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STOREP apers Italian Association for the History of Political Economy ISSN 2282-0299 WP 2 - 2016 Ragioni, negazioni e direzioni dell’intervento pubblico. Logiche del processo economico in Mises e Polanyi Riccardo Evangelista [email protected] Karl Polanyi e Ludwig von Mises condividono lo stesso periodo storico, lo stesso mondo intellettuale e, almeno in parte, la stessa formazione teorica. Il loro iniziale e più diretto contesto di riflessione è l’esperimento socialista della cosiddetta “Vienna rossa” (1919-1933), in cui politiche economiche interventiste avevano fortemente limitato lo spazio del mercato in particolari settori, tra cui quello della casa. Da questa esperienza trarranno conclusioni diametralmente opposte: per Polanyi quella di Vienna è la dimostrazione della necessità di regolare il meccanismo dei prezzi per ambire a una società più democratica, per Mises l’ennesimo tentativo di interferenza pubblica insostenibile e fallimentare, crollato sotto il peso delle sue inefficienze. Perché questa lettura radicalmente diversa degli stessi fatti? La ragione va ricercata in una dimensione che precede quella dell’analisi economica e si colloca nella opposta rappresentazione storico-metodologica del processo di mercato. Dall’individualismo metodologico (e problematico) dell’opera di Menger, con Mises la scuola austriaca di economia passa a un individualismo intimamente politico, che erge il liberismo a fine ultimo da perseguire indipendentemente dal contesto di riferimento e dagli effetti concreti. Polanyi, al contrario, propone una prospettiva prettamente istituzionalista in cui il mercato viene collocato storicamente e soprattutto indagato socialmente, a partire cioè dai fondamenti eccezionali che lo animano. Lo studioso ungherese fa dunque dipendere l’azione individuale dal tipo di società in cui questa è collocata, negando sia l’universalizzazione dei moventi umani utilitaristici (homo oeconomicus) che la subordinazione teorica e pratica della società rispetto al sistema economico. La critica ha una portata radicale e dalle ampie ripercussioni di politica economica perché indaga le rappresentazioni mentali alla base del mercato autoregolato: scambiando una parte (la forma di mercato) per l’intera economia umana (i diversi modi in cui le società hanno risolto il problema della sussistenza), la teoria liberista rinchiude fatalmente l’umanità in una falsa gabbia deterministica, contribuendo in modo decisivo ad ostacolare «la realizzazione economica dei nostri ideali». Keywords: Polanyi, Mises, mercato, sostantivismo, formalismo JEL: A13, A14, B40, B52, B53 December 2016

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STOREPapers I t a l i a n A s s o c i a t i o n f o r t h e H i s t o r y o f P o l i t i c a l E c o n o m y

ISSN 2282-0299 W P 2 - 2 0 1 6

Ragioni, negazioni e direzioni dell’intervento pubblico.

Logiche del processo economico in Mises e Polanyi

Riccardo Evangelista

[email protected]

Karl Polanyi e Ludwig von Mises condividono lo stesso periodo storico, lo stesso mondo intellettuale e, almeno in parte, la stessa formazione teorica. Il loro iniziale e più diretto contesto di riflessione è l’esperimento socialista della cosiddetta “Vienna rossa” (1919-1933), in cui politiche economiche interventiste avevano fortemente limitato lo spazio del mercato in particolari settori, tra cui quello della casa. Da questa esperienza trarranno conclusioni diametralmente opposte: per Polanyi quella di Vienna è la dimostrazione della necessità di regolare il meccanismo dei prezzi per ambire a una società più democratica, per Mises l’ennesimo tentativo di interferenza pubblica insostenibile e fallimentare, crollato sotto il peso delle sue inefficienze. Perché questa lettura radicalmente diversa degli stessi fatti? La ragione va ricercata in una dimensione che precede quella dell’analisi economica e si colloca nella opposta rappresentazione storico-metodologica del processo di mercato. Dall’individualismo metodologico (e problematico) dell’opera di Menger, con Mises la scuola austriaca di economia passa a un individualismo intimamente politico, che erge il liberismo a fine ultimo da perseguire indipendentemente dal contesto di riferimento e dagli effetti concreti. Polanyi, al contrario, propone una prospettiva prettamente istituzionalista in cui il mercato viene collocato storicamente e soprattutto indagato socialmente, a partire cioè dai fondamenti eccezionali che lo animano. Lo studioso ungherese fa dunque dipendere l’azione individuale dal tipo di società in cui questa è collocata, negando sia l’universalizzazione dei moventi umani utilitaristici (homo oeconomicus) che la subordinazione teorica e pratica della società rispetto al sistema economico. La critica ha una portata radicale e dalle ampie ripercussioni di politica economica perché indaga le rappresentazioni mentali alla base del mercato autoregolato: scambiando una parte (la forma di mercato) per l’intera economia umana (i diversi modi in cui le società hanno risolto il problema della sussistenza), la teoria liberista rinchiude fatalmente l’umanità in una falsa gabbia deterministica, contribuendo in modo decisivo ad ostacolare «la realizzazione economica dei nostri ideali». Keywords: Polanyi, Mises, mercato, sostantivismo, formalismo JEL: A13, A14, B40, B52, B53

December 2016

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1. Vienna, un’amministrazione socialista nel cuore dell’Europa: un’introduzione

Un giovane Karl Polanyi, da pochi anni arrivato a Vienna dopo aver lasciato la sua Budapest, ebbe

subito modo di entrare in diretta polemica con le tesi di Ludwig von Mises, già economista di fama

internazionale e tra i più intransigenti sostenitori del libero mercato.

L’occasione per dare inizio a una diatriba insieme economica, filosofica e politica che continuò per

tutta la vita di Polanyi e coinvolse successivamente, seppur perlopiù implicitamente, anche Hayek, fu

la pubblicazione di un importante articolo di Mises in cui veniva decretata l’irrazionalità congenita

dell’economia pianificata e al contempo la superiorità, a livello tanto di efficienza allocativa quanto

dinamica, del libero mercato1. Seguendo la puntuale ricostruzione di Claudio Napoleoni, la tesi

centrale esposta da Mises può essere sintetizzata nel modo seguente:

Poiché [secondo Mises, ndr] scopo dell’economia, in qualunque contesto istituzionale, è quello

dell’utilizzo più efficiente di risorse scarse nel perseguimento di certi fini, ne segue che ogni

economia, per poter operare le scelte che l’efficienza della gestione richiede, ha bisogno che le

risorse a disposizione possiedano dei rigorosi indici di scarsità, in mancanza dei quali ogni base per

il raggiungimento di suddetta efficienza viene meno. Ora, l’unico metodo che si conosca per

attribuire tali indici alle risorse produttive, consiste nel consentire che le risorse stesse assumano

un prezzo su un libero mercato; i prezzi relativi, in altri termini, misurano le scarsità relative e

perciò l’assumerli come punto di partenza è condizione necessaria per la razionalità, cioè per

l’efficienza, del processo di scelta. Ma poiché un’economia pianificata è per definizione priva di

mercato, e quindi del meccanismo che misura la scarsità relativa delle risorse, ogni criterio

razionale di scelta viene meno in tale economia, la quale è perciò destinata all’arbitrio e al

disordine2.

Il dibattito ebbe un seguito di grande interesse, oltre che per i perfezionamenti apportate alle tesi

di Mises da Hayek e Robbins, anche per le diverse difese della pianificazione proposte in particolare

1 Cfr. L. Mises, Die Wirtschaftsrechnung in Sozialistischen Gemeinwesen, in «Archiv für Sozialwissenschaften»,

1920. L’articolo ebbe una risonanza molto maggiore con la traduzione in inglese, ad opera di Hayek, datata

1935, quando venne pubblicato nel volume collettaneo dal titolo Collectivist Economic Planning, in cui

comparvero, oltre al testo di Mises, contributi dello stesso Hayek, di Pierson e di Halm (L. Mises, Il calcolo

economico nello stato socialista, in F. A. Hayek (a cura di), Pianificazione economica collettivista, Einaudi,

Torino, 1946, pp. 84-124).

2 C. Napoleoni, Il pensiero economico del 900, Einaudi, Torino, 1962, p. 150.

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da Oskar Lange3 e Maurice Dobb4. Se il primo si rese protagonista del tentativo di formalizzare un

socialismo di mercato attraverso l’utilizzo dello stato come banditore walrasiano in grado di

“aggiustare” i prezzi, il secondo rivendicava la superiorità dinamica della pianificazione per la capacità

dello stato di dirottare le risorse in investimenti complementari, non realizzabili attraverso la mancata

coordinazione a monte tipica del sistema di mercato.

Polanyi aveva però seguito un’altra strada e già nel 1922 criticò la celebrazione del mercato operata

da Mises individuando un’incapacità congenita, dovuta ai caratteri peculiari del sistema dei prezzi

come espressione unicamente dell’utilità individuale, di cogliere e salvaguardare l’utilità sociale:

Ma anche là dove prescindiamo dal fine immediato della produzione, dal prodotto, l’economia

capitalistica non riesce ad avere un’idea del punto di vista dell’utilità pubblica: l’economia privata,

per sua natura, non riesce a comprendere l’effetto retroattivo del processo di produzione sulla vita

della comunità. Le manca l’organo per capire come si formano la salute, il riposo, l’essere spirituale

e morale dei produttori e degli abitanti delle vicinanze dei luoghi di produzione, come il bene

generale è favorito o pregiudicato da questo o quell’orientamento della produzione o del modo di

produzione attraverso i loro lontani effetti retroattivi5.

Un’efficace descrizione di quello che Polanyi definirà, circa tre decenni dopo, l’approccio

sostantivista allo studio dell’economia politica. Contrapposto al formalismo incentrato sul

meccanismo dei prezzi come “naturale” garanzia di allocazione delle risorse definite scarse, il

sostantivismo, avvalendosi dell’antropologia e della storia comparata, proporrà una visione

dell’economia come processo istituzionalizzato, in cui diventano cruciali le norme sociali attraverso

cui la produzione è organizzata al fine della soddisfazione dei bisogni umani.

Prima di addentraci nella questione è però indispensabile un’inquadratura più ampia. Dopotutto

nessuna analisi comparativa può diventare rilevante senza un definito contesto di riferimento e il

confronto tra Ludwig von Mises e Karl Polanyi non fa eccezione, anzi rafforza la regola. Le loro

riflessioni sono infatti collocate nella Vienna degli anni Venti, in cui il vecchio mondo asburgico era

ormai crollato sotto i colpi della Prima guerra mondiale e le ambizioni di ricostruire daccapo una

nuova società, con il richiamo sempre più altisonante della Rivoluzione Russa, sembravano riversarsi

nell’amministrazione socialista della città, in carica ininterrottamente per un quindicennio. La “Vienna

rossa” (1919-1933), come iniziò presto ad essere chiamata, rappresentò indubbiamente una parentesi

3 Cfr. O. Lange, On the economic theory of socialism, in «Review of Economic Studies», vol. 4, n. 1, 1936.

4 Cfr. M. Dobb, Economic theory and the problems of a socialist economy, in «The Economic Journal», vol. 43,

1933, 588-598.

5 K. Polanyi, La contabilità socialista, in A. Salsano (a cura di), La libertà in una società complessa, Bollati

Boringhieri, Torino, 1987, p. 19.

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unica nella storia europea, tale da diventare un vero e proprio mito per gli intellettuali progressisti del

tempo. Contemporaneamente, divenne anche un incubo per i più conservatori, soprattutto di lingua

tedesca. Tra i primi abbiamo Karl Polanyi, tra i secondi un posto di rilievo lo occupa Ludwig von Mises.

Nei confronti di questo anomalo caso di socialismo municipale essi danno giudizi che non possono

essere più diversi: «uno dei più spettacolari trionfi culturali della storia occidentale» per il primo, solo

una degenerazione inflazionistica per il secondo.

Le misure di politica economica e sociale intraprese a Vienna colpirono Polanyi al punto che, come

racconta la figlia Kari6, l’amministrazione della capitale austrica rimase per tutta la vita il suo modello

politico di riferimento, nonostante fosse ben consapevole della difficile riproducibilità in altri contesti.

Si legge ad esempio nelle note alle fonti de La grande trasformazione:

Nel corso della maggior parte dei quindici anni successivi alla guerra del 1914-1918, l’assicurazione

contro la disoccupazione ebbe grossi sussidi dalle finanze pubbliche che estendevano

indefinitivamente i sussidi esterni. Gli affitti furono bloccati a una frazione minima del loro livello

precedente e la municipalità di Vienna costruì grandi case popolari su una base di non-profitto

raccogliendo con le tasse il capitale necessario. Anche se non venivano dati contributi ai salari, una

generale disponibilità di servizi sociali, per quanto modesti, avrebbe potuto portare ad un calo

eccessivo dei salari se non fosse stato per l’opera di un movimento sindacale assai sviluppato che

trovava naturalmente un saldo appoggio nell’ampia concessione dell’indennità di disoccupazione

[…]. Il 1918 iniziava un’ascesa morale e intellettuale ugualmente senza precedenti nelle condizioni

di una classe lavoratrice industriale molto sviluppata che, protetta dal sistema di Vienna, resisteva

agli effetti degradanti del grave sconvolgimento economico e raggiungeva un livello mai superato

dalle masse popolari in nessun paese industriale7.

La tragica fine dell’esperienza, datata 1933, è imputata da Polanyi a motivazioni prettamente

politiche, nella quale un ruolo determinante ebbe la reazione delle classi conservatrici, timorose di

vedere definitivamente compromesso il loro peso relativo nella società: «Alla fine Vienna […] cedette

sotto l’attacco di forze politiche potentemente appoggiate da argomenti puramente economici»8.

