delle relazioni internazionali -...
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L’EUROPA, LA SOVRANITA’ NAZIONALE E LA COSTITUZIONALIZZAZIONE
DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI
Guido Montani
Professore di Politica economica internazionale
Università di Pavia
1. La Costituzione europea e la sovranità nazionale
Il progetto di Costituzione europea, approvato dai governi europei nel 2004, non è detto che
entri in vigore. Tuttavia, il processo di costituzionalizzazione dell’Unione europea, apertosi con la
convocazione della Convenzione europea, non è destinato a chiudersi con questo episodio. Dopo
l’allargamento, l’Europa non può fare a meno di una Costituzione, a meno che si intenda
trasformare l’attuale Unione in una sorta di Lega delle Nazioni, cioè un grande mercato senza
alcuna coesione sociale e politica. La Costituzione europea rappresenta dunque un utile punto di
riferimento per una riflessione sulla sovranità nazionale e sul futuro dell’Europa. Se si vorranno
superare gli ostacoli che impediscono ulteriori progressi verso l’unità politica dell’Europa, la
comprensione della trasformazione in corso delle relazioni “internazionali” tra gli Stati europei in
relazioni “costituzionali” non solo è opportuna, ma necessaria.
Nella Costituzione europea non si parla di sovranità nazionale. Gli Stati europei sono presi in
considerazione semplicemente come Stati membri dell’Unione. La sovranità nazionale viene fatta
valere dai governi degli Stati membri attraverso il diritto di veto. Nei settori, quali la politica estera,
dove i governi nazionali possono imporre il veto, il Parlamento europeo e la Commissione vengono
automaticamente esclusi dal processo decisionale europeo. Il problema della sovranità nazionale è
dunque l’altra faccia della medaglia del deficit democratico dell’Unione europea, che la
Costituzione europea attenua, estendendo l’area dei poteri di codecisione legislativa del Parlamento
europeo, ma non risolve. Una riflessione sul processo di costituzionalizzazione delle relazione tra
Stati europei può contribuire a sfatare il mito della sovranità nazionale, che ostacola l’ultima fase
della costruzione europea, quella riguardante la creazione di un governo europeo dell’economia e
della politica estera e della sicurezza.
L’espressione “costituzionalizzazione delle relazioni internazionali” è una generalizzazione
della “costituzionalizzazione del diritto internazionale”, più volte discussa da Jürgen Habermas.
Tuttavia, parlando di relazioni internazionali, si vuole evitare di lasciare nel vago la questione, alla
quale Habermas non dà una risposta precisa, dell’unificazione politica dell’umanità, dunque di un
governo federale mondiale,1 di cui l’Unione europea rappresenta una prima significativa tappa. La
costituzionalizzazione delle relazioni inter-europee, a partire dal secondo dopoguerra, dimostra non
solo che il diritto internazionale si sta progressivamente trasformando in diritto costituzionale
europeo, ma che lo stesso processo coinvolge sia l’economia, la cui integrazione ha consentito la
trasformazione di un insieme di sistemi autarchici in un mercato interno unito da una sola moneta,
1 Nella prefazione alla raccolta di saggi contenuta nel volume Tempo di passaggi (Milano, Feltrinelli, 2004), J.
Habermas scrive che “siamo ancora lontani da una politica interna del mondo che faccia a meno di un governo
mondiale” (p. 7). Anche nel suo libro più recente, Der gesplatene Westen, Frankfurt am Main, Surkamp Verlag, 2004
(trad it. L’Occidente diviso, Bari, Laterza, 2005), nel saggio dal titolo “La costituzionalizzazione del diritto
internazionale ha ancora una possibilità?”, Habermas non chiarisce se un governo federale mondiale sia auspicabile e
possibile in una prospettiva storica. In alcuni scritti, Habermas si dichiara eurofederalista, ma non si definisce mai
federalista mondiale. Pertanto, resta anche dubbia l’interpretazione di Habermas del pensiero politico di Kant. Sebbene
alcune sue singole affermazioni possano essere interpretate in senso confederalista, Kant deve essere considerato come
un punto di riferimento essenziale del pensiero federalista per il suo costante riferimento al valore della pace, per la
continua condanna della guerra tra Stati sovrani, come uno stadio storico di barbarie dal quale l’umanità deve uscire, e
per la necessità di assicurare la pace grazie ad istituzioni che impediscano agli Stati il ricorso alla forza per la
risoluzione delle loro controversie.
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che la politica, poiché si sta delineando un sistema politico con caratteristiche federali, cioè con più
livelli di governo. In questo senso, sembra legittimo affermare che il processo di
costituzionalizzazione delle relazione internazionali rappresenta l’altra faccia della medaglia del
fenomeno denominato “evaporazione della sovranità nazionale”, oggi discusso anche in relazione al
processo di globalizzazione. Si potrà così mostrare che l’ipotesi, proposta da molti osservatori della
realtà politica europea, che l’Unione europea rappresenti una costruzione sui generis, né
assimilabile al modello confederale né a quello federale, non ha alcun fondamento.
Per rispondere agli interrogativi suscitati dalla Costituzione europea, si propone un approccio
interdisciplinare. Dopo aver sottolineato le caratteristiche innovative della costruzione europea nei
confronti dei tradizionali organismi internazionali, si esamineranno i progressi compiuti sotto
l’aspetto economico, giuridico e politico. L’obiettivo è di contribuire al superamento del dogma
della sovranità nazionale nelle discipline dell’economia internazionale, del diritto internazionale e
della politica internazionale. Il processo di globalizzazione impone alle scienze storico-sociali il
compito di superare il ristretto orizzonte nazionale entro il quale sono nate e si sono sviluppate. Il
loro stesso linguaggio, a volte inconsciamente, assume lo Stato nazionale sovrano come un’entità
eterna e insuperabile. Al contrario, poiché ogni disciplina teorica si preoccupa di definire valori,
leggi e dottrine di portata universale, il punto di vista cosmopolitico deve rappresentare l’orizzonte
entro il quale collocare il futuro degli individui, dei popoli e delle nazioni.
2. La fondazione della Comunità europea e l’inizio del processo costituente
La necessità di fondare l’unità europea su principi differenti da quelli che avevano condotto al
fallimento la Lega delle Nazioni era ben presente nell’animo di Jean Monnet, l’ideatore del progetto
della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Monnet aveva sperimentato
personalmente, come funzionario della Lega delle Nazioni, l’impossibilità di organizzare
pacificamente le relazioni tra Stati che non intendono cedere alcun potere ad un organismo
sovranazionale. “L’organismo internazionale – osservava Monnet – non può né decidere, né
eseguire, ma solo inviare raccomandazioni agli Stati”.2 Pertanto, quando, nel clima incerto, ma
gravido di speranze, del secondo dopoguerra maturarono le condizioni politiche per un’iniziativa
che avrebbe reso possibile la pacificazione franco-tedesca, Jean Monnet cercò di superare l’ostacolo
derivante dalla riluttanza francese alla creazione immediata di una Federazione europea,
proponendo un’istituzione sovranazionale parziale, nel senso che gli Stati nazionali si sarebbero
dovuti impegnare a cedere la loro sovranità solo in alcuni settori circoscritti. “Il metodo scelto –
così lo descrive Jean Monnet, una volta divenuto Presidente dell’Alta Autorità della CECA –
consiste nel delegare a delle istituzioni comuni i poteri sovrani di ciascuna di queste sei nazioni. A
questo scopo, un Trattato è stato negoziato tra le sei nazioni, sottoscritto dai loro governi e
sottoposto alle ratifiche dei sei parlamenti”.3 Il “principio fondamentale” della costruzione
comunitaria è dunque rappresentato dal trasferimento di poteri sovrani dagli Stati nazionali ad
istituzioni di “tipo federale”, che devono pertanto essere considerate sovranazionali. Questo
“principio fondamentale” è spesso dimenticato o confuso dall’attuale letteratura internazionalistica,
che persiste nell’errore di classificare l’Unione europea insieme alle altre organizzazioni
internazionali, come l’ONU, da cui differisce in modo sostanziale.
La CECA era costituita da un insieme di istituzioni tipicamente federali. “L’organo esecutivo
è l’Alta Autorità; il parlamento è costituito dall’Assemblea eletta dai sei parlamenti nazionali; vi è
la Corte di giustizia alla quale possono rivolgersi i governi e tutti gli interessati … e, al fine di
armonizzare la politica seguita dalla CECA con le politiche nazionali in altri settori economici,
esiste il Consiglio dei Ministri delle sei nazioni”.4 Si tratta di istituzioni che esistono tutt’ora
nell’Unione europea, anche se hanno un nuovo nome: l’Alta Autorità è diventata la Commissione e
2 J. Monnet, Les Etats-Unis d’Europe ont commencé, Paris, Laffont, 1955, p. 56.
3 Ibidem, p. 52.
4 Ibidem, pp. 53-4.
3
l’Assemblea parlamentare il Parlamento europeo. Non è nemmeno mutato l’equilibrio fondamentale
tra queste istituzioni, sebbene nella storia dell’unificazione europea si verifichino fasi in cui
predomina una o l’altra di esse. Questo fatto non deve stupire. La CECA era stata proposta come
“les premières assises de la Fédération européenne” (come viene definita nella dichiarazione
Schuman del 9 maggio 1950). Jean Monnet è ben cosciente che il cammino da percorrere per la loro
effettiva trasformazione nella Federazione europea sarà lungo. “Tutte queste istituzioni potranno
essere modificate e migliorate con l’esperienza. Tuttavia, ciò che non sarà rimesso in questione
sono le istituzioni sovranazionali, e diciamo la parola, federali”.5 E’ importante sottolineare
quest’ultima affermazione di Monnet, che non era certo afflitto dalla prudenza e reticenza che
dominano gli attuali ambienti comunitari, compreso il Parlamento europeo. Chi vuole comprendere
la realtà non deve rinunciare a denominare le cose con il loro nome. Le istituzioni comunitarie sono
dotate di poteri sovranazionali; dunque esse rappresentano il nucleo federale di un più vasto
processo di integrazione che, all’esterno del nucleo, si fonda ancora sul metodo intergovernativo o
internazionalistico. Oggi, è invece invalso l’uso, politically correct, di definire “comunitario”,
anziché “federale”, il metodo della codecisione legislativa tra Parlamento e Consiglio, e
l’affidamento dei poteri esecutivi alla Commissione. Anche la Costituzione europea si riferisce
esplicitamente al “modello comunitario” (art. I-1, CE).6 Si tratta di una terminologia ambigua che
non contribuisce certo alla comprensione del funzionamento delle istituzioni europee.
