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Il Purgatorio nella letteratura [modifica ] La Divina Commedia (1304-1321) [modifica ] Per approfondire, vedi la voce Purgatorio (Divina Commedia) . Nella letteratura cristiana fu Dante Alighieri a dare forse la visione più completa ed esauriente, in campo filosofico e poetico, del Purgatorio, che è appunto lo sfondo della seconda cantica della sua Divina Commedia . Dante descrive così la struttura del Purgatorio (che egli, a differenza della teologia cattolica, immagina come un luogo fisico): esso è un monte, costituito della materia che Lucifero ha innalzato nella sua caduta, scavando l'abisso dell'Inferno; inoltre, è circondato dal mare, e si troverebbe nell'emisfero antartico del mondo. Sulla cima del Monte Sacro si trova l'Eden , cioè il Paradiso Terrestre , dove vivono nella piena Grazia di Dio gli spiriti dei Santi e dei Beati. Il monte è formato da sette "gironi", ovvero sette sfere metafisiche ove vengono divise le anime secondo i loro peccati, e queste "cornici" sono precedute dall'Antipurgatorio , dove si trovano le anime di coloro che si pentirono solo in fin di vita, le anime dei negligenti e degli scomunicati , che devono scontare un determinato periodo prima di poter entrare nel Purgatorio vero e proprio. Dopo un rito di purificazione, alla fine del quale i peccati vengono perdonati, un angelo "portiere" apre, con le chiavi di San Pietro , la porta del Purgatorio, e allora le anime si accingono a ripagare l'ingiustizia dei loro peccati; infatti, il perdono non esclude la riparazione al peccato, ma la precede solamente. I sette gironi rappresentano i sette peccati capitali, cioè, in ordine di gravità: superbia , invidia , ira , accidia , avarizia (e, insieme, prodigalità ), gola e infine lussuria . Inoltre, ogni girone è custodito da un angelo che rappresenta la virtù opposta a ciascun peccato, che l'anima deve raggiungere se vuole ascendere ad un altro girone; vi sono dunque (in ordine) l'angelo dell'umiltà , della carità , della mansuetudine , della sollecitudine , della povertà , della temperanza e della castità , che sono infatti le sette virtù divine. Inoltre, in ciascun girone vi è una pena diversa per le anime, regolata (come anche nell'Inferno) dalla cosiddetta "legge del contrappasso ", che impone una pena simmetrica od opposta al peccato commesso. Per questo, i superbi sono condannati a camminare reggendo sulle spalle degli enormi e pesantissimi massi, che li costringono a camminare col volto basso

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Il Purgatorio nella letteratura [modifica]

La Divina Commedia (1304-1321) [modifica]

Per approfondire, vedi la voce Purgatorio (Divina Commedia).

Nella letteratura cristiana fu Dante Alighieri a dare forse la visione più completa ed esauriente, in campo filosofico e poetico, del Purgatorio, che è appunto lo sfondo della seconda cantica della sua Divina Commedia. Dante descrive così la struttura del Purgatorio (che egli, a differenza della teologia cattolica, immagina come un luogo fisico): esso è un monte, costituito della materia che Lucifero ha innalzato nella sua caduta, scavando l'abisso dell'Inferno; inoltre, è circondato dal mare, e si troverebbe nell'emisfero antartico del mondo. Sulla cima del Monte Sacro si trova l'Eden, cioè il Paradiso Terrestre, dove vivono nella piena Grazia di Dio gli spiriti dei Santi e dei Beati. Il monte è formato da sette "gironi", ovvero sette sfere metafisiche ove vengono divise le anime secondo i loro peccati, e queste "cornici" sono precedute dall'Antipurgatorio, dove si trovano le anime di coloro che si pentirono solo in fin di vita, le anime dei negligenti e degli scomunicati, che devono scontare un determinato periodo prima di poter entrare nel Purgatorio vero e proprio. Dopo un rito di purificazione, alla fine del quale i peccati vengono perdonati, un angelo "portiere" apre, con le chiavi di San Pietro, la porta del Purgatorio, e allora le anime si accingono a ripagare l'ingiustizia dei loro peccati; infatti, il perdono non esclude la riparazione al peccato, ma la precede solamente. I sette gironi rappresentano i sette peccati capitali, cioè, in ordine di gravità: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia (e, insieme, prodigalità), gola e infine lussuria. Inoltre, ogni girone è custodito da un angelo che rappresenta la virtù opposta a ciascun peccato, che l'anima deve raggiungere se vuole ascendere ad un altro girone; vi sono dunque (in ordine) l'angelo dell'umiltà, della carità, della mansuetudine, della sollecitudine, della povertà, della temperanza e della castità, che sono infatti le sette virtù divine. Inoltre, in ciascun girone vi è una pena diversa per le anime, regolata (come anche nell'Inferno) dalla cosiddetta "legge del contrappasso", che impone una pena simmetrica od opposta al peccato commesso. Per questo, i superbi sono condannati a camminare reggendo sulle spalle degli enormi e pesantissimi massi, che li costringono a camminare col volto basso (mentre in vita si ergevano altezzosi), gli invidiosi hanno le palpebre cucite col fil di ferro (mentre in vita guardavano con malignità i beni altrui), gli iracondi sono immersi in un fumo nerissimo che li acceca (come in vita erano accecati dal "fumo" della propria rabbia), gli accidiosi sono costretti a correre perennemente, senza mai fermarsi (mentre in vita si rilassavano nell'ozio), gli avari hanno il volto costantemente e totalmente immerso nella terra (come in vita erano immersi nel denaro, che è un bene di terra), i golosi sono costretti a sopportare impietosamente la fame e la sete (mentre in vita abbondavano nel banchettare) e i lussuriosi sono sempre immersi in fiamme ardenti (come in vita erano immersi nelle "fiamme" della passione sessuale). Del meccanismo di purificazione fanno parte anche i numerosi exempla, sia del vizio punito sia della virtù corrispondente, che sono presentati agli espianti, e che Dante descrive con grande perizia tecnica sulla scorta delle maggiori opere teologiche del suo tempo. Quando un'anima ha scontato tutti i peccati di cui era schiava, nel Purgatorio si verifica un terremoto, che è il segnale che tale anima può finalmente elevarsi a Dio, ed entrare in Paradiso purificata. Tuttavia, un'anima, per entrare nell'Eden, deve prima immergersi in due fiumi sacri: il primo è il Letè, le cui acque (già secondo la mitologia greco-romana) lavano il peccatore dalle memorie di tutti i peccati commessi, mentre il secondo è l'Eunoè (di invenzione dantesca), le cui acque invece fanno tornare alla memoria dell'anima tutto il bene compiuto in vita. Dopodiché, l'anima accede davvero al Paradiso, cioè alla beatitudine eterna.

Dante considera il Purgatorio come il luogo dove si scontano non tanto i peccati realmente commessi (come all'Inferno), quanto invece la tendenza a tali peccati. La purificazione, per le anime, è dunque una vera e propria lotta contro sé stessi ispirata dall'amore per Dio, più che una

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semplice pena. Infatti, Dante incontra nel girone dei lussuriosi l'anima di Guido Guinizelli, poeta amico di Dante, che all'epoca era vivente, e alla confusione del "sommo poeta" riguardo la sua presenza in Purgatorio, Guido dice:

« son Guido Guinizelli; e già mi purgo,

per ben dolermi prima ch'a lo stremo. »(Dante Alighieri, Divina Commedia, "Purgatorio", canto XXVI, vv. 92-93)

Cioè, si sta già purgando poiché s'è pentito prima di morire, mentre era ancora in vita. Il Purgatorio, quindi, è dimensione invisibile nell'uomo, oltre che luogo metafisico delle anime dei defunti, ed è sempre accessibile ai penitenti. Da notare, infine, che nel Purgatorio Dante descrive la successione del giorno e della notte, al contrario dell'Inferno e del Paradiso, dove vi è, rispettivamente, eterna tenebra ed eterna luce; infatti, il Purgatorio è l'unico regno metafisico temporale, in quanto sparirà quando l'ultimo uomo ne sarà uscito (dopo il Giudizio Universale); per questo, è il regno più simile al mondo fisico (cioè la Terra).

Purgatorio (Divina Commedia)Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

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The Avaricious Purgatorio, Jennifer Strange

Dante incontra Matelda, litografia di Cairoli (1889).

Il Purgatorio è la seconda delle tre cantiche della Divina Commedia di Dante Alighieri. Le altre cantiche sono l'Inferno ed il Paradiso.

Indice

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1 Struttura 2 Schema

3 Tematiche e contenuti

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4 Bibliografia

5 Collegamenti esterni

6 Voci correlate

7 Altri progetti

Struttura [modifica]

Il Purgatorio dantesco è diviso in Antipurgatorio, Purgatorio e Paradiso terrestre.

La struttura morale del Purgatorio segue la classificazione tomistica dei vizi dell'amore mal diretto, e non fa più riferimento a singole colpe. Esso è suddiviso in sette cornici, nelle quali si espiano i sette peccati capitali: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria.

A questa fanno da cornice, in apertura, l'Antipurgatorio, e in chiusura il Paradiso terrestre. Costruito specularmente all'Inferno, inteso quindi non più come voragine ma come montagna, anche l'ordine dei peccati risulta capovolto: il cammino di Dante è infatti dal peccato più grave a quello più lieve (ancora una volta la lussuria, ovvero l'amore che eccede nella misura).

Ogni cornice ha un custode angelico, e precisamente gli angeli dell'umiltà, della misericordia, della mansuetudine, della sollecitudine, della giustizia, dell'astinenza e della castità; in ogni cornice, inoltre, gli espianti hanno sotto agli occhi esempi del loro vizio punito e della virtù opposta. Giunto alle soglie del Paradiso terrestre, Virgilio deve abbandonare il poeta; alla guida di Dante si pone il poeta latino Stazio, che lo condurrà nel giardino celeste, dove lo accoglierà Matelda, a sua volta anticipazione dell'apparizione di Beatrice.

Le anime del Purgatorio sono già salve, ma prima di arrivare al Paradiso, per espiare i propri peccati, devono salire il monte come facevano ai tempi di Dante i pellegrini che per far penitenza partivano per Roma o per Santiago de Compostela. Ogni anima deve dunque percorrere tutto il cammino e purificarsi in ogni cornice del peccato corrispondente; ma per facilitare l'incontro con determinati personaggi, il poeta li colloca nella cornice propria del loro peccato più rilevante.

