua esperienza di esecutore musicale, durante i loro colloqui invernali a Kònigsberg, è di Susan Buck-Morss, The origin of negative dialectics, op. cit. Se ne può trovare conferma nel testo di J. Ladmiral, Dialectìque negative de l'écriture aphoristique, op. cit.

157 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 312.158 Th.W. Adorno, Dissonanzen, Vandenhoeck & Ruprecht, Gòttingen 1958, ed.

it. Dissonanze, a cura di G. Manzoni, Feltrinelli, Milano 1981, p. 191 e sgg.

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stato una volta per tutte, una somma; ma un'esperienza da ripetere e da confrontare con il proprio livello di coscienza, così come Adorno scrisse vanno confrontate nell'interpretazione le parole. Il sedimento esprime il movimento solo come traccia, come indice. Si deve seguire l'indice ma non confondere la traccia con la cosa, perché la cosa non è una cosa ma un rapporto.

Ci soccorre qui, paradigmaticamente, quanto scrive Adorno. «Interpretando il Finale di Partita non si può [...] inseguire la chimera di mediarne il senso per via filosofica: comprenderlo vuoi dire né più né meno comprenderne l'impossibilità» 159 ; detto altrimenti: è necessario fare l'esperienza della incomprensibilità, attraverso la mutazione della forma - in questo caso il pensiero - in contenuto;

il pensiero si trasforma [...] in una sorta di materia di secondo grado. [...] Beckett [...] usa pensieri sans phrase come frasi, materiali parziali del monologue intétieur nei quali lo spirito stesso si è trasformato 160 .

Il «disgustoso» dell'opera di Beckett non può essere costretto in filosofemi perché esso «è la parodia della filosofia vomitata fuori dai suoi dialoghi, e del pari la parodia delle forme» 161 . E la parodia non la si può interpretare: «ogni tentativo di interpretazione rimane inevitabilmente in arretrato rispetto a Beckett [...] La possibilità che un'interpretazione sia o meno all'altezza di tutto questo potrebbe quasi diventare il criterio di una filosofia futura» 162 : la parodia non si lascia interpretare dalla filosofia, perché essa è il medium dell'interpretazione filosofica, e come tale può solo essere espressa tramite rappresentazione, «teatro del pensare» 163 .

Il linguaggio comunicativo postula [...] la tesi della ragion sufficiente. Ma questa esigenza praticamente non viene più soddisfatta: gli uomini, nel parlarsi, in parte sono guidati dalla loro psicologia, in parte mirano a scopi che, in quanto intesi alla pura e semplice autoconservazione, si allontanano dalFoggettività che la forma logica fa balenare. [...] Per Freud [...] la ratto della comunicazione verbale è sempre anche razionalizzazione. Ma la ratto stessa è nata dall'interesse all'autocon-

Th.W. Adorno, Noie per la letteratura, cit., voi. I, p. 269.Cfr. in proposito: R. Tiedemann, Begriff, Bild, Name, etc. cit., pp. 71-72.Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 270.Ibidem, pp. 270-71.Cfr. Ibidem.

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servazione, e per questo ogni razionalizzazione coartata sta a dimostrare la sua irrazionalità 164 .

Proprio come accade nell'analisi, la semplice enunciazione di una interpretazione non costituisce la risoluzione della rimozione, e sempre di più l'analista si deve semmai preoccupare di rafforzare l'oblio piuttosto che scatenare il ritorno del ricordo, pena una sofferenza ben maggiore da quella prodotta dalla difesa. L'interpretazione operando là ricostruzione del problema, purché venga sentito in una semi-mimesi come problema, percorre lo stesso percorso della analisi, ma fa del suo stesso percorso oggetto.

Nel saggio su Kafka questa connessione è espressa nel modo più chiaro: «ogni proposizione dice: interpretami, ma nessuna tollera l'inter- pretazione. Ciascuna, insieme con la reazione "È così", impone la doman­ da: "Com'è che lo so già?"» - che è la tipica risposta, secondo Freud, della interpretazione riuscita - e

attraverso la violenza con cui Kafka esige l'interpretazione [...] i suoi testi impli­ cano che tra essi e la loro vittima non sussista una distanza stabile, e che essi investano la dimensione affettiva del lettore a un punto tale che questi tema che il raccontato si avventi su di lui 169 .

Ma non si tratta di una esperienza del lettore 166 : «questa aggressiva vicinanza fisica mette fuori gioco l'abitudine del lettore a identificarsi coi personaggi dei romanzi. [...] Fintante che non si trova la parola, il lettore rimane colpevole» 167 ; così Adorno fornisce quella che gli pare essere la regola per una interpretazione comprendente l'esperienza, che pure in

]M La differenza tra espressione e comunicazione è fondamentale. La prima im­ plica ovviamente la dimensione sociale, ma solo implicitamente, come «latenza forma­ le» scriverebbe Adorno, il quale per la seconda invece intende l'espressione rivolta all'altro, l'espressione che deve rendersi commensurabile e comprensibile all'esperienza dell'altro.

Cfr. Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, pp. 293-94.165 Cfr. Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 251.166 Quale, per esempio, quella teorizzata dalla così detta Scuola di Costanza; Cfr.

H.R. Jauss, // testo poetico nel mutamento d'orizzonte della lettura, e W. Iser, La situa­ zione attuale della teoria della letteratura. I concetti chiave e l'immaginario, entrambi in AA.VV., Teoria della ricezione, a cura di R.C. Holub, Einaudi, Torino 1989. Cfr. anche H.R. Jauss, Kleine Apologie der Àstbetischen Erfahrung, UniversitàtsVerlag, Konstanz 1972, tr. it. di C. Gentili, Apologià dell'esperienza estetica, Einaudi, Torino 1985.

167 Ibidem.

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Kafka peggio che in Beckett pare essere proibita. Ciò che appare proibi­ tivo è, invece, probabilmente solo confusamente avvertito come vicinissi- mo.

Una prima regola per evitare un trapasso immediato al significato troppo ovvio, già inteso dall'opera, potrebbe essere questa: prendere tutto alla lettera. [...] Sol­ tanto la fedeltà alla lettera, e non la comprensione di fini già prefissati, potrà prima o poi aiutare. In un'opera letteraria che costantemente si oscura e si smentisce, ogni enunciato determinato fa da contrappeso alla clausola generale dell'indeterminatezza. Kafka ha cercato di sabotare questa regola... Ma il principio della puntualità letterale, certo un ricordo dell'esegesi del Pentateuco nella tradi­ zione ebraica, trova i suoi punti di appoggio in vari passi kafkiani - senza il suo criterio - [...] il polisignificante si dissolverebbe fatalmente in indifferente,

ma questo indifferente non è il carattere dell'inconscio, nel quale anzi al contrario tutto è essenziale e differentissimo;

Kafka prende i sogni alla lettera ed è questo uno degli elementi più efficaci che provocano lo shock. Viene eliminato tutto ciò che potrebbe scostarsi dal sogno e dalla sua logica prelogica e proprio per questo risulta eliminato il sogno stesso. Non è lo spaventoso a provocare lo shock, bensì la sua owietà. [...] Ma il lettore deve comportarsi con Kafka come Kafka con i sogni. Deve cioè insistere sui par­ ticolari incommensurabili, e impenetrabili, sui punti ciechi. [...] Spesso i gesti costituiscono un contrappunto alle parole: il prelinguistico, il preterintenzionale da lo sgambetto alla polisignificanza, la quale come malattia ha corroso in Kafka ogni significazione. [...] Simili comportamenti sono le tracce delle esperienze co­ perte dal significare. Lo stato ultimo di un linguaggio che sgorga dalla bocca di coloro che lo parlano. [...] Alle esperienze che si sono depositate nei gesti a un certo punto seguirà l'interpretazione, sarà possibile riconoscere nella loro mimesi un universale represso dal senso comune 168 .

Siamo davvero qui di fronte - né sorprende trattandosi di Adorno che commenta Kafka - a molti temi dell'ermeneutica biblica. Anche qui la fedeltà alla lettera è l'unica possibilità di far saltar fuori lo spirito; ma di nuovo anche noi in questo caso dobbiamo sottrarci alla malia della comunicazione. E procedere adagio. La fedeltà alla lettera non è opposta alla mimesi dell'esperienza, anzi è la condizione di essa, contro alla inter- pretazione totale - qualcosa come l'immediata ricognizione del significato

168 Questa, e le precedenti citazioni sono tutte tratte da: Th.W. Adorno, Prismi, cit., pp. 252-55.

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anagogico o metaforico - che mette fuori gioco l'esperienza per trapassare immediatamente in teoria. Anche Kafka vuoi esser preso come testo sacro, ma nel senso primo dei testi sacri: esperienza da ripetere. La letteralità è anche questo, che solo prendendo ogni cosa all'estremo questa mostrerà la necessità di venir mediata dall'altro. La via di mezzo uccide il rapporto, non lo conserva. Mentre l'unità di shock e mimesi alla lettera porta alle soglie del sogno. I materiali devono essere compressi nella differenza tra parole e gesto, dacché la pura differenzialità delle parole viene al termine corrosa da se stessa. L'immanenza, come un sortilegio, va spezzata dal di dentro, altrimenti in una parodia dell'inveramento, si trasforma in trascen- dentalità. Ma per questo non si può rintracciare il fondo ultimo nel sogno. Dove tutto fosse ridotto alla «logica prelogica del sogno», come nei testi di Kafka, ogni cosa sarebbe infine indifferente contro la propria intenzio­ ne; senza principio di realtà non per questo il sogno diventa la realtà. Esso continua a essere «padre del pensiero» solo finché esiste il figlio suo. Di fronte ad esso si tratta di comportarsi come Kafka, appellarsi al minimo, ai punti ciechi. Essi sono le tracce materiali che la fantasia utilizzerà per costruire l'interpretazione dell'altro dal sogno. I gesti nei quali è deposi­ tata la memoria di quel che il senso comune - parola fin troppo gentile qui - ha represso. Ma di cui, come nell'inconscio dove nulla viene distrutto una volta per tutte, si conserva ricordo. Se «è ovvia l'obiezione secondo cui [...] quelle esperienze non sarebbero altro che proiezioni casuali pri­ vate e psicologiche» 169 , risponde Adorno che Kafka:

strappa la psicoanalisi alla psicologia. La stessa psicoanalisi, in quanto fa derivare l'individuo da istinti amorfi e confusi, l'Io dall'Ex, è già in certo modo contraria allo specificamente psicologico. La persona si trasforma da sostanza a un mero principio di organizzazione di impulsi somatici. In Freud come in Kafka ciò che viene dall'anima non conta più [...] [Kafka] si distingue da Freud [...] non per una più delicata spiritualità, bensì per uno scetticismo ancora più profondo, se possi­ bile, nei confronti dell'io. La letteralità kafkiana è atta a questo scopo 170 .

La ulteriorità di Kafka consiste nel suo trasportare le leggi interpre­ tative della psicoanalisi fuori dalla mente e dentro la realtà stessa.

Quella di Kafka è una potente capacità demolitrice. Egli lacera e abbatte la fac­ ciata che cela l'enormità del dolore, facciata a cui sempre più si adegua il controllo

169 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 255. 17(1 Ibidem, p. 257.

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112 CRITICA DEL NON VERO

razionale. Nella demolizione [...] egli non si attiene, come la psicologia, al sogget­ to, bensì penetra fino alla dimensione materiale, sino al meramente esistente, il quale nel crollo più completo della coscienza che cede, che rinuncia sempre più ad ogni autoaffermazione, si esibisce nel fondo soggettivo. [...] A questo rilassa­ mento teso sino alla lacerazione quel che era metafora, significato, spirito, cade in grembo immediatamente e inintenzionalmente come «corpo spirituale». È come se la teoria filosofica dell'intuizione categoriale [...] venisse riconosciuta valida all'in­ ferno. La monade senza finestre si rivela lanterna magica, madre di tutte le imma­ gini 171 .

In questo Kafka, prosegue Adorno, da l'interpretazione letterale della società borghese. Il metaforico ha riconosciuto se stesso, ancora, e si è perso. La espressione della soggettività cade nell'illibertà di ogni pura soggettività. Così come è pura soggettività l'apparenza di realtà. Adorno non si perita di affermare che Kafka rappresenta l'allegoria della rivoluzio­ ne. Il primato della libertà del soggetto non può essere eseguito che modificando le condizioni degli intrecci della materia, sui quali Kafka applica la logica del minimo e dello scarto. L'altro di cui si va alla scoperta non è all'origine, semmai nella speranza alla fine. E così come essa anche l'interpretazione adorniana di Kafka si pone dal punto di vista della fine.

Questo saggio su Kafka fu scritto durante la seconda guerra mondia­ le, lo sterminio nazista e l'emigrazione di Adorno, alla sua comprensione e essenza quest'esperienza non è estranea. Ma nemmeno l'esperienza a cui si appella, il gesto prelinguistico, la mimesi, è razionalmente disponibile, così come quella della filosofia dopo Auschwitz. Anzi, essa deve essere faticosamente strappata alla doppia illusione di un Io intero e presente, e a quella disperazione che accetta l'interpretazione come una presa d'atto. Contro entrambe si propone l'interpretazione come richiesta di modifica­ re la condizione che il testo rappresenta, nella legge formale, e materiale, che mette in scena. Adorno può comprendere Kafka attraverso un para­ gone con Freud perché - può sembrare strano dirlo - entrambi hanno a oggetto il medesimo.

Ibidem, pp. 257-58.

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CAPITOLO IV

LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ

Così tanto naturale è all'uomo la logica, [...] essa è la sua propria, peculiare, natura stessa. [...] Così si dovrebbe dire che il Logico sia piuttosto il Soprannaturale, che in ogni comportamento naturale dell'uomo, nel suo sentimento, intuizione, brama, bisogno e istinto, penetra, facendone in generale qualcosa di umano.

G.W.F. Hegel '

Nella Teoria estetica sono frequenti le metafore scritturali. Così le spiega A. Baricco:

La prima peculiarità della scrittura appare [...] quella di darsi come segno privo di significato. [...] Linguaggio non soggettivo e non significante, espressione obiet­ tiva: l'ideale della scrittura sembra raccogliere l'aspirazione a rievocare il linguag­ gio primitivo delle cose. [...] E tuttavia nulla mancherebbe tanto la comprensione del tratto mimetico della scrittura quanto il ridurla ad un'immediata adesione al pre-razionale della natura. La scrittura è mimesi, ma mimesi necessariamente mediata. [...] Essa è non-significante, ma non lo è sic et simplìdter. lo è in quanto prodotto di un processo che accanto al momento della decadenza del significato comprende quello della sua costruzione; il suo essere muta riporta, più che alla natura, alle antiche scritture di cui s'è persa la chiave, [...] il loro silenzio è tanto poco immediato quanto furono innumerevoli i secoli che ci vollero a inventarne il segreto e a dimenticarlo. [...] La scrittura sembrerebbe proporsi in suprema istan­ za come un ritorno ad un'esperienza della verità originaria delle cose,

e dopo aver richiamato la teorizzazione benjaminiana conclude: «ma tutto ciò la scrittura non realizza in vista di un'epifania dell'autenticità: essa non rievoca la verità delle cose, rievoca piuttosto l'enigma di quelle, sottraen- dolo all'oblio» 2 .

Dunque, il problema del rapporto tra mimesi, simbolo e segno, non si pone all'interno di una prospettiva genealogica: secondo l'illusione per

1 G.W.F. Hegel, Wtssenschaft der Logik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1969, p. 20.

2 Cfr. A. Baricco, Scrittura, memoria, interpretazione. Appunti sulla teoria estetica di Th.W. Adorno, in «Rivista di Estetica», XXI, n. 9, 1981, pp. 96-109.

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11^ CRITICA DEL NON VERO

la quale ciò che è più antico sia perciò stesso più vero; non c'è un Inizio nel quale sia iscritto il Senso, il cominciamento non è epifania del vero né vertigine del nulla. La critica di Adorno, abbiamo visto, considera simili tensioni filosofiche all'assoluto come rovesciamento non mediato, e quindi identico, del nominalismo della società borghese. Esso infatti mostra il suo lato peggiore proprio nelle scienze sociali, dove l'assunzione della realtà a giudice unico, e del linguaggio a sistema di segni convenzionali e arbitrari rischia di compromettere non solo la comprensione di quel che, in termini ermeneutici, si chiamerebbe il contesto di precomprensione, ma anche il senso dell'intero atto chiarificatore. Secondo Adorno il pensiero è in sé e per sé dialetticamente legato al suo Gegenstand in un intreccio di dominio e liberazione dalla coazione del pensiero stesso.

Pensare - scrive - è, già in sé, prima di ogni contenuto specifico, negare, resistenza contro ciò che viene imposto; il pensiero l'ha ereditata dal rapporto del lavoro con il suo materiale:, che ne è l'archetipo. [...] Violentando ciò su cui esercita la sue sintesi, il pensiero segue anche un potenziale [...] e ubbidisce senza coscienza all'idea di risarcire i frammenti per ciò che esso stesso ha compiuto; la filosofia diventa cosciente di questo fatto inconsapevole. La speranza della conciliazione accompagna il pensiero inconciliabile, poiché la resistenza del pensiero contro il meramente essente, l'imperiosa libertà del soggetto, intende ottenere dall'oggetto anche ciò che esso ha perduto a causa della sua trasformazione in oggetto 3 .

Questo è quanto Baricco chiamava l'oblio che il linguaggio è in grado di revocare: la negazione dell'essente anche attraverso la memoria della storia della sua riduzione a essente, l'opposizione all'oggetto anche in forza della dialettica tra concettuale e a-concettuale. Ma questo è il pas­ saggio - in termini adorniani - dalla funzione mimetico-simbolica a quella segnica, che decide delle possibilità e del compito del linguaggio oggi.

Abbiamo visto, nella Dialettica dell'illuminismo le tappe della trasfor­ mazione della funzione espressiva: dalla mimesi alla rievocazione sacerdo­ tale di essa attraverso il simbolo - che già instaura la scissione tra mani­ polazione della natura e sua significazione - fino alla vera e propria pos­ sibilità di conservazione e tradizione del sapere. Questa possibilità di conservazione e tramandare è l'effetto di una certa quantità di rimozione e oblio la cui forza è la forza stessa della forma in cui avvengono conser­ vazione e tramandare. La dialettica che si instaura tra la rimozione di un contenuto - che per questo diviene costrizione formale e quindi traman-

3 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 18.

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LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ 115

dabile e tradizione - e la necessità, più volte richiamata da Adorno di «sentire ovunque lo stile come contenuto», è la negazione determinata di quel percorso. Sentire la forma come contenuto non equivale quindi a ricondurla alla sua origine, ma piuttosto a revocare l'oblio della sua for­ mazione, a riportare alla coscienza che cosa è una forma, e nel riconosci­ mento della sua genesi sciogliere il carattere misterioso.

La rinuncia filosofica alla funzione simbolica, che incontrammo nel saggio Die Aktualitàt der Pbilosopkie, indica che tale possibilità interpre­ tativa non si raggiunge immediatamente tramite la mimesi, ma piuttosto che questa deve, come quella artistica, essere una mimesi seconda. Se nel simbolo è conservato il simboleggiato, il segno, attraverso la distanza, raggiunge la meta del significato solo come risultato di una riflessione - qualcosa di radicalmente opposto alla regressione. E regressione e rimo­ zione sono, come sappiamo inscindibili. Per contro nel sistema di segni, nella struttura del campo di forza delle parole e dei concetti 4 la interpre- tazione rassomiglia di più a un risarcimento che alla costruzione di senso; in accordo con l'impressione che il primo moto interpretativo sia la falsi­ ficazione, collettiva e inconscia, dei rapporti, o come si esprime, poetica­ mente, Bloch in accordo col fatto che:

la terra continua ad essere inabitabile per l'uomo, nonostante alcuni simboli del­ l'approdo, che tuttavia non sono in grado di illuminare, se non per mezzo di sogni, la porta vivente della semi-esistenza o la porta fatale della possibile non-esistenza. Non si sono ancora incarnati né hanno conosciuto una prassi terrestre-sovraterre- stre: in ogni caso, la terra inabitabile, insieme ad alcuni simboli di felicità, è un buon apprendistato per sogni realisti dietro la porta 5 .

La relazione tra interpretazione e senso, nella prassi filosofica di Adorno si interseca con quella della coppia mimesi-differenza. In un passo della Dialettica negativa si legge che: «abbandonarsi all'oggetto [nel ten­ tativo di comprenderlo] equivale a rendere giustizia ai suoi momenti qua­ litativi»; contro all'ideologia che, forte della convinzione che gli oggetti e i soggetti siano due enti indipendenti, vorrebbe sottrarre il soggetto il più possibile dalla ricerca scientifica, Adorno ricorda che i momenti qualitativi dell'oggetto sono mediati dal soggetto: «esigono il soggetto intiero, non il

4 La distinzione adorniana tra Kraftfeld e Kostellation è ampiamente trattata dal già citato libro di M. Jay, Th.W. Adorno.

5 E. Bloch, Spùren, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1959. Edizione italiana a cura di L. Boella, Tracce, Coliseum, Milano 1989, p. 164.

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suo residuo trascendentale. Quanto più vengono vietate sue reazioni in quanto presunte soggettive, tanto più determinazioni qualitative della cosa sfuggono alla conoscenza» 6 . E questo per un duplice motivo: innanzitutto le reazioni soggettive, in quanto socialmente condizionate, non sono affat­ to assolutamente individuali, ma anzi in esse si esprime proprio quel con­ dizionamento. Ma in secondo luogo, e tanto più quanto maggiore è il grado di eteronomia soggettiva, costitutivamente esse partecipano della formazione dell'oggetto non meno che del soggetto stesso. «In deciso contrasto con il normale ideale di scienza, l'oggettività della conoscenza dialettica ha bisogno di più, non di meno soggetto, altrimenti l'esperienza filosofica si immiserisce» 7 ; e tale oggettività è quella, prima ricordata, per cui il pensiero è per sua essenza negazione della realtà. Tale negazione è affidata, pur fragilissima, al soggetto. Si potrebbe quasi dire: è affidata al soggetto perché esso è l'unico ente irreale, e quindi il solo che possa, in nome del possibile, opporsi al certo.

Questo momento di differenziazione è soggettivo, non nel senso di arbitrario, ma proprio perché è del soggetto. «L'ideale della differenzia­ zione e qualificazione [...] non si riferisce solo ad una capacità individuale, non indispensabile per l'oggetto. Esso riceve il suo impulso dalla cosa. È differenziato chi in essa e nel suo concetto riesce a distinguere ancora il minimo»^. Il suo postulato è quello della «capacità di esperienza dell'og­ getto» 9 che è la capacità stessa di costituzione del soggetto. In essa: «trova riparo il momento mimetico della conoscenza» U) . All'interno del passaggio dalla funzione simbolica, e quindi di prassi ravvicinata, alla funzione segni- ca, dove la capacità di successo è misura del potere, la conoscenza si esprime come unione di mimesi e concetto, e «questo processo si riassume come differenziazione. Essa contiene in sé tanto la capacità di reazione mimetica quanto l'organo logico» 11 .

La necessità dell'interpretazione dipende, in qualche modo, dalla necessità del pensiero. Il rapporto tra le due somiglia, in misura, a quello tra concetto e il «suo» contenuto particolare. Se il pensiero si comporta con i propri oggetti in modo tale da essere più che accumulazione di previsioni, esso è ancora quel che veniva indicato da Hegel: una verità che

6 Th.W. Adorno, dialettica negativa, cit., p. 39.7 Ibidem, p. 37.8 Ibidem, pp. 39-40. Corsivo mio.9 Ibidem, p. 40.10 Ibidem.11 Ibidem,

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LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALIT ]_\~]

è conservazione di esperienza. Ma questo ideale non può essere consegui­ to che a guisa di concetti. Senza di essi non c'è la natura immediatamente a disposizione, né chance di intersoggettività; o meglio: proprio perché l'intersoggettività è alla base della percezione della natura - della sua costituzione - questa si trova nascosta dietro quella. Ma non è un nascon­ dimento che possa essere levato, nonostante le frequenti metafore di que­ sto genere, come un velo. Togliere quel velo significherebbe abolizione del soggetto, dietro del quale non sta in attesa l'origine delle cose, ma la violenza della funzione. Essa non può essere tolta con un atto di pensiero, ma solo con una rivoluzione sociale 12 . La speranza del pensiero è certo proprio la revoca della violenza della funzione sui funzionanti - gli uomini -, ma la realizzazione di questa speranza richiede il superamento della filosofia: in questo Adorno è pienamente e ortodossamente marxista. Mai vien confusa l'interpretazione del mondo con il suo cambiamento. Per questo la «critica penetrante del relativismo, è il paradigma della negazio­ ne determinata» 13 , perché dietro di esso fa capolino l'indifferenza che il relativismo ostenta per la totalità come se l'indifferenza proteggesse dalla totalità. Se una massima esiste in Adorno è quella per la quale anche ciò che non si conosce né riconosce agisce sulla vita degli uomini, anzi forse esso più di tutto; di fronte alla totalità, che i sistemi idealisti ricercavano come suggello del vero, si dovrebbe comportarsi esattamente come essi sembravano esigere: mostrando come quel di cui si va in cerca sia il più prossimo e certo.

Alla coscienza dell'apparenza inerente alla totalità concettuale non resta altro che spezzare l'apparente identità totale in modo immanente. [...] Poiché però quella totalità si costruisce secondo la logica, il cui nucleo è il principio del terzo escluso, tutto ciò che non vi si piega, tutto il qualitativamente diverso, assume il marchio della contraddizione. La contraddizione è il non-identico sotto l'aspetto dell'iden­ tità. [...] La dialettica è la coscienza conseguente della non-identità 14 .

La impotenza del pensiero di fronte alla realtà è vera, poiché il pen­ siero è impotente. La totalità che esso si trova ad affrontare è totalità del pensiero, nel duplice senso per cui tutto è racchiuso in esso, e i suoi concetti pretendono di racchiudere tutto il proprio contenuto; di fronte a

12 II tentativo filosofico di rimuovere l'alienazione per mezzo di una prospettiva teorica è proprio quel che Adorno rimproverava all'esistenzialismo...

15 ìbidem, p. 34. 14 ìbidem, p. 5.

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CRITICA DEL NON VERO

questo il pensiero non può che cercare di spezzare, in forza propria, quel che gli appare, ma solo appare, essere la sua forza. Ma l'impotenza del pensiero è anche falsa. Il suo motivo ha avuto convenienza e origine nella sfera di separazione del pensiero dal lavoro, dove la negatività è come rimasta tutta attaccata al fare e, per nemesi, il pensiero ne è rimasto spo­ gliato. Quanto più esso si è messo al servizio della divisione sociale del lavoro, tanto più il movente - sottilissimo confine tra desiderio e paura - gli si è scomparso. E rimane ora solo, appunto, come desiderio che non si sa giustificare. È per questo che Adorno insiste tanto sulla parte di esagerazione, di gioco, di preconcetto e fantasia che inerisce al pensiero per come esse dovrebbe poter essere. Ed è vero che questa è ancora una posizione illuminista che esige l'interpretazione della realtà nella coscienza che essa, da sé, non sia tutta la realtà. Come a dire che il pensiero se non è portavoce solo del proprio dominio è necessariamente pensiero della mediazione, e dunque irrimediabilmente legato alla mediazione in sé, al­ l'autocritica se si vuole, insomma: alla dialettica. Ma se non c'è più il momento della Aufhebung, il rapporto tra il processo e i suoi momenti, del quale stiamo osservando l'aspetto interpretativo, quel che Adorno chiamò dialettica negativa, deve spiegare com'è possibile fare a meno della cate­ goria della totalità, o meglio: quale dialettica si muove all'interno di una totalità reale ma falsa.

VERITÀ, PROCESSO E IMMAGINAZIONE. LA LETTURA DI HEGEL

La lettura adorniana di Hegel è il luogo dove si può vedere lo svilup­ po della filosofia critica dal ceppo della dialettica fenomenologica. Non ci interessa tanto l'interpretazione di Hegel, ma gli spiragli che in questa si aprono per un aggiornamento della dialettica. Con il vantaggio, non se­ condario, rispetto a Dialettica negativa, di una miglior comprensibilità, di una semplicità maggiore. Vediamo.

«Mediazione [...] non significa mai, in Hegel, [...] qualcosa di mezzo fra gli estremi, perché la mediazione si raggiunge attraverso il passaggio fra gli estremi stessi come tali; questo è l'aspetto radicale in Hegel, incompa­ tibile con ogni moderatismo» 15 . Questo commento introduttivo vale an­ che come guida per l'interpretazione stessa che Adorno conduce. Do-

15 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 37.

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LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALIT H9

vremmo qui fare come suggerisce Althusser a proposito della 'dialettica' marxiana: trascurare la sostanza storica di quel che Hegel abbia o non abbia effettivamente scritto e pensato, per concentrarci sulla effettiva pras­ si di Adorno interprete. Egli riconosce che non solo non esiste «fonda­ mento» al pensiero ma anche che:

non c'è neppure costituente, non ci sono condizioni produttive dello spirito, fuori dall'astrazione compiuta da effettivi soggetti; e quindi compiuta da un non mera­ mente soggettivo, da un «mondo» - nel senso che - un Io che non fosse più, in nessun senso, Io e quindi facesse a meno di ogni riferimento alla coscienza indi­ viduata e con ciò, necessariamente, alla persona spazio-temporale, sarebbe un non senso; non solo sospeso nel vuoto e così indeterminabile come Hegel ebbe a rinfacciare al suo controconcetto, all'essere; ma anche come Io, come per l'appun­ to mediato alla coscienza, non sarebbe più neppure afferrabile. L'analisi dell'asso­ luto soggetto deve riconoscere la irriducibilità di un momento empirico, di non­ identità 16 .

Questo non significa affatto sostenere che il soggetto sieda sereno presso di sé, signore del territorio e controllore del pensiero. Al contrario: la difficoltà a riconoscere che un semplice portatore 1 ' è sempre qualcosa di più di un semplice portatore, sta proprio in questo: nel fatto che l'esi­ stenza individuale appare quasi come un residuo empirico, del tutto su­ perfluo alla costruzione. Ma pure senza questo riconoscimento, si ottiene l'effetto per cui la verità, che pure riguarda il singolo esistente, è da lui indifferente, separata: è in qualche misura verità assoluta - ab saluta - e pura. È vero che per l'interpretazione è necessaria dapprima una certa quantità di distanza 18 , ma quel che vale qui serve in generale a ogni inter- pretazione, compresa quella che cerca di rimettere il soggetto al suo giusto posto. Tra le molte possibile, forse la più stringata esposizione del proble­ ma, si trova nel saggio Su soggetto e oggetto.

Soggetto può riferirsi tanto al singolo individuo quanto a determinazioni univer­ sali. [...] L'equivocità in questione non è eliminabile sic et simpliciter mediante una mera chiarificazione terminologica. Questo per il fatto che i due significati hanno reciprocamente bisogno uno dell'altro 19 .

16 Ibidem, pp. 38 e 47.17 Tràger, in tedesco sono gli individui-supporto delle funzione sociali della pro­

duzione.18 Cfr. Th.W. Adorno, Parole chiave. Modelli critici, cit., p. 167.19 Th.W. Adorno, Soggetto e oggetto, in Paorle chiave, cit., pp. 211-31. La citazio­

ne è a p. 211.

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120 CRITICA DEL NON VERO

E Adorno prosegue spiegando:

in un certo senso cioè i concetti di soggetto e oggetto, anzi ciò a cui sono riferiti, hanno la priorità su ogni definizione. [...] Di qui la resistenza che soggetto e oggetto oppongono alla definizione. [...] La riflessione che nella terminologia filo- sofica va sotto il nome di intentio obliqua, è il controriferimento da parte di quell'ambiguo concetto di oggetto a un non meno ambiguo concetto di soggetto. La seconda riflessione riflette la prima... La scissione tra soggetto e oggetto è nel contempo reale ed apparente. È vera, perché nell'ambito della conoscenza dell'ef­ fettiva scissione, della dissociazione della condizione umana, da espressione a un che di necessariamente divenuto; falsa, perché la scissione, risultato di un processo in divenire, non dev'essere ipostatizzata 20 .

Fino a qui «tutto semplice»; più che questione di ricercare il rapporto tra concetti si tratta di riconoscere come i nomi indichino posizioni di funzione che mutano e che tuttavia si ripresentano a ogni conoscenza. L'indicazione a non ipostatizzare la scissione viene immediatamente circo­ scritta:

la scissione diventa ideologia, addirittura la sua forma normale, non appena sia fissata senza mediazione. [...] L'immagine di una condizione temporalmente o extratemporalmente originaria di felice identità di soggetto e oggetto è [...] roman­ tica; in certi momenti è stata la proiezione del desiderio, oggi è soltanto una menzogna. L'inseparabilità, prima che il soggetto si costituisse, era il terrore del contesto naturale cieco, era il mito 21 .

E del resto Adorno avverte: l'inseparabilità non è unità. Insomma, la scissione è una scissione che è essa stessa avvenuta nell'ambito del sogget­ to. Come ogni altra revoca, anche questa non può avere il suo pertugio nella regressione. La funzione dell'Io deve essere conservata ma separan­ dola il più possibile dalla miseria cui la riduce l'aggressione sociale. Si intende cosi che cosa Adorno voglia evitare specificando il valore del primato dell'oggetto:

«priorità dell'oggetto» significa [...] che il soggetto [...] è dal canto suo oggetto, come l'oggetto, dal momento che di fatto viene conosciuto non altrimenti che mediante la coscienza, è anche soggetto. [...] La mediazione si riferisce al mediato. Ma il soggetto, il concetto portante della mediazione, è il come, e mai, in quanto contrapposto all'oggetto, il quid che viene postulato da ogni rappresentazione

211 Ibidem, p. 213. 2Ì Ibidem.

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concepibile derivante dal concetto di soggetto. Il soggetto potenzialmente [...] può essere pensato indipendentemente dall'oggettività; ma non si può fare altrettanto per la soggettività rispetto all'oggetto. [...] La priorità dell'oggetto è Vìntentio obliqua dell'intendo obliqua 22 .

È questione di qualcosa di simile ad una 'semiotica sociologica' 23 : problema del superamento - per una volta nella classica accezione hege­ liana - del realismo ingenuo. Si deve render ragione sia dell'esistenza degli oggetti solo come «oggetti a noi» (il che vale anche ovviamente per i soggetti, soggetto compreso), sia dell'esperienza inevitabile nella quale gli oggetti mostrano tutta la loro indipendenza da noi.

Perché l'oggetto diventa qualcosa unicamente in quanto è determinato. Nelle determinazioni che apparentemente gli conferisce solo il soggetto, s'impone la sua propria oggettività. [...] Viceversa il presunto oggetto puro, esente dall'ingrediente del pensiero e dell'intuizione, è proprio il riflesso dell'astratta soggettività: solo essa eguaglia a sé l'altro mediante l'astrazione. L'oggetto di un'esperienza integra, a differenza del sostrato privo di intenzioni [...], è più obiettivo di quel sostrato. [...] La sua eredità è però toccata in sorte ad una critica dell'esperienza che ne raggiunge la condizionatezza storica, e in definitiva sociale. Perché la società è immanente all'esperienza non allo gbénos. Solo l'autocoscienza sociale della cono­ scenza la fa pervenire alla sua oggettività. [...] La critica della società è critica della conoscenza, e viceversa 24 .

L'esperienza dell'oggetto, ma anche del testo come oggetto, richiede un primato del testo che tuttavia è possibile solo come critica della società, ovvero, principiamente e individualmente, come critica che consenta l'esperienza della società. Se una certa quantità di astrazione è in esso, e nulla può il soggetto (il ricettore o l'autore) per aumentarla o diminuirla, è perché essa corrisponde alle determinazioni sociali espresse in quel testo e, in generale, determinanti la forma e la formazione dei testi. Il principio dialettico fondamentale dell'estetica di Adorno - che i rapporti sociali si traducano in arte come contenuto formale - vale anche in sede di gnose­ ologia o, detto ancor più chiaro, vale anche come principio dialettico della critica dell'ideologico. All'interno dell'esperienza individuale delle forme, si richiama l'esperienza non individuale, proprio perché quella è sociale

22 Ibidem, p. 218.21 Cfr. P. Zima, Adorno et la crine du langagc: pour une critìque de la parataxis, in

<Revue d'Esthétique», nuova serie, 1985, n. 8.24 Th.W. Adorno, Soggetto e oggetto, in Pelarle chiave, cit., pp. 218-19.

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J22 CRITICA DEL NON VERO

come questa. Eppure al suo interno, come critica, è presente il momento soggettivo. Proprio come in Hegel, il negativo è individuale; ma'la positi­ vità lungi dall'essere quel che deve instaurarsi alla fine del processo, è, in ogni singolo momento astratto, tutta in atto. Ma questa totalità, che regna, come si esprime Adorno, mercé la menzogna, non è tutto. Quel che sfugge ad essa non è attuale, sebbene abbia partecipato dell'attualità: se il prin­ cipio di realtà è di «realtà sociale» 25 , l'oggettività che si raggiunge con la sua acccttazione non può essere altro che quella del prodotto sociale, della produzione socialmente organizzata, il cui primato si manifesta nella stra­ na parodia per la quale si deve passare per un massimo di soggettività per arrivare all'oggetto. È questa l'identità di critica della conoscenza e critica della società. Ma il processo di interpretazione del suo movimento, è il modello (scriveva Adorno nel citato saggio Die Aktualitdt der Philosophie) della conoscenza tout court, perché anche in essa si tratterebbe di raggiun­ gere l'oggettività. Anche in essa l'eliminazione del soggetto non contribu­ isce alla obiettività ma piuttosto alla liberazione dal negativo resistente. Non perché il soggetto, nel «mito religioso della lettura» 26 , disponga del- l'interpretazione - ma al contrario: perché esso è una disposizione dell'in- terpretazione. Dell'ideologia che appronta, per tutti, la realtà sociale entro la quale viene percepito, si fa esperienza tanto del sociale quanto del naturale. Anche per l'interpretazione la critica della società è critica del- l'interpretazione, e viceversa.

Che cosa comporta questo nella lettura filosofica delle opere? ed in particolare in Hegel? forse sostituire ad ogni parola un corrispettivo socio­ logico? Certamente no, ma allora: qual è la chiave del significato dei testi hegeliani? Scrive Adorno:

nella cerchia dei grandi filosofi Hegel è certo l'unico nel cui caso non si sa, alla lettera, e neppure si può convenientemente decidere di che cosa mai si stia discor­ rendo; e nel cui caso anche la possibilità eli una tale decisione non ha documen- tabilità. [...] Solo la fantasia esatta [...] arriverà, senza ricorrere a forzature, a illuminare 2 '.

È il momento individuale la chiave tramite le quale si può aprire il senso del testo hegeliano; ma questo accade in dirczione contraria al sog-

25 Cfr. F. Jameson, Late marxism. Adorno and thè Persistence of thè Dialectic, Verso, London 1990. In particolare le pp. 23-82 e 97-140.

26 Cfr. L. Althusser, Leggere il Capitale, op. cit.27 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., pp. 135-36.