L’audace iniziativa di Monnet aprì la via al primo tentativo di dare una Costituzione
all’Europa. Nel clima politico post-bellico, gli ideali di pace e di unità erano talmente radicati nella
popolazione inorridita dai lutti e dalle distruzioni della guerra, che il progetto della CECA non
venne considerato una garanzia sufficiente per evitare nuovi contrasti tra Francia e Germania.
L’inchiostro con cui era stato redatto il Trattato di Parigi non era ancora asciugato, quando si pose il
problema della ricostruzione dell’esercito tedesco. Le truppe americane stanziate in Germania
dovevano essere trasferite sul fronte asiatico, a causa dello scoppio della guerra di Corea. USA e
Regno Unito proposero la ricostruzione pura e semplice dell’esercito tedesco. La Francia era
contraria. Monnet propose, come soluzione alternativa, un esercito europeo. I governi europei
cominciarono così ad esaminare il progetto di una Comunità europea di difesa (CED). Tuttavia, la
creazione di un esercito europeo avrebbe comportato il trasferimento all’Europa di poteri che
avrebbero intaccato la sovranità nazionale in un settore vitale. Era, dunque, impensabile realizzare
un simile trasferimento di poteri nelle mani di un organismo privo di una piena legittimità
democratica. Questa situazione fu subito compresa da Altiero Spinelli che riuscì a convincere De
Gasperi della necessità di dare una base costituzionale alle istituzioni europee. Fu così che i sei
Ministri degli esteri accettarono di affidare, nel 1952, alla Assemblea parlamentare della CECA
(denominata per l’occasione Assemblea ad hoc, per non parlare apertamente di Assemblea
costituente) il compito di redigere lo Statuto (che non si è avuto il coraggio di definire Costituzione)
di una Comunità politica europea.7 Questo progetto, tuttavia, fallì a causa del successivo rifiuto
della Francia.
Il rilancio avvenne su basi più modeste o, meglio, minimaliste. Dall’integrazione politica si
passò a quella economica, con i Trattati di Roma del 1957. Tuttavia, il Mercato comune si rivelò un
progetto vitale. L’economia europea crebbe a tassi molto superiori a quelli medi dell’economia
mondiale e degli stessi Stati Uniti. Progressivamente, le istituzioni comunitarie cominciarono a
giocare un ruolo importante nella politica internazionale, come in occasione del Kennedy Round,
quando la Commissione Hallstein seppe tener testa con fermezza alle proposte statunitensi, che
5 Ibidem, pp.57-8.
6 La Convenzione europea, nel corso dei suoi lavori, aveva proposto esplicitamente il riferimento al “modello federale”,
ma l’opposizione del governo inglese e del governo italiano ha costretto la Convenzione a optare per il più neutro
riferimento al modello comunitario. 7 Sul ruolo di Altiero Spinelli e di Alcide De Gasperi nella vicenda della CED, cfr. M. Albertini, “La fondazione dello
Stato europeo. Esame e documentazione del tentativo intrapreso da De Gasperi nel 1951 e prospettive attuali”, in Il
Federalista, 1977, n. 1.
4
avrebbero potuto minare la coesione comunitaria. La crescente importanza politica della Comunità
europea è ben descritta da Walter Hallstein che sostiene come “la logica delle cose” abbia lavorato
in profondità per far emergere dall’integrazione economica il progetto politico europeo, che i
governi nazionali avrebbero voluto accantonare o rinviare alle calende greche. “Per instaurare la
libera circolazione delle merci, per i prodotti agricoli e industriali – scrive Hallstein in Europa,
Federazione incompiuta – non basta affatto, come certi semplificatori lontani dalla realtà
amerebbero farci credere, aprire i confini. Occorrono piuttosto ampie sovrastrutture comunitarie,
che abbraccino parti essenziali della politica fiscale, della politica di bilancio, della politica
economica e della politica monetaria. … Ciò significa infine che non può più esistere una politica
commerciale nazionale nei confronti degli Stati terzi. La Comunità deve presentarsi al mondo
esterno come un’unità … A questo punto … anche le materie della politica estera e della politica
difensiva, non ancora coperte da alcun atto costitutivo europeo, esigono in misura sempre più forte
una disciplina comunitaria europea”.8
Cercheremo ora di mostrare come la “logica delle cose” abbia incanalato il processo di
integrazione europea verso un progressivo trasferimento di poteri dagli Stati nazionali all’Unione,
provocando così una profonda trasformazione degli Stati europei. La medesima “logica delle cose”
ha costretto il Parlamento europeo a svolgere, sebbene con estrema prudenza, un ruolo costituente9
che si è concretizzato con la convocazione della Convenzione europea. Processo di integrazione e
riforme istituzionali sono in effetti due vie parallele che possono essere analizzate separatamente
per comodità, ma che, nella realtà, sono inscindibili.
3. L’economia europea: dall’autarchia all’Unione monetaria
L’economia europea, prima della catastrofe provocata dalle due guerre mondiali, ha
rappresentato il centro propulsore dell’economia mondiale. Ma la Grande Depressione aveva creato,
o favorito, profonde divisioni nazionalistiche tra gli Stati europei. Ogni Stato aveva cercato la
salvezza in forme più o meno accentuate di protezionismo, sino alla instaurazione di veri e propri
regimi autarchici in alcuni paesi. Nel corso degli anni Trenta, poco o nulla era rimasto dell’ordine
internazionale costruito nel corso del secolo XIX, considerato da molti storici un modello di
liberismo internazionale, anche grazie all’affermazione del Gold standard, il primo sistema
monetario internazionale fondato su una moneta mondiale. Alla fine della seconda guerra mondiale,
esistevano progetti per un nuovo ordine internazionale, come testimoniano gli accordi di Bretton
Woods del 1944, voluti dagli Stati Uniti, ma le economie europee erano di fatto ridotte ad un
cumulo di macerie. Il commercio intra-europeo era caduto a circa la metà di quello dell’età dell’oro
8 W. Hallstein, Der Unvollendete Bundesstaat, Düsseldorf und Wien, Econ Verlag, 1969; trad. it. Europa, Federazione
incompiuta, Milano, Rizzoli, 1971, pp. 25-6. L’idea di Hallstein di una logica delle cose, contrasta con una concezione
del processo di integrazione europea che è ormai molto diffusa e radicata, cioè che l’Unione europea sia una costruzione
voluta dai governi solo per mantenere meglio in vita gli Stati nazionali. Si tratta di una visione unilaterale. Il processo
europeo è più complesso e non si è ancora concluso. Ad esempio, A. S. Milward sostiene che la costruzione comunitaria
fu iniziata per risolvere problemi parziali e che “non vi era alcuna necessaria implicazione dei limitati e ben
programmati atti di integrazione economica che comportasse il superamento dello Stato nazionale in un processo
inevitabile e continuo …. Le testimonianze storiche, in effetti, possono essere invocate a sostegno dell’affermazione
teorica che la validità della CECA, come esempio tra gli altri di una integrazione settoriale, non sta tanto nella sua
pretesa sovranazionalità quanto nella sua extra-nazionalità. Questi organismi furono creati come uno strumento dello
Stato nazionale per fare cose che non sarebbero fattibili altrimenti” (A. S. Milward, The Reconstruction of Western
Europe, 1945-51, Routledge, London1984, 1992, pp. 493-4). La distinzione poco chiara tra sovranazionalità e extra-
nazionalità di Milward non risolve il problema del controllo democratico delle decisioni che vengono prese a livello
europeo e che rappresenta il vero motore della dinamica federalista del processo di integrazione europea. I governi
europei, anche ammesso che abbiano concepito la costruzione comunitaria come un semplice ausilio della
conservazione della sovranità nazionale, sono stati costretti dalla “logica delle cose” ad accettare di passare dalla logica
dei trattati – un patto tra Stati – alla logica della costituzione europea – un patto tra cittadini. Sebbene l’attuale
Costituzione europea non rappresenti ancora un patto democratico per l’istituzione di un governo federale europeo, la
logica delle cose sembra dare più ragione al punto di vista federalista che a quello souverainiste. 9 Sul ruolo del Parlamento europeo nel processo costituente europeo si rimanda all’Appendice.
5
prebellica. Ogni paese era assillato dalla scarsità di dollari, poiché l’esigenza di importare dalla
ricca area del dollaro era molto superiore alla capacità europea di esportare.
In questa situazione di incertezza, di privazione e di paura, poiché l’Europa divisa dalla
cortina di ferro tra Est e Ovest era anche lacerata da aspri conflitti politici e sociali interni ad ogni
Stato, la proposta della Francia alla Germania di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio
apparve come una luce di speranza. Poco prima, con il Piano Marshall e il Consiglio d’Europa, si
era avviata una timida cooperazione europea, ma i rapporti tra Francia e Germania erano decisivi
per il futuro dell’intero continente. L’avvio, seppure a piccoli passi, della pacificazione franco-
tedesca, in effetti, cambiò radicalmente il panorama politico del secondo dopoguerra. Grazie a
questo clima di fiducia crescente tra le grandi nazioni, gli europei ritrovarono la fiducia nel futuro,
la prosperità e la stabilità politica. La CECA fu più importante per i suoi effetti politici, che non per
gli obiettivi economici raggiunti, anche se questi non devono certo essere considerati irrilevanti.
L’industria carbo-siderurgica era allora il fulcro della crescita economica, poiché lo sviluppo del
settore dei beni di consumo di massa (automobili, elettrodomestici, ecc.) sarebbe stato impossibile
senza il sostegno dell’industria pesante.
Dopo il fallimento della CED, la “logica delle cose” cominciò a manifestarsi attraverso il
progetto del Mercato comune, una generalizzazione dell’idea di un mercato comune carbo-
siderurgico contenuta nella CECA. I Trattati di Roma prevedevano che, entro il 1970, i Sei paesi
della CEE avrebbero abolito le barriere doganali al loro interno, creando così un’area europea di
libero scambio delle merci. Contemporaneamente, avrebbero eretto una barriera tariffaria comune,
consentendo all’Europa di agire nell’economia mondiale come una potenza economica. Sebbene
nei Trattati di Roma non si affrontasse apertamente il problema della moneta europea, poiché
tacitamente si assumeva che l’economia europea avrebbe potuto contare sulla stabilità monetaria
assicurata dagli accordi di Bretton Woods e dal protettorato americano, il progetto del Mercato
comune si dimostrò un successo, garantendo all’Europa tassi di crescita superiori alla media
mondiale.