Il Purgatorio ha la funzione specifica di espiazione, riflessione e pentimento, ed è solo attraverso il cammino, quindi il pellegrinaggio verso Dio, che l'anima può aspirare alla redenzione. Questo vale anche per Dante, che all'inizio ha incise sulla fronte sette P, simbolo dei sette peccati capitali; alla fine di ciascuna cornice l'ala dell'angelo guardiano cancella la P indicando così che quella specifica espiazione è compiuta.

Purgatorio - Canto sestoDa Wikipedia, l'enciclopedia libera.

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Sordello da Goito inginocchiato di fronte a Virgilio, illustrazione di Gustave Doré.

Il canto sesto del Purgatorio di Dante Alighieri si svolge nell'Antipurgatorio, dove le anime dei negligenti (quelli che trascurarono i loro doveri spirituali) attendono di poter iniziare la loro espiazione; siamo nel pomeriggio del 10 aprile 1300 (Pasqua), o secondo alcuni commentatori del 27 marzo 1300.

Indice

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1 Temi e contenuti 2 Sintesi

o 2.1 Ressa delle anime e efficacia delle preghiere (vv. 1-57)

o 2.2 Abbraccio tra Sordello e Virgilio (vv. 58-75)

o 2.3 Apostrofe di Dante all'Italia (vv. 76-151)

3 Analisi

4 Collegamenti esterni

5 Altri progetti

Temi e contenuti [modifica]

Ressa delle anime e efficacia delle preghiere (vv. 1-57) Abbraccio tra Sordello e Virgilio (vv. 58-75)

Apostrofe di Dante all'Italia (vv. 76-151)

Sintesi [modifica]

Ressa delle anime e efficacia delle preghiere (vv. 1-57) [modifica]

Dante apre il canto facendo un paragone tra un vincitore a zara (gioco di dadi) che dona parte della vincita alla folla che lo circonda per liberarsene e se stesso che ascolta le preghiere delle anime solo per farle allontanare. Poi Dante chiede al suo maestro la funzione delle preghiere per i defunti, il tema era stato già affrontato da Virgilio nell'Eneide, nella quale aveva affermato che le preghiere dei vivi non avevano alcun effetto nell'aldilà. Nel canto, invece, Virgilio afferma che le preghiere abbreviano il periodo di pena delle anime, ma non confuta la tesi da lui espressa nel suo poema, in quanto le preghiere hanno valore solo in un mondo in cui è riconosciuta l'esistenza di Dio, mentre nel mondo pagano non davano alcun effetto perché il destino dei defunti non era controllato dagli dei ma dal fato.

Abbraccio tra Sordello e Virgilio (vv. 58-75) [modifica]

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Virgilio indica a Dante un'anima solitaria che guarda verso di loro: essa potrà insegnare loro la via. I due pellegrini si avvicinano, e Dante è colpito dall'aspetto dignitoso ed austero di quell'anima, che seguiva i loro passi solo con lo sguardo. Virgilio si accosta chiedendo indicazioni sul cammino, ma l'anima invece di rispondere chiede chi siano essi e di che origine. La risposta di Virgilio inizia con la parola "Mantua" ovvero Mantova; è sufficiente questa sola parola perché l'anima esca dal suo atteggiamento di severo distacco: balza in piedi esclamando di essere concittadino di chi gli sta dinanzi. Subito Sordello da Goito e Virgilio si abbracciano.

Apostrofe di Dante all'Italia (vv. 76-151) [modifica]

L'imprevisto abbraccio tra Sordello e Virgilio, nato dalla sola consapevolezza di venire dalla stessa terra, suscita nel poeta un'energica ed amara apostrofe all'Italia del presente (definita serva, luogo di dolore, nave senza guida, bordello): in essa dominano guerre e contese anche fra gli abitanti di una stessa città. Dante esorta l'Italia a cercare lungo le sue coste e poi nell'entroterra se vi sia qualche luogo in cui regni la pace. Eppure Giustiniano aveva dotato l'Italia di leggi appropriate, ma nessuno esercita il giusto potere per farle applicare. Invece si appropriano abusivamente del potere temporale gli uomini di chiesa che non sanno guidare l'Italia, divenuta ormai un destriero ingovernabile. Manca l'autorità dell'imperatore, dato che Alberto I d'Asburgo e suo padre Rodolfo, tutti presi dalle lotte politiche in Germania, hanno trascurato il giardino dell'impero.Dopo aver invocato una giusta punizione sul loro successore Arrigo VII di Lussemburgo, Dante con una violenta anafora invita l'imperatore a venire in Italia e a vedere città per città la devastazione portata dalle lotte civili. Giunge infine a interpellare Cristo stesso, chiedendogli se per caso il suo sguardo non sia rivolto altrove; o forse, aggiunge subito il poeta, in tutti questi mali è nascosto il seme di un futuro bene che però ancora non è comprensibile.Dante conclude l'appassionata invettiva rivolgendosi direttamente a Firenze. Con sarcasmo presenta la sua città come se fosse immune da questi mali; in realtà in essa dominano la superficialità e l'irresponsabilità di cittadini che fanno a gara per avere cariche pubbliche senza capacità o preparazione. Firenze può vantarsi di superare Atene e Sparta, poiché fa leggi tanto sottili da durare a mala pena un mese. Il passato di Firenze caratterizzato da continua instabilità fa apparire la città simile ad un'ammalata che non riesce a trovare una posizione adatta al suo riposo. Quest'immagine di doloroso e costante movimento verrà poi ripresa da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi.

Analisi [modifica]

Come già nell'Inferno e come poi nel Paradiso, il sesto canto è dedicato al tema politico.Mentre nel sesto canto dell'Inferno Dante presenta, in un breve dialogo con Ciacco, Firenze divisa in fazioni e oggetto delle mire di papa Bonifacio VIII, il sesto canto del Purgatorio allarga la considerazione a tutta l'Italia, vista per di più in rapporto con le due massime istituzioni, Impero e Chiesa.Sarà il sesto canto del Paradiso a coniugare l'attenzione sempre viva e polemica ai fatti contemporanei con un ampio excursus storico in cui si inserisce, a darne il significato autentico, la prospettiva provvidenzialistica.Nucleo fondante di tutto il sesto canto del Purgatorio è l'invettiva all'Italia, la più lunga della Commedia nelle sue venticinque terzine. In questa, pronunciata dallo stesso Dante in seguito all'incontro con Sordello da Goito, l'Italia è paragonata ad una nave priva di guida (questo paragone è presente anche nel De Monarchia e nelle Epistole) e ad un cavallo privo di cavaliere (citando il Convivio) in quanto l'Imperatore non si cura di essa concentrando tutta l'attenzione sulla Germania. Per questo motivo sulla stirpe imperiale deve scendere la pena divina. Dante coglie l'occasione per attaccare anche la Chiesa, che interferisce nelle vicende politiche più che occuparsi della materia spirituale che dovrebbe competerle.Alla fine dell'invettiva Firenze viene citata come esempio di corruzione e povertà morale.

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Non bisogna trascurare il fatto che l'apostrofe inizia quasi alla metà del canto, dopo una preparazione graduale: dalla scena affollata dei morti violentemente che chiedono di essere ricordati nel mondo dei vivi, alla spiegazione dottrinale affidata a Virgilio, alla raffigurazione di un misterioso ed altero personaggio, all'improvviso incontro tra due "concittadini" divisi da circa tredici secoli di storia e tuttavia uniti dal semplice nome della loro città.L'invettiva all'Italia (nonché al papa, all'imperatore, a Firenze) trae il suo vigore espressivo dall'uso intenso di figure retoriche: dalle numerose metafore che connotano l'Italia, alle esclamazioni, alle anafore dei vv. 106,109,112,115 e 130,133. Frequenti anche le personificazioni (Italia, Roma, Firenze) sulle quali si innestano domande o esortazioni. Evidente l'uso dell'ironia e del sarcasmo nelle terzine dedicate a Firenze, ma il canto, con l'immagine dell'inferma che cerca invano di calmare le sue sofferenze, si chiude su una nota dolente.

Il canto ottavo del Purgatorio di Dante Alighieri si svolge nell'Antipurgatorio, dove le anime dei negligenti (che trascurarono i loro doveri spirituali) attendono di poter iniziare la loro espiazione; siamo alla sera del 10 aprile 1300 (Pasqua), o secondo altri commentatori del 27 marzo 1300.

Indice

[nascondi] 1 Contenuti

o 1.1 Preghiera del tramonto - versi 1-18

o 1.2 Gli angeli guardiani - vv. 19-42

o 1.3 Nino Visconti - vv. 43-84

o 1.4 Le tre stelle - vv. 85-93

o 1.5 Il serpente - vv. 94-108

o 1.6 Corrado Malaspina - vv. 109-139

2 Analisi

3 Altri progetti

4 Collegamenti esterni

Contenuti [modifica]

Preghiera del tramonto - versi 1-18 [modifica]

È l’ora del tramonto che suscita la nostalgia del navigante all’atto della partenza, come pure un lontano squillo di campane che sembra annunciare la fine del giorno commuove chi ha intrapreso un viaggio. Dante, nel generale silenzio, osserva un’anima che levatasi in piedi con un cenno della mano invita alla preghiera. La stessa, rivolta ad oriente, pare che dica a Dio: - Non mi curo che di

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te! - Poi, seguita dalle altre, intona il "Te lucis ante" in modo così soave da mandare in estasi il poeta.

Gli angeli guardiani - vv. 19-42 [modifica]

A questo punto il poeta, nell'organizzare lo spettacolo degli angeli, invita il lettore a prestare attenzione alla sottile allegoria se vuole cogliere la verità. Vede tutte le anime guardare verso l'alto con un'espressione timorosa e sottomessa, quand'ecco discendere due angeli che brandiscono spade infuocate ma senza punta. Le loro vesti sono verdi come foglie appena nate, così anche le loro ali. Essi si dispongono ai due lati del piccolo avvallamento dove sono raccolte le anime; la penombra permette al poeta di vedere i loro capelli biondi, ma non di distinguere i lineamenti. Sordello informa che le creature celesti vengono dall'Empireo, sede di Maria, a difesa della valle contro il sopraggiungere del serpente. Ma, ignorando da quale parte sarebbe giunta l'insidia demoniaca, Dante si accosta impaurito alle fidate spalle di Virgilio.