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gettivismo - anche al soggettivismo senza soggetto dello strutturalismo psicoanalitico -, accade poiché l'oscurità di Hegel è Verwandlung ins Gebilde: trasmutazione in forma di una oscurità della forma sociale che non è intelligibile a se stessa. L'individuale è allora da interpretare nella misura in cui riflette in sé i rapporti sociali; ovvero sia quando ne è espres­ sione, e si tratterà allora di critica all'ideologia, sia quando la riflessione è essa stessa critica, e deve compiere l'atto dialettico di rivolgersi anche contro se stessa, di comprendere se stessa come fenomeno della totalità. È questo un processo interpretativo, ma del tutto particolare, perché rivol­ to a un oggetto del quale non è garantita da nessun Dio, in anticipo, la chance teorica di una esatta decisione. Esatta fantasia e esatta decisione sul senso sono, come già accennammo, cose distinte. Questo ha certamente un suo motivo nel fatto che, nella dialettica, non solo verità e interpreta- zione non sono separabili 28 , ma soprattutto l'interpretazione e il «risulta­ to» sono dei processi: l'atto ermeneutico avviene comunque a priori del­ l'esperienza per il soggetto empirico, che solo nel rifletterlo - e quindi nella critica dialettica - può portarlo a trasparenza. È perché l'esperienza è sempre mediata che la mediazione diviene non una tra le scelte possibili ma l'unica conoscenza. Essa non rincorre cose in sé ma il processo delle cose; e non si contenta di svelare che non esiste nulla di immediato tra ciclo e terra, ma vuole afferrare il processo, cioè la cosa per come è insie­ me alla negatività che riposa in essa. Per usare una metafora si potrebbe dire che il processo è un mostro dormiente da destare. Ma l'afferrabilità di un processo, al contrario di quanto accade nelle scienze empiriche della natura, è secondo Adorno, strettamente dipendente dall'esperienza effet­ tiva del processo. Non ci sono esperimenti possibili, la partecipazione del soggetto è parte dell'oggetto, cioè del processo-oggetto come di quello soggetto, e della loro relazione. Cosi anche nella lettura non ci sono scor­ ciatoie; l'esperienza del pensiero va ripetuta, e il circolo ermeneutico da legge gnoseologica si intreccia alla critica della società. Così quando Ador­ no argomenta che:

non si deve procedere, sorvolando sui passaggi nei quali rimane in sospeso di che cosa essi trattino; ma la loro struttura di senso si dovrebbe derivare dal contenuto della filosofia hegeliana. Il carattere dell'essere sospeso le è intrinseco, in accordo con la dottrina che il vero non lo si afferra in nessuna tesi particolare, in nessun enunciato definitivamente positivo. In Hegel la forma è commisurata a questa sua

Ibidem, pp. Ile sgg.

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intenzione. Niente si lascia comprendere isolatamente, tutto è solo nell'intero; con la penosa difficoltà che l'intero ha di nuovo la sua vita unicamente in quella dei suoi singoli momenti 29 ;

intende dire che il rapporto tra le parti ed il tutto comprende non solo le parti ed il tutto del testo ma soprattutto le parti ed il tutto sociali delle quali il testo è una parte; la dialettica insomma è così attenta al testo - la penetrazione del quale si protrae fino alle sue strutture formali - che l'esperienza che fa di esso e il suo concetto - come nella più classica dialettica della Fenomenologia dello spirito - le fanno sorgere all'interno del testo stesso le determinazioni non testuali.

Una dialettica non bloccata è allora incompatibile con il testualismo. L'interpretazione dialettica riconosce l'importanza del formalismo ma come eclettica della forma, non affatto come esaurimento del senso. La dialettica dei minimi passaggi è più realista del re, è tanto minima da riuscire a passare attraverso le maglie strette che vorrebbero trattenere sempre e solo all'interno dell'universo testuale. Il processo del testo, i suoi passaggi, sono stretti tra il carattere discontinuo dell'esposizione linguisti­ ca e quello processuale continuo del vero che si tratterebbe di afferrare. Alcune frasi allora dovranno essere lette non per il loro contenuto mani­ festo, ma come specie di retoriche funzionali, qualcosa a metà strada tra il «passaggio minimo» strutturale e la funzione concettuale. E non sono affatto rari i tentativi adorniani di spiegare questa metonimicità della fe­ nomenologia dialettica, facendo riferimento proprio alla musica; esperien­ za, del resto, non rara né esoterica. Per comprendere la tesi kantiana del noumeno, ad esempio, è probabilmente irrinunciabile capire prima il suo valore di posizione all'interno della costruzione gnoseologica della critica della ragione, e non solo il contenuto che sotto quel concetto dovrebbe cadere. E questo modo di intendere è piuttosto vicino, per un verso, proprio alla struttura del linguaggio, dove il valore delle parole ha due facce: una, per dir così, di etichetta, e un'altra di valore posizionale 30 . Ma

29 Ibidem, p. 137.50 Interessante sarebbe, su questo punto, una riflessione sulle tesi esposte da

Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche. Proprio nell'esempio del «gioco linguistico» in atto nella costruzione di una casa, si vede chiaramente come esso rimandi a elementi non linguistici in senso stretto. La funzione denominatrice del linguaggio, insieme con quella antropologko-trascendentale, sono in relazione al costruire; come nel celebre esempio marxiano, anche qui, persino il peggior architetto è migliore dell'ape, perché almeno uno dei due giocatori deve avere in mente altro oltre al gioco affinchè il «gioco» riesca.

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Adorno ha in mente qualche cosa di più: non è solo la strettoia espressiva di un linguaggio che appare discontinuo di fronte al suo proprio contenu­ to che discontinuo non è, o è ma di una discontinuità affatto differente, a rendere processuale la verità, e inafferrabile in contenuto di certe pro­ posizioni. L'espressione della verità non può rinunciare del tutto al mo­ mento mimetico, non solo perché questo è costitutivo della sua esperienza, ma anche perché l'esposizione, la rappresentazione del vero, è in parte mimesi del carattere di questo 31 . Lo è, cioè, come trasformazione. Dire che il vero è processo non significa, insomma, solo identificare essenza e divenire (Wesen ist was gewesen ist, scrive Hegel), ma anche rivendicare il carattere processuale dell'espressione del vero. Così come nella realtà non c'è un punto che sia il perno e l'origine di tutto, anche nel pensiero, o nello scrivere, non ci si deve affidare al singolo giudizio, ma comporre la costellazione del vero.

Questa necessità rende finalmente chiaro il continuo richiedere la partecipazione dell'esperienza individuale al processo interpretativo, al fine di renderlo fruttuoso per la comprensione. Scrive per esempio Ador­ no che:

nel caso di questo concetto [la produktive Einbildungskraft kantiana] dovete sem­ plicemente cercare di rappresentarvi realmente qualcosa, di dargli un contenuto concreto. [...] In genere la regola fondamentale per capire la filosofia è di non accontentarsi solo di comprendere il valore di posizione dei concetti all'interno di un pensiero i2 .

Allora si deve dunque seguire il significato dato dal valore di posizio­ ne della categoria, come scritto negli studi su Hegel, e, al contempo, stare in guardia dal farsi trascinare nella moda di sostituire ovunque al conte­ nuto il valore di posizione, come se la filosofia fosse un gioco di simula­ zione? Né l'uno né l'altro.

Di fronte a qualsiasi concetto filosofìco - dove penso ai difficili testi hegeliani della Fenomenologia e della grande Logica - dovete [...] cercare di rappresentarvi con­ cretamente ogni discussione concettuale, per quanto astratta e difficile possa ap­ parire. Interpretare la filosofìa significa sempre non limitarsi solo a chiarire il valore di posizione nel contesto deduttivo o induttivo, ma cercare anche di rap-

51 Per la «partecipazione del mimetico al vero» cfr. il saggio Aspetti della filosofia hegeliana, contenuto nel già citato Tre studi su Hegel, dove si tratta del rapporto tra imitazione, ideologia e mimesi, tra filosofia e costituzione sociale.

52 Th.W. Adorno, Terminologia filolofica, cit., voi. I, p. 261.

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presentarsi in modo veramente evidente lo stato di fatto che è oggetto della discus­sione.

E dopo aver citato Husserl, conclude chiarendo ancora:

se leggete La riproduzione dell'immaginazione o se sentite parlare di «noi», del «nostro pensiero» o della «nostra coscienza», dovete cercare di dare un contenuto concreto a questi termini, di rappresentarvi qualcosa".

Attesa, memoria, desiderio e rappresentazione del contenuto, sono le condizioni dell'interpretazione. Ma che rapporto tra la necessità di affer­ rare il valore di posizione e quella di rappresentarsi ovunque, per ogni concetto, qualcosa di concreto? Detto chiaro: che rapporto tra valore di posizione ed esperienza? Vediamo un esempio; nella critica musicale Adorno parla di verità o falsità di una certa forma e successione. Bene, non si può sostenere che i rivolti che aprono il secondo movimento della sonata per pianoforte 111 di Beethoven, ad esempio, siano in sé veri o falsi - dire che un accordo di do maggiore con un sol basso sia falso è un vero non senso. Eppure esiste la possibilità, per contro, di dimostrare come quella precisa soluzione formale beethoveniana sia la risoluzione giusta del problema costituito dal consumarsi dell'uso degli accordi rivoltati nel­ l'opera sinfonica, della quale la sonata 111 è insieme punto di massima differenziazione e rassomiglianza. Ora, non è tanto questione di fornire quella dimostrazione, sulla cui correttezza si potrebbe discutere a lungo; il fatto è che di fronte a un problema esiste qualcosa che può essere giusto o sbagliato, mentre l'espressione e la comunicazione non possono dirsi tali, se non a patto di concepirsi anch'esse riferite a un problema, un enigma. Ma, ed è qui che la cosa si complica, nell'ambito delle interpre- tazioni filosofiche, cioè critiche, l'atto della comprensione e quello della critica, l'afferramento dell'espressione e il giudizio critico, sono insepara­ bili; infatti:

è in genere falsa la concezione [...] che la critica debba istituirsi in secondo grado sulla base di ciò che si è inteso. La filosofia ha il suo adempimento nella perma­ nente disgiunzione del vero e del falso. L'atto del capire si compie nel medesimo momento e con ciò stesso è virtualmente anche critica di ciò che è da intendersi }4 .

33 Ibidem, pp. 261-62.34 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 197.

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E dunque se non sono separabili come si «disgiunge» il vero dal falso? L'inseparabilità di comprensione e giudizio, richiama quella tra comprensione del valore di posizione e rappresentazione del contenuto d'esperienza. «Ad ogni istante sono da tenere in considerazione - scrive Adorno - due massime apparentemente irriducibili: quella di un minuzio­ so calarsi nella cosa e quella di un libero distanziarsene» 51 , mentre chi leggendo Hegel sostituisce la «trasparenza del singolo momento con la determinazione del valore di posizione del dettaglio nel sistema, rinuncia già a capire con rigore» 36 . «Una fedeltà che si tenga immanente alla inten­ zione di Hegel richiede [...] che per capirlo si completi o si sorpassi ad­ dirittura il testo», ovvero:

non serve a nulla meditare su singole formulazioni criptiche. [...] È meglio [...] ricostruire i contesti di situazioni che continuamente stanno dinanzi a Hegel, anche quando la sua formulazione se ne distacca. Più importante di ciò che egli aveva in mente è ciò di cui parla; dal programma si deve ricostruire la situazione di fatto e impostare il problema per procedere a pensarvi in modo indipendente. [...] - il segreto del metodo filosofico è presumibile che sia tutto qui; che intendere e risolvere un problema siano lo stesso - allora anche l'intenzione di Hegel si chiarisce, sia che ciò che egli pensava cripticamente ora si disveli da sé, sia che le sue considerazioni si articolino attraverso le loro stesse omissioni ".

Il problema d'esperienza e il valore di posizione, servono, devono servire, quindi da indicatori di quale sia la domanda a cui l'autore da risposta, e che, per forza di cosa, nella risposta è dileguata; a seconda di come si dispongono i termini concettuali di un problema si ottiene la risposta. Proprio come nei saggi degli anni Trenta 3X ritorna adesso la relazione tra problema e risposta. Da un lato l'impostazione è la compren­ sione, ma attraverso di questa si compie una nuova riflessione, una inten- tio obliqua dell'intentio obliqua, perché la comprensione coincide con l'at­ to del giudizio. Quel che resta è «la cicatrice» del problema, con la sua parte morta e insieme alla viva, cioè quel che non è stato sciolto ma solo rimosso e nascosto. Ed è precisamente la parte viva a cui ci si riferisce chiedendo che l'oggettività venga conservata nella soggettività e non no­ nostante essa. Quanto scrisse Heidegger nell'analitica esistenziale dell'Es- serci, vale anche per la filosofia di Adorno: senza soggettività concreta,

" Ibidem, p. 141.56 Ibidem, p. 142.57 Ibidem, pp. 181-82.58 In particolare Cfr. Th.W. Adorno, Die Aktualitdt der Philosophie, op. cit.

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ontica e esistentiva, non c'è prospettiva di accesso neppure al problema ontologico, giacché questo, per paradossale che paia, è creato da quella: ciò che viene per secondo determina l'importanza e il valore di ciò che è per primo.

L'interprelazione deve rendere ragione di questa inversione. Ed essa è nascosta come pura inversione linguistica. La necessità di stare tra la totalità della funzione concettuale, la sua forma, e la particolarità del­ l'esperienza, del contenuto che bisogna assegnare ad ogni proposizione, completandola e andando oltre di essa, tale doppio dovere, è, per Adorno, reso possibile dalla paradossale struttura del linguaggio: «... ogni linguag­ gio filosofico è un antilinguaggio, contrassegnato dal marchio della pro­ pria impossibilità» 39 . Riferendosi al linguaggio come comunicazione e espressione, dunque, la filosofia ha come possibilità solo quella antilingui­ stica. Anche qui si chiarisce il problema per differenza.

La sentenza di Wittgenstein: «Si deve tacere di ciò di cui non si può parlare» è schiettamente antifilosofica. [...] La filosofìa potrebbe definirsi, sempre che sia definibile, come sforzo di dire ciò di cui non si può parlare 40 ;

e tale sforzo è una lotta contro il linguaggio, in qualche modo, e attraverso di esso. La chiarezza, e la distinzione, non sono peculiarità del linguaggio, piuttosto oscura coscienza, cioè ideologia nel senso in cui Adorno scrisse che l'ideologia contiene il vero, dei limiti linguistici contro i quali deve procedere la riflessione sul linguaggio per eccellenza - secondo il Nostro in filosofia:

la richiesta di chiarezza s'impiglia nel linguaggio, poiché il linguaggio delle parole non consente propriamente chiarezza [...], linguisticamente la chiarezza è ugual­ mente in dipendenza dalla posizione del pensiero rispetto all'oggettività; in quanto si lascia dire come chiaro, senza residui, solo ciò che è vero 41 - e quin­ di - propriamente si può comprendere filosoficamente solo ciò che è vero. Rea­ lizzare il giudizio in cui si comprende, coincide con la decisione sul vero e sul falso 42 ;

59 Ibidem, p. 147.40 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 148.La citazione di Wittgenstein è tratta dal Tractatus Logico-philosophicus, cit., p.

285.41 Ibidem, p. 151.42 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 56.

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e infine ancora: «il linguaggio stesso, che è un indice del vero, è indice del falso» 43 , come nella Dialettica negativa:

per essere feconda la filosofia si getta a fona perdu negli oggetti. La vertigine che ne deriva è un index veri, lo shock dell'aperto, la negatività, quale essa appare necessariamente nel previsto e nel costante, non verità solo per il non vero 44 .

Accostando citazioni, tratte alternativamente da Dialettica negativa e dai Tre studi su Hegel, non solo si verifica che quanto scritto nei secondi non sia relativo alla questione linguistica solo per come essa si presenta nei testi di Hegel, ma anche e soprattutto si evidenzia meglio l'elemento non linguistico. Esso è, per Adorno, inscindibile dal linguaggio ma non iden­ tico. Il paradosso rimane intatto: la verità è mediata dal linguaggio - non solo epistemologicamente o gnoseologicamente - poiché la realtà stessa è mediata dal linguaggio. Ma Adorno si rifiuta al riconoscimento di qualsiasi primato al medium sul mediato. Il linguaggio è indice del vero e del falso perché è solo attraverso di esso che la dialettica, come arte del «tener fermo il concetto», può esercitarsi. Ovvero è l'unico medium della nega­ tività nei confronti del reale. Ma non è esso stesso né l'una né l'altro. Scrive Adorno 45 che la dialettica tien fermo il concetto rispetto al variare di quanto è sotto di esso contenuto, per poter alfine comprendere, cioè decidere, se l'errore stia, volta per volta, dalla parte dell'immobile o del variato. Lo stesso invita a fare per la comprensione della filosofia: andare alla ricerca delle invarianti terminologiche per scoprire quale movimento di pensiero stia sotto di esse, giacché il loro ritornare non è mai l'eterno ritorno dell'identico. I due movimenti qui prospettati, quello della critica e quello della comprensione, sono simmetrici e speculari. In essi il linguag­ gio ha la sua parte poiché conserva sia il fisso che il mobile; il fisso grazie alla reificazione che il concetto di identità conferisce alle parole, il mobile a causa del variare del valore di posizione e del significato, a seconda del contesto e della costellazione nei quali si incontrano i termini.

Tuttavia la forma del problema non ha solo queste tre dimensioni. Il linguaggio è scisso, per Adorno, anche nella sua funzione espressiva e comunicativa, cosi che:

Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 151.Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 30.Cfr. Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit. pp. Ile sgg. e 199 e sgg.

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meglio di ogni altro si toglierebbe dall'imbarazzo un linguaggio filosofico che mirasse all'intendersi senza scambiarlo con la chiarezza. Il linguaggio come espres­ sione della cosa non finisce nella comunicazione - esso però - non è [...] indipen­ dente dalla comunicazione. [...] Il linguaggio come espressione della cosa e il linguaggio come partecipazione sono inscindibilmente intrecciati. [...] Anche il comportamento linguistico più integro non può eliminare l'antagonismo di in sé e per altro. [...] Il momento della universalità, senza il quale nessun linguaggio sarebbe tale, vulnera inevitabilmente la piena determinatezza del particolare che esso vuole appunto determinare nella sua costituzione di fatto. Il correttivo è lo sforzo, per quanto sempre irriconoscibile, a intendersi. Questo rimane come polo opposto alla pura oggettività linguistica. Solo nella tensione dei due poli si rag­ giunge la piena verità dell'espressione 46 .

Comunicazione e espressione sono i due poli anche dell'atto interpre­ tativo. In uno l'autore congela il linguaggio attraverso la propria esperien­ za a un grado massimo di espressione, ma la riconversione alla comunica­ zione, che l'ermeneutica dovrebbe garantire, deve sciogliere e nel contem­ po conservare non l'intenzione ma la sostanza dell'espressione. E la so­ stanza dell'espressione deve essere, di nuovo, la cosa. Ma essa è costituita anche dal «vissuto», per prendere a prestito da un ambito diverso questa espressione, del soggetto. Per questo, non per intendere l'ermeneutica come ricostruzione psicologica o storico-ideologica della soggettività, Adorno chiede che l'interezza dell'oggetto sia salvaguardata attraverso un di più, e non un di meno di soggettività. La cosa è sociale, e sociale significa: mediata dal soggetto, che è a sua volta determinato dall'ambito sociale, fin nella propria esperienza, nella forma e nelle strutture della propria esperienza. Un modello interpretativo che togliesse la soggettività, non avrebbe in mano la cosa stessa, ma solo il residuo sociale ineliminabile dal fatto che pensare significa sempre comunque pensare qualcosa 4 '. Non si deve cercare di comprendere che cosa avesse in mente Hegel, scrive Adorno, ma che cosa è scritto nei suoi testi: giacché quel che fu in mente a Hegel è ben di più di quel che Hegel aveva in mente. Di esso parteci-

46 Ibidem, pp. 152-53.47 Cfr. Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 31.La quesione trova, tuttavia, la sua trattazione in Th.W. Adorno, Metacritica alla

gnoseologia, op. cit. Si possono consultare in proposito i seguenti studi critici: F. Dall- mayr, Phenomenology and Criticai Theory: Adorno, in «Cultural Hermeneutics», voi. Ili, 1976; U. Galeazzi, Kant e Husserl nei primi lavori filosofici di Adorno, in «Rivista di filosofia neoscolastica», 1983, pp. 263-87; C. Pettazzi, La fase trascendentale del pensiero di Th.W. Adorno: Cornelius, in «Rivista critica di storia della filosofìa», 1977, pp. 436-49.

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pano motivi sociali - forme e nascondimenti, in misura preponderante oscuri all'autore. La «misura preponderante» esige che si vada oltre il testo e lo si completi, mentre l'«oscurità» si può leggere solo attraverso i vuoti del testo.

È qui da tener presente che i vuoti del testo, che abbiamo già cercato di evidenziare come elementi oscuri d'esperienza leggendo i Minima mo- ralia, e come residui mimetici nella Dialettica dell'illuminismo, sono diver­ si dai vuoti del linguaggio stesso. I primi vengono conservati, sono possi­ bili, grazie ai secondi, ma né sono l'unica conseguenza, né costituiscono il punto di approdo. I vuoti del concetto sono i momenti qualitativi indivi­ duali che il concetto, per essere identificazione, deve sopprimere. Al con­ trario quelli del testo indicano la peculiare cristallizzazione della funzione concettuale in un dato momento storico, col suo intreccio sociale specifico e determinato. Ad esempio, nel testo Materialismo e morale^*, Horkheimer ricostruisce la genesi del senso critico morale a partire dall'evoluzione della funzione della tradizione nel Medioevo. Non ci interessa qui la cor­ rettezza di tale analisi, quanto piuttosto rilevare che esiste differenza tra la differenza di quel che Kant pensava sotto il concetto di interesse e di volere morale e quel che effettivamente giaceva in tale scissione (secondo Horkheimer il problema dell'armonia prestabilita di egoismi, proprio del capitalismo coevo a Kant), e il fatto che la parola sola «interesse» riunisce sotto di sé momenti qualitativi diversi, che possono emergere solo in co­ stellazioni variate, fino al limite di una per ogni individuo. Non solo ma, secondo Adorno, di fronte a tali costellazioni abbiamo raggiunto solo il valore espressivo della cosa. Per arrivare fino al suo proprio contenuto è necessario - obbligo simmetrico e opposto - fare la «verifica dei nomi» 49 , dare, si direbbe in linguaggio ingenuo, ad ogni cosa il suo giusto nome, ovvero affrontare l'operazione dialettica di una esperienza non immiserita ma ancora collegata al desiderio. E questa l'operazione interpretativa cri­ tica, la identità di comprensione e giudizio.

Senza la funzione universale del concetto non sarebbe possibile cri­ ticare il reale, ma tale funzione è già, in una qualche misura, una soppres­ sione di caratteristiche individuali del reale. E ancora: senza desiderio non

4 * M. Horkheimer, Kritische Theorie. Eine Dokumentation, voi. I, Fischer Verlag, Frankfurt a. M. 1968; ed. it. Teoria critica, trad. G. Backhaus, Einaudi, Torino 1974. Il saggio in questione si trova alle pp. 71-109.

49 Operazione metaforicamente analoga a quella suggerita da F. Fortini, Verifica dei poteri, Einaudi, Torino 1989, pp. 215-219.

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sarebbe possibile la decisione di tener fermo il concetto e tentare di cam­ biare il reale, ma seguendo il solo desiderio si rischia di identificare pen­ siero e reale prima che essi siano giunti a una qualsiasi sorta di relazione. Il desiderio è genesi del concetto. Avevamo già trovata questa affermazio­ ne (nei Minima moralid) là dove Adorno rivendicava la produttività delle «lacune del testo», la forza che le soppressioni davano alla capacità di esprimere della cosa l'essenziale. Vediamo adesso come tale intreccio si dipani in esigenze precise nell'uso della funzione linguistica, dalla com­ prensione della quale dipende l'atto interpretativo. Scrive Adorno:

lo sforzo del sensorium linguistico, verso la pregnanza è molto più grande di quello che si richiede a tener ferme le definizioni meccaniche. [...] Quel procedimento è poi anche insufficiente. Le parole infatti, nelle lingue empiriche, non sono affatto puri nomi, ma sempre anche thesei, prodotti di coscienza soggettiva. [...] Il lin­ guaggio filosofico non ha qui altro rimedio che adoperare quelle parole, le quali se fossero usate alla lettera come nomi dovrebbero fallire, con una cautela tale da ottenere che attraverso il loro valore di posizione si possa diminuire quella arbi­ trarietà;

concludendo che:

un corretto comportamento linguistico potrebbe paragonarsi al modo col quale un emigrato impara una lingua straniera. Sotto la spinta della necessità e dell'impa­ zienza egli può, piuttosto che adoperare il dizionario, leggere tutto quanto gli sia accessibile. Molti termini si esplicheranno già nel contesto, ma avvolti ancora a lungo da una cortina di indeterminatezza tollereranno equivocazioni anche ridico­ le, fino a che per la ricchezza delle combinazioni nelle quali appaiono finiranno col chiarire i loro equivoci; e meglio di quanto consentirebbe il dizionario, nel quale già solo la scelta dei sinonimi è affetta da tutta la limitatezza e indifferenzialità linguistica del lessicografo 50 .

Questa dichiarazione spiega bene che cosa Adorno intenda per il significato delle parole. E anche in che modo le costellazioni rendano la loro parte ad esso. Ci sarebbe da aggiungere tutta la parte extratestuale di esse, ma quel che qui interessa notare è che Adorno, seppur sotto excu- satio di una metafora, propone come modello del 'giusto' apprendimento linguistico quello della lingua non madre. La cosa è davvero sorprendente, e tanto più se si considera l'uso che della propria lingua fece Adorno 51 , e

Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., pp. 153-54. Cfr. M. Jay, Th.W. Adorno, op. cit., et passim.

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la sua ritrosia a esprimersi in inglese. Nei Minima moralia con gli stessi identici argomenti, si giungeva a sostenere che l'emigrato, quand'anche utilizzi la sua lingua madre, è sempre minorato dal fatto di vivere in un paese dove non si parla quella lingua. E allora?

Che cosa ha l'apprendimento di una lingua straniera che non è invece posseduto dalla lingua madre? Adorno scrisse un saggio sull'unico scrit­ tore europeo moderno che decise di non esprimersi nella propria lingua madre: Beckett^2 . In esso si sostiene che nessun linguaggio può sbarazzarsi del tutto del suo elemento semantico per divenire puramente mimetico o pura catena di significanti. I valori mimetici, scrive Adorno, una volta separati a forza da quelli semantici cadono preda dell'arbitrio e poi, anco­ ra, di un nuovo tipo di convenzione, essa stessa a sua volta portatrice di una semantica. La soluzione beckettiana è differente. Anziché cercare di seguire il flusso di pensiero-linguaggio senza darsi pena di afferrarlo, nella pura rappresentazione di esso, Beckett sceglie la «poesia di un linguaggio che nega il linguaggio» 53 - ovvero la trasformazione dell'elemento seman­ tico nello «strumento della propria assurdità». Ma che cosa fa preferire la lingua straniera appresa non tramite dizionario? Anche nella lingua madre ci sono costellazioni, semantica, sintassi, valori di posizione, elementi mimetici, e via dicendo. Anche le parole della lingua madre, anzi esse di più forse, conservano tutta la memoria della lingua. In esse si notano meglio le sfumature e la musicalità, anch'essa tanto cara e spesso portata a modello da Adorno. Ma le due cose non sono in opposizione.

La filosofia si rappresenta il comportamento del bambino [...] con l'antropomor­ fismo dell'adulto. [...] Ciò che al bambino da da fare è piuttosto il suo rapporto con le parole, che si appropria con uno sforzo quasi non più immaginabile in un'età successiva. [...] Egli vuole rendersi conto del significato delle parole, e l'occuparsi di esse [...] gli fa afferrare il rapporto tra parola e cosa. Potrà annoiare la madre con il penoso problema, perché la panca si chiama panca. La sua inge­ nuità non è ingenua. [...] Il senso delle parole e il loro contenuto di verità, la loro «posizione rispetto all'oggettività» non sono ancora nettamente distinti: sapere che cosa significa la parola panca e cos'è realmente una panca [...] si equivale. [...] Heidegger ha dalla sua parte il fatto che non c'è nessun in sé senza linguaggio, che quindi la lingua è nella verità, non questa in quella come qualcosa di meramente

'2 In effetti non è proprio vero che Beckett sia l'unico - per citare solo un altro: Canetti - ma certo è un esempio paradigmatico perché la scelta non ha relazioni con necessità esteriori.

" Th.W. Adorno, Tentativo di capire il «Finale di partita», in Note per la lettera­ tura, voi. II, cit., p. 292.

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denotato dalla lingua. Tuttavia il contributo costitutivo della lingua alla verità non ne fonda l'identità. La forza della lingua si verifica in quanto nella riflessione espressione e cosa si diversificano. La lingua diventa istanza di verità solo con la coscienza della non identità dell'espressione con il denotato. Heidegger si nega a tale riflessione, si ferma dopo il primo passo della dialettica della filosofia del linguaggio. Il suo pensiero è restaurazione anche nel senso che tramite un rituale del nominare vorrebbe ristabilire il potere del nome. Ma [...] con la secolarizza­ zione i soggetti hanno sottratto alle lingue secolarizzate i nomi, e l'oggettività del linguaggio richiede la loro intransigenza, non una confidenza filosofica in Dio. Il linguaggio è più che segno soltanto grazie alla sua forza significativa, quando possiede ciò che intende nel modo più preciso e serrato 54 .

La «secolarizzazione» di cui parla Adorno, ha svolto qui sul serio quel che viene prospettato come vantaggio della lingua straniera: ha di­ sgiunto natura e linguaggio. L'irruzione della distanza è proprio ciò che si rimprovera a Heidegger di non aver voluto vedere. Il potere (Gewalt] del nominare era generato dall'unione naturale di nome e cosa, naturale e cioè: divino. Tutto è linguaggio, ammette Adorno, ma il linguaggio non è tutto. Questo è ben più di un chiasme ironico. E il segreto del realismo di Adorno, che lo rende, nonostante ogni sforzo, non assimilabile alle filosofie ermeneutiche di origine heideggeriana. La lingua straniera appre­ sa senza dizionario ha il merito di un esperimento mentale, come li chia­ mava Piaget, unico e quasi irripetibile. Possedendo una lingua è possibile registrare l'esperienza dell'apprendimento di una lingua. Possedendo il linguaggio è possibile avere coscienza dell'esperienza dell'apprendimento del linguaggio. Cosa che non fu possibile la prima volta perché la prima volta non c'era soggettività che potesse registrare l'esperienza che ha isti­ tuito la soggettività. Ma questo non significa che il linguaggio sia la sog­ gettività. Né viceversa. L'esperimento/esperienza rompe l'incantesimo del soggetto e del linguaggio. Al primo ricorda che la sua stessa coscienza non gli appartiene a-dialetticamente, ma al secondo riporta la sua posizione di thesei. Non solo ogni lingua è storica, ma lo è, abbiamo intravisto anche nella Dialettica dell'illuminismo, il linguaggio stesso. Certo oltre di esso si cade probabilmente nella preistoria. Ma la preistoria non è un nulla. E del resto Freud, e dopo di lui altri e altre, hanno mostrato come neppure la preistoria dell'individuo sia nulla. Adorno richiede che il comportamento linguistico abbia verso se stesso un atteggiamento di distanza e insieme si

54 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, eh., pp. 99-100. È significativo il fatto che questo paragrafo abbia come titolo «Das kindliche Frage». Purtroppo nell'edizione italiana i titoli dei paragrafi sono misteriosamente scomparsi.

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getti del tutto entro la cosa. La prescrizione appare paradossale, ma vedia­ mo come si possa esplicare nell'atto della lettura, ritornando agli studi su Hegel.

All'inizio del terzo saggio Adorno scrive che Hegel sarebbe l'autore nei cui testi non è possibile decidere, nemmeno in linea di principio, quale sia il senso di certe frasi, né a priori se esse ne abbiamo uno. Sono - prosegue Adorno -, la Grande logica e la Fenomenologia, dei «quasi testi», anzi la Grande logica non lo è più. Per essi vale come paradigma universale del pensiero quel che quasi letteralmente in altro luogo è l'essenza della comprensione musicale, qui e lì:

il tempo è articolabile solo attraverso le distinzioni del noto e non ancora noto di ciò che è stato e del nuovo; il procedere ha a condizione una coscienza che scorre all'indietro. Si deve conoscere per intero una frase, certificarsi in ogni istante retrospettivamente di quanto è preceduto. I singoli passaggi sono da ritenersi conseguenza di questo; occorre realizzare il senso della rammemorazione declinan­ te, sentire ciò che riappare non come corrispondenza architettonica bensì come un divenuto che si impone per forza propria".

Ed ecco allora come «si deve leggere» Hegel:

L'esperienza soggettiva è solo il guscio di quella filosofica, la quale matura al di sotto e poi lo getta via. [...] Hegel lo si deve leggere di contrasto, anche di maniera che ogni operazione logica, per quanto si presenti come puramente formale, venga addotta al suo nucleo di esperienza. L'equivalente di tale esperienza è nel lettore l'immaginazione. Se questi volesse meramente constatare che cosa significhi un passo, o addirittura inseguire la chimera di indovinare che cosa mai l'autore abbia voluto dire, gli si volatizzerebbe il contenuto della cui certezza filosofica egli va perdutamente in cerca. Nessuno può estrarre da Hegel più di quanto vi immetta. Il processo di intendere è la progressiva autocorrezione di simili proiezioni attraverso il confronto con ciò che sta scritto. La cosa stessa contiene, come legge della sua forma, l'aspettativa di una fantasia produttiva nel lettore. Proprio nella frattura fra esperienza e concetto deve inserirsi il comprendere. Dove i concetti si costituiscono ad apparato indipendente [...] è qui che bisogna riportarli ali'esperienza spirituale che li ha motivati: occorre rivitalizzarli quanto essi vorrebbero e invece non possono. [...] Si può leggere Hegel solo associativamente. Ciò di cui si deve fare il tentativo è di lasciare che ad ogni passo del testo entrino nel giro tante possibilità dell'inten­ zionato, tante relazioni ad altro, quante sono quelle che si affollano e premono. La prestazione della fantasia produttiva consiste, non da ultimo, in questo 56 .

" Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 188. 56 Ibidem, pp. 190-93. Corsivi miei.

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Con questo abbiamo di nuovo toccato il paradosso nevralgico della lettura: all'universale si accede solo tramite l'esperienza individuale. La fantasia produttiva - che già trovammo come medium, ars inveniendi per la soluzione del carattere di enigma, nel testo del 1931 - ritorna qui: si ritrova in Hegel solo ciò che vi si immette. Il comprendere deve inserirsi nella frattura fra esperienza e concetto, ma per poter far ciò è necessario che il concetto possa restare per un attimo come qualcosa di fermo, e questo accade nel linguaggio. E al contempo l'esperienza deve essere imitata; non nel senso ingenuo di «far finta che», ma più profondamente. Le invarianti del testo di Hegel, «compito paradossale» chiama Adorno il loro rinvenimento, sono l'appiglio entro il quale è possibile leggere la forma dell'esperienza che si va compiendo. Il confronto è tra la dialettica concetto/esperienza del testo e l'esperienza della lettura di quel testo. Ma essa stessa non è separabile dalla memoria, non solo del testo, ma dell'in­ tero soggetto - intero: anima, corpo e demone - che è di fronte al testo. Non c'è bisogno di eliminare il soggetto per detronizzare il soggetto asso­ luto. Tale critica ha già pensato la realtà a compierla. La chance dell'inter­ pretazione deve raccoglierla per ricostruire anche il 'testo' di essa, e non per darsene un principio. Perché nella differenza tra l'esperienza della lettura - triade di concetto esperienza e riflessione - e l'esperienza del lettore - cosciente e incosciente - «nulla che sia non-vero si lascia capire. Così ciò che non si capisce fa saltare il sistema» 57 . Ecco la funzione delle «lacune»: aprire ali' a- concettuale tramite concetti senza renderselo identi­ co. Ma questo può essere fatto solo nella doppia lettura del testo. Doppia lettura che è dialettica in quanto assegna alla fantasia dell'interpretazione di far emergere tutte le differenze tra cosa e testo grazie alla, seppur relativa, fissità che il linguaggio garantisce al testo. È pur vero che tale dialettica si instaura anche tra testo e testo, per dir così, da soli. Ma solo alla presenza del negativo, cioè del desiderio dell'individuo.

LA MEMORIA DEL GIOCO E IL DOLORE DEL RICORDO

Abbiamo visto che la dialettica negativa può risolvere il problema della totalità grazie a quel particolare genere di riassunto della totalità che è l'individuo Tràger del capitalismo, e che tale risoluzione è in bilico tra

57 Ibidem, p. 199.

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la funzione negatrice del pensiero, manifestantesi nel linguaggio, e l'imma­ nenza del testo. Si dovrà adesso render ragione di questa facoltà dell'in­ dividuale mostrando come memoria e ricordo siano il terminus a quo del pensiero critico.

La metafora del gioco, strettamente connessa a quella di costellazio­ ne, è in Adorno, come in due suoi celebri contemporanei, Gadamer e Feyerabend 58 , presente in funzione polemica: «contro il dominio totale del metodo la filosofia contiene, in funzione correttiva, il momento del gioco, che la tradizione della sua scientifizzazione vorrebbe eliminare del tutto» 19 . C'è una componente antikantiana - ben analizzata, per esempio, da Habermas 60 - in questa opposizione. Il metodo, se così si può ancora chiamare, è determinato dalla verità dell'oggetto. Se questa si pone come negazione della falsa apparenza della sua identità, il metodo sarà determi­ nato dalla negazione della falsa identità, sarà, in ultima istanza, una nega­ zione determinata. Questa categoria hegeliana viene accettata da Adorno come l'eredità centrale del pensiero del filosofo della dialettica, mentre il punto di distanza è dettato dal rifiuto a una soluzione gerarchica della negazione. Quel che in Hegel si organizza a sapere assoluto deve rimanere, secondo Adorno, a uno stadio precedente: semi-smontato nella forma paratattica. Tale situazione, simile alla dialettica in stato di quiete proposta da Benjamin, non solo evita di porre in gerarchla concetti e cose secondo determinazioni che appartengano solo al soggetto, ma di per se stessa, come semplice cifra stilistica, si oppone alla realtà nella quale mediante il principio di scambio degli equivalenti, ogni ente viene gerarchizzato in base alle leggi dello scambio.

Nel Saggio come forma, abbiamo visto come veniva presentato lo stile paratattico; se la filosofia vuole sfuggire all'effetto di apologià non deve soggiacere all'illusione che il reale sia rappresentabile sotto forma di siste­ ma. Poiché la forma è divenuta del contenuto, e quindi l'istanza ideologica può celarsi anche interamente nei 'soli' aspetti formali, per questo il sag­ gio, facendo della forma fratta la sua forma, nei vuoti che lascia, nelle incompletezze che non colma, indica come ciò di cui tratta sia esso stesso

58 Cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, op. cit.; e P. Feyerabend, Contro il metodo, traci. L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1984. Per una coincidenza questi due testi sono, curiosamente, pressoché contemporanei della Dialettica negativa, il testo «meto­ dologico» di Adorno.

' 9 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 13.611 Cfr. J. Habermas, Conoscenza e interesse, trad. G.E. Rusconi, Laterza, Bari

1973; in particolare le pp. 209 e sgg.