Con il Mercato comune, cominciò a diventare evidente che l’integrazione economica europea
non rappresentava che un aspetto della progressiva denazionalizzazione dell’economia europea. Le
bardature protettive erette nel corso degli anni dal nazionalismo economico, in questo caso le
barriere doganali, vennero progressivamente abbattute. Tuttavia, il progetto del Mercato comune si
dimostrò parziale e inadeguato rispetto alle sfide che l’economia europea doveva affrontare in
quegli anni. In effetti, uno dei pilastri su cui si reggeva il Mercato comune, la stabilità monetaria,
venne improvvisamente a mancare nel 1971, con il crollo del sistema di Bretton Woods dei cambi
fissi. Negli anni Settanta, il processo di integrazione europea, anche a causa della grave crisi
petrolifera, si arrestò. Per la prima volta dal dopoguerra, il commercio intracomunitario cessò di
crescere e i tassi di disoccupazione in Europa, che erano rimasti per circa due decenni a livelli
inferiori a quelli statunitensi, superarono le due cifre. All’instabilità monetaria, si accompagnò
quella finanziaria, poiché i paesi europei, chi più chi meno, cercarono di affrontare i problemi
interni in ordine sparso, attingendo con facilità al debito pubblico, grazie all’illusione creata dal
rallentamento del vincolo dei cambi fissi. Dalla crisi degli anni Settanta, nonostante gli sforzi
compiuti, l’Europa non si è ancora ripresa.
La crisi economica degli anni Settanta ha rivelato una debolezza intrinseca al progetto di
Mercato comune europeo: senza una moneta comune, ogni Stato membro avrebbe avuto la
possibilità di ricorrere a svalutazioni della propria moneta, al fine di rendere competitivi i prodotti
nazionali anche in presenza di costi di produzione delle proprie aziende superiori alla media
comunitaria. In questo modo, si creava un circolo vizioso in cui, alla svalutazione della moneta
nazionale, seguiva un breve periodo di ripresa produttiva, un inevitabile aumento dei prezzi dei
prodotti importati, un aumento dell’inflazione interna e successive rivendicazioni salariali che
avrebbero ben presto fatto aumentare di nuovo i costi di produzione. A questo punto, esistevano
tutte le condizioni per una pressione crescente dell’industria nazionale e dei sindacati dei lavoratori
per un’ulteriore svalutazione della moneta in vista di un illusorio recupero di competitività
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dell’industria nazionale. Si riproponeva così un meccanismo perverso che si era già manifestato
negli anni Trenta. Tuttavia, a differenza degli anni Trenta, esisteva ora in Europa un clima politico
favorevole alla progressiva denazionalizzazione della politica monetaria e dei cambi, anche se il
cammino si dimostrò più lungo e difficile del necessario, a causa dell’incerta volontà dei governi di
accettare la creazione di una Banca centrale europea, con il conseguente superamento delle
sovranità monetarie nazionali.10
Il primo tentativo europeo di reagire all’instabilità monetaria fu rappresentato dal Piano
Werner, del 1971, coincidente dunque con la crisi di Bretton Woods. Questo Piano prevedeva la
creazione di una Unione monetaria europea entro dieci anni. Tuttavia, esso si dimostrò presto
inapplicabile poiché lasciava alla buona volontà delle banche centrali nazionali la decisione di far
convergere i cambi verso una parità centrale, ancora definita dal dollaro. Il rilancio del progetto di
Unione monetaria avvenne nel 1979, con la creazione del Sistema Monetario Europeo (SME).
L’obiettivo a lungo termine era l’Unione monetaria. Nel breve termine, lo SME si proponeva di
conseguire l’obiettivo meno ambizioso di una “zona di stabilità monetaria in Europa”, dunque di un
sistema di cambi fissi (ma aggiustabili) tra le valute europee, in un mondo condizionato dalla
politica dei cambi fluttuanti. Nello SME erano previste procedure vincolanti per eventuali
svalutazioni e rivalutazioni e, soprattutto, si definiva una virtuale moneta europea, l’ECU, composta
da un paniere di monete nazionali, la cui funzione era quella di rappresentare il punto di riferimento
delle parità monetarie (dunque, per la prima volta, si sostituiva al dollaro una simbolica moneta
europea di riferimento). Al termine del processo, come in effetti poi è avvenuto, l’ECU si sarebbe
trasformato nella moneta europea.
Una tappa intermedia verso l’Unione economica e monetaria è consistita nel progetto del
Mercato interno europeo entro il 1992, approvato dai Capi di Stato e di governo con l’Atto Unico
del 1986, come alternativa al progetto di Unione europea proposto dal Parlamento europeo che essi
avevano rifiutato. Con il Trattato di Roma del 1957, si era deciso di creare un’Unione doganale
europea. Ora, con l’Atto Unico, si trattava, secondo i governi europei, di abbattere le barriere
interne anche per quanto riguardava la libera circolazione delle persone, dei servizi, dei capitali e
delle merci (nella misura in cui la loro libera circolazione era intralciata da barriere fiscali,
differente norme a tutela del consumatore, ecc.). Per realizzare questo piano, tuttavia, era necessario
anche riformare la procedura per l’approvazione della nuova normativa, che non sarebbe mai stata
approvata nel tempo previsto se nel Consiglio dei Ministri si fosse mantenuta la regola
dell’unanimità. I governi europei (anche quello della Sig.ra Thatcher) accettarono, pertanto, il
metodo della codecisione legislativa, cioè una procedura che consentiva l’approvazione della
normativa comunitaria quando essa fosse stata approvata da una maggioranza del Parlamento
europeo e del Consiglio dei Ministri. In questo modo, anche grazie al grande dinamismo della
Commissione Delors, la scadenza del 1992 venne rispettata, sebbene diventasse ancora più evidente
che le svalutazioni o rivalutazioni delle monete europee, nonostante lo SME, mettevano
continuamente in discussione l’unità del mercato interno.
Dopo molti anni di esitazione e di rinvii, i governi europei, a fronte dell’emergenza causata
dal crollo del Muro di Berlino e dall’unificazione tedesca, furono costretti a prendere la decisione
finale sull’Unione monetaria. L’unificazione politica della Germania aveva, di nuovo, suscitato i
timori di un’Europa tedesca. La risposta della classe politica tedesca, in particolare del governo
guidato dal cancelliere Kohl fu, al contrario, quella di una Germania europea. A Maastricht, nel
1991, fu decisa la creazione di una Unione monetaria, con una Banca centrale europea a cui i paesi
aderenti avrebbero affidato il potere di decidere la politica monetaria dell’Unione. Il Trattato di
Maastricht conteneva un difetto fondamentale perché, pur accrescendo i poteri del Parlamento
europeo ed istituendo una politica estera e della sicurezza, non riusciva a superare il deficit
10
Per quanto riguarda la denuncia degli effetti perversi delle svalutazioni monetarie nazionali e la necessità di rilanciare
il progetto europeo mediante la creazione di una Unione monetaria, con una Banca centrale europea, cfr. MFE-ME,
L’Unione economica e il problema della moneta europea. La moneta come elemento di divisione o di unità
dell’Europa, Milano, Franco Angeli, 1978.
7
democratico dell’Unione: il diritto di veto veniva mantenuto su questioni essenziali come la fiscalità
europea, la politica interna e quella estera. Tuttavia, nonostante questi difetti politici e nonostante il
difficoltoso processo di convergenza imposto ai paesi candidati all’ingresso nell’Unione monetaria,
finalmente il 1° gennaio 2002 i cittadini europei potevano utilizzare l’euro per i loro acquisti nei
paesi dell’Unione monetaria. Trent’anni dopo il Piano Werner, l’Unione monetaria diventava
realtà.11
Si può tentare di valutare l’importanza della decisione presa dagli europei mediante un
parallelo storico. Se consideriamo l’Unione monetaria insieme al Patto di Stabilità e Crescita (che
fissa criteri prudenziali di governo per le finanze nazionali, ponendo dei limiti ai deficit di bilancio
e al debito pubblico) si può sostenere che l’Unione europea ha realizzato una sorta di Gold
Standard europeo, cioè il sistema monetario e finanziario che si è affermato nell’economia
mondiale nella seconda metà del secolo XIX, grazie all’utilizzo dell’oro come moneta mondiale e a
regole di gestione delle finanze pubbliche nazionali fondate sul pareggio del bilancio pubblico.12
Naturalmente, l’Unione monetaria europea si fonda ora su precise regole istituzionali che
consentono di evitare i difetti del Gold Standard storico. Ad esempio, la moneta in circolazione non
è l’oro, ma una banconota, il cui valore dipende solo dalla fiducia dei cittadini e della finanza
internazionale nella politica monetaria della banca centrale europea, il cui obiettivo esplicito è il
mantenimento della stabilità monetaria, grazie ad una politica anti-inflazionistica. Questo confronto
tra Unione monetaria e Gold Standard è utile per mostrare quanta strada si sia dovuta percorrere per
consentire al mercato mondiale di ripristinare un meccanismo di libero scambio delle merci, dei
capitali e delle persone che si era quasi spontaneamente creato alla fine del secolo XIX, ma che la
follia del nazionalismo ha completamente distrutto nella prima metà del secolo XX.
Inoltre, il parallelo tra Unione monetaria e Gold Standard, suggerisce che a livello europeo
manca un governo europeo dell’economia, proprio come mancava all’economia mondiale del XIX
secolo. Se l’Unione europea vorrà darsi un’efficace politica per la crescita e l’occupazione, non
potrà ignorare il problema di un bilancio europeo di dimensioni adeguate e di poteri effettivi di
tassazione e di indebitamento pubblico, come strumenti europei di politica economica. Oggi,
nell’Unione prevale l’ideologia intergovernativa (che non ha nulla a che fare con il liberalismo)
secondo la quale basterebbe coordinare le politiche economiche nazionali per garantire un’efficace
politica economica europea. Per sconfessare questo punto di vista, è sufficiente prendere in
considerazione il modello federale degli Stati Uniti d’America, sebbene l’Europa non lo debba
imitare pedissequamente. Si può, in effetti, sostenere che l’Unione europea non necessita di un
bilancio federale altrettanto importante di quello statunitense. Ma è certo che, se gli Stati Uniti
rinunciassero ai poteri economici del governo di Washington, affidando ogni responsabilità di
politica economica ai cinquanta governi degli states, l’economia statunitense, alla pari di quella
europea, si troverebbe del tutto incapace di far fronte alle sfide della globalizzazione.
4. Dal diritto internazionale al diritto costituzionale europeo
Dieter Grimm13
osserva che al momento della fondazione del Reich tedesco, nel 1871, non si
ritenne opportuno includere una Carta dei diritti nella Costituzione del Reich, poiché si pensava che
essi fossero sufficientemente garantiti dai Länder. Sulla base di un ragionamento analogo, quando
vennero fondate le Comunità europee, sia la CECA che la successiva CEE, non si previde alcuna
Carta a garanzia dei diritti dei cittadini europei. Si temeva di oltrepassare la soglia che separa il
11
Sulla creazione dell’Unione monetaria e sul suo funzionamento, cfr. T. Padoa-Schioppa, The Euro and its Central
Bank. Getting United after the Union, Cambridge (Mass.), MIT Press, 2004; trad. it. L’Euro e la sua banca centrale.