Nino Visconti - vv. 43-84 [modifica]

Su invito di Sordello, Dante scende pochi passi e vede un'anima che dà segno di riconoscerlo; malgrado la crescente oscurità, Dante a sua volta lo riconosce : è Nino Visconti di Pisa, giudice, ossia signore, di Gallura, suo amico, e il poeta si rallegra che non si trovi all'Inferno. Nino Visconti, stupito di vedere Dante, gli chiede quando sia morto; il poeta risponde che è ancora vivo, suscitando stupore e smarrimento in Nino e in Sordello. Visconti si rivolge gridando ad un'altra anima (Corrado Malaspina) perché venga a vedere quale miracolo è stato compiuto da Dio. Poi Nino prega Dante di sollecitare, una volta tornato sulla terra, le preghiere di suffragio di sua figlia Giovanna, dato che la madre di lei, vedova di Nino, è ben presto passata ad altre nozze, dimostrando quanto è volubile l'amore femminile. Ma - commenta giustamente risentito - essa dovrà rimpiangere queste nozze con Galeazzo Visconti, che presto sarà esiliato.

Le tre stelle - vv. 85-93 [modifica]

Nel frattempo, lo sguardo di Dante è attratto da tre stelle luminose apparse nel cielo. Virgilio spiega che queste (ovvero le virtù teologali) sono salite al tramontare delle quattro stelle viste al mattino, che rappresentavano le virtù cardinali.

Il serpente - vv. 94-108 [modifica]

Mentre Virgilio dà questa spiegazione, Sordello attira la sua attenzione verso "il nostro avversaro". Dal lato più aperto della valletta viene strisciando tra erba e fiori un serpente, forse proprio quello che diede a Eva la mela. Senza che Dante abbia potuto cogliere l'inizio del loro volo, gli angeli, come sparvieri celesti, muovono veloci verso il serpente, che al solo fruscio delle loro ali fugge; gli angeli subito risalgono in cielo.

Corrado Malaspina - vv. 109-139 [modifica]

L'anima di Corrado Malaspina, che già prima si era accostata a Nino Visconti, continua a fissare Dante durante tutto l'assalto del serpente e la sua cacciata. Quindi, dopo avergli augurato di assecondare con la sua volontà la grazia divina che lo porta verso la salvezza, gli chiede di informarlo, se sa, di ciò che accade in Val di Magra o in Lunigiana dove egli è stato un tempo

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potente. Dice quindi di essere Corrado Malaspina, discendente dell'omonimo signore di Lunigiana, e aggiunge di doversi ora purificare dell'eccessivo affetto verso la propria famiglia.Dante esclama di non aver mai visitato quella zona, ma afferma che certo essa è conosciuta in tutta Europa; continua con un vibrante elogio della fama dei Malaspina, tuttora custodita dai discendenti che si ispirano agli ideali cavallereschi della liberalità e della prodezza. Ciò è tanto più ammirevole perché esempio unico in un mondo che segue la strada sbagliata.Corrado risponde con una profezia: prima che passino sette anni Dante potrà per esperienza diretta confermare questo cortese giudizio. La profezia "post eventum" allude al fatto che Dante troverà ospitalità presso i Malaspina durante l'esilio nel 1306.

Analisi [modifica]

Come dimostra con certezza l'apostrofe al lettore dei vv.19-21, la scena rappresentata nel canto ha un valore simbolico. Essa si ripete ogni sera, in quell'ora particolare in cui più vivi sono i ricordi di ciò che si è lasciato (vv.1-6). Tutte le anime attendono l'avvenimento (vv: 23-24) in un silenzio venato di ansia; sanno che cosa sta per accadere ed è chiaro che questo, benché si ripeta ogni sera, li coinvolge sempre nel profondo.È una scena di tentazione respinta: il serpente, che rimanda con evidenza al tentatore nel Paradiso terrestre, non attacca direttamente le anime ma si limita ad impaurirle; gli angeli, a loro volta, hanno sì la spada, ma spuntata, e muovono contro il serpente senza però colpirlo: è sufficiente il loro muoversi in volo a farlo fuggire.Si tratta dunque di una scena che ha la funzione di rammentare a queste anime, che sono in una condizione di attesa e non hanno ancora iniziato il cammino di purificazione, quanta è la potenza delle tentazioni alle quali sono state sottoposte in terra e come la liberazione da esse avvenga mediante la grazia divina rappresentata dagli angeli. Il momento della sera, nostalgico e intimo, potrebbe divenire occasione di fragilità, non nel senso che queste anime siano ancora soggette a tentazione (sono già salve), ma nel senso di trattenerle in uno stato di ricordo e di legame col mondo terreno mentre devono, al contrario, volgere sempre più lo sguardo e l'animo alla mèta che le aspetta. Tutto questo apre la strada a interpretazioni che vanno oltre il piano psicologico-morale ed investono, ad esempio, il piano dei contenuti politici della Commedia. Dato che le anime sono tutte di principi, ossia di persone investite di potere temporale,

« il mistero sacro trova posto e spiegazione nella teoria dantesca sulle due autorità (i due soli: potere temporale e potere religioso) delegate da Dio a guidare l'umanità verso il raggiungimento degli scopi della vita, la felicità temporale e la beatitudine celeste. Dimentichi del loro compito di garantire la pace, i principi, colpevoli di faziosità nell'esercizio del potere, assistono all'avverarsi della volontà divina: i due angeli custodi dei due poteri cacciano la mala biscia. (...) la sacra rappresentazione segnerebbe la catarsi dell'aspra insistita polemica sulle lotte interne condotta nei canti di Sordello,

predisponendo un clima placato al tema dell'esilio dantesco. »( La Divina Commedia. Purgatorio, a cura di Emilio Pasquini e Antonio Quaglio, Milano, Garzanti, 1988)

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Il tema del ricordo del mondo terreno, che attraversa tutto il Purgatorio e in particolare i primi canti, si intreccia con il tema dell'amicizia, espresso nell'incontro affettuoso tra Dante e Nino Visconti, e con quello della famiglia. I due temi, del resto, sono anticipati nei versi d'apertura del canto. Nino Visconti ricorda con qualche amarezza la moglie, passata presto a nuove nozze; Corrado Malaspina, a sua volta, esprime rammarico per aver amato troppo la sua stirpe e la sua famiglia, ovvero per aver provato orgoglio della sua nobiltà.

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Purgatorio - Canto nonoDa Wikipedia, l'enciclopedia libera.

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Il canto nono del Purgatorio di Dante Alighieri si svolge nell'Antipurgatorio, di fronte alla porta del Purgatorio; siamo nella notte tra il 10 e l'11 aprile 1300 (Lunedì dell'Angelo), o secondo altri commentatori tra il 27 e il 28 marzo 1300, e poi nel mattino dell'11 aprile (28 marzo).

Indice

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1 Temi e contenuti o 1.1 Il sogno di Dante - versi 1-45

o 1.2 Ripresa del cammino - vv. 46-72

o 1.3 La soglia del Purgatorio e l'angelo custode - vv. 73-105

o 1.4 Rito penitenziale - vv. 105-145

2 Analisi del canto

3 Altre immagini

4 Altri progetti

5 Collegamenti esterni

Temi e contenuti [modifica]

Il sogno di Dante - versi 1-45 [modifica]

La concubina di Titone antico, l'Aurora, già s'imbiancava, quando Dante, vinto dal sonno, si assopisce nella valletta dei principi. Durante il sonno, e più precisamente nelle ore precedenti all'alba, quando tradizionalmente i sogni diventano premonitori, in sogno gli appare un'aquila che lo afferra e lo porta verso la sfera del fuoco; come infuocato il pellegrino si sveglia, salvo poi trovarsi agghiacciato dall'improvviso risveglio e dal luogo che appare mutato; come Achille, rapito dalla madre Teti nella speranza di non vederlo morire sotto le mura di Troia, si trova spaesato: senza più la compagnia di Sordello e dei principi, in un'ora e in un panorama assolutamente cambiati, con lo sguardo volto verso il mare.

Ripresa del cammino - vv. 46-72 [modifica]

Virgilio è al suo fianco e subito lo rassicura: durante la notte venne una delle protettrici celesti di Dante, Santa Lucia, che l'aveva portato fino alla porta del Purgatorio mentre lui, Virgilio, le veniva appresso per le sue orme. Rincuorato, Dante riprende il cammino, avvertendo il lettore dell'innalzarsi della materia trattata, sintomo di un complesso simbolismo.

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La soglia del Purgatorio e l'angelo custode - vv. 73-105 [modifica]

Appare ai due viandanti, infatti, una porta con tre scalini (l'uno di marmo tanto lucido da essere uno specchio perfetto, il secondo di pietra nera crepata per lo lungo e per traverso, e il terzo di porfido color rosso sangue), alla guardia della quale sta un angelo dalla spada luminosissima, su una soglia di diamante.

Rito penitenziale - vv. 105-145 [modifica]

Su invito della sua guida, Dante sale i gradini e si getta ai piedi dell'essere celeste, implorandolo con il "mea culpa". Il guardiano con la spada traccia sette "P" nella fronte del questuante, e dal manto color cenere (un attributo davvero inconsueto, simbolo d'umiltà) estrae due chiavi, d'oro e d'argento, spiegando che se la prima è la più preziosa, è la seconda ad essere quella di più arduo impiego. Entrambe ugualmente necessarie, gli furono donate da San Pietro con la raccomandazione di sbagliare piuttosto nell'aprire che nel chiudere. La porta cigolando rumorosamente si apre, e l'angelo, raccomandatosi che non volgano per nessun motivo lo sguardo indietro, li lascia procedere. Un inno di lode a Dio viene loro incontro, accompagnato da un dolce suono, come di un cantar con organi (forse in polifonia, oppure alternando la musica al testo del salmo).

Analisi del canto [modifica]

Un canto dal gusto e dalla scenografia decisamente medievale apre il cuore della seconda cantica, ovvero il Purgatorio propriamente detto. Non è facile, per i lettori moderni, comprendere appieno il fascino suscitato nei contemporanei di Dante dal complicato susseguirsi di simboli teologici e morali che investono il canto anche prima dell'avvertimento dell'autore sulla difficoltà del tema trattato. Del resto, l'allegoria era abituale nella produzione culturale dell'epoca, e in nessun altro modo si sarebbero potuti raddensare i principi della teologia scolastica riguardo al pentimento ed all'espiazione dando contemporaneamente un qualche tipo di movimento al canto.

