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Dal karate per gioco al karate per passione 1 Dal karate per gioco al karate per passione Tesi per l’esame di 4°Dan Di Piantanida Alberto

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Dal karate per gioco al karate per passione

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Dal karate per gioco al karate per passione

Tesi per l’esame di 4°Dan

Di

Piantanida Alberto

Dal karate per gioco al karate per passione

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Indice

1. Introduzione 3

2. Il primo approccio 4

3. La prima difficoltà: il kiai 7

4. Imparare per raggiungere un obbiettivo 9

5. Il passaggio di grado 13

6. Le gare come mezzo per confrontarsi 16

7. Gli stage come mezzo per crescere 20

8. La ricerca della precisione 23

9. Il karate come stile di vita 26

10. Conclusioni 29

Dal karate per gioco al karate per passione

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1. Introduzione Dopo quasi vent’anni di pratica, spesso mi trovo a ripensare a quando per la prima

volta ho indossato un gi e alle motivazioni che mi hanno spinto ad avvicinarmi a

questa arte marziale.

Oggi il mio atteggiamento verso il karate, verso il dojo e verso il mio sensei, è

sicuramente completamente diverso da quello che poteva essere all’inizio del mio

percorso.

Lo spirito stesso con il quale affronto ogni allenamento è differente,

fondamentalmente credo di poter dire che sono cambiate le motivazioni che ancora

oggi mi spingono a continuare su questa strada.

Vedere crescere tecnicamente, oltre che anagraficamente, diversi atleti, vederne altri

abbandonare dopo pochi mesi o pochi anni o al raggiungimento di determinati

traguardi, mi ha fatto riflettere su quale possa essere il motivo che spinge alcuni a

fare del karate la propria vita, o almeno parte di essa, ed altri ad essere solo di

passaggio.

Ogni persona che pratica karate ha la sua storia da raccontare, la cultura, l’età e il

periodo sociale in cui vive ne condizionano la scelta iniziale, ma se non si riesce a

porsi ogni volta dei nuovi obbiettivi, a trovare nuovi stimoli in quello che si fa, ben

presto si abbandona il karate perché non più in grado di rispondere alle nostre

esigenze che nel frattempo sono cambiate.

Quello che vorrei cercare di fare in queste poche pagine, è mettere in luce quello che

è stato il mio personale percorso evolutivo, il passaggio dal “karate per gioco“ al

“karate per passione”, analizzando quelli che sono stati i principali cambiamenti nel

mio modo di allenarmi e di apprendere.

La mia trattazione non ha certo lo scopo di insegnare qualcosa a qualcuno, ma mi

piacerebbe comunque che potesse essere utile a chi si trova in quella condizione di

indecisione tra il diventare un vero karateka e rimanere una meteora di passaggio in

questo fantastico mondo delle arti marziali, affinché possa capire che vale veramente

la pena di continuare.

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2. Il primo approccio

Mi sono iscritto per la prima volta ad un corso di karate nel lontano 1989.

Avevo 12 anni e volevo a tutti i costi fare sport, mi sembrava un bel modo per

divertirsi e fare amicizia.

La scelta delle arti marziali fu puramente casuale, in realtà avevo già provato a

giocare a basket e a calcio ma con scarsi risultati, qualche film alla televisione poi

fece il resto…

Questa è la mia storia, ma se provate a chiedere ai tanti bambini e ragazzi che oggi

praticano le arti marziali, come hanno iniziato, probabilmente otterreste una risposta

molto simile.

Il karate, come tutte le arti marziali, non riveste un ruolo di primo piano nella società

occidentale, in Italia ogni ragazzino cresce con l’idea che lo sportivo per eccellenza

sia unicamente il calciatore.

La televisione e i mass media in generale, contribuiscono ha creare degli stereotipi, il

calcio viene visto come lo sport che consente di ottenere fama, soldi e gloria.

Quando un bambino si trova per la prima volta a dover decidere quale sport

praticare, l’unica guida che spesso ha davanti è la televisione, per tale motivo si

finisce per iscriversi a una scuola calcio, a un corso di basket o al massimo ad un

corso di tennis.

In alcuni particolari momenti la televisione è venuta incontro anche ai marzialisti: la

proiezione di film d’azione con attori del calibro di Chuck Norris, Steven Seagal e

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Jean-Claude Van Damme, ha prodotto negli anni diverse iscrizioni in palestre di

karate, judo e aikido.

Spesso, dunque, è proprio così che si prende una decisione tanto importante come

quella di praticare un’attività sportiva: guardando la televisione e facendosi incantare

da falsi messaggi.

Già! Infatti le aspettative generate dai mass media non corrispondono quasi mai a

quello che in realtà ci si trova davanti una volta che si inizia a praticare lo sport

prescelto.

Nel caso delle arti marziali questo divario è ancora maggiore, spesso ci si iscrive ad

una palestra di karate convinti di poter imparare in pochissimo tempo tecniche che in

realtà richiedono anni di sforzi e perfezionamenti, ma soprattutto, cosa ancora più

grave, spesso ci si iscrive con l’unico obbiettivo di diventare i più forti e poter andare

in giro a dimostrare la propria abilità con la violenza.

Questo è esattamente l’antitesi di quello che deve essere lo spirito del vero karateka,

ma sono cose che si imparano a capire solo col tempo e con la costanza.

Credo che il compito del maestro in questa fase di approccio alle arti marziali, sia

quello di aiutare l’allievo a capire cosa realmente è importante e cosa non lo è, cosa

è vero e cosa è unicamente frutto della propaganda televisiva e cinematografica. Si

tratta di un indirizzamento che è importante trasmettere, è in questa fase che si ha

una prima fondamentale scrematura tra chi capisce e accetta lo spirito del dojo e chi

invece lo rifiuta.