Il riferimento è proprio agli economisti liberisti austriaci, primo fra tutti Mises, che criticavano il

successo della politica economica di Vienna definendolo «un altro ‘sistema di sussidi’ che aveva

bisogno della spazzola di ferro degli economisti classici»9, ritenendo i successi in termini sociali solo

6 Cfr. K. Polanyi Levitt, Hayek from Vienna to Chicago e The roots of Polanyi’s Socialist Vision, in K. Polanyi

Levitt, From the great transformation to the great financialization, Zed Books, London-New York, 2013, pp. 23-

53.

7 K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974 (1944), pp. 358-359

8 Ivi, p. 359.

9 Ibidem.

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una pericolosa elargizione che avrebbe, alla lunga, dissestato il bilancio federale. Interessante al

riguardo la ricostruzione che propone Kari Polanyi Levitt:

In the setting of the intellectual Vienna of the 1920s, Hayek, his patron Mises and their associates

were the misfits – the remnants of old Imperial Vienna’s privileged urban elites, whose security had

been shattered, whose savings had been decimated by wartime and post-war inflation and whose

taxes were financing the pioneering housing program of Red Vienna. In their parlours and favourite

coffee houses they fed their fears of the dictatorship of the proletariat10.

Polanyi, al contrario, vedeva nei vasti e articolati progetti sociali di Vienna un prodromo della

realizzazione di un socialismo già sognato nelle esperienze del Circolo Galilei a Budapest prima della

guerra, in cui le simpatie di sinistra dei giovani ungheresi erano caratterizzate da una forte ostilità

verso la centralizzazione burocratica e una spiccata sensibilità umanistica11.

Tra gli storici che si sono occupati a lungo della socialdemocrazia austriaca, e di riflesso del caso

viennese come banco di prova di quest’ultima, c’è Enzo Collotti. In un saggio contenuto negli Annali

della Fondazione Feltrinelli, pur rilevando l’originalità e l’indiscussa fascinazione sui contemporanei

dell’esperienza, Collotti non la risolve nell’eccezionalità delle circostanze che l’hanno generata, ossia

nel fallimento della socialdemocrazia al governo e il ripiegamento sul comune, dove poteva vantare di

un’ampia maggioranza dovuta al sostegno della base sociale:

La “Vienna rossa” era allora già nella leggenda del proletariato mondiale […]. In effetti, le ragioni

della diversità di Vienna come laboratorio di esperienze per il movimento socialista internazionale

– al di là del più generale contesto della diversità della situazione austriaca, in cui rientrava il

cambiamento nel 1919 delle leggi elettorali e dei rapporti di forza che la monarchia plurinazionale

aveva congelato su dislocazioni diverse – erano complesse e reali […]. Mentre le amministrazioni

socialdemocratiche della repubblica di Weimar miravano essenzialmente a favorire gestioni più

attente agli interessi dei ceti popolari, nella distribuzione e nella fruizione dei servizi,

nell'agevolazione dell'edilizia popolare e residenziale per i ceti medio-bassi, il programma

amministrativo viennese mirava a operare con la leva fiscale una vera e propria redistribuzione del

reddito, a incidere quindi profondamente sulla stratificazione sociale e a imporre una

10 K. Polanyi Levitt, From the great transformation to the great financialization, cit., p. 24.

11 Cfr. A. Salsano, La filosofia politica di Karl Polanyi, in A. Salsano (a cura di), Karl Polanyi, Bruno Mondadori,

Milano, 2003.

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socializzazione dei servizi, a cominciare dall’uso dell’abitazione, destinato a spostare verso il

Comune il centro di gravità del potere non solo politico ma anche economico12.

Tra le politiche perseguite dal governo socialista di Vienna, che grazie alla riforma costituzionale

del 1920 godeva dell’ampia autonomia fiscale riservata alle cosiddette città-Land, ampia risonanza

ebbero quelle abitative, finalizzate alla costruzione di alloggi popolari (i cosiddetti Höfe), confortevoli

e con affitti calmierati. Erano destinati principalmente alla classe operaia, che più di tutte aveva

partecipato allo sforzo bellico per poi ritrovarsi al termine della guerra, in un paese sconfitto e

fortemente indebitato, ad aver perso tutto. Innovativi furono anche i tentativi di formazione scolastica

rivolti agli adulti, talmente importanti nelle vicende scientifiche ed umane di Polanyi che egli stesso si

impegnò a portare avanti l’ideale democratico che ne era sotteso quando fu costretto a trasferirsi in

Inghilterra a causa della svolta autoritaria austriaca iniziata nel 1933.

La questione abitativa, che molto contribuì alla fama «leggendaria» di Vienna tra la classe operaia

europea dell’epoca, è cruciale non solo dal punto di vista urbanistico, ma anche perché fa emergere

una precisa visione sottostante al rapporto tra intervento pubblico, economia e democrazia. La

possibilità di disporre di un alloggio adeguato rientrava infatti, ad avviso dei socialisti austriaci, tra i

diritti primari del cittadino, che in modo più rilevante contribuivano a salvaguardare la dignità

dell’essere umano e a combattere l’atomismo che l’industrialismo tendeva invece a generare. Scrive

ancora Polanyi Levitt, rimarcando il rapporto tra questione abitativa e visione inclusiva della

cittadinanza:

Working-class families were now privileged in access to low-rental, bright, spacious, modern

apartment with parks, kindergartens and other communal facilities. These program, together with

a sweeping educational reform based on Alfred Adler’s theories of psychology, plus the large scale

participation of the working people of Vienna in a remarkable variety of cultural, recreational and

educational activities organized by the socialist municipal administration, made Red Vienna a

world class showpiece of avant-garde urban lifestyle13.

Si deve subito concludere, alla luce del successo delle politiche abitative (fino al 1932 furono

costruiti 62000 nuovi alloggi, soprattutto grazie alla forte progressività della riforma fiscale), che

l’esperienza della “Vienna rossa” fu del tutto idilliaca e proficua? Nonostante gli innumerevoli elementi

positivi anche nei settori della scuola, della previdenza e dell’occupazione un tale giudizio sarebbe

affrettato. Giacomo Marramao, ad esempio, ne evidenzia alcuni gravi limiti politici ed economici:

12 E. Collotti, Socialdemocrazia e amministrazione municipale. Il caso della “Vienna rossa”, in E. Collotti (a cura

di), L'internazionale operaia e socialista tra le due guerre (Annali della Fondazione Feltrinelli, numero XXIII),

Feltrinelli, Milano, 1985, pp. 432-433.

13 K. Polanyi Levitt, From the great transformation to the great financialization, cit., p. 24.

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L’enfasi sulla «giustizia distributiva», che avrebbe dovuto essere realizzata attraverso sistemi di

tassazione della rendita parassitaria urbana, si risolse in realtà nella salvaguardia di un’economia

«statica», non avendo la classe operaia conquistato quelle leve statali di controllo sull’economia

con le quali soltanto avrebbe potuto finalizzare in un senso diverso la politica di sacrifici e di

controllo del salario reale14.

In altri termini, mentre la redistribuzione del reddito procedeva in modo consistente e la classe

lavoratrice poteva toccare con mano un benessere da cui fino ad allora era stata esclusa, la

socializzazione degli investimenti faticava ad espandersi in settori diversi da quello edilizio. Gli

ambiziosi progetti dei socialdemocratici al governo dal 1918 al 1920 (nazionalizzazione delle grandi

aziende e del credito, coordinazione delle piccole imprese, controllo dei prezzi agricoli e promozione

delle colture a seconda dei fabbisogni della popolazione) erano infatti un lontano ricordo e la

condizione da «fortezza assediata» di Vienna, se molto contribuì alla compattezza del partito

socialdemocratico e della stessa classe operaia, ne evidenziò anche la dipendenza da fattori contingenti

ed esogeni, in primo luogo un governo federale che sempre più vedeva nell’esperienza della capitale

una seria minaccia politica da limitare soprattutto dal punto di vista finanziario, riducendo cioè i

trasferimenti statali:

Per distruggere la socialdemocrazia bisognava attaccarla alle radici del suo successo: strangolare

Vienna significava costringere il comune ad abbandonare la politica edilizia che aveva

rappresentato la sua più importante realizzazione, ma questo significava anche costringerlo a

comprimere tutto il complesso della politica sociale e culturale che aveva fatto la diversità di

Vienna. Solo in questo modo era possibile sottrarre ai socialdemocratici i consensi che nel corso

degli anni si erano stabilizzati o addirittura consolidati. Il conflitto politico tra Vienna e il Bund

della fine degli anni Venti, che sarebbe culminato nelle cannonate di Dollfus del 1934, sottolineò

ancora una volta il peso dell'esperienza viennese come polo e segnale della trasformazione e

baluardo della democrazia in Austria15.

La “Vienna rossa” va allora letta nel suo significato più generale, che comprende certo quello fiscale

ma non si esaurisce in esso: esprime infatti l’essenza del rapporto tra democrazia ed economica

secondo la visione del socialismo cosiddetto austromarxista, come sottolinea ancora Marramao:

Pur nella legittima e doverosa operazione di ridimensionamento storico e di demistificazione

ideologica, il senso politico-generale dell'opera portata avanti dalla Municipalità di Vienna – il cui

14 G. Marramao, Austromarxismo e socialismo di sinistra fra le due guerre, La Pietra, Milano, p. 56.

15 E. Collotti, Socialdemocrazia e amministrazione municipale. Il caso della “Vienna rossa”, cit., p. 458.

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borgomastro, Karl Seitz, divenne il più popolare dei dirigenti socialdemocratici – sul piano della

legislazione sociale (in particolare nell'edilizia – con la costruzione degli Höfe, le grandi residenze

operaie a basso costo –, della scuola, della sanità e della pubblica assistenza) non può essere

liquidato come una utopia regressiva. L'idea che stava alla base dell’esperimento della «Vienna

rossa» era quella di una «nuova democrazia» in cui la classe operaia svolgesse un ruolo dirigente

ricongiungendo «la qualità del lavoro alla qualità umana dei rapporti sociali, in nome di una nuova

società di produttori coscienti» […]. Sta qui il senso profondo del recupero della «comunità»

(Gemeinschaft), non come ripristino di un astratto ideale umanistico, ma come risposta della classe

operaia alla «massificazione capitalistica»; e qui pure la motivazione di fondo che sorregge il

suggestivo tentativo austromarxista di realizzare una sintesi tra la politica come progetto

complessivo e il produttore cosciente comunitario16.

Vienna, che non si esaurisce certo nelle politiche dell’amministrazione socialista ma che fu in grado

di raccogliere numerose esperienze intellettuali in ogni ambito delle scienze sociali17, divenne il

privilegiato laboratorio di elaborazione iniziale delle idee di Mise e Polanyi. C’erano tutte le premesse

per un percorso dalle ampie ricadute teoriche.

2. Mises e Polanyi: diverse strade da uno stesso inizio

Negli anni dell’amministrazione socialista di Vienna Mises era un importante funzionario pubblico

con delicati compiti riguardanti la gestione dei crediti di guerra e, pur essendo uno dei più noti

economisti europei del tempo, non aveva insegnamenti ufficiali all’università. Come era consuetudine

per studiosi di comprovata fama, teneva però un corso di libera docenza in una stanza del suo ufficio.

Il successo delle lezioni, impregnate di un metodo piuttosto ostile agli studi empirici, crebbe

velocemente tanto da diventare più significativo, nelle tappe di formazione di ogni giovane economista

con idee liberiste, anche dei corsi obbligatori tenuti nelle aule accademiche:

Il ‘seminario Mises’ si svolgeva nell’ufficio di Mises, dove due volte al mese si riunivano studenti ed

economisti per discutere soprattutto di teoria economica e problemi di metodo. Nella seconda metà

degli anni venti era il centro più vivo del dibattito economico a Vienna. La fama del seminario era

16 G. Marramao, Austromarxismo e socialismo di sinistra fra le due guerre, cit., p. 57.

17 Cfr. Janik A., Toulmin S. E., La grande Vienna, Garzanti, Milano, 1997.

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tale che gli studenti arrivavano anche dall’estero, dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dagli Stati

Uniti per seguire le conversazioni che vi avevano luogo18.

Nell’aula di quell’ufficio pubblico iniziarono a diffondersi e a mettere radici idee in netta

opposizione allo spirito interventista dell’epoca. Mentre in buona parte dell’Europa stavano avanzando

i partiti socialisti, le idee di Mises si radicalizzavano quasi per reazione e i suoi allievi non faticavano

ad apprezzarlo come un coraggioso intellettuale lontano dalle mode. Con queste parole di

ammirazione lo ricorda il suo allievo Fritz Machlup:

Mises fought interventionism while almost everybody was in favour of some government action

against the “evil” consequences of laissez-faire. Mises fought inflationism while a large majority of

people was convinced that only a courageous expansion of money, credit and governmental

budgets could secure prosperity, full employment and economic growth. Mises fought socialism in

all its forms, while most intellectuals had written of capitalism as a decaying system to be replaced

either peacefully or by revolution, by socialism or by communism. Mises fought coercive

egalitarianism while every “high-minded” citizen thought that social justice required redistribution

of wealth and/or income. Mises fought government-supported trade unionism, while progressive

professors of political science represented increasing power of labor unions as an essential

ingredient of democracy. Hayek became the most forceful exponent and defender of the economic

and political views of Mises19.