Forse, per il lettore moderno, l'unica possibilità è quella di arrovellarsi per decifrare il complesso simbolismo dell'episodio narrato, nel dubbio se fosse davvero tutto così comprensibile per i lettori contemporanei della Commedia. Da qui nasce l'asciuttezza di molti commenti, specialmente per la scuola, che si limitano a rubricare in tabelline le immagini forgiate da Dante e la loro probabile spiegazione: l'aquila è forse la Giustizia (sulle cui orme corre la Ragione), forse l'Impero, forse la Chiesa, forse l'unione delle due cose; il risveglio verso il mare e il paragone con Achille sono preannuncio di una grande epopea e di gesti memorabili, a meno che il mare non rappresenti l'immensità di Dio; i tre gradini sono quasi concordemente visti come l'esame di coscienza, la confessione e la riparazione ai peccati; il giudice vestito di cenere, l'Umiltà necessaria ad ogni confessore, con la Grazia divina e con la propria Sapienza apre la porta al perdono celeste, ricordando al penitente i suoi peccati (le sette P)... almeno ufficialmente; persino per quanto riguarda l'inno che conclude il canto, non è ben chiaro se si tratti di polifonia a cappella oppure di una o più voci intervallate a interludi strumentali.

Questi sono solo alcune fra i simboli e solo alcune fra le ipotesi; comunque, molte parti non sono ancora decrittate in modo certo. La narrazione simbolica del cammino di redenzione dell'uomo, ad ogni modo, è certamente il tema del canto e viene svolto in modo partecipe e per nulla banale; l'autore stesso si fa "umilmente" simbolo ed antonomasia dell'Uomo che, accettando di mortificarsi e di piegarsi fiducioso ad un Dio misericordioso, ma dalle vie potenti e misteriose, apre finalmente il suo cammino verso la beatitudine del Paradiso.

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Gli invidiosi, illustrazione di Gustave Doré

Sapia, illustrazione di Gustave Doré

Il canto tredicesimo del Purgatorio di Dante Alighieri si svolge sulla seconda cornice, ove espiano le anime degli invidiosi; siamo nel pomeriggio dell'11 aprile 1300 (Lunedì dell'Angelo), o secondo altri commentatori del 28 marzo 1300.

Indice

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1 Temi e contenuti o 1.1 Gli invidiosi - versi 1-21

o 1.2 Esempi di carità - vv. 22-42

o 1.3 La pena degli invidiosi - vv. 43-84

o 1.4 Sapia senese - vv. 85-129

o 1.5 Colloquio con Dante - vv. 130-154

2 Analisi

3 Collegamenti esterni

4 Altri progetti

Temi e contenuti [modifica]

Gli invidiosi - versi 1-21 [modifica]

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Giunti alla sommità della scala, i due poeti si trovano nella seconda cornice, analoga alla prima ma di raggio minore. Non vi sono immagini o sculture, ma una pietra uniforme di colore "livido". Poiché non appare alcuna anima a cui chiedere la strada, Virgilio invoca il sole come guida al cammino.

Esempi di carità - vv. 22-42 [modifica]

Dopo circa un miglio di cammino, si sentono venire in volo spiriti invisibili che esprimono inviti all'amore. La prima voce ripete volando: Vinum non habent (dall'episodio evangelico delle nozze di Cana); prima che il suono sparisca del tutto, un'altra voce: I' sono Oreste; quindi una terza: Amate da cui male aveste.Virgilio spiega che in questa cornice sono puniti gli invidiosi, e quindi sono stimolati da esempi di carità, virtù contraria all'invidia.

La pena degli invidiosi - vv. 43-84 [modifica]

All'invito di Virgilio, Dante osserva poco più avanti alcune anime, sedute presso la roccia, vestite di manti il cui colore si confonde con la pietra. Dopo poco, ode le invocazioni di quelle anime a Maria e ai santi.Giunto presso di loro, il poeta è turbato e addolorato da ciò che vede. Esse sono rivestite di panno grezzo, si appoggiano l'una alla spalla dell'altra, e tutte sono addossate alla roccia. Sembrano i ciechi che chiedono l'elemosina davanti alle chiese. E cieche sono le anime, dato che hanno le palpebre cucite da un fil di ferro; dalle orribili cuciture trapelano le lacrime. Dante non vuole offenderle nel guardarle senza essere visto, ma Virgilio lo incoraggia a parlare.

Sapia senese - vv. 85-129 [modifica]

Con parole cortesi chiede se vi sia qualche italiano fra le anime; una voce risponde correggendo con garbo le sue parole. Dante si sposta verso l'anima che ha parlato, che attende, e ad una nuova domanda di Dante, rivela se stessa. Di origine senese, si chiamava Sapìa, benché (ironizza amaramente sul suo nome) non fosse savia, dato che godeva del male altrui più ancora che della fortuna propria. Per convincere Dante di questo, racconta che, quando già era anziana e quindi meno giustificabile nella sua "follia", durante la battaglia di Colle Val d'Elsa (1269) pregava per la vittoria non dei suoi concittadini ma dei nemici fiorentini. Quando questo avvenne, esultò e quasi sfidò Dio gridando Omai più non ti temo.Continua ricordando che si pentì solo alla fine della vita, e che sarebbe ancora nell'Antipurgatorio fra i negligenti se un umile artigiano, Pier Pettinaio, non l'avesse ricordata nelle sue preghiere per puro spirito di carità.

Colloquio con Dante - vv. 130-154 [modifica]

Chiede poi a Dante chi sia e come mai parli respirando (cioè sia vivo) e, come intuisce, ci veda. Dante risponde che anche a lui, dopo la morte, toccherà la pena degli invidiosi, ma per un tempo minore rispetto a quella che sconterà per la superbia, pena che teme maggiormente e per la quale si sente già il peso del masso sulle spalle. Aggiunge che l'anima silenziosa al suo fianco è la sua guida, e offre a Sapìa di ricordarla ai viventi perché possano pregare per lei.Sapìa, meravigliata per l'eccezionale condizione di Dante, gli chiede di risollevare la sua fama tra i suoi parenti, ma definisce con una perifrasi (in cui forse risuona una nota di scherno) i senesi come coloro che si sono illusi di trovare un inesistente fiume sotterraneo e di ritrovare la perduta grandezza comprando il porto di Talamone.

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Analisi [modifica]

Il canto è costruito sul tema della cecità, a partire dall'uso dell'etimo di "invidia" (da "in+videre", in latino guardare contro, guardare con ostilità). La vista è tolta con una forma di contrappasso particolarmente penosa, descritta con precisione nei molti particolari e rafforzata dalla similitudine con i ciechi mendicanti alle porte dei santuari.L'assenza di vista sembra riflettersi anche nell'assenza di colore che connota questo girone, uniformemente grigio, anzi "livido", sia nella roccia sia nelle vesti dei penitenti. Quasi spettrale anche l'effetto delle voci che arrivano in volo e subito si allontanano, e dei frammenti di litanie afferrati da Dante prima di vedere, con dolore e compassione, la schiera degli invidiosi.Essi, che in vita ebbero sentimenti ostili e malevoli verso gli altri, ora si sostengono a vicenda: è una manifestazione di quello spirito di carità che, in quanto virtù contraria al peccato dell'invidia, contribuisce alla purificazione delle anime.Anche Dante si riconosce macchiato dall'invidia, ma in misura minore rispetto al peccato di superbia, sul quale ha avuto modo di riflettere percorrendo il primo girone, la cui pena ancora lo tormenta interiormente.Mentre nel canto XI Dante ha incontrato tre diversi personaggi, ora, nel quadro desolato del secondo girone, solo una voce si fa sentire, dapprima con toni cortesi, poi con accenti di pentimento e di gratitudine per chi l'ha aiutata con la sua preghiera. Lo sfondo della vita di Sapìa è ancora una volta la Toscana della seconda metà del Duecento. Qui la città in primo piano è Siena, definita piena di gente vana ossia vanitosa e superficiale, come già nel canto XXIX dell'Inferno (v. 122). Però, tra tanti stolti, ci fu a Siena un modesto artigiano che per pura generosità pregò per Sapìa, così da abbreviarne la sosta nell'Antipurgatorio, dato che essa si era pentita solo sul finire della vita.Nelle parole di Sapìa non manca qualche traccia di ironia, non solo verso i concittadini (vv.151-154), ma anche verso se stessa, come nei vv.109-110 e nel v. 123 dove paragona se stessa al merlo che si illude che sia finito l'inverno quando appare un barlume di sole (come nel detto proverbiale sui giorni della merla).Dell'identità storica di Sapìa si hanno poche notizie: dovrebbe essere nata intorno al 1230; forse fu moglie di Ghinibaldo Saracini, signore di Castiglioncello presso Monteriggioni. Era zia di Provenzano Salvani, che Dante rappresenta nel girone precedente. Nella battaglia di Colle Val d'Elsa i senesi e gli altri Ghibellini, guidati proprio da Provenzano Salvani, furono sconfitti dai fiorentini comandati da Giovanni Bertrand vicario degli Angioini, l'8 giugno 1269.

Purgatorio - Canto sedicesimoDa Wikipedia, l'enciclopedia libera.

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Marco Lombardo, illustrazione di Gustave Doré

Marco Lombardo segue i poeti, illustrazione di Gustave Doré

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Il canto sedicesimo del Purgatorio di Dante Alighieri si svolge sulla terza cornice, ove espiano le anime degli iracondi; siamo alla sera dell'11 aprile 1300 (Lunedì dell'Angelo), o secondo altri commentatori del 28 marzo 1300.

Indice

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1 Temi e contenuti 2 Sintesi

o 2.1 Il girone degli iracondi (versi 1-24)

o 2.2 Marco Lombardo (versi 25-51)

o 2.3 Il libero arbitrio (versi 52-82)

o 2.4 Causa della corruzione umana (versi 82-114)

o 2.5 Chiarimento di Gherardo da Camino (versi 115-145)

3 Analisi del canto

o 3.1 Il tema teologico

4 Altri progetti

Temi e contenuti [modifica]

Il girone degli iracondi - versi 1-24 Marco Lombardo - vv. 25-51

Cause della corruzione morale e politica - vv. 52-145

Sintesi [modifica]

Posizione: Terza cornice.Tempo: Sera dell'11 aprile 1300 (28 marzo 1300 secondo altri commentatori).Spiriti: Iracondi.Pena: Sono avvolti da un fumo denso e scuro. Appaiono loro degli esempi di iracondia punita e mitezza premiata.Contrappasso: Come in vita la loro mente si lasciò offuscare dall'ira, ora la loro vista è accecata dal fumo.Incontri: Marco Lombardo.