Chi si avvicina per la prima volta ad un’arte marziale, inoltre, non può arrivare da solo

a comprendere certe regole, certi atteggiamenti e certi comportamenti tipici del dojo,

che simboleggiano un richiamo alle antiche tradizioni e al tempo stesso un modo di

dimostrare rispetto e attenzione verso il sensei, verso i compagni di allenamento e,

più in generale, verso la stessa disciplina.

Questo aspetto sembra banale ma molto spesso viene visto come uno scoglio da

parte di coloro che guardano le arti marziali senza conoscerle; quante volte è

capitato di trovarsi nel bel mezzo di una dimostrazione e sentire risate di scherno o

sfottò da parte di ragazzini inconsapevoli di quello che realmente esprime un kiai o il

saho?

Io stesso ricordo che la prima volta che misi piede in palestra, rimasi un po’ attonito

nel sentire di tanto in tanto i miei compagni di allenamento urlare apparentemente

senza motivo e provai un certo imbarazzo quando mi fu chiesto di fare altrettanto.

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Imparare il vero significato del kiai, imparare a non vergognarsi di “urlare” quando

magari intorno a te gli altri ridono inconsapevoli, rappresenta il primo vero passo per

capire il vero significato delle arti marziali e, soprattutto, per capire cosa realmente si

insegna in un dojo.

Da qui a diventare dei veri karateka la strada è certamente lunga e ancora tutta in

salita ma per lo meno risulta chiaro quale essa sia e in quale direzione conduca.

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3. La prima difficoltà: il kiai

Di recente ho avuto la fortuna di partecipare ad uno stage di karate diretto da Shian

Kenneth Funakoshi, discendente del Sensei Gichin Funakoshi.

Al termine dell’allenamento il Maestro ha posto ai presenti, tutte cinture nere, una

domanda apparentemente molto semplice: “Cos’è il kiai?”.

Naturalmente ogni karateka aveva una risposta da dare, frutto di anni di pratica e di

studio del karate.

Le spiegazioni fornite da noi allievi però non erano complete, mancava la vera

essenza, il messaggio principale che deve essere trasmesso e recepito.

Shian Funakoshi ha definito il kiai come lo spirito che fuoriesce dal corpo, lo spirito

che deve essere un tuttuno con la tecnica; un karateka che possiede una buona

tecnica ma non possiede lo spirito giusto, non potrà essere un vero karateka.

Il messaggio che Shian Funakoshi ha voluto trasmetterci è proprio quello dell’unione

tra mente e corpo, un messaggio molto profondo che molto spesso si tende a

dimenticare e che, soprattutto, deve essere compreso fin dal primo momento in cui si

mette piede in un dojo di karate.

Quanto appreso in quella lezione, mi ha fatto riflettere sul modo di vedere e percepire

il karate, ma più in particolare il kiai, da parte di un giovane allievo che si avvicina per

la prima volta ad un’arte marziale.

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Se la stessa domanda fosse stata posta ad una cintura bianca con pochi mesi di

pratica, cosa avrebbe risposto?

Probabilmente avrebbe semplicemente detto che il kiai non è altro che l’urlo che

viene fatto durante un’esercitazione o in particolari momenti all’interno di un kata.

Per questo motivo il kiai ha rappresentato per molti, me compreso, il primo vero

scoglio da superare, il primo concetto difficile da assimilare.

Che differenza c’è tra un normale urlo e questo famoso kiai?

La prima cosa che ci viene insegnata è che il kiai è la massima espressione della

potenzialità che l’atleta riesce ad esprimere durante l’esecuzione di una tecnica.

Tale potenzialità però deve essere accompagnata da uno stato psichico di

particolare concentrazione.

Il kiai dunque rappresenta l’unione tra corpo e mente.

Per i principianti si tratta di concetti difficili da comprendere e che verranno assorbiti

solo con il tempo e attraverso l’allenamento assiduo. Inizialmente il kiai viene

effettivamente sostituito da un urlo puro e semplice in quanto proviene solo ed

esclusivamente dalle corde vocali e non implica alcun tipo di concentrazione, tuttavia

il continuo esercizio consentirà di migliorarsi sia sul piano tecnico che psicologico

fino ad arrivare ad ottenere “l’unione dell’energia vitale”… o almeno una sua piccola

parte.

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4. Imparare per raggiungere un obbiettivo

In tutti gli sport tipicamente occidentali, l’obbiettivo principale di ogni atleta è quello di

poter partecipare a competizioni agonistiche e riuscire ad ottenere dei risultati.

Nel corso degli anni si impara un metodo di allenamento, si migliora la tecnica o

magari si studiano particolari schemi da sfruttare in gara per poter vincere.

Un atleta dunque fin da subito ha ben chiaro quale possa essere il suo percorso.

Il calciatore, il giocatore di basket o il nuotatore, continueranno a praticare il proprio

sport preferito finchè il fisico glielo consentirà, o fintanto che la passione per questa

attività resterà tale.

Per le arti marziali il ragionamento è totalmente diverso.

Da quando mi sono iscritto per la prima volta ad un corso di karate molti anni fa, mi

sono reso conto che di volta in volta cambiavano quelli che erano i miei obbiettivi, le

motivazioni che mi spingevano ad andare oltre.

È evidente che la passione ha sempre il ruolo predominante, tuttavia per come è

strutturata un’attività come il karate, è facile giungere in determinati momenti della

propria carriera e sentirsi in qualche modo arrivati.

Chi comincia per la prima volta a giocare a pallone, non sarà certo un campione ma

sa fin da subito come funziona il gioco del calcio, sa benissimo che la palla deve

essere calciata e che l’obbiettivo è mandarla in rete, magari non conosce nel

dettaglio tutte le regole ma di certo ha già determinate nozioni.

La stessa cosa si può dire, bene o male, per tutti gli altri sport diffusi nel nostro

paese.

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Per le arti marziali però non è così, chi mette piede per la prima volta in un dojo non

ha la minima idea di che cosa significa eseguire una particolare tecnica o di cosa sia

veramente un kata.