L’Unione dopo l’Unione, Bologna, Il Mulino, 2004. 12
Ho discusso più approfonditamente questo parallelo storico in G. Montani, “Il governo europeo dell’economia”, in Il
Federalista, n. 3, 1997. 13
D. Grimm, “Il significato della stesura di un catalogo europeo dei diritti fondamentali nell’ottica della critica
dell’ipotesi di una Costituzione europea”, in G. Zagrebelsky (a cura di), Diritti e Costituzione nell’Unione europea,
Bari, Laterza, 2003, p. 5.
8
diritto internazionale dal diritto costituzionale interno. L’atto costitutivo delle Comunità prese, in
effetti, la forma tradizionale di un Trattato, cioè di un accordo tra Stati sovrani.
Tuttavia, il diritto comunitario si è progressivamente evoluto dalla sua condizione originaria
di diritto internazionale nel suo nuovo status di diritto sovranazionale grazie all’opera tenace della
Corte di giustizia, che ha svolto di fatto il ruolo di Corte costituzionale europea. La questione del
primato del diritto comunitario su quello nazionale si è posta agli inizi degli anni sessanta, quando il
processo di integrazione del mercato ha cominciato a produrre effetti anche nei confronti della
salvaguardia dei diritti dei cittadini. Supponiamo che il principio della parità di retribuzione tra
lavoratori di sesso maschile e femminile, sancito dai Trattati di Roma, sia applicato unicamente da
un tribunale nazionale. Immediatamente si creerebbe non solo una situazione di discriminazione nei
diritti degli altri cittadini della Comunità, ma anche una distorsione della concorrenza. La Corte di
giustizia ha così sfruttato l’art. 177 dei Trattati che, seppure ambiguo, le ha consentito di svolgere il
ruolo di interprete del diritto comunitario, affidando ai giudici nazionali il compito di applicare la
pronuncia della Corte alla fattispecie. Di fatto, avviene che il singolo cittadino sollevi il caso di
fronte al Tribunale nazionale e che questo chieda alla Corte di pronunciarsi. Una volta che la Corte
si sia pronunciata, la sua sentenza produce effetti diretti. La dottrina degli effetti diretti e del
primato del diritto comunitario sono considerati “twin pillars” dell’ordinamento comunitario.
Ognuno dei due pilastri è indispensabile all’esistenza del sistema giuridico europeo.14
E’ a questo
punto che la “logica delle cose” ha cominciato a produrre la trasformazione del diritto
internazionale in diritto interno europeo. “L’ordinamento comunitario crea diritti e obblighi non
solo per gli Stati membri, ma anche, direttamente, per i cittadini dei medesimi, superando così
definitivamente la natura di diritto internazionale della Comunità, il quale, classicamente,
impegnerebbe invece solamente gli Stati sovrani coinvolti”.15
Questo primo audace passo della Corte di giustizia non poteva, tuttavia, non suscitare reazioni
da parte delle Corti nazionali. In effetti, pochi anni dopo le sentenze che sancivano la priorità del
diritto comunitario sulle giurisdizioni nazionali, nel 1967, la Corte costituzionale tedesca (e,
successivamente, anche la Corte italiana) sostenne che l’ordinamento comunitario non poggiava su
alcuna base di legittimità democratica perché privo di una Carta dei diritti fondamentali dei
cittadini. Solo il diritto nazionale poteva considerarsi fondato su Carte costituzionali. A questo
punto, tutta la costruzione comunitaria sembrava sul punto di crollare. La Corte di Lussemburgo
reagì nel 1974, con una sentenza in cui si stabiliva che “i diritti fondamentali fanno parte integrante
dei principi generali del diritto di cui la Corte garantisce l’osservanza”. Questa affermazione, a sua
volta, si riferiva al fatto che gli Stati membri della Comunità avevano sottoscritto la Convenzione
europea dei diritti dell’uomo del 1950 e in ogni costituzione nazionale vengono richiamati alcuni
diritti fondamentali che possono essere considerati come il patrimonio costituzionale comune
europeo. In effetti, con successive sentenze, la Corte di Lussemburgo è riuscita a definire i contorni
e i contenuti di un Bill of Rights europeo non scritto. Un giudice della Corte di Lussemburgo,
Federico Mancini, fa notare che in questa circostanza la Corte ha sviluppato un eccezionale
attivismo giuridico che le ha, di fatto, consentito di ottenere “un potere di controllo del tutto
analogo (anche se quantitativamente inferiore) a quello che esercitano ordinariamente la Corte
suprema degli Stati Uniti e le Corti costituzionali di alcuni Stati membri”.16
Fino a quale punto si potrà spingere questo potere? Se si paragona l’opera della Corte di
Lussemburgo con quella degli Stati Uniti si può comprendere meglio la portata del problema. “Fino
al 1925 – osserva Mancini – le limitazioni previste dal Bill of Rights americano venivano ritenute
applicabili nei soli confronti del governo federale; ma in quell’anno una celebre decisione della
14
Cfr. in proposito il saggio “Le sfide costituzionali alla Corte di giustizia europea”, in G. F. Mancini, Democrazia e
costituzionalismo nell’Unione europea, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 65. 15
S. Dellavalle, “Necessità, pensabilità e realtà della Costituzione europea”, in G. Zagrebelsky (a cura di), Diritti e
Costituzione nell’Unione europea, op. cit., p. 122. 16
G. F. Mancini, Democrazia e costituzionalismo nell’Unione europea, op. cit, p. 75.
9
Corte suprema (Gitlow v. New York) le estese alle leggi e alle pratiche amministrative degli Stati. E’
immaginabile che un fenomeno analogo abbia luogo in Europa?”.17
Queste osservazioni venivano fatte prima che la Costituzione europea fosse elaborata. Ora,
l’art. I-6 della Costituzione riconosce apertamente che “La Costituzione e il diritto adottato dalle
istituzioni dell’Unione nell’esercizio delle competenze a questa attribuite prevalgono sul diritto
degli Stati membri”. Se a questo articolo si aggiunge il fatto che la Carta dei diritti fondamentali è
entrata a far parte integrale della Costituzione europea, alla questione riguardante l’eventuale
estensione dei diritti garantiti dalla Carta europea anche al livello nazionale occorre rispondere
affermativamente. Se il governo di uno Stato membro violasse alcuni dei diritti fondamentali
garantiti dalla Carta europea, la Corte di Giustizia potrebbe intervenire per costringere il governo in
questione a rivedere la propria legislazione. Si tratta dunque di constatare che il diritto comunitario
ha subito una completa evoluzione da diritto internazionale a diritto federale, per usare una
terminologia che alcuni giuristi tentano accuratamente di evitare con circonlocuzioni quali
Verfassungsverband (confederazione costituzionale) oppure Costituzione europea integrata18
o, di
nuovo, multilevel constitutionalism (costituzionalismo a più livelli), nel tentativo di descrivere la
realtà europea come un ordinamento costituzionale senza Stato e senza popolo. Il diritto europeo
risulta incomprensibile se non si ammette un processo di interazione tra livello nazionale e livello
europeo.
Con questa osservazione, possiamo tentare di mettere meglio a fuoco la fondamentale
distinzione tra diritto internazionale e diritto federale. Se si accetta una concezione dualistica del
diritto internazionale, secondo la quale è lo Stato che riconosce il “diritto statale esterno” come
proprio, poiché gli altri Stati non possono produrre norme giuridiche vincolanti, si giunge a negare
ogni validità del diritto internazionale sulle norme statali interne.19
D’altro canto, la dottrina che
sostiene il primato dell’ordinamento giuridico internazionale su quello interno incontra altre
difficoltà, poiché non esiste, a livello internazionale, nessun organo che possa rendere efficace
l’ordinamento internazionale (a meno che si ricorra a sanzioni o a un conflitto armato) in un altro
ordinamento giuridico.20
Al contrario, attraverso il federalismo è possibile risolvere queste
17
Ibidem, p. 156. 18
Cfr. I. Pernice e F. Mayer, “La Costituzione integrata dell’Europa”, in G. Zagrebelsky (a cura di), Diritti e
Costituzione nell’Unione europea, op. cit., p. 49. 19
H. Kelsen sostiene che “il primato dell’ordinamento giuridico del proprio Stato significa non solo la negazione della
sovranità di tutti gli altri Stati e quindi della loro esistenza giuridica come Stati nel senso del dogma della sovranità, ma
signfica anche la negazione del diritto internazionale” (cfr. H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleitung in die
rechtswissenschaftliche Problematik, Wien, Franz Deuticke Verlag, 1934; trad. it. Lineamenti di dottrina pura del
diritto, Torino, Einaudi, 1952, p. 160). 20
Come noto, il principale sostenitore della dottrina monistica del diritto internazionale è Hans Kelsen, che difende la
concezione di una Civitas maxima. Tuttavia, la dottrina di Kelsen non è priva di contraddizioni. In Das Problem der
Souvränität und die Teorie des Völkerrechts. Beiträge zu einer Reinen Rechtslehre, Tübingen, Mohr, 1929; trad it. Il
problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, Milano, Giuffrè 1989, Kelsen sostiene che “la comunità
giuridica internazionale, così come essa si presenta nell’ipotesi del primato dell’ordinamento giuridico internazionale, è
... una comunità giuridica primitiva e, in questo senso, ma solo in questo senso, essa non è uno ‘Stato’, mancando,
innanzi tutto, di un organo particolare per il perfezionamento dell’ordinamento giuridico da costituire” (p. 383). La
comunità internazionale, tuttavia, può essere considerata “giuridica”, come vuole Kelsen, solo a patto di ammettere al
suo interno una esplicita contraddizione. Infatti, poiché la comunità internazionale “non ha nessun particolare organo
esecutivo”, nel caso di gravi controversie nell’interpretazione delle norme di diritto internazionale, occorre ammettere
che la guerra diventa inevitabile, pertanto “la guerra è un fatto del diritto internazionale” (p. 387). Essa è lo “strumento
coercitivo introdotto dall’ordinamento giuridico internazionale al fine di farsi valere nei confronti di coloro che lo
violano” (p. 388). Lo stesso Kelsen, in un altro contesto, osserva tuttavia che “potere – o forza – e diritto si escludono
l’un l’altro” (p. 27). La cosiddetta comunità internazionale, pertanto, non può essere affatto considerata come una
comunità “giuridica”. Vale in proposito l’osservazione di Kant che, nella Pace perpetua, scrive: “la guerra è solo la
triste necessità – propria di uno stato di natura, in cui non esiste un tribunale che possa giudicare secondo il diritto – di
affermare con la forza il proprio diritto, non potendosi in tale stato considerare nemico ingiusto nessuna delle due parti
(ciò presuppone già una sentenza giudiziaria), e solo l’esito del combattimento (come il cosiddetto giudizio di Dio)
decide da qual parte stia il diritto” (I. Kant, La pace, la ragione e la storia, con una introduzione di M. Albertini,
Bologna, Il Mulino, 1985, p.103).