Sulla base del giudizio di Machlup, tutt’altro che irrilevante data la rilevanza dello studioso, è

possibile sostenere che Mises fu il maggior fautore della radicalizzazione liberista della scuola austriaca

di economia. Quest’ultima, seppur nata nella prospettiva analitica marginalista e quindi fondata

sull’individualismo metodologico che è alla base della teoria del valore e della distribuzione più tardi

definita soggettivista, non ha visto, con gli esponenti delle prime generazioni, un’ostruzione netta e

aprioristica verso l’intervento pubblico, evidenziando al contrario posizioni originali e talvolta

contrastanti. Tra queste va annoverata innanzitutto quella di Menger, il quale ebbe un ruolo di primo

piano nella formazione economica anche di Polanyi20, come emergerà più avanti.

18 B. Ingrao, F. Ranchetti, Il mercato nel pensiero economico. Storia e analisi di un’idea dall’Illuminismo alla

teoria dei giochi, Hoepli, Milano, 1996, p. 674.

19 Cit. in K. Polanyi Levitt, From the great transformation to the great financialization, cit., p. 29.

20 Scrivono Kari Polanyi-Levitt e Marguerite Mendell: «I suoi studi [di Polanyi, ndr] a Vienna cominciarono con

una rilettura del Capitale di Marx e dell’opera degli economisti austriaci – Menger, Wieser, Böhm-Bawerk,

Schumpeter e altri marginalisti come Wicksteed e J. B. Clark» (K. Polanyi-Levitt, M. Mendell, Introduzione, in

K. Polanyi, La libertà in una società complessa, Bollati Boringhieri, Torino, 1987, pp. xxxiii).

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Professore di economia presso l’Università di Vienna dal 1873, Menger propose una teoria

soggettivistica del valore dai contorni ancora più originali dei suoi contemporanei inglesi e francesi (in

particolare Jevons e Walras). Il suo obiettivo metodologico, almeno iniziale, era confutare le tesi della

scuola storica tedesca capeggiata da Schmoller, secondo cui l’economia non poteva essere studiata se

non a partire da dati empirici e pertanto solo avvalendosi di un accurato metodo induttivo fondato

sull’analisi dei fatti, impossibili da generalizzare aprioristicamente. Menger sosteneva invece (in

particolare nella prima edizione dei Principi e nell’opera a carattere prettamente metodologico dal

titolo, nella traduzione italiana del 1937, Sul metodo delle scienze sociali, pubblicata in lingua originale

nel 1883) che l’azione umana potesse essere spiegata (nell’accezione di conosciuta e compresa) a

partire da principi universalmente noti a priori, come la ricerca della massima utilità individuale

nell’atto dello scambio. La costruzione di leggi generali non era, dunque, solamente possibile, ma

diventava anche l’obiettivo principale della scienza economica.

Date tali premesse, la teoria del valore di Menger era incentrata sulla capacità dei singoli beni di

soddisfare i bisogni individuali. Ogni essere umano, questo il ragionamento di fondo tipico della svolta

marginalista, tende a massimizzare la sua utilità orientando le preferenze in modo da «soddisfare il

suo bisogno in un punto in cui il margine è uguale in tutte le direzioni»21, allocando quindi nel modo

più efficiente le risorse scarse a disposizione così che «i più importanti tra tutti i bisogni concreti non

soddisfatti hanno la stessa significanza per tutti i tipi di bisogno e, quindi, tutti i bisogni concreti sono

soddisfatti a un uguale livello d’importanza»22. Anche se non usò mai questo termine (che fu invece

formalizzato dal suo allievo Wieser) è evidente come Menger avesse già chiaro il concetto di utilità

marginale, che estese, e questo fu probabilmente il suo contributo più originale, anche all’offerta

attraverso il concetto di “imputazione”, secondo cui il valore dei beni di produzione (o di ordine

superiore) deriva dal loro contributo alla creazione di utilità nei beni di consumo (o di ordine

inferiore), risultando quindi del tutto indipendente dai costi passati.

Se questo è, in estrema sintesi, il Menger “canonico” fatto proprio da Mises e dai suoi allievi, nel

breve saggio di Polanyi intitolato I due significati di «economico» in Karl Menger23, frutto di una serie

di appunti redatti tra il 1958 e il 1960 e raccolti dal suo allievo George Dalton per essere poi pubblicati

sulla rivista della American Anthropological Association nel 1971, emerge un quadro ben più

problematico. La ragione è che Polanyi ha tenuto conto della più ampia seconda edizione dei Principi,

curata e pubblicata postuma dal figlio Karl nel 1923 ma quasi del tutto ignorata dagli economisti non

21 Cit. in M. Dobb, Storia del pensiero economico, Editori Riuniti, Roma, 1999 (1973), p. 174.

22 Ibidem.

23 In questo lavoro utilizziamo la traduzione italiana pubblicata sulla rivista Inchiesta nel numero di luglio-

dicembre 1997.

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di lingua tedesca24, nella quale appaiono molte novità rilevanti per certi aspetti stupefacenti. Si legge

nell’articolo:

L’economia neoclassica venne fondata sulla base della premessa di Carl Menger che essa doveva

occuparsi dell’allocazione dei mezzi insufficienti messi a disposizione per la sussistenza umana.

Questa è stata la prima enunciazione del postulato di scarsità o di massimizzazione. Tale concisa

formulazione della logica dell’azione razionale riferita all’economia occupa un rango elevato tra i

prodotti del pensiero umano. La sua importanza venne accresciuta dall’adeguatezza esemplare nei

riguardi dell’effettivo funzionamento delle istituzioni di mercato le quali, a causa dei loro effetti

massimizzanti nelle attività quotidiane, si prestavano in ragione della loro natura ad un tale

approccio25.

Secondo Polanyi, Menger è quindi riuscito a formulare in modo teoricamente insuperato il

contenuto dell’economia neoclassica e a stabilire il funzionamento che svolgono i mercati secondo i

suoi sostenitori, vale a dire il processo di allocazione efficiente di risorse scarse. Dato che tutta la

costruzione teorica neoclassica si regge su questa formulazione, Polanyi la pone poi in un «rango

elevato dei prodotti del pensiero umano», perché in grado di definire una logica di azione razionale

che si presta ad essere trattata scientificamente. Allo stesso tempo, però, traspare il vero problema che

Polanyi pone al centro della riflessione sull’opera postuma di Menger, e in buona parte anche della

propria: il rapporto tra una definizione idealistica dei processi di mercato e il tentativo di una reale

comprensione storica degli stessi, da cui discende il cruciale problema della possibilità e della modalità

di una loro generalizzazione alla studio delle società umane:

Come spiegò Menger, tuttavia, in un’edizione postuma pubblicata [in tedesco, ndr] nel 1923,

l’attività economica ha due “tendenze elementari”, di cui soltanto una era la tendenza

economizzante che discende dall’insufficienza dei mezzi, mentre l’altra era la tendenza che egli

chiamava “tecnoeconomica” derivante dai fabbisogni della produzione indipendentemente dal fatto

24 Polanyi sembra attribuire in particolare ad Hayek la responsabilità della mancata traduzione in inglese della

seconda edizione dell’opera, evidenziando una certa ostinazione nell’evitare di prenderla in considerazione:

«La London School of Economics, per la sua edizione dei “Principi” pubblicata nel 1933 nella sua collana di libri

rari, optò per la prima edizione del 1871. Hayek, nella prefazione a questa riedizione, liquidando il manoscritto

[della seconda edizione] come “frammentario e disordinato”, contribuì ad impedire la conoscenza dell’opera

postuma di Menger da parte degli economisti. «Per il momento, ad ogni modo, concluse il professor Hayek,

i risultati del lavoro degli ultimi anni di Menger vanno considerati perduti» (K. Polanyi, I due significati di

«economico» in Carl Menger, in «Inchiesta», n. 117-118, Edizioni Dedalo, luglio-dicembre 1997, p. 102).

25 K. Polanyi, I due significati di «economico» in Carl Menger, cit., p. 101.

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che i mezzi siano sufficienti o insufficienti, poiché, dal punto di vista razionale, la produzione è

chiamata in causa in presenza di fattori disponibili se vi è assenza di beni consumabili26.

Polanyi riporta anche una delle precisazioni espresse al riguardo direttamente da Menger nella

seconda edizione dei Principi:

Chiamerò elementari le due tendenze dell’economia di cui ho parlato nelle sezioni precedenti, cioè

la tendenza tecnica e quella economizzante. Benché, nella realtà, si manifestino di regola insieme

e non si rinvengano quasi mai separatamente, esse derivano tuttavia da cause essenzialmente diverse

e indipendenti; e in effetti in alcuni rami dell’attività economica fanno la loro comparsa anche da

sole […]. La tendenza tecnica dell’attività economica umana non è dunque dipendente da quella

economizzante, né collegata necessariamente ad essa27.

Le due “tendenze” di Menger sembrano molto vicine a quelle che Polanyi definisce, in particolare

a partire dall’importante articolo L’economia come processo istituzionale28, i significati “formale” e

“sostanziale” di economia. Pur sviluppati nell’ambito degli studi sulle possibilità di generalizzazione

del processo economico alle società primitive, sono concetti comunque già implicitamente presenti

ne La grande trasformazione attraverso l’idea di secondo movimento (sostantivismo) come necessaria

e spontanea limitazione della logica di mercato (formalismo).

Partendo paradossalmente da Menger, viene quindi tracciato da Polanyi lo spartiacque tra una

visione dei processi economici definibili propriamente solo a partire dalla società di cui sono

espressione, e un’altra, da cui muove Mises, che fa invece dipendere la società dalle azioni razionali

degli individui che la compongono. In quest’ultimo caso, il risultato diventa il mercato come massimo

sistema di cooperazione sociale basato sulla logica dell’efficienza allocativa. Per comprendere la

divergenza sin dalla sua impostazione originaria, conviene rifarsi ancora alle parole di Polanyi:

Il significato sostanziale di economia deriva dal fatto che l’uomo dipende per la sua sopravvivenza

dalla natura e dai suoi simili. Esso si riferisce a quell’interscambio tra il soggetto e il suo ambiente

naturale e sociale che ha per scopo di procurargli i mezzi materiali per il soddisfacimento dei suoi

bisogni. Il significato formale di economia deriva dal carattere logico del rapporto mezzi-fini, quale

traspare dall’impiego di termini come «economico» o «economizzare» […]. I due significati

fondamentali del termine economico, quello sostanziale e quello formale, non hanno nulla in

comune. Il primo ha una base fattuale, il secondo una base logica. Il significato formale implica

26 Ibidem (corsivo nostro).

27 C. Menger, Principi di economia politica, Utet, Torino, 1976, pp. 162-163 (corsivo nostro).

28 K. Polanyi, L’economia come processo istituzionale, in K. Polanyi, C. Arensberg, H. Pearson (a cura di),

Traffici e mercati negli antichi imperi, Einaudi, Torino, 1978 (1957), pp. 300-331.

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l’esistenza di un sistema di regole che si riferiscono alla scelta di usi alternativi cui destinare mezzi

scarsi; il significato sostanziale non implica né una scelta, né un’idea di scarsità29.

Dal cruciale confronto con gli studi antropologici in particolare di Malinowsky e Thurnwald30,

Polanyi intuisce che nelle società arcaiche la tendenza economizzante in senso mengeriano non è

prevalente e quindi non può avere valore euristico, ossia di guida scientifica alla comprensione

generale dell’intera economia umana. Al contrario, risulta indispensabile estendere il significato di

economia alla tendenza “tecnoeconomica”, che concerne la mera fornitura di mezzi per il

soddisfacimento dei bisogni umani, non tenendo necessariamente conto del postulato di scarsità e

considerando decisiva la tecnologia a disposizione della collettività, oltre al più ampio contesto

culturale all’interno del quale l’economia è incorporata.

Come spiega però Menger, le tendenze “economizzante” (formale) e quella “tecnoeconomica”

(sostanziale) si presentano di regola insieme e, anzi, «non si rinvengono quasi mai separatamente»,

pur derivando da cause essenzialmente diverse. L’economia neoclassica, avendo però elaborato una

metodologia capace di cogliere solo la tendenza economizzante, generalizza (le economie arcaiche

diventano irrilevanti) e assolutizza (non esistono limitazioni concrete al suo funzionamento) la società

di mercato. Polanyi, seguendo e approfondendo la distinzione di Menger, oppone al riduzionismo

formalistico della teoria economica neoclassica la realtà della società di mercato, in cui le motivazioni

sostantivistiche, finalizzate alla soddisfazione dei bisogni umani indipendentemente dal postulato di

scarsità, si presentano costantemente nella forma di un secondo movimento che limita l’azione del

mercato stesso. È questo uno dei temi principali, e indubbiamente di enorme interesse anche per la

spiegazione di molti fenomeni economici contemporanei, de La grande trasformazione.

La produzione è un’interazione tra l’uomo e la natura; se questo processo deve essere organizzato

attraverso un meccanismo autoregolato di baratto e di scambio, allora l’uomo e la natura devono

essere condotti nella sua orbita; essi devono essere soggetti all’offerta e alla domanda, essere trattati

cioè come beni, come merci prodotte per la vendita […]. Tuttavia se la produzione poteva essere

organizzata teoricamente in questo modo, la finzione della merce trascurava il fatto che lasciare il

destino della terra e degli uomini al mercato sarebbe stato equivalente al loro annientamento. Di

conseguenza la contromisura consisteva nel controllare l’azione del mercato rispetto ai fattori di

produzione, lavoro e terra. Questa era la funzione principale dell’interventismo31.