Ogni giorno è necessario impegnarsi non solo per diventare forti e migliorare, ma

anche per apprendere qualcosa di nuovo, qualcosa di completamente sconosciuto.

Come ho già accennato in questa trattazione, molte volte i film d’azione visti alla tv

contribuiscono a far crescere il numero di iscritti alle palestre di arti marziali, queste

persone però si trovano spiazzate quando si rendono conto veramente che le arti

marziali rappresentano un mondo molto più complesso ed articolato rispetto a quello

che immaginavano.

Il percorso da seguire è lungo e a volte molto difficoltoso, per tale motivo risulta

importante porsi degli obbiettivi che vanno raggiunti per poi porsene di nuovi ed

andare avanti.

Quando si è alle prime armi si impara per emulazione, osservando i compagni di

allenamento, le cinture nere e, in generale, chi ha più esperienza.

È evidente però che non si può pretendere di raggiungere subito determinati livelli di

abilità, è necessario lavorare per gradi.

Forse anche per questo motivo sono state introdotte le cinture colorate, per definire

degli obbiettivi a più breve respiro.

Naturalmente ognuno ha stimoli diversi che lo portano a superare determinati

traguardi.

In base all’esperienza che ho maturato in questi anni però, credo di poter affermare

che esistono dei passaggi obbligati che, in momenti e con modi differenti,

accomunano molti praticanti di arti marziali.

Potremmo distinguere le seguenti fasi:

• Fase della scoperta

• Fase della crescita tecnica

• Fase della consapevolezza

• Fase della maturazione

Ogni suddivisione si distingue dalle altre per gli obbiettivi che ci si pone.

Naturalmente il raggiungimento o meno di ognuno di questi traguardi e la capacità di

porsene di nuovi, garantisce o meno il passaggio alla fase successiva. Purtroppo non

tutti gli allievi riescono ad arrivare in fondo al percorso.

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Andando più nel dettaglio, potremmo definire la fase della scoperta, come quel

momento della pratica di un’arte marziale in cui ci si rende veramente conto di quale

siano le vere finalità dello sport prescelto e di quali siano le regole che stanno alla

base.

Questa prima fase spesso è forse quella che miete più “vittime”, spesso infatti ci si

rende conto che semplicemente si tratta di qualcosa che non fa per noi, che non

rispecchia le nostre aspettative; coloro che però decidono di proseguire hanno la

necessità di trovare degli stimoli, qualcosa che gli aiuti a superare le difficoltà

nell’apprendere termini, atteggiamenti e tecniche completamente nuovi.

Generalmente è possibile identificare, come obbiettivo principale di questa prima

fase, il superamento di un esame e il conseguimento di un grado superiore.

Il miglioramento avviene come fosse una semplice conseguenza.

La seconda fase è definita come fase della crescita tecnica in quanto l’atleta

comincia a capire l’importanza del proprio miglioramento, si rende conto che il

confronto con i compagni di allenamento non avviene più solo sulla base del colore

della cintura indossata ma anche e soprattutto sull’abilità nell’eseguire determinate

tecniche.

Si scoprono dunque le gare come mezzo di confronto in quanto l’obbiettivo che ci si

pone ora è quello di dimostrare la propria superiorità sul campo, vincendo una gara

di kata o kumite o semplicemente cercando di eseguire un’esercitazione meglio dei

propri compagni di allenamento.

Questa è la fase dove generalmente si ottiene un grande miglioramento ma allo

stesso tempo può nascondere delle insidie.

L’atleta che non riesce ad essere vincente, può demoralizzarsi e credere che questi

risultati negativi siano indice che lo sport scelto non sia quello adatto.

Bisogna cercare di superare queste difficoltà dando maggiore importanza ai

progressi fatti a livello tecnico piuttosto che hai risultati conseguiti in gara.

Se si supera indenni anche la seconda fase, si entra in quella che io ho definito fase

della consapevolezza.

In realtà si tratta di una situazione in cui ci si viene a trovare in età più matura, sia dal

punto di vista anagrafico che di pratica del karate.

L’atleta ormai conosce i propri limiti, sa che si può sempre migliorare e conosce i

sacrifici e gli sforzi che bisogna compiere per crescere ulteriormente dal punto di

vista tecnico.

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Arrivati a questo livello, quello che ci spinge a proseguire diventa la voglia di

migliorare per sé stessi.

Il passaggio di grado torna a rivestire una certa importanza ma non come modo per

confrontarsi con gli altri, piuttosto come mezzo per dimostrare a sé stessi che c’è

ancora modo di crescere e migliorare.

Spesso il vero scoglio di questa fase è proprio l’ottenimento della cintura nera, da

molti considerata come un traguardo raggiunto invece che come un punto di

partenza.

L’ultima fase che vado a descrivere è quella della maturazione, in realtà non ne

esiste una successiva semplicemente perché ritengo che si tratti di un periodo senza

fine. Arrivati a questo livello si è fatto del karate il proprio stile di vita.

L’atleta che continua nella pratica, lo fa per sé stesso, il karate fa parte della propria

vita in modi che possono essere differenti da individuo a individuo.

Potremmo definire quest’ultimo periodo anche come fase della specializzazione, è

qui infatti che si sceglie come intepretare il karate, che ruolo dargli nella nostra vita.

C’è chi decide di farne una professione e chi semplicemente lo vede come una

valvola di sfogo, non è più necessario porsi degli obbiettivi specifici perché ormai il

karate è diventato passione.

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5. Il passaggio di grado

Il karate nato ad Okinawa di certo non aveva alcun bisogno di distinzioni di grado, lo

scopo iniziale delle arti marziali era quello di difendersi dagli oppressori, le tecniche

che si tramandavano dal maestro ad una ristretta cerchia di allievi, dovevano essere

tali da garantire la sopravvivenza.