10
contraddizioni. Come sostiene K. Wheare, il principio federale consiste in un sistema di governi
indipendenti e coordinati. Ogni governo è indipendente nella sua sfera di poteri definiti dalla
Costituzione ed è coordinato mediante procedure democratiche con gli altri governi della
federazione. Pertanto, sostiene Wheare, “poiché il criterio essenziale di un sistema federale è non
soltanto il fatto che vi sia una divisione dei poteri, ma anche che tale divisione non dipenda soltanto
dal governo centrale o soltanto dai governi regionali, ne consegue che la potestà di decidere in
ultima istanza del significato della divisione dei poteri non può spettare né al solo governo centrale,
né ai soli governi regionali”.21
In un sistema federale, la Costituzione è la legge suprema e la Corte
di giustizia è il suo custode.
In conclusione, con la Costituzione europea, in particolare con l’affermazione del principio
della supremazia della Costituzione e delle leggi europee stabilito dall’art. I-6, si potrebbero
applicare all’Unione europea le medesime considerazioni che Alexander Hamilton rivolgeva alla
nascente Federazione americana: “l’interpretazione delle leggi è compito preciso e specifico delle
Corti. Una Costituzione è, in effetti, e così deve essere considerata dai giudici, una legge
fondamentale. Spetta pertanto a loro precisarne i veri significati, così come le conseguenze
specifiche di ogni atto che provenga dagli organi legislativi. Qualora dovesse verificarsi
discordanza insanabile fra la legge costituzionale e quella ordinaria, si dovrà, naturalmente, dar
preferenza a quella verso cui siamo legati da obblighi maggiori; in altre parole alla legge ordinaria
si dovrà preferire la costituzione, ai voleri dei delegati del popolo, quelli del popolo stesso”.22
5. La formazione di uno spazio politico europeo
Per secoli, come ha argomentato convincentemente lo storico Ludwig Dehio,23
la politica
delle grandi potenze europee è stata caratterizzate da fasi alterne di equilibrio e di egemonia. Le fasi
egemoniche si sono manifestate quando le circostanze hanno consentito a una delle grandi potenze
di tentare l’avventura di conquistare l’Europa. Gli ultimi tentativi di unificare l’Europa con la armi
sono stati quelli di Napoleone e di Hitler. Il processo di integrazione europea, avviato dopo la
catastrofe della seconda guerra mondiale, rappresenta una fase sia di rottura, sia di continuità nella
storia europea. E’ una rottura perché l’unità dell’Europa ora diventa possibile mediante una politica
di pacifica unificazione tra Stati nazionali. D’altro canto, rappresenta anche la continuazione di un
tendenza storica perché l’Europa è stata caratterizzata, sin dal Medioevo, da una profonda unità
21
K. C. Wheare, Federal Government, London, Oxford University Press, 1963; trad. it. Del governo federale, Bologna,
Il Mulino, 1997, p. 123. La definizione di Wheare del principio federale va intesa nel senso che i “governi”
indipendenti e coordinati devono essere “democratici”. Questa specificazione appare ovvia, ma non lo è. Daniel J.
Elazar (Exploring Federalism, The University of Alabama Press, 1987; trad. it. Idee e forme del federalismo, Milano,
Mondadori, 1998) sostiene che il federalismo “comporta un qualche tipo di collegamento contrattuale di carattere
presumibilmente permanente che: 1) preveda la partecipazione al governo; 2) superi il problema della sovranità; 3)
integri, ma non cerchi di sostituire o sminuire, i precedenti legami organici laddove essi esistano” (p. 12). Si potrebbe
pensare che la esigenza della democrazia sia espressa nel punto 1) che prevede la partecipazione al governo. Ma Elazar
è altrove esplicito nell’applicare il suo modello di federalismo a realtà storiche pre-moderne, come la “federazione
tribale israelita”, o decisamente di tipo autoritario, come l’URSS o la ex-Iugoslavia. In verità, sembra più corretto
sostenere che la prima federazione della storia sia quella creata dalla Convenzione di Filadelfia e che il principio
federale non si possa applicare a realtà politiche non democratiche. L’URSS era più simile ad un impero, controllato da
un partito unico, che non ad una federazione. E la ex-Iugoslavia ha potuto conservare l’unità politica solo fino a quando
ha svolto il ruolo di Stato cuscinetto tra Est ed Ovest.
A. Hamilton nel Federalist (n. 9) sostiene che il federalismo rende possibile “l’allargamento dell’orbita” del governo
democratico, poiché una Federazione è un governo democratico di un insieme di governi democratici. La nozione di
“Patto federale” implica la libera volontà di diversi popoli di partecipare alla costruzione di un futuro comune. Se
manca la possibilità di esprimere un libero consenso, il patto federale si fonda necessariamente su un vincolo esterno,
come è accaduto in URSS, che per questo si è disgregata quando il partito unico è entrato in crisi. 22
Si tratta del saggio n. 78 di The Federalist; trad. it. A, Hamilton, J. Madison, J. Jay, Il Federalista (con una
introduzione di L. Levi), Bologna, Il Mulino, 1997, p. 625. 23
L. Dehio, Gleichgewicht oder Hegemonie, Krefeld, Scherpe, 1948; trad. it. (con una prefazione di S. Pistone)
Equilibrio o egemonia, Bologna, Il Mulino, 1988.
11
culturale, religiosa ed economica che non ha potuto svilupparsi compiutamente a causa delle
divisioni politiche create dalle barriere ideologiche dello Stato-nazione. Sebbene i concetti di civiltà
europea e di identità europea siano spesso criticati a causa delle inevitabili ambiguità che sorgono
non appena si cerchi di delimitarne i confini con precisione (gli Stati Uniti, ad esempio, sono una
semplice appendice della civiltà europea oppure sono un apporto esterno del tutto innovativo?), è
lecito rintracciare nella storia europea un’infinità di aspetti filosofici, letterari, scientifici, religiosi,
ecc. che rappresentano un apporto certo ed originale degli europei alla storia della civiltà (e non
solo di quella occidentale).
Tra i contributi della civiltà europea a quella mondiale, va annoverato anche lo Stato
nazionale sovrano. Il tragico epilogo delle guerre mondiali ha mostrato la natura diabolica di questa
concezione della politica, che ha svolto una funzione civilizzatrice importante sino a che non si è
trasformata in un Leviatano deciso a conquistare il dominio mondiale. In questo senso, il processo
di unificazione europea deve essere considerato anche come il tentativo degli europei di riscattare il
loro passato. La pacificazione tra le nazioni europee rappresenta il tacito riconoscimento che quel
passato di odi e di guerre deve essere superato. Tuttavia, l’avvio del processo di integrazione
europea, così come è stato realizzato dai governi nazionali negli anni Cinquanta, ha generato nei
cittadini la falsa immagine di una Europa funzionale solo al mondo dell’economia e degli affari.
Rifiutando il progetto della CED e dell’Unione politica, i governi nazionali hanno mostrato di
concepire l’Europa come un grande mercato, senza alcuna vocazione politica. Ciò nonostante,
l’Europa del Mercato comune, come sosteneva Hallstein, ha alimentato al suo interno una “logica
delle cose” che lasciava intravedere una possibile unificazione politica, per quanto lontana nel
tempo. Questa ideologia dell’integrazione europea, ha consentito ai politici nazionali di presentare
l’Europa come un capitolo della politica estera nazionale. Europeismo e sovranità nazionale
potevano essere conciliati senza contraddizioni apparenti. Le istituzioni comunitarie erano
considerate come una sorta di burocrazia extra-territoriale al servizio dello Stato-nazione. De Gaulle
parlava sprezzantemente di un areopago europeo. Le decisioni politiche fondamentali continuavano
ad essere prese dai governi nazionali (o dalle superpotenze, quando l’Europa era incapace di far
sentire la sua voce).
La situazione avrebbe potuto mutare radicalmente con l’elezione a suffragio universale del
Parlamento europeo, avvenuta nel 1979. In effetti, il Parlamento europeo era la prima assemblea
rappresentativa sovranazionale della storia. Grazie, all’elezione popolare, il Parlamento europeo ha
saputo sfruttare questa peculiarità approvando a grande maggioranza, nel 1984, il Progetto Spinelli
di Unione europea. Si trattava, dopo il fallimento della CED, del secondo tentativo di dare una
Costituzione all’Europa. Tuttavia, dopo il rifiuto dei governi nazionali di avviare la procedura per le
ratifiche nazionali, il Parlamento europeo non riuscì più a rilanciare, motu proprio, il processo
costituente. I partiti presenti nel Parlamento europeo erano, e sono ancora in gran parte, delle mere
articolazione europee di partiti nazionali, il cui scopo primario è la conquista del potere nazionale,
non la costruzione dell’Europa. Veri partiti europei, con congressi democratici che eleggono
dirigenti europei sulla base di un programma politico, sono cominciati ad esistere solo
recentemente, a distanza di un quarto di secolo dalla prima elezione europea. Ma la loro capacità di
sviluppare una politica europea autonoma, che non risulti una semplice sommatoria di politiche
nazionali, è modesta, per non dire inesistente. Se si considera l’aspetto politico dell’integrazione
europea, occorre ammettere che la “logica delle cose” opera a favore della conservazione nazionale,
non dell’unificazione politica dell’Europa. I governi nazionali sono costretti, di volta in volta, ad
affrontare e risolvere problemi specifici di natura europea, ma propongono soluzioni di tipo
intergovernativo, nel tentativo di salvare il quadro politico nazionale, entro il quale ottengono il
consenso dei cittadini e si svolge la lotta tra i partiti per la conquista del potere nazionale.
Nonostante gli enormi progressi compiuti dall’integrazione europea, i cittadini conservano
l’immagine che le leve del comando politico siano nelle mani dei governi nazionali. L’Unione è
percepita come una superstruttura burocratica.
12
Per queste ragioni, l’approvazione di una Costituzione europea rappresenta un passaggio
ineludibile per la trasformazione dell’Unione europea in una unione politica. Mentre un trattato è un
patto tra Stati sovrani, la costituzione, nella cultura politica, rappresenta un patto tra cittadini per la
creazione di uno Stato. In linea di principio, pertanto, una Costituzione europea dovrebbe dar vita,
come è avvenuto a Filadelfia per le tredici colonie americane, ad un sistema federale di governo, in
cui siano chiaramente definiti i poteri del governo federale e quelli riservati agli Stati membri.
Tuttavia, la Costituzione non presenta queste caratteristiche. Ancora una volta, i governi nazionali
sono riusciti a limitare i poteri del livello europeo di governo in misura tale che la Costituzione
possa essere presentata ai cittadini come una semplice Unione di Stati sovrani e non come una
Federazione di Stati nazionali.