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vuoto e manchevole. Questo vuoto e questa manchevolezza non sono certo dichiarabili nei puri nomi. Tra l'altro essi tendono di per sé alla identità, e quindi alla pienezza del coincidere. E del resto un nome non può da solo essere vuoto, neppure quando si tenga a pieno regime la sua funzione significante, che è, scrive Adorno, ciò in virtù di cui solo il nome è di più che un semplice segno. Il fratto, la rinuncia alla sistematica, vanno conquistati innanzitutto sotto l'aspetto formale in due punti nevralgici: nel riconoscimento della fondamentale operazione di astrazione e identifica­ zione che il linguaggio ha compiuto nella storia della evoluzione dell'uo­ mo, e quindi anche nel riconoscimento dei debiti che questa evoluzione ha contratto con il non universale e il non identico, e in secondo luogo nella radicalità della critica, o meglio della autocritica, che i concetti debbono compiere su tale astrazione. Davvero l'illuminismo - in ultima istanza anche quello nietzscheano - è ineliminabile. La strada del ritorno è bloc­ cata. La radicalità della critica illuminista contro il mito - non in ultimo quindi contro se stessa come spiegato da Horkheimer e Adorno - collega il procedimento paratattico alla strada ermeneutica della critica immanen­ te; l'assenza di centro, il rifiuto della paratassi alla subordinazione gerar- chizzata, sono anche un modo del cominciamento della critica come chia­ rificazione del non-vero 61 .

Il processo della critica immanente esige necessariamente l'elaborazio­ ne di una dialettica della domanda e della risposta; se la negazione deter­ minata trova il suo paradigma in una critica penetrante del relativismo, come scrisse Adorno, è perché la dialettica non può fare a meno di qualcosa di costante, ha si un cominciamento: «però non gli attribuisce più il pri­ mato» 62 . Ovvero: contro l'indifferenza dello scetticismo, che nasconde sempre la propensione ad apologizzare il più forte, la negazione determi­ nata chiede, in prima istanza, che resti la differenza tra vero e falso. Se la negazione di qualsiasi universale si capovolge in acccttazione supina del falso universale che di fatto domina nella società, di contro a questo la negazione determinata non propone affatto un differente universale ma confuta la pretesa di identità tra la negazione teoretica dell'universale e la

61 Cfr. Th.W. Adorno, Paratassi in Note per la letteratura, voi. II, cit., pp. 127-69.I commentatori che hanno riconosciuto il legame tra critica immanente e paratassi

in Adorno sono molti. Tra essi si possono vedere: M. Barzaghi, Dialettica e materialismo in Adorno, op. cit., pp. 142-43; R Bodei, Adorno e la dialettica, op. cit., pp. 446-48; G. Rose, The melancholy science, op. cit., pp. 12 e sgg.

62 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 34.

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non esistenza de facto di un universale. Ma è appunto tale atteggiamento che esige a suo sostegno la critica immanente: essa prende sul serio le dichiarazioni del testo, cerca le domande alle quali esso indica di voler rispondere, e infine giudica se le risposte fornite siano corrette, ovvero relative alla domanda posta, e giuste, ovvero se dissolvano il carattere della domanda. La sua norma è ben definita da Adorno con parole scritturali.

La volontà di non farsi saziare, di apprendere qualcosa di essenziale dalla filosofia, viene deformata da risposte tagliate sul bisogno, ambigue tra l'obbligo legittimo di offrire pane, non pietre, e la convinzione illegittima che debba essere pane perché così dev'essere, - poiché - l'urgenza di una questione non può costringere a dare una risposta, se non si riesce a ottenerne una vera, - allora - sarebbe nullo il pensiero senza bisogno, che non vuole nulla; ma il pensiero a partire dal bisogno si confonde se il bisogno viene concepito in modo meramente soggettivo. I bisogni sono un conglomerato del vero e del falso: vero sarebbe il pensiero che desidera il giusto 65 .

Come avevamo già notato, alla fine, non c'è critica né negazione senza bisogno e desiderio di soddisfazione, giacché essenza del pensiero - modellata su quella del lavoro - è la negazione 64 .

Per chiarire questo punto torniamo per un attimo al «bisogno» di sistema. Adorno riconosce in esso il tentativo di dare rappresentazione razionale a ciò che razionale non è, neppure come sistema di sistematico dominio, mentre scrivere senza idea sistematica sarebbe ancor più ideolo­ gico. Così si è costretti a pensare senz'altro entro l'idea sistematica ma senza pretendere di soddisfarla, imitando la soddisfazione nevrotica che la totalità sociale offre ai suoi membri. Se si abbandonasse del tutto l'idea che la realtà debba essere rappresentabile entro un sistema razionale, entro un «risarcire i frammenti» come si esprime Adorno, allora qualsiasi ingiustizia e violenza del singolo sul singolo sarebbe, a fondo, non critica­ bile. Alla critica è necessario un punto fermo, ripete Adorno, ma senza che se ne faccia un principio 65 . Così:

pensare è, già in sé, prima di ogni contenuto specifico, negare, resistenza contro ciò che gli viene imposto... [...] Violentando ciò su cui si esercita le sue sintesi il pensiero segue anche un potenziale che attende in ciò che gli sta di fronte, e ubbidisce senza coscienza all'idea di risarcire i frammenti, per ciò che esso stesso

ìbidem, pp. 63, 189 e 83.Cfr. ìbidem, p. 18.Cfr. Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 127 e sgg. e pp. 157 e sgg.

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ha compiuto; la filosofia diventa cosciente di questo fatto inconsapevole. La spe­ ranza della conciliazione accompagna il pensiero inconciliabile, poiché la resisten­ za del pensiero contro il meramente essente, l'imperiosa libertà del soggetto, inten­ de ottenere dall'oggetto anche ciò che esso ha perduto a causa della sua trasfor­ mazione in oggetto. [...] Però il bisogno del sistema [...] era allora qualcosa di più che pseudomorfosi dello spirito rispetto al metodo irresistibilmente affermantesi delle scienze matematiche e naturali. [...] All'ombra dell'incompletezza della pro­ pria emancipazione la coscienza borghese deve temere di venir annullata da una più avanzata [...] perciò dilata teoreticamente la propria autonomia a un sistema. [...] La ratto borghese si propose di produrre dal suo interno l'ordine che aveva negato all'esterno. Ma quello in quanto prodotto non è più un ordine, e quindi è insaziabile. Un tale ordine prodotto in modo insensato-razionale fu appunto il sistema: qualcosa di posto. [...] Esso doveva spostare la sua origine nel pensiero formale scisso dal contenuto. [...] Il sistema filosofico fu fin dall'inizio antinomico. In esso l'approccio si fondeva con la propria impossibilità: agli inizi dei sistemi moderni essa ha appunto condannato l'uno alla distruzione ad opera del succes­ sivo. La ratio per affermarsi come sistema che estingueva virtualmente tutte le determinazioni qualitative, cui si riferiva, fini in inconciliabile contrasto con l'og- gettività, cui faceva violenza, pretendendo di afferrarla. Se ne allontanò tanto più quanto più completamente essa l'assoggettò ai suoi assiomi. [...] La grande filoso­ fia fu accompagnata da uno zelo paranoico di non tollerare nient'altro che se stessa. [...] La proliferazione dei sistemi [...] annuncia con la sua non-verità quella dei sistemi stessi, ciò che hanno di folle. [...] Gli animali da preda sono affamati; assalire la preda è difficile, spesso pericoloso. Affinchè l'animale lo tenti ha biso­ gno di impulsi supplementari. Essi si fondono con il senso sgradevole della fame, formando un'ira rivolta alla preda la cui espressione a sua volta atterrisce e para­ lizza opportunamente quest'ultima. Progredendo nell'umanizzazione ciò viene razionalizzato tramite proiezione. L'animai rationale, che brama l'avversario, deve trovare un motivo, essendo già beato possessore di un Super-Io. Quanto più com­ pletamente ciò che egli fa segue la legge dell'autoconservazione, tanto meno egli deve ammetterne il primato a sé e agli altri. [...] L'essere vivente da divorare deve essere cattivo. Questo schema antropologico si è sublimato fino nella gnoseologia. [...] Il sistema è il ventre divenuto spirito, l'ira è il segno di ogni idealismo 66 .

È dunque dovere dell'interpretazione resistere alla medesima tenta­ zione a demonizzare il proprio oggetto. Anch'essa si salva da ciò solo se rinuncia alla sistematicità. Questa rinuncia e la costellazione sono, nel risultato, la medesima cosa.

66 Ibidem, pp. 18 e sgg. Sulla traduzione di questo brano si sono rese necessarie delle piccole modificazioni rispetto alla versione offerta, con un certo dispregio della sintassi italiana, da Donolo.

Da notare le rassomiglianze con la funzione che la Begierde svolge nella Fenome­ nologia di Hegel, nel passaggio dal solipsismo dell'autocoscienza al dialogo di due autocoscienze, prima della dialettica tra signoria e servitù.

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Comprendere una cosa, non semplicemente inserirla, riportarla al sistema di coor­ dinate, non è altro che cogliere il momento singolo nella sua connessione imma­ nente con altri. Un tale antisoggettivismo si muove, sotto l'involucro scricchiolante dell'idealismo assoluto, nella inclinazione a spiegare di volta in volta le cose da trattare ricorrendo al modo in cui divennero 67 .

La constatazione è semplice: il sistema risponde si a un bisogno, ma la domanda e la risposta che esso fornisce sono taciute. Mentre la cosa chiede non di essere inquadrata in un ordine sistematico, ma che si sciol­ gano in costellazione gli elementi dei quali è intimamente composta; ma questa è anche la regola ermeneutica della interpretazione tramite critica immanente. La costellazione non è semplicemente il campo di forza dei concetti. Essa conserva, a differenza dell'uso decostruzionista, il momento unificante. Sono concetti, in dialettica con la loro esperienza (come abbia­ mo già visto) che richiedono la partecipazione di altri sia per loro stessi che nella composizione individuale e sociale (quindi soggettivamente in­ conscia) della loro esperienza.

Il momento unificante [senza il quale il relativismo gioca dalla parte dei puri rapporti di forza] sopravvive, senza negazione della negazione, ed anche senza affidarsi all'astrazione come principio supremo, per il fatto che non si avanza dai concetti gradualmente fino al concetto supremo, ma che essi si presentano in costellazione. Questa illumina l'elemento specifico dell'oggetto, che per il proce­ dimento classificatorio è indifferente o un disturbo. Ne è un modello l'atteggiarsi del linguaggio. Essa non offre un mero sistema di segni per funzioni conoscitive. Quando si presenta essenzialmente come linguaggio, diventando rappresentazione, essa non definisce i suoi concetti. Essa da oggettività ai concetti grazie al rapporto in cui li pone, centrati su una cosa. [...] Soltanto le costellazioni rappresentano dall'esterno quel che il concetto ha tolto via nell'interno, il di più che esso vuoi essere, per quanto non possa esserlo 68 .

La concettualizzazione appare chiara. In primo luogo la costellazione non è linguistica tout court; pertiene alla cosa ed è linguistica in quanto e nella misura in cui l'esperienza della cosa è linguistica essa stessa. In se­ condo luogo, sempre tramite il linguaggio, comprendiamo meglio quanto avevamo incontrato precedentemente, la paradigmaticità dell'apprendi­ mento di una lingua straniera senza dizionario: essa è un apprendimento per costellazioni - è, in un certo senso, mimesi delle costellazioni reali.

Ibidem, pp. 22-23. Ibidem, p. 145.

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Un'altra citazione dallo stesso testo, indica il rapporto tra essenza e costel­ lazione: «quando una categoria si modifica [...] muta la costellazione di tutte e quindi ciascuna» 69 . La mutevolezza delle costellazioni indica una relativa mutevolezza dell'essenza. Detto meglio: l'essenza è data dalla co­ stellazione, mutato un solo termine di questa, modificato il gioco delle relazioni, anche l'essenza singola ne viene in parte modificata. Scrive Adorno che «non si deve filosofare sul concreto, ma a partire da esso», e che per questo: «la verità è oscillante, fragile a causa del suo contenuto temporale» 70 . Da qui l'invito adorniano: se il concreto tende a occultarsi dentro un carattere sincronico, solo la ricognizione sulla concretezza come tale porta al nocciolo temporale della verità. Temporalità che significa non solo che il tempo, il divenire, fanno essenzialmente parte del vero, dell'og­ getto vero, ma anche, e questa è una suggestione benjaminiana 7 ', nel senso che la verità cambia a seconda delle condizioni materiali nelle quali viene espressa. Per poter muoversi in tali mutazioni, essendo il punto di vista del soggetto tendenzialmente statico, ci si deve servire di quel che Adorno chiama, con riferimento al Kant della Critica della facoltà di giudizio, immaginazione produttiva. E appunto la modificazione in senso dialettico di questa categoria che porta Adorno a intrecciarla costantemente con la metafora del «gioco». Una prima funzione di tale metafora è ancora rivol­ ta contro la prepotenza del modello matematico-scientifico naturale: «con­ tro il dominio totale del metodo la filosofia contiene, in funzione corret­ tiva, il momento del gioco, che la tradizione della sua scientifizzazione vorrebbe eliminare del tutto» 72 . Ma quindi si prosegue:

il pensiero non ingenuo sa quanto poco esso penetri nel pensato, e deve pur sempre parlare, come se lo possedesse interamente. Così assomiglia al gioco di downs. Esso può tanto meno negare tali tratti, in quanto essi soli gli aprono uno spiraglio di speranza su ciò che gli è negato. La filosofia è quanto di più serio ci sia, ma cosi seria poi non lo è nemmeno.

69 Ibidem, p. 149.Non sfuggirà a nessuno l'assonanza di questa affermazione adorniana con quelle

fatte da De Saussure prima, e poi da tutti gli strutturalismi che alla sua linguistica si richiamano. Cfr. in proposito P. D'Alessandro, Darstellung e soggettività, La Nuova Italia, Firenze 1980, e F. Jameson, La prigione del linguaggio, trad. G. Franci, Cappelli, Bologna 1982.

70 Ibidem, p. 30 e p. 31.71 Tra le molte delineazioni di questo tema, sembra particolarmente importante

quella operata da F. Muzzioli, Interpretazione e presa di posizione nella critica letteraria di Walter Benjamin, in «Allegoria», II, 1990, n. 4.

72 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 13.

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E si precisa che il gioco garantisce la speranza solo:

quanto mira a quel che esso stesso a priori non è già e su cui non detiene alcun potere garantito, appartiene secondo il suo concetto a una sfera del non domato, che è stato reso tabù dall'essenza concettuale.

Ecco a che cosa apre il gioco: al non concettuale, nella traccia della sua permanenza attraverso il ritorno dell'elemento mimetico, preconcet­ tuale. Non tramite regressione tuttavia bensì:

il concetto può sostenere la causa di ciò che ha rimosso, della mimesi, solo appro­ priandosi, nei modi di atteggiarsi, di qualcosa di essa, senza perdervisi. In questo senso il momento estetico non è accidentale alla filosofia. [...] È però anche suo compito toglierlo nel rigore delle sue conoscenze del reale. Queste e il gioco sono i suoi poli. [...] Arte e filosofia hanno un elemento comune non nella forma o nel procedimento formativo, bensì in un atteggiamento che rifiuta la pseudomorfosi. Entrambe restano fedeli al loro contenuto 7 '.

Qualunque campo di definizione, costellazione, etc., pone in primo luogo l'esclusione; ed in generale la posizione delle determinazioni pre­ suppone la possibilità del loro rinvenimento. All'interno della riflessione filosofica sul linguaggio questo significa che la «discrezione» concettuale - i rapporti all'interno della costellazione -, così come quella formale degli elementi minimi fonetici o segnici, è il fondamento di ogni operazione linguistica. Il linguaggio, secondo Adorno, è non nonostante ma proprio grazie a tale paradosso: esso ha bisogno delle più minime differenzialità per poter astrarre e comporre unità parzialmente indifferenziate. Questa situazione non va sciolta a favore di nessuno dei due corni. Ed inoltre questo problema ha la sua accentuazione nel salto, immotivabile in ultima istanza nel solo pensiero ma proprio perché non riguarda il solo pensiero, dal sistema al reale definito o, come scrive Adorno «dal pensare al pen­ sato», che pure il pensare sa di non afferrare mai. In questo passaggio l'alterità dei segni, trapassa nella negazione.

È questa la radice, da un punto di vista linguistico, della dialettica negativa. Essa contraddice alla operazione idealistica secondo la quale quanto è differente dal campo definito non è portatore del nome, e poiché questo «nome» diviene poi il centro di attrazione del discorso, la non reggenza esclude non solo teoreticamente delle qualità, ma molto più:

73 Ibidem, p. 14.

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esclude dell'aura di significanza. E poiché il carattere metaforico del lin­ guaggio accentua l'aurea etica del senso 74 , allora l'esclusione è sempre, in una qualche misura, una rimozione a dei diritti. È questa l'altra faccia, probabilmente la più importante, del «realismo» degli universali in Ador­ no. Contro a esso, a correttivo, vediamo adesso sorgere la limitazione del diritto del concettuale: il nominalismo, per dirla in un'altra maniera, poi­ ché lascia del tutto indifferenti i rapporti reali tra le cose, si capovolge nel suo contrario. Giacché non può sfuggire del tutto alla significanza, al rimando oltre il piano linguistico, quando ciò avviene si trova sprovvisto dell'organo di senso tramite il quale dar, finalmente, parola al reale.

Questa situazione è simile a quella descritta da Freud a proposito della difficoltà a parlare dell'inconscio, nel duplice senso, soggettivo e oggettivo, del complemento di specificazione. Che ci si possa servire di un sistema di segni de-realizzato e moltiplicato, al punto da non incorrere nella dialettica dell'esclusione, o da incorrere in una sola rimozione origi­ naria, è una possibilità che non si incontra nei testi adorniani. Ma del resto non è essa a occuparci qui. Piuttosto dobbiamo mostrare come il «gioco», la fantasia esatta e produttiva, servano da correttivo al caposaldo vero e proprio del metodo scientifico: la definizione. Perché è in realtà contro di essa, secondo la più classica delle tradizione dialettiche, che Adorno uti­ lizza quella metafora. La definizione è sempre preceduta dalla presa di partito per essa, e dalla indifferenza al definito. In questo è compreso un momento di mascheramento ideologico fondato su di un artificio retorico. Dapprima viene posto il contenuto della definizione e le sue determinazio­ ni. Queste vengono successivamente fatte passare al vaglio della critica. La scoperta di erroneità porta alla predicazione, per negativo, del loro inver­ so. Questa sorta di dialettica teologica poggia sintomaticamente in realtà non sulla prova della erroneità della definizione ma proprio sulla defini­ zione stessa - sul concetto identico, nel fatto e nel modo del suo essere posto, cioè nella rimozione del 'posto' a favore dell'essere. Con una specie di «risentimento»', la diversità tra costruzione concettuale e la sua critica e decostruzione, appare tanto più marcata quanto meno, nell'intelligenza del testo, si è tenuto conto proprio della sua costitutiva, e irrinunciabile anche in via di principio, spezzata interezza. Così come per il bisogno di

74 Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-88, voi. Vili, tomo II, delle Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1971. In particolare alle pp. 129 e sgg.

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sistema, come abbiamo visto. Accade allora che il termine «altro» contro il quale viene rivolta la critica, sia stato posto a bella posta dal soggetto, che poi, nel pensiero critico, lo prende come reale ed effettuale - rimuo­ vendo la riflessione sui motivi, sulla ragione sufficiente, della definizione come processo di ragione.

Immaginiamo, per esempio, che si potesse parlare con la volpe della fiaba, quella che decide di rinunciare all'uva perché posta troppo in alto, e giustificante la disdetta con la frase: «del resto è ancora acerba», e chiederle perché mai tanta passione per quei frutti: essa resterebbe inter­ detta. Infatti è il fatto di dover essere una 'volpe' che rende problematico alla volpe il rinunciare all'uva - dimostrarsi incapace di risolvere un pro­ blema è la negazione dell'identità della volpe, giacché Volpe' significa: quell'essere che, nel proprio essere, possiede astuzia a sufficienza per dominare ogni situazione problematica. Se la volpe vuole l'uva deve po­ terla avere: altrimenti non è una vera 'volpe' - è qui che l'animale si rende conto di dover stare attento ai propri desideri giacché gli è fatto obbligo di essere sempre in grado di soddisfarli. Allora interviene l'attività di masche­ ramento, rivolta nella fiaba all'oggetto, ma nella realtà, come ben sappia­ mo, liberissima di risolversi contro le volpi stesse. Cosi ogni definizione dovrebbe, a costo di prendere partito per una causa persa, tenere presente come questo destino da volpe sia il pericolo nascosto nel suo successo.

Il nominalismo si comporta, insomma, come il positivismo giuridico che è a sua volta il diritto nato a difesa del capitalismo della borghesia: è la legge che fa esistere il reato e non l'esistenza di reati che richiede una legislazione; salvo poi l'aporia del fondamento costitutivo dell'intero ordi­ namento. L'interpretazione critica deve, secondo Adorno, comportarsi al contrario; deve fantasticare intorno a possibili reati, per così dire, e inven­ tare per essi delle leggi e delle pene appropriate. Fuor di metafora la critica non ha altro fondamento che la teoria, ma la teoria sì, ne ha un altro. Nel testo del 1931 sull'attualità delle filosofia avevamo incontrato come organo dell'interpretazione la strana ars inveniendi condotta dalla esatta fantasia sul materiale messo a disposizione dall'enigma stesso. An­ cora, quindici anni più tardi, nei Minima moralia Adorno indicava nel ricordo e nel desiderio i padri del pensiero, dove il parricidio più che liberazione implica solo la castrazione. Dovrebbe ora essere chiaro qual sia il fondamento della fantasia e delle metafore sul «gioco». Nella stessa teoria estetica, in più luoghi, l'arte è rappresentata come «gioco», come fuochi d'artificio. Ma un gioco dove libertà e costrizione convivono, di nuovo proprio come nel bisogno di sistema; senza legge, nessuna libertà:

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«Nullum criminem, nulla poena sine lege». Ma il ribaltamento della logica del diritto, che abbiamo appena proposto come metafora dell'interpreta- zione, ha la sua dialettica all'interno della negatività motrice della critica; il ricordo è il suo contrappeso 75 . Adorno stesso ha espresso l'alternativa ultima dell'individuo nell'epoca del capitalismo maturo come quella tra «diventare adulti o restare bambini». Domandare, come fa il bambino, perché la panca si chiami 'panca' va oltre la sua propria ingenuità, per toccare il punto estremo del carattere mimetico del pensiero che rifiuta la pseudomorfosi; e la violenza del gioco infantile che nel ricordo dell'adulto diviene di struggente felicità, si mostra come metafora paradigmatica del pensiero in Adorno.

Come gli individui hanno troppo poche, e non troppe inibizioni, senza essere per questo di un briciolo più sani... - allo stesso modo - il talento non è forse altro che rabbia felicemente sublimata, la capacità di tradurre quelle energie che, un tempo, si esaltavano oltre ogni limite nello sforzo di distruggere gli oggetti che opponevano resistenza, e di essere altrettanto tenaci e implacabili nella ricerca del segreto degli oggetti come il bambino che, un tempo, non si dava pace finché non aveva strappato al giocattolo tartassato la sua voce lamentosa.

E ancora:

poiché anche le più remote oggettivazioni del pensiero traggono alimento dagli impulsi [Trieben], il pensiero, distruggendoli, distrugge la condizione di se stes­ so [...] il pensiero che uccide il suo padre, il desiderio, è colpito dalla nemesi della stupidità [...] espulsa la fantasia, è esorcizzato anche il giudizio, il vero atto cono­ scitivo,

ed è per questo che: «veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi», e che comunque agisca:

l'intellettuale sbaglia. Egli sperimenta radicalmente, come una questione di vita, l'umiliante alternativa di fronte alla quale il tardo capitalismo mette segretamente tutti i suoi sudditi: diventare un adulto come tutti gli altri o restare un bambino - perché - in ogni pensiero non ozioso resta il segno dell'impossibilità di una completa legittimazione: come, in un sogno, sappiamo di lezioni di matematica

75 Tra i molti critici che hanno trattato questo tema, quello che meno lo ha costretto nella sola relazione tra la filosofia di Benjamin e quella di Adorno - e quindi il più utile per noi qui - è quello di T. Perlini, Infanzia e felicità in Adorno, in «Comu­ nità», 1972, n. 161-62.

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perdute per una beata mattina in letto, e che non sono più recuperabili. Il pen­ siero attende che un giorno il ricordo di ciò che è stato perduto lo ridesti, e lo trasformi in teoria 76 .

La materia del desiderio è il gioco, ovvero la trasformazione tramite desiderio, degli elementi del ricordo. A questa trasformazione è del tutto estranea la questione della verità, del rispecchiamento oggettivo, del ricor­ dato. Purché il ricordato si tinga del colore della felicità, la forza che il ricordo di questa fornisce, permette la messa in moto della fantasia imma­ ginativa. Perché essa sia anche «esatta» si deve tuttavia misurare con le comprensioni fornite dalla riflessione: questa dialettica è quella propria dell'atto interpretativo — giacché: «il vero atto conoscitivo è il giudizio» e «l'atto con cui si comprende e quello con cui si giudica sono il medesi­ mo».

Il desiderio non è libero per essenza, sappiamo bene anzi, e Adorno ce lo ha insegnato probabilmente meglio di tutti, che anch'esso è oramai a disposizione del capitalismo per le proprie funzioni di riproduzione. Quando si fa riferimento ad esso come forza dell'intento critico, non si vuole semplicemente saltare fuori dalla totalità - come se il desiderio individuale fosse un metafisico punto inesteso dal quale procurarsi la prospettiva perfetta per una conoscenza vera e un'interpretazione compiu­ ta. Solamente, ma di nuovo, non il contenuto del desiderio, bensì il suo rapporto con il pensiero è il paradigma della relazione che la critica do­ vrebbe intrattenere con il reale; relazione obliqua per muoversi tra la necessità di riconoscere quel che è senza pagare il prezzo di eternare il tutto. Ed in fondo la questione è semplice: la mediazione sociale rende reale la totalità ma al contempo riconosce in essa l'operare non di forze celesti ma di terrestri uomini; desiderare significa dialettica tra concetto, reale e non identico. Questa dialettica non è a disposizione dell'individuo ma, come quella hegeliana della Fenomenologia, porta a compimento le proprie contraddizioni in forza del negativo determinato che l'individuo empirico è. Dobbiamo quindi ora tornare al rapporto, che l'interpretazio- ne deve afferrare, tra non vero e concetto, alla teoresi della dialettica negativa.

Th.W. Adorno, Minima moralia, op. cit., et passim.

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IDEOLOGIA, UTOPIA E OBBLIGO AL CONCETTO

Per il Giudaismo, legge e morale sono inseparabili. Non so se vi esiste, non credo, distinzione fra il sacro e il profano ma solo quel che è secondo la Legge e quello che non lo è, fra giusto e ingiusto, puro e impuro. In questo senso il Giudaismo è un momento capitale [...] dell'intelletto e del senso; e anche un desiderio o una speranza 7 '.

Queste parole di Fortini valgono anche per la dialettica negativa di Adorno; anch'egli si esprime in uno strano modo a proposito del rapporto tra religione dell'individuo e legge del soggetto.

L'enfasi filosofica sulla forza costitutiva del soggetto tiene però anche sempre lontani dalla verità. Così specie animali come il dinosauro triceratops o il rinoce­ ronte trascinano con sé le loro corazze che li proteggono come una prigione concresciuta, e cercano invano - almeno così sembra antropomorfisticamente - di togliersele di dosso. [...] (così) il momento soggettivo viene come avvolto dall'og- gettivo, è esso stesso oggettivo, come un qualcosa di imposto al soggetto in modo limitante 78 .

La coscienza assoluta - scrive dieci righe prima Adorno - è incoscien­ te. Se l'industria e la pubblicità culturale fornissero solo false rappresen­ tazioni, ad esse sarebbe in qualche modo semplice e agevole contrapporre autentiche rappresentazioni. Dove il criterio di verità è il rispecchiamento, il problema dell'ideologico è decisamente semplice (come si può vedere nello sfortunato episodio epistemologico di Lenin). Ma la produzione ideologica non è così superficiale. Andrebbe semmai immaginata come una sorta di Edipo sociale 79 : come processo di formazione dell'organo di formazione, o come suggerisce Freud, organo difensivo. La ragione sorge come ideologia; intanto soddisfa bisogni e volontà essenziali ai suoi pro­ duttori - e fa questo in quanto struttura l'ordine stesso della relazione tra Io e natura, intcriore e esterna. Quel che essa consegna in eredità ad ognuno, sono le immagini per rappresentarsi gioie e dolori, il linguaggio di quella «impossibile traduzione» cui accennammo a proposito della categoria di «gioco». Essa forma l'occhio e la lingua del pensiero, la sua divisione dal lavoro, il modo di procedere stesso della riflessione, il crite-

77 F. Fortini, Extrema Ratto, Garzanti, Milano 1991, p. 60.78 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 161.7>) Cfr. in proposito F. Vanni e M. Sacchi, Gruppi e identità, Cortina, Milano

1992.

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rio su ciò che costituisce un problema e su quanto può rappresentare una soluzione. È più corretto pensare all'ideologia come produzione del dato - appunto perché esso, come Adorno non si stanca di ripetere, non è mai «dato» - che non cercare di liberarsene come semplice duplicazione irre­ tita e capovolta del vero mondo. E la sua profondità consiste proprio nell'apparenza di totale trasparenza, nel sembrare una sola e semplice superficie.

La sua prima operazione consiste nello spostare l'attribuzione tra natura e storia. Come vedemmo nel saggio Die Idee der Naturgeschichte, e come ancora scrive Adorno nella Dialettica negativa a proposito della resistenza contro la riflessione dialettica:

chi si piega alla disciplina dialettica deve certamente pagare un amaro tributo in termini di molteplicità qualitativa all'esperienza. L'impoverimento dell'esperienza ad opera della dialettica, di cui si scandalizzano le opinioni ragionevoli e sensate, si rivela tuttavia nel mondo amministrato adeguato alla sua astratta monotonia. Ciò che vi è di doloroso nella dialettica è il dolore su quel mondo, elevato a concetto 80 .

Per un verso quindi i caratteri dell'esperienza vengono astratti a ca­ ratteri extratemporali dell'essenza delle cose stesse. Mentre, d'altra parte, l'opposizione del pensiero, il suo carattere irrimediabilmente negativo, viene imputato al solo pensiero come suo vizio dell'origine. In questa situazione la diretta opposizione non avrebbe come risultato che prepara­ re un mercato delle idee, una bancarella di Weltanschauungen, dove ognu­ no possa, indifferentemente, scegliere quella che più gli si adatta. È a correzione di ciò che «la filosofia ha il suo vero interesse là dove Hegel, d'accordo con la tradizione, dimostrava il suo disinteresse: nell'a-concet- tuale, individuale e particolare» 81 , solo li le maglie dell'universale falso entrano in contraddizione con l'aspirazione immanente del particolare a ricevere, entro la propria costellazione, l'universale vero. Però il partico­ lare, individuale e a-concettuale, è senza parola e senza lingua. Il suo coglimento deve essere sempre, nella realtà falsa, uno sgambetto, uno scherzo tirato alla legge di sopravvivenza; legge che è appresa una volta per tutte non appena si cristallizza l'esperienza della dipendenza della duplicazione sociale dai meccanismi di produzione. Non che tale legge venga dichiarata ad ogni singolo uomo che viene sulla terra. Come dicem-

Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 6. ìbidem, p. 8.

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15Q CRITICA DEL NON VERO

mo a proposito della teoria estetica, ogni forma, o legge, è un contenuto, in questo caso dei rapporti sociali, che si è sedimentato fino a divenire inconscio. Se ci occupasse in questo lavoro la storia dei rapporti sociali potremmo cercare di mostrare il processo di scissione tra immagine di sé e immagine dell'altro che interviene nel processo di quella rimozione. Essendo però un altro il nostro scopo, vediamo cosa scrive Adorno sul penetrare l'individuale. «Ma quella parte di verità che può essere colta dai concetti oltre il loro ambito astratto» - quella parte di verità che i concetti devono risarcire all'universale e al particolare, e risarcire due volte: una prima al particolare che è sempre in quanto sussunto anche estinto nel­ l'universale, e una seconda volta perché questa sussunzione nel nostro mondo è prima di tutto una sussunzione reale, e solo dopo anche una sussunzione teoretica, quella parte di verità - «non può avere altra scena che ciò che il concetto opprime, disprezza e rigetta. L'utopia della cono­ scenza sarebbe di aprire con concetti l'aconcettuale senza renderglielo simile» 82 .

Certo la Dialettica negativa conduce la critica all'ideologico, cioè l'au­ tocritica della ragion speculativa, per dir così sulla base del rapporto tra pensiero e non pensiero, sulla base delle trame che di questo rapporto sono le fondamenta, le condizioni di possibilità, per dir così «trascenden­ tali», del sorgere dell'ideologico. Mentre l'esame delle condizioni sociali e politiche è in secondo piano 83 . Pur tuttavia, anche in questo caso Adorno è convinto di mostrare in questo la logica stessa del pensiero nel capita­ lismo maturo. La contraddizione, dice Adorno, afferma dapprima che il concetto non può esaurire il contenuto di ciò che è compreso sotto di esso e che quindi, in termini molto hegeliani: «la contraddizione è il non­ identico sotto l'aspetto dell'identità» 84 .

Che il concetto sia concetto, anche quando tratta dell'essente, non cambia niente al fatto che esso è intessuto a sua volta in un tutto non concettuale, da cui si isola unicamente grazie alla propria reificazione, che pure lo fonda come concetto. [...] Mutare questa dirczione della concettualità, riportarla al non-

82 Ibidem, p. 9.85 È ancora M. Barzaghi ad analizzare il vantaggio che Adorno acquista rispetto

al marxismo ortodosso con questa posizione. Secondo lui l'importanza attribuita da Pollock alla sfera della circolazione, mise gli autori della scuola di Francoforte, e Ador­ no in particolare, in condizione di riconoscere meglio il processo di sussunzione reale in atto anche nella sfera della circolazione.

84 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 5.

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identico, è la cerniera della dialettica negativa. Di fronte alla consapevolezza del carattere costitutivo del non-concettuale nel concetto dovrebbe sciogliersi la coa­ zione all'identità 8 '.

Ma la cosa è complicata dal fatto che la società capitalista si comporta nei confronti della dialettica dell'illuminismo come un parassita: l'ideolo­ gia che essa propone non potrebbe funzionare se non prendesse forza dai meccanismi di quella stessa dialettica illuminista di cui concetto e non concettuale, o identico e non identico, e anche soggetto e oggetto - per voler qui non fare distinzioni per altro importanti - esprimono la radice. Se il pensiero che è sempre identificazione non si ponesse già a disposi­ zione del falso, come ogni assoluta identificazione, in nessun modo po­ trebbero reggersi identificazioni palesemente false. L'ideologico è in qual­ che modo una intentio recta della intentio recta per parafrasare l'atto cri­ tico adorniano della intentio obliqua della intentio obliqua. Nell'interstizio tra le due operazioni di identità il processo interpretativo dovrebbe sfor­ zare se stesso nella prima, e smontare l'illusione della seconda attraverso la propria autocritica. Cosi che la filosofia: «dovrebbe avere il suo conte­ nuto nella molteplicità non inquadrata da alcun schema degli oggetti che le si impongono o che cerca» 86 , dovrebbe, se fosse possibile un simile punto di vista sottratto alla prospettiva. Ma se tale prospettiva non è assumibile, la filosofia si ritrova alla imitazione, alla imitazione del carat­ tere mimetico, alla legge del «come... se ...». Essa, come abbiamo letto, non può far a meno di assumere punti fermi, ma può rinunciare a tener fermo ciascuno di essi. In questo alla filosofia:

il momento espressivo integrale, mimetico-aconcettuale, viene oggettivato solo tramite l'esposizione - il linguaggio. La libertà della filosofia non è altro che la capacità di articolarne Pillibertà [articolare l'illibertà del linguaggio, si intende] 87 .

Questa illibertà, sulla cui duplicità di livello non insisteremo ancora, è smontabile solo attraverso una interpretazione megalomane, una in- terpretazione che esiga dall'interpretato tutte le connessioni della sua costellazione, e principalmente quelle rimosse e che un vuoto hanno lasciato.

85 Ibidem, p. 12.86 Ibidem, p. 13.87 Ibidem, p. 17.

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Con la speranza non garantita che ogni singolo e particolare che essa decifra rappresenti in sé, come la monade leibniziana, quel tutto che come tale le sfugge continuamente, però in base a una disarmonia prestabilita piuttosto che a una armonia 88 .

Penetrazione del particolare, nell'aspettativa che si sveli la disarmonia di universale e non identico, è per Adorno: «pensare filosoficamente per modelli; la dialettica negativa è un insieme di analisi di modelli» 89 . Se il non vero ha le sue proprie connessioni, e se le connessioni sono storiche, allora ogni enigma interpretativo deve ricevere la sua propria risposta. Detto meglio, anche la critica ha bisogno di abbandonare l'astratto univer­ sale: la scoperta della dinamica edipica non consente, per esempio, nessun intervento o miglioramento, fino a quando essa non penetra in quella particolare connessione edipica. Così allo stesso modo, la critica dell'eco­ nomia di scambio del capitalismo maturo, è solo la cornice che dice tutto e nulla, entro la quale ogni singolo fenomeno deve ricevere la ristruttura­ zione delle proprie connessioni; uno sguardo «fisionomico» che rintracci l'universale nelle sue configurazioni concrete che sono sempre particolari. Ed ecco quindi il passo successivo.

La teoria della seconda natura [...] è centrale in ogni dialettica negativa. Essa assume l'immediatezza immediata, le formazioni che la società e il suo sviluppo presentano al pensiero, tei quel, per rivelare con l'analisi le loro mediazioni, secon­ do il criterio della differenza immanente dei fenomeni rispetto a quanto di per sé pretendono di essere 90 .

Dunque il corrispettivo interpretativo della costellazione altro non è che il riconoscimento delle mediazioni, o ancora, il rifiuto cieiroriginarietà in ogni sua forma. Ma paradossalmente il punto archimedeo della inter- pretazione è ciò che i fenomeni «di per sé pretendono di essere», senza di che, senza la distonia tra pretese dei fenomeni e desideri, la critica non potrebbe muovere passo - interpretazione significa critica del non vero. I «desideri» non erano presenti nella citazione; a conferma di questa ag­ giunta si possono tuttavia riportare le parti salienti delle idee, già incon­ trate, sul ruolo della soggettività nel reperimento dei momenti qualitativi dell'oggetto, gli stessi che entrano in contraddizione con quel che i feno-

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meni pretendono di essere. Scrive Adorno che: «in deciso contrasto con il normale ideale di scienza, l'oggettività della conoscenza dialettica ha bisogno di più, non di meno soggetto», perché: «abbandonarsi all'oggetto equivale a rendere giustizia ai suoi momenti qualitativi»; ma questi mo­ menti qualitativi dipendono dalla differenzialità del soggetto e: «è diffe­ renziato chi in essa [esperienza] e nel suo concetto riesce a distinguere ancora il minimo, sfuggente al concetto; soltanto la differenziazione riesce a raggiungere il minimo» 91 . E questo è al sottilissimo confine tra esperien­ za mimetica, quasi somatica, e riflessione razionale:

il momento mimetico sulla via della sua secolarizzazione si fonde con quello razio­ nale. Questo processo si riassume come differenziazione. Essa contiene in sé tanto la capacità di reazione mimetica quanto l'organo logico per il rapporto tra genere, specie e differenza specifica 92 .

In questa fusione troveremo - forma chiasme della parodia - la dia­ lettica tra ricordo e dolore, all'interno della diacronia delle loro forme. Ma per adesso registriamo soltanto come l'elemento mimetico, quasi cieco, ritorni, secolarizzato, all'interno delle forze che possono collaborare al processo interpretativo. E in questo, anche dal punto di vista dei Tràger, è ancora il momento individuale, pur con tutta la sua finitezza e fragilità, attraverso il quale si deve passare.