Il karate moderno ha perso questo genere di finalità, Sensei Funakoshi ebbe il

grande merito di portare il karate verso un pubblico più vasto, per tale motivo però fu

necessario in qualche modo adattarlo alle nuove esigenze.

Prendendo spunto da quanto già fatto da Jigoro Kano nel judo, anche nel karate

vennero introdotte le cinture colorate.

Oggi il passaggio di grado, l’ottenimento di una nuova cintura, sono tra i primi

obbiettivi di chi frequenta un corso di karate.

Una volta superato l’impatto iniziale, quello che spesso spinge ad andare avanti,

almeno inizialmente, è la voglia di indossare una nuova cintura.

Si tratta di un riconoscimento agli sforzi fatti ma anche di un modo per dimostrare a

sé stessi e agli altri di aver superato un traguardo.

Credo che il passaggio di grado sia l’elemento principale che fa sì che molti atleti alle

prime armi decidano di proseguire il loro cammino nelle arti marziali.

Il raggiungimento della cintura nera è l’obbiettivo di chiunque decida di frequentare

un corso di karate e il superamento di ogni esame intermedio assume un valore

psicologico non indifferente, è come se si stesse percorrendo una strada e di volta in

volta si avesse la sensazione di essere sempre più vicini alla meta.

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Credo inoltre che si debba valutare anche il valore educativo che il passaggio di

grado comporta. Il fatto di avere un obbiettivo da raggiungere, e il sapere che il

superamento di questo traguardo richiede un determinato livello di conoscenze, fa si

che l’allievo si senta invogliato a seguire con attenzione ogni lezione, o almeno

questo è quello che è successo a me, inoltre ogni passaggio di grado porta con sé

nuove conoscenze, un nuovo “mattone” nella costruzione di quello che sarà il nostro

karate.

È importante che l’allievo non veda però la nuova cintura ottenuta unicamente come

un punto di arrivo, bensì come un punto di partenza verso un nuovo traguardo

ancora più impegnativo e al tempo stesso stimolante.

Spesso è proprio di quest’ultimo aspetto che ci si dimentica, soprattutto arrivati a

gradi elevati.

Credo che il motivo principale di un tale atteggiamento sia da imputarsi a

un’approccio sbagliato dell’allievo nei confronti dell’arte marziale che ha deciso di

praticare.

Una delle prime cose che ci viene insegnata è che il karate non è arma di difesa o

danno, ma non sempre questo semplice concetto viene recepito. C’è chi crede che

aver raggiunto la cintura nera, ad esempio, sia in qualche modo una legittimazione

della propria forza, un modo per dimostrare agli altri di essere il migliore, questo

modo di pensare porta l’allievo a credere di non avere più nulla da imparare ma non

si rende conto invece che purtroppo non ha ancora imparato proprio nulla.

Senza arrivare fino alla cintura nera, anche tra le cinture colorate può capitare di

vedere allievi che credono di essere superiori a coloro che possiedono un grado più

basso, anche se questo fosse vero dal punto di vista della tecnica, e non è detto che

lo sia, di certo esistono ancora molte lacune da colmare. Chi si dedica in maniera

seria al karate, sa benissimo che c’è sempre da imparare, a volte anche da chi ha un

grado inferiore.

Un altro dei concetti fondamentali per un vero karateka è il rispetto per ogni persona,

indipendentemente dal grado e dal ruolo che esso ricopre. Per questo motivo è

importante riuscire a vedere il passaggio di grado come un obbiettivo personale che

non deve però metterci in competizione con gli altri o farci credere di essere

superiori.

Le arti marziali non rappresentano solo un modo per fare dell’attività fisica, devono

aiutare chi le pratica a crescere come persona. Le difficoltà incontrate, formano il

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carattere dell’individuo e il dover affrontare un esame, il dover dimostrare di avere

acquisito nuove conoscenze, costituiscono un mezzo per raggiungere anche tale

risultato.

Credo inoltre, che il nostro atteggiamento sul tatami, rispecchi anche il nostro

comportamento nella vita di tutti i giorni e viceversa.

Più si progredisce nello studio del karate e più si migliora anche nella vita, è compito

del sensei ma anche degli allievi più alti in grado, insegnare a coloro che praticano

karate da meno tempo ad applicarsi con dedizione e costanza e ad affrontare le

difficoltà quotidiane nello stesso identico modo, senza darsi mai per vinti e

soprattutto agendo in maniera corretta.

L’ottenimento di una nuova cintura, dunque, porta con sé anche maggiori

responsabilità verso chi non ha ancora raggiunto lo stesso livello. Responsabilità che

vanno via via crescendo di pari passi con i traguardi superati all’interno del dojo.

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6. Le gare come mezzo per confrontarsi

Così come l’uomo, anche il karate si è evoluto nel corso degli anni.

Come ho già avuto modo di dire più volte in questa mia trattazione, non è possibile

paragonare le motivazioni che spingevano i primi contadini cinesi ad avvicinarsi a

quest’arte marziale, con quelle che oggi fanno si che una persona decida di iscriversi

ad una palestra di karate.

Lo scopo principale del karate degli albori era quello di potersi difendere e di salvarsi

la vita, spesso a scapito di quella dell’avversario. Sorgeva quindi la necessità di

confrontarsi con altri individui e dimostrare in qualche modo la propria abilità,

mettendo in luce le conoscenze acquisite con il duro allenamento.

Sebbene le cose siano nettamente cambiate, ancora oggi la necessità di confrontarsi

con gli altri e di mettere alla prova le proprie capacità rappresenta un passaggio

obbligato nella vita di ogni karateka.

Forse anche per questi motivi, nel karate moderno, oltre alla distinzione per gradi

attraverso l’uso di cinture colorate, sono state introdotte anche le competizioni

sportive.

La gara, se vissuta in maniera corretta, è un’ulteriore fonte di crescita.

Naturalmente il confronto con altri praticanti è possibile ogni giorno all’interno del

proprio dojo, tuttavia si tratta di un confronto limitativo.