In effetti, chi cercasse nella Costituzione europea una risposta alla domanda “chi governa
l’Unione?” non troverebbe alcuna indicazione precisa: l’espressione governo europeo non compare
neppure. I poteri esecutivi sono assegnati in linea di principio alla Commissione europea, ma con
limiti considerevoli. Su alcune questioni cruciali, come la fiscalità e la politica estera, i governi
nazionali hanno conservato il diritto di veto. Ciò significa che, quando occorre decidere su questioni
in cui è previsto il diritto di veto, la Commissione e il Parlamento europeo vengono esclusi dal
processo decisionale. Di fatto, la Costituzione europea continua a far convivere (come nel progetto
iniziale della CECA) due differenti sistemi decisionali: uno di natura intergovernativa e uno di
natura federale, quando è prevista la codecisione legislativa tra Parlamento europeo e Consiglio dei
Ministri che, in questi casi, decide a maggioranza degli Stati e della popolazione.
Questi difetti di democrazia della Costituzione europea non devono, tuttavia, offuscare
alcune aperture significative sul fronte della partecipazione popolare alla costruzione europea. Un
primo spiraglio riguarda i poteri di riforma dell’Unione: i cittadini europei possono intervenire nel
processo legislativo con la raccolta di un milione di firme (art. I-47) e il Parlamento europeo può
ora chiedere la convocazione di una Convenzione per la revisione della Costituzione (art. IV-443).
Inoltre, la Costituzione europea prevede (art. I-27) che il Presidente della Commissione europea
venga designato dal Consiglio “tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo”. Questo
significa che i partiti europei, a patto che sappiano cogliere questa occasione, potranno designare un
loro candidato a Presidente della Commissione già nel corso della campagna elettorale. In questo
modo, i cittadini europei potranno scegliere, con il loro voto, non solo il partito, ma anche il
Presidente della Commissione nel caso che il partito votato, o la coalizione che sostiene un certo
candidato, risulti maggioritaria. Se questa potenzialità si traducesse in realtà, si innescherebbe un
rapporto di fiducia tra cittadino, partito ed esecutivo europeo. E va appena ricordato che il rapporto
di fiducia tra elettore e governo rappresenta la spina dorsale di qualsiasi sistema democratico.
L’evoluzione più ragionevole del sistema politico europeo sembra, dunque, la trasformazione della
Commissione in un vero governo responsabile di fronte al Parlamento europeo.
Naturalmente, la forza di un governo non dipende solo dalla procedura con cui viene
nominato, ma anche dai poteri che riesce ad esercitare per affrontare le sfide incombenti. Sotto
questo aspetto, la Commissione-governo con l’attuale Costituzione non potrà contare che su poteri
limitati di politica economica e dei politica estera. Tuttavia, le aperture della Costituzione europea
alla partecipazione popolare indicano che la vecchia concezione della politica europea come un
quadro in cui si confrontano le “potenze” europee sta progressivamente trasformandosi nella
politica interna dell’Unione, in cui la volontà popolare si manifesta attraverso un dibattito pubblico
europeo e la lotta dei partiti nel Parlamento europeo per affermare e sostenere un certo indirizzo
politico. Per comprendere la portata rivoluzionaria di questo nuovo comportamento politico dei
cittadini europei, è opportuno ricordare una osservazione di Hans Morgenthau, un influente
sostenitore della dottrina del realismo politico. A proposito della possibilità di costruire uno Stato
mondiale (che non nega, in teoria), Morgenthau osserva: “Nulla dimostra in modo più efficace
l’inesistenza dei requisiti sociali e morali di un’entità che possa assomigliare ad uno Stato mondiale
del paradosso morale di un uomo che voglia agire come cittadino del mondo e che grazie alla
situazione internazionale, si ritrovi costretto ad agire come il partigiano di uno Stato diverso dal
13
proprio. Non esiste un’entità politica al di sopra del proprio Stato a favore della quale l’uomo possa
agire: esistono solamente altri Stati”.24
Nel nostro caso, ciò che è in discussione non è la costruzione
dello Stato mondiale, ma di quello europeo. E’ evidente che “un uomo che voglia agire come
cittadino europeo” oggi trova i mezzi per farlo. Il cittadini europei non sono ancora pienamente
coscienti dei loro diritti, dei loro poteri e del ruolo che l’Unione europea può svolgere nella politica
mondiale. Ma, nella misura in cui prenderanno coscienza di queste potenzialità, l’Unione europea si
trasformerà in uno Stato federale.
6. La costituzionalizzazione della sovranità nazionale in Europa
La Costituzione europea rappresenta un passo verso un’Europa federale, ma occorre ribadire
che la costruzione europea sarà completata, sul terreno giuridico e democratico, solo quando il
diritto di veto in tutto il processo decisionale dell’Unione verrà abolito. Questa prospettiva, qui
delineata, della conclusione del processo di unificazione federale dell’Europa suggerisce qualche
osservazione teorica. Che cosa resterà della sovranità nazionale nella Federazione europea?
La risposta a questa domanda è che, nella misura in cui le relazioni tra gli Stati nazionali
europei si costituzionalizzano, consentendo la creazione di un governo federale europeo, la
sovranità nazionale evapora (come è già avvenuto per l’economia e la moneta) e si condensa nella
Costituzione europea, che regola giuridicamente i rapporti tra Stati un tempo affidati alla politica
internazionale. Per chiarire questa affermazione, è opportuno prendere in considerazione lo
sviluppo storico del costituzionalismo in relazione alla nozione di sovranità, il cui polimorfico
significato può generare incomprensioni. Lo storico del costituzionalismo Charles McIlwain si
spinge sino a proporre per maggiore chiarezza un differente termine “per gli aspetti interni ed
esterni del governo e confinare la parola ‘sovranità’ solo ai primi”.25
Questa proposta non può
tuttavia essere accolta, a causa della continua interferenza dei due significati. La questione cruciale
risiede proprio nel chiarire come sia stato possibile, e come ancora sia possibile, che gli aspetti
esterni della sovranità condizionino talmente a fondo la vita dei cittadini di uno Stato, da far ritenere
che la stessa costituzione di un popolo – con più o meno accentramento, più o meno liberalismo, più
o meno militarismo, ecc. – dipenda dalla posizione dello Stato nel sistema internazionale. La storia
del sistema europeo degli Stati, ad esempio, mostra che il Regno Unito ha potuto godere di una
costituzione più liberale e democratica rispetto agli altri Stati del Continente, grazie alla sua
posizione di isola, che gli ha garantito una relativa sicurezza militare.
L’esame del problema deve iniziare dagli aspetti interni. McIlwain mostra molto
efficacemente la transizione dal costituzionalismo antico a quello moderno, attraverso l’eredità
medievale del diritto romano. Secondo McIlwain, l’essenza del costituzionalismo romano non
consiste in alcune massime di tipo assolutistico, come quella di Ulpiano, secondo cui “Princeps
legibus solutus est”. Al contrario, “la vera essenza del costituzionalismo [romano] va cercata
piuttosto nel più antico e più profondo principio che il populus e nessun altro che tutto il populus è
la fonte ultima dell’autorità legale … l’influenza di Roma realmente decisiva sulla successiva
ideologia politica europea si esercitò durante il Medioevo, nel senso di un rafforzamento del
costituzionalismo, e non dopo il Rinascimento italiano, nel senso di una tendenza
all’assolutismo”.26
Il costituzionalismo si manifesta quando si afferma la distinzione tra leggi
fondamentali, o costituzionali, e leggi ordinarie. Nel medioevo, secondo McIlwain, alcuni giuristi,
in particolare Bracton, hanno introdotto e difeso la distinzione tra iurisdictio e gubernaculum. Il
potere reale poteva agire legittimamente solo nel campo del gubernaculum, ma non poteva invadere
quello della iurisdictio (come dimostrano le vicende della politica inglese, a partire dalla Magna
24
H. Morgenthau, Politics among Nations. The Struggle for Power and Peace, New York, McGraw-Hill, 1985; trad. it.
Politica tra le nazioni. La lotta per il potere e la pace, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 477. 25
Ch. H. McIlwain, “Sovereignty in the Present World”, in History, 1950, p. 5. 26
Ch. H. McIlwain, Constitutionalism: Ancient and Modern, New York, Cornell University Press, 1947; trad. it.,
Costituzionalismo antico e moderno, Bologna, Il Mulino, 1990, pp78-9.
14
Charta). Questa distinzione diventa essenziale nella fase della storia europea in cui si formano gli
Stati nazionali. Il potere del sovrano sui sudditi si accresce e si estende su un vasto territorio. E’ in
questa congiuntura storica che la teoria della sovranità si congiunge con quella dello Stato moderno,
tanto che nel corso dei secoli successivi esse diventano inseparabili. La dottrina della sovranità
consente al re di rendere impersonale il suo potere di fare le leggi e di farle rispettare. E’ il
definitivo superamento del feudalesimo. Hobbes sostiene che “la moltitudine unita in una sola
persona è detta Stato (Commonwealth o Civitas, in latino) ... questa persona è detta sovrano ... il
Dio mortale”.27
In questa fase assolutistica della formazione dello Stato moderno, se non si fossero poste
solide barriere al potere assoluto del sovrano, le libertà individuali, garantite dalla tradizione
giuridica romana e feudale (common law, nel Regno Unito), sarebbero state ben presto soppresse. Il
costituzionalismo e le carte dei diritti (Bill of rights) riuscirono a limitare il potere del sovrano, il
gubernaculum. Il sovrano, grazie al regime costituzionale, non poteva esercitare i suoi poteri che
entro certi limiti definiti dalla legislazione fondamentale. E’ dunque inevitabile che si cerchi una
fonte di legittimità del potere alternativa alla tradizione e al diritto divino. Esiste il potere di fatto
creato da colui (si pensi al Principe di Machiavelli) che conquista con la forza lo Stato e impone la
sua volontà, che diventa legge; e vi è il potere legittimo, il potere che si fonda sulla tradizione
legislativa, oppure sull’autorità divina, o, meglio, sulla legittimità conferitagli da una costituzione,
un patto stipulato tra i cittadini e il sovrano. Si può dunque comprendere perché assolutismo e
sovranità assoluta si contrappongano al costituzionalismo e alla dottrina della legittimità
costituzionale del potere.28
Tuttavia, anche la dottrina del costituzionalismo (che è parte integrante
dell’ideologia liberale) non sarebbe stata sufficiente a superare la fase dell’assolutismo monarchico,
se non si fosse affermata, a fianco del costituzionalismo, anche la dottrina della sovranità popolare.