La coscienza individuale riceve ogni contenuto dal suo portatore, per la sua auto­ conservazione, e si riproduce con essa. La coscienza individuale riesce a liberarse­ ne, ad ampliarsi tramite autoriflessione. A ciò la spinge il tormento per cui ogni universalità ha la tendenza ad acquistare il predominio nell'esperienza indiviciuale. [...] L'universale del soggetto non si fa cogliere altro che nel movimento della coscienza individuale 95 .

Ea verità, nella interpretazione, si raggiunge attraverso un organo di senso che appartiene all'individuo. Nella posizione di fronte al principio di realtà che l'ideologico vorrebbe assegnare a se stesso, la filosofia e l'individuo trovano una comunione.

La filosofia attinge ciò che ancora la legittima da un negativo, dal fatto che quel­ l'elemento insolubile davanti al quale capitolò [...] è a sua volta un feticcio nel suo

91 Ibidem, pp. 37 e sgg.• 2 Ibidem, p. 40.93 Ibidem, p. 41.

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essere-così-e-non-altrimenti, il feticcio dell'irrevocabilità dell'essente. Esso si dis­ solve di fronte alla coscienza che esso [...] è divenuto in condizioni date;

ed è dunque la coscienza storica della mobilità della costellazione, la non demoralizzazione del soggetto che può sciogliere il carattere reificato del­ l'apparire così e non altrimenti dei fenomeni, ma non basta:

questo divenire scompare e risiede nella cosa, placabile con il suo concetto tanto poco quanto scindibile dal suo risultato e dimenticabile. Simile è l'esperienza temporale. Nella lettura dell'essente come testo del suo divenire si toccano la dialettica materialista e quella idealistica. [...] Ciò con cui la dialettica penetra i suoi oggetti induriti è la possibilità, su cui la realtà ha ingannato e che pure traluce da ogni oggetto. [...] Persino in Benjamin i concetti tendono in certo modo auto­ ritariamente a celare la loro concettualità. Ma solo il concetto può realizzare ciò che i concetti impediscono. L'errore determinabile di ogni concetto obbliga ad evocarne altri; così sorgono quelle costellazioni, alle quali soltanto è passato qual­ cosa della speranza del nome 94 .

L'essente è il testo del suo divenire, che è stato occultato come testo. In esso rimane come qualcosa di cui è necessario (provare il bisogno di) ricostruire, attraverso i vuoti, la costellazione. E ricostruire la costellazione significa in primo luogo sbugiardare la legge della naturalità, dell'esser così e non altrimenti. Nella cosa, appunto, il testo del divenire prende corpo e in uno scompare: è precisamente questa scomparsa che richiede l'interpretazione. Interpretazione che non è placabile né con il concetto né con il risultato di quel che l'oggetto è divenuto, ma solo con la speranza che la possibilità di altro sia celata in quello scomparire, nel fatto che è stato fatto scomparire, o che incessantemente da sé scompare. Il concetto, con cui la riflessione si trova necessariamente ad operare, non cura la ferita, al contrario, si potrebbe quasi dire che la rende evidente e più chiara, se ne fa portatore, quasi come nell'evento cristiano, ma al contrario di quello fa nascere la consapevolezza dell'errore, e per correggerlo, nel- l'interpretazione, ne fornisce altri, dai quali spera in ultimo di poter uscire, facendo ritorno al potere del nome, nella mimesi sacra, di poter afferrare il proprio oggetto. Che cosa significa questo per una filosofia che si inter­ preta come interpretazione critica del testo?

La metessi della filosofia alla tradizione sarebbe però soltanto la sua negazione determinata. Essa viene fondata dai testi che critica. Il suo atteggiamento diventa

94 Th.W. Adorno, Negative Dialekttk, cit., pp. 62-63.

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commensurabile alla tradizione nel rapporto coi testi, che la tradizione le offre e che la incarnano. Questo giustifica il passaggio dalla filosofia all'interpretazione, che non eleva né l'interpretato né il simbolo ad assoluto, bensì cerca ciò che è vero dove il pensiero secolarizza l'immagine originaria irrecuperabile di testi sacri 95 .

Il rapporto con i testi diventa così paradigmatico del rapporto con il textum, il dato che non è dato ma posto. In esso la filosofia deve passare all'interpretazione se non vuole cadere a esercitazione, e quindi limitarsi a rappresentare lo stato di fatto delle cose come l'unico possibile. Ancora una volta si arriva all'unità di filosofia e problema linguistico, per trovare questa volta spifferata, per dir così, la soluzione di Adorno, che adesso dovrebbe suonare chiara.

Con il suo legame esplicito o latente coi testi la filosofia ammette la sua essenza linguistica [...] [e] la retorica rappresenta nella filosofia tutto quanto non può essere pensato altro che nel linguaggio. [...] Incessantemente la corrompe lo scopo della persuasione, senza il quale pure d'altra parte la relazione del pensiero alla prassi scomparirebbe dall'atto del pensiero. [...] Infatti l'eliminazione della lingua dal pensiero non ne è la demitologizzazione. Accecata, la filosofia sacrifica con la lingua ciò con cui essa si rapporta alla cosa in modo diverso dalla mera denota­ zione; solo come lingua il simile è in grado di riconoscere il simile. [...] La dialet­ tica, etimologicamente linguaggio come organo del pensiero, sarebbe il tentativo di salvare criticamente il momento retorico, cioè di avvicinare fino all'indistingui- bilità espressione e cosa. [...] Contro l'opinione volgare, nella dialettica il momento retorico prende partito per il contenuto. [...] Essa inclina [...] al contenuto in quanto elemento aperto, non predeterminato dall'impalcatura: appello contro il mito. [...] La conoscenza che vuole il contenuto, vuole l'utopia. [...] È il possibile, mai l'immediatamente reale, che preclude l'utopia; perciò in mezzo all'esistente esso appare astratto. Il colore incancellabile viene dal non-essente. Per esso lavora il pensiero, un frammento di esistenza, che penetra fino al non-essente, come sempre negativamente. Soltanto l'estrema lontananza sarebbe davvero la vicinanza: la filosofia è il prisma che ne imprigiona il colore 96 .

DIALETTICA NEGATIVA. LA COSTRUZIONE DELL'IMMAGINAZIONE CRITICA

L'esistenza di colui che pone la domanda, la domanda dell'interpre- tazione, non è, dice Adorno, la verità. Non c'è nel dialettico francoforten- se nessun umanesimo esistenzialista. Leggere i Minima moralia, come pure

95 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 49.96 Ibidem, p. 50.

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è stato fatto, come testo esistenzialista, è scorretto. Nel saggio Die Aktua- litdt der Philosophie leggemmo che:

chi interpretando ricerca dietro al mondo fenomenico un mondo in sé, che ne costituisca il fondamento e che lo sottenda, si comporta come chi in un enigma voglia ricercare il riflesso di un essere che gli sta dietro, un Essere che l'enigma riflette e dal quale si lascia sorreggere, laddove la funzione dell'enigma è quella di rischiarare a lampi e di sciogliere [aufheben] la forma dell'enigma 97 .

E nella Dialettica negativa quasi negli stessi termini:

in filosofia la domanda autentica comprende quasi sempre in certo modo la sua risposta. Essa non conosce un prima-poi di domanda e risposta, come la ricerca scientifica. Deve modellare la domanda in base a ciò che ha sperimentato, in modo che venga recuperato. Le sue risposte non sono date, fatte, prodotte: in esse si rovescia la domanda dispiegata, trasparente 98 .

Sembra davvero che l'idea dell'interpretazione sia quella che più costante e invariabile rimane nella produzione di Adorno. Ma che cosa significa che la domanda non cela la risposta, ma l'una prende il posto dell'altra? Significa che la «forma di enigma» è, esattamente come la rispo­ sta, solo il risultato di una certa costellazione: i medesimi elementi, in una diversa disposizione, costituiscono la costellazione con forma enigma e la costellazione con forma risposta. Ora, che cosa differenzia la forma enig­ ma dalla forma risposta? A proposito della risposta, chiarisce Adorno, la discriminante è se essa fornisca pane o pietre, secondo le parole scritturali. Se corrisponda, detto in maniera un poco semplificata, ai bisogni di chi pone la domanda. Ma:

bisogni reali possono essere oggettivamente ideologie, senza che da ciò nasca un titolo per negarli. Infatti persino nei bisogni degli uomini catalogati e amministrati reagisce qualcosa in cui non sono completamente controllati, il sovrappiù della partecipazione soggettiva, di cui il sistema non è diventato completamente signore. I bisogni materiali dovrebbero essere rispettati perfino nella loro forma rovesciata provocata dalla sovrapproduzione 99 .

Il bisogno, persino quello organizzato dall'industria che lo induce solo per poter piazzare sul mercato la sua soddisfazione, conserva del

97 Th.W. Adorno, Attualità della filosofia, cit., p. 7.98 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 55.99 Ibidem, p. 82.

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desiderio il carattere di negazione dell'immediato dato. Dunque esso è sempre fonte di quella differenza tra esperienza e idea che è cardine del- l'interpretazione. Ma poiché tale differenza si presenta in costellazioni, il bisogno, come il desiderio, sembrano essere l'energia universale, l'etere, entro il quale le cose si muovono. Questo non significa fare dei passi in dirczione del soggettivismo; la dialettica dei bisogni mostra del tutto evi­ dentemente come sarebbe puramente illusorio cercare di far cambiare idea all'inconscio rispetto ai suoi bisogni. È evidente che la soddisfazione offerta al pulsionale dalla società, e massimamente da questa società, non può essere che metonimica 1()0 . Tale la sorte dei bisogni «ideologici», essa è tuttavia identica a quella dei cosiddetti bisogni autentici: anche per essi la soddisfazione comporterebbe la distruzione. In entrambi i casi, in effet­ ti, la soddisfazione dei bisogni, le risposte al pulsionale, deve essere me­ tonimica - in Adorno non c'è alcuno spazio per un pathos dell'originario. All'origine c'è solo lo stato di violenza, l'abolizione del quale è comunque una entrata nello stato sociale. La natura non si camuffa, ma diventa irrimediabilmente natura seconda. E proprio perché sotto di essa è dor­ miente la natura prima repressa. Ma la prospettiva non è l'abolizione di ogni repressione, anzi, semmai, è affidata totalmente alla possibilità di una buona «traduzione» della necessaria rimozione del «testo» originale. Esso deve essere presupposto come tale, ma non c'è alcun testo originale, anche se la nostalgia per esso è tuttavia autentica; il fatto che sia una nostalgia per un passato non esistito non rende inesistente la nostalgia.

Quanto più senza speranza le forme sociali esistenti bloccano questa nostalgia, tanto più irresistibilmente l'autoconservazione disperata viene gettata in una filo­ sofia [cioè nella forma interpretativa per eccellenza], che deve essere due cose contemporaneamente, disperata e autoconservazione 1 " 1 .

«La mediazione è mediata dal mediato» 102 - questo vale anche per il linguaggio, e la sorte dei bisogni, il «destino delle pulsioni», che abbiamo appena visto avviene, per l'uomo, all'interno del linguaggio. All'interno cioè di una mediazione mediata dal mediato. Essa, in una certa misura, deve essere imitazione dell'elemento mimetico, come controcanto al nomi-

""' Si ricordino, in proposito, i due saggi: Sulla psicoanalisi revisionista e Psicoa- ìalisi e sociologia, contenuti in Th.W. Adorno, Scritti sociologici, op. cit.

101 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 83. 1(12 Ibidem, p. 89.

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nalismo, senza imitare il legame teologico tra nome e cosa. La sua dispo­ sizione rivolge la propria astrazione sia contro la realtà di cui «parla», sia contro se stessa. In esso avviene la mediazione - che un tempo fu costi­ tuzione - tra soggetto e natura. L'atteggiamento mimetico è, in un certo senso, la cattiva coscienza del linguaggio; in esso il soggetto separato a forza e del tutto imperfettamente dalla natura vorrebbe riprendere posses­ so della formula magica per l'unità con essa. Ma di contro a ciò sta la sua costitutiva socialità, con il «disagio» corrispondente, che blocca al sogget­ to come soggetto il ritorno. Persino la regressione più patologica si arresta di fronte all'elemento bruto dell'amorfo. Al di là del principio di piacere si trova il terreno metafisico della pulsione a eliminare il terreno delle pul­ sioni, ovvero la differenza stessa tra materia e materia - il circolo che le ha separate 103 . Scritto in modo fiabesco: nell'Es hanno casa sia i sempre «identici» impulsi somatici sia il deposito della rimozione (cioè tradizione, cioè traduzione in forma di contenuti rimossi) sociale. Così che il linguag­ gio, entro il quale si muove l'interpretazione, è agganciato ai due estremi: da una parte il mimetico come raccordo extratestuale, o extralinguistico tout court, dall'altra il latente sociale come sua riflessione. Così come ve­ demmo a suo tempo per l'autonomia dell'opera d'arte, e per il bisogno di sistema, anche in questo caso l'una cosa non è senza l'altra. La soluzione adorniana all'interno della versione gnoseologica di questa dialettica, quel­ la del rapporto soggetto/oggetto, è la seguente:

non un qualcosa, ma solo proposizioni potrebbero comunque essere ontologiche. L'individuo, che possiede una coscienza, e la cui coscienza non sarebbe senza di esso, resta spazio-temporale, fatticità, essente: non essere. Nell'essere è implicito il soggetto, infatti è un concetto e non immediatamente dato, ma nel soggetto è implicita una coscienza individuale e quindi un elemento ontico 104 .

E, continua Adorno sempre avente Heidegger come modello critico,

ma la verità, la costellazione di soggetto e oggetto in cui entrambi si compenetrano può essere tanto poco ridotta alla soggettività, quanto viceversa a quell'essere, di cui Heidegger tenta di confondere il rapporto dialettico con la soggettività 105 .

io? per questa interpretazione del testo freudiano si rimanda a P. D'Alessandro, // gioco inconscio nella storia, Franco Angeli, Milano 1990.

104 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p.113.105 Ibidem, p. 115.

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LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ

Così:

non c'è essere senza essente. Il qualcosa, come sostrato, necessario al pensiero, del concetto [...] è l'astrazione estrema del contenuto materiale non identico con il pensare, un'astrazione però che non può essere eliminata da alcun ulteriore pro­ cesso di pensiero. [...] Correlativamente, anche al polo opposto soggettivo, il con­ cetto puro, funzione del pensare, non può essere separato radicalmente dall'Io essente 1()6 .

In questo modo racconta Adorno l'atteggiamento dialettico rispetto a questo paradosso - che noi potremmo applicare identico all'identico paradosso del linguaggio/soggetto.

In un certo senso la dialettica è più positivistica del positivismo, da lei disprezzato: essa rispetta, come pensiero, quel che si deve pensare, l'oggetto, anche dove esso non segue le regole del pensiero. [...] Il pensiero non è costretto ad accontentarsi della propria normatività; è in grado di pensare contro se stesso, senza rinunciare a se stesso. [...] Ciò che apparentemente è intollerabile, cioè che la soggettività presupponga il fattuale, e viceversa l'oggettività il soggetto [che il soggetto presup­ ponga il linguaggio come suo trascendentale, e il trascendentale linguistico l'unio­ ne sociale e il singolo parlante] è intollerabile soltanto per tale accecamento: l'ipo­ stasi del rapporto fra fondamento e deduzione, del principio soggettivo; cui non si piega l'esperienza del soggetto. [...] Tale dialettica è negativa. La sua idea espri­ me la differenza da Hegel. [...] La forza del tutto che opera in ogni singola deter­ minazione [anche del tutto linguistico, ovviamente] non solo ne è la negazione, ma anche essa stessa il negativo, non vero 107 .

E si precisa, due pagine dopo che:

di fatto la dialettica non è né soltanto un metodo né qualcosa di reale nel senso dell'intelletto ingenuo. Non un metodo: infatti la cosa inconciliata [...] è contrad- dittoria e si chiude a ogni tentativo di una sua interpretazione univoca. [...] Non un semplicemente reale: infatti la contraddittorietà è una categoria della riflessio-

Dunque come si deve comportare il pensiero dialettico, che è pensie­ ro come interpretazione del carattere enigmatico? Come si deve compor­ tare soprattutto rispetto al fatto che: «il mondo è nella sua testa ma la testa

1)6 Ibidem, p. 121."' Ibidem, pp. 126-27.08 Ibidem, p. 129.

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non è il mondo» l09 ? Dato che il linguaggio, come più volte ripete Adorno, le è essenziale, nel senso che solo in esso la fantasia esatta può servirsi del materiale per dar corso all'esperienza di risposta come dissoluzione della domanda - dissoluzione infine in cui non soggettività e individuo empiri­ co hanno entrambi luogo?

Secondo Adorno contro la tentazione di ridurre la dualità nel trascen­ dentale, del quale: «è quasi impossibile spezzare la forza», nonostante la assoluta non fondatezza del soggetto, e giacché essa è una non fondatezza nel pensiero che esige fondatezza, e che non va affatto confusa con l'ete- ronomia degli individui esistenti, contro la quale al contrario, per quanto le è possibile, la filosofia dovrebbe protestare, di fronte a ciò:

non è possibile altro che la negazione determinata dei momenti singoli, tramite i quali il soggetto e l'oggetto sono assolutamente contrapposti e perciò identificabili l'uno con l'altro. In verità il soggetto non è mai del tutto soggetto, l'oggetto oggetto. Nessuno dei due però è un pezzo staccato da un terzo elemento che li trascenderebbe. [...] Si deve tener fermo criticamente alla dualità di soggetto e oggetto, contro la pretesa di totalità inerente al pensiero. È vero che la separazione [...] è soggettiva, risultato di una elaborazione ordinatrice. Però la critica dell'ori­ gine soggettiva della separazione non riunifica il separato, quando oramai si è biforcato nella realtà 110 .

Una scelta, forse la principale, in qualche modo di rinuncia e scon­ fitta del pensiero. Del pensiero dialettico. Una sconfitta che si è consumata al di fuori del pensiero. Ma che tuttavia ha forse ancora una chance di opposizione. Perché anche il dolore ha una sua forza. La questione per l'interpretazione critica è: come renderlo produttivo?

19 È una frase della Torah.10 Th.W. Adorno, Dialettica negativa cit., p. 157.

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CAPITOLO V

DIALETTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA

Se questa opposizione si insedia nel singolo, [...] e [se] questa scissione sussisterà nella massa più grande del popolo, che costitu­ isce l'organizzazione vivente di un tale spirito, allora i ceti e le leggi, i costumi e la religione sono spacciati e l'intero della sua coesione, la sua costituzione, è perduto. [...] L'esistenza della filosofia ha il suo fondamento nello stesso dissidio, solo che essa filosofia non è rivolta a singole forme, singole determinatezze, ma alla determina­ tezza intesa nella sua assoluta astrazione, e la figura che in essa si da vita, è la determinatezza assolutamente libera, nell'elemento del conoscere; questo suo elemento è esso stesso la coscienza, la singo­ larità...

G.W.F. Hegel 1

MEMORIA TRA TRADUZIONE E DESIDERIO

Uno dei giochi diffusi tra i bambini, che abbiano imparato a servirsi di immagini e parole, è quello di provarsi a inventare nuovi e straordinari esseri fantastici. Invariabilmente il gioco si conclude con la scoperta che non è possibile inventare nulla ex nihilo; tutto quel che si riesce a fare è combinare in forme e unità mai viste elementi che, per altro, sono tutti già presenti nell'esperienza. L'atteggiamento di Adorno rispetto all'organo di senso della critica, critica delle immagini e delle cose, è rassomigliante a questo. In nessun caso si tratta di scoprire da qualche parte il punto archimedeo esterno che permetta di sollevare il mondo al di sopra della nebbia ideologica che lo avvolge. Per due motivi: intanto oltre la nebbia non si trova il sole, oltre la dialettica dell'illuminismo non è rimasta in quiete e disponibile la struttura mitico-mimetica, né una qualche altra sorte di origine; come si è già visto rimozione e istituzione sono atti con­ temporanei. E in secondo luogo, non è reperibile da nessuna parte un fondamento sottratto alla struttura a partire dal quale si possa condurre la critica alla definizione dell'immagine del meglio.

1 La citata frase di Hegel si trova nel frammento jenense «Ist auf das Allgemei- ne», e corrisponde ai fogli lOa e lOb del manoscritto del 1801-02. La traduzione è di Remo Bodei; cfr. R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, Einaudi, Torino 1987. Corsivo mio.

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Uno dei luoghi comuni sulla filosofia di Adorno è proprio questo, che si sia forsennatamente rifiutato, per cause inerenti alla sua psicologia individuale (o alla sua classe sociale di origine, a seconda delle versioni) alla dipittura del meglio. Molti studi sono anche dedicati alla ricerca di un motivo immanente alla filosofia adorniana dell'assunzione del divieto scrit­ turale di formarsi immagini. Ma sia la spiegazione basata sulla teoria del­ l'industria culturale, per la quale ogni proposizione in positivo collabore - rebbe all'apologetica indiretta dell'esistente (curiosamente proprio il rim­ provero che Lukàcs rivolse a Schopenhauer, uno degli scrittori «neri» più presenti e meno trattati dalla scuola francofortense, eccezion fatta per i due studi di Horkheimer 2 ), sia la riconduzione di questo motivo alle radici ebraiche del pensiero di Adorno - che pure sono certamente importantis­ sime e, per tramite di Benjamin e quindi di Scholem, non affatto solo di seconda mano - entrambe le spiegazioni lasciano teoreticamente insoddi­ sfatti.

In un'opera che difficilmente si è arrestata di fronte a tabù concilia­ tivi quando si trattava di difendere la possibilità di una vita giusta di fronte alla presente, e che considerava compito della filosofia - uno se non l'uni­ co - quello dello smascheramento di tutte le forme che conducono alla sopportazione, alla condivisione della scissione attraverso la quale solo è tollerata la struttura sociale e riproduttiva del capitalismo maturo, e infine a ogni tentativo di naturalizzare (ed è per Adorno indifferente se si tratti di naturalizzazione ontologico-teologica o fisico-naturalistica) ciò che è sociale per sua essenza, in una tal opera la proibizione di farsi immagini deve avere a che fare, almeno nella testa dell'autore, con un punto nevral­ gico della possibilità del meglio. La mancanza di immagini deve, in una qualche misura, essere vicina al meglio possibile adesso e qui. E questo in modo tale da superare l'eterno contrasto tra accontentarsi e non deflette­ re. La proibizione di farsi immagini inoltre - vista la sua connotazione agogica - deve anche avere relazione con la prassi interpretativa di Ador­ no; in qualche modo le immagini di Dio sviano o corrompono le intatte possibilità della critica. Vedremo, nella Dialettica negativa come questa proibizione sia strettamente connessa all'idea della verità, questa infinita

2 Cfr. M. Horkheimer, Sozialphilosophischen Studien, Fischer Verlag, Frakfurt a. M. 1972; ed. it. Studi di filosofia della società, a cura di W. Erede, trad. A.M. Solmi, G. Carchia, G. Backhaus, Einaudi, Torino 1981. In particolare i saggi: Schopenhauer e la società; Sul pessimismo oggi e II pensiero di Schopenhauer in rapporto alla scienza e alla religione.

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DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA \(fì

spina della filosofia. Vedremo come la proposta di Adorno sarà infatti quella di intessere e accettare, la dialettica della coscienza individuale. Questo organo, forse il più delicato, dubitabile e incerto tra tutti, proprio nel suo essere servitore di molti, moltissimi padroni - un poco come la classe proletaria nella vulgata marxista - dovendo sopportare tutte le ca­ tene ha collegamenti diretti con tutti coloro che tengono le catene, e, tramite la memoria, può sottoporre a confronto i suoi padroni. E nel confronto prendere partito contro la propria alienazione a divinità. Perché la ragione del singolo è pur sempre un frammento della ragione sociale.

Ma alla rappresentazione di questa possibilità, incerta se racchiusa nei termini di una teoria dell'interpretazione, non è estranea neppure la delicata questione se l'atto interpretativo debba dipendere da prescrizioni oppure se, al contrario, le prescrizioni siano determinate da come l'atto interpretativo è esso di per sé; e va scritto chiaramente: per Adorno la risposta è decisamente a favore del dover essere. Concependo egli l'inter- pretazione come chance critica per eccellenza - all'interno della coscienza di ognuno - la sua è una possibilità, non una prassi determinata dalla struttura delle cose. Diciamo che non è un existentialia, se non nel senso che ogni processo di pensiero è anche un atto interpretativo. Ma tanto più l'atto interpretativo si limita a ricalcare la produzione non individuale di illustrazione delle strutture del mondo, tanto minore è, come leggemmo, la partecipazione del soggetto individuale ali'afferramento dei momenti qualitativi dell'oggetto, tanto più siamo, sempre secondo Adorno, ai con­ fini della critica, verso la scomparsa della interpretazione a favore della circolazione della mercé. E come efficacemente mostrato da Rossi Landi, ma non certo solo da lui, la circolazione della mercé presuppone atti ermeneutici ma non è essa stessa un atto ermeneutico basandosi, per sua propria forma, sulla identità. E dove regna l'identità astratta non c'è etica e dunque neppure la necessità della critica.

Abbiamo veduto come l'individuo partecipi del processo interpreta­ tivo non «nonostante» ma «grazie» alla sua costituzione soggettiva. Come si esprime Adorno, la costituzione tardoborghese dell'individuo è la mi­ gliore chiave d'accesso alla società del capitalismo maturo e, da questa, alla comprensione della natura seconda in generale. Si tratta ora di mo­ strare in che modo le due facoltà individuali tra cui si situa la critica - memoria e desiderio di felicità - abbiano un lato aggettivo, e come tale oggettività non sia solo dialettica ma anche etica.

Scrive Adorno, nel 1962 in uno dei rari casi di un suo pronunciamen­ to sul «meglio», che: «è bene ciò che si libera dalle catene, ciò che trova

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un linguaggio, ciò che apre gli occhi» 3 . Anche il ricordo, come abbiamo già visto, è legato al bene - nei Minima moralia si trova la rappresentazio­ ne del desiderio, del destare la speranza, attraverso il ricordo della beata mattinata perduta nel letto. La forza del pensiero, commenta Adorno, è qualcosa di simile al ricordo delle lezioni perdute e del poltrire nel letto. Sempre nello stesso testo si trova espresso anche il legame tra felicità e ricordo: «il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine», e poco sopra:

è per la felicità come per la verità: non la si ha, ma ci si è. Felicità non è che l'essere circondati, l'«essere dentro», come un tempo nel grembo della madre» [...] ecco perché nessuno che sia felice può sapere di esserlo. [...] Chi dice di essere felice mente, in quanto evoca la felicità, e pecca contro di essa. Fedele alla felicità è solo chi dice di essere stato felice. Il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine: ed è ciò che costituisce la sua dignità incomparabile 4 .

Non si tratta evidentemente della mera impossibilità di essere felici al tempo presente, bensì della dialettica della rappresentazione della felicità al tempo presente; la felicità si avverte, ma la distanza necessaria alla rappresentazione fa sì che dove c'è la rappresentazione allora non c'è più lo stato, e viceversa. La gratitudine, sentimento volto ad un atto passato, per forza di cose, è nient'altro che il ricordo della felicità. Così che, po­ tremmo dire, la felicità si lascia vivere e ricordare ma non rappresentare nella coscienza come stato presente. Che cosa ha mai la felicità, nei con­ fronti della coscienza, da imporre tale proibizione? anche nei confronti della felicità si esercita la proibizione all'immagine?

È in questione qui il rapporto tra coscienza e felicità, come una specie determinata di quello più generale tra ricordo e autocoscienza presente; è, detto in altri termini, lo stesso problema che al termine della sezione sullo Spirito assoluto fa, in Hegel, «ricominciare da capo» l'intera Fenomenolo­ gia. E dato che per Adorno, vedremo, alla possibilità del meglio è legata anche l'interpretazione - sospesa tra oggettività che esige un più di sog­ getto, e individualità che è dialetticamente rappresentata da una soluzione del rapporto tra universalità e particolarità - siamo di fronte a una que­ stione cruciale anche per l'interpretazione. Adorno si esprime chiaramente sull'oggetto della memoria a cui ci si richiama, il punto di afferramento della critica, e su di esso non si fa illusioni di alcun tipo:

Th.W. Adorno, Parole chiave, cit., p. 44. Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 127.

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il fatto che l'esperienza del bello naturale si tenga [...] al di qua del dominio sulla natura, come se all'origine fosse un'esperienza immediata, ne profila la forza e la debolezza. La forza, perché quell'esperienza è memore di una situazione senza dominio, che probabilmente non c'è mai stata 5 .

Non dunque qualcosa che sia possibile ricordare, seppure apparte­ nente alla sfera della memoria. Ancora Adorno nel saggio sulla ingenuità epica, contenuto in Note per la letteratura, a proposito dell'opera ultima di G. Keller, ma in generale delle opere che rammemorano gli aspetti «gentili» del capitalismo nascente, scrive, con la consapevolezza che se l'individuo per come lo conosciamo è un prodotto storico, e dunque passibile di invecchiamento ma non identificabile allo stato che lo ha prodotto.

Soltanto tale ingenuità consente di narrare degli inizi dell'era tardocapitalistica, gravidi di sciagure, e farli appropriare dall'anamnesi invece di limitarsi a raccon­ tarne e in forza del protocollo che conosce il tempo ancora soltanto come indice, con ingannevole presenzialità, precipitarli nel nulla di ciò su cui nessun ricordo riesce più a posarsi. In tale memoria di ciò che propriamente non si lascia più ricordare [...] esprime naturalmente tanta verità, cioè proprio la fungibilità nemica della memoria, quanta ne sarebbe di nuovo possibile soltanto a una teoria che in maniera trasparente precisasse la perdita di esperienza in base all'esperienza della società. In virtù dell'ingenuità epica la parola narrante, nel cui habitus nei confron­ ti del passato vive sempre un elemento di apologetica e di giustificazione della datità in quanto degna di nota, corregge se stessa. [...] Il tentativo di emancipare l'esposizione dalla ragione riflettente è il tentativo sempre già disperato fatto dalla lingua, spingendo fino all'estremo la sua intenzione determinatrice, di guarire dal negativo della sua intenzionalità, dalla manipolazione concettuale degli oggetti, e di far venire avanti il reale in maniera pura, non disturbato dalla violenza degli ordinamenti delle parole 6 .

Questo straordinario brano va letto attentamente, data la ricchezza delle connessioni presenti e la modalità, sempre ellittica, delle soluzioni proposte.

Intanto fa da sfondo la convinzione decisamente marxista di Adorno, secondo la quale le forme prodotte da un certo grado di sviluppo della produzione, in questo caso l'individuo borghese, potendo entrare in con­ traddizione con un successivo stadio di sviluppo, non per questo sono materiale inerte, né inutile. Così il fatto che l'individuo borghese, centrato

1 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 113. Corsivo mio.6 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., pp. 33-34.

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ideologicamente sull'autocoscienza, sebbene di fatto non esista come tale e non sia affatto centrato sulla coscienza, rifletta un potenziale, un ideale forse anche, che non appartiene interamente solo allo sviluppo della bor­ ghesia, ne allunga i confini oltre l'oggettiva funzione produttiva e culturale svolta. E dunque Adorno non è disposto a liquidarlo insieme alla critica del soggetto trascendentale. In questo, anzi, lo scandalo, il rimosso dell'in­ dividuo, pare essere, a Adorno, assai di più la funzione riflettente e giu­ dicante, vigile per dir così, piuttosto che il meccanismo inconscio.

Questo perché di ogni forma ci si deve appropriare - volenti o no­ lenti - all'interno della determinazione storica (che poi altro non è che un modo impreciso di dire modo di produzione ) in cui s'è evoluta. Ma non è lineare quella determinazione, al contrario c'è opposizione tra il raccon­ to: «che conosce il tempo ancora soltanto come indice» e la forza di «appropriazione nell'anamnesi». Così anche se il «racconto» del tempo non è «il» tempo, non si può certo cavarsi d'impaccio con la constatazione che l'esperienza del tempo corrisponda al racconto dell'esperienza; un simile spicciolo d'idealismo confonderebbe una determinazione nel pen­ siero con una del pensiero, ovvero, idealisticamente appunto, identifiche­ rebbe l'oggetto mentale con l'effettività extra-mentale. La fede nell'im­ mortalità individuale, per esempio, si può ben dire che sia un potente fattore di organizzazione dell'esperienza soggettiva del tempo, ma non può certo soddisfare come scansione storica. La differenza tra modello e sistema non si lascia soppiantare, insomma, da una logica che rifiutando il sistema non trovi più motivo per distinguere il modello dalla realtà. E per questo che Adorno può scrivere che, nonostante le similitudini enor­ mi, la logica hegeliana e il modello storico religioso non sono compatibili (le autorità prussiane, scarse filosoficamente, ma con le orecchie aguzze, lo dovettero aver ben compreso quando, ascoltati i primi vagiti dei «giovani» hegeliani, richiamarono Schelling perché estirpasse da Berlino il cancro dell'hegelismo...). Il fatto è che la totalità hegeliana ha bisogno di essere orientata temporalmente solo in funzione negativa, perché: «a intenderla rettamente, la scelta del punto di cominciamento, del primo, è indifferente per la filosofia hegeliana» 7 ; e non interessa dunque al pensiero dialettico il dover ripercorrere le stesse tappe del movimento effettivo. In questo si potrebbe dire che la critica dialettica come teoria interpretativa, escluda già in linea di principio, l'idea della «ricostruzione» come compito erme-

Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 42.

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neutico. Non solo, ma cade anche il significato stesso di un primato - logico, ontologico, o di qual si voglia gerarchla - che sia determinato dal «prima» e dal «dopo», e Adorno ne fornisce un esempio proprio riferen­ dosi all'individuo, e richiamando Nietzsche.

Che l'individuo, come insegnano il processo storico e la genesi psicologica, sia un'istanza derivata; che l'individuo non possa rivendicare per sé quella invariabi­ lità di cui aveva assunto l'apparenza nelle epoche di una società individualistica, questo fatto può stare alla base del verdetto che la storia ha emesso sull'individuo. Ma questo giudizio non è assoluto. Come ha capito Nietzsche, ciò che è stato originato può essere superiore alla sua origine. Critica dell'individuo non significa sua eliminazione 8 .

L'interpretazione dialettica della storia è temporalmente ingenua per il cominciamento, ma poiché questo le è indifferente la sua ingenuità si capovolge. È un poco come se, dovendo rinunciare ad avere in mano o l'una cosa o l'altra, la dialettica - in una parodia del baratto faustiano - abbia appreso a far a meno dell'inizio per avere in cambio il nesso reale del presente. Grazie a questo intendimento, il soggetto della interpretazio- ne torna in Adorno a un suo posto, come struttura che comprenda anche l'opposizione tra tempo come indice e tempo come anamnesi. Non è perché il tempo storico sia soggettivo ma al contrario è perché non lo è che abbisogna della soggettività, solo così infatti può distinguersi dall'or­ dine dei vissuti e non coincidere con questi. Solo il soggetto, nella sua costituzione attraverso la memoria, può riconoscere la storia come sua propria materia e insieme a sé opposta. Ma non è un soggetto trascenden­ tale. L'autonomia della struttura sociale che si maschera come autonomia del soggetto rende imprescindibile insieme alla critica del nominalismo del soggetto borghese anche la trascendentalità, senza sconti, come si suoi dire, fatti in nome del principio speranza. Però la critica si deve arrestare prima di far confusione e identificare nuovamente il concetto di soggetto autonomo con l'eteronomia dell'individuo empirico. La destituzione del primo non deve essere apologetica dello spossessamento del secondo. Anche una realtà imperfetta può opporsi ad un'idea perfetta; anzi come ben sapevano i medievali la sola esistenza di una realtà imperfetta è un gran guaio per la quiete delle perfette idee nella mente di Dio. Avviene così una strana inversione: la critica alle pretese dell'idea svela l'ideologia

Th.W. Adorno, Scritti sociologici, cit., p. 83. Corsivo mio.

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che nasconde l'eteronomia effettuale, mentre la critica al concreto perde la capacità di distinguere tra eteronomia imposta e revocabile, e eterono- mia, per dir cosi, naturale, cioè legata alla condizione umana. È questa l'inversione: l'irrazionale e il mitico stanno dalla parte del Superlo sociale; il razionale e il riflessivo sono, per contro, individuali. La civiltà delle merci ha mercificato il disagio della civiltà, e lo vende.

Es e Super-Io stringono l'alleanza a cui mirava già la teoria, e proprio là dove le masse agiscono istintivamente sono preformate dalla censura e hanno la benedizio­ ne del potere. [...] La concezione freudiana dell'arcaicità, per non dire «eternità» dell'inconscio è vera nel senso che le concrete situazioni e motivazione sociali entrano in quella sfera solo a condizione di trasformarsi, di «ridursi». Il fatto che l'inconscio e la coscienza non siano contemporanei è esso stesso uno stigma dello sviluppo sociale contraddittorio. Nell'inconscio si deposita tutto ciò che nel sog­ getto non tiene il passo, ciò che deve pagare lo scotto del progresso e dell'illumi­ nismo. Ciò che è arretrato diventa «eterno» 9 .

Per questo il tempo «indice» tende, come abbiamo letto, a precipi­ tare gli eventi nel: «nulla di ciò su cui nessun ricordo riesce più a posarsi». Mentre il suo contrario, sempre contrario dialettico, s'intende, il ramme­ morare, appare - si pensi alle pagine adorniane su Proust - come un esempio di quella tendenza illuminista a cui s'è sempre accompagnata, insieme ad altro, la ricerca freudiana. Rammemorare ha il suo significato esatto, cioè in costellazione non enigmatica, anche nella più schietta gno­ seologia: «quasi sempre nella eccentricità del pensiero si lascia intravedere l'elemento centrale» 10 , e questa eccentricità, che è sempre una eccentricità anche linguistica, non è affatto opposta alla centratura del soggetto. Anzi, in un'epoca che spossessa il soggetto di fatto, di quasi tutte le sue funzioni, teoreticamente la soggettività diviene eccentrica rispetto al discorso della destrutturazione del soggetto. Spiega Adorno che:

già per la sua lingua e i suoi segni il pensiero è preordinato al singolo individuo, e l'intenzione che questi ha di pensare «per sé» contiene anche nell'estrema op­ posizione all'universale un momento della parvenza: quel tanto del suo pensiero che appartiene al pensatore individuale è, sia per il contenuto che per la forma, qualcosa di fuggevole 11 .

Ibidem, pp. 52-53.1 Th.W. Adorno, Metacritica della gnoseologia, cit., p. 16.

Ibidem, p. 67.

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Di qui - dal carattere radicalmente anti-ontologico della possibilità della prospettiva critica, che si affida a quel che appare come il trascura­ bile della totalità sia concettuale che sociale -, da qui dunque l'indispen­ sabilità del soggetto per il reperimento dell'organo di senso dei momenti qualitativi dell'oggetto. Ora, alla luce di quanto sopra scritto, si compren­ de meglio il dixit adorniano sulla scrittura equidistante: «[per il saggio] la sua libertà nello scegliersi gli oggetti, la sua sovranità di fronte a tutte le priorities di fattualità o teoria, derivano dal fatto che tutti gli oggetti sono per esso alla stessa distanza dal centro» 12 ; e dato che il saggio è modello dell'interpretazione critica della filosofia: «in un testo filosofico tutte le proposizioni devono essere ugualmente distanti dal centro» 13 . Perché quella equidistanza è eccentrica, nella ratio dominante, tanto dal soggetto ideologico, quanto dall'oggetto quantitativo e meramente essente.