Si tratta di persone che seguono gli insegnamenti dello stesso maestro; il modo di

apprendere di ciascuno di noi è differente e ogni persona ha le proprie peculiarità

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che lo portano ad affrontare meglio determinati concetti o ad eseguire meglio alcune

tecniche piuttosto che altre.

C’è da imparare ogni giorno da tutti coloro che si allenano assiduamente con noi,

anche da chi pratica karate da meno tempo, tuttavia il tipo di confronto che una gara

riesce a dare è differente e complementare rispetto a quello offerto dai nostri

compagni.

Dal 1989 ad oggi ho avuto modo di partecipare a diverse gare sia in ambito locale

che internazionale.

Credo che ognuna di queste competizioni mi abbia dato qualcosa.

Osservando gli atleti in gara ho avuto modo di aprire la mia mente, ho capito quanto

fosse fondamentale l’apporto di ciascun sensei nella formazione dell’atleta.

Movimenti che davo per scontato, erano eseguiti in maniera differente da altri

karateka e non per questo risultavano sbagliati o privi di significato.

Ho cominciato a pormi delle domande e a porle al mio maestro, chiedendomi se ci

fosse un’interpretazione corretta e una sbagliata, cercando di capire cosa ci fosse in

realtà dietro a quel determinato movimento che davo per scontato ed eseguivo in

maniera meccanica.

Osservando gli altri ci si rende conto anche dei propri errori e si è in grado di

correggerli.

Sebbene in palestra ogni giorno ci sia modo di migliorare, fin che non ci si rende

conto in prima persona degli sbagli che si stanno facendo, diventa difficile porvi

rimedio. Credo che da questo punto di vista le gare possano aiutare molto.

Personalmente, come agonista, ho vissuto un periodo di transizione nel mio modo di

fare karate. Inizialmente nella palestra a cui sono iscritto si praticava un karate più

sportivo, il passaggio al tradizionale non è certo stato privo di difficoltà.

Sebbene i concetti che stanno alla base siano esattamente gli stessi, in gara le

differenze sono evidenti.

Nel kumite sportivo viene valutata maggiormente la potenza e la velocità della

tecnica, facendo passare in secondo piano alcuni “dettagli” inerenti la sua forma.

Passando al tradizionale mi sono trovato in grosse difficoltà i primi tempi, proprio

perché non curavo quei particolari.

Ricordo che i problemi principali che mi sono trovato ad affrontare erano:

• Il mawashi geri portato con haisoku anziché con koshi

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• Uraken uchi che non bloccavo al bersaglio ma che eseguivo in maniera

“frustata”, ottenendo quasi sempre un torimasen per snap-back

• Le tecniche di tzuki seguite immediatamente da ikite del braccio stesso che

aveva eseguito la tecnica, che non venivano assegnate per mancanza di

forma (tachi).

• Il tallone alzato nel momento in cui la tecnica arrivava al bersaglio.

Questi ed altri errori sono riuscito a correggerli proprio grazie alle gare, osservando

gli altri atleti e impegnandomi al massimo in palestra.

Probabilmente se non avessi fatto l’agonista non avrei modificato il mio modo di far

karate o ci avrei comunque messo molto più tempo.

Il fatto di non vincere una gara per un punto non assegnatomi su una tecnica non

eseguita secondo i criteri del karate tradizionale, ha fatto si che io capissi i miei errori

e lavorassi a fondo per correggerli.

Penso inoltre che un altro elemento da non sottovalutare sia quello psicologico.

Affrontare una competizione non è come allenarsi in palestra con gli amici di tutti i

giorni.

La tensione della gara, la voglia di dare il massimo per ottenere una vittoria, sono

elementi che vanno affrontati con la massima attenzione.

Spesso ci si allena duramente ma quando si mette piede sul tatami di gara ogni

sforzo fatto risulta vano perché l’emozione ha la meglio.

Se dal punto di vista tecnico si ha modo di crescere e di migliorare, lo stesso si può

dire per quanto riguardo l’aspetto mentale.

Il controllo delle emozioni è parte integrante del carattere di ogni persona e pertanto

non è semplice agire su tale fattore.

Tuttavia è possibile lavorare sul modo con cui si affronta una competizione e sulla

reazione al risultato finale, sia esso positivo o negativo.

Imparando ad accettare ogni decisione arbitrale, ogni prestazione ottenuta, col

tempo si impara ad affrontare meglio la gara stessa, senza aver paura del confronto

con gli altri.

Diventare un grande karateka vuol dire anche essere umili ed è questo che le gare

devono insegnarci.

Da un paio d’anni ho avuto modo di affrontare una competizione anche da un altro

punto di vista, quello arbitrale.

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Non si tratta di un compito semplice e richiede sicuramente grande responsabilità e

attenzione.

In tale veste ho avuto modo di rendermi conto del ruolo che ancora una volta ha il

sensei nei confronti dei propri allievi. Egli non è solamente una guida tecnica ma

anche e soprattutto un esempio.

Se il maestro non controlla le proprie emozioni e non è in grado di accettare il

giudizio arbitrale, giusto o sbagliato che sia, è inevitabile che anche il suo allievo farà

altrettanto.

Credo pertanto che un buon maestro si vede in ogni occasione e forse anche grazie

a questo generi di eventi, e osservando il modo di agire e di comportarsi degli altri

partecipanti, si riesce a crescere psicologicamente oltre che tecnicamente.

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7. Gli stage come mezzo per crescere

Il confronto con gli altri aiuta a formare l’individuo, se questo vale nella vita di tutti i

giorni, a maggior ragione vale nelle arti marziali; tuttavia non bisogna dimenticare

che se si vuole davvero crescere dal punto di vista tecnico e culturale in una

disciplina complessa quale il karate, non bisogna essere limitati ma è necessario fare

più esperienze possibili.