Nel Regno Unito ci si ferma a mezza strada, dichiarando sovrano il parlamento, un organo
comunque rappresentativo della volontà popolare. Ma, sul continente europeo, dove maggiore è la
pressione accentratrice e autoritaria della monarchia, si proclama che solo il popolo è sovrano e che
ogni potere legittimo non può scaturire che dalla volontà popolare. Rousseau sostiene la concezione
più radicale di questa dottrina secondo la quale “la sovranità, non essendo che l’esercizio della
volontà generale, non può mai essere alienata ... se il popolo promette semplicemente di obbedire,
in questo stesso atto esso si dissolve, perde la sua qualità di popolo”.29
Se presa alla lettera, questa
affermazione consentirebbe di considerare legittima solo una Costituzione in cui il popolo legiferi
direttamente, non una democrazia rappresentativa.
Se ora rivolgiamo la nostra attenzione agli aspetti esterni della sovranità, dobbiamo constatare
che verso l’esterno il sovrano non ammette alcuna limitazione ai suoi poteri. Verso l’esterno, il
sovrano non riconosce alcun potere al di sopra di sé (nell’epoca della nascita dello Stato moderno,
la sovranità assoluta ha comportato l’emancipazione dello Stato dai vincoli feudali del Sacro
Romano Impero). Di fatto, con la sovranità assoluta si forma una società in cui ogni Stato non
riconosce alcuna autorità esterna, derivante da altri Stati sovrani. La comunità mondiale degli Stati
è una comunità anarchica per definizione, in cui i conflitti vengono regolati dalla forza degli
eserciti, non dalle leggi scritte in una Costituzione. Nella politica internazionale, è la forza che
decide, non il giudice, al contrario di quanto accade nella politica interna. Tuttavia, in una
situazione di anarchia internazionale succede che il ricorso alla forza può essere invocato anche per
regolare i rapporti interni, quando la pace civile è in pericolo. Lo Stato ha come suo dovere supremo
quello di garantire la pace interna e la sicurezza dei cittadini. Se questi beni sono messi in pericolo
da una minaccia esterna o interna, il gubernaculum può invocare ragioni superiori per aggirare la
iurisdictio. McIlwain, che scriveva negli anni del fascismo e del nazismo, osserva che i diritti della
persona, come la libertà di espressione, le immunità da accuse arbitrarie e lo stesso diritto alla vita,
27
T. Hobbes, Leviathan, Harmondsworth, Penguin Books, 1971, Part II, ch. XVII, p. 227. 28
In questo senso si esprime anche C.J. Friedrich, Constitutional Government and Democracy, London, Blaisdell
Publishing Co, 1968, pp. 18-19. 29
J-J. Rousseau, Le Contrat social, trad. it. Il contratto sociale, Torino, Einaudi, 1966, Libro II, Cap. I, pp. 37-38.
15
fossero messi in pericolo da minacce esterne. “Le ‘ragioni di Stato’ sono state invocate nel passato
per coprire proprio tali enormità: mai, tuttavia, su scala paragonabile a quella attuale. E mai, nella
storia, credo, gli individui sono stati minacciati dalle usurpazioni del potere esecutivo come lo sono
ora; mai la iurisdictio è stata messa in più gravi difficoltà dal gubernaculum”.30
Si potrebbe
aggiungere che lo stesso costituzionalismo viene di fatto abolito da una concezione che riconosce
come sola fonte del potere il potere stesso, cioè la forza. Carl Schmitt afferma che “sovrano è chi
decide sullo stato di eccezione”.31
Ciò significa che, anche per la politica interna, se la situazione di
disordine civile lo richiede, chi ha la forza di imporre il gubernaculum (come ha fatto Mussolini con
la marcia su Roma), diventa sovrano, fa le leggi e le fa rispettare. Come ai tempi di Machiavelli, un
condottiero che assolda una banda di mercenari può diventare un capo di Stato.
Come è potuto accadere che in Europa, la patria del diritto, il costituzionalismo venisse
ripudiato così brutalmente? La risposta deve essere ricercata nella stessa storia europea, nell’epoca
in cui si fuse l’idea di Stato con quella di nazione. Il nazionalismo è l’ideologia che difende il valore
dell’indipendenza dei popoli nazionali, giustificando a questo fine l’accentramento di tutti i poteri
nelle mani del gubernaculum.32
A partire dal secolo XVII e, in particolare, dopo la Rivoluzione
francese, il modello dello Stato nazionale si è imposto in Europa e nel mondo come il più efficiente,
sia per mantenere l’ordine interno sia per far valere gli interessi nazionali nell’arena mondiale. Gli
Stati (come l’impero Asburgico, quello Ottomano e gli Stati regionali italiani e tedeschi) che non
hanno saputo assumere la forma di uno Stato-nazione sono stati travolti dalla forza, disgregante, o
aggregante a seconda delle circostanze, del nazionalismo. Thomas Paine osservava che “in
America, tutte le costituzioni proclamano di fondarsi sull’autorità del popolo. In Francia, la parola
nazione è usata al posto di popolo”.33
Lo Stato nazionale, fondando il suo potere su una mitica
comunità di sangue, di lingua o di storia, può pretendere un lealismo straordinario dai suoi cittadini.
Il monarca non poteva obbligare tutti i suoi sudditi a servire “Sua Maestà”: i sudditi venivano
arruolati nell’esercito grazie all’allettamento di una buona paga. Nello Stato nazione, il cittadino
diventa debitore verso lo staato della sua stessa vita: si è francesi, tedeschi o italiani per nascita,
prima ancora di diventare cittadini. La nazione è una forma tribale di identità politica. Lo Stato
nazionale può dunque chiedere ai suoi cittadini di servire la patria in armi (la levée en masse) e di
morire per la difesa della patria. Lo Stato si adorna anche dei simboli della religione (l’altare della
patria, i martiri, l’idolatria dei capi nazionali, il culto degli eroi, ecc), come se lo Stato nazionale
sovrano fosse “il dio mortale”. Se le circostanze lo richiedono, quando si tratta di difendere o di
affermare l’indipendenza di un popolo, il potere dello Stato nazionale sovrano diventa assoluto e,
come il Leviatano, abbatte tutti coloro che ostacolano il proprio cammino.
La sovranità nazionale è, all’interno, il potere di fare le leggi e, all’esterno, il potere di fare la
guerra. Il potere interno di fare le leggi è stato temperato con l’affermazione del costituzionalismo.34
Questo processo non si è ancora manifestato nell’arena internazionale. Si può dunque comprendere,
alla luce di queste considerazioni, il significato storico della Costituzione europea. L’indipendenza
della nazione è stata difesa nell’epoca della sovranità nazionale con i mezzi militari, con una
moneta nazionale, con barriere doganali, con l’indottrinamento nazionalistico nella scuola di Stato,
con la chiusura delle frontiere agli stranieri, ecc. Nella misura in cui l’integrazione europea è
progredita, questi mezzi di difesa dell’indipendenza nazionale si sono mostrati inutili.
L’indipendenza dei popoli europei può ora essere garantita da strumenti comuni di governo, come
una moneta unica, un mercato interno che rende possibile la libera circolazione delle merci e delle
persone, una difesa unica (quando cadrà anche l’ultimo tabù sulla sovranità nazionale), ecc. La
30
Ch. H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno, op. cit., p. 161. 31
C. Schmitt, Politische Teologie, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1934; trad. it. Le categorie del ‘politico’,
Bologna, Il Mulino, 1972, p. 33. 32
Sul nazionalismo e sullo Stato nazionale cfr. M. Albertini, Lo Stato nazionale, Milano, Giuffrè, 1960. . 33
Th. Paine, Rights of Man, Hardmondsworth, Penguin Books, 1969, p. 213. 34
Osserva Norberto Bobbio che “il diritto è prodotto dal potere purché si tratti di un potere a sua volta derivato dal
diritto”. In N. Bobbio, Teoria generale della politica (a cura di M. Bovero), Torino, Einaudi, 1999, p. 189.
16
Costituzione europea garantisce l’unità nella diversità – ovvero l’indipendenza in un mondo
interdipendente – dei popoli nazionali europei mediante regole costituzionali da tutti accettate. E’ il
superamento dell’uso della forza nella politica internazionale e della “ragion di Stato” come
giustificazione della violazione della democrazia costituzionale.
7. L’evaporazione della sovranità nazionale nel mondo
Il processo di costituzionalizzazione della sovranità nazionale in Europa non risolverà certo
tutti i problemi riguardanti l’ordine internazionale contemporaneo, ancora fondato sulla sovranità
nazionale. L’Unione europea – si può sostenere – sarà, a sua volta, uno Stato sovrano in un mondo
di Stati sovrani (art. I-7, L’Unione ha personalità giuridica). Cambia solo la dimensione del
problema, non la sua natura. La politica internazionale resterà anche per il futuro caratterizzata dalla
politica di potenza e dalla guerra.
Questo punto di vista è largamente diffuso e condiviso, in particolare dai teorici del realismo
politico. Tuttavia, la realtà mondiale è più complessa e variegata delle dottrine che la vorrebbero
interpretare. Negli ultimi decenni, si è insinuato il dubbio che lo Stato sovrano non sia affatto quella
istituzione monolitica ed eterna che si assumeva dogmaticamente. Il processo di globalizzazione ha
fatto emergere il fenomeno nuovo ed inquietante dell’evaporazione, o dell’erosione, della sovranità
nazionale. Il dibattito si è aperto, ma non è approdato a conclusioni condivise perché, dopo aver
constato che la sovranità nazionale evapora, non si riesce a scorgere alcuna ragionevole alternativa
ad un ordine fondato sulla sovranità nazionale. Le istituzioni internazionali, come l’ONU, vengono
considerate un docile strumento nelle mani dei governi nazionali per conservare il proprio potere.
Ne consegue che, di fronte alla crisi della capacità di governo degli Stati nazionali, si cercano
sempre cause e spiegazioni interne al paradigma nazionale.
Al contrario, le cause della crisi della politica, della democrazia, del diritto e dell’economia
vanno ricercate nel carattere anarchico del processo di integrazione mondiale, di cui quello europeo
è parte integrante. L’Europa è il terreno sperimentale di un fenomeno storico di portata globale. Il
ruolo dell’Europa nel mondo sarà, dunque, decisivo per l’evoluzione della politica mondiale. Nel
passato, la volontà umana ha inciso sulla formazione del sistema mondiale del potere solo come
volontà di potenza. Oggi, la costruzione di efficaci istituzioni sovranazionali, sulla base di accordi
collettivi e condivisi, può divenire una scelta consapevole.