Se il soggetto ha funzione di registrare dove e come può l'eccentrico della totalità, tuttavia la temporalità della memoria è disordinata dal fatto che per adempiere a entrambe le sue funzioni - ricordare e fornire mate­ riali per il desiderio - è costretta a rifugiarsi nell'inconscio, a prender forma in esso, o meglio: a prender forma per poter ri-uscire da esso. La forma è qualcosa di simile al ritorno del rimosso, come abbiamo visto nella Teoria estetica.

Tutte le forme della musica, e non solo quelle dell'espressionismo, sono contenuti precipitati, in cui sopravvive ciò che sarebbe altrimenti dimenticato e che non è più in grado di parlarci direttamente. Ciò che una volta cercava rifugio nella forma, sussiste senza nome nella durata di questa. Le forme dell'arte registrano la storia dell'umanità più esattamente dei documenti 14 .

Ecco dunque che anche in questa dialettica - centrale per il nostro problema - il rapporto della coscienza alla forma è quello di memoria di ciò che propriamente non si lascia più ricordare: qualcosa di assai simile al sentimento di passato, il solo col quale la coscienza individuale possa rivolgersi alla felicità.

Qualcosa della memoria si oppone all'adattamento. Dobbiamo, pur­ troppo, andarlo a cercare in un luogo semideserto: la critica adorniana alla

12 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I., cit., p. 24.13 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 74. Identica espressione è anche in

Nofe per la letteratura, voi. I., cit., p. 25.14 Th.W. Adorno, Filosofia delia musica moderna, cit., p. 49. Un interessante

confronto critico sarebbe possibile con le tesi espresse da F. Orlando in Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino 1973.

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così detta «psicoanalisi revisionista». A metà di quel saggio, a proposito della necessità all'adattamento - spina nel fianco della psicoanalisi critica - scrive il Nostro: «con la simpatia della Horney per l'adattamento è strettamente connessa la sua riluttanza a familiarizzare troppo col passa­ to» 15 . Non solo nel senso che l'ottimismo impone di non girarsi indietro a scanso del rischio di vedere che non tutto poi funziona così bene come dovrebbe; ma anche - l'abbiamo già visto - perché dal passato emergono in forma vaga le immagini d'una felicità ricordata che fanno risaltare l'infelicità presente, perché da quel «ricordare ciò che propriamente non si lascia più ricordare» si forma l'esperienza d'una razionalità diversa dall'adattamento alla sottomissione/introiezione della natura. La «intatta capacità di godere», scrive Adorno, è simile a qualcosa che la psicoanalisi indicherebbe sotto il nome di complesso edipico. Una fedeltà testarda ad un elemento a rigore - cioè: al rigore della ratto dominante - inesistente, giustamente viene definito come atteggiamento nevrotico. Ma gli è che le nevrosi sono formazioni di compromesso non un mero sintomo d'errore; e non si lasciano tagliare via come il marcio dal sano, al contrario: esse vanno interpretate e, sciolto il loro aspetto enigmatico, riconsegnate alla storia dell'individuo. Proprio contro l'idea che questi debba «farsene una ragione» e adattarsi al «dato di fatto» della società, si appunta la opposi­ zione adorniana alla psicoanalisi freudiana e alle sue «varianti» statuniten­ si. Spezzare il nesso tra ricordo e critica, gli apparve mutilazione della facoltà di giudizio - della ragion riflettente -, cioè, in una qualche misura, coincidendo l'atto del giudizio con quello del pensiero e dell'interpreta- zione, mutilazione del pensiero.

Il «meglio» non è a disposizione, ma al contrario da strappare con forza al reale sotto forma di negazione della sua inumanità. La possibilità diretta di accedere al vero, al buono e al bello è una extrema ratio ma destinata al fallimento perché si vuole gettata oltre il problema, senza scioglierlo'nella prassi. Così Adorno può scrivere, ad esempio, che data la situazione della ragione non è l'eccesso di divieti che paralizza, bensì l'ap­ parenza di essi sopra il dominio:

con la famiglia - perdurando il sistema - è scomparso non solo l'organo più efficiente della borghesia, ma la resistenza che, se opprimeva l'individuo, d'altro canto lo rafforzava, o addirittura lo produceva. La fine della famiglia paralizza le

Th.W. Adorno, Scritti sociologici, cit., p. 27.

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controforze. L'ordine collettivistico nascente è una tragica parodia di quello senza classi: e col borghese liquida l'utopia che si nutriva dell'amore della madre 16 .

Oppressione e produzione non sono qui presenti solo per tener fede a un istinto dialettico. Senza la partecipazione del motore individuale del desiderio, non c'è neppure il movente per l'interpretazione critica. Il fatto che pensare sia interpretare non significa che non si possa essere ridotti a non pensare. Siamo a un punto critico: la partecipazione dell'individuo al processo interpretativo è la chiave di spiegazione del rapporto tra memo­ ria e ricordo. Cos'è infatti la memoria di ciò che non si lascia ricordare se non un'interpretazione, una metaforica ricostruzione a partire dalle trac­ ce? quelle che Adorno, trent'anni prima, chiamava «tracce dell'oscuro intreccio dell'essente», e che dovevano fornire il materiale alla esatta fan­ tasia, organo della ars inveniendil? E che significa scoperta di qualcosa che non è mai esistito? che cosa se non produzione di una immagine? di una immagine a cui si fa divieto di presentarsi in carne e ossa, e il perché ancora non lo sappiamo? Che la differenza tra scoperta e invenzione di una immagine stia nel processo di messa in forma del contenuto? e che quindi sia una parte del processo del linguaggio attraverso il quale deve poter essere data la sua utopia?

Attraverso lo shock provocato dalle parole straniere, scrive Adorno, si ha l'ultimo tentativo di raggiungere gli uomini attraverso il linguaggio:

in tal modo le parole straniere potrebbero conservare qualcosa di quell'utopia del linguaggio, di un linguaggio senza terra, non legato alla signoria di ciò che stori­ camente esiste, che vive inconsapevolmente nel loro uso infantile. Disperate come teschi, le parole straniere aspettano di venir destate in un ordine migliore 17 .

Questa è dunque l'utopia del linguaggio secondo il Nostro: che esso riesca a dire senza signoria sulle e senza signoria dalle cose esistenti. Come la memoria, anch'esso si riferisce a una dimensione che, se non addirittura inesistente, è per lo meno vivente «inconsapevolmente».

Adorno ci porta un esempio di «rammemoratore perfetto», che può servire da guida per procedere. Scrive: «... la potenza di Bach è la potenza di questa evocazione. Egli non fu un arcaico maestro artigiano, ma un

16 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 13.17 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., p. 211.

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genio del saper ricordare» 18 , e intende che si tratta di ricordare il posto dell'uomo nell'assoluto, fino a che, e solo fino a che, precisa con cura Adorno, l'assoluto non è presente come esperienza corporea. E quindi la forma artistica bachiana sarebbe una sorta di promemoria, una metonimia dell'arte e dell'uomo come funtori, segni, del rapporto con l'assoluto. Assoluto che nei termini della religiosità bachiana, significa felicità.

Il fatto che l'uomo abbia la possibilità di fungere da segno della felicità attraverso la memoria non è tuttavia esclusivo dell'opera di Bach. Leggiamo, a esempio, un luogo della Teoria estetica. A proposito della differenza tra bello naturale e bello artistico del paesaggio si dice che: «senza una memoria storica non ci sarebbe alcuna bellezza» 19 e si prose­ gue con la già citata definizione dell'arte come memoria di una felicità mai esistita. Il problema che ci si presenta è questo: quale può essere l'organo per la memoria del non esistito e non ricordabile?

Adorno, ma come lui anche Benjamin e Bloch, spesso esprime il gesto della comprensione attraverso una proposizione ipotetica, attraverso il «come... se...». Si tratta di una secolarizzazione di una tradizione religiosa. Il racconto o la parabola perdono il valore simbolico 20 , attraverso la seco­ larizzazione della dimensione trascendente. Il racconto propone non la condizione della redenzione ma bensì la descrizione della differenza tra redenzione e non redento. Si potrebbe scrivere, per gioco, che si tratti di una «delusione», nel senso etimologico stretto della parola: chi parla è costretto nella litote dove solo esasperando il negativo si approccia la verità. Ma se nel procedimento classico della litote il negato non esiste ed è il falso, mentre l'affermato esiste ed è il vero, nella parodica della seco­ larizzazione della teologia il negato esiste ma è ancora il falso, e nulla è affermato, e questo è il lato del vero 21 .

Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere, ad ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un fantoccio in veste da turco, con una pipa in bocca, sedeva di fronte alla scacchiera,

18 Th.W. Adorno, Prismi, eh., p. 133.19 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 110.20 Cfr. W. Benjamin, // dramma barocco tedesco, op. cit., e Lettere 1913-40, Einau-

di, Torino 1978; E. Bloch, Tracce, op. cit., pp. 9-10, 14, 23-24 et passim. Per quanto concerne Adorno basti ricordare l'ultimo aforisma dei Minima moralia: «La filosofìa [...] è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione».

21 Cfr. Walter Benjamin, Tesi sulla storia, in Angelus novus, op. cit.

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poggiata su un'ampia tavola. Un sistema di specchi suscitava l'illusione che questa tavola fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c'era accoccolato un nano gob­ bo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la mano del burattino. Qualcosa di simile a questo apparecchio si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato «materialismo storico». Esso può farcela senz'altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com'è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno 22 .

Attraverso questa costrizione, l'uscita dalla riflessione, dall'interpreta- zione, non può che essere una de-lusione: una cessazione del gioco. Per restare all'allegoria benjaminiana, il giocatore di scacchi nascosto nell'au­ toma dovrà, alla fine, deludere gli spettatori e, cessando di giocare, farsi vedere finalmente come artefice delle vittorie ottenute dal materialismo storico attraverso la teologia. Anche in questo progetto il fulcro è costitu­ ito da una dimensione temporale del ricordo. È evidente che nessuno possiede memoria dell'aspetto del mondo «sotto la luce della redenzione», né un'anamnesi platonica dei puri concetti dell'essere. L'uso dell'utopia teologica, piuttosto, ha a che vedere con la battaglia contro il relativismo interpretativo da un lato, e contro il naturalismo dall'altro. La prospettiva teologica consegna all'immagine e somiglianzà il diritto/dovere di rispon­ dere in prima persona, come se il soggetto fosse, in quel momento, Dio. Proprio perché egli è il portatore del divino - come ci rivelarono le scrit­ ture - in esso il divino ha la sua sede umana.

Il rapporto tra Dio e gli uomini, se questi siano «necessari» alla sua infinità, oppure se Dio avesse potuto anche regnare su un universo senza uomo, è un tema spettacolare, e che qui purtroppo dobbiamo tralasciare, della filosofia medioevale, soprattutto intorno al volgere del secondo seco­ lo del primo millennio. Quel che possiamo prendere a prestito, per meta­ fora, è l'idea che l'uomo come organo di senso per il male e per il bene è indispensabile al processo di perfezionamento del creato (idea questa, a dir il vero, che risale più indietro, almeno a Boezio). Così allo stesso modo, l'interpretazione, per Adorno, giacché è legata strettamente al «come... se...» della redenzione, e poiché questo «come... se...» è avverti­ bile solo dal soggetto, in quanto essere in stato di bisogno che utilizza i suoi materiali di esperienza e di fantasia per dar forma a dei desideri, allora benché dell'interpretazione non decida affatto il soggetto, essa può avvenire solo per suo tramite. Il soggetto empirico esistente è l'unico

22 Ibidem, p. 75.

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portatore delle differenze tra essere e dover essere, nelle quali ha luogo, secondo Adorno, l'interpretazione.

In un aforisma dei Minima moralia Adorno ripercorre attraverso Jean Paul e Marcel Proust, la dialettica del ricordo 23 . In esso l'intreccio tra ricordo e presente, memoria e storia, è mostrato con cenni, purtroppo brevi ma sufficienti tuttavia a formulare questa osservazione: se il ricordo è la facoltà individuale di connettere passato e presente - quindi, in un qualche modo, come già visto, anche la facoltà del desiderio - e la memo­ ria invece il rapporto storico, generale o almeno sopraindividuale, tra «allora» e «ora», l'individuo e il ricordo sono il teatro nel quale può aver luogo la rappresentazione di una diversa disposizione della costellazione, diversa disposizione attraverso la quale il carattere enigmatico del mondo scompaia, e riluca la traccia del diverso. Che tutto questo avvenga attra­ verso una colossale metafora teologica - il «come... se...» dove si finge che quel che avviene nell'individuale ricordo riguardi la generale memoria - spiega oltre alla proibizione di farsi immagini, che queste subito smonte­ rebbero il carattere del «come... se...» per passare al simbolico, anche la necessità dell'interpretazipne. Suo modello sarà, per Adorno, l'esecuzione. Ovvero quella particolare messa in forma dove l'esecutore deve rispondere sia alle condizioni d'essere della partitura che alla necessità del dover essere l'esecuzione esecuzione perfetta, compiutamente esprimente la ve­ rità dell'opera. L'esecutore - che non a caso si chiama anche interprete - è costretto, insomma, tra essere e dover essere, ontologia ed etica; e se dal lato della prima sta senz'altro la cosa in sé, dall'altro l'esperienza dell'ese­ cutore non si separa dal suo lavoro, riconnettendolo alla storia.

Non è solo per un gioco etimologico che l'esecutore è interprete. Adorno ha in mente, senza dubbio, l'esecutore musicale il quale deve possedere - così si esprime letteralmente il critico francofortense - il ricor­ do anticipatore, deve ricordare tutta la partitura per anticipare il suo senso in ogni nota che suona. La possibilità della musica sta tutta qui: c'è, ma attende di essere suonata; senza di che nessun Dio la può salvare.

ONTOLOGIA E DEONTOLOGIA: L'UNITÀ DI LOGICA E ETICA

«II criterio di oggettività - scrive Adorno ne // saggio come forma - non è la verifica delle tesi enunciate tramite un esame iterativo, ma è

23 Si tratta del n. 106 «Tutti i fiorellini» alle pp. 195-97 della già citata edizione.

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l'esperienza individuale compresa tra speranza e delusione. Nel ricordo, essa da rilievo alle proprie osservazioni, confermandole o confutandole» 24 . E stata Susan Buck-Morss, nel citato libro su Adorno e Benjamin (e si direbbe sulla scorta di suggerimenti da parte di M. Jay, come è chiarito nella prefazione al testo) a indicare nell'esperienza personale di Adorno come musicista e di Benjamin come traduttore il possibile nucleo del comune progetto ermeneutico dei due, elaborato nel corso dell'inverno trascorso insieme 25 . Nella prassi traduttiva - sia musicale che linguistica - i due trovavano il modello di una interpretazione che non lasciasse immu­ tato l'interpretato, ma che anzi lo trasformasse interamente. Per quanto riguarda Adorno troviamo che l'esecuzione è per lui un problema stretta­ mente ermeneutico: «eseguire correttamente un dramma o un brano musicale significa formularlo correttamente come problema, in modo tale che vengano riconosciute le esigenze inconciliabili che esso pone all'inter­ prete» 26 . Non solo, ma questo atteggiamento vale anche per l'interpreta- zione di testi filosofici, come si vede più volte nei capitoli di Dialettica negativa dedicati all'ontologia heideggeriana, dove a ogni passo ci si chie­ de se il pensiero di Heidegger fornisca soddisfazione alle domande che esso stesso si pone.

Formulare qualcosa come problema non significa altro che rintraccia­ re il bisogno che in esso è contenuto: «come cerco di fare in tutte queste considerazioni, anche in questo caso bisogna anzitutto cercare di determi­ nare il bisogno o la verità che vi sono impliciti» 27 . Di modo che, visto che i bisogni sono comunque avvertiti individualmente, problema e bisogno, domanda e bisogno, sono determinazioni dialettiche, che arrivano alla contraddizione attraverso l'individuo. Ma il passaggio dalla «cosa» al bi­ sogno è una traduzione. Allo stesso modo in cui eseguire un brano mu­ sicale presentandolo come problema, significa tradurre qualcosa che si presenta sotto forma di risposta, in un materiale che appaia invece come problema. Traduzione molto più problematica, per altro, è quella dal bisogno al desiderio. Sappiamo che individualmente essa avviene sulla scorta di ricordi che non hanno diretto rapporto con «ciò che è realmente accaduto». Ma sappiamo anche che i bisogni, commistione di falso e di

24 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, op. cit., p. 11.25 Cfr. S. Buck-Morss, The origin of negative dialecttcs, op. cit.26 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 312. Ma cfr. anche l'esempio contenuto

in Dissonanze, cit., p. 191.27 Th.W. Adorno, Terminologia filoso/tea, voi. I, cit., p. 150.

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vero, confinano da un lato con la struttura antropologico-somatica dell'uo­ mo e dall'altra con la dialettica dell'identità che è costellazione sociale per eccellenza. Come dire che i bisogni da tradurre sono o ciechi come talpe o del tutto «inaffidabili», per dir così, index veri et falsi. Il pensiero senza bisogno è, secondo Adorno, vuoto. Ma il bisogno assurto ad assoluto è cieco: «vero sarebbe il pensiero che desidera il giusto». Oltre al motore, insomma, sono necessari anche apparati di guida. Meglio: di traduzione. Ma che cos'è un desiderio che deve essere'?

Molti critici hanno riconosciuto nel pensiero di Adorno un rifiuto alla distinzione in linea di principio tra essere e dover essere. A partire dalla ricostruzione delle connessioni tra critica della società e critica gnoseolo- gica 28 , fino ai rapporti con il postmoderno e alla dialettica tra essere e desiderio, tra ontologia e deontologia 29 . Lo stesso Adorno è stato genero­ so nell'indicare la sua filosofia come: «ontologia dello stato falso» (in Dialettica negativa), «filosofia del non vero» (Minima moralia) e infine a concludere che: «la filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si pre­ senterebbero dal punto di vista della redenzione» 30 , dove è evidente come la necessità di «giustificarsi» della filosofia di fronte alla «disperazione» stabilisce un legame tra etica e gnoseologia (se così si vuoi considerare la filosofia) o logica (per restare sul più hegeliano dei modi di esprimersi), saldo e ultimo. E in effetti la cosa non dovrebbe destare troppo scalpore. La separazione di filosofia e etica è storicamente prodotta e databile, sep­ pure avvenuta su una serie di direttrici e non su una singola. Accettarla come definitiva è un processo di accecamento a cui un pensiero accorto sulle determinazioni alle quali è sottoposta la «lettura» della struttura della filosofia stessa, non dovrebbe inchinarsi.

Ma preso atto di questo, è assai più difficile mostrare nell'individuo, nella dialettica tra ricordo e memoria, nella sua presa di partito per la

28 Cfr. M. Barzaghi, Dialettica e materialismo in Adorno, op. cit.; AA.VV. [Tiede- mann e Schmidt], Adorno-Konferenz 1983, op. cit.

Per una critica «da sinistra» si vedano i voli, collettanei: Die neue Link nach Adorno, hrsg. von F. Schòller, Kinder Verlag, Miinchen 1969, e Hamburger Adorno- Symphosion, hrsg. von M. Lobig und G. Schweppenhauser, Dietrich zu Kamplen Ver­ lag, Lùneburg 1984.

29 J.P. Ladmiral, Adorno cantra Heidegger, in «Revue d'Esthétique», n. 1-2, 1975. In questo saggio l'autore mostra come il lato deontologico abbia un «primato» rispetto all'ontologia, primato tautologico in un certo senso, poiché secondo Ladmiral nelle categorie del pensiero adorniano è l'etica a stabilire dei «primati» ontologici.

30 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 304.

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propria felicità, un punto a partire dal quale possa svilupparsi e muoversi l'oggettività dell'interpretazione, come scrisse Adorno «esperienza indivi­ duale compresa tra speranza e delusione» 31 . Nel saggio Die Aktualitàt der Philosophie trovammo che la «esatta fantasia» doveva essere l'organo di senso di una ars inveniendi, il cui scopo era quello di variare i rapporti di forza della costellazione del reale affinchè il carattere di enigma scompa­ risse per lasciar posto a una nuova costellazione. E se l'esatta fantasia era l'organo di senso, il materiale era dato dalle immagini dell'essente a partire dalle quale la fantasia andava ricostruendo le disposizioni possibili della costellazione. Ora, anche il ricordo individuale ci è apparso come organo di senso della costruzione di immagini attraverso le quali la memoria potesse trovare una nuova disposizione di fronte alla quale il reale deve rendere ragione. E anche l'esecuzione, o la traduzione, abbiamo visto, sono figure di scioglimento dell'enigmatico come trasformazione dell'enig­ matico in desiderio, in formulazione di problema.

Il fatto è che Adorno concepisce - ma sarebbe meglio dire: «usa», senza fornirne una dichiarazione esplicita - uno stesso modello tanto nel saggio degli anni Trenta, a proposito della filosofia come interpretazione, tanto per quel che riguarda l'esecuzione/interpretazione dell'arte, tanto infine per quel che spetta alla filosofia come dialettica di desiderio/rispo­ sta. In ognuno di questi casi, l'individuo assicura la possibilità che si svol­ ga la dialettica delle contraddizioni, delle tensioni portate in atto dagli elementi materiali, e che da esse fuoriesca l'interpretazione. Vediamo dunque alcune citazioni dai testi per suffragare questa lettura.

In Metacritica della gnoseologia scrive Adorno:

le cosiddette trovate improvvise non sono né cosi irrazionali né cosi rapsodiche come attribuisce loro lo scientismo [...] in esse esplode il sapere inconscio, non del tutto soggetto ai meccanismi di controllo. [...] Poiché non hanno parte alcuna al lavoro manipolativo della coscienza pilotata dall'Io, ma invece si ricordano in maniera passivo-spontanea di quegli elementi che irritano il pensiero ordinatore, queste trovate improvvise sono in effetti «estranee all'Io» - Ichfremd, segnala il traduttore - [...] Nelle intuizioni la ratio cerca di rammentare quanto ha dimenti-

31 Vale la pena di notare come questo sia il punto dolente di ogni interpretazione di Adorno come precursore del postmoderno. Si vedano i paradigmatici: Santambro- gio, Pensiero negativo e progettualità sociale nel pensiero di Th.W. Adorno, in «Rassegna italiana di sociologia», 1986; A. Wellmer, Dialettica moderno-postmoderno. La critica della ragione dopo Adorno, Unicopli, Milano 1987.

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cato. [...] Nel ricordo involontario il pensiero arbitrario tenta, benché invano, di porre rimedio ad una parte di ciò che tuttavia deve perpetrare 32 .

Qualcosa di simile aveva ricordato Adorno anche nella teoria estetica dove il contenuto delle opere d'arte vien detto discendere sempre dal- l'«immaginario come processo latente collettivo» 33 , e anche nel saggio Skoteinos, ovvero come si debba leggere si era incontrato un simile atteg­ giamento, nel richiamare la funzione insostituibile, nella interpretazione di Hegel e dei testi in genere, della rammemorazione, ovvero, come scritto nella Terminologia filosofica del pensare ovunque una propria esperienza concreta sotto ogni concetto che si incontra nella lettura; negli studi su la filosofia hegeliana scrive Adorno che:

il tempo è articolabile solo attraverso le distinzioni del noto e non ancora noto, di ciò che è stato e del nuovo; il procedere ha a condizione una coscienza che scorre all'indietro. Si ^eve conoscere per intero una frase, certificarsi retrospettivamente di quanto è preceduto. I singoli passaggi sono da ritenersi conseguenza di questo; occorre realizzare il senso della memorazione declinante, sentire ciò che riappare non come corrispondenza architettonica bensì come un divenuto che si impone per forza propria 34 .

Così il «semplice» consiglio a non sorvolare sui concetti oscuri (riba­ dito sia negli studi su Hegel che nelle lezioni di terminologia filosofica) appare qui invece, forte dell'excursus che abbiamo compiuto su memoria e desiderio, come l'autentica soluzione dialettica tra tutto e parti, dove la parte è la funzione dell'articolazione del tutto, e dove l'interpretazione si affida alla diatriba incolmabile tra la memoria dell'intero e il senso/ricordo del singolo frammento.

Ancora una citazione, per concludere, sulla unità. Nei Minima mora- Uà, «dottrina della retta vita» come è precisato nell'introduzione, Adorno scrive che: «l'intelligenza è una categoria morale. La separazione di intel­ letto e sentimento [...] assolutizza la suddivisione dell'uomo in funzioni, suddivisione che, viceversa, si è determinata storicamente» 35 . E dopo aver chiarito come non si tratti affatto di rinverdire la posizione romantica dell'unità dei due, conclude che: «il compito della filosofia sarebbe piut-

32 Th.W. Adorno, Metacritica della gnoseologia, cit., pp. 54-55. Corsivo mio.33 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 145-46.34 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 188. Corsivo mio.35 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 237.

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tosto quello di cercare - nell'opposizione di sentimento e intelletto - la loro unità: che è appunto unità morale»^.

Tale unità che si prospetta è quella che può essere realizzata dall'in- terpretazione. È essa a ricollocare nell'opposizione tra «sentimento» e «intelletto» il compito interpretativo attribuito, senza dubbi, da Adorno alla filosofia. Il «ricavare prospettive» in cui «le cose appaiano dissestate», dell'ultimo aforisma dei Minima moralia, è una prassi interpretativa, un nuovo punto di vista, a partire dal quale l'enigma della solidità si sciolga nella sembianza del dissesto. Ma è evidente che «dissesto» - come del resto molte altre categorie che Adorno applica al campo teoretico 37 - sia una categoria morale prima e più che gnoseologica. Quando Adorno scri­ ve che il tutto, inteso come società, è reale ma falso, intende proprio riagganciare giudizio teoretico e posizione etica. Riannodare la scissione operata dall'utopia illuminista di una perfetta separazione tra dati di fatto, scienza esatta, e ineffabile sentire, intuitivi sentimenti. È questa la separa­ zione che la critica smentisce come natura e accetta come dato, ma nella distinzione tra natura e dato. E questa, ancora, la motivazione, del «gesto impossibile» della filosofia: quello del barone di Mùnchhausen del solle­ varsi da sé per il codino. O l'alternativa, come leggemmo, tra crescere come tutti gli altri e restare bambino. O ancora, infine, l'utopia del lin­ guaggio: che sempre deve fare nomi nel tentativo, disperato, di afferrare le cose. Come s'è già visto:

in tal modo le parole straniere potrebbero conservare qualcosa di quell'utopia del linguaggio, di un linguaggio senza terra, non legato alla signoria di ciò che stori­ camente esiste, che vive inconsapevolmente nel loro uso infantile. Disperate come teschi, le parole straniere aspettano di venir destate in un ordine migliore 58 .

È il caso di ricordare come «teschio» fosse, proprio nel saggio Die Aktualitàt der Philosophie dal quale prendemmo l'avvio, simbolo dell'alle­ gorico banjaminiano. In quel luogo Adorno commentava Benjamin richie­ dendo che dall'allegoria derivasse la dialettica della storia naturale, ovvero la capacità di leggere nella «Natura» lo storico e nello «Storico» il natu­ rale. E quello un problema che concerne la genesi del desiderio, e che ci riporta alla categoria di esperienza che: «sarebbe l'unità di tradizione e di

Ibidem. Corsivo mio..Si pensi, ad esempio, all'uso adorniano dell'aggettivo «falsoxTh.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., p. 211.

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manifesto desiderium dell'estraneo. Ma la sua stessa possibilità è messa in pericolo» 39 . Tradizione e ragione hanno la loro unità, qui, come compito della filosofia, unità che è nell'esperienza come dialettica di tradizione e desiderio, la stessa del rapporto tra filosofia ed esperienza: «la filosofia si inspessisce a esperienza affinchè le si dischiuda la speranza» 40 , sebbene tuttavia: «l'esperienza soggettiva è solo il guscio di quella filosofica, la quale matura al di sotto di essa e poi lo getta via» 41 . Ancora una volta siamo di fronte a una opposizione simmetrica che bisogna smontare per poter leggere. Come è possibile che la filosofia debba inspessirsi a espe­ rienza, cioè prender materie e forze dalla dialettica del desiderio che ab­ biamo appena trattato, e nel contempo maturare entro questa e quindi gettarla via come un guscio?

Nel passaggio tra bisogni, memoria e desideri, attraverso il ricordo e la produzione di immagini, avviene una traduzione, e questa traduzione è condizione di non cecità del pensiero, che però abbisogna del vero, giac­ ché giusto è quel pensiero che desidera il vero. Ora è evidente che criterio di questa traduzione non può essere il rispecchiamento; non ha nessun senso parlare di rispecchiamento di un dato nella traduzione tra materiale del pensiero/ricordo e desiderio, e men che meno nel passaggio al pensie­ ro. Se la critica dialettica ha un cominciamento e non un primo - uguale in questo alla paratassi - la risoluzione di questa a-centralità è in effetti contenuta proprio in quella unità di etica e logica che la filosofia si trova a dover realizzare e che è espressa dall'idea che delle interpretazioni non sia verifica la corroborazione ma: «l'esperienza individuale compresa tra speranza e delusione» che: «nel ricordo [...] da rilievo alle proprie osser­ vazioni, confermandole o confutandole» 42 , leggendo «con fantasia inge­ gnosa e esatta», dove giudizio e comprensione non sono separati e la massima guida è quella «contraddittoria» di essere a ogni momento dentro e fuori del testo, giacché leggerlo significa dischiudere la verità poiché: «propriamente si lascia comprendere filosoficamente solo ciò che è vero».

Il fatto che guida dell'interpretazione sia il suo movimento stesso e non un principio esterno né uno interno al solo testo, è chiaro; ma in che

i9 Ibidem, p. 65.40 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 247. Non è senza interesse osservare che questo

costrutto è riferito all'opera di Benjamin...41 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 190.42 Th.W. Adorno, Noie per la letteratura, voi. I, cit., p. 11.

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DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA Jgl

modo il movimento interpretativo, attraverso il soggetto, costituisce l'in- terpretazione?

LA CONTRADDIZIONE COME CHIAVE ERMENEUTICA

Se davvero l'oggetto della felicità fosse del tutto indifferente, se esso fosse astrattamente sostituibile, se nel desiderio non fosse rimarcata l'idea di una mancanza che si sarebbe dovuta evitare - e che in un qualche tempo sperso nella memoria fu, nella rappresentazione che ne abbiamo, colmata dall'amore - allora il soddisfacimento totale metonimico, acce­ dendo al sistema delle merci, rappresenterebbe qualcosa di simile alla «fine della storia». Il carattere di feticcio, le sue evoluzioni nell'industria culturale, renderebbero impraticabile non solo il pensiero critico ma, in generale, qualsiasi forma di pensiero. Ma le forze in gioco non appaiono, alla riflessione, che nella forma in cui giungono alla rappresentazione: incomprensibili, fantasie, immagini, mostri. Però la loro apparizione è un fenomeno storico, vale a dire che tramite la forma della loro apparizione dicono molto sulle contraddizioni a partire dai quali sono state generate.

Abbiamo veduto come la funzione del soggetto empirico, del mille­ nario «individuo», partecipi al processo interpretativo-formativo, sebbene non ne sia né il centro né il giudice. Ma la dimensione entro la quale questo può avvenire, è quella dell'esperienza del dolore. Scrive il Nostro:

il riferimento all'esperienza - cui il saggio conferisce tanta sostanza quanta la teoria tradizionale ne conferisce alle mere categorie - è riferimento a tutta la storia; la semplice esperienza individuale, la più vicina e quindi quella con cui inizia la coscienza, è anch'essa mediata dall'esperienza omnicomprensiva dell'umanità sto­ rica; ed è pura illusione della società e dell'ideologia individualistica ritenere che l'esperienza dell'umanità storica sia mediata e l'immediato sta invece ciò che è specifico per ciascuno 4 '.

È stato F. Carmagnola, nel testo già citato 44 , a indicare la posizione di Adorno come «realismo critico»; non nel senso preciso che questo termine ha nella storia della filosofia, ma più ristrettamente nel significato per cui verso l'ideologia ogni realismo è necessariamente critico. Se l'ope-

Ibidem, p. 14.F. Carmagnola, La conoscenza degli estremi, op. cit.

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razione di quella è di far figurare come «natura» delle astrazioni (prima fra tutte, ovviamente, quella dello scambio tra forza lavoro e salario) allo­ ra la riconduzione realistica dei rapporti funziona da smascheramento dell'ideologico. Ma, ed è questo il punto, anche la teoria del realismo è una teoria. La realtà non si lascia mai afferrare come fatto bruto. Il fatto bruto è non meno mediato della teoria. Il ricorso adorniano all'esperienza rischia allora di scivolare, per voler controbilanciare l'oggettivismo, in una troppo accentuata soggettività. E certamente i suoi critici non si lascereb­ bero soddisfare dalla dialettica di soggetto/oggetto. La risposta forte di Adorno, si trova invece là dove non ci si aspetterebbe di trovarla: se l'esperienza del soggetto è tanto cruciale è perché essa non è del soggetto. Nella categoria di intentio obliqua della intentio obliqua è contenuta que­ sta forma: tanto meno il soggetto è padrone della sua esperienza, tanto più nelle forme soggettive si annida la chiave di volta delle strutture ge­ nerali.

Il richiamo di Adorno all'esperienza non è così possibile confonderlo con un richiamo esistenzialista. Anzi, proprio perché il soggetto non c'è quasi, in esso c'è l'altro da esso: soprattutto le strutture della sua produ­ zione e mantenimento. La decifrazione dell'individualità, delle sue espe­ rienze, è per questo vicina alla decifrazione delle parole di una lingua straniera. Dalla sua riuscita ci si aspetta non tanto la comprensione della parola - che è anzi il punto di partenza - rna la comprensione della lingua. In questo, la separatezza di principio tra semantica e sintassi è, se non revocata, messa in questione, e non solo per l'estraneità, specificamente adorniana, alla linguistica contemporanea. L'idea che gli elementi ultimi del significato siano le parole, o la reciproca dimensione che queste isti­ tuiscono tra di loro, è da sottoporre al vaglio della sua propria ideologia di riferimento, come ogni altra posizione teoretica. Poiché: «non esiste nulla che non sia mediato», ogni rappresentazione di mediazione è passi­ bile di essere variata ad opera della esatta fantasia. L'arte combinatoria, che Adorno identificò con la filosofia interpretativa, non è solo l'atteggia­ mento del pensiero di fronte al falso, ma è soprattutto quello del pensiero di fronte a se stesso. Dove esso dovrebbe sciogliere l'enigma delle sue proprie figure. Così è l'insieme intero della lingua a cui viene assegnato, dal pensiero, un valore. Valore che è uno degli elementi della costellazione del pensiero, non un semplice medium. L'idea del puro medium è assente da Adorno: «il rapporto della filosofia con i concetti non consiste in primo luogo nel fatto che essa stabilisca e definisca questi concetti, ma nel fatto che essa cerca sempre di rendere ragione di ciò che i concetti dicono

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obiettivamente» 45 , e ciò che essi devono obbiettivamente dire è la cosa, della quale parte qualitativa non eliminabile è, come leggemmo, l'esperien­ za soggettiva. La lotta contro l'assolutismo concettuale e quella per l'au­ tonomia - che è lotta morale - del soggetto, si incontrano.

Nella decifrazione si tratta allora di recuperare, attraverso i momenti soggettivi che mostrano la loro radicale non autonomia, i momenti auto­ nomi tanto del soggetto quanto dell'oggetto. E questo dovrebbe essere reso possibile per il fatto che il non identico del soggetto è fornito dal medesimo apparecchio che vorrebbe far scomparire il non identico del concetto: il concetto. Così:

la dialettica acquista un lato ultrarealistico. [...] Raccogliere e potenziare materia­ listicamente il concetto hegeliano di esperienza è dunque il programma di Adorno dove [...] l'essenza del logico è non logica, mentre il logico assoluto (Husserl, Hegel) si basa sulla premessa di un «a priori formale assolutamente libero dai fatti reali». [...] La Logik der Zerfalls ha insomma una base tradizionale 46 ;

che è quella che riconosce l'elemento idealistico in ogni pensiero che non introduca in se stesso la propria differenza specifica come antidoto. Cosa che Adorno ha cercato di fare proprio nella Dialettica negativa, luogo deputato della Logik der Zerfalls. La conclusione, per quel che ci interessa, è esemplare:

se la dialettica è differenza, quest'ultima smette di essere l'impensabile, e sta tutta entro il concetto. [...] La differenza che trova posto nella dialettica è un memento mori per la dialettica stessa: se essa è «ontologia dello stato falso», vive ed esiste finché la realtà è falsa essa stessa 4 '.

Quello che stiamo cercando è un modello di autoriflessione del pen­ siero dove il momento da superare è la coazione all'identità. Poiché tutto è mediato, di ogni cosa, appunto, si può domandare ragione, di ogni elemento si può provare a variare la costellazione. E in questa variazione che viene proposto il dolore come organo di senso per la differenza, ov­ vero per il non identico. E quindi come organo di senso per il processo interpretativo.

Th.W. Adorno, Terminologia filsofica, voi. I, cit., p. 177. F. Carmagnola, Conoscenza degli estremi, cit., pp. 126-27. Ibidem.

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In quanto il pensiero si sprofonda in quel che dapprima gli sta di fronte, il con­ cetto, diventando consapevole del suo carattere immanentemente antinomico, se­ gue l'idea di qualcosa che sarebbe al di là della contraddizione. Il contrasto tra il pensiero e l'eterogeneo rispetto ad esso si riproduce nel pensiero stesso come una sua contraddizione immanente. La critica reciproca di universale e particolare, atti d'identificazione, che giudicano se il concetto è adeguato al suo contenuto o se il particolare coincide anche con il suo concetto, sono il mezzo per pensare la non identità di particolare e concetto: e non solo quello del pensiero. Se l'umanità deve liberarsi dalla coazione che realmente subisce sotto forma di identificazione, deve anche conseguire l'identità con il proprio concetto. A ciò partecipano tutte le categorie rilevanti. Il principio di scambio, la riduzione del lavoro umano al con­ cetto universale astratto del tempo di lavoro medio, è imparentato strettamente con il principio di identificazione. Il suo modello sociale è lo scambio e non sarebbe senza di esso; tramite lo scambio entità singole e prestazioni non identiche diventano commensurabili, identiche. La diffusione del principio trasforma tutto il mondo in identico, in totalità 48 . '

Essa è l'identità irrazionale: «se a nessun uomo fosse più sottratta una parte del suo lavoro vivente, sarebbe raggiunta una identità razionale e la società avrebbe superato il pensiero identificante» 49 .

Come dire, in un altro modo, che l'utopia di un linguaggio dove ogni cosa corrisponda al suo segno, dove tra i parlanti sia istituita una perfetta comprensione, di fatto esiste: essa è la struttura sociale di produzione. Solo che esiste in una forma rovesciata. Così il «centro» attorno a cui stiamo indagando - il soggetto dell'organo di senso della differenza - è esso stesso un centro distorto, equilibrio di una struttura percepita dall'in­ dividuo come perennemente sull'orlo di una catastrofe. Dunque ciò di cui andiamo in cerca deve mostrare come siano possibili distorsione e identità allo stesso momento, ideologia e critica dell'ideologia nello stesso essere sociale ì0 . Per far questo riprendiamo quanto già accennato circa composi­ zione ed esecuzione musicali, in quanto modelli di prassi interpretativa 51 . Adorno concepisce l'esecuzione come una vera e propria interpretazione, dove il termine 'esecuzione' esce dal contesto strettamente artistico per

~1X Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 130-31.49 Ibidem.'" Evidentemente questo aspetto ci riguarda qui solo dal lato individuale, anche

se sarebbe necessario, in seguito, ricostruire più ampiamente le connessioni di questo con la collettività sociale.