Se ci si limita a frequentare il proprio dojo senza varcarne mai i confini, si potrà

certamente migliorare ma il nostro apprendimento sarà in qualche modo finalizzato a

fare di noi delle copie del sensei che ci guida, quello che impariamo in ogni lezione

sarà frutto della conoscenza del nostro sensei e della sua interpretazione del karate.

Un vero karateka però deve arrivare a costruirsi il proprio karate, e ciò è possibile

solamente con uno studio più allargato, ampliando i propri orizzonti e scoprendo altri

modi di insegnare e di interpretare il karate.

Per questi motivi credo che frequentare stage o allenarsi con atleti di altre palestre,

sia il mezzo più semplice ed efficace per far crescere il nostro karate.

Tutto questo naturalmente non deve essere inteso come un modo per abbandonare

gli insegnamenti del proprio maestro o farci credere che quella persona non ha più

nulla da insegnarci. A volte può addirittura capitare che seguire corsi esterni al nostro

dojo di appartenenza ci faccia comprendere maggiormente quanto insegnatoci dal

nostro sensei.

Lo scopo principale di uno stage deve essere quello di osservare più nel dettaglio

alcuni particolari di una tecnica o di un kata e cercare di farli nostri anche grazie agli

allenamenti successivi nella nostra palestra.

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Spesso, semplicemente per questioni di tempo, ci si allena limitandosi ad imitare

movimenti visti e rivisti più volte da atleti più esperti, senza capirne realmente

l’efficacia e senza chiederci a cosa serva quel determinato passaggio. Durante uno

stage invece i concetti più semplici e che diamo per scontati vengono ripresi e

mostrati sotto un’altra luce.

Volendo fare un paragone scolastico, credo si possa affermare che uno stage è una

sorta di ripetizione di una lezione già seguita. Vengono espressi gli stessi concetti ma

ci vengono spiegati in maniera più approfondita in modo da farci capire il significato,

così che il nostro apprendimento non sia basato unicamente sulla memoria.

Quando il karate nacque ad Okinawa, coloro che potevano apprendere la nobile arte

costituivano un gruppo molto ristretto e seguivano ciecamente gli insegnamenti di un

unico maestro, con la diffusione del karate in Giappone, e la sua introduzione nel

sistema di insegnamento scolastico, il numero di allievi crebbe considerevolmente.

I vari maestri erano tutti persone molto stimate e tra di loro c’era un grande rispetto,

non esisteva competizione.

L’allievo era fedele ad un unico maestro ma ciò nonostante c’era la possibilità, in

alcuni casi, che un adepto seguisse prima gli insegnamenti di un sensei e

successivamente o contemporaneamente quelli di un altro.

L’esempio più evidente è proprio quello di Sensei Gichin Funakoshi, egli inizia la

pratica del karate sotto la direzione del Maestro Asato, successivamente sarà proprio

quest’ultimo a consigliargli di seguire anche gli insegnamenti di Sensei Itosu, più

vicino all’ambiente scolastico ed educativo.

Funakoshi dunque conosce due modi di insegnare e praticare il karate totalmente

diversi fra loro, entrambi però contribuiscono alla sua crescita in maniera

complementare.

Le differenze nell’insegnamento del karate da un maestro all’altro erano molto più

accentuate in passato di quanto non lo siano oggi.

Ogni maestro si basava su esperienze dirette, derivanti da combattimenti e vere

situazioni di pericolo in cui ci si era trovati, pertanto il karate era molto legato anche

alla morfologia e alla personalità di chi lo insegnava.

Tornando all’esempio di Funakoshi, egli parlando degli insegnamenti dei suoi due

maestri ci mostra delle contraddizioni nel loro modo di vedere l’arte del

combattimento. Secondo Asato «bisogna considerare le mani e i piedi dell’avversario

come una spada» e di conseguenza evitare ogni contatto, Itosu invece diceva che

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«se l’attacco dell’avversario non è efficace, si può ignorare volontariamente l’effetto

lasciandosi toccare».

Sensei Funakoshi prese spunto da entrambi gli insegnamenti, senza considerarne

uno corretto e l’altro errato, egli capì che era necessario fare tesoro di ogni concetto

impartitogli.

Forse anche grazie a questa semplice contraddizione nel modo di vedere il

combattimento da parte dei suoi due maestri, Funakoshi capì che il karate poteva

essere adatto ad ogni individuo e pose le basi di quello che ancora oggi

identifichiamo come il karate moderno.

Tornando ai giorni nostri dunque è lecito affermare che bisogna fare tesoro di ogni

insegnamento, ogni maestro ha qualcosa da insegnarci senza per questo invalidare

quanto trasmessoci dal nostro sensei.

Partecipare agli stage è quindi il modo migliore per venire a contatto con realtà di

insegnamento differenti, apprendere nuovi concetti o approfondirne alcuni già noti.

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8. La ricerca della precisione

Sebbene le cose da imparare siano moltissime, è possibile arrivare ad un punto della

propria conoscenza del karate in cui ci si sente di essere in fondo alla strada

percorsa.

Anche quando si ha una vasta conoscenza delle tecniche e si conoscono a memoria

tutti i kata, posto che questo momento arrivi, il nostro karate non può comunque

considerarsi completo.

Dobbiamo pensare che ogni informazione giunta ai giorni nostri, è comunque stata

precedentemente elaborata e codificata da qualcuno.

Non esistono informazioni certe e documentate circa la vera origine del karate, si

pensi al fatto che inizialmente si trattava di una pratica che andava tenuta segreta ed

era rivolta a un pubblico molto ristretto e selezionato.

Questi fattori fanno sì che ancora oggi, per alcune tecniche, si ragioni molto ad

interpretazioni, nessuno è il custode della verità assoluta.

Proprio per questo motivo ogni karateka, arrivato ad un certo livello, deve lasciare i

panni del puro automa che copia quanto visto fare milioni di volte dal proprio maestro

o dai propri compagni di allenamento, ed indossare quelli dello studioso di karate.