29 Ivi, p. 297.

30 Cfr. soprattutto B. Malinowsky, Argonauts of the Western Pacific, G. Routledge, London, 1922 e R.

Thurnwald, Economics in primitive communities, Oxford University Press, Oxford, 1932.

31 K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., 166-167.

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L’intervento pubblico viene quindi spiegato da Polanyi a partire dall’emergente opposizione tra gli

effetti della teoria economica neoclassica, che preme per l’estensione dei processi di mercato dandogli

una rappresentazione assolutizzata, e la società stessa, che vuole garantirsi i mezzi materiali della

sussistenza indipendentemente dalla regolazione del sistema dei prezzi, e talvolta contro di essi.

Mises, non tenendo conto della seconda edizione dei Principi, colloca invece la prospettiva teorica

della scuola austriaca sul binario di un individualismo radicale in grado di fondarsi solo sulla visione

economizzante del processo di mercato iniziata dal “primo Menger”, con la conseguenza necessaria di

destoricizzare l’azione umana e il sistema economico in cui la prima è collocata. Scrive Polanyi:

Grazie ai brillanti ed eccezionali risultati conseguiti dalla teoria dei prezzi inaugurata da Menger,

la nuova accezione “economizzante” o formale dell’economia divenne il suo significato per

antonomasia, mentre il significato di “materialità”, più tradizionale ma apparentemente più piatto,

che non era vincolato al postulato di scarsità, perse il prestigio accademico e infine venne

dimenticato. L’economia neoclassica venne fondata sulla base del nuovo significato, mentre allo

stesso tempo svanì la consapevolezza del vecchio significato materiale o sostanziale, che perse la

proprio identità per il pensiero economico32.

Mises mostra una solida consapevolezza delle implicazioni politiche cui conduce, in modo più

conforme alla teoria, l’individualismo metodologico. Quando, ad esempio, scrive che «la società non

esiste che nelle azioni degli individui. Parlare di una società autonoma dall’esistenza indipendente,

della sua vita, anima, azioni, è una metafora che può condurre a crassi errori»33, definisce come unica

azione politicamente (ma anche eticamente) legittima quella del singolo. Di conseguenza tutte le

istituzioni, tra cui lo stato e i cosiddetti corpi intermedi, essendo prive di vita autonoma, non devono

interferire con l’azione dell’individuo, che si esplicita e culmina nello scambio di mercato. Ad avviso

di Mises, coerentemente con la logica formalista, la società è quindi nient’altro che una «mistica

simbolica» e la filosofia collettivista che ne legittima le prerogative (come ad esempio le scuole

economiche che sostengono in varie forme l’intervento pubblico) è impossibilitata a comprendere

l’elementare principio razionale secondo cui solo l’individuo è depositario di pensiero e volontà:

La società è un prodotto della volontà e dell’azione. Solo gli esseri umani sono capaci di volere e

agire. Tutto il misticismo e il simbolismo della filosofia collettivista non potrà mai cancellare il fatto

che noi possiamo parlare solo metaforicamente di comunità che pensano, vogliono e agiscono, e

che la concezione di comunità che sentono, vogliono e agiscono è semplicemente

antropomorfismo. La società e l’individuo si implicano reciprocamente; quei corpi collettivi, che il

collettivismo suppone siano esistiti logicamente e storicamente prima degli individui, possono

32 K. Polanyi, I due significati di «economico» in Carl Menger, cit., p. 102.

33 L. Mises, L’azione umana, Utet, Torino, 1959 (1949), p. 139.

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essere stati branchi e orde, ma in nessun modo essi erano delle società – cioè associazioni create ed

esistenti a opera della collaborazione di creature pensanti. Gli esseri umani costruiscono la società

facendo delle loro azioni una cooperazione reciprocamente condizionata34.

Ciò che Mises implicitamente nega, e che invece Polanyi ritiene cruciale per la comprensione anche

del sistema di mercato, è il presupposto secondo cui l’economia umana si presenta sempre come un

processo istituzionalizzato che va spiegato a partire dalle norme sociali da cui è determinata la sua

organizzazione. Di conseguenza, è la stessa azione umana che necessita di una relativizzazione e con

essa la stessa definizione di mercato come «cooperazione reciprocamente condizionata»:

Il fatto di essere istituzionalizzato conferisce al processo economico la sua unità e stabilità; ciò dà

vita a una struttura che ha una specifica funzione in seno alla società; trasferisce il processo nel

mezzo della società conferendo così un significato alla sua storia; orienta l’interesse verso i valori,

le motivazioni e le scelte politiche. Unità e stabilità, struttura e funzione, storia e politica esprimono

in termini operativi il contenuto della nostra affermazione che l’economia umana è un processo

istituzionalizzato35.

L’approccio metodologico di Mises implica evidentemete un liberismo ontologicamente avverso

all’intervento pubblico in qualsiasi sfera, che sia l’assistenza sociale, il commercio o la moneta. La

conseguenza è l’edificazione di quel «credo liberale», per usare un’espressione tipica di Polanyi, che si

fa «fervore evangelico» nel difendere il funzionamento del sistema dei prezzi in ogni contesto storico

(il quale diventa, a dire il vero, di fatto irrilevante), anche quando, come nel caso della spirale deflattiva

europea degli anni Venti, i risultati in termini di aumento della disoccupazione diventano

drammaticamente evidenti.

Dopotutto, dal momento che secondo Mises il mercato è il risultato delle volontà individuali che si

compongono in una «cooperazione reciprocamente condizionata», interferire attraverso l’azione

pubblica significherebbe nient’altro che anteporre interessi astratti e illegittimi (dato che la società

non esiste in sé) a scopi concreti, posti in essere liberamente da individui pensanti e capaci di definire

razionalmente i propri obiettivi, vincolati solo da quelli altrui:

Non c’è nessuna forza “automatica” o “anonima” che azioni il “meccanismo” del mercato. Gli unici

fattori che indirizzano il mercato e ne determinano i prezzi sono azioni intenzionali di individui.

Non c’è nessun automatismo; ci sono unicamente individui che mirano consapevolmente a scopi

scelti e che deliberatamente ricorrono a mezzi precisi per raggiungere questi fini. Non esistono

forze meccaniche misteriose; esiste solo la volontà di ciascun singolo individuo di soddisfare il

34 L. Mises, Socialismo, Rusconi, Milano, 1990 (1922), p. 560.

35 K. Polanyi, L’economia come processo istituzionale, cit., p. 305.

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proprio bisogno di differenti beni. Non c’è proprio nessuna forza anonima; ci siamo solo tu e io; Bill

e Joe e tutti gli altri. Ognuno di noi è impegnato sia nella produzione che nel consumo. Ognuno di

noi contribuisce per la sua parte alla determinazione dei prezzi36.

Alla luce di queste posizioni fortemente razionalistiche, che a dire il vero lo stesso Hayek in larga

parte supererà grazie dall’idea di ordine sociale spontaneo, la politica economica può rivendicare

legittimamente il solo compito di favorire il funzionamento naturale del sistema dei prezzi. La realtà,

pertanto, è definita razionale solo se, e nella misura in cui, si conforma alle norme universali del

mercato definite attraverso una descrizione idealizzata del processo di concorrenza. Questa la ragione

per cui l’intervento pubblico nell’economia assume per Mises il significato di un vero e proprio attacco

alla razionalità umana dovuto a un atteggiamento fazioso che, per avvantaggiare i perdenti di un

processo intrinsecamente democratico perché fondato sulla libera scelta allocativa individuale, arriva

inevitabilmente a colpire gli interessi della collettività, riducendo i margini di libertà di ognuno:

Gli interventisti non affrontano lo studio delle questioni economiche con l’atteggiamento

imparziale dello scienziato. I più fra loro sono guidati da un risentimento invidioso contro quelli i

cui redditi sono superiori ai propri. E tale atteggiamento pregiudizievole rende loro impossibile

vedere le cose per quello che queste effettivamente sono. Per loro la cosa più importante non è

migliorare le condizioni delle masse, quanto piuttosto danneggiare imprenditori e capitalisti, anche

se una politica del genere sacrifica la stragrande maggioranza della gente37.

La radicalità dell’impostazione di Mises implica l’incapacità di misurarsi con gli effetti reali delle

sue congetture. L’accusa principale che Polanyi muove a tutta la teoria liberista austriaca è infatti

proprio quella di basarsi su una rappresentazione aprioristica del mercato, con la conseguenza di

ignorare le possibilità e le ragioni dei vincoli al suo funzionamento ideale. In conclusione, ad emergere

sono le peculiarità di un approccio dogmatico: partendo da principi sui quali non si ammette dubbio,

viene ricavato da questi un sistema di verità indipendentemente dai fatti e dalle esperienze.

3. I miti del liberismo economico e le ragioni dell’intervento pubblico: la denuncia di

Polanyi

Ne La grande trasformazione Polanyi ritiene che la preclusione liberista verso qualsiasi analisi

rilevante dello sviluppo storico delle istituzioni (ridotte a mero effetto dell’azione individuale)

conduca ad ignorare il carattere eccezionale dei presupposti fattuali e cognitivi su cui il mercato

36 L. Mises, Socialismo, cit., p. 589.

37 Ivi, pp. 581-582.

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autoregolato si basa. Nell’evidenziare le regolari incongruenze tra una narrazione dalle tinte

apologetiche e le evidenze empiriche, lo studioso ungherese si sforza di dimostrare come

l’assolutizzazione della logica formalista conduca a imporre l’autoregolazione in una società che, di

fatto, «si rifiutava di funzionare» secondo quegli schemi per motivi primariamente non economici.

Riferita a Mises, l’argomentazione di Polanyi si può percorrere e approfondire seguendo un duplice

piano di analisi: è una critica al tentativo di porsi sempre “oltre la storia” per tessere in modo

inconfutabile lodi al mercato (da qui la tendenza a concepire l’intervento pubblico come complotto

politico condotto da forze egoistiche e pavide); è una critica al dogmatismo emergente nelle posizioni

di politica economica, in particolare in ambito monetario (da qui la difesa ad ogni costo del gold

standard, considerato l’ultimo baluardo della società di mercato). Al riguardo, è significativo

menzionare ciò che già nel 1919 Antonio Gramsci scriveva nell’ambito di un’aspra polemica con Luigi

Einaudi:

La verità è che la scienza economica liberale ha solo la parvenza della serietà, e il suo rigore

sperimentale non è solo che una superficiale illusione. Studia i “fatti” e trascura gli “uomini”; i

processi storici sono visti come regolati da leggi perpetuamente simili, immanenti alla realtà

dell’economia che è concepita avulsa dal processo storico generale della civiltà. La produzione e lo

scambio delle merci vi diventano fine a se stessi; si svolgono in un meccanismo di cifre rigide e

autonome, che può venir “turbato” dagli uomini, ma non è determinato e vivificato. Questa scienza

è, insomma, uno schema, un piano prestabilito, una via della provvidenza, una utopia astratta e

matematica, che non ha mai avuto, non ha e non avrà mai riscontro alcuno nella realtà storica. I

suoi addetti hanno tutta la mentalità dei sacerdoti: sono queruli e scontenti sempre, perché le forze

del male impediscono che la città di Dio venga da loro costruita in questo basso mondo38.

Pur denunciando allo stesso modo di Gramsci il mancato riscontro storico della teoria liberista e la

«mentalità da sacerdoti» dei suoi sostenitori, Polanyi non trascura di evidenziare anche una certa forza

argomentativa degli austriaci. Questa deriva, paradossalmente, proprio dalla non coincidenza della

realtà con i principi teorici su cui il mercato autoregolato è fondato. Quando, ad esempio, Polanyi

scrive che «il sostenitore dell’economia liberale è […] in grado di formulare un caso che collega il

presente con il passato in una unità coerente»39, si riferisce proprio alla capacità, dovuta alla

metodologia d’analisi, di svincolarsi da qualsiasi configurazione storica e di porre come sistema

concreto un mercato idealizzato verso cui è la realtà, semmai, a doversi conformare.

38 A. Gramsci, Einaudi o dell’utopia liberale, in «Avanti!», Edizione Piemontese, 25 maggio 1919.

39 K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., p. 184.

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L’impresa teorica di Polanyi si presenta allora nella forma di un costante scontro tra la sua

giustificazione teorica di una constatazione empirica (l’intervento pubblico) a causa di una realtà

sociale impossibilitata a conformarsi alle ipotesi autoregolatrici del mercato, e la prospettiva di Mises,

affinata poi da Hayek, che, invertendo i nessi causali, imputa proprio all’intervento pubblico la

mancata realizzazione del mercato ideale (la città di Dio su cui ironizzava Gramsci). Secondo gli

austriaci, infatti, non sarebbero mai esistiti motivi reali tali da giustificare l’intervento pubblico nelle

leggi del mercato, nemmeno agli albori della sua esistenza40. La progressiva affermazione del sistema

dei prezzi – questa rimane la tesi principale – ha reso infatti possibile un rapido aumento della

produttività che ha generato uno sviluppo economico straordinario in un lasso di tempo molto breve

se paragonato ai lenti, oltre che altalenanti, miglioramenti sociali delle epoche precedenti. Ne

consegue che le ragioni a favore dell’intervento pubblico appaiono ideologicamente viziate sin

dall’origine e a maggior ragione lo sono col progredire dei benefici dello sviluppo economico stesso,

quando la diffusione del mercato tende a coinvolgere una fetta sempre più ampia della popolazione

mondiale. Ne La grande trasformazione Polanyi descrive con una certa enfasi l’accentuazione del

dogmatismo liberista col progredire dell’industrializzazione:

Il liberalismo economico era il principio organizzativo di una società impegnata nella creazione di

un sistema di mercato. Nato come semplice inclinazione verso metodi non burocratici, esso si

evolse in una vera fede nella salvazione secolare attraverso un mercato autoregolato. Un fanatismo

del genere era il risultato dell’improvviso aggravamento del compito in cui si trovava impegnato: la

grandezza delle sofferenze che dovevano essere inflitte a persone innocenti oltre all’ampiezza della

portata degli intricati cambiamenti implicati nella fondazione del nuovo ordine. Il credo liberale

assumeva il suo fervore evangelico soltanto in risposta alle necessità di una economia di mercato

pienamente sviluppata41.