51 Alcuni critici hanno notato l'importanza paradigmatica di queste due categorie. Si vedano, ad esempio: R. Tiedemann, Adorno Konferenz 1983, op. cit.; D. Schnebel, Komposition von Sprache - sprachlichc Gestaltung von Musik in Adornos Werk, in AA.VV., Thcodor W. Adorno zum Gcdàchtms, op. cit.

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entrare a indicare ogni sorta di «giustificazione» dei concetti; l'esecutore deve trovare l'interpretazione perfetta, non può accontentarsi di giungere semplicemente a considerare che quella certa successione di segni potreb­ be essere letta ed eseguita in questo o quest'altro modo - non può lasciare il testo in forma di domanda inespressa. Mentre ecco come viene mostrata da Adorno l'oggettività dell'interpretazione e dell'esecuzione.

Il pensiero finisce sempre col lavorare intorno ad una cosa e alle sue formulazioni che gli forniscono il suo elemento passivo. In termini-limite si può dire: io non penso, e questo è ben pensare. Un segno sensibile abbastanza appropriato per rendere visivamente tale verità, potrebbe essere costituito dalla matita o dalla penna che si tiene in mano mentre si pensa. [...] Simili strumenti, di cui si ha bisogno anche se non sono affatto comodi da usare, ci ricordano che non dobbia­ mo pensare a casaccio, ma a qualcosa di preciso. L'interpretazione e la critica dei testi è perciò il fondamento inestimabile dell'aggettività del pensiero^2 .

Questa posizione, di colui che «indossa» uno strumento di scrittura e «lavora» intorno alla cosa, appare davvero simile a quella del musicista con lo strumento in mano, per il quale il massimo di attenzione e concen- trazione deve, non porlo in primo piano, ma al contrario dare alla parti­ tura tutte le voci in essa contenute. Insomma è necessario che l'esecutore conosca la storia dell'opera che sta suonando.

Capire allora non significa altro che enucleare quel che l'autore di volta in volta ha voluto dire o, comunque, far emergere i moti psicologici e individuali. [...] Ma così come difficilmente si può stabilire che cosa un individuo ha pensato o provato nella tale e tal altra occasione, allo stesso modo da tali forme di penetrazione nell'animo dell'autore non si ricaverebbe nulla di essenziale. Gli impulsi degli autori si spengono nel contenuto oggettivo da quelli assunto. Per svelarsi, tuttavia, l'obiettiva pienezza dei significati racchiusi in qualsiasi fenomeno spirituale esige dal destinatario proprio quella spontaneità della fantasia soggettiva che invece viene frustata in nome di una disciplina oggettiva. Non c'è risultato interpretativo che al tempo stesso non sia proiezione all'interno dell'opera".

Si comincia cosi a chiarire il ruolo della soggettività nel processo interpretativo. La fantasia è soggettiva nella misura in cui si oppone alla falsa oggettività, e per quanto tenue sia è l'unico filo rimasto per uscire dal labirinto. Ancora più deciso è, se possibile, Adorno in un altro luogo:

' 2 Th.W. Adorno, Parole chiave, cit., pp. 18-19. Corsivo mio. ^ Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., p. 7.

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a voler essere precisi, // pensante non pensa affatto, ma si fa teatro dell'esperienza intellettuale, sema dipanarla. [...] I suoi concetti brillano della luce di un terminus ad quem che gli rimane sconosciuto e non invece di un manifesto terminus a quo, ed è qui che il suo stesso metodo esprime l'intenzione utopica.

E Adorno prosegue come avevamo già anticipato:

i suoi concetti vanno esposti in maniera che si sorreggano a vicenda e che ciascuno riceva la propria precisa articolazione soltanto dalle configurazioni che forma nel rapporto con altri. In esso elementi discreti e tra loro differenziati si raccolgono in un unico contesto leggibile; il saggio non crea costruzioni né strutture. Tuttavia attraverso il loro movimento gli elementi si cristallizzano in configurazione. Questa è un campo di forze così come nella visuale del saggio, ogni produzione spirituale deve tradursi in un campo di forze 54 .

L'irrinunciabilità del soggetto non deriva solo dalla dialettica dell'og- gettività dell'oggetto, ma anche dalla necessità di assentarsi. E solo un soggetto che ci sia può assentarsi. Perché le immagini del teatro che va messo in moto devono pur sempre essere coniate e avere senso. A propo­ sito della necessità di seguire da un lato il puro svolgersi delle determina­ zioni e dall'altro rappresentarsi ogni volta il contenuto di ogni preposizio­ ne, nella lettura di Hegel, Adorno precisa che «l'equivalente di tale espe­ rienza», quella dello spirito, « è nel lettore l'immaginazione» mentre: «se questi volesse meramente constatare che cosa significhi un passo, o addi­ rittura inseguire la chimera di indovinare cosa mai l'autore abbia voluto dire, gli si volatizzerebbe il contenuto» 55 .

L'immaginazione può far ciò che Adorno le chiede perché a fondo della sua capacità di mettere in forma differente le costellazioni entro cui compare il reale, così come per la memoria e il ricordo, si trova l'imma­ ginario come «processo latente collettivo», come risultato di una tradizio­ ne. Ma questa è stata a sua volta un'opera di ermeneutica, nel cui risultato è celata la forza che l'ha condotta in forma. La partecipazione della fan­ tasia individuale serve a mettere in moto le contraddizioni senza le quali neppure l'inconscio, che pure non ne ha, avrebbe di che esistere. La fantasia individuale partecipa per la sua caratteristica di portare, quasi come tracce rovesciate, cifrata la realtà, nient'affatto fantastica, in cui vive l'individuo. Che è poi la sola che ci preme di interpretare. E tale fantasia è un organo del rapporto tra tradizione e individuo.

54 Ibidem, pp. 17-18. Corsivo mio.55 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., pp. 190-91.

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Varrebbe la pena di scrivere una storia della fantasia. [...] La sua denigrazione [...] è un fenomeno tipico della regressione dello spirito borghese, che non deve tut­ tavia essere considerato come un suo errore evitabile, ma avviene nel segno di una fatalità che unisce la ragione strumentale di cui la società ha bisogno con quel tabù. [...] Fantasia significa meno inventare liberamente che operare mentalmente senza il soccorso pronto e affrettato dei fatti' 6 ;

e a proposito della filosofia della musica riusciamo a sapere che cosa il nostro intenda per fantasia. Altro non è che quella ars inveniendi cui serve da organo. Organo della Darstellung del pensiero l'esperienza e il deside­ rio, organo della arte combinatoria la fantasia; per questo, ad esempio:

la pedagogia musicale dovrebbe innanzi tutto sollecitare la capacità degli scolari della fantasia musicale, e insegnare agli scolari ad immaginarsi la musica con l'orecchio interiore. [...] Diventa così evidente la funzione fondamentale della fantasia, che è la capacità di concepire immediatamente ciò che si esegue e si ascolta come veicolo di un fattore spirituale".

E questa è la funzione stretta - giacché veicolo altro non significa - della 'forma', della tradizione. Del resto Adorno si esprime in maniera quasi identica, anni dopo, a proposito della lettura: «si deve leggere Hegel descrivendo insieme le curve del movimento spirituale, quasi a suonare con l'orecchio speculativo i pensieri come note» 58 . Diventa tradizione, ricordiamo, solo ciò che è stato rimosso, e che a causa di tale rimozione tende a diventar forma, nel senso che ogni forma corrisponde a un con­ tenuto rimosso. La tradizione così:

è in contraddizione con la razionalità, sebbene questa si formi all'interno di quella. Il suo mezzo non è la coscienza, ma il carattere vincolante dato, irriflesso, di determinate forme sociali, la presenza del passato, è tale carattere che si trasferisce immediatamente nella sfera spirituale. La tradizione in senso stretto è incompati­ bile con la società borghese 59 .

Ma il rapporto che la tradizione propone non è altro, l'abbiamo visto nella citazione adorniana di Benjamin, che il testo su cui si adopera l'in- terpretazione. Interpretare qualcosa che non sia passato in eredità ma che sia ancora da avvenire sarebbe un controsenso. Quando Adorno, quindi,

Th.W. Adorno, Dialettica e positivismo in sociologia, cit., pp. 64-65. Th.W. Adorno, Dissonanze, cit., pp. 133 e 135. Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 172. Th.W. Adorno, Parva Aesthetica, cit., p. 27.

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sostiene che la tradizione è a rigore incompatibile con la società borghese, è perché essa - del resto esattamente come il rimosso - conserva in forma qualcosa che dovrebbe essere, nelle intenzioni, consegnato all'oblio. Come la contraddizione, che è indice di una contraddizione reale astratta nel pensiero, anche la costrizione della tradizione non è mai derivata dal puro ciclo.

L'oblio è disumano perché fa dimenticare la sofferenza accumulata: giacché la traccia della storia nelle cose, nelle parole, nei colori e nei suoni è sempre quella della passata sofferenza. Per questo la tradizione si trova oggi davanti a una con­ traddizione insolubile: nessuna è attuale né da resuscitare, ma quando ogni tradi­ zione è spenta, la marcia verso la disumanità è iniziata 60 .

Già con questo, forse saremmo in grado di mostrare il ruolo della «soggettività», nel senso precisato, all'interno del processo interpretativo. È necessario però indicare - citando interamente il punto nevralgico in cui il Nostro spiega il carattere della tradizione, per evitare fraintendimenti e predisporre una buona comprensione della Dialettica negativa - in che senso la tradizione sia la forma della forma. Rileggiamo quindi dal saggio su Arnold Schònberg.

«Una tradizione - scrive Freud nell'ultima opera da lui portata a termine, "Mosè e il monoteismo" - basata soltanto sulla tradizione orale non potrebbe possedere il carattere ossessivo che è insito nel fenomeno religioso. Essa verrebbe ascoltata, valutata, e forse respinta, proprio come ogni altra notizia; ma non acquisterebbe mai il privilegio di potersi svincolare dal pensiero logico. Deve aver subito la rimozione, lo stato di permanenza nell'inconscio, prima di poter produrre al suo ritorno effetti cosi imponenti, di poter costringere le masse nel suo incantesimo.» Ma non solo la tradizione religiosa, anche quella estetica è ricordo di un fattore inconscio, addirittura rimosso. Quando essa sprigiona di fatto «effetti grandiosi», questi non nascono dalla coscienza rettilinea e di superficie della continuazione, ma semmai dal luogo in cui il ricordo inconscio spezza la continuità. La tradizione è presente nelle opere accusate di sperimentalismo, e non in quelle intenzional­ mente tradizionalistiche. [...] Egli [Schònberg] rivolge una feconda critica al ma­ nifesto materiale sonoro del classicismo e del romanticismo, agli accordi tonali e ai loro collegamenti guidati da norme precise, al melodizzare contenuto tra inter­ valli di seconda e quelli delle triadi, insomma a tutta la facciata della musica degli ultimi duecento anni. Ma nella grande musica della tradizione questi elementi non interessavano in quanto tali, bensì in quanto essi assumevano una funzione precisa nel rappresentare lo specifico contenuto musicale, il dato compositivo. Sotto la facciata c'era un'altra struttura latente, determinata in vari modi dalla facciata ma

60 Ibidem, p. 33.

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sempre producente e giustificante dal suo interno tale facciata, intesa come un elemento costantemente problematico. Capire la musica tradizionale significò sem­ pre anche rendersi conto, insieme con la struttura della facciata, anche di quell'al­ tra struttura, realizzando il rapporto reciproco tra le due. [...] La spontanea forza creativa di Schònberg eseguì un'oggettiva sentenza storica, diede cioè libero corso alla struttura latente mettendo da parte quella manifesta 61 .

È questa quella che abbiamo chiamato, con Adorno, esecuzione. Non che senza Schònberg la sentenza sarebbe stata annullata, oppure che qualcuno avrebbe dovuto «far la parte» di Schònberg. Semplicemente qualcuno doveva essere in grado di avvertire non solo la facciata, ma anche la portanza latente. In grado di sentire ovunque la forma come contenuto. La forma intesa fin nel suo intimo, l'intimo di quegli intervalli che secondo Fiatone davano il ritmo alla saggezza e alla bellezza, e che secondo l'avversario Aristotele, erano addirittura ritmati sulle orbite cele­ sti. Quella «natura» andava sentita come «storia», qualcuno doveva avver­ tire il dolore annidato nella forma, nella rimozione, e dargli parola. Questo non significa, e il dialettico Adorno ne è del tutto consapevole, che l'eli­ minazione della forma darebbe come risultato la libertà. Come per la tradizione la forma è la forma della memoria che non può essere ricordata. E questa memoria è ancor meglio che nessuna memoria. L'interpretazione non fa che applicare alla lettera la legge dell'identità, variando il campo di forze della configurazione, e quindi il significato complessivo. Là dove questa variazione viene avvertita come «dolore» dal soggetto che, nella dialettica tra rimozione e ritorno del rimosso, «si fa teatro dell'esperienza» sostituendo le parti mancanti con le sue immagini - della cui origine abbiamo già discusso abbastanza - significa che una contraddizione del «testo» è penetrata nella esistenza individuale e che la forma è stata lace­ rata e la totalità rotta. Ottenere queste prospettive è, appunto, secondo Adorno il compito della filosofia.

Non è quindi per amor della sofferenza, o per pessimismo, che Ador­ no assegna al doloroso - al «da rimuovere» - tanta parte. E del resto si potrebbe dire, in modo semplice, che il dolore altro non è che il negativo nella forma dell'esperienza del singolo il quale, con immagini di felicità prese a prestito dalla: «memoria di ciò che propriamente non si lascia più ricordare», fa la prova: pronunciando tutti i nomi per vedere quali dolga­ no. L'eliminazione della forma non coincide con la libertà più di quanto

Th.W. Adorno, Prismi, cit., pp. 153-54.

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il libero scambio coincida con l'abolizione della coazione identitaria. Per questo Adorno sostiene che solo in una società dove a nessuno fosse sottratta parte del suo lavoro si potrebbe realizzare un'identità non mac­ chiata da una falsa equivalenza. Fino a allora il dolore resterà una contrad­ dizione oggettiva avvertita dal soggetto, teatro dell'esperienza. Avvertita dal soggetto che tanto più viene distrutto tanto più lascia intravedere la trama del sovrasoggettivo. Tuttavia «avvertita» non intende certo un modello di coscienza assoluta. L'avvertimento della contraddizione ogget­ tiva è, da parte del soggetto, per lo più inconscio. Per questo dobbiamo ancora compiere il passo della dialettica della forma - della parodia - prima di concludere la ricerca, e vedere come la storia entri a costituire tutti i punti di questa configurazione.

IL DEBITO STORICO E IL RAPPORTO TRA VERITÀ E PIACERE

Nei vari rapporti dialettici che abbiamo analizzato fin qui - memoria, ricordo, tradizione, e via dicendo - una delle dimensioni specifiche della dialettica è rimasta in ombra. E in effetti non perché sia poco importante ai nostri fini. Si tratta di quel che Hegel così spiega nella Fenomenologia dello spirito 62 :

La sostanza viva è bensì l'essere il quale è in verità Soggetto, o, ciò che è poi lo stesso, è l'essere che in verità è effettuale, ma soltanto in quanto la sostanza è il movimento del porre se stesso, o in quanto essa è la mediazione del divenir-altro- da-sé con se stesso. Come soggetto essa è la pura negatività semplice, ed è, proprio per ciò, la scissione del semplice in due parti, o la duplicazione opponente; questa, a sua volta, è la negazione di questa diversità indifferente e della sua opposizione; soltanto questa ricostituentesi eguaglianza o la riflessione entro l'esser-altro in se stesso, - non unità originaria come tale, né unità immediata come tale, - è il vero. Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all'inizio la propria fine come proprio fine, e che solo mediante l'attuazione e la propria fine è effet­ tuale.

E, più oltre, vien detto che cosa sia tale «ricostituentesi eguaglianza»:

l'elemento della filosofia è il processo che si crea e percorre i suoi momenti; e questo intero movimento costituisce il positivo, e la verità del positivo medesimo. Così la verità racchiude in sé anche il negativo, ossia ciò che si chiamerebbe il

62 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 14.

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falso, qualora potesse venir considerato come alcunché dal quale si debba far astrazione. Ciò che sta dileguando deve anzi venir considerato esso stesso come essenziale; esso, cioè, non è da considerare nella determinazione di un alcunché di rigido, che, tagliato via dal vero, debba venir abbandonato, dove che sia, al di fuori di questo; né d'altronde il vero è da considerare come un alcunché di positivizzato e morto, giacente inerte dall'altra parte. L'apparenza è un sorgere e un passare che né sorge né passa, ma che è in sé e costituisce l'effettualità e il movimento della vita della verità. Per tal modo, il vero è il trionfo bacchico dove non c'è membro che non sia ebbro 65 .

Adorno commenta proprio questo celebre passo della Vorrede hege­ liana: «nella sua microstruttura il pensiero hegeliano, come la sua figura letteraria, è quel che Benjamin chiamava "dialettica in stasi"» 64 ; ovvero la capacità di «fare come se» si potesse sospendere il corso delle reciproche determinazioni dialettiche per sorprenderne due, per dir così, sull'atto di congiungersi.

Stiamo qui trattando di qualcosa di essenziale alla dialettica. Forse non la peggiore tra le sue definizioni sarebbe quella che la identificasse con la forza di cogliere il vero come movimento anziché come risultato. Con il suo corollario secondo il quale soggetti e oggetti sono altrettanto divenire quanto il divenire della loro relazione. Se abbiamo lasciato che mancasse questo aspetto dalla trattazione di una teoria dell'interpretazione in Adorno, è stato in primo luogo perché la questione è sufficientemente nota (sebbene spesso si direbbe, con Hegel, nota ma per questo non affatto conosciuta...), e in secondo luogo perché una sua anche insufficien­ te trattazione ci avrebbe occupati troppo a lungo. Se ora se ne scrive seppure brevemente è per arricchire di questa determinazione quanto detto in precedenza sulla costellazione e sul destino della lingua. La paro­ dia è infatti, per anticipare qualcosa, un movimento che si attua all'interno di due dimensioni storiche differenti entro una stessa configurazione.

Nella terminologia filosofica leggemmo che: «i termini filosofici sono, propriamente, dei punti nodali della storia del pensiero che si sono con­ servati e attorno a cui ruota - per cosi dire - la storia della filosofia. Oppure - se mi consentite la formulazione: ogni termine filosofico è la cicatrice di un problema irrisolto» 615 , ma la cicatrice è come il sintomo: essa esprime non solo il passato, l'accaduto, ma altrettanto radicalmente il presente, il ritorno del rimosso, per come esso si è determinato.

63 Ibidem, pp. 37-38.64 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 184.65 Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, voi. I, cit., p. 213.

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192 CRITICA DEL NON VERO

Si potrebbe dire che ogniqualvolta un termine si è cristallizzato e ricompare con­ tinuamente, esso non indica sempre e univocamente la stessa cosa, ma potete invece esser certi che è accaduto qualcosa di cui i filosofi non sono venuti a capo 66 .

Come dire che le parole che conserviamo sono solo quelle irrisolte, di cui non si è riusciti «a fornire la giustificazione». Giustificazione che è sempre extralessicale, così che conclude Adorno: «la mia tesi è che i ter­ mini invariati esprimono l'identità dei problemi tramandati, mentre il processo storico che risolve i problemi in modi diversi dev'essere cercato nel cambiamento dei significati» 67 .

Anche a proposito del rapporto tra tradizione, cioè storia rimossa, delle parole in generale e le parole stesse, Adorno si esprime chiaramente.

La lingua della scrittura non è un agglomerato di contrassegni; nella scrittura i valori di ciascuna parola e di ciascun nesso di parole ricevono oggettivamente la loro espressione dalla loro storia, e dentro la storia delle parole sta il processo storico in generale 68;

per questo terminologia e tradizione intrattengono un rapporto così stret­ to, perché:

questa trasmissione [quella dei problemi dei quali «non si è venuti a capo»] è una funzione della terminologia, che in tal modo è a priori in un certo rapporto di contrasto o di contraddizione col pensiero immediato della cosa stessa. Essa ha cosi qualcosa dei fenomeni di pedagogizzazione che possiamo osservare oggi: il problema di insegnare qualcosa ad altre persone, di trovare i mezzi con cui comu­ nicare e trasmettere loro certe conoscenze, viene a sostituire il problema della cosa stessa o della verità della cosa 69 ;

anche se bisogna constatare che purtroppo oggi:

la disputa su ciò che i filosofi intendevano dire nei loro testi ha preso il posto del problema di ciò che i testi dicono in se stessi, e del rapporto che esiste fra ciò che essi dicono con la verità che noi possiamo pensare. Lavorare contro questa specie di filologizzazione è certo uno dei compiti essenziali della filosofia 70 .

66 Ibidem, p. 214.67 Ibidem, p. 215.68 Th.W. Adorno, Parva Aesthetica, cit., p. 32.69 Th.W. Adorno, Terminologia filoso/tea, voi. I, cit., p. 58.70 Ibidem, pp. 64-65.

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DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA ^93

È ancora in quest'ambito di pensiero che riacquista pieno significato quanto leggemmo sulle «omissioni del testo» che sono sempre in qualche modo omissioni del termine per un concetto o del concetto tout court: «più importante di ciò che egli aveva in mente è ciò di cui parla» giacché non è il soggetto scrivente a guidare la dialettica di terminologia/tradizio­ ne che abbiamo appena delineato:

il primato dell'obiettività, rispetto al corso dei pensieri quali si vorrebbero, della determinata circostanza che dev'essere considerata, costituisce anche nella filosofia di Hegel un'istanza contro la medesima. Se all'interno di un paragrafo il problema che gli compete si delinea come circoscritto e risolto [...] allora anche l'intenzione di Hegel si chiarisce, sia che ciò che egli pensava cripticamente ora si disveli da sé, sia che le sue considerazioni si articolino attraverso le loro stesse omissioni".

Contro queste accumulazioni di storia nelle parole e nelle costellazio­ ni, accumulazione che oscilla sempre tra soluzione e rimozione, si pone la trascendenza della singola parola, il cui rappresentante paradigmatico Adorno individua in Heidegger. Chi abusa di questa trascendenza, che deriva, secondo il Nostro, dal rapporto tra particolare e universale:

punta su una teoria prettamente nominalista del linguaggio, secondo la quale le parole sono gettoni da gioco scambiabili, non toccate dalla storia. Questa tuttavia penetra in ogni parola e impedisce ad esse la riproduzione di quel presunto senso originario di cui il gergo va a caccia. Che cosa è gergo e che cosa no dipende dal fatto di scrivere la parola con un accento nel quale essa si ponga come trascenden­ te rispetto al proprio significato; oppure di dare peso alle singole parole a spese della proposizione, del giudizio, del pensato 72 .

A fronte di questa trascendenza ne esiste un'altra.

Il desideratum della filosofia, quel che le è esclusivamente proprio e in ragione del quale la rappresentazione (Darstellung) le è essenziale, è il motivo per cui tutte le parole dicono più di quanto ciascuna dice. Di ciò approfitta la tecnica del gergo. La trascendenza della verità rispetto al significato delle singole parole e dei giudizi viene aggiunta alle parole stesse come loro proprietà immutabile, mentre quel Più si costruisce solo nella costellazione, in forma mediata. Il linguaggio filosofico, in base al suo ideale, trascende ciò che dice tramite ciò che dice nel corso del pen-

71 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., pp. 181-82.72 Th.W. Adorno, Jargon der Eigentlichkeit. Zur deutschen Ideologie, Suhrkamo

Verlag, Frankfurt a. M. 1964; ed. it., Gergo dell'autenticità. Sull'ideologia tedesca, a cura di R. Bodei, Bollati Boringhieri, Torino 1969, p. 10.

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194 CRITICA DEL NON VERO

siero. Esso trascende in forma dialettica, quando al suo interno la contraddizione di verità e pensiero diventa cosciente di sé e dunque padrona di sé 73 .

Ogni pensiero contiene dunque, nella sua materialità formale, nel contenuto d'esperienza, nelle sue leggi segniche e simboliche, una storia che deve essere conosciuta. Il suo valore non è deciso dall'oggetto né dall'interesse del soggetto - piuttosto dalla sua capacità di aprire all'espe­ rienza. E dunque, poiché l'esperienza non è immediatamente il pensiero, di andar contro di sé, di aprire quel che pure stando a suo fondamento, viene da esso negato sotto l'identificazione. Questa è la sua forza. Ogni interpretazione è così uno smontaggio di una costellazione a partire da una determinata cristallizzazione storica di essa. Cristallizzazione che si lascia leggere per lo più nella dialettica storica dei termini e del rapporto tra senso (per cui desiderio e ricordo) del singolo e rappresentazione (Darstellung) della struttura sociale. L'atto della comprensione è contem­ poraneo, anzi forse è lo stesso del giudizio formulato secondo l'intricato e incosciente avvertimento soggettivo della contraddizione sotto l'aspetto della tradizione, della rimozione e della «forma naturale». In quel che si avverte come mancanza, anche nell'esperienza individuale, tanto più dove l'autonomia del soggetto è ridotta dalla potenza della struttura, si intrave­ de la traccia di quel che è stato necessario sottrarre alla cosa per giungere all'espressione. Sottrazione a cui si aggiunge quella propria e determinata di quella espressione rispetto a tutte le altre possibili. Questa doppia in­ terpretazione, o esecuzione ideologica, si può dire ripeta, ogni volta, il processo, messo in luce da Adorno, della dialettica dell'illuminismo, dalla mimesi al simbolo e poi al segno. Dove la progressiva separazione istitu­ isce lo spazio di differenza entro il quale poi di necessità si situerebbe l'interpretazione come critica. Senza quelle sottrazioni, o sovracostruzioni, il che è qui lo stesso, c'è, appunto, solo la paura come rapporto con il naturale, e la paura non è una interpretazione. Molto freudiano in questo, Adorno scommette sulla ineliminabilità del desiderio come motore del processo illuministico, e della autoriflessione di esso; autoriflessione che trova il suo culmine proprio nella interpretazione offerta da Dialettica negativa. Senza desiderio quindi, a livello di esecutori delle rappresenta­ zioni delle configurazioni (Darstellungen der Konstellation], non c'è inter­ pretazione poiché manca la distanza tra pensiero e realtà. Giacché il de­ siderio del pensiero è stato, secondo il Nostro, modellato sul lavoro come

73 Ibidem, pp. 12-13.

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DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA \^

primo fondamentale atto negativo. Ma anche senza l'obbligo all'identità razionale di pensiero e realtà, non si da desiderio, e quindi la contraddi­ zione che richiede l'interpretazione.

In un certo senso dotare di contenuto reale un pensiero e conoscere a quale desiderio esso risponda sono la medesima cosa. La differenza in tale medesimità, la dialettica della formazione dell'individuo, è lo spazio che Adorno assegna all'interpretazione. Solo in esso la capacità dell'indi­ viduo di produrre immagini come proiezione e sostituto dell'esperienza, consente la posizione dell'arte combinatoria che elimina il carattere di enigma del reale falso per far riferimento, sotto di esso, ai suoi moventi. In questo, accettare ogni pensiero come risposta a desideri e decidere sulla loro soddisfazione è tutt'uno. È però necessario mostrare come tale unità, la cui leva etica abbiamo già indicato, faccia riferimento a una categoria di verità ingenua, realista e al contèmpo essenzialmente critico dialettica. Scrive Adorno che:

la filosofia non consiste semplicemente nella corrispondenza fra il pensiero e il linguaggio da un lato e l'oggetto dall'altro, ma in verità possiede o coglie il suo oggetto sempre soltanto in quanto lo sorpassa, è qualcosa di più del puro oggetto. Di conseguenza l'immagine, o l'allegoria, è un elemento pressoché irrinunciabile della stessa filosofia ' 4 .

E quindi la filosofia è più che una interpretazione del mondo, è una critica che anticipa, per quanto le è possibile, un'altra forma sociale. Così che il processo interpretativo, che tanto si appoggia alla contraddizione oggettiva, soggettivamente avvertita dall'individuo come dolore e infelici­ tà, nel momento in cui scioglie l'apparenza di ineluttabilità del proprio oggetto, si fa anche strumento di liberazione. Però, questo non può acca­ dere una volta per tutte. L'interpretazione che ha sempre a che fare con le parole deve in ogni momento tener presente che se è richiamata fuori di esse, è perché il linguaggio stesso non è linguistico ma storico. Non è quindi legittimo:

cercare di fare a meno di ogni surplus storico. Bisogna confrontare ciò che le parole storicamente evocano con il livello di coscienza che è il proprio, e chiedersi se ciò che si tratta di esprimere qui può essere ancora considerato come qualcosa di sostanziale dal punto di vista della cosa 7 '.

' 4 Th.W. Adorno, Terminologia filolofica, voi. I, cit., pp. 63-64. '' Ibidem.

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Questa evocazione storica ha il suo corrispettivo nell'atteggiamento d'attesa del soggetto:

chi voglia conoscere una cosa, e non ricamarvi sopra con delle categorie, deve invero rimettersi ad essa senza riserve, senza coperture pregiudiziali; ciò gli riesce, però, solo qualora in lui stesso vi sia già in stato di attesa, come teoria, il potenziale di quel sapere che poi si attualizza solo mediante lo sprofondarsi nell'oggetto 76 ;

una «precomprensione», direbbero gli ermeneuti, che non è solo esisten­ ziale, bensì anche sedimentata nell'oggetto che è socialmente prodotto né più né meno delle parole. Per questo:

l'oggetto si apre ad un'insistenza monadologica, che è cosciente della costellazione in cui esso sta: la possibilità di penetrare all'interno richiede quell'elemento este­ riore. Tale universalità immanente nel singolo è però aggettiva come storia sedimen­ tata. Essa è in lui e fuori di lui, un elemento che lo avvolge, in esso ha il suo posto. Cogliere la costellazione in cui sta la cosa equivale a decifrarla come quella che lo porta in sé come suo divenuto. [...] Soltanto un sapere che ha presente anche la collocazione storica dell'oggetto nel suo rapporto con altri, è in grado di liberare la storia nell'oggetto: attualizzazione e concentrazione di qualcosa di già noto, che lo modifica. La conoscenza dell'oggetto nella sua costellazione è conoscenza del processo accumulato in esso 11 .

Tra l'altro la «insistenza monadologica» trova in Teoria estetica una sua più ampia formulazione nel carattere monadologico delle opere d'arte: sempre più l'atto interpretativo cessa di far differenza sulla categoria alla quale dovrebbe appartenere il suo proprio oggetto, per divenire atto cri­ tico vero e proprio. Esso è alla ricerca dei «punti ciechi della storia» allo stesso modo in cui Marx chiarì, una volta per tutte, che la società si cifra nei suoi prodotti i quali le appaiono incomprensibili fino a che oscuro rimane il fondamento della loro produzione. La rimozione storica, ripor­ tare a coscienza la quale è il compito dell'interpretazione critica, non appare dunque mai come un dato di fatto, ma è nascosta sotto le contrad­ dizioni che, come dei sintomi, tendono a costituire una totalità senza via d'uscita. Non è la totalità ciò di cui l'interpretazione va in cerca. Poiché essa è presente solo nelle sue contraddizioni determinate, e queste a loro volta sono tali in quanto nascondono l'effettuale, il «testo» da leggere si può dire che, a rigor di termini, non esista ancora. Ciò di cui disponiamo

76 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 123.77 Th.W. Adorno, Negative Dialektik, p. cit., p. 165. Corsivi miei.

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DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA \()~]

sono solo gli scarti della sua soppressione delle sue tracce. La questione appare più chiara, forse, seguendo quanto scrisse Adorno a proposito dell'amico Benjamin.

Se Benjamin ebbe a scrivere che la storia è stata scritta finora dal punto di vista del vincitore e deve essere scritta da quello dei vinti, occorre aggiungere che la conoscenza deve bensì rappresentare la logica infausta della successione di vittoria e disfatta, ma deve rivolgersi - nello stesso tempo - a ciò che non è entrato in questa dinamica, a ciò che è rimasto per via: ai prodotti di scarto e ai punti ciechi che sono sfuggiti alla dialettica. [...] Ciò che trascende la società dominante, non è solo la potenzialità che essa ha sviluppato, ma anche ciò che non è entrato nelle leggi del movimento storico. La teoria si vede rinviata all'obliquo, all'opaco, all'indetermi­ nato, che, come tale, ha senza dubbio qualcosa di anacronistico, ma non si esau­ risce nell'invecchiato, perché ha giocato un tiro alla dinamica storica. [...] Gli scritti di Benjamin sono il tentativo, continuamente ripreso, di mettere filosofica- mente a frutto ciò che non è ancora determinato dalle grandi intenzioni. Il compito che egli ci ha lasciato in eredità è quello di non affidare esclusivamente questo tentativo ai rebus sconcertanti del pensiero, ma di recuperare ciò che è privo di intenzione attraverso il concetto: l'obbligo di pensare dialetticamente e non dialetti­ camente ad un tempo'*.

Il «privo di intenzione» era, lo ricordiamo, il punto nevralgico della ermeneutica filosofica nei saggi degli anni Trenta. L'appiglio dialettico della critica deve passare attraverso di esso - come la Deutung freudiana attraverso il Lustprinzip - perché solo li sopravvive ancora il non-identico della totalità sociale sviluppata. Essa ha soppresso le proprie origini nel tentativo di occultare le proprie contraddizioni. Ma capire significa affer­ rare il processo dialettico, e senza contraddizioni non c'è processo. Non è allora per amore dei «minimi passaggi» che l'interpretazione si affida all'eccentrico e all'individuale; non è una sua forza ma una sua debolezza il fatto che la storia si conservi solo in essi; però questa debolezza e pur tuttavia una chance. Le immagini di felicità dell'infanzia non valgono come terminus ad quem dell'interpretazione, ma come corpo di uno spirito che è ancora di là da venire; segno che una diversa realtà deve poter esistere:

le tracce discendono dall'indicibile dell'infanzia, che una volta diceva tutto. [...] Ma l'adulto che ricorda tutto ciò porterà alla vittoria le pedine che a suo tempo ha perso al gioco, senza tuttavia tradirne l'immagine alla ragione troppo adulta; quasi ogni ermeneutica accogli in sé la spiegazione razionalistica e poi la strapazza per bene. Le esperienze sono tanto poco esoteriche quanto ciò che una volta

Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., pp. 178-79. Corsivi miei.

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198 CRITICA DEL NON VERO

commuoveva nelle campane di Natale e che ora non si lascia mai completamente cancellare: quel che è ora e qui non può essere tutto 79 .

L'interpretazione non affronta il proprio compito del tutto disarmata. Se non si intende la coscienza come mero portavoce del principio di realtà, e se si riconosce come anche la più rarefatta tra le funzioni trascen­ dentali abbia un referente empirico, allora si deve anche ristabilire la verità dell'idealismo: il soggetto riflette se stesso, l'oggetto no. Ma questo non comporta che l'interpretazione sia idealista. Al contrario. Uscire dal concetto le è essenziale tanto quanto entrarvi davvero. E ciò è possibile perché resta vero - contro l'idealismo - il primato dell'oggetto; la coscien­ za è infatti il processo di riflessione di una conciliazione (quella di soggetto e oggetto) che non è riuscita, e la negatività del pensiero lo sta a testimo­ niare. La critica è così costretta a fare ritorno all'«impotenza dello spirito», a prender coscienza del fatto che il rapporto del pensiero con i suoi og­ getti è esso stesso un prodotto sociale, la soluzione del quale coincide, «in ultima istanza» come s'usa dire, con quella di un superamento delle attuali contraddittorie forme sociali.

La coscienza è funzione del soggetto vivente, il suo concetto è formato a sua immagine. Ciò non si può eliminare dal suo senso. L'obiezione che in tal modo si confonde il momento empirico della soggettività con quella trascendentale o essen­ ziale è debole. Senza alcuna relazione con una coscienza empirica, quella dell'io vivente, non ci sarebbe alcuna coscienza trascendentale, puramente spirituale. Riflessioni analoghe sulla genesi dell'oggetto sarebbero vane. Mediazione dell'og­ getto significa che non può essere ipostatizzato staticamente, dogmaticamente, ma è conoscibile soltanto nel suo intreccio con la soggettività; mediazione del soggetto significa che letteralmente non sarebbe senza il momento dell'oggettività. Indice del primato dell'oggetto è l'impotenza dello spirito in tutti i suoi giudizi come nell'organizzazione della realtà. L'elemento negativo, cioè che allo spirito non è riuscita la conciliazione insieme all'identificazione, diventa motore della propria demistificazione. Esso è vero e apparenza: vero, perché nulla è esente dal dominio che esso ha portato alla sua forma pura; non vero: perché nella sua confusione con il dominio non è affatto lo spirito che si crede di essere e per cui si spaccia. Con ciò l'illuminismo trascende la sua autointerpretazione tradizionale: essa non è più soltanto demitologizzazione come reductio ad hominem, bensì viceversa anche come reductio hominis, come comprensione dell'inganno del soggetto stilizzantesi ad assoluto. Il soggetto è la tarda forma del mito, eppure simile alla più antica 80 .

79 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., pp. 220-21. Adorno sta, nel brano citato, parlando di E. Bloch.

80 Th.W. Adorno, Negative Dialektik, cit., p. 186.

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DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA 199

II soggetto è mitico poiché mitica è:

la celebrazione dell'insensato come senso, la ripetizione rituale di connessioni naturali in singole azioni simboliche come se in tal modo fossero una sovranatura. Categorie come l'angoscia, di cui si deve almeno stabilire che non dovrebbe durare per sempre, diventano [...] elementi costitutivi dell'essere in quanto tale 81 .

L'interpretazione è legata alla autointerpretazione del pensiero più di quanto di solito si ammetta. Non perché «l'essere che può essere compre­ so è linguaggio», ma al contrario perché anche il linguaggio deve essere compreso come essere sociale. L'opera di composizione di differenti co­ stellazioni, che è tutt'uno con l'interpretazione, non è allora solo un arti­ ficio atto a disvelare la falsa apparenza, non è solo illuminismo, ma al contempo anche critica del mito illuministico di una ragione naturalmente indirizzata alla felicità degli uomini. L'idealismo di questa fede non sta però nella convinzione che la ragione debba poter guidare l'organizzazio­ ne dell'esistenza, ma nell'aver espulso dallo spirito - e di conseguenza dalla verità - ogni riferimento alla materia, nell'aver fatto del bene qual­ cosa che non ha nulla a che spartire con il piacere. Come dire che la dialettica dell'illuminismo ha occultato la dialettica di materia e spirito, la cui conciliazione pure fu il suo scopo dichiarato.

Contro questa estrema idealizzazione anche del momento corporale Adorno sostenne che non ha senso una verità che non abbia a che fare con il piacere fisico e, in ultima istanza, con quello sensuale. Se la repressione dell'individuo è il prezzo pagato dall'illuminismo nella sua battaglia contro il mito, l'autocritica dell'illuminismo deve cominciare, o meglio trova il suo motivo, proprio li:

l'aspirazione materialista di capire la cosa, esige il contrario: l'oggetto nella sua interezza si potrebbe pensare solo senza immagine. Tale assenza d'immagine con­ verge con il divieto teologico di farsi un'immagine di Dio. Il materialismo lo secolarizza, non permettendo di dipingersi positivamente l'utopia: questo è il con­ tenuto della sua negatività. Esso è d'accordo con la teologia, laddove è più mate­ rialistico. La sua nostalgia sarebbe la resurrezione della carne, che invece è del tutto estranea all'idealismo, il regno dello spirito assoluto. Punto di fuga del materialismo sarebbe la propria negazione, la liberazione dello spirito dal primato dei bisogni materiali nella condizione della loro soddisfazione. Lo spirito potrebbe conciliarsi soltanto con l'impulso corporale placato e diventare quel che da tanto

Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 107.