Con questo naturalmente non voglio dire che ci si debba mettere sui libri e imparare

a memoria la storia del karate o quant’altro, quello che invece è indispensabile è che

si inizi a porsi delle domande, a chiedersi il perché di certe tecniche e di certi

movimenti.

Ecco dunque a cosa mi riferisco quando affermo che bisogna ricercare la precisione.

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Ogni volta che eseguiamo un kata, ad esempio, non è più importante unicamente

eseguirlo con tutti i criteri che ci sono stati insegnati nel corso degli anni, è

necessario arrivare a capirne anche il significato.

La precisione non è unicamente una misura della qualità delle nostre tecniche, bensì

rappresenta un indice di quanto vicini siamo alla corretta interpretazione delle stesse.

Si tratta di uno studio personale che ogni atleta porta avanti in maniera differente, a

seconda della proprie conoscenze e del proprio modo di vedere il karate. È da

questo momento in poi che il karate deve diventare qualcosa di personale.

Fino a non molti anni fa il metodo più utilizzato dai maestri per far apprendere ai

propri allievi le tecniche fondamentali, era la continua ripetizione delle stesse.

Venivano fatte intere sedute di allenamento in cui non si faceva altro che ripetere un

unico movimento.

Per i principianti forse il metodo resta ancora oggi valido ma per una cintura nera ciò

non è sufficiente. La tecnica di certo verrà assimilata ma è necessario che mente e

corpo lavorino insieme, la continua ripetizione farà di noi dei bravi esecutori perché il

nostro corpo sarà abituato ad eseguire determinati movimenti, tuttavia la nostra

mente risulterà svuotata, conoscerà solo una pura sequenza che trasmetterà agli

organi preposti.

Se invece si studia a fondo ciò che si andrà ad eseguire, valutandone le

caratteristiche, le peculiarità, le conseguenze che tale movimento può comportare, si

riuscirà a memorizzare più velocemente quanto trasmessoci e allo stesso tempo si

avrà modo di adattare la tecnica a situazioni differenti in modo da renderla più

efficace.

È in questa fase del mio cammino nelle arti marziali che ho cominciato ad

apprezzare maggiormente le tecniche di goshin-do e i bunkai dei kata, ho cominciato

a vedere ogni movimento non più unicamente come un esercizio fisico, bensì come

una tecnica con una sua finalità.

Il discorso può sembrare abbastanza complesso, fin dai primi allenamenti infatti è

facile intuire l’utilità o meno di una certa tecnica provandola durante un kumite,

tuttavia generalmente durante questo tipo di esercitazioni si sfrutta una varietà di

colpi e di parate ridotta.

I kata, per contro, presentano un bagaglio di tecniche molto più ampio, tuttavia

spesso vengono eseguiti con noncuranza, cercando di essere precisi nell’esecuzione

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ma con l’unico scopo di ottenere il massimo punteggio in gara o dimostrare la nostra

abilità tecnica durante un allenamento.

Se analizziamo più a fondo la storia del karate, scopriamo che in passato i kata

rivestivano un ruolo di massima importanza nella formazione dell’adepto. Il kata era il

mezzo principale per apprendere nuove tecniche e per imparare a difendersi da uno

o più avversari, quanto appreso veniva realmente applicato durante un incontro con

lo scopo di vincere l’avversario e molto spesso salvarsi la vita.

Oggi il ruolo principale del kumite è quello di vincere un avversario in gara, quando ci

si prepara ad affrontare un combattimento si studiano unicamente quelle poche

combinazioni che garantiscono una maggiore possibilità di ottenere un punto, anche

in base alle nostre caratteristiche fisiche.

Perdendo questo legame diretto con il kumite, il modo migliore per capire a fondo un

kata è quello di studiarne il bunkai.

Le interpretazioni possono essere molteplici ma di certo ognuna di esse ci consente

di avvicinarci maggiormente a quello che è il vero significato di ogni parata e di ogni

colpo.

Allo stesso modo, le tecniche di difesa personale hanno un riscontro immediato con

la realtà e ci aiutano a capire la reale efficacia di una tecnica.

Da un certo punto di vista potremmo dire che oggi sono proprio queste ultime ad

avere un maggiore legame col passato.

Così come un tempo si imparava il karate per difendersi dagli oppressori, oggi si

impara il goshin-do per difendersi dai malviventi.

Esattamente come allora dunque, l’efficacia di un colpo e il significato che ha un

determinato movimento, rappresentano un elemento di primaria importanza che

spesso riesce a determinare la nostra incolumità.

Una volta appreso quello che il karate ha da offrirci a livello fisico e psicologico, è

importante capire come sfruttarlo al meglio.

Non è più primario capire come si esegue una tecnica ma il perché si agisce in quel

modo.

Ricercare la precisione in tal senso, significa capire come perfezionare ogni tecnica

per raggiungere la massima efficacia in funzione della sua applicazione reale.

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9. Il karate come stile di vita

Quando iniziai a praticare il karate, non avevo la minima idea di cosa avrebbe

significato per me.

A distanza di molti anni posso dire che quest’arte marziale mi ha dato moltissimo e

non solo dal punto di vista fisico.

Il karate è realmente diventato il mio stile di vita, tutti i principi che il mio maestro ha

saputo insegnarmi nel corso di ogni singolo allenamento, hanno contribuito a formare

il mio carattere.

Il rispetto per gli altri, l’umiltà, la disciplina e la lealtà, sono alcuni tra i concetti più

importanti che il karate ha contribuito a far crescere in me.

Imparare le arti marziali significa imparare a rapportarsi con gli altri.

Chi non conosce le arti marziali pensa che siano sinonimo di violenza e che essere

un buon karateka significhi essere una persona pericolosa, che sa come difendersi e

con la quale è bene non avere un diverbio.