Il girone degli iracondi (versi 1-24) [modifica]

Il canto comincia con una similitudine. Il fumo che si trova a dover affrontare Dante all'entrata della terza cornice viene paragonato e reso ancora peggio al buio dell'inferno e di una notte senza stelle oscurata dalle nuvole. Esso è talmente pungente che Dante non riesce a tenere gli occhi aperti e lo paragona ad un panno ruvido. Virgilio si avvicina dunque a Dante e gli offre la sua spalla, raccomandandogli di non perdersi.

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Man mano che avanza, Dante sente delle voci. Capisce che esse stavano pregando l'Agnello di Dio (Agnus Dei) per ottenere pace e misericordia. Il canto era intonato e tutte le voci cantavano in completa armonia, diversamente da ciò che accade in terra. La preghiera è presa dal vangelo di Giovanni: Agnus dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis, dona nobis pacem. Allora Dante, non essendo in grado di vedere nulla, domanda a Virgilio se quelle che ode sono voci. La sua guida gli risponde di sì e gli dice che stanno scontando la pena d'iracondia. Agnello: figura di mitezza, in contrasto con l'iracondia, rappresentante il sacrificio di Gesù. Ira: secondo i padri della Chiesa è diversa dalla passione, che si può domare con la ragione.

Marco Lombardo (versi 25-51) [modifica]

Una voce anonima domanda a Dante chi fosse poiché ha il presentimento che sia ancora vivo (in verità dice "che conti ancora il tempo in mesi", al contrario che in Purgatorio). Virgilio dice a Dante di domandare allo spirito dove si trova la cornice più vicina. Dante si rivolge ad esso iniziando il discorso con una captatio benevolentiae per il fatto che si sta purificando e quindi avvicinando a Dio. Poi gli dice che avrebbe udito cose incredibili se l'avesse aiutato. Lo spirito risponde che, nonostante il fumo denso, avrebbe fatto in modo di aiutarlo comunicando attraverso udito.

Dante racconta che, per volere di Dio, sta viaggiando attraverso il Purgatorio per poi arrivare a contemplare il Paradiso e infine gli domanda chi sia e come raggiungere la cornice successiva. Si tratta di Marco Lombardo, nobile di corte e famoso. Considerandolo una sorta di alter ego gli affida la discussione riguardante il libero arbitrio, l'origine della corruzione nel mondo e il rapporto tra potere temporale e spirituale. Marco Lombardo, che si presenta come conoscitore di quella virtù che oramai non è più presente sulla terra, gli chiede di pregare per lui in Paradiso in cambio.

Il libero arbitrio (versi 52-82) [modifica]

In tutta risposta Dante chiede a Lombardo di confermare un suo dubbio che, se prima era piccolo, ora all'udire delle sue parole è raddoppiato: il mondo ora è privo di ogni virtù, come dichiara Lombardo, e pieno di malvagità. A questo punto Dante lo prega di rivelargli il motivo, in modo tale da poterlo raccontare alla fine del suo viaggio. Infatti c'è troppa confusione a riguardo sulla terra: alcuni ritengono che provenga dall'influsso che hanno gli astri sull'uomo, altri dal libero arbitrio.

Prima di rispondere Lombardo sospira (commiserazione per la situazione umana) e poi geme per aver respirato un fumo così pungente. Incomincia il discorso chiamandolo fratello e dicendo che dalla sua affermazione era apparso chiaro che provenisse dalla terra, poiché essa è cieca (con la ragione offuscata) i viventi attribuiscono la causa di tutto solamente al cielo. Ogni cosa deve per forza derivare da qualcos'altro (filosofia aristotelica). Se così fosse, non ci sarebbe la giustizia divina che premia con la beatitudine chi ha agito bene e con la dannazione chi ha agito male (ragionamento per assurdo, con una premessa che fa giungere ad una conclusione inconcepibile - Boezio).

Poi Marco Lombardo spiega che in realtà gli astri non possono influenzare del tutto l'animo umano, non la parte razionale in particolare (di natura spirituale poiché creata da Dio) e quindi condizionare le decisioni di un individuo (Tommaso d'Aquino). La ragione ci è stata data da Dio per distinguere il bene (lumen-Paradiso) dal male (buio-Inferno) e se viene correttamente domato resiste agli astri (approfondimento con Stazio, canto XXV). Purtroppo la parte sensitiva della nostra anima, essendo legata al corpo, ci fa tendere agli astri.

Causa della corruzione umana (versi 82-114) [modifica]

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Perciò, se il mondo non segue la retta via la colpa è solo negli uomini. L'anima è stata creata da Dio, che l'ha contemplata prima ancora della sua esistenza, e si comporta come una fanciulla, alternando momenti felici e momenti tristi senza motivo. Essa, ignara di tutto tranne di essere stata creata da Dio, si rivolge a tutto quello che le reca più felicità (filosofia scolastica e San Tommaso d'Aquino). All'inizio assapora i piaceri, poi, credendo di non poterne fare a meno, cerca in tutti i modi di raggiungerli se ciò non viene impedito da qualcuno che la rimandi sulla retta via, la via dell'amore. Per questo motivo, per frenare l'impulsività dell'animo e per guidarla verso il bene, sono state inventate le leggi (Imperatore) ed è necessario un supervisore che vegli sulla Chiesa (Papa). Quest'ultimo però "rugumar può, ma non ha l'unghie fesse", ovvero possiede la capacità di interpretazione delle scritture ma non possiede la "dicretionem boni et mali", ovvero non riesce a distinguere il bene dal male. Da qui il popolo, che vede la sua guida nutrirsi di beni terreni, è tentato a seguire il suo pastore, autore della "mala condotta".

Dei tanti uomini buoni che vi erano un tempo ne sono rimasti pochissimi, tutti vecchi, che rimproverano continuamente la condotta di vita dei giovani. Essi sperano di passare presto a miglior vita e sono: Corrado da Palazzo (ambasciatore guelfo di Carlo d'Angiò, noto per la sua virtù), Gherardo (si tratta di Gherardo da Camino, signore di Treviso che, nonostante fosse amico della famiglia dei Donati, viene lodato per la sua virtù da Dante – sarà anche ricordato nel Convivio) e Guido da Castello (guelfo, ancora vivo al momento della stesura dell'opera; ricordato anche nel Convivio), il quale è meglio conosciuto con il soprannome di "semplice Lombardo (leale)".

Lombardo conclude il suo discorso affermando che la Chiesa, se vuole sia il potere spirituale sia quello temporale, che devono restare distinti, è destinata a cadere nel fango e a sporcare se stessa e il suo potere. Dante capisce che era per tal motivo che i Leviti, una delle 12 tribù di Israele, sacerdoti, non potevano ereditare alcun bene materiale. Nel Vangelo secondo Matteo c'è scritto inoltre nolite possidere aurum neque argentum (non procuratevi oro né argento), quindi la Chiesa per Dante deve essere esclusa dal potere temporale. Il potere della Chiesa è legata all'Antico e [[Nuovo Testamento]], quindi al potere spirituale.

Chiarimento di Gherardo da Camino (versi 115-145) [modifica]

Dante domanda chi sia Gherardo, che Lombardo aveva citato poco prima. Avendo riconosciuto dalla pronuncia il luogo di provenienza di Dante, Lombardo trova strano che non conosca Gherardo, noto in Toscana per i suoi rapporti con Corso Donati, in seguito capo dei Neri fiorentini. Non sa come spiegare chi sia se non dicendo che è il padre di Gaia. Poi gli dice Dominus vobiscum,"Dio sia con voi" poiché egli non può più accompagnarli, essendo arrivati al limite della cornice, oltre la quale non gli è concesso andare. Essi vedono in lontananza la luce oltre le tenebre e poi un angelo (davanti agli angeli che custodiscono le cornici gli spiriti non possono comparire se non dopo la purificazione). Poi Lombardo scompare, come aveva fatto improvvisamente Ciacco nell'inferno.

Analisi del canto [modifica]

Il canto sedicesimo del Purgatorio si trova alla metà esatta dell'intera Divina Commedia (Inferno, Purgatorio e Paradiso); infatti, di cento totali, è il cinquantesimo canto.

I primi versi del XVI canto riconducono brutalmente all'atmosfera cupa e buia dell'Inferno, che, tra l'altro, è nominato direttamente al verso iniziale ("Buio d'inferno e di notte privata/ d'ogne pianeto, sotto pover cielo"): Dante e Virgilio si trovano infatti nella terza cornice del Purgatorio, dove scontano la loro pena gli iracondi. La loro punizione consiste nel vagare avvolti da un fumo denso, acre e irritante, che annebbia loro la vista. In loro si osserva il contrappasso poiché in vita furono "accecati" dall'ira.

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Dante stesso è partecipe di questa pena, essendo a sua volta ostacolato dal fumo; l'ira è infatti uno dei tre peccati (assieme alla lussuria e alla superbia) dei quali Dante ritiene di essersi macchiato e che il pellegrino, dopo la profezia della sua venuta in Purgatorio alla sua morte da parte di Caronte (Inf, c. III), condivide assieme ai purganti.

In mezzo alla nuvola di fumo, Virgilio offre la sua spalla a Dante, invitandolo a non separarsi da lui mentre lo guida. Allegoricamente, ciò rappresenta che la Ragione può contrastare e addirittura vincere il sentimento dell'iracondia.

Non potendo distinguere alcunché con la vista, Dante si affida al suo udito, e infatti per mezzo di esso il poeta ode delle voci che, con uguale tonalità, cantano assieme preghiere rivolte alla misericordia e alla pace dell'Agnello di Dio (i loro canti, infatti, iniziano tutti con le parole Agnus Dei). Dopo aver chiesto conferma a Virgilio che le voci udite appartengano a spiriti purganti, Dante ode la presentazione della prima anima di questa cornice: essa (di cui ancora non ci viene presentato il nome) riconosce subito Dante come persona appartenente al mondo mortale, poiché il poeta fende il fumo della cornice con il proprio corpo fisico e parla come se dividesse ancora il tempo in mesi, ossia come fanno gli uomini sulla terra: le anime dell'aldilà sono infatti tutte soggette alla dimensione temporale divina, completamente diversa da quella terrena.