In quello che è stato opportunamente definito «un modello antropologico dell’economia»42,

Polanyi, lontano dai criteri di produttività su cui si basano i giudizi di Mises, segue un percorso teorico

40 Cfr. Hayek F. A. (a cura di), Il capitalismo e gli storici, Bonacci Editore, Roma, 1991 (1954). 41 Ivi, p. 173 (corsivo nostro).

42 «Polanyi, infatti, propone un modello di lettura dell’economia di tipo storico antropologico volto a

rilegittimare, a dispetto di ogni interpretazione neoclassica, il nucleo fondativo dell’essere sociale umano, sia in

forma diacronica che sincronica, sia in dimensione storico-comparativa, che negli elementi necessari per la

comprensione del presente. Comprendere l’economico, almeno nei termini di Polanyi, non significa

determinarlo in una schema teorico ideale, definito entro il paradigma della scienza matematizzata, bensì

prendere in esame le determinanti antropologiche e sociale che lo determinano e lo sostanziano. Quindi, per

Polanyi, l’economico e l’economia non possono essere intese, da un lato, in modo autoreferenziale e, dall’altro,

come sfera in cui la soddisfazione dei bisogni e l’agire razionale rispetto allo scopo determinano la qualità

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che mira ad evidenziare le radici marcatamente sociali dell’intervento, cercando di conseguenza una

spiegazione della protezione dal mercato nei settori del lavoro, della terra e della moneta in uno spazio

extra-economico che include, in casi estremi, la stessa sopravvivenza della specie umana nel costante

interscambio con l’ambiente naturale. Il ruolo e il significato delle merci fittizie lavoro, terra e moneta,

da cuore della critica polanyiana al mercato autoregolato, sanciscono quindi l’incompatibilità

fondamentale del sistema dei prezzi con l’armonia sociale, intesa come la possibilità della società di

riprodurre se stessa. Mises, all’opposto, può sostenere che la capacità del mercato di aumentare il

benessere materiale dei singoli non possa che risolvere spontaneamente, come conseguenza logica e

ordinata di una aggregazione lineare, anche quello della società nel suo complesso, a cui come visto

non riconosce proprietà o interessi diversi da quelli degli agenti economici che la compongono:

Nella società basata sulla divisione del lavoro e della cooperazione, gli interessi di tutti i membri

sono in armonia, e da questo fatto della vita sociale deriva che in ultima analisi l’azione fatta

nell’interesse di me stesso e l’azione fatta negli interessi degli altri non entrano in conflitto; dal

momento che gli interessi degli individui alla fine coincidono. In tal modo la famosa discussione

scientifica riguardo la possibilità di derivare le motivazioni altruistiche dell’azione da quelle

egoistiche può venir considerata come una questione definitivamente liquidata43.

Una posizione che riassume bene l’approccio alle questioni sociali dell’individualismo

metodologico, principio basilare delle posizioni austriache. Non a caso, già nel citato articolo del 1922

scritto per ribattere alla requisitoria di Mises contro la pianificazione e da cui la nostra ricostruzione

ha preso piede, Polanyi, precorrendo in modo coerente le tesi delle sue opere successive e

polemizzando con l’idea di un interesse sociale come semplice conseguenza dell’interesse individuale,

scriveva che «l’economia privata non riesce a comprendere l’effetto retroattivo del processo di

produzione sulla vita della comunità»44. In altri termini, il sistema dei prezzi, essendo espressione di

una mera domanda pagante, non può includere una vasta gamma di beni e servizi che, pur non essendo

di mercato, sono nondimeno necessari alla vita umana. Inoltre non può comprendere efficacemente

neanche le conseguenze sociali della stessa domanda pagante, come è evidente nel caso degli equilibri

ecosistemici.

È proprio a partire dai cosiddetti «effetti retroattivi» che Polanyi tenta di ribaltare

l’argomentazione centrale di Mises. Dove quest’ultimo vede l’intervento quale irrazionale causa di

squilibrio, Polanyi lo interpreta come la conseguenza dell’intrinseca impossibilità del mercato di

funzionare secondo lo schema teorico dei suoi sostenitori, a causa della presenza, tanto necessaria

dell’azione» (O. Pantaleoni, Karl Polanyi: un modello antropologico dell’economia, in «Inchiesta», XXVII, 117-118,

luglio-dicembre 1997, p. 1).

43 L. Mises, Socialismo, cit., pp. 439-440.

44 K. Polanyi, La contabilità socialista, cit., p. 19.

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all’autoregolazione quanto destabilizzante per la società, delle merci fittizie. Queste, non essendo

prodotte per essere vendute, possono solo artificiosamente, e quindi con provvedimenti dello stato sia

iniziali che continuativi, essere parte del processo di compravendita. Nella visione di Polanyi, quindi,

il mercato autoregolato nasce e si mantiene funzionante, ancorché in modo precario e contraddittorio,

solo fino a che il più ampio sistema politico-istituzionale prende i provvedimenti per sostenere,

talvolta violentemente, il suo innesto nel sistema sociale:

La strada verso il libero mercato era aperta ed era tenuta aperta da un enorme aumento di un

continuo interventismo centralmente organizzato e controllato […]. Su questo paradosso se ne

inseriva un altro: mentre l’economia del laissez-faire era il prodotto di una deliberata azione da

parte dello stato, le successive limitazioni al laissez-faire iniziarono in modo spontaneo. Il laissez-

faire era pianificato, la pianificazione non lo era45.

Muovendosi costantemente su due piani storicamente inconciliabili – quello delle rappresentazioni

mentali dei fautori del mercato autoregolato e la realtà sociale a cui le prime non hanno mai potuto

corrispondere – Polanyi individua in una vera e propria tendenza oscurantista dei liberisti il maggiore

ostacolo alla ricostruzione in senso democratico della società. Suggerisce, in altri termini, la necessità

di una demistificazione delle categorie concettuali attraverso cui il liberismo agisce e che si

trasformano facilmente in politiche economiche disastrose. Tra queste, in particolare, l’errata visione

dell’essere umano, ridotto a mera appendice funzionale del mercato attraverso l’espediente dell’homo

oeconomicus. Scrive in uno degli articoli che meglio sintetizzano la prospettiva di tutta La grande

trasformazione:

Siamo ridotti all’impotenza dal retaggio di un’economia di mercato che ci ha trasmesso concezioni

semplicistiche della funzione e del ruolo del sistema economico nella società. Se si vuole superare

la crisi, si deve recuperare una visione più realistica del mondo umano e modellare il nostro comune

intento alla luce di quella consapevolezza46.

Nel successivo articolo Il posto dell’economia nelle società, scritto in collaborazione con i suoi

colleghi della Columbia University Conrad M. Arensberg e Harry W. Pearson, Polanyi sostiene che se

«pochi studiosi di scienze sociali accettano ormai l’ingenua visione illuministica di un uomo primitivo

che contratta le proprie libertà e che baratta le proprie merci nella foresta e nella giungla fino a dare

45 K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., p. 180.

46 K. Polanyi, La nostra obsoleta mentalità di mercato (1947), in K. Polanyi, Economie primitive, arcaiche e

moderne. Ricerca storica e antropologia economica, Einaudi, Torino, 1980 (1968), p. 59.

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vita a una propria società e a una propria economia»47, e se la maggior parte degli studiosi ammette

che i processi sociali «rappresentano un intreccio di rapporti tra l’uomo, definito come entità biologica,

e quella particolare struttura di simboli e di tecniche che è sorta nel corso della sua lotta per

l’esistenza»48, allo stesso tempo «non si può dire che la nuova visione della società che ne deriva goda

di una popolarità paragonabile a quella delle tradizionali concezioni dell’individualismo atomistico»49.

In particolare, dalla costante ricaduta nell’atomismo sembra impossibilitata a rifuggire la scienza

economica, per la quale l’eredità intellettuale che vede l’essere umano depositario di una «propensione

innata a trafficare, barattare e scambiare un oggetto con un altro» ha una valenza costitutiva. Sentenzia

così Polanyi:

Dobbiamo liberarci dall’idea profondamente radicata secondo la quale l’economia è un campo

dell’esperienza, di cui gli uomini sono sempre stati necessariamente coscienti. Per usare una

metafora, i fatti concreti della vita economica erano sempre inseriti in situazioni che non erano, di

per sé, di natura economica e nelle quali né i fini né i mezzi avevano principalmente carattere

materiale. La cristallizzazione del concetto di economia è un prodotto della storia50.

5. Interventismi paralleli: lo stato in Mises e in Polanyi

Dalla differenza di fondo che Polanyi individua tra la sua posizione interventista, o sarebbe meglio

dire protezionista51, e quella sostenuta dai liberisti come Mises («Mentre dal nostro punto di vista il

concetto di un mercato autoregolato era utopistico e il suo progredire veniva arrestato da una realistica

autodifesa della società, dal loro tutto il protezionismo era un errore dovuto all’impazienza, all’avidità

e alla miopia senza le quali il mercato avrebbe risolto le proprie difficoltà»52), emerge lo “squilibrio

argomentativo” che permette ai liberisti di difendere le proprie tesi con una sola argomentazione.

Se Polanyi sostiene il ruolo dello stato nell’economia sforzandosi di distinguere le cause (radicate

nell’eccezionalità storica del mercato autoregolato) dagli effetti (ricorrenti squilibri nel breve periodo

dovuti perlopiù a circostanze contingenti) dell’intervento, Mises può facilmente imputare i disastri

economici ai vincoli di carattere politico che impediscono fatalmente il funzionamento del sistema dei

47 K. Polanyi, C. M. Arensberg, H. W. Pearson, Il posto dell’economia della società, in K. Polanyi, Economie

primitive, arcaiche e moderne, cit., p. 113.

48 Ibidem.

49 Ibidem.

50 Ivi, pp. 116-117.

51 Il termine protezionismo ha, in questo caso, ovviamente poco a che fare col semplice protezionismo

commerciale, caratterizzato da dazi, tariffe, contingenti, ecc. Si riferisce, invece, alla più complessa idea di

fondo polanyiana secondo cui la società vada protetta dal funzionamento del mercato autoregolato per non

essere distrutta.

52 K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., p. 181-182.

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prezzi. Facendo costante riferimento a ciò che si sarebbe potuto verificare se si fosse davvero lasciato

il mercato funzionare liberamente, l’economista austriaco presenta ragioni ipotetiche poste “oltre la

storia” e, in quanto tali, difficili da smentire rimanendo su un piano argomentativo di empirismo

critico, quale è quello di Polanyi, che respinge per ciò stesso ogni idealizzazione:

I leaders liberali, [non erano, ndr] mai stanchi di ripetere che la tragedia del diciannovesimo secolo

nasceva dall’incapacità dell’uomo di rimanere fedele all’ispirazione dei primi liberali, che la

generosa iniziativa dei nostri antenati fu frustrata dalle passioni del nazionalismo e della guerra di

classe, dagli interessi acquisiti e dai monopoli e soprattutto dalla cecità della classe lavoratrice di

fronte ai benefici ultimi di una illimitata libertà economica verso tutti gli interessi umani, compresi

i loro stessi. Un grande progresso morale e intellettuale si vuole quindi che sia stato frustrato dalle

debolezze intellettuali e morali della massa del popolo; ciò che lo spirito dell’illuminismo aveva

conseguito fu ridotto a nulla dalle forze dell’egoismo. In sintesi, questa è la difesa dell’economia

liberale; a meno che venga confutata continuerà a difendere le proprie posizioni in tutte le

discussioni53.

In un importante volume pubblicato nel 1927, Mises aveva già denunciato la mancata realizzazione

degli ideali del libero mercato proprio a causa di fazioni che avevano tramato per soddisfare interessi

personali e così facendo distrutto fatalmente il sistema da cui dipendeva il progresso materiale di tutti:

Fin dal XIX secolo, il liberalismo fu contrastato da nemici potenti, che alla fine sono riusciti ad

annullare gran parte delle sue conquiste. Oggi il mondo non vuol più saperne del liberalismo […].

Il potere dei governi è oggi dappertutto nella mani dei partiti antiliberali. L’antiliberalismo

programmatico ha scatenato la guerra mondiale e indotto i popoli a rinchiudersi in se stessi, protetti

da divieti di importazione e di esportazione, dazi doganali, provvedimenti antimigratori e misure

analoghe. Ha portato, all’interno degli Stati, a una serie di esperimenti socialisti, con il risultato di

ridurre la produttività del lavoro e aumentare la penuria e la miseria. Chi non vuole chiudere tutte

e due gli occhi non può non riconoscere dappertutto i sintomi di una imminente catastrofe

economica54.