In realtà imparare il karate significa proprio imparare a non battersi, a non essere

violenti e a rispettare il prossimo.

Difficilmente questi concetti riescono a passare al mondo esterno, a volte purtroppo

non vengono compresi neanche dai praticanti.

La comprensione degli aspetti filosofici legati al karate, deve diventare parte

integrante della crescita dell’adepto.

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Un vero karateka, perciò, non è colui che sa vincere ogni avversario con le tecniche

più pericolose, ma colui che sa vincerlo senza combattere.

Credo che il modo migliore per descrivere il karate è attraverso i 5 precetti definiti nel

dojo kun:

1. Il karate è mezzo per migliorare il carattere

2. Il karate è via di sincerità

3. Il karate è mezzo per rafforzare la costanza dello spirito

4. Il karate è via per imparare il rispetto universale

5. Il karate è via per acquistare l’autocontrollo

Si tratta di concetti trasmessici da Sensei Gichin Funakoshi, che ancora oggi devono

essere considerati fondamentali nella formazione di ogni praticante.

La comprensione del dojo kun ha la stessa importanza che possiamo attribuire al

perfezionamento delle tecniche, non è possibile progredire nel karate tralasciando

uno di questi due aspetti.

Analizzando più in dettaglio i singoli punti è possibile trarre alcune conclusioni: chi

pratica karate deve affrontare le proprie difficoltà interiori, i propri difetti e le proprie

ansie, con la stessa tenacia con cui affronta l’esercizio fisico e le difficoltà del mondo

esterno; migliorare il proprio karate dunque significa anche migliorare il proprio

carattere e rafforzare il proprio spirito.

Quando si parla di sincerità ci si riferisce all’atteggiamento che il karateka deve avere

nei confronti del proprio maestro e dei propri compagni di allenamento, significa

riconoscere i propri sbagli e lavorare per correggerli accettando ogni consiglio.

L’umiltà, dunque, acquista anch’essa un ruolo fondamentale, perché solo restando

umili si riescono a riconoscere i propri errori e, anche quando si è ormai raggiunto un

alto livello tecnico, si continua a lavorare come se fosse il primo giorno.

Un altro elemento fondamentale è il rispetto, Funakoshi però parla espressamente di

rispetto universale e non si riferisce dunque unicamente al rispetto che deve

necessariamente esserci all’interno del dojo; il karate deve insegnare il rispetto

universale, ovvero verso tutto e verso tutti, sia dentro che fuori dal dojo.

Attraverso questo precetto, dunque, il Sensei ci fa capire che lo spirito del vero

karateka deve essere sempre presente, in qualsiasi situazione.

Il dojo kun mette in luce il forte legame che deve esistere tra l’apprendimento delle

tecniche e l’esercizio fisico, e ciò che ha a che fare con lo spirito e con l’aspetto

filosofico.

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Se è vero che è possibile progredire dal punto di vista tecnico solo finchè il fisico ce

lo consente, è anche vero che lo spirito deve essere allenato senza sosta.

Anche chi ha acquisito una certa padronanza delle tecniche, potrà sempre crescere

come karateka perché il suo spirito può essere allenato e perfezionato senza alcuna

limitazione anche in età più avanzata.

Per finire, l’ultimo precetto esplicita in maniera precisa proprio il concetto di non

violenza, in antitesi con quanto viene spesso immaginato da chi non conosce il

mondo delle arti marziali.

Imparare l’autocontrollo significa essere in grado di dominare i propri istinti e di

evitare comportamenti violenti.

Il dojo kun esprime dunque una sorta di vademecum del vero karateka, agire

seguendo questi precetti fa di noi degli atleti migliori ma anche e soprattutto delle

persone migliori.

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10. Conclusioni

Con questa mia breve trattazione ho voluto descrivere quello che è stato il mio

personale percorso nel mondo del karate, aggiungendo quelle che sono le mie

riflessioni e il mio atteggiamento nei confronti di un’arte marziale che ha saputo

insegnarmi molto di più di un semplice esercizio fisico.

Naturalmente la mia trattazione non ha l’obbiettivo di essere esaustiva.

Avendo cominciato a frequentare il dojo all’età di dodici anni, il mio percorso

formativo è stato differente da quello dei tanti bambini di 6-7 anni che spesso

affollano le nostre palestre.

Esiste sicuramente anche una componente ludica che in tenera età non va

assolutamente sottovalutata.

Le problematiche affrontate però penso possano accomunare tutti coloro che si

dedicano a quest’arte marziale, semplicemente saranno differenti i tempi in cui esse

si presenteranno.

Durante i molti anni passati in palestra, ho visto cambiare il mio modo di fare karate e

il mio desiderio di apprendere. Sono infatti cambiati i miei interessi e le mie esigenze

e questo mi ha portato a costruire un mio personale percorso di crescita, che mi ha

consentito di raggiungere i livelli attuali e di migliorare come persona.

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Credo che chi insegna karate ha un compito estremamente gravoso perché deve

essere prima di tutto una guida per i propri allievi, non deve limitarsi ad insegnare

una tecnica ma deve fare in modo che capiscano i veri precetti del karate, aiutandoli

a crescere come persone e a portare il karate nella vita di tutti i giorni.

A tal proposito vorrei approfittare di queste poche righe per esprimere tutta la mia

gratitudine verso il mio sensei che ha saputo trasmettermi, oltre alle sue conoscenze

tecniche, la sua grande passione e la sua visione di questa stupenda arte marziale.

I ringraziamenti però, vanno anche a tutti coloro con cui ho avuto la fortuna di

allenarmi o con i quali ho condiviso esperienze di stage o gare, perché ogni giorno

c’è sempre modo di imparare qualcosa o semplicemente di migliorare, e ogni

persona ha qualcosa da insegnarci, sia esso una cintura bianca o un importante

maestro.

Il karate per me è nato in un dojo nel lontano 1989 ma da allora mi accompagna in

ogni momento della mia vita.