L'anima chiede dunque a Dante chi sia, ed egli, esortato a rispondere da parte di Virgilio, espone una breve captatio benevolentiae (vv. 31-33), invitando l'anima a seguirlo: dopo la risposta affermativa di quest'ultima, Dante racconterà del suo viaggio nell'aldilà infernale e domanderà all'anima quale sia la sua identità. Essa rivela di essere Marco Lombardo, uomo di corte del XIII secolo, conoscitore delle regole del mondo e cultore delle virtù morali. Egli, dopo aver indicato ai poeti la strada corretta per raggiungere la cornice successiva, chiede a Dante, come consuetudine tra le anime purganti, di intercedere per lui con delle preghiere, una volta che sarà giunto in Paradiso. Dante assicura di farlo, e dichiara di avere un duplice dubbio: è l'influsso degli astri o una natura insita nell'animo a controllare le azioni degli uomini, che in quest'epoca (il 1300) sembrano colme di disonestà? Ecco quindi presentato il tema portante del canto, ossia il libero arbitrio, e da qui comincia il discorso teologico di Marco Lombardo.

Il tema teologico [modifica]

Marco risponde avvalendosi della definizione tomistica, appresa da Dante dalla Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino. La teoria afferma, per utilizzare le parole del santo, che "astra inclinant non necessitant", ossia che gli astri danno effettivamente una prima influenza alle azioni umane, ma la volontà personale può vincerla: infatti, Dio ha conferito all'umanità la facoltà del libero arbitrio. Dunque, con il famoso ossimoro liberi soggiacete (v. 80) Marco Lombardo spiega che l'uomo, pur essendo soggetto a una forza invasiva superiore a quella astrale, ossia quella divina, ha comunque la possibilità di decidere il meglio per se stesso. Di conseguenza, la causa della corruzione del mondo è da cercare nell'animo umano, e non nel cielo.

L'anima prosegue descrivendo la condizione dell'anima umana che, appena uscita dalle mani del suo creatore, che la pensa amorevolmente prima di darle un'identità, è ignara di tutto e tende naturalmente, come una bambina, verso ciò che le procura gioia: tuttavia, è possibile che ciò sia costituito anche da beni di poco conto, come i piaceri materiali, e quindi è necessaria un'autorità, quella regia, che torca la volontà dell'anima verso mete più nobili, per mezzo di un fren costituito dalle leggi.

Da questo punto in poi, il discorso di Marco Lombardo passa da teologico a politico: l'autorità in questione è corrotta, essendo commissionata a quella papale; poiché quest'unione è forzata (infatti il

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papa detiene a forza il potere temporale), essa è inevitabilmente destinata a produrre conseguenze infauste. Ecco dunque la formulazione della famosa dottrina dei due soli: il potere imperiale e quello papale sono come due soli, ossia sono entrambi voluti da Dio, ma separati e indipendenti l'uno dall'altro. Questa è una ritrattazione della teoria abbracciata inizialmente da Dante, e che espone nel trattato De Monarchia, dove invece parlava di un sole e di una luna: il sole rappresenta il papa, al quale Dio conferisce sia il potere spirituale, sia quello temporale; il pontefice poi conferisce quest'ultimo all'imperatore, simboleggiato dalla luna che, infatti, brilla della luce riflessa del sole.

Segue poi una lode a tre vecchi nella persona dei quali il nobile passato rimprovera aspramente l'incivile presente dantesco: essi sono Corrado da Palazzo, Guido da Castello e 'l buon Gherardo, il quale non è riconosciuto da Dante, che chiede a Marco Lombardo di chiarire la sua identità. L'anima, stupita dalla disinformazione del toscano Dante, risponde di non conoscerlo con altri soprannomi, a meno che non li mutui dalla figlia del personaggio, Gaia. Infine, Marco Lombardo, in vista dell'angelo, si congeda bruscamente dai poeti, e torna alla sua pena d'espiazione.

Purgatorio - Canto diciassettesimoDa Wikipedia, l'enciclopedia libera.

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Il canto diciassettesimo del Purgatorio di Dante Alighieri si svolge sulla terza cornice, ove espiano le anime degli iracondi; siamo alla sera dell'11 aprile 1300 (Lunedì dell'Angelo), o secondo altri commentatori del 28 marzo 1300.

Il canto si può suddividere in due parti principali, entrambi di circa settanta versi: la prima è essenzialmente narrativa, la seconda didascalica.

Indice

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1 Temi e contenuti o 1.1 Visioni di ira punita - versi 1-39

o 1.2 L'angelo della pace - vv. 40-75

o 1.3 Dottrina dell'amore e ordinamento del purgatorio - vv. 76-139

2 Analisi del canto

3 Note

4 Bibliografia

5 Altri progetti

Temi e contenuti [modifica]

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Visioni di ira punita - versi 1-39 [modifica]

Dante inizia descrivendo, come al solito in modo molto attento e curato con tanto di similitudini realistiche con la vita quotidiana, il sole che tramonta sulla montagna del Purgatorio, visto all'uscita della densa nube di fumo nella quale era immersa la terza cornice (cfr. canti XV e XVI). Gli compaiono quindi gli esempi di ira punita, conformemente alla consuetudine secondo cui all'uscita di una cornice vede esempi del peccato che vi si espiava (e all'inizio invece della virtù complementare), che egli vede in visione estatica come gli esempi di mansuetudine.

Il primo esempio è quello di Progne, trasformata in usignolo (secondo il mito in rondine) per essersi vendicata del marito Tereo - che aveva violentato la sorella di lei Filomela - facendogli mangiare le carni del figlio Itis, episodio tratto dalle Metamorfosi di Ovidio.

Il secondo esempio è quello di Aman, ministro del re persiano Assuero (identificato con Serse I), crocifisso per aver voluto uccidere il giusto Mardocheo zio della regina Ester, episodio tratto dal Libro di Ester dell'Antico Testamento (nel quale Aman viene impiccato).

Il terzo esempio è quello di Amata, madre di Lavinia suicidatasi per la rabbia provocatale dalla morte di Turno e dal fatto che quindi la figlia Lavinia dovrà sposare Enea, episodio tratto dall'Eneide XII, ma narrato secondo il punto di vista della fanciulla.

In tutti e tre i casi notiamo come Dante non sia passivo nei confronti delle sue fonti, ma anzi le rielabori con libertà a seconda del particolare significato che vuole loro attribuire o semplicemente per esigenze poetiche.

L'angelo della pace - vv. 40-75 [modifica]

La visione estatica di Dante viene interrotta dal comparire di un essere luminosissimo, più forte della luce del sole: è la luce dell'angelo della mansuetudine, che indica ai poeti la via per salire alla quarta cornice (ove viene espiata l'accidia) e con un battito d'ali toglie dalla fronte di Dante la terza P, cantando la settima beatitudine (dal Vangelo secondo Matteo, V) "Beati pacifici".

I due iniziano quindi a salire, ma arrivati in cima alla scala si devono fermare perché è ormai troppo buio: come aveva spiegato Sordello nel canto VII, con le tenebre non si può proseguire nel cammino di espiazione. Virgilio ne approfitta allora per spiegare a Dante la teoria dell'amore su cui si basa la costruzione morale del Purgatorio.

Dottrina dell'amore e ordinamento del purgatorio - vv. 76-139 [modifica]

Nessuna creatura (cioè nessun uomo), così come il suo Creatore (Dio), fu mai senza amore, amore che può essere di due tipi: "naturale" oppure "d'animo". Nel primo caso esso è istintivo e quindi sempre giusto; nel secondo caso esso è d'elezione, di volontà, cioè scelto dal soggetto: questo amore può quindi essere sbagliato, per tre ragioni diverse: può peccare per "malo obietto", cioè perché rivolto al male, «o per troppo [vigore nei confronti dei beni terreni] o per poco di vigore [nei confronti di Dio]» (Purgatorio XVII,96). Finché l'amore è indirizzato al Primo Bene, cioè a Dio, e si mantiene nei giusti limiti verso gli altri beni, non può errare, ma quando si volge al male oppure eccede la misura (in troppo o in troppo poco), allora la creatura opera contro il Creatore.

Ora, contro chi è rivolto l'amore per il male? Non contro sé stessi, perché nessuno può volere il male di ciò che ama (e si parte dal presupposto che nessuno può odiare sé stesso, cosa a cui hanno obiettato alcuni commentatori ricordando l'episodio dei suicidi che appunto compiono il male su di sé[1]), né contro Dio, dal momento che non si può concepire un Essere diviso dal Primo Essere, cioè

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nessuno può pensarsi diviso da Dio. Ne consegue che, se si ama il male, si ama il male del prossimo, e questo amore del male rivolto contro il prossimo nasce in tre modi:

nei superbi, nasce dal desiderio di sormontare gli altri, e quindi di opprimerli; negli invidiosi, nasce dal timore di perdere fama o potere per il fatto che qualcun altro s'innalzi, e

quindi si rallegra del suo male;

negli iracondi, nasce dallo sdegno per il male ricevuto e quindi dalla sete di vendetta.

Questi tre amori del male sono espiati nelle tre cornici appena passate; ora rimane l'amore che è volto verso il bene ma in modo sbagliato:

c'è l'amore del bene a cui ci si rivolge con pigrizia o con eccessiva lentezza, ed è l'accidia espiata nella cornice nella quale i due stanno per entrare;

c'è infine l'amore che si rivolge con eccessivo impeto al bene terreno, che si espia nelle ultime tre cornici che Dante vedrà in seguito (cioè l'amore rivolto al denaro, espiato dagli avari nei canti XIX, XX e XXI; l'amore rivolto al cibo, espiato dai golosi nei canti XXII, XXIII e XXIV; l'amore rivolto all'amore, espiato dai lussuriosi nei canti XXV e XXVI).