Polanyi, a qualche anno di distanza, sembra replicare direttamente a Mises:

Si è d’accordo che il movimento liberale, che tendeva all’allargamento del sistema di mercato, trovò

sulla sua strada un opposto movimento protezionistico che tendeva alla sua limitazione; un assunto

di questo tipo sta alla base della nostra tesi del doppio movimento. Ma mentre affermiamo che

53 Ivi, p. 185 (corsivo nostro).

54 L. Mises, Liberalismo, Rubbettino, Catanzaro, 1997 (1927), p. 27.

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l’inerente assurdità dell’idea di un sistema di mercato autoregolato avrebbe finito col distruggere la

società, i liberali accusano gli elementi più svariati di aver fatto naufragare questa iniziativa.

Incapaci di portare prove di un simile sforzo concertato per frustrare il movimento liberale, essi

ricadono sull’ipotesi praticamente inconfutabile di un’azione coperta […] Avviene così che nella sua

forma più spiritualizzata, la dottrina liberale ipostatizza il funzionamento di qualche legge dialettica

nella società moderna che vanifica gli sforzi della ragione illuminata, mentre nella sua versione più

rozza si riduce ad un attacco alla democrazia politica, quale presunta fonte dell’interventismo55.

Ai «nemici potenti» che vanificano le virtù del mercato per aprire la strada alla schiavitù del

socialismo, Polanyi contrappone la natura pratica, talvolta minimale e confusa dell’intervento.

Individua al riguardo almeno quattro motivi, emersi con varie combinazioni nel corso dei decenni, che

smentiscono la denuncia di cospirazione emergente nelle tesi liberiste, declassandola al rango di mito.

Li possiamo brevemente riassumere come segue: l’intervento pubblico si è verificato sin

dall’affermazione originaria del mercato autoregolato in campi molto diversi tra loro, dall’analisi dei

cibi all’ispezione delle miniere, dall’obbligo di vaccinazione alla regolazione delle tariffe nei trasporti;

il passaggio dal liberismo all’interventismo è avvenuto spesso con urgenza, da un giorno all’altro, non

senza improvvisazione e approssimazione; l’intervento pubblico ha caratterizzato le politiche

economiche di paesi profondamente diversi tra loro, molti dei quali con governi dichiaratamente

liberisti; infine, un gran numero politici ed economisti liberisti sono stati ferventi sostenitori di

politiche di intervento, in particolari settori e in certi periodi, anche molto massicce.

Se quindi Polanyi ritiene gli interventi protettivi della società normalmente slegati da un chiaro

progetto politico, o comunque non direttamente dipendenti da esso, lo stesso non può dirsi della

concezione di intervento pubblico che propone esplicitamente Mises. Quest’ultimo non nega il ruolo

che lo stato può rivendicare nell’economia, lo riduce, però, alla funzione di mantenere, o ristabilire, le

regole di funzionamento del mercato e renderne quindi possibile l’effettivo funzionamento. È evidente

il ribaltamento di fini: per Mises (così come sarà per Hayek) l’azione pubblica viene di fatto accettata

solo se diretta alla preservazione del mercato autoregolato, in Polanyi deve invece ostacolarne il

funzionamento per assolvere alla sua vitale funzione di protezione sociale. Ne consegue che il principio

del laissez faire è abbandonato dagli austriaci quando, lasciando che la mano invisibile del mercato

agisca, venga a crearsi una configurazione storica avversa al liberismo.

Mises, conservando l’ipotesi di razionalità dell’azione individuale come principio e garanzia della

razionalità complessiva del sistema economico, sostiene quindi l’intervento dello stato solo per

estirpare i vincoli all’azione economica dovuti a una eventuale limitazione della proprietà privata:

Il liberalismo non è anarchismo; il liberalismo ha le idee perfettamente chiare sul fatto che senza

l’uso della coercizione l’assetto della società sarebbe messo in pericolo, e che dietro le regole che è

55 K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., p. 185 (corsivo nostro).

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necessario osservare per assicurare la libera cooperazione umana deve esserci la minaccia della

violenza, se non si vuole che ciascun individuo sia in grado di distruggere l’intera struttura sociale

[…]. Sono questi i compiti che la dottrina liberale assegna allo Stato: la protezione della proprietà,

della libertà e della pace56.

Ne consegue che quando l’intervento pubblico eccede questi suoi compiti minimi, diventa

irrazionale e quindi indifendibile:

Da qualsiasi lato lo si consideri, l’interventismo statale conduce sempre a un risultato che non è

nelle intenzioni dei suoi autori e fautori, e che dal loro punto di vista non può che apparire

irrazionale e contrario allo scopo perseguito, e quindi politicamente insensato57.

Nell’assolutizzare un principio teorico («da qualsiasi lato lo si consideri»), Mises incappa in una

relativizzazione pratica (intervento in «protezione della proprietà) e quindi svela implicitamente la

radice strumentale delle invettive contro l’azione statale, riabilitata all’occorrenza per perseguire

l’unico obiettivo possibile secondo gli schemi cognitivi, prima che economici, della teoria liberista: il

funzionamento dell’autoregolazione. Ne consegue una disinvoltura con cui qualsiasi economista

liberista è in grado di affrontare l’antinomia tra il riferimento ideale del laissez faire, in cui tutto il

sistema dovrebbe tendere per definizione in modo spontaneo all’autoregolazione, e una politica

economica attiva che si accompagna a uno stato forte, determinante per realizzare una configurazione

sociale conforme alle prescrizioni del mercato. Lo chiarisce molto bene Polanyi:

A rigor di termini il liberalismo economico è il principio organizzatore di una società nella quale

l’industria si basa sull’istituzione di un mercato autoregolato. È vero che una volta che un sistema

del genere sia approssimativamente raggiunto un certo tipo di intervento è meno necessario,

tuttavia questo non significa che sistema di mercato ed intervento siano termini reciprocante

esclusivi. Fino a che questo sistema non è istituito i liberali richiederanno senza esitazione

l’intervento dello stato per la sua realizzazione e una volta realizzato, per la sua conservazione. I

liberali possono perciò, senza alcuna incoerenza, chiedere allo stato di impiegare la forza della legge,

possono fare anche appello alle violente forze della guerra civile per predisporre le condizioni di un

mercato autoregolato58.

Ne consegue che lo schema tradizionale del laissez faire non è, al di là dei proclami, la giusta chiave

per comprendere la prospettiva liberista di Mises, almeno secondo Polanyi. Il laissez faire appare

56 L. Mises, Liberalismo, cit., pp. 70-71.

57 Ivi, p. 90 (corsivo nostro).

58 K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., p. 191 (corsivo nostro).

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principalmente un espediente retorico valido solo in determinati frangenti storici, quando cioè

l’intervento pubblico, come nel caso del doppio movimento, impedisce effettivamente al mercato

autoregolato di funzionare. Ciò che caratterizza le tesi di Mises è quindi la necessità vitale, si potrebbe

definire finalistica, di ripristinare l’autoregolazione del sistema dei prezzi quando questa, per i più

svariati motivi di carattere sociale che storicamente vanno a configurarsi, venga meno:

L’accusa di interventismo da parte degli scrittori liberali è perciò un vuoto slogan che implica la

denunzia di uno stesso gruppo di provvedimenti a seconda che li approvino o meno. Il solo principio

che i liberali possono sostenere senza incoerenza è quello del mercato autoregolato, sia che essi li

coinvolga in interventi o meno59.

Partendo da una rappresentazione idealizzata, quindi antistorica, dei processi di mercato, proprio

Mises sarà tra i massimi rappresentanti di coloro che compiranno, a partire dalla seconda metà degli

anni Venti, l’estremo tentativo di ripristinare i principi alla base dell’autoregolazione, aventi nel

sistema aureo l’ultimo e decisivo sostegno internazionale. È esattamente in questo sforzo rivolto al

passato pre-bellico che Polanyi rintraccia l’origine delle tensioni distruttive che poi hanno condotto,

quando alle soluzioni politiche era stato di fatto impedito di funzionare anche a causa delle rigidità

monetarie, alla tragedia nazista e alla guerra:

Se non fosse stato per l’ostinata e veemente insistenza degli economisti liberali nei loro errori, i

leaders oltre alle masse degli uomini liberi sarebbero stati meglio equipaggiati per la prova del loro

tempo e avrebbero forse potuto addirittura evitarla60.

A questo punto è opportuno analizzare più approfonditamente la posizione di Mises verso la crisi

dell’autoregolazione iniziata nella seconda metà degli anni Venti e, in particolare, l’ampia rilevanza

della teoria monetaria nel delineare la sua visione complessiva del processo economico.

4. Il significato politico della teoria monetaria di Mises e la prospettiva di Polanyi

Murray Rothbard, allievo di Mises negli Stati Uniti e tra i più importanti esponenti del cosiddetto

filone neo-austriaco americano, in un vivace pamphlet dedicato al maestro sostiene che la teoria

monetaria ha sofferto sin dalle origini della scienza economica di un grave difetto, che neanche la

rivoluzione neoclassica e l’opera di Menger hanno emendato. Si tratta della scissione teorica tra il

concetto di moneta e il livello dei prezzi, originata dall’errore dei classici che per primi hanno separato

59 Ibidem (corsivo nostro).

60 Ivi, p. 183.

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analiticamente la microeconomia dalla macroeconomia, spiegando la prima sulla base della seconda,

con la conseguenza che il livello dei prezzi è stato definito indipendentemente dal livello di spesa e

dalle scelte dei singoli agenti economici. Rothbard lo definisce “errore dell’aggregato”:

We are now reaping the unfortunate fruits of this grievous split in the current disjunction between

“micro” and “macro” economics. “Microeconomics” is at least roughly grounded on the actions of

individual consumers and producers; but when economists come to money, we are suddenly

plunged into a never-never land of unreal aggregates: of money, “price levels,” “national product,”

and spending. Cut off from a firm basis in individual action, “macro-economics” has leaped from

one tissue of fallacies to the next61.

Data questa situazione di carenza teorica, il merito maggiore di Mises è stato, continua Rothbard,

di aver saputo ricomporre quella scissione originaria riconducendo l’analisi della moneta alle stesse

motivazioni soggettivistiche che animano il funzionamento del mercato come sistema integrato.

Pertanto il principio dell’utilità marginale, a cui tutta l’economia neoclassica doveva i suoi successi

teorici basati sull’individualismo metodologico, non poteva essere più espunto dall’analisi della

moneta, costituendosi piuttosto come il punto di partenza per spiegarne il funzionamento in

riferimento al risultato allocativo verso cui tende il sistema economico nel suo complesso:

Specifically, Mises showed that, just as the price of any other good was determined by its quantity

available and the intensity of consumer demands for that good (based on its marginal utility to the

consumers), so the “price” or purchasing power of the money-unit is determined on the market in

the very same way. In the case of money, its demand is a demand for holding in one’s cash balance

(in one’s wallet or in the bank so as to spend it sooner or later on useful goods and services). The

marginal utility of the money unit (the dollar, franc, or gold-ounce) determines the intensity of the

demand for cash balances; and the interaction between the quantity of money available and the

demand for it determines the “price” of the dollar (i.e., how much of other goods the dollar can buy

in exchange)62.

L’interesse dell’analisi di Rothbard sta nella capacità di mettere in risalto il punto di vista degli

allievi statunitensi di Mises (emigrato oltreoceano nel 1940), secondo i quali la teoria monetaria del

maestro – compiutamente esposta in una prima versione già nel 1912 con l’opera Theorie des Geldes

61 M. R. Rothbard, The essential Von Mises, Ludwig Von Mises Institute, Auburn, 1999 (1973), pp. 13-14.

62 Ivi, p. 14-15.

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und der Umlaufsmitted e poi ripubblicata, con alcuni aggiornamenti, nel 1924, per essere finalmente

tradotta in inglese nel 1934 – ha avuto un’importanza decisiva nell’elaborazione degli aspetti essenziali

del problema monetario inerente alla teoria economica moderna. In particolare abbiamo la

formulazione della questione che Polanyi aveva denunciato essere una congettura deleteria (oltre che

palesemente falsa) per la sostenibilità dei processi economici: che il valore della moneta si possa

determinare attraverso l’equilibrio tra domanda e offerta, stabilito sul mercato, al pari di qualsiasi altra

merce. Si legge ad esempio ne La grande trasformazione:

La moneta è soltanto un simbolo del potere d’acquisto che di regola non è affatto prodotto ma si

sviluppa attraverso il meccanismo della banca o della finanza di stato […]. L’amministrazione da

parte del mercato del potere d'acquisto liquiderebbe periodicamente le imprese commerciali

poiché le carenze e gli eccessi di moneta si dimostrerebbero altrettanto disastrosi per il commercio

quanto le alluvioni e la siccità nelle società primitive63.

Va precisato che la definizione essenziale di moneta presentata da Mises (e accettata da Hayek) è

sostanzialmente la stessa elaborata da Menger quasi mezzo secolo prima. Per la scuola austriaca la

moneta non è che un risultato evolutivo rispondente alle esigenze del commercio di rendere più

efficiente lo scambio dei beni ed eliminare la difficoltosa necessità, tipica del baratto, di individuare

contemporaneamente due bisogni di pari grado da soddisfare. In questo senso precede storicamente

e logicamente l’azione delle istituzioni, che entrano successivamente nel meccanismo monetario solo

come garanti del corso legale delle monete metalliche. La moneta, in sostanza, rappresenta un mezzo

di scambio peculiare selezionato nel corso dello sviluppo del mercato, prerogativa da cui discendono

poi tutte le altre tipiche di un’economia tecnologicamente avanzata (unità di conto, riserva di valore,

standard per i pagamenti). Esordisce così Mises nella sua opera:

Un ordinamento economico che non conosce il libero scambio di beni e servizi non ha bisogno

della moneta. In una situazione sociale in cui la divisione del lavoro è una questione puramente

domestica e la produzione e il consumo sono effettuati all’interno della singola famiglia, essa

sarebbe inutile come lo sarebbe per un uomo isolato. Ma anche in un ordine economico basato

sulla divisione del lavoro la moneta sarebbe superflua, se i mezzi di produzione fossero socializzati,

il controllo della produzione e la distribuzione del prodotto finito fossero nelle mani di un organo

centrale e agli individui non fosse consentito di scambiare i beni di consumo loro assegnati con i

63 K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., pp. 93-95.

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beni di consumo assegnati ad altri […]. La funzione della moneta è di facilitare gli scambi sul mercato

agendo da mezzo generale di scambio64.