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tempo promette soltanto, finché - entro il sortilegio delle condizioni materiali - nega la soddisfazione dei bisogni materiali 82 .

Allora l'individualità che serve da sostegno all'interpretazione critica non è più cieca sulle proprie origine, non è individualità come mero sup­ porto delle funzioni soggettive, delle quali giustamente va condotta fino in fondo la critica, ma elemento nel quale si incontrano il presente della negazione e il telos della liberazione. Dolore, ricordo e desiderio non sono esistenziali ma momenti materiali della storia. L'interpretazione che li usa per scomporre le costellazioni enigmatiche in figurazioni trasparenti, nel- l'opporsi alla falsa totalità si ritrova opposta anche a se stessa, rimandata ad un livello elementare della sensazione dove non c'è nulla da interpre­ tare, infatti:

non c'è sensazione senza momento somatico. [...] Qualunque sensazione è in sé anche senso del corpo. Non si può nemmeno dire che questo «accompagni» quel­ la. [...] Il timbro verbale di parole come sensibile, sensuale, anzi già quello di sensazione, rivela quanto poco le fattispecie cosi designate siano puri momenti della conoscenza, come li tratta la gnoseologia. La ricostruzione immanente al soggetto del mondo oggettuale non avrebbe potuto costruire la base della sua gerarchia, la sensazione appunto, senza la physis, e la gnoseologia autarchica solo su di essa. Come elemento non puramente cognitivo della conoscenza il momento somatico è irriducibile. [...] Il fatto che le prestazioni cognitive del soggetto della conoscenza secondo il loro senso siano somatiche, tocca non solo il rapporto di fondazione di soggetto ed oggetto, ma anche la dignità del corporale. Al polo ontico della conoscenza esso si rivela come suo nucleo 83 .

L'esistenza di questo «nucleo» non è, però, la base di una metafisica sensista. Adorno, cosciente di star riflettendo su un momento originario virtuale, sui «pensieri di Dio prima della creazione», non vuole affatto affermare che la riflessione critica debba chiudersi una volta raggiunto il «grado zero» del soma. Intanto perché l'uomo non segue la legge mecca­ nica della causalità newtoniana, e il fatto che alla base si ritrovi sempre l'elemento corporeo non significa che esso, in quanto causa, sia superiore e spieghi tutti i suoi effetti. Ma poi, e soprattutto, perché lo stadio elemen­ tare del corpo è indissolubilmente intrecciato con la concreta situazione della coscienza del corpo. Detto altrimenti, riprendendo i termini de Die

82 Ibidem, p. 185. 85 Ibidem, p. 173.

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Idee der Naturgeschichte, la natura sulla quale si è elevata la società è diventata sociale tanto quanto appare, di contro, naturale la organizzazio­ ne capitalista di quella. Solo nella negazione dell'apparenza naturale della società si accede ancora, e per via negativa, ad una natura non trasmutata. È questo che connette l'interpretazione alla «dignità corporale» come nucleo del «polo ontico» della conoscenza. Man mano che la critica sma­ schera la verità occultata nelle rappresentazioni ideologiche, variando e decentrando, in base al ricordo e al desiderio di felicità contenuti nell'in­ dividuo, la struttura degli intrecci dialettici fino a che esibiscano una di­ versa possibilità di conciliazione che essi pure portano in loro, le si fa incontro il proprio per altro, la materia dalla quale sono derivate le forme logiche contro le quali si adopera.

L'estremo riferirsi al piacere sensuale delle mediazioni e quindi il nucleo materiale della gnoseologia, allora, e siamo qui giunti al nucleo della prassi interpretativa di Adorno, è la prima apparizione della forma parodica che la contraddizione assume quando un contenuto materiale si presenta opposto ad un altro come una forma di contro ad un contenuto. Chiarire in che rapporto questi due elementi stiano tra di loro all'interno della prassi interpretativa, e come la forma si sdoppi in tradizione e anti­ cipazione, sarà il compito del prossimo paragrafo. Per adesso concludiamo vedendo all'opera questa negatività nel nesso tra pensiero e infelicità in­ dividuale.

Ogni dolore ed ogni negatività, motore del pensiero dialettico, sono la forma alta­ mente mediata, talvolta irriconoscibile, del fisico, cosi come ogni felicità tende alla soddisfazione sensuale e in essa ottiene la sua aggettività. Se si toglie alla felicità ogni aspetto in tal senso, non è più tale. Nei dati soggettivamente sensuali quella dimensione, che a sua volta è l'elemento che si oppone allo spirito nello spirito, viene ridotta in certo modo alla sua riproduzione gnoseologica. [...] È comodo criticare questa teoria come celatamente ingenuamente naturalistica. Ma in essa vibra un'ultima volta il momento somatico entro la gnoseologia, prima che venga del tutto eliminato. Esso sopravvive nella conoscenza come sua inquietudine, che la mette in movimento e si riproduce implacabilmente nel suo sviluppo. La co­ scienza infelice non è una accecata vanità dello spirito, ma gli è inerente, l'unica autentica dignità che ricevette nella separazione dal corpo. [...] La minima traccia di una sofferenza senza senso nel mondo dell'esperienza smentisce tutta la filoso­ fia dell'identità. [...] // momento corporale annuncia alla conoscenza che non ci deve essere sofferenza, che tutto deve diventare diverso. [...] Per questo l'elemento speci­ ficamente materialistico converge con quello critico, con la prassi che muta la società. L'eliminazione del dolore, o la sua attenuazione fino a un grado che non è antici- pabile teoreticamente e al quale non si può porre alcun limite, dipende non dal singolo, che sente il dolore, ma soltanto dal genere, cui appartiene anche quando se

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202 CRITICA DEL NON VERO

ne separa e aggettivamente viene respinto nella solitudine assoluta dell'oggetto im- potenfe 84 .

Se questo è vero, tutto l'apparato interpretativo che abbiamo fin qui ricostruito deve, anch'esso, commisurarsi e trovare ragione nello stesso «elemento specificatamente materiale», in ultima istanza la protesta che «non ci deve essere sofferenza».

PER UNA TEORIA DELL'INTERPRETAZIONE: LA PARODIA

Nel corrispettivo nell'edizione tedesca dei testi di Adorno disponibili in italiano, si contano soltanto poche occorrenze del termine 'parodia' - Parodie in tedesco. Se nonostante questo verrà impiegata per definire la chiave della prassi interpretativa di Adorno, questo è dovuto al fatto che non si tratta di «trovare» una parola, quanto di definire un concetto. In questo senso si sarebbe potuto cercare di dare la costellazione di qualche altro termine - dialettica per esempio, o critica - e in fondo sarebbe stato10 stesso, con l'inconveniente però di dover continuamente dare le diffe­ renze rispetto a tutti gli altri impieghi. Inconveniente che arricchirebbe senz'altro il significato, ma che renderebbe la ricostruzione molto più lunga del lecito in questa occasione 85 .

Adorno, in più luoghi, fa professione in un'ermeneutica del trascura­ bile:

seguo un metodo in cui dichiaro spontaneamente e assai volentieri la mia fiducia,11 metodo che si basa sulla convinzione che affermazioni eccentriche, che in appa­ renza non hanno affatto il peso ad esempio della grande filosofia ufficiale, ma in cui il pensiero per cosi dire si mette in libertà, permettono di riconoscere chiara­ mente il vero significato che si cela dietro di essa 86 .

M Th.W. Adorno, Negative Dialektik, cit., pp. 202-03. Spaziature mie.85 Un'interessante digressione si presenterebbe qui nel raffronto tra la teoria al-

thusseriana della lettura sintomale e la qui proposta parodica interpretativa di Adorno. Manca lo spazio per svolgere il tema; vorrei tuttavia citare il lavoro di A Callinicos, Marxism and Philosophy, Oxford University Press, New York 1985, alle pp. 80-95 questi tenta un accostamento tra i due sulla base di un supposto comune antihegelismo, in quanto entrambi difenderebbero i diritti del particolare contro l'universale. Pur non condividendo l'impostazione del commento, mi sembra tuttavia sintomale che Callini­ cos abbia riconosciuto il legame tra le due teorie critiche e cercato di esaminare la loro relazione. In un qualche modo questo ci conforta nel lavoro di esporre la dialettica adorniana sub specie di «ermeneutica» critica...

86 Th.W. Adorno, Terminologia filolofica, voi. I, cit., p. 156.

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DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA 203

Di questa fiducia, che l'individuo sia uno strumento di misurazione sensibilissimo delle configurazioni ideologiche principali, di cui già a lun­ go abbiamo parlato, è espressione anche un altro luogo dei Minima mo- ralia, che è, al contempo, il principio dell'interpretazione parodica: «l'in­ dividuo è talmente storico in tutte le sue fibre da essere in grado di ribel­ larsi, con la trama sottile della sua costituzione tardoborghese, alla trama sottile della costituzione tardo borghese» 87 . E una sineddoche interpreta­ tiva di Adorno su Hegel chiarisce questo frammento di aforisma. In essa si mostra, all'interno del testo, come il principio della parte per il tutto sia, oltre che figura retorica, anche ben altro. A proposito della attribuzione del lavoro alle attività dello spirito, scrive Adorno:

Hegel non può, a nessun costo, far parola della divisione di lavoro fisico e spiri­ tuale e non decifra lo spirito come aspetto isolato del lavoro, ma vanifica invece il lavoro a momento dello spirito, sceglie in certo qual modo a sua massima la figura retorica pars prò foto 8X .

Il fatto è che, senza la rimozione hegeliana, sapremmo ancora qual­ cosa sulla divisione del lavoro, ma non sapremmo nulla sulla necessità hegeliana della sua soppressione, che è, per la storia della divisione del lavoro, altrettanto importante. Per questo (rimandando ancora un poco una definizione di parodia) Adorno può scrivere che le bugie hanno le gambe lunghe, tanto che si può dire precorrano i tempi: «... la ragione si è rifugiata - interamente ed ermeticamente - nelle idiosincrasie personali [...] l'ingiustizia è il medio della vera giustizia», dato che per il mondo: «la sua essenza è l'inessenza: ma la sua apparenza, la menzogna mercé la quale sussiste, è l'esponente della verità» 89 . Infatti: «a volersi esprimere enfatica­ mente, parodia significa impiego delle forme nell'epoca della loro impossibi­ lità. La parodia dimostra tale impossibilità e modifica cosi le forme»™.

La parodia si definisce anche in rapporto all'allegoria e all'ironia91 . Su quest'ultima le opinioni di Adorno sono chiare; se: «l'ironia enigmatica che non è riducibile a uno scherno contenutistico, si può capire per la prima volta [in Thomas Mann] in base alla sua funzione capace di dar forma» 92 ; tuttavia:

Th.W. Adorno, Minima rnoralia, cit., p. 171.Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 55.Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., pp. 73, 81 e 129.Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., p. 288. Corsivo mio.Cfr. R. Luperini, L'allegoria del moderno, Editori Riuniti, Roma 1990.Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., p. 42.

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204 CRITICA DEL NON VERO

il mezzo stesso dell'ironia è entrato in contraddizione con la verità. L'ironia con­ futa l'oggetto in quanto lo rappresenta come ciò che pretende di essere e lo commisura - senza giudizio, quasi senza intervento del soggetto osservante - al suo essere-in-sé. Essa coglie il negativo confrontando il positivo con la sua stessa pre­ tesa di positività. Non appena aggiunge una parola di spiegazione, l'ironia si di­ strugge. Essa presuppone quindi l'idea di ciò che è di per sé evidente e - in origine - della risonanza sociale. [...] L'ironia è passata, ad intervalli, dalla parte degli oppressi, specialmente quando, in realtà, essi non erano già più tali. Ma, prigionie­ ra della propria forma, non si è mai del tutto liberata dall'eredità autoritaria, dalla malignità che non ammette obiezioni. [...] [Così che] II medium dell'ironia, la differenza tra ideologia e realtà, è scomparso. L'ideologia si rassegna a confermare la realtà attraverso la duplicazione pura e semplice della stessa. L'ironia diceva di una cosa: questo è ciò che afferma di essere, ma ecco com'è in realtà; ma oggi, anche nella menzogna radicale, il mondo si fa forte del fatto che le cose stanno proprio cosi, e questa semplice constatazione coincide, per lui, col bene 93 .

Più complessa è invece la questione allegorica. Per una sua esaustiva trattazione nell'opera di Adorno sarebbe necessaria una ricognizione molto ampia. Tuttavia per delineare la differenza specifica con la parodia, ci basti qui darne una momentanea definizione. Potremmo chiamare «al­ legorico» quell'atto espressivo e interpretativo che nella ripetizione di un contenuto identico varia la forma espressiva della sua rappresentazione, e con questo modifica il contenuto stesso. Dato questo potremmo, ex con­ trario, definire la parodia come presentazione di un nuovo contenuto al­ l'interno della medesima forma, col che la forma stessa ne viene mutata. Che cosa sia il contenuto è stato detto in precedenza 94 ; la forma - «dia­ lettica della tradizione» e «storiografia inconscia» - vien così definita da Adorno in un luogo cruciale della Dialettica negativa, perfetto a indicare da subito la portata ambigua, tra ideologia e liberazione, della forma:

ciò che appare come privo di forma ad una costituzione dell'esistenza modellata esclusivamente secondo una ragione soggettiva, è il puro principio dell'essere per un altro, del carattere di mercé, che soggioga i soggetti. [...] Ma lo stesso carattere di mercé, dominio mediato di uomini su uomini, fissa i soggetti nella loro minorità; la loro maturità e la libertà rispetto al qualitativo andrebbero insieme. Lo stile manifesta sotto i riflettori dell'arte moderna stessa i suoi momenti repressivi. Il bisogno della forma che esso manifesta inganna sul suo elemento cattivo, coatto. Una forma che non dimostra in se stessa il suo diritto alla vita grazie alla sua funzione trasparente, ma viene solo posta perché sia forma, è non vera è quindi insufficiente anche come forma 95 .

Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., pp. 253-55.Cfr. i cpp. Ili e IV di questo lavoro.Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 84-85.

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DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA 205

È questa una strana equivalenza: l'immaginario è processo latente collettivo come la forma è storiografia inconscia, che deve dimostrare di essere vera per non tradire la propria funzione. Evidentemente la forma, la dialettica della forma, all'interno delle tensioni configurative, cariche di storia accumulata, deve possedere anche un momento liberatorio, di espressione di ciò che altrimenti resterebbe senza parola. Questa capacità liberatrice della forma, in effetti, la vediamo all'opera nella prassi critica di Adorno.

Due esempi. Il primo riguarda la professione più antica di Adorno, quella di critico musicale. La posizione paradigmatica assegnata al tardo Beethoven 96 o a Mahler 97 , dipende dalla capacità espressa nelle opere di forzare il grado di maturazione del materiale compositivo giunto loro in eredità. Tale «forzatura» è, appunto, il processo parodico. Non si tratta infatti - come Adorno rimproverò alla tarda dodecafonia e serialismo - di azzerare le forme ereditate per erigerne delle nuove. In questo modo si avrebbe, al contrario, una seconda rimozione operata sulla prima. Piutto­ sto il problema è far esplodere la contraddizione che le forme assumono quando non sono più atte a contenere l'esperienza che vien loro consegna­ ta. E una contraddizione oggettiva - avrebbe scritto Lukàcs - non una innovazione soggettiva. Questa dialettica assomiglia più a quella tra forze produttive e rapporti di produzione, sulla quale è modellata, che non alla dialettica crescente dell'esperienza della Fenomenologia dello spirito. Ma prima di ulteriori precisazioni vediamo un secondo esempio.

Nel commentare la piece teatrale di Beckett, Finale di partita, Adorno riassume la posizione di Beckett indicando proprio nella capacità di mo­ strare l'impossibilità delle forme dell'individuo borghese, attraverso una rappresentazione delle forme dell'individuo borghese, il valore estetico dell'opera beckettiana:

il dégout di Beckett non può essere imposto dall'esterno. Esortato a stare al gioco, risponde con la parodia: è la parodia della filosofia vomitata fuori dai suoi dialo­ ghi, e del pari la parodia delle forme - perciò - [...] ogni tentativo di interpreta- zione rimane inevitabilmente in arretrato rispetto a Beckett: eppure il suo teatro, proprio perché si limita a una realtà empirica infranta, guizza oltre questa, e rimanda a una interpretazione proprio per la sua natura enigmatica. La possibilità

Cfr. Th.W. Adorno, Sul tardo stile di Beethoven, in «Aut Aut», n. 225, Cfr. Th.W. Adorno, Mahler, op. cit.

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che un'interprelazione sia o meno all'altezza di tutto questo potrebbe quasi diven­ tare il criterio di una filosofia futura 98 .

Questa è, di nuovo, la descrizione della filosofia che Adorno presentò in L'attualità della filosofia: risoluzione del carattere enigmatico. Infatti la necessità della interpretazione che la parodia richiede è legata alla impos­ sibilità, conferita dall'essere semplice impiego di materiale empirico, di scavalcare i limiti dell'espressione. Come anche la soluzione dell'enigma altro non era che una diversa disposizione della costellazione dello stesso materiale empirico che costituiva la domanda. Il posto che allora era oc­ cupato dalla an invenienài e dalla esatta fantasia, è qui preso dalla inter­ pretazione della parodia, qualcosa che si potrebbe parafrasare kantiana­ mente: la parodia senza filosofia è cieca, ma la filosofia senza parodica è vuota". Ma la parodia ha anche la sua realizzazione nel mondo. Spesso anzi, l'inveramento delle istanze della ragione illuministica si attua sotto forma parodica, quasi che non si fosse stati capaci di «ricostruire il testo» della storia al fine di «bandire il demoniaco». Scrive Adorno in due di­ stanti periodi di tempo:

In un'ora storica in cui la conciliazione di soggetto e oggetto è stata rovesciata in parodia satanica, in liquidazione del soggetto nell'ordine oggettivo, può ancora giovare alla conciliazione soltanto la filosofia che disdegna l'inganno di quell'ordi­ ne e fa valere, contro l'autoalienazione universale, ciò che è alienato senza più speranze, ciò per cui nemmeno la «cosa stessa» ha più nulla da dire 100 .

E quasi trent'anni più tardi, a proposito della consumazione delle forme tramite la funzione parodica, e tra queste del simbolismo, ripete che:

si potrebbe dimostrare che i simboli o, detto linguisticamente, le metafore, nella nuova arte si rendono tendenzialmente autonome rispetto alla loro funzione di simboli ed in tal modo contribuiscono per la loro parte alla costituzione di una sfera antitetica all'empiria e ai suoi significati. L'arte assorbe i simboli grazie al fatto che essi non simboleggiano più niente [...] ciò che prima era simbolico diviene letterale 101 ;

e questa è, in un qualche modo, la verità odierna del simbolico.

Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., pp. 270-71. Cfr. Th.W. Adorno Teorìa estetica, cit., pp. 138-39.

' Th.W. Adorno, filosofia detta musica moderna, cit., pp. 32-33. Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 162-63.

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DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA 207

Vediamo così come alla parodia corrisponda sempre una sopravvi­ venza di forme dove, grazie al mutamento dei contenuti che si richiede vengano da esse mostrati, si mostra la verità dei contenuti che, per essere accolti, devono distruggere la forma; come se qualcosa di non partoribile dovesse essere comunque partorito da un utero umano.

La forma, che deve ovunque essere sentita come contenuto - perché è questo il modo in cui la materia penetra nel soggetto - ne è solo l'ese­ cuzione a livello molto avanzato: l'estetica, dove i gradi di coscienza cor­ rispondono a materiali compositivi, cioè a forme molto precise. Ma la medesima cosa abbiamo vista all'opera anche come nerbo dell'interpreta- zione della dialettica dell'illuminismo: la maturazione di un rapporto di­ verso tra individuo e natura modifica l'interno stesso dell'una e dell'altro. Anzi, crea addirittura tale interno. La modificazione della forma di un rapporto muta i contenuti del rapporto e ne porta alla luce uno nuovo. Il mito, definito in Dialettica negativa come ritorno dell'identico, è realmente simile, in un qualche modo, all'intento parodico, che vuole a ogni costo fermarsi presso la tradizione, e con questo la minaccia.

Aveva scritto Freud 1()2 che sovente il decorso delle rimozioni è quello per cui il soggetto si attacca alle proprie difese dimenticando il motivo e il fatto per cui sono state istituite. Secondo Adorno nella dialettica della tradizione accade qualcosa di simile: tanto più l'individuo vuole fermarsi presso la forma di individualità che ha ricevuto in eredità, tanto più i contenuti d'esperienza gliela distruggono sotto gli occhi. La dialettica dell'esperienza è una funzione parodica. Quel che viene sperimentato deve in qualche modo essere ricondotto per differenze e identità al già noto, ma se fosse identico al già noto non sarebbe vissuto come nuovo. L'utopia del concetto, secondo le parole di Adorno, di aprire l'a-concet- tuale con concetti senza renderglielo simile, esprime del resto la stessa cosa: la necessità di una forma senza che questa porti all'identificazione astratta sotto di essa. La parodia può far ciò perché in essa la forma, a dispetto del suo «esser tenuta ferma», ha funzione negativa. Nella questio­ ne, per dir così, si da sempre ragione al contenuto che «non ci sta», rispetto alla forma; ma in questo la forma non è meramente tolta ma interpretata nelle sua «originaria rimozione».

Anche il primato dell'oggetto 103 ha la sua formulazione all'interno della dialettica parodica che stiamo indagando. Essa infatti per sua stessa

S. Freud, Analisi terminabile e interminabile, op. cit.Cfr. Th.W. Adorno, Parole chiave, cit., pp. 211-14, 250-51, 218 et passim.

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essenza non tende alla realizzazione dell'unità tra espressione e contenuto, o meglio: vi tende scoprendone l'impossibilità. Così la intentio obliqua viene in luce attraverso la divisione tra momenti soggettivi (e il loro riman­ do oggettivo) e momenti oggetti (attraverso il loro rimando soggettivo, come leggemmo a proposito dei «momenti qualitativi dell'oggetto»), divi­ sione che altrimenti sarebbe impraticabile. Lo scontro che si realizza, nel tentativo soggettivo di rimandare l'obiettivo solo al momento formale, si manifesta nella resistenza che questo offre - come testimonia anche la più semplice delle esperienze.

Similmente la critica immanente, istanza materialistica per eccellenza secondo Adorno, è anch'essa una forma parodica. Anzi attraverso di essa scopriamo l'elemento estetico della parodia: il carattere «come... se...» 104 . La critica immanente altro non fa che prendere per buone alla lettera le domande che il testo si pone e commisurare le sue risposte a quelle. Così come la forma saggio, esso non si interroga, almeno al principio, sull'ori­ gine di posizione delle domande, ma fa «come se» la loro forma fosse naturale. Imita la storia naturale concependo ovunque lo storico come naturale e viceversa. Il suo risultato è, appunto, la scoperta della differenza che sussiste tra la forma domanda entro cui è collocato il testo, e il con­ tenuto delle risposte che vengono offerte, e questa è la spiegazione del «dileguare» del carattere di enigma, che incontrammo nel primo capitolo. Anche questo «dileguare» è in sostanza una dialettica delle forme. È la forma enigmatica che dilegua per contraddizione col suo contenuto, o meglio: con quel suo contenuto che si è ottenuto permutando gli elementi materiali della sua costellazione, attraverso la fantasia, in una diversa di­ sposizione.

Si vede bene coinè il momento soggettivo della parodia non sia né individuale né esistenziale. La fantasia è l'elemento grazie al quale le ten­ sioni della costellazione possono essere trasposte nel pensiero. Senza di che l'arte sarebbe semplicemente la realtà, il pensiero la cosa. Identità di reale e razionale. Ma il pensiero, modellato sul lavoro, come vedemmo, ha la sua prima e essenziale disposizione nella negazione del dato per come esso appare. Per questo non è necessaria una negazione reale ma solo quella della riflessione. La scissione così tra le due è tanto essenziale quan­ to, in prospettiva, la concezione della loro possibile unificazione. Infatti solo in forza di tale scissione può avvenire la critica del concetto e del

Cfr. cap. IV.

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reale. Ma la forza che conduce a questa scissione - per proseguire nella ricollocazione delle categorie che abbiamo commentate nel corso del lavo­ ro - pur trovandosi entro le cose, è come bloccata dalla potenza della realtà, la quale non teme alcun male dalla contraddizione. L'orrore per la contraddizione è una cosa che appartiene tutta alla mente dell'uomo, la realtà è contraddittoria, eppure ciò, di per sé, non la smuoverebbe di un centimetro.

Il pensare qualcosa di contraddicentesi pare precedere la separazione. In senso genetico la logica si rappresenta come tentativo di integrazione e di stabile ordine dell'originariamente multivoco, come passo decisivo della demitologizzazione. La sua autorità assoluta [...] deriva proprio dalla sua trasformazione in tabù, quindi nell'inibizione di tendenze contrarie preponderanti. In quanto «legge del pensie­ ro», esso ha come contenuto un divieto: non distrarti dal pensare, non ti fare distogliere l'attenzione dalla natura inarticolata, ma trattieni salda come possesso l'unità dell'intenzionato' 05 .

Ecco perché solo in una sospensione essenziale del carattere reale della realtà, il soggetto può darsi alla contraddizione e provare a muovere i suoi termini, fino a che si dissolva. Sotto la pressione dell'angoscia e della paura, questo non sarebbe possibile. La parodia, realizzando il contatto tra due epoche diverse - la antecedente che si presenta come forma, e la seguente sotto l'aspetto del contenuto - limita la pressione dell'orrore mitico e insieme ne conserva memoria, senza la quale infatti l'incontro non si realizzerebbe.

Nel rapporto tra desiderio e memoria, avevamo visto come si realizzi una traduzione di materiali di varia provenienza. Anche questa traduzione può essere vista sotto il riguardo che qui ci occupa. Che cos'è la traduzio­ ne infatti se non una forma della parodia? Essa consiste in quella partico­ lare forma di esecuzione del testo dove i segni vanno disposti in immagini e connessioni di significati, dove elementi all'apparenza insignificanti rice­ vono dalla comprensione l'unica certezza del «io significo questo 'qualco­ sa'». A partire da questa certezza, cioè dal loro carattere di realtà cifrata, essi vengono tradotti in una forma - diversa da quella del puro-segno/ puro-significante - che consenta al loro contenuto di diventare linguaggio. Ma si tratta qui di un contenuto che è al contempo formale e materiale 106 .

105 Th.W. Adorno, Metacritica della gnoseologia, cit., pp. 87-88.106 Cfr., curiosamente, W. Benjamin, Le affinità elettive, in Angelus Novus, op. cit.

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La forma stilistica è, infatti, una precisa disposizione sociale storica­ mente divenuta. Le connessioni dei segni, la «forma enigma» è allora veicolo di altrettanto contenuto del semplice contenuto materiale, di quel che «viene raccontato». Anche in questo caso vige il principio dialettico per il quale solo tramite la contraddizione si può «aprire l'a-concettuale senza renderselo identico». Letteralmente la traduzione sarebbe, come la parodia, un impiego della forma nell'epoca della sua impossibilità. Essa esegue quel che lo scritto sembra chiedere, cioè che lo si sorpassi per giungere alle cose, in tutta serietà. Ma solo se questa traduzione si sarà spellata le mani nel tentativo della fedeltà assoluta, e cioè della forma perfetta, potrà risaltare la differenza tra il contenuto e la sua espressione. Questa differenza è per Adorno vicinissima alla verità. Essa, e non altro, costituisce la strada verso il non identico. Tale differenza allora non deve essere eliminata, ancorché la sua eliminazione fosse possibile, perché solo grazie ad essa è possibile mandare a frutto la critica su entrambi i versanti: quello del contenuto e quello della forma - e in questo esprimere il giu­ dizio sul rapporto tra realtà e pensiero.

Entrambi sono prodotti sociali, passati attraverso un processo di messa in forma. Non sono dati - se non al singolo individuo - ma posti. Nella lettura dei testi la filosofia, come indicò Adorno, realizza il proprio pecu­ liare rapporto con la tradizione: il mantenimento dei termini nella muta­ zione del loro significato. La differenza formale registra entrambi, ovvero la variazione delle costellazioni reali e sociali e ideologiche. Come a dire che nella storia, ad esempio, del conio wolfiano della parola 'BewuBtsein', e della sua introduzione all'interno di tutta la successiva speculazione dell'idealismo, è cifrato un contenuto che si scontrerà violentemente, poniamo, con l'anglosassone 'mind', nella filosofia neopositivistica.

La parodia è anche la modalità dell'esecuzione. Se questa richiede che la «traduzione» venga condotta nel reperimento dei problemi che il testo (musicale, scritto, o quant'altro) presenta, quella suggerisce che la esecuzione non sia affatto solo un regresso allo stadio precedente, a quella problematica di cui il testo dovrebbe costituire la risposta. Si tratta al contrario di vedere come il problema riceva nuova luce all'interno della forma in cui esso è presentato come risposta. La vicinanza infatti tra co­ stellazione e parodia è fortissima. Anzi si potrebbe dire che la parodia è una costellazione allungata su entrambi gli assi: diacronico e sincronico. Questo può essere visto recuperando il saggio come forma paratattica, e quindi di rappresentazione della costellazione, per eccellenza. Scrive Adorno che il disagio per il modo di procedere del saggio è:

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in parte vero in parte sbagliato. Vero perché di fatto il saggio non conclude e la incapacità di concludere riemerge come parodia del suo stesso a priori; e allora gli si addossa una colpa commessa invece dalle forme che cancellano la traccia del­ l'arbitrarietà. Il disagio è invece fuori posto perché la costellazione del saggio non è arbitraria. [...] Definiscono il saggio l'unità del suo oggetto e l'unità di teoria ed esperienza entrate nell'oggetto stesso. [...] Riferendosi sempre a cose già fatte, il saggio non si presenta mai come creazione né cerca qualcosa di omnicomprensivo, la cui totalità sia analoga a quella della creazione. La totalità del saggio, unità di una forma che è in sé costruita esaustivamente, è la totalità del non totale, è una totalità che neppur come forma propugna la tesi [...] dell'identità di pensiero e cosa;

e poco dopo conclude:

esso realizza quasi parodisticamente quella polemica altrimenti spuntata che il pen­ siero conduce contro una mera filosofia dei punti di vista. Esso logora le teorie che gli sono vicine; la sua tendenza è sempre rivolta a liquidare l'opinione, anche quella con la quale esso inizia. Il saggio è ciò che è stato fin dall'inizio, la forma critica per eccellenza; e cioè, in quanto critica immanente di produzione spirituali e confrontazione di quel che esse sono col loro concetto, critica dell'ideologia 107 .

La forma saggio è dunque nient'altro che forma parodica applicata. Ciò a dire che la forma della riflessione e quella dell'interpretazione coin­ cidono (cosa che, del resto, avevamo già trovata scritta in Adorno). Per questo, e non per altro, non è solo il vero che ha bisogno dell'interpreta­ zione, ma anche l'interpretazione che ha bisogno del vero. Detto in altri termini: l'interpretazione è possibile solo come critica.

Data questa funzione è importante indicare come la parodia sia l'in­ verso interpretativo che si trova ex negativo nella dialettica negativa ador- niana a svolgere il ruolo della Aufhebung. Se questa ha il compito di risalire all'universale che si rivela essere la verità della contraddizione particolare, quella serve a smontare l'apparenza della conciliazione tra singolare e universale, l'apparente verità della espressione dell'universale nel particolare, e viceversa. Serve, in una parola, a far sentire la mancanza della universalità, a smascherare l'apparenza per la quale ogni frammento è frammento di nulla. Giacché l'universale esiste nella forma di una pro­ duzione di soggetti che non sono più in grado di riconoscerlo, attraverso l'analisi del non riconoscimento viene a galla il materiale dell'accecamen­ to. Quando trovammo scritto che nei «vuoti del testo» si concentrava, forse, proprio la forza del testo, riconoscemmo in questo l'espressione del

10/ Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., pp. 22-24. Corsivi miei.

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fatto che la totalità entro la quale il pensiero si svolge può essere presen­ tata come tale solo a patto di una serie di rimozioni. Attraverso l'interpre- tazione parodica possiamo adesso render la cosa ancora più chiara.

La società, la totalità sociale, penetra nell'individuo non come estra­ neità, ma perché ne è la forma; ed in modo accresciuto quando questi vuoi essere un universale. Giacché il pensiero non è l'oggetto, l'eterogeneità è inespugnabile. Ma in quanto la cosa è in quel modo nella testa essa diviene utilizzabile dal soggetto, e cioè dall'essere sociale. Il suo nome sarà tanto più corretto quanto più mostrerà la secondarietà del materiale d'esperien­ za e sociale dal quale è tratto. Questi sono la sua forma, cioè la parte universale del suo senso/contenuto. E, poiché l'universale per l'uomo non è solo la natura, esso è violenza che si esercita per tradurre una cosa dentro una testa. Tuttavia questa non è affatto la prima traduzione. Poiché l'uomo è, sia come concetto che come ente, esattamente una astrazione di una determinata epoca sociale, ne abbiamo il risultato che ogni pensiero è già sempre una traduzione elaborata dal soggetto con i suoi materiali e le sue forme, ma soprattutto sotto la necessità del principio sociale di realtà. Quindi materiali e forme - che per la quasi totalità non sono co­ scienti - di quel che esperisce come se fosse non tradotto. È la storia di questo supposto non tradotto che chiarisce di che cosa in realtà si tratti; come dice Adorno, la forma è una storiografia inconscia.

Sotto una interminabile serie di analogie e trasposizioni - di astratte identità - è andata persa la possibilità di riconoscimento senza identifica­ zione con la forma di dominio. Ciò che un tempo servì letteralmente alla sopravvivenza è sopravvissuto a scapito dell'utilizzo razionale di quel che era stato prodotto.

La parodia mostra che l'esperienza individuale che sarebbe necessaria alla creazione di una forma di identità razionale non è disponibile. Mentre l'identità effettiva viola continuamente la non identità, essa si trasmette come una coazione all'unità. Come unità è index dell'utopico, ma come coazione essa è la forma di pensiero entro cui il non identico viene rimos­ so. Il mantenimento della forma è un modo della memoria, seppur di una memoria che ha dovuto prender la strada della rimozione. In questo i linguaggi e le forme sono depositi della memoria, trascendentali di fronte al soggetto empirico, ma costellazioni storiche di fronte al soggetto uma­ nità. Entro di essi i vuoti, i lapsus e le scelte stilistiche indicano i nuclei delle posizioni di agenti sovraindividuali, di interessi che si formano e cambiano nella struttura sociale.

Il soggetto interpretante ha a disposizione i materiali per cogliere

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queste costellazioni, la fantasia gli permette di mettere in scena la rappre­ sentazione del «dato», e, attraverso il desiderio, di variare le sue combi­ nazioni. Di modo che nessuna appaia immutabile e pura natura.

L'esperienza del dolore che si avverte nella distanza tra desiderio, felicità e esperienza, è indice di una contraddizione non soggettiva. Di un errore nella trama della rappresentazione che avviene dentro la duplicazio­ ne irriflessiva del «dato». Per questo il pensiero ha bisogno di tutte le tendenze empirico-soggettive e insieme avviene là dove, «propriamente non si pensa affatto», nel soffermasi presso la cosa, nel prestare a essa la forza per quell'esperienza di sé che essa non può compiere. Essa - il non identico - è intrappolata nella forma del «nome». Al nome spetta di co­ struire l'impianto di liberazione. La parodia, come distribuzione e soluzio­ ne tra forma - come deposito di soluzioni passate per uscire dallo stato di paura - e contenuto - inteso quale esperienza presente di una forma e di un contenuto - consente l'interpretazione storica della cosa. E allo stesso modo come mantenimento della forma, essa si oppone alla sua rimozione, cioè all'operazione ideologica che trasforma il revocabile in naturale.

Ma in quanto «mantenimento della forma nell'epoca della sua impos­ sibilità», la parodia non identifica, non concettualizza ogni cosa. Attende allo scontro tra l'obbligo inevitabile dell'eredità della specie e l'istintualità individuale: principio dell'esecuzione come interpretazione. E nella prete­ sa di cacciare a forza le cose entro le forme socialmente disponibili - nel principio della critica immanente - segue le tracce della «traduzione» compiuta1 da ogni testo. Nel dover essere per il quale nella dialettica tra esperienza e concetto, la mancanza può essere tanto dell'uno quanto del­ l'altra.

L'espressione paratattica smonta la priorità che la forma esigerebbe dal contenuto. Così come accade nell'allegoria - che è il complemento e non il contrario della parodia - il fatto che la forma venga mantenuta pur se divenuta tradizione passata, significa che qualcosa di rimosso, la tradi­ zione, viene mantenuto affinchè un altro rimosso possa venir mostrato. L'espressione indica, l'interpretazione protegge tale atto dal regredire a cieca imitazione e ripetizione mitica, e dal porsi ideologicamente come non rimosso, verità pura. A sua volta il mostrare dell'espressione vieta al concetto di ridurre il mostrato all'identità concettuale, modellata su quella sociale della rinuncia alla revocabilità della funzione mercé.

La due forme, quella che si presenta come tale e l'altra, sua esecuzio­ ne all'interno del «come... se ...», si presentano insieme. Ognuna reclama che venga mostrato il suo proprio contenuto, cioè: un contenuto più vec-

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chic ed uno più nuovo, come se fossero separabili e separati. Il primo è, per dir così, un pericolo oramai fermo che permette al pericolo attuale - l'identificazione indeterminata - di venire a galla. L'interpretazione si serve di questi due piani per rinfacciare continuamente al primo quel che ha fatto; non al fine della sua redenzione, ma per permettere al secondo di farsi luce, nella rappresentazione del primo come un «ex-secondo». Si tratta di fare il Wttz del primo affinchè il secondo non ne abbia a soffrire.

Questo significa che la teoria dell'interpretazione adorniana è dialet­ tica in senso stretto, in quanto riconosce la mediazione come universale, e insieme non dialettica, poiché lascia che una necessità impossibile viga al fine di far emergere il diritto del parlante: «che quel che è non è tutto quel che è» 108 . La parodia come interpretazione tien fermo alle regole del gioco, ma per gioco. Sotto di esso, la decisione spetta al desiderio di felicità. Che esso sia stato costruito con materiali dubbi non diminuisce la sua importanza. La sua secondarietà è scandalosa solo per un pensiero che vorrebbe ancorare l'autonomia in un punto fermo ontologico, quale che sia. Parodia vuole che il processo interpretativo venga condotto su se stesso fino alla propria impotenza: autointerpretazione spietata dell'inter­ pretazione, riconoscere in sé l'intreccio di interpretazione e ideologia, che non interpreta affatto, ma tutto prende per buono e tutto per vero.

E questo del resto nient'altro che il contenuto della autocritica della ragione illuministica, alla quale Adorno ha dedicato la sua opera. Nella convinzione che dopo di esso il processo non possa che avvenire nella dirczione di una radicalizzazione della ragione, ma di un regresso o az­ zeramento. Anche questo significa la dignità incomparabile, come si espri­ me Adorno, del ricordare, fuori da cui c'è solo l'inizio delle barbarie.