Analisi del canto [modifica]

Esso pone in evidenza la dottrina tomistica dell'amore che è qui esposta, e che si rispecchia nell'ordinamento del Purgatorio: questo canto poi può essere messo in parallelo con l'undicesimo dell'Inferno, dove, pure approfittando di una sosta obbligata, veniva spiegato l'ordinamento morale dell'Inferno. Quest'ultimo si fonda sulle tre disposizioni che inducono l'uomo a peccare, cioè l'incontinenza, la malizia, la bestialità, così come spiega Aristotele nell'Etica Nicomachea; e a questa tripartizione rispondono nel Purgatorio sette cornici, che ovviamente corrispondono ai sette peccati capitali, anche se anche qui si può notare la presenza del numero tre, che si articola in tre amori peccaminosi "per malo obietto" vs tre amori peccaminosi per "troppo di vigore" nei beni terreni, e tra di essi un amore invece insufficiente. L'organizzazione del Purgatorio secondo i peccati capitali è verosimilmente tratta dal Moralia in Iob di Gregorio Magno.

La letteratura umanistica [modifica]

Masaccio, dettaglio della Cacciata di Adamo ed Eva (1424 circa), Cappella Brancacci, Firenze

La letteratura umanistica sposta i suoi interessi dall'etica e la teologia (Divina Commedia) alla figura dell'uomo che utilizza la sua intelligenza per risolvere situazioni in cui nulla può con la forza (Decameron), sviluppandosi poi fino alle commedie di Machiavelli ed alla sua opera politica (Il Principe), in cui l'autore chiarisce che l'artefice della storia è l'uomo e che questa non dipende più da un destino imposto da una divinità.

L'Essere umano [modifica]

L'Umanesimo riscopre l'autonomia umana nell'arte: difatti gli artisti fanno opere non solo sotto richiesta del Papa ma anche di Signori locali e rappresentano esseri umani al posto di figure dogmatiche. Inoltre anche le scoperte scientifiche cominciano ad avere stampo più umano,

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smentendo in molti casi anche quelli che al tempo erano dogmi imposti dalla Chiesa.Uno dei massimi esponenti di questo Umanesimo scientifico è Leonardo da Vinci: costui analizzava e inventava sotto un'ottica umana e "futuristica", ovvero non tenendo particolari appoggio su Dio ma sulle esigenze e previsioni del futuro.

Sotto questo aspetto Masaccio fu un precursore delle tendenze artistiche umanistiche, in quanto i suoi dipinti, pur rappresentando episodi sacri (dato che ancora la maggior parte dei committenti erano enti religiosi), rappresenta i personaggi in modo estremamente realistico, ricollegandosi più a Giotto che ai pittori medioevali in cui la figura umana era idealizzata (e quindi stilizzata), nella Cacciata dal Paradiso terrestre della Cappella Brancacci Adamo ed Eva appaiono urlanti e disperati, invece delle figure inespressive dei secoli precedenti.

Tra i grandi pittori umanisti si può annoverare lo stesso Leonardo, come anche molti artisti celebri (Piero della Francesca, Sandro Botticelli) che si avvalsero delle corti e del mecenatismo dei Signori per ottenere commissioni su opere d'arte. Altro particolare è il fatto che la mente dell'artista umanista di solito è poliedrica, ovvero portata a realizzare opere artistiche coadiuvate da studi su alcune materie scientifiche: esempi sono il Leonardo, che realizzò numerose invenzioni, e Piero della Francesca, che fu un matematico oltre che un pittore.

La bandiera dell'Impero Bizantino

Riscoperta dell'era latino-greca [modifica]

Per riscoperta dell'era latino-greca si intende lo studio dei testi e delle opere d'arte greco-romane, nonché l'ispirazione ad esse. Difatti quella dell'epoca romana viene considerata umanità, ovvero esempio di civiltà adatto appunto per l'Umanesimo.[11]

Determinante fu perciò la caduta dell'Impero Romano d'Oriente nel 1453 (data che si usa anche per indicare la fine del medioevo) sotto i turchi ottomani: centinaia di letterati bizantini fuggirono in Italia, dove portarono numerosissimi testi greci che altrimenti non sarebbero stati recuperabili. Questi testi a loro volta diffusero la filosofia di autori come Platone che ancora non erano pienamente conosciuti e studiati.[12]

L'opera classica più usata dagli umanisti fu forse il Codice giustinianeo, scritto da Giustiniano I (il più antico fondamento delle attuali leggi), dal quale poterono ricavare oltre che un Codice civile anche una buona base di studio delle lingue antiche.

Il ruolo dell'Uomo [modifica]

Pico della Mirandola

Secondo Burckhardt, la nuova percezione dell'uomo e del mondo che gli stava intorno sarebbe stata molto diversa da quella dei secoli precedenti. Il singolo individuo sarebbe stato ormai visto come un soggetto unico in tutto il creato, in grado di autodeterminarsi e di coltivare le proprie doti, con le quali potrà vincere la Fortuna (nel senso latino, "sorte") e dominare la natura modificandola. Celebre è l'affermazione attinta dal mondo classico homo faber ipsius fortunae («l'uomo è artefice

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della propria sorte»), che venne ripresa anche nell'orazione De hominis dignitate di Pico della Mirandola, una sorta di manifesto del pensiero dell'epoca, dove l'uomo è presentato come "libero e sovrano artefice di se stesso", con la potenza divina relegata ormai sullo sfondo[3].

La valorizzazione di tutte le potenzialità umane è alla base della dignità dell'individuo, con il rifiuto della separazione tra spirito e corpo: la ricerca del piacere e della felicità mondana non sarebbe più rivestita di colpevolezza e disonestà, ma anzi elogiata in tutte le sue forme (De voluptate, Lorenzo Valla)[3]. Nuovo valore verrebbe dato ora alla dialettica, allo scambio di opinioni e informazioni, al confronto. Non a caso la maggior parte della letteratura umanistica ha la forma di un dialogo, esplicito (come nel Secretum di Petrarca) o implicito (come le epistole), dove è al centro la fiducia nella parola e nella collaborazione civile[3], sebbene la vita associata fosse una caratteristica già dell'epoca comunale.

Francesco Petrarca

Questa nuova concezione si sarebbe diffusa con entusiasmo, ma, basandosi sulle forze dei singoli individui, non sarebbe stata priva di lati duri e angoscianti, sconosciuti nel rassicurante sistema medievale. Alle certezze del mondo tolemaico, si sostituirono le incertezze dell'ignoto, alla fede nella Provvidenza si avvicendò la più volubile Fortuna e la responsabilità dell'autodeterminazione comportava l'angoscia del dubbio, dell'errore, del fallimento. Questo rovescio della medaglia, più sofferto e spaventoso, si ripresentò ogni volta che il fragile equilibro economico, sociale e politico veniva meno, togliendo il sostegno agli ideali[3].

Burdach tuttavia mette in rilievo come i concetti di rinascita e rinnovamento di sé fossero una prerogativa già del Medioevo, ad esempio del ravvivamento religioso che si era avuto con Gioacchino da Fiore e Francesco d'Assisi, mirante a riscoprire la dimensione interiore dell'individuo. Con Petrarca e Ficino rifiorisce anche quello spirito neoplatonico che era emerso già nel Duecento con Bonaventura. Non ci sarebbe quindi nessun respingimento di Dio, ma anzi dei fermenti di forte rinnovamento religioso, contrariamente all'immagine paganeggiante che ne viene data da Burckhardt. La fede cristiana nel Dio che si fa uomo non aveva mai portato, peraltro, ad uno svilimento delle prerogative umane neppure nel Medioevo. Nel Rinascimento vero e proprio si avrebbe soltanto un desiderio di riscoperta rivolto maggiormente verso se stessi. L'ascetismo medievale, che pure aveva conosciuto numerose forme di vita collettiva, fu una prerogativa anche del Rinascimento, ad esempio dello spirito rinnovatore di Savonarola e di Lutero.

« La mistica immagine della Rinascita e della Riforma aveva vissuto, sotto entrambi i suoi aspetti, attraverso tutto il Medioevo [...] ora, dopo lo slancio religioso del XII secolo [...] dopo Gioacchino, Francesco, Domenico, dopo l'illimitato flusso di entusiasmo religioso, quell'immagine si muta nell'espressione di un sentimento e di un bisogno di tipo puramente umano, che dapprima empie di sé solo singoli individui, poi anche ampi circoli, ed al quale si mischiano la esigenza e l'immaginazione

della fantasia, dell'anima sensibile. »(K. Burdach, Dal Medioevo alla Riforma)

Il ruolo della società [modifica]

Erasmo da Rotterdam, fra i più illustri letterati dell'epoca

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La consapevolezza di questi temi era comunque patrimonio di una élite ristretta, che godeva di un'educazione pensata per un futuro nelle cariche pubbliche. Gli ideali degli umanisti però erano condivisi dalla maggiore fetta della società borghese, soprattutto perché si riflettevano nella prassi che si andava definendo. Gli stessi intellettuali provenivano spesso dalla società artigiana e mercantile, già impregnati degli ideali di etica civile, pragmatismo, individualismo, competitività, legittimazione della ricchezza ed esaltazione della vita attiva[3].

Gli artisti erano pure partecipi di questi valori, anche se non avevano un'istruzione che poteva competere con quella dei letterati; nonostante ciò, grazie anche alle opportune collaborazioni e alle grandi capacità tecniche apprese sul campo, le loro opere suscitavano un vasto interesse a tutti livelli, annullando le differenze elitarie poiché più facilmente fruibili rispetto alla letteratura, rigorosamente ancora redatta in latino [3] .

Manierismo (letteratura)Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

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Per Manierismo si intende, nel linguaggio della storiografia più recente, quell'insieme di correnti, di manifestazioni, di gusti letterari, che rappresentano il passaggio tra la cultura rinascimentale e quella propria dell'età barocca.

La grande fioritura letteraria rinascimentale si svolse soprattutto nei primi decenni del Cinquecento e si può considerare sostanzialmente conclusa all’inizio del pontificato di Paolo IV (1555).

Le forme rinascimentali andarono esaurendosi negli ultimi decenni del secolo, quando una lenta trasformazione condusse alle soglie della nuova civiltà barocca del XVII secolo. Questi decenni furono dominati dalla Controriforma cattolica, che influenzò tutte le attività pratiche e anche la cultura.

Indice

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1 Quadro storico o 1.1 Letteratura

o 1.2 Bibliografia

2 Voci correlate

Quadro storico [modifica]

Dopo il concilio di Trento (1545-1563), che portò a una sistemazione del contenuto dogmatico e della disciplina della sua gerarchia, la Chiesa si volse sia alla conquista missionaria dei territori extraeuropei, sia al tentativo di ridestare nell’Europa cattolica il rigore morale e religioso.