Ridurre la stessa esistenza della moneta a quella dell’economia di mercato e la sua funzione a mezzo

di scambio è, da un punto di vista metodologico, esattamente l’errore di riduzionismo che Polanyi

rimprovera alla logica formalista e che si palesa nella tendenza «a scambiare una parte per il tutto,

l’economia umana nella sua forma di mercato». In un articolo apparso originariamente sulla rivista

Explorations nel 1957, Polanyi scrive:

Per effetto dell’impiego della moneta come mezzo di scambio nella nostra organizzazione di

mercato della vita economica, siamo portati a pensare la moneta in termini troppo ristretti. Nessun

oggetto è moneta in sé, e qualsiasi oggetto, in un campo appropriato, può fungere da moneta. In

realtà la moneta è un sistema di simboli simile al linguaggio, alla scrittura, o ai pesi e alle misure.

Questi differiscono l’uno dall’altro soprattutto per le finalità, per gli effettivi simboli utilizzati, e per

il grado con cui evidenziano un’unica finalità unificata […]. La moneta è un sistema

incompletamente unificato; la ricerca di una sua unica finalità è un vicolo cieco. Ciò spiega i molti

inutili tentativi di determinare la «natura e l’essenza» della moneta65.

Il cosiddetto teorema del regresso, uno dei massimi contributi di teoria monetaria proposti da

Mises, fa parte proprio dei «molti inutili tentativi» che si muovono nella direzione opposta rispetto a

quella delineata da Polanyi, tentando di costituire quel sistema unificato (o, meglio, isolato) che erge

il mercato ad espressione naturale dell’azione individuale, in particolare attraverso la congiunzione

dell’analisi marginalistica del valore con una teoria compiuta della moneta in grado di determinarne

la «natura e l’essenza». È, in altri termini, il tentativi di costruire l’analisi della moneta su basi

radicalmente individualistiche e soggettivistiche. Un vicolo cieco, forse, ma dall’enorme impatto

politico: privando infatti la moneta del suo più ampio significato sociale e quindi dei suoi effetti

integranti o disgreganti sulle relazioni sociali, si sancisce a livello istituzionale quella scissione tra sfera

economica e sfera politica che Polanyi denuncia essere la caratteristica fondante, ma allo stesso tempo

tragicamente destabilizzante, del mercato autoregolato.

64 L. Mises, Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1999 (1924), p.

5 (corsivo nostro).

65 K. Polanyi, Semantica degli impieghi della moneta (1957), in K. Polanyi, Economie primitive arcaiche e

moderne, a cura di G. Dalton, Einaudi, Torino, 1980 (1968), p. 170.

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La questione a cui Mises col teorema del regresso tenta di dare una risposta teorica soddisfacente e

compatibile con la determinante cornice ideologica austriaca è, in estrema sintesi, la seguente: come

poter spiegare il valore della moneta in termini di utilità marginale se essa non è né un bene di

consumo né un mezzo di produzione, bensì esclusivamente un mezzo di scambio con valore

indiretto66 che richiede, quindi, la previa conoscenza del rapporto di scambio tra la moneta stessa e i

beni di consumo? L’entusiastica presentazione di Rothbard sembra ignorare il pericolo di un errore

circolare nella determinazione della soluzione fondata sull’utilità marginale. Riccardo Bellofiore,

nell’introduzione italiana all’opera di Mises, chiarisce la questione nei termini seguenti: «nel caso della

moneta, la conoscenza del valore (oggettivo) di scambio è il presupposto necessario per la costruzione

della curva di utilità marginale, mentre si pretende che quest’ultima stia a fondamento del primo»67.

Mises era ben consapevole della difficoltà68, ma allo stesso tempo non poteva ridimensionare la

portata dell’approccio marginalista di cui fu tra i primi a valorizzarne le implicazioni politiche, in

particolare attraverso l’elevazione dell’individualismo metodologico a spiegazione universale del

sistema sociale e a giustificazione normativa dello stesso. L’ardita soluzione escogitata dall’economista

austriaco tenta di rompere il circolo vizioso spiegando il valore della moneta in un dato momento

rimandando al potere d’acquisto della stessa fissato nel momento precedente, procedendo all’indietro

in una catena che arriva fino a un ipotetico istante originario, quando per la prima volta una

determinata merce è diventata moneta e il cui valore non poteva che basarsi sull’utilità della merce

scelta, non essendoci ancora un uso monetario della stessa:

La dimostrazione del fatto che la ricerca dei fattori determinanti del valore di scambio oggettivo

della moneta ci riporta sempre a un punto in cui il valore della moneta non è determinato in alcun

modo dal suo uso come mezzo di scambio, ma solamente dalle sue altre funzioni, apre la strada

66 «La moneta non ha altra utilità che quella derivante dalla possibilità di ottenere in cambio altri beni

economici. È impossibile concepire una qualche funzione della moneta, qua moneta, che possa essere separata

dalla realtà del suo valore di scambio oggettivo» (L. Mises, Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione, cit.,

p. 56).

67 R. Bellofiore, Introduzione, in L. Mises, Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione, cit., p. XXVIII.

68 «Il prezzo della moneta, come gli altri prezzi, è determinato in definitiva dalle valutazioni soggettive dei

compratori e dei venditori. Come abbiamo già detto, però, il valore d’uso soggettivo della moneta, che coincide

con il suo valore di scambio soggettivo, non è altro che il valore d’uso previsto delle cose che saranno

acquistate con essa. Il valore soggettivo della moneta deve essere misurato dall’utilità marginale dei beni con

cui la moneta può essere scambiata» (L. Mises, Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione, cit., p. 65)

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allo sviluppo di una teoria compiuta del valore della moneta sulla base della teoria soggettiva del

valore e della sua peculiare dottrina dell’utilità marginale69.

Come sottolinea Bellofiore, il teorema del regresso non ebbe il successo teorico che Mises si

aspettava. Il tentativo di integrare la domanda di moneta nella teoria marginalista attraverso

l’andamento passato dei prezzi apparve sin da subito troppo artificioso, se logicamente non carente.

Da quest’ultimo punto di vista, uno dei maggiori critici fu Schumpeter, che dichiarò la teoria

monetaria di Mises viziata all’origine da un procedimento d’indagine fallace, che cerca di usare

l’indagine storica per dimostrare una tesi già aprioristicamente concepita:

Nessuna teoria monetaria può essere confutata con la prova dell’erroneità di qualche tesi del suo

autore sulla preistoria della moneta; nessuna teoria monetaria può dimostrare di essere corretta con

la prova della correttezza di tale tesi. Quale situazione storica, se mai ce ne debba essere una, sia da

considerare ‘forma essenziale’ scaturisce per ogni autore dalla sua conoscenza teorica e non

viceversa70.

Non a caso, le conclusioni di Mises sono che la natura, la funzione e il valore della moneta non

hanno nulla a che fare con l’azione dello stato, ma dipendono da una genesi storica spontaneamente

condotta dalla volontà degli individui. La conseguenza ovvia è la condanna di qualsiasi intervento

pubblico successivo, finalizzato cioè a modificare i presupposti originari di una libera società di

mercato, di cui una moneta stabile e indipendente dalle istituzioni politiche risulta essere una garanzia

imprescindibile:

La creazione della moneta come di una creazione del diritto e dello Stato è quindi chiaramente

insostenibile. Non c’è un fenomeno del mercato che la giustifichi. Ascrivere allo Stato il potere di

dettare le leggi dello scambio, vuol dire ignorare i principi di una società che usa la moneta71.

Il sostegno incondizionato di Mises al gold standard e l’adesione al metallismo sembrano avere

esattamente le stesse radici politiche del teorema del regresso: riproporre quella scissione originaria

69 L. Mises, Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione, cit. p. 69.

70 J. A. Schumpeter, L’essenza della moneta, Cassa di Risparmio di Torino, Torino, 1990 (1970), pp. 20-21 (cit. in

R. Bellofiore, Introduzione, cit., p. XXXII).

71 L. Mises, Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione, cit., p. 33.

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tra società ed economia di mercato che dopo la Grande Guerra si stava diffusamente ricomponendo

attraverso l’interventismo delle banche centrali. L’azione di quest’ultime appare a Mises la diretta

conseguenza di un atteggiamento anti-economico degli stati che, per salvaguardare il consenso

politico delle masse, rinunciano fatalmente ai benefici progressivi del libero mercato e “infestano” i

liberi piani individuali col virus dell’inflazione:

Le misure di salvaguardia erette dalla legislazione liberale del XIX secolo per proteggere il sistema

delle banche di emissione contro l’abuso dello Stato si sono dimostrate inadeguate. Nulla è stato

più facile che non tenere in alcun conto tutte le misure legislative per la protezione del sistema

monetario. Tutti i governi, anche i più deboli e i più incapaci, ci sono riusciti senza difficoltà. Le

loro politiche bancarie hanno prodotto quello che il sistema aureo mirava a evitare: la sottomissione

del valore della moneta all’influenza delle forze politiche. Essendosi arrogati questo potere, i

governi ne hanno fatto il peggior uso possibile72.

Polanyi sottolinea come la ricerca di un «sistema completamente unificato», in cui la moneta non

sia altro che un neutrale mezzo di pagamento liberamente scelto dagli individui, si scontra con una

realtà non corrispondente alla rappresentazione che tenta di darne la teoria di Mises. Ad avviso di

Polanyi la politica monetaria trova infatti le ragioni della sua ricorrenza storica, un dato di fatto

difficilmente liquidabile con la semplice accusa ridondante di irrazionalità, nel tentativo, talvolta

anche inconsapevole, di prevenire la catastrofe sociale dovuta all’autoregolazione dei mercati fittizi

del lavoro e della terra:

Da nessuna parte la contraddizione era tanto netta eppure così poco consapevole quanto nel campo

monetario. Infatti una dogmatica fiducia nella base aurea internazionale continuava a raccogliere

illimitata fiducia mentre nello stesso tempo si instauravano monete-segno basate sulla sovranità

dei vari sistemi bancari centrali […]. Delle comunità completamente monetarizzate non avrebbero

potuto resistere agli effetti rovinosi dei rapidi cambiamenti del livello dei prezzi che erano resi

necessari dal mantenimento dei cambi stabili, a meno che l’urto non venisse attutito per mezzo di

una politica bancaria centrale indipendente. La valuta moneta-segno nazionale era la salvaguardia

certa di questa relativa sicurezza poiché permetteva alla banca centrale di agire come cuscinetto

tra l’economia interna e quella esterna73.

72 Ivi, p. 282.

73 K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., p 253.

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La contraddizione tra i proclami teorici e la realtà empirica si presenta «netta eppure così poco

consapevole» perché, se da un lato il protezionismo nel campo monetario è meno tangibile rispetto

alle legislazioni protettive sul lavoro e ai dazi commerciali, dall’altro diventa determinante nel

decretare il fallimento finale dei presupposti alla base del liberismo economico, per il quale

«quest’ultimo fine [la stabilità monetaria, ndr] aveva la precedenza sul resto; infatti, a meno che si

ristabilisse la fiducia nelle monete, il meccanismo di mercato non poteva funzionare»74.

Va sottolineato che Hayek, sulla scia del lavoro di Mises, proporrà qualche anno dopo una teoria

monetaria in grado di esaltare ulteriormente le conclusioni politiche del maestro. Tenterà infatti di

dimostrare come il lassismo delle banche centrali e le politiche espansive dei governi non solo siano

del tutto inefficaci per aumentare stabilmente l’occupazione, secondo gli obiettivi dichiarati, ma,

sconvolgendo i piani individuali attraverso la manipolazione dei segnali che giungono dai prezzi,

diventino gli unici responsabili dello squilibrio cui il mercato viene condotto e che ha nell’inflazione

l’effetto manifestamente più deleterio. Togliere la moneta ai governi, come sosterrà ripetutamente

nelle sue ultime opere, si conferma pertanto una priorità irrinunciabile per salvare il mercato e con

esso la prosperità economica. Scrive al riguardo Hayek:

Nel corso di questo eccezionale periodo di stabilità monetaria il gold standard ha imposto alle

autorità monetarie una disciplina che ha loro impedito di abusare dei loro poteri, cosa che invece

esse hanno fatto in quasi ogni altra epoca […] In effetti, la nostra sola speranza di avere una moneta

stabile è oggi quella di trovare un modo di proteggere la moneta dalla politica75.

Le “geremiadi utopistiche” dei sostenitori della base aurea, come le ha definite sarcasticamente

Marcello De Cecco76, si trasformarono negli anni Venti in un attivismo sfrenato affinché “l’età dell’oro”

fosse finalmente ristabilita. In questo quadro si colloca quello che Polanyi definisce l’ideale

deflazionista, ossia la visione di politica monetaria largamente condivisa dai governi dell’epoca:

74 Ivi, p. 291.

75 F. A. Hayek, La possibilità di scegliere diverse valute: un modo per fermare l’inflazione, in F.A. Hayek,

Conoscenza, mercato, pianificazione, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 502.