È un'autocritica che si svolge nella realtà, per quanto questa sia di­ venuta concettualmente problematica, e nella realtà dell'individuo. Con­ cettualmente però sta a significare: alla ragione stessa. Mentre gli individui continuano a vivere e interpretare, il vero si annuncia, oltre che come divenire, anche come possibilità che si palesa quando la forma mantenuta, contenuto di primo grado, si appresta a ricevere un nuovo contenuto, che è al contempo la sua critica. E nell'entrare in essa la modifica.

È questo che decide dell'interpretazione: se tra i due contendenti, l'esperienza e la forma, debba vincere l'uno o l'altro. Nel primo caso

108 La frase si trova, come incipit, all'inizio di AA.VV., Die nette Link nach Ador­ no, op. cit., con l'indicazione che si tratti di una dichiarazione orale... Ma del resto espressioni quasi identiche si trovano in tutti i testi di Adorno.

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avremmo una regressione dell'esperienza e la mercificazione dell'industria culturale. Nel secondo, se sospinto da buoni desideri, una modificazione della tradizione, del rimosso formale, che apra alla possibilità della memo­ ria, del toglimento del tabù sul rimosso.

Esattamente come avviene, secondo Adorno, nell'arte, la doppia let­ tura è lettura genealogica del contenuto come reazione alla forma mime­ tica e all'imitazione astratta della ratio oggi dominante. Nella seconda lettura, parallela, si scoprirà, forse, la posizione mediata della prima e insieme i diritti naturali che hanno bisogno di entrambe le cose: il loro dominio e la loro libertà - il testo e l'interpretazione.

La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sul mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a poste­ riori e fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica. Ottenere queste prospettive senza arbitrio e violenza, dal semplice contatto con gli oggetti, questo, e questo soltanto, è il compito del pensiero. E la cosa più semplice di tutte, poiché lo stato attuale invoca irresistibilmente questa conoscenza, anzi, perché la perfetta negatività, non appena fissata in volto, si converte nella cifra del suo opposto. Ma è anche l'asso- lutamente impossibile, perché presuppone un punto di vista sottratto, sia pure d'un soffio, al cerchio magico dell'esistenza 109 .

Forse c'è una possibilità anche per questa impossibilità all'interpreta- zione. Ma di essa si decide uscendo dal problema di che cosa intendesse Adorno, secondo il principio della sua stessa filosofia, per vedere se i suoi testi dicano il vero o il falso sulla realtà. Ma per far questo è di essa che si deve pensare.

FINE DELL'INTERPRETAZIONE

La musica di Mahler non è soggettiva nel senso che esprime l'individuo, ma perché egli la pone in bocca al disertore. Tutto in essa è l'ultima parola. Chi va alla forca butta fuori tutto quello che altrimenti avrebbe detto quando non lo ascoltava nessuno: solo che ora è detto apertamente. La musica confessa che il destino del mondo non dipende più dall'individuo, ma sa anche che questo individuo non

Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 304.

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possiede alcun contenuto che non sia suo, per quanto infranto e impotente. Per questo le fratture dell'individuo sono la scrittura della verità. In esse il movimento della società si presenta negativo come nelle sue vittime. In queste sinfonie anche le marce vengono intese e riflesse da colui che esse travolgono con sé. Solo quelli che sono usciti dai ranghi, i calpestati, l'avamposto perduto, il soldato sepolto al suono delle belle trombe, il povero tamburino, gli uomini totalmente privi di libertà incarnano per Mahler la libertà. Senza nulla promettere, le sue sinfonie sono ballate della disfatta: che «presto sarà notte» 110 .

Con queste frasi si conclude il saggio di Adorno su Mahler. In esse, credo si possa dire, è detto anche il destino della filosofia del filosofo francofortense.

La riflessione filosofica è, almeno in Italia, dominata da correnti che potrebbero essere definite «ermeneutiche». La loro comune definizione dipende meno da concordi risultati che dall'identità dei presupposti del modo di procedere, di decidere che cosa costituisca un problema e, entro di esso, scegliere che cosa debba essere considerata una risposta.

È la filosofia della morte della metafisica, della morte del soggetto, della morte della verità. Certamente Nietzsche e Heidegger da un lato, Freud, Lacan e Derrida dall'altro, e la fenomenologia infine dal terzo, costituiscono i vertici di un triangolo che entro di sé ha accumulato una quantità notevole di materiale e speculazione. Non è senza rapporto, questo affermarsi, con i mutamenti sociali e politici intercorsi dalla fine degli anni Sessanta a oggi.

Curiosamente tutte e tre le «scuole» sopra indicate appartennero anche al patrimonio culturale di Adorno. Tuttavia se «la filosofia si man­ tenne in vita perché era stato mancato il momento della sua realizzazio­ ne» 111 , egli ha sempre concepito l'autoriflessione, l'autocritica dell'illumi­ nismo, come unica possibilità di una teoria che conservasse pudore di fronte al reale. Come prodotto della divisione sociale del lavoro, la filoso­ fia non può evitare di interrogarsi sull'altra metà, sulla sorellastra cattiva, sul suo altro. Ma questo significa, probabilmente e in primo luogo, non confondere i problemi del reale con quelli dei concetti, e la problematicità della categoria di «reale» con una problematicità reale. La posizione cri­ tica di Adorno nei confronti di Husserl ne è un esempio lampante.

Se abbiamo tentato, allora, una teoria dell'interpretazione in Adorno, non è stato perché la «risposta» di Adorno a quell'«enigma» potesse gia-

1(1 Th.W. Adorno, Mahler, cit., p. 286.11 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 3.

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DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA 217

cere accanto all'enigma «lasciandolo immutato» - ma perché essa, come filosofia critica, modificasse con la risposta la forma stessa dell'enigma 112 .

Si è trattato di immergere nell'opera di Adorno una serie di problemi - che non è stato possibile esplicitare ogni volta indicandone paternità e riferimenti bibliografici — per osservare a che genere di configurazione di forze dessero luogo una volta immersi in un ambiente tanto differente. E in questo, data la «forma saggio» e paratattica del pensiero di Adorno, si è dovuto, per forza di cose, seguire almeno in parte la sua convinzione dell'impossibilità di riassumere per risultati, ma, al contrario, di collocare tutte le proposizioni «ugualmente vicine al centro» 113 . Questo ha fatto sì di rendere impossibile una vera e propria conclusione al lavoro, che sareb­ be da pensare come l'archivio dei suoi risultati. Quel che invece si può fare, e che ci accingiamo a compiere, è la rappresentazione della costella­ zione generale dei problemi, dove a ogni termine corrisponda: «l'evocazio­ ne dei suoi significati in rapporto al livello storico di coscienza raggiun­ to» 114 .

«Per una teoria dell'interpretazione» significa appunto che il lavoro effettuale dovrebbe ancora essere compiuto. Il quale, tuttavia, senza l'au­ silio dei materiali, che costituiscono la forma del problema, così come Vars invcmendi e l'«esatta fantasia» sarebbe lavoro vuoto.

Nel lungo tragitto compiuto attraverso trentotto anni di produzione di Adorno, alcuni temi principali si sono mostrati ricorrenti - secondo lo stesso autore, questo è indice della verità del problema che li ha suscitati, e la loro variazione è il contenuto di verità che in essi, di volta in volta, può venir pensato.

Alcuni di essi, come la critica dell'ontologia e della fenomenologia husserliana delle Ricerche logiche, l'interpretazione della coazione al siste­ ma in Hegel o la polemica antipositivista, sono sufficientemente noti per­ ché non ci si soffermi su di essi in questa conclusione.

Altri, per contro, sembrano quasi stare al di fuori del recinto sacro della filosofia, nel quale, a detta di Hegel, gli uomini attendono che scenda finalmente, la divinità 115 .

Il punto nevralgico, non solo di questa ricerca ma dell'intera produ­ zione estetica ci i Adorno, è qualcosa che potremmo chiamare in termini

12 Cfr. Th.W. Adorno, Die Aktualitàt der Philosophie, op. cit.' Cfr. Th.W. Adorno, Parafassi, in Note per la letteratura, voi. I, op. cit.

14 Cfr. Th.W. Adorno, Terminologia filolofica, op. cit.15 Cfr. G.W. F. Hegel, Estetica, cit., pp. 7J3-19 e 754-57.

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gadameriani Verwandlung ins Gebilde. È il principio per il quale le forme di coscienza trasmettono i loro contenuti sotto l'aspetto di una forma, che a sua volta costituisce l'intero cui si sottomettono e che compone le parti. Ed è certamente questa una delle più antiche idee di Adorno, giacché la troviamo sin dalla Filosofia della musica moderna - non del tutto a spro­ posito si potrebbe indicarne uno degli antecedenti nella allegoria benjami- niana - e fino alla Teorìa estetica, dove oramai prende la forma della dialettica tra forma dell'opera, materiale compositivo e dialettica della tradizione.

Ma essa, ed è questo uno dei punti della tesi, non è un processo esclusivo dell'ambito artistico: la si ritrova anche nella Dialettica dell'illu­ minismo e, in parte mutata, nella prospettiva della dissoluzione dell'indi­ viduo borghese dei Minima moralia. Essa è, in qualche modo, già la pa­ rodia - l'organo di attuazione dell'interpretazione - per come è stato presentato. Infatti grazie alla differenza tra elementi materiali formali e materiali dell'enigma, l'interpretazione collega diversi stadi della coscien­ za, non solo individuale, ma soprattutto storica e cioè, nel caso nostro, sociale; sebbene questo collegamento resti qualcosa di sostanzialmente diverso dalla «fusione di orizzonti», trattandosi piuttosto di un teatro di contraddizioni.

Il fatto che le forme attraverso le quali, socialmente, si organizza la sopravvivenza dell'individuo e il controllo della natura, restino a comporre la tradizione con un processo analogo a quello delle forme estetiche, in­ dica come, in generale, la coscienza sia il deposito di esperienze che si arrestano — come le figure della fenomenologia hegeliana - grazie al loro assumere un aspetto generico-formale. E Adorno non ha in alcun luogo sottovalutato il potere del linguaggio in questa operazione. Ma pure, con­ tro tutta una tradizione psicoanalitica e strutturalista, ha sempre tenuto fermo alla distinzione tra trascendentale e sociale, cosi come a quella tra medium e origine ontologica.

Solo attraverso il linguaggio il concetto è un qualcosa di relativamen­ te stabile al confronto di quel che sotto di esso si intende indicato. È questo il «realismo ingenuo» di Adorno. E tuttavia l'ipostasi del linguag­ gio è, per Adorno, la identificazione del medium con la cosa mediata, e della mediazione con la ragion sufficiente. La trascendenza si attua non tendendo al massimo l'aspetto trascendentale del linguaggio, bensì secon­ do il Nostro, allestendo paratatticamente l'utopia del concetto: esprimere l'aconcettuale senza renderselo identico.

La differenza tra le due operazioni in questo consiste: nella decisione

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su che cosa sia il concreto, e se si debba filosofare su di esso o a partire da esso. In questo contesto Adorno rifiuta il procedimento della definizio­ ne. Sapendo in anticipo a che cosa corrisponda il nome è poi operazione semplice, sebbene non indolore, rinunciare a qualsiasi idea di verità - mentre in realtà si sta rinunciando a una idea aristotelica di verità che lo sviluppo storico ha già da lungi liquidato.

Il processo di astrazione, appunto, irrinunciabile al pensiero, ha la sua parte di verità nella certezza, che solo identificando l'eterodosso è possibile proseguire nell'illuminismo, ma è pure anche cosciente che i suoi oggetti sono comunque enti di pensiero, parole non cose. L'interpretazio- ne deve rendersi accorta di ciò: di avere a che fare con forme eterodosse di enti di pensiero.

Del resto alcune magistrali interpretazioni di Adorno sfruttano pro­ prio la differenza esistente tra la forma, come funzione concettuale e espressiva (termini altrimenti distinti) unificante, il suo uso, e la sua con­ temporanea impossibilità a render ragione dell'esperienza; basti ricordare non solo il Beethoven della sonata 111, ma anche Mahler e Beckett. Dove la «impossibilità alla forma» non è solo il risultato di una personale pas­ sione di Adorno per le così dette avanguardie storiche, ma indica una precisa zona di rimozione. In termini molto nietzscheani, e molto freudia­ ni anche, essa è la rimozione dell'individuale concreto, del mondo del caos, a favore di una astrazione ordinatrice. Ma giacché il mondo umano è sempre meno quello naturale e sempre più quello sociale, anche della apparente irrazionalità del mondo sociale - apparente nel senso che si tratta in realtà di una «razionalità tecnica» - deve quella rimozione render conto.

Nel teatro della riflessione che l'individuo è in grado di mettere in moto attraverso la potenza del desiderio come elaborazione successiva di un utopico stato di grazia, e in cui viene chiamata in giudizio, per una volta, la realtà, si incontrano così due concordanti eppure antitetiche necessità. Da un lato quella per cui senza la ragione («illusione necessaria» la chiamò Nietzsche) non c'è libertà ma solo terrore, dall'altro quella di autoriflettere le identificazioni astratte della ragione giacché sotto il peso di esse rischia di scomparire la possibilità stessa dello scopo per il quale erano sorte: l'autoconservazione nella dirczione della felicità.

È per questo che l'interpretazione si scopre prima di tutto come critica del non vero. Spinta da una parte contro la signoria del così-e-non- altrimenti, che il «dato» sembra esigere di per sé, e che l'orizzonte ideo­ logico allarga sempre più al sociale come se fosse dato di natura, e dall'ai-

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tra costretta, contro forse le sue tendenze più intime, a bloccarsi la via della regressione - dove la consegna nelle mani dell'irrazionale è la più completa possibile - essa rivendica la vicinanza assoluta di verità e piacere sensuale senza per questo voler scambiare la propria identità con l'otteni­ mento del secondo.

Fu probabilmente questo uno dei punti di rottura teorica tra Marcuse e Adorno. Nel secondo resiste l'idea che l'identità sia una ricorrenza multipla, senza alcuna possibilità di ricercarne il fondamento, pena lo scoprire solo l'«inconscio collettivo latente» di questa organizzazione so­ ciale, cioè, in ultima istanza, della organizzazione sociale basata sulla di­ visione del lavoro. L'interpretazione assume cosi la prospettiva - ennesimo passo in dirczione della morte di Dio - dell'individuo al quale essa deve restituire speranza. Sebbene esso sia solo una delle forme, né la più antica né certo la più solida — dell'evoluzione della specie umana. E qui che trova sostegno la critica immanente e la negazione determinata, medium dialet­ tica dell'interpretazione. Sebbene si debba dire che le contraddizioni ap­ partengano sempre alla cosa - al «testo» se così ci si vuole esprimere - la loro messa in moto non è naturale: essa dipende sempre dal «negativo» del loro coglimento, del sentimento negativo che si trasforma in una do­ manda, come scrisse Adorno, petulante e ingenua ma, che cosi ingenua poi non è mai, sul perché così e non altrimenti.

L'interpretazione si incontra allora con la immagine secolarizzata (altra categoria benjaminiana) dell'allegoria interpretativa biblica: il senso morale e anagogico sono in realtà più che il risultato, la guida dell'inter­ pretazione. E non è questo indifferente alla dialettica della messa in forma tipica della parodia. Fu Kant, almeno nelle ricostruzioni adorniane, a in­ dicare come l'intelletto abbia come unica funzione di mettere in forma quel che di per sé ne avrebbe poca, o addirittura alcuna (anche qui Nietz- sche non è estraneo...). Aggiunge Adorno che questo è anche il modus procedendi dell'eredità, della tradizione. La cosa non è ininfluente: la tra­ dizione è, paradossalmente, l'ambito stesso della verità. Se essa è la con­ servazione del processo intero, e la tradizione la trasformazione di un contenuto - cioè per un dialettico come Adorno una «relazione» - in una forma vincolante, allora la interpretazione e la tradizione sono identiche e contrarie.

Come mostrano le interpretazioni di filosofia della musica di Adorno, l'extraestetico penetra nell'opera d'arte come vincolo formale, come con­ tenuto sociale rimosso e, ideologicamente, ad un tempo espresso. Ma l'in­ dividuo, che non è certamente soggetto di questo processo, è tuttavia il

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suo vero organo di senso. Come dire che la memoria sociale è più com­ pleta ma assai più cieca del ricordo individuale. In quella si conservano finanche le tracce di ciò che non ha traccia, di ciò che è stato espulso, ma solo in queste le forme possono risultare incongrue rispetto alle esperien­ ze. Se - ancora Nietzsche 116 - il giudizio è sempre in ultima istanza un giudizio di soddisfazione espresso dall'uomo, allora anche categorie come impossibilità o possibilità sono espressioni di una situazione di felicità o di dolore.

Sebbene l'individuo non possa mutare le costellazioni concrete, egli può tuttavia considerarle «come... se...» potessero essere diverse. La filo­ sofia ha raggiunto, nel processo, in fondo sempre illuministico, di demi­ stificazione, un grado di coscienza che non può essere eluso. Eppure ha reso anche ancor più chiaro che la coscienza è una forma di un determi­ nato grado di sviluppo. Questa idea, per lo meno di Marx prima che di Adorno, secondo la quale «l'essere sociale determina la coscienza», è anche la chiave di volta per la rivolta della coscienza contro l'essere. Quel che oggi vorrebbe essere accolto come smentita del materialismo storico e della critica dell'economia politica, il fatto che le forme di coscienza influiscano sulle forme produttive, è invece forse l'apertura a una diversa interpretazione della storia. Diversa interpretazione che né l'abiura di Lukàcs (che per primo formulò chiaramente, per una parte, questa idea) né il riassunto ad hoc della filosofia del Novecento compiuto per richiu­ derla sotto l'inganno estremo metafisico, possono annullare.

L'individuo si trova sul limite di tutto. Indifeso dallo strapotere della struttura, sociale o testuale, storico-biologica o inconscia, egli non è in grado di reperire da nessuna parte un punto fermo a partire dal quale pensare e criticare. Eppure l'atto della interpretazione continua, anzi esso è forse, come scrisse Adorno nel mille e novecentotrentuno, l'atteggiamen­ to per eccellenza della filosofia. Gli è che il rimosso torna a presentarsi all'individuo come eredità sociale, come forma, forma stessa della sua coscienza, con la quale, nonostante tutte le sempre crescenti difficoltà egli rifiuta di non identificarsi. Ma questo grado eli sviluppo della coscienza si

116 Che la filosofia di Nietzsche appartenga in qualche modo alla tradizione della scuola di Francoforte è indubitabile. Pochi sono, per altro, i lavori di questi autori che discutano di Nietzsche. È un'assenza interessante. Tuttavia non credo che le interpre- tazioni di tale mancanza fondate sul concetto di 'natura' in Adorno e Nietzsche colle­ gano il punto cruciale, che forse andrebbe cercato, semmai, nello «illuminismo diabo­ lico» dei due.

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duole della vita che conduce, e non trova in sé forme — concettuali, espres­ sive e di azione - necessarie a comprenderla e a mutarla. Anzi a lui, e anche per noi, come si esprimerebbe Hegel, tali forme sono diventate, parodisticamente, materiali, di nuovo come un tempo dovettero esser state prima di venir spediti sufficientemente lontani da non costituire più una minaccia. Su questi materiali si esercita la pressione artistica, ma anche la pressione del pensiero tout court.

Entrambi afflitti dalla impossibilità di calare l'esperienza nelle forme che il mondo ha approntato per essa, ne forniscono una rappresentazione (in questi casi Adorno usa sempre e invariabilmente il termine Darstellung per distinguere dalla rappresentazione come costruzione di immagine, in tedesco Vorstellung}™ dove le tensioni restano: dove la forma viene im­ piegata nonostante la sua inadeguatezza. Dove la parodia della forma - il portare il sempre identico (l'inconscio è privo di tempo) dentro il nuovo (interpretare significa far irrompere il tempo nell'inconscio che di per sé ne è privo) 118 - distrugge la forma stessa come natura, le toglie il carattere di tradizione inviolabile, rende meno dura la rimozione. Cade, insomma, il velo per il quale tutto appariva immutabile e immutato. E l'interpretare si scopre critica del non vero.

Allora la coscienza individuale si scopre essa stessa una forma prodot­ ta, storicamente prodotta, una «sottile trama» la chiama Adorno, dell'epo­ ca tardoborghese. E ad essa si pongono di fronte altre forme - altri me­ dium -, dall'aspetto trascendentale come è non solo il linguaggio, ma la struttura stessa del pensare per identificazioni, sorta in assonanza con la divisione del lavoro nella sfera della produzione e l'identificazione nella sfera della circolazione e scambio. Queste forme hanno, per Adorno, alla radice la medesima struttura delle forme artistiche - che non per nulla egli

117 L'importanza del termine Darstellung all'interno del pensiero adorniano me­ riterebbe una ricerca a sé; probabilmente a cominciare dalla «comparsa» di questa parola all'interno della cerchia degli autori di riferimento del Nostro. L'origine dell'uso moderno risale, secondo il dizionario storico, alla «rappresentazione» che le parti uf­ ficiali sostenevano in ambito giudiziario e in particolare durante un processo, dove la parola e la cosa erano legate in destino dalla sistemazione delle cause e delle leggi. Cosa che, tra l'altro, concorda con quanto sostenuto da Gadamer in Verità e metodo a proposito del latino repmesentatio. Ovviamente non è qui possibile procedere oltre in tale ricerca...

118 Sarebbe assurdo pensare di indicare tutti i passi in cui Freud parla della dimensione temporale del non-conscio; indichiamo tuttavia due trattazioni tarde del tema, che ci paiono paradigmaticamente chiare, cfr. dunque S. Freud Opere, voi. XI 1930-38, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 541-54, 572-74 e 599-609.

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chiama «materiali compositivi» - e di queste condividono il carattere: riprendendo un tema quasi fichteano (passato ad Adorno sicuramente attraverso le letture kantiane e la peculiare fenomenologia di Cornelius) si potrebbe dire che senza limiti non c'è neppure Io, o detto in termini più dialettici: prima o al di sotto delle forme che la coscienza assume in eredità e impone non c'è la libertà del contenuto, ma solo la massima indetermi­ natezza, la vuotezza quasi assoluta, del caos - l'essere e il nulla della prima triade della Scienza della logica hegeliana.

Così che la coscienza individuale, entro la quale avviene la composi­ zione di forze della interpretazione sebbene, ripetiamo, non l'interpreta- zione stessa, non ha a disposizione una via d'uscita che non sia quella di far la prova: inserire i propri contenuti in quelle forme di cui dispone. E il chiasmo si intreccia ulteriormente se si tiene presente come, per Adorno ma non solo per lui, i contenuti della coscienza sono sociali fino all'osso, e, d'altra parte, le forme, sia quella particolare della coscienza individuale, sia quelle «trascendentali» (per riassumere con questo nome quel che potrebbe andare sotto la categoria lukàcsiana di «seconda natura») sono il risultato della spinta all'autoconservazione, sono la risultante di relazioni e rapporti di forza la cui forza è conservata nella forza della forma che si esercita, appunto, come tradizione, in arte, e come «trascendentale» nella conoscenza, per far solo due tra i molti possibili esempi.

La croce in chiasmo dell'interpretazione, allora, non si attua tramite la liberazione dalla forme della «natura seconda», né, d'altro canto, iden­ tificandole con la natura tout court e proseguendo quindi alla ricerca di un fondamento: l'interpretazione è, per Adorno, atto sostanzialmente privo di fondamento. Sebbene egli suggerisca una serie di verifiche 119 , è del tutto chiaro come le reazioni individuali della interpretazione non possano fun­ gere da criterio del vero. A meno che esse siano non-individuali e il vero sia concepito in modo, per dir così, non aristotelico.

Questo è, però, proprio quel che vien messo in gioco da quel proces­ so che chiamammo interpretazione parodica. In essa la coscienza indivi­ duale, che si è assicurata i contenuti empirici (ai quali secondo il Nostro ogni contenuto è alla fine riconducibile), si fa teatro della propria costitu­ zione, delle forme sociali - nel senso ampio del termine - rapporti istituiti e rimossi e genealogie. Essa ne fa teatro come se questi fossero natura prima, valide e certe. Ma accade, e parrebbe accada sempre più spesso,

Cfr. il cap. IV.

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224 CRITICA DEL NON VERO

che questo «modo di prender sul serio», questa «critica immanente» all'in­ terno della dialettica della domanda, faccia saltar via la pretesa di neutra­ lità, di funzionalità, di verità in una parola, delle forme, lasciando l'indi­ viduo e i suoi medium fratti e scomposti. È qui che, sostenuto dal deside­ rio e dalla convinzione che «quel che è non è tutto quel che è», il teatro comincia a combinare in forme diverse quegli stessi elementi, fino a elimi­ nare ogni priorità, riconoscere la mediazione e, finalmente, mettere in atto la critica. I suoi contenuti, che sono tanto dell'individuo quanto della sua società, non possono scomparire. Il loro destino è fissato nell'alternativa fra assumere forma distorta - sforzarsi, per dir così, di entrare in scarpe troppo strette -, e sempre più distorta man mano che l'evoluzione storica modifica i tratti richiesti dal principio di conservazione, con tutte le sue versioni sociali e individuali, oppure agire modificando quelle forme: re­ troagire sulla propria eredità, considerando tutto ciò che appare natura come storia, non «dato» ma «posto», e, in ultima istanza, revocabile.

L'interpretazione per Adorno non deve, allora, tanto avere a suo risultato la scoperta del vero come rispecchiamento, quanto la modifica­ zione dello statuto dell'apparente e del reale. Modificazione che si riassu­ me fin troppo facilmente nel diritto alla felicità, nel diritto a commensu­ rare le «cose» a questa. Si tratta, è chiaro, di «conquistare una prospetti­ va» e non la cosa stessa nella sua essenza, come se essa avesse una essenza. Questa prospettiva è, in fondo, quella dialettica, della cosa come processo e quindi della mutazione del suo contenuto e della sua verità in relazione al grado di sviluppo. È la prospettiva della critica per eccellenza: prender tutto per vero al fine di verificare ogni nome come se si trattasse di dar nomi per la prima volta.

È evidente che una simile interpretazione lungi dall'abolire la tradi­ zione e la trasmissione, deve anzi conservarle come solo materiale su cui può operare. La costellazione, infatti, entro cui avviene la interpretazione parodica, se è mossa dalla coscienza individuale, non è tuttavia affatto, o quasi per nulla, questione di coscienza individuale. Non si tratta, per Adorno, di sistemare i punti più dolenti del soggetto di modo che egli possa adattarsi, più o meno bene, alle condizioni presenti; quanto permet­ tere allo stato presente delle cose di lasciar muoversi finalmente le proprie forze, che sono le forze delle cose e del soggetto, insomma della loro mediazione 12 °.

120 Th.W. Adorno, Parole chiave, op. cit., in particolare si veda il saggio Su sog­ getto e oggetto.

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DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA 225

Se è vero che senza l'intervento del soggetto, meglio: del pensiero e di suo padre, il desiderio, non si metterebbe in moto il negativo del conside­ rare l'enigma «come... se...», pure è certo che se la sistemazione del mondo fosse razionale alla felicità, nessuno scontento potrebbe infilarvi di soppiat- to delle contraddizioni. Così l'interpretazione parodica non è soggettiva, nel senso che di essa non decide il soggetto, e neppure il suo risultato è la ricostruzione dell'intento soggettivo. Ma non è nemmeno oggettiva, in essa non c'è alcun essere-cosi-e-non-altrimenti che venga tenuto fermo, neppu­ re nella più raffinata delle astrazioni. Essa, così si esprimerebbe Adorno, rimane ferma alla distinzione ma nella prospettiva della sua revoca: nella prospettiva non di recidere la dialettica tra soggetto e oggetto, bensì, attra­ verso il riconoscimento della sua complessità, di accrescerla.

La storia - come memoria e come ricordo - è il nerbo stesso della possibilità del chiasme interpretativo di cui abbiamo parlato poco sopra. L'oblio «è disumano» non solo perché scorda i morti, ma soprattutto per­ ché solo attraverso la accumulazione storica di significato, di successioni di strati di forma, di diverse forme di rapporto, la interpretazione può tener teso il filo che collega quel che deve venir provato e quel che, di fatto espe­ rito, viene informato in esso. Fin nel caso più semplice, quello di una sin­ gola parola, solo se in essa si è accumulata della storia, l'esperienza che sotto di essa dovrebbe essere pensabile dal soggetto può contraddirla o farsi contraddire. La storia, che pure non è immediatamente conoscenza, come mediazione del mondo è il medium della conoscenza, ovvero dialetticamen­ te, in qualche modo, l'oggetto della conoscenza. Come abbiamo detto, è la prospettiva su di essa che l'interpretazione deve liberare. Non «ciò che è avvenuto» si tratta di interpretare, ma l'effetto che ciò che è avvenuto ha su quel che deve, o può dover, avvenire. La storia è, insomma, il medio e la causa delle trasformazioni in forma, delle rimozioni, e delle reazioni del- l'«organo di senso» individuo che abbiamo visto all'opera nell'interpreta- zione. Così se la conoscenza storica è indispensabile per comprendere il «valore di posizione» delle parti dell'interpretando, l'interpretazione non si esaurisce in essa, né nella sua ricostruzione. Anzi, si potrebbe forse prospet­ tare - ma la ricerca è tutta da compiere - se Adorno non concepisca la storia come una forma dell'interpretazione. Certamente il libro «storico» Dialet­ tica dell'illuminismo si propose proprio di comprendere la prima interpre­ tazione dopo il mito, l'atto costitutivo, dell'illuminismo.

Ma del resto in conclusione, neppure l'interpretazione è conoscenza in Adorno, se non in quanto egli ha considerato la conoscenza, per come essa è oggi possibile, solo come negazione determinata del non vero.

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BIBLIOGRAFIA GENERALE

La presente bibliografìa si riferisce solo alle opere effettivamente utilizzate o citate, nonché ai testi di riferimento che compaiono in nota. Non è quindi esau­ stiva delle pubblicazioni di e su Adorno".

PARTE PRIMA: OPERE E SAGGI DI Tn.W. ADORNO, CITATI, IN ORDINE CRONOLOGICOSECONDO LA DATA DI PUBBLICAZIONE IN ITALIA

Minima moralia, trad. R. Solmi, Einaudi, Torino 1954.Filosofia della musica moderna, trad. L. Rognoni, Einaudi, Torino 1959.Dissonanze, trad. G. Manzoni, (l'edizione italiana porta in aggiunta due saggi del

1957: Neue Musik, Interpretation, Publikum e Verfremdes Hauptwerk) Feltri-nelli, Milano 1959.

Kierkegaard. Costruzione dell'estetico, trad. A.B. Cori, Longanesi, Milano 1962. Sulla metacritica della gnoseologia, trad. A.B. Cori, Sugarco, Milano 1964. Dialettica dell'illuminismo, scritta con Max Horkheimer, trad. R. Solmi, Einaudi,

Torino 1966. Lezioni di sociologia, (gli scritti sono attribuiti all'Istituto per la ricerca sociale di

Francoforte, senza indicazione dei singoli autori. Corrisponde al voi. IV dei"Frankfurter Beitràge zur Soziologie", M. Horkheimer e Th.W. Adornocompaiono come curatori della raccolta) trad. A. Mazzone, Einaudi, Torino1966.

Wagner-Mahler, (i due studi sono accorpati solo nell'edizione italiana) trad. M.Bartolotto e G. Manzoni, Einaudi, Torino 1966.

Compaiono con l'indicazione dell'edizione originale quelle opere straniere che sono state consultate effettivamente in quell'edizione, accompagnata con l'indicazione della traduzione italiana con l'anno di riferimento dell'edizione dalla quale è tratta l'eventuale citazione.

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BIBLIOGRAFIA GENERALE 227

Anmerkungen zum sozialen Konflikt beute. Nacb zwei Seminaren, in "Giovanecritica", n. 17, 1967.

Il fido maestro sostituto trad. G. Manzoni, Einaudi, Torino 1969. È superato Marx? in AA.VV. Marx Vivo, Mondadori, Milano 1969. Dialettica negativa, trad. C.A. Donolo, Einaudi, Torino 1970. Introduzione alla sociologia della musica, trad. G. Manzoni, Einaudi, Torino 1971. Tre studi su Hegel, trad. F. Serra, II Mulino, Bologna 1971. Dialettica e positivismo in sociologia, autori vari, trad. A.M. Solmi, Einaudi, Torino

1972. Prismi, trad. C. Mainoldi, M.B. Peruzzi, E. Zolla, E. Filippini, G. Manzoni, A.B.

Cori, Einaudi, Torino 1972.L'attualità della filosofia, trad. C. Pettazzi, in "Utopia", 1973, n. 7-8. Parole chiave. Modelli critici, trad. M. Agrati, Sugarco, Milano 1975. Teoria estetica, trad. E. De Angelis, Einaudi, Torino 1975. Terminologia filoso/tea, trad. A. Solmi, Einaudi, Torino 1975, 2 voli. Scritti sociologici, (si tratta di una selezione degli scritti compresi nell'edizione

originale tedesca) trad. A.M. Solmi, Einaudi, Torino 1976.L'idea di storia naturale, trad. M. Tosti Croce, in "II Cannocchiale", 1977, n. 1-2. Note per la letteratura, trad. E. De Angelis, A. Frioli e G. Manzoni, Einaudi,

Torino 1979, 2 voli.Parva Aesthetica, E. Farnchetti, Feltrinelli, Milano 1979*. // tardo stile di Beethoven, trad. A. Arbo, in "Aut Aut", 1988, n. 225. Il gergo dell'autenticità, trad. R. Bodei, Bollati Boringhieri, Torino 1989.

PARTE SECONDA: EDIZIONE TEDESCA DELLE OPERE COMPLETE DI TH.W. ADORNO

Theodor Wisengrund Adorno, Gesammelte Schnften, hrsg. von G. Adorno und R.Tiedemann, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M., in 20 Banden.

I: Philosophische Frùhschriften II: Kierkegaard. Konstruktion des Àsthetischen III: Dialektik der Aufklàrung IV: Minima moraliaV: Zur Metakritik der Erkenntnistheorie Drei Studien zu Hegel VI: Negative Dialetktik VII: Àsthetische Theorie Vili: Soziologische Schriften I IX: Soziologische Schriften II X: Kulturkritik und Gesellschaft. Prismen. Ohne Leitbild. Parva Aesthetica Eingriffe. Stichworte XI: Noten zur Eiteratur XII: Philosophie der neuen Musik XIII: Die musikalische Monographien XIV: Dissonanzen XV: Komposition fùr den Film

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228 BIBLIOGRAFIA GENERALE

Der getreuer Korrepetitor XVI: Musikalische Schriften I-III XVII: Musikalische Schriften IV XVIII: Musikalische Schriften V XIX: Musikalische Schriften VI XX: Vermischte Schriften

PARTE TERZA: BIBLIOGRAFIA CRITICA

Sezione prima: volumi collettanei su Adorno e la scuola di Francoforte.

AA.VV., Teorie letterarie nella scuola di Francoforte, in «Quaderni critici», Roma 1976. In particolare i saggi: M. Carlino, // surrealismo negli scritti teorico- critici di Marcuse, Adorno, Benjamin; A. Mastropasqua, Alcune note su Benja- min, Adorno e la scuola di Francoforte.

AA.VV., Theodor W. Adorno, hrsg. von H.L. Arnold, Text+Kritik, Mùnchen 1971.

AA.VV., Adorno Konfernz 1983, hrsg. von L.V. Friedeburg und J. Habermas, Suhrkamp Verlag, FRankfurt a. M. 1983. In particolare i saggi: A. Schmidt, Begriff des Materialismus bei Adorno; H.R. Jauss, Der literarische Prozef, des Modernismus von Rousseau bis Adorno; P. Biirger, Das altern der Moderne; W. BonE, Empirie und Dechifrierung von Wirklichkeit. Zur Methodologie bei Adorno.

AA.VV., Th.W. Adorno zum Gedàchtnis. Eine Sammlung hrsg von FI. Schwep- penhàuser, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1971. In particolare i seguenti saggi: Th.W. Adorno, Resignation; J. Habermas, Theodor W. Adorno wdre am 11 September 66 Jahre alt geworden; P. von Haselberg, Denken aus Pro­ test; G. Picht, Atonale Philosophie; D. Schnebel, Komposition von Sprache....

AA.VV., Die frankfurter Schule im Licht des Marxismus. Zur Kritik des Philosophie und Sociologie von Horkheimer, Adorno, Marcuse und Habermas, Marxisti- sche Blatter Verlag, Frankfurt a. M. 1970.

AA.VV., IJber Th.W. Adorno, hrsg. von Oppens, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1968.

AA.VV., Die neue Linke nach Adorno, hrgs. von W.F. Schòller, Kinfler Verlag, Mùnchen 1969.

AA.VV., Kritik und Interpretation der kritischen Theorie, Aufsàtze ùber Adorno, Horkheimer, Marcuse, Benjamin, Habermas. A. Achenbach, GieBen 1975.

AA.VV., Hamburger Adorno-Sympbosion, hrsg. von M. Lòbig und G. Scwep- penhàuser, Dietri eh zu Klampen Verlag, Lùneburg 1984. In particolare i saggi: R. Tiedemann, Begriff-Bild-Name. Uber Adornos Utopie von Erkennt- nis; C. Tùrke, Gottesgeshcenk Arbeit. Theologisches zu einem profanen Be- griff; W. Hofer, Adorno und Kafka.

AA.VV., Zeugnisse. Th.W. Adorno zum sechzigsten Geburstag, hrsg. von M. Horkheimer, Europàische Verlagsanstalt, Frankfurt a. M. 1963.

AA.VV., Materialen zur Àsthetischen Theorie Theodor W. Adornos Konstruktion der Moderne, hrsg. von Burkhardt und Lùdke, Suhrkamp Verlag, Frankfurt

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BIBLIOGRAFIA GENERALE 229

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AA.VV., Présences d'Adorno, in «Revue d'Esthétique», 1975, n. 1-2. In partico­ lare i saggi: E. Baucar, L'esthétique camme antropologìe. Une lecture d'Adorno a partir du Manuscript de 1844; G. Hòhn, Une logique de la décomposition polir une lecture de Th.W. Adomo; M. Jimenez, Présences d'Adorno; J.R. Ladmiral, Adorno cantra Heidegger; O.K. D'Allones, Adorno non Adorno.

AA.VV., Adorno, in «Revue d'Esthétique», nuova serie, 1985, n. 8. In particolare i saggi: P. Bùrger, L'antiavantgardisme dans l'esthétique d'Adorno; J. R. La­ dmiral, Dialectique negative de l'écriture aphonstique; R. Heyndels, Disconti­ nuità et question du scns: quelques remarques sur Adorno et Pascal; P. Zima, Adorno et la crise du langage: pour une critique de la parataxis.

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1 Questo preziosissimo volume è comparso dopo la stesura del presente lavoro; se ne da qui notizia soprattutto per l'interesse che esso riveste, e non solo per i lettori di Adorno, ma non è stato, per ovvia impossibilità, utilizzato come apparato critico.

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PARTE QUARTA: EMEROTECA

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PARTE QUINTA: ALTRI TESTI2

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Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1955; trad. Angelus Novus, a cura di R.Solmi, Einaudi, Torino, 1962.

2 Testi che compaiono in citazione o che hanno costituito struttura della ricerca o esposizioni di riferimento.

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Finito di stampare nel mese di febbraio 1997 da La Grafica & Stampa ed. srl, Vicen/a