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L'opera di difesa e restaurazione fu essenzialmente conservatrice. La Chiesa, timorosa del pericolo incombente della Riforma, cercò di imporre una nuova severità di costumi e di frenare ogni manifestazione di libero pensiero, imponendo un'ortodossia rigorosa, ricorrendo al tribunale dell'Inquisizione e all’appoggio del potere politico.

Un doppio autoritarismo, religioso e politico, gravò per molti decenni sull'Europa, segnando il temporaneo declino dello spirito di tolleranza, di libera e spregiudicata ricerca che era stata la manifestazione più significativa della civiltà rinascimentale.

In Italia gli uomini di cultura si piegarono, generalmente, alle esigenze della Controriforma, molto spesso per convenienza. La Chiesa cercò di conciliarsi con la cultura umanistica, inquadrandola in una solida visione religiosa, come aveva cercato di fare anche nel passato.

In realtà, la civiltà rinascimentale italiana aveva ormai perso la sua creatività e si stava adagiando in uno stanco ideale di decoro formale. Ogni autentico interesse ed entusiasmo erano ormai tramontati ed anche l'arte da sorgente viva della coscienza, si cristallizzava in un classicismo formale, fondato su una minuta, e pedante precettistica.

La letteratura era ormai legata all’accademia, cioè a una ristretta minoranza intellettuale, che non era riuscita a diffondere gli ideali rinascimentali. Si veniva così a sancire il trionfo della forma sul contenuto, dell'eleganza raffinata sulla realtà.

Il risveglio religioso voluto dalla Chiesa si attuò solo parzialmente e, d'altra parte, le limitazioni imposte alla libertà di pensiero impedivano che si realizzasse un intimo rinnovamento. Peraltro, la rinnovata religiosità riportava nelle coscienze il senso del peccato e del limite umano. Un senso di insicurezza e di fragilità dominava ormai la nuova visione dell'uomo, che si sentiva soggetto al flusso alterno e cieco della sorte. Tale concezione, già presente nel Guicciardini, si approfondì drammaticamente nel Tasso, per poi trapassare nella civiltà barocca del Seicento.

Letteratura [modifica]

La letteratura di questo periodo è caratterizzata in primo luogo da un'estrema e raffinata elaborazione formale, spesso fine a se stessa e dalla tendenza a giustificare la propria opera mediante trattati di arte poetica, nei quali, mentre l’autore cerca di dimostrare la piena regolarità dell'opera stessa, secondo i precetti arbitrariamente desunti dalla "Poetica" di Aristotele, esprime anche un senso di fastidio verso le regole ed un bisogno, solo esteriore, di originalità.

Altro elemento essenziale ed anch'esso contraddittorio, è il proposito moraleggiante, in ossequio alla Controriforma, unito alla preoccupazione del parlare ortodosso. Si tratta però, quasi sempre di un ossequio esteriore: prevale, in realtà, un'ispirazione sensuale sotto il conformismo di spiriti inclini all'ipocrisia e al compromesso.

Le modalità espressive del Manierismo concedono allo scrittore la possibilità di esprimersi più liberamente, non dovendo più seguire quell’ossessione per la misura, che inevitabilmente restringeva i limiti dell’invenzione artistica. Nelle opere si respira un sentimento di irrequietezza. Il dettaglio diveniva l’oggetto principale dell’opera. È come se esaurite le possibilità artistiche l’uomo non potesse che rifugiarsi nella foga del dettaglio insignificante, nel mancato desiderio di un progetto grandioso. Ma non è una resa incondizionata, piuttosto è una rincorsa caotica e affannata al dettaglio, al bizzarro, all’inusuale, una sorta di caccia al significato. È un periodo di crisi, specialmente per l’Italia, che, al di là della corte papale vive il suo distacco dalla storia. È il senso di

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crisi, quasi di stanchezza, che spinge l’uomo verso questa dimensione di profondo disequilibrio, a cavallo tra la misura ancora classica del Rinascimento e la stravaganza del Barocco.

In Torquato Tasso (1544–1595), il dissidio culturale e letterario di quest'età assunse un più profondo e drammatico carattere interiore. Nel filosofo e poeta Giordano Bruno (1548- 1600), la crisi del pensiero rinascimentale si risolse nella ricerca di una nuova sistemazione filosofica anti-aristotelica, nell’affermazione della libertà di pensiero ed in una rivolta al conformismo che gli costarono la vita. Un altro autore considerato manierista è (Giovanni) Battista Guarini, la cui più famosa opera poetica, la tragicommedia Il pastor fido, è seguita e preceduta da un'ampia ricognizione intorno al valore dei generi letterari.

Letteratura baroccaDa Wikipedia, l'enciclopedia libera.

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Con letteratura barocca si intende quell'insieme di scrittori e correnti letterarie comprese tra la seconda metà del '500 e il '600.

Indice

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1 La Controriforma 2 Artisti e correnti

3 Caratteri generali

4 Critica

5 La commedia dell'arte

6 Note

7 Voci correlate

La Controriforma [modifica]

Sulla letteratura barocca, in particolare su quella italiana, ebbe una fortissima influenza la Controriforma, che tramite la congregazione del Sant'Uffizio, impose pesanti restrizioni riguardo agli argomenti che potevano e non potevano essere trattati, stilando ogni anno l'Indice dei libri proibiti. Fra i libri che ne fecero parte si ricordano quelli di Giovanni Boccaccio, Giordano Bruno (poi condannato al rogo nel 1600), Tommaso Campanella.

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Artisti e correnti [modifica]

Per approfondire, vedi la voce Marinisti.

Per quanto riguarda la produzione lirica, la maggior corrente barocca, chiamata concettismo, è certamente rappresentata in Italia e in Europa dal marinismo, corrente guidata da Giovan Battista Marino, che in Spagna assume la definizione di gongorismo, capeggiato da Luis de Argote y Góngora, in Francia di preziosismo con Vincent Voiture tra i massimi esponenti, in Inghilterra di eufuismo grazie alle opere di John Lyly e alla metafisica di John Donne. Sul piano estetico la lirica del barocco tenta di superare, grazie ad una sintesi, la dicotomia rinascimentale tra i sostenitori di un'arte pedagogica, rappresentati da Alessandro Piccolomini e Giulio Cesare Scaligero, e quelli a favore di un'arte edonistica, appoggiati da Antonio Riccoboni e Battista Guarini.[1]

Caratteri generali [modifica]

In questo periodo, data la pesante influenza della controriforma, l'intellettuale non può scrivere quello che vuole poiché metterebbe in pericolo se stesso e chi lo sostiene. L'intellettuale del '600 ha una forte personalità e ha tanto da dire ma non può fare altro che scrivere del "nulla". Si potrebbe però pensare che sia facile scrivere in merito ad argomenti marginali (esempi sono l'elogio dell'occhio umano, del telaio, trattati sul galateo, trattati vari ecc.), in realtà non è affatto così. Infatti i letterati di questo periodo, si esprimono con un linguaggio raffinatissimo, sono abilissimi versificatori, ed è proprio questa la grandezza di questi autori. La straordinaria elaborazione artistica è in realtà un grido di dolore degli intellettuali, poiché non possono scrivere ciò che vogliono. Il loro lavoro si basa perciò sulla capacità del lettore di andare oltre la scrittura, oltre al significato letterale di ciò che legge. Questa letteratura si distingue dal precedente manierismo perché è una letteratura sperimentale, grazie ad essa si sperimentano nuove forme di letteratura, che apriranno la strada all'illuminismo.

La letteratura barocca si oppone alla tradizione rinascimentale basata su regole codificate, come la regolarità, la misura, l'equilibrio, proponendo invece la ricerca del meraviglioso, la libera invenzione, il gusto del fantastico. Le forme pastorali e mitologiche utilizzate a tal scopo, indicano da una parte il tentativo di approfondire il mondo fantastico come specchio del reale ma anche dell'inverosimile, e dall'altra invece la formazione di una nuova realtà mondana che non è capace di penetrare autenticamente nel tessuto di costume.[1] A causa delle scoperte scientifiche, geografiche che alterano la dimensione del mondo e del cosmo noto, viene alterato l'equilibrio presente nel Rinascimento tra uomo e universo. Di conseguenza la letteratura barocca tende a manifestare il senso di precarietà e di relativismo delle cose note e dei loro rapporti. Non è un caso che la meraviglia, posta come canone estetico dalla poesia, e la metafora esprimano le perdite di certezze e di una natura fissa degli oggetti del mondo, sostituite da apparenze ingannevoli. Quindi le due facce della letteratura barocca sono sia la ricerca di una realtà sempre più sfuggente ed imprecisa, sia la manifestazione di una chiara delusione per il mondo concreto, e di una necessità di evadere verso un mondo illusorio.

Critica [modifica]

Nonostante il grande successo ottenuto tra i contemporanei, la critica successiva (a partire dagli arcadici) ha solitamente svalutato la letteratura barocca, accusandola di eccessi stilistici e retorici, nonché di eccessiva lascivia e definendola decadente. L'800 e buona parte del '900 hanno proseguito lungo questa scia critica, ma nella seconda metà del '900 si è assistito a un progressivo

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recupero della letteratura barocca, ad opera di alcuni importanti critici come Giovanni Getto, Marzio Pieri e Giovanni Pozzi.

La commedia dell'arte [modifica]

Per approfondire, vedi la voce commedia dell'arte.

La commedia dell'arte, nata in Italia nel XVI secolo e rimasta popolare sino al XVIII secolo, era una modalità di produzione degli spettacoli in cui la rappresentazione era basata su un canovaccio (che forniva una narrazione di massima indicativa di ciò che sarebbe successo sul palco). Spesso le rappresentazioni erano tenute all'aperto con una scenografia fatta di pochi oggetti.

Questo tipo di teatro era sostanzialmente improvvisato e prevedeva l'uso di maschere e quindi di personaggi fissi (Pulcinella, Pantalone, Balanzone ecc.).

Inoltre, all'interno di questo tipo di commedia erano previsti veri e propri scontri linguistici, dati dalla mescolanza di parlate regionali di ciascun personaggio, dando così origine ad un vero e proprio pluirilinguismo. La commedia dell'arte trovò una vera e propria nemica nella chiesa riformata, la quale osteggiò un tipo di rappresentazione che si riteneva blasfema, dove gli interpreti erano animati da forze diaboliche, pericolosi turbatori della vita religiosa.