76 «Ma non fu l’opinione europea ottocentesca – come sostiene Keynes […] – a credere di aver raggiunto, con il

gold standard, un ubi consistam di durata eterna. Furono invece le geremiadi utopistiche di pochi, nel primo

dopoguerra, a conferire al periodo pre-1914 quelle caratteristiche che, tuttora, generalmente si crede esso abbia

avuto. Lo studio del periodo stesso, che qui stiamo conducendo, rivela tutt’altro che uno svolgersi automatico

di fatti economici internazionali» (M. De Cecco, Moneta e impero, Einaudi, Torino, 1979, p. 82).

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Durante gli anni venti, secondo Ginevra77, le questioni di organizzazione sociale dovevano essere

completamente subordinate alle esigenze del risanamento della moneta. La deflazione

rappresentava la necessità primaria; le istituzioni interne dovevano adattarsi quanto meglio

potevano. Per il momento anche la ricostituzione di liberi mercati internazionali e dello stato

liberale doveva essere rinviata […]. L’ideale deflazionista divenne una «libera economia in un

governo forte»; ma mentre le parole sul governo volevano dire quello che dicevano, e cioè i poteri

di sospensione della pubblica libertà, «economia libera» significava nella pratica l’opposto di ciò

che essa indicava, e cioè prezzi e salari controllati dal governo (anche se l’intervento era compiuto

con lo scopo dichiarato di ripristinare la libertà dei cambi e liberi mercati interni) […]. Sebbene

contrari in teoria tanto all’interventismo che all’inflazione, i liberali avevano scelto tra i due ed

avevano posto l’ideale di una moneta solida sopra quello del non-intervento. Nel fare questo essi

seguivano la logica interna di una economia autoregolata78.

Ma siccome secondo Polanyi «la protezione sociale e l’interferenza sulla moneta non erano soltanto

problemi analoghi ma spesso anche identici»79, sottrarre politicamente la moneta alla possibilità di

emissione da parte dei governi significava subordinare la sostanza della società, quindi i suoi

elementari processi di riproduzione materiale, alle esigenze di un presunto meccanismo automatico

che ostinatamente veniva riproposta ma che, tuttavia, la finzione della merce rendeva inattuabile. In

quello che viene descritto come un vero e proprio accanimento terapeutico dalle tinte tragiche, la

restaurazione del mercato proseguiva necessariamente secondo la sua «logica interna» di separazione

tra una sfera definita politica e una definita economica, scissione che, in quanto artificiosa e

impossibile sul lungo periodo, rappresentava esattamente il motivo della disgregazione.

Approfondendo la crisi, il tentativo di restaurazione dell’autoregolazione apriva scenari catastrofici:

77 A Ginevra, nel 1922, venne concepito il cosiddetto gold exchange standard. A differenza del precedente gold

standard ottocentesco, stabiliva che solo alcune monete (dichiarate pregiate) fossero direttamente convertibili

in oro. Le altre, tra cui la lira, lo erano solo indirettamente, ossia attraverso la conversione preliminare in

monete pregiate. Lo scopo era di affidarsi a monete tradizionalmente stabili che fungessero da riserva

internazionale (inizialmente sterlina e dollaro, poi, con gli accordi di Bretton Woods del 1944, solo il dollaro)

per proteggere le riserve auree e garantire allo stesso tempo il riequilibrio delle bilance commerciali attraverso

la garanzia di convertibilità diretta delle monete pregiate (Cfr. R. Triffin, Il sistema monetario internazionale,

cit., pp. 46-56).

78 K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., pp. 293-294.

79 Ivi, p. 286.

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L’ostinazione con la quale i liberali avevano, nel corso di un decennio critico, sostenuto

l’interventismo autoritario ai fini di una politica deflazionistica, si risolse semplicemente in un

indebolimento decisivo delle forze democratiche che avrebbero potuto altrimenti allontanare la

catastrofe fascista. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti, padroni e non servi della moneta,

abbandonarono per tempo l’oro per sfuggire a questo pericolo80.

La mentalità dei liberisti e la loro visione isolata del processo economico diventano per Polanyi, in

determinati frangenti storici, il più grave problema democratico: il mercato autoregolato, date le sue

premesse irrealistiche, va necessariamente imposto attraverso manovre politiche autoritarie.

L’esperienza del governo conservatore di Brüning nella Germania di Weimar, l’ultimo prima

dell’ascesa del nazismo, è da questo punto di vista un esempio emblematico. Se infatti, come scrive lo

storico Enzo Collotti in un classico della storiografia sul nazismo, «non rappresentava ancora il

fascismo, era altrettanto vero che ne costituiva l’anticamera»81 a causa della progressiva limitazione

delle prerogative parlamentari. Quell’anticamera su cui sostava ambiguamente Brüning, caratterizzata

proprio da politiche deflazioniste cumulative con effetti sociali devastanti, era convintamente

appoggiata da Mises e Hayek, che si illudevano di rievocare i fasti del liberismo di fine Ottocento.

Questo il motivo per cui Polanyi individua la natura dei fascismi nella loro capacità di portare a

compimento ciò che i liberisti, legati per tradizione alla democrazia parlamentare, non avevano potuto

perfezionare: la subordinazione della società al mercato.

Scrive Polanyi a conclusione de La grande trasformazione, in un atto d’accusa totale al liberismo

economico capace a suo avviso di sacrificare la solidarietà umana in nome di un vero e proprio

fondamentalismo religioso, con i suoi dogmi dispiegati sulla via della provvidenza e i suoi sacerdoti,

per tornare all’amara ironia di Gramsci da cui eravamo partiti:

Il sistema economico che era in pericolo di disfacimento veniva così revitalizzato mentre i popoli

stessi venivano sottoposti a una rieducazione destinata a snaturalizzare l’individuo e renderlo

incapace di funzionare come unità responsabile del corpo politico. Questa rieducazione, che

comprendeva le norme di una rieducazione politica che negava l’idea della fratellanza dell’uomo

nelle sue varie forme, fu raggiunta attraverso un atto di conversione di massa applicato ai

recalcitranti con mezzi scientifici di tortura82.

80 Ivi, p. 294.

81 E. Collotti, La Germania nazista, Einaudi, Torino, 1962, p. 63.

82 K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., p. 297.

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All’inizio de La grande trasformazione, Polanyi aveva invece scritto: «Per capire il fascismo tedesco

dobbiamo ritornare all’Inghilterra ricardiana»83. Un’affermazione apparentemente criptica che trova

ora la sua spiegazione: il mercato autoregolato è necessariamente degenerativo a partire dal suo

fondamento irrinunciabile, l’individualismo metodologico:

La vera critica alla società di mercato non è che essa si basasse sull’economia - in un certo senso

qualunque società deve basarsi su di essa - ma che la sua economia era basata sull’interesse

individuale. Una tale organizzazione della vita economica è del tutto innaturale nel senso

strettamente empirico della parola eccezionale84.

5. Contro la limitazione economica dei nostri ideali: una conclusione

Prima di concludere, bisogna brevemente ritornare a dove eravamo partiti.

Come accennato, di Vienna Polanyi conserverà sempre la tensione etica della politica economica,

intesa come mezzo per soddisfare i bisogni sociali (la casa, l’istruzione, la previdenza, il salario) al di

là e prima dei criteri di efficienza economica rappresentati dal postulato di scarsità. La logica

sostantivistica viene quindi anteposta a quella formalistica anche attraverso la necessità di conferire

giudizi di valore al processo economico e di mettere al centro lo scopo sociale dell’azione. Forse, si è

sostenuto, l’enfasi di Polanyi nei confronti dell’esperienza viennese è eccessiva. Ad essere rilevanti,

però, sono le ragioni del suo giudizio entusiastico, che rivelano una profonda affinità col rapporto tra

economia e democrazia espresso dal socialismo municipale di Vienna, come chiarisce Michele

Cangiani:

La concezione polanyiana del socialismo come realizzazione della libertà moderna, come

costruzione consapevole da parte di individui liberi, era influenzata dal pensiero di personalità

eminenti del socialismo austriaco, quali Max Adler e soprattutto Otto Bauer, oltre che dal Guild

Socialism inglese. Dalla sfera politica, la democrazia doveva estendersi a tutti gli ambiti della vita

sociale, all’economia innanzitutto, e vivere attraverso la partecipazione dei singoli ad

organizzazioni attinenti ai diversi aspetti (o “funzioni”) della loro esistenza (sindacati, partiti,

cooperative, amministrazioni locali, associazioni culturali, di vicinato, ecc.). Su questa base

83 Ivi, p. 39.

84 Ivi, p. 311.

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l’informazione avrebbe potuto diffondersi e quindi la “volontà generale” essere formulata e

rappresentata a livello delle scelte governative85.

Mises, al contrario, rifiuta esplicitamente ogni appello all’etica economica. Il mercato è in sé etico,

sebbene in un altro senso: rappresenta la sola garanzia di una soddisfazione della volontà generale nel

modo più efficiente possibile, ossia conforme al rapporto mezzi-fini espresso dal sistema dei prezzi.

L’alternativa è l’irrazionalità tipica dell’intervento pubblico che tende, per sua natura, ad espandere il

suo potere sostituendosi all’iniziativa privata. È quindi vano, oltre che estremamente pericoloso,

indagare in ambito economico i fini, in quanto essi sono già dati come espressione della sovranità che

i consumatori rivelano nel mercato attraverso la domanda. Ne L’azione umana, voluminoso trattato

metodologico, Mises chiarisce il suo punto di vista in modo inequivocabile:

L’economia è una scienza teoretica e come tale si astiene da ogni giudizio di valore. Non è suo

compito dire alla gente quali fini dovrebbe perseguire. Essa è scienza dei mezzi da applicare al

raggiungimento dei fini86.

Nel prosieguo del testo è ancora più esplicito:

Non c’è posto nel campo dell’economia per una scala di bisogni differenti dalla scala dei valori

riflessi nel comportamento effettivo dell’uomo87.

La logica formalista della visione di Mises, che riduce l’economia umana al postulato di scarsità,

appare a Polanyi come una gabbia deterministica da rifiutare radicalmente: la realtà sociale viene

ridotta all’espressione che di essa ne dà il mercato e l’economia a una mera tecnica del pensiero,

definita da Mises, piuttosto bizzarramente, scienza teoretica.

Ad essere annullata è quindi la storia, ossia la capacità di analizzare le istituzioni come requisito, e

non solo come effetto, del processo economico, capaci soprattutto di determinare la variabilità delle

esperienze umane. Ecco la ragione per cui Vienna appariva a Polanyi un «trionfo della storia

85 M. Cangiani, K. Polanyi: breve biografia intellettuale, in Jean-Louis Laville e Michele La Rosa (a cura di),

Ritornare a Polanyi. Per una critica all’economicismo?, Franco Angeli, Milano, 2008, p. 22.

86 L. Mises, L’azione umana, cit., p. 9.

87 Ivi, p. 93.

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occidentale»: era una dimostrazione concreta, per quanto circoscritta e precaria, dei benefici apportati

da una limitazione dei meccanismi di mercato, i quali precludono anche il raggiungimento degli

obiettivi sociali più necessari qualora non approvati da una presunta efficienza allocativa espressa dai

prezzi. Allo stesso tempo, l’approccio di Mises spiega anche la definizione di «incubo inflazionista»

rivolta a Vienna: l’economia non era più, in quel caso, una scienza dei mezzi, ma diventava una

pericolosa scienza dei fini, operando un tentativo di ribaltamento dalla logica formalista a quella

sostantivista. Concordando con Polanyi, si può dunque concludere che l’individualismo metodologico

alla base delle teorie economiche liberiste, ignorando i fondamenti istituzionali dei processi

economici, incastra fittiziamente l’azione umana in vincoli che non esistono in modo assoluto, ma solo

nella mentalità di mercato che li ha generati. Mentalità che, in quanto tale, è anch’essa un prodotto

storico. Scrive Polanyi, in un monito che rivela tutta la sua attualità:

La creatività istituzionale dell’uomo è venuta meno soltanto perché si è lasciato che il mercato

stritolasse il materiale umano riducendolo alla piatta uniformità di un paesaggio di detriti selenici.

Non v’è da meravigliarsi che l’immaginazione sociale dell’uomo mostri segni di stanchezza.

Potrebbe arrivare al punto di perdere definitivamente l’elasticità, la ricchezza e la forma

immaginativa di cui era dotata allo stato selvaggio88.

In un altro brano, scritto nello stesso anno, aggiunge «non pensate che il sistema economico debba

limitare la realizzazione economica dei nostri ideali»89.

Attraverso la sua analisi Polanyi ci consegna utili strumenti non tanto per contrastare una teoria

economica ritenuta sbagliata, ma forse per fare molto di più: indagare la mentalità che la genera e che

tende a porsi, per necessità, in un piano di discussione definibile pre-scientifico, quindi attaccabile

solo nei suoi presupposti ideologici, ricominciando pertanto a discutere su cosa sia e cosa dovrebbe

rappresentare l’economia per la società umana.

88 K. Polanyi, La nostra obsoleta mentalità di mercato, in K. Polanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne (a

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89 K. Polanyi, Sulla fede nel determinismo economico, in K. Polanyi, Una società umana, un’umanità sociale.

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