La politica mondiale del secondo dopoguerra si è sviluppata in un contesto storico
caratterizzato non dall’anarchia internazionale, ma dall’egemonia statunitense, nel quadro
occidentale e dall’egemonia sovietica, in quello orientale. In questo contesto, anche grazie al
protettorato americano, si è potuto sviluppare il processo di integrazione europea. Dopo il crollo
dell’URSS, le istituzioni internazionali volute dagli Stati Uniti, quali l’ONU e le sue Agenzie, il
FMI e il GATT (in seguito WTO), hanno assunto un rilievo ancora maggiore, come dimostra il fatto
che i paesi esclusi bussano alla loro porta per chiedere di essere ammessi. Seppure lo scoppio di
alcune guerre regionali abbia offuscato il quadro, il processo di integrazione internazionale sta
progredendo, almeno sul fronte economico, che rappresenta comunque un buon indicatore delle
tendenze di fondo della politica mondiale. Anche in questo caso, la “logica delle cose” ha prodotto
effetti significativi. In un certo senso, si può sostenere che le istituzioni internazionali create nel
secondo dopoguerra rappresentino una forma, seppure embrionale, di costituzionalizzazione delle
relazioni internazionali.35
Il processo di globalizzazione dell’economia non può, tuttavia, procedere oltre un certo limite
senza generare contraddizioni. Nella misura in cui si affermano nella politica mondiale nuovi
protagonisti di taglia continentale, come la Cina, l’India il Brasile e l’Unione europea, è
35
Ad esempio, Ch. A. Kupchan, The End of the American Era. US Foreign Policy and the Geopolitics of the Twenty-
first Century, Princeton. Princeton University Press, 2000; trad it. La fine dell’era americana. Politica estera americana
e geopolitica nel ventunesimo secolo, Milano, Vita e Pensiero, 2003, a p. 366 sostiene che “Le istituzioni sono
costituzioni solo allo stato embrionale”.
17
comprensibile che l’egemonia statunitense vacilli. Oggi, l’unilateralismo statunitense viene criticato
apertamente. La tendenza verso una maggiore eguaglianza nella gestione degli affari mondiale è
inarrestabile. La questione difficile da risolvere, ma che non può essere elusa, è se la transizione
dall’egemonia statunitense ad una sostanziale eguaglianza tra tutti gli Stati e i popoli possa avvenire
con formule pacifiche oppure mediante crisi economiche, rivolte sociali e guerre. L’Unione europea
che, con la Costituzione, si sta dotando dei primi strumenti rudimentali di una politica estera e della
sicurezza, può giocare un ruolo fondamentale nello scacchiere mondiale per favorire un processo di
transizione pacifico verso una maggiore cooperazione, organizzata con istituzioni sovranazionali,
tra tutti i continenti, Terzo mondo incluso.
Consideriamo i caratteri fondamentali della sovranità europea, nell’ipotesi che venga creata
una Federazione di Stati nazionali, con un governo democratico sovranazionale. Un aspetto
cruciale della politica del gubernaculum europeo consisterà nel recepire le spinte pacifiste
provenienti dalla società. Gli Stati nazionali dell’Unione hanno rinunciato, di fatto, alla guerra nei
loro rapporti reciproci. La coscrizione obbligatoria è stata abolita in molti paesi, persino in Francia,
il cui governo ha riconosciuto di non avere più confini da difendere. Con l’allargamento, anche la
Germania si trova nelle medesime condizioni. Inoltre, l’Unione riconosce nella sua Costituzione di
volere creare rapporti di buon vicinato (art. I-57) nei confronti dei paesi limitrofi, come la Russia,
con i quali ha stipulato dei trattati di cooperazione. Si tratta di una politica esattamente opposta a
quella tradizionale degli Stati nazionali sovrani, che dovevano fronteggiare il pericolo permanente
di un attacco o di una invasione proprio dai paesi confinanti. La Federazione europea è forse il
primo Stato al mondo senza frontiere permanenti.
Gli Stati nazionali europei hanno perso il potere di chiedere ai loro cittadini di morire per
difendere “la patria”. Lo Stato non è più un Leviatano, che può sacrificare la vita dei suoi figli
sull’altare della potenza nazionale. La crisi dello Stato nazionale, in Europa, si manifesta in
molteplici aspetti, i più vistosi dei quali sono il disimpegno politico dei giovani nei partiti
tradizionali e la scarsa partecipazione elettorale. L’Unione europea, nella misura in cui avrà un
gubernaculum democratico ed efficace, quando potrà parlare da pari a pari con le altre grandi
potenze, riuscirà a suscitare un nuovo senso di appartenenza e di fierezza negli europei, che
diventeranno attori della politica mondiale. Ma non è ipotizzabile che si manifesti una forma di
“nazionalismo europeo” come è accaduto nel passato, quando i popoli europei si sono schierati in
armi l’uno contro l’altro. Un ritorno al passato non può, ovviamente, essere del tutto escluso, perché
la storia non procede senza contraddizioni e involuzioni. Ma, affinché si possa manifestare una
simile inversione di tendenza nei comportamenti politici dei cittadini europei, è necessario che si
profili la minaccia di un grave conflitto mondiale, che susciti odi e sentimenti di vendetta, simili a
quelli che hanno condotto alle guerre mondiali. Di fatto, occorre ipotizzare una situazione mondiale
simile a quella che ha caratterizzato il confronto USA-URSS durante la guerra fredda. Anche in
questo caso, tuttavia, va ricordato che la guerra fredda è terminata senza spargimenti di sangue ed
ora, USA e Russia dialogano nelle istanze internazionali.
Se si esclude lo scenario di un ritorno all’equilibrio del terrore, l’Unione europea, nella misura
in cui riuscirà a sviluppare una politica estera unitaria, avrà ogni interesse a rafforzare le istituzioni
del dialogo e della cooperazione internazionale, come l’ONU. Il suo potenziale militare è molto
inferiore a quello degli Stati Uniti. Ma non è affatto necessario che l’Europa miri a competere con
gli USA o qualsiasi altra potenza mondiale per la conquista del primato militare mondiale.
L’Unione europea dovrà certamente essere in grado di intervenire in aree di crisi, come il Medio
Oriente, ma a questi fini non occorrono arsenali da superpotenza. D’altro canto, l’uso delle armi
sarà tanto meno necessario quanto più forti diventeranno le organizzazioni a vocazione universale,
come l’ONU, che deve essere messa nella condizione di agire, con risorse proprie e con una propria
forza di pace, per affrontare le grandi emergenze mondiali, come la lotta alla povertà,
l’inquinamento globale e la pacificazione nelle aree di crisi. L’Europa deve dunque agire nell’ONU
come un soggetto unitario, in quanto Federazione di Stati nazionali, per favorire la trasformazione
dell’ONU in una organizzazione “sovranazionale” e la partecipazione di altre unioni continentali,
18
come l’Unione africana. La via verso la pace mondiale sarà più facilmente percorribile se inizierà
un dialogo tra grandi unioni continentali di Stati e tra Stati (come la Cina, il Brasile, la Russia, ecc.)
già di dimensioni continentali.
In conclusione, anche se l’Unione europea verrà riconosciuta giuridicamente come uno Stato
sovrano, di fatto, sarà spinta dai suoi interessi a comportarsi come membro di una comunità politica
mondiale in formazione. L’Unione europea non avrà difficoltà a riconoscere che la sua
indipendenza deve essere coordinata con l’indipendenza degli altri soggetti attivi della politica
mondiale. E il coordinamento richiede istituzioni comuni di carattere federale. Nell’epoca della
globalizzazione e delle armi di distruzione di massa, la sovranità assoluta di una parte dell’umanità
contro altre comunità politiche è una pretesa insensata. Quanto più la sovranità europea comincerà a
coagularsi e consolidarsi in strutture costituzionali mondiali tanto più efficacemente l’Europa
riuscirà a garantire la pace, la giustizia tra i popoli e uno sviluppo sostenibile per sé e per il mondo.
8. La sovranità nazionale e il metodo delle scienze storico-sociali
La conoscenza della società e della sua evoluzione storica è altrettanto, se non più complessa
della conoscenza della natura. Nell’età che, per tradizione, consideriamo antica (tuttavia, alquanto
recente, se si prende in considerazione l’intera storia della specie umana) sono cominciate le prime
speculazioni filosofiche intorno alle leggi che governano la natura e la società. E’ iniziata così una
lenta emancipazione dell’umanità dai miti e dalle credenze che condizionavano i popoli primitivi.
Tuttavia, solo a partire dall’età moderna, la comprensione delle forze che governano il cosmo e
condizionano la vita associata ha subito un’accelerazione straordinaria. A fianco della teologia e
della filosofia, sono sorte le scienze della società. Esse rappresentano un ausilio alla comprensione
dell’evoluzione culturale della specie umana; testimoniano la volontà di homo sapiens di estendere
il controllo sulla propria evoluzione che, a differenza delle altre specie viventi, ha caratteristiche
prevalentemente culturali e istituzionali, non biologiche.36
Sebbene si possano ricercare anticipazioni in epoche lontane, è in relazione alla formazione
dello Stato moderno che la politica, l’economia e il diritto assumono lo status di discipline
scientifiche autonome, ciascuna delle quali si incarica di studiare un particolare aspetto del
comportamento umano. La politica studia il potere, come lo si conquista e come lo si conserva, e lo
Stato come organizzazione suprema della vita associata. L’economia comprende che al di là dello
Stato, esiste una struttura sociale relativamente autonoma, il mercato, la cui funzione è quella di
garantire la produzione dei beni domandati dagli individui. L’economia studia il comportamento dei
soggetti che agiscono nel mercato. Infine, il diritto, a partire dalle prime rivendicazioni
costituzionali, elabora una serie di precetti e norme che consentono allo Stato di garantire una
giusta, ordinata e pacifica convivenza civile. Secondo il positivismo giuridico, lo Stato moderno è
un ordinamento giuridico e il diritto è, per definizione, una scienza normativa.
Le scienze sociali elaborano modelli e tipologie che hanno la funzione di analizzare la società
e, pertanto, di orientare anche le politiche necessarie alla soluzione dei problemi studiati. Il metodo
delle scienze storico-sociali non differisce, per quanto riguarda la logica della ricerca scientifica
utilizzata,37
da quello impiegato dalle scienze della natura. La vera differenza riguarda la possibilità
della verifica empirica, che è molto più difficile nelle scienze della società a causa della complessità
e mutevolezza dell’oggetto studiato e la più facile intromissione di giudizi di valore nella
discussione scientifica. I giudizi di valore sono ineliminabili dalla ricerca sociale. Ciò non significa
che la conoscenza oggettiva sia impossibile. Ma, rendendo particolarmente complessa la ricerca
36
Ho discusso dei rapporti tra conoscenza, natura e cultura nella prima parte di Ecologia e federalismo. La politica, la
natura e il futuro della specie umana, Ventotene, Isitututo di Studi federalisti Altiero Spinelli, 2004. 37
In questo senso, si esprime anche Karl Popper, negli scritti in cui discute dei rapporti tra metodo delle scienze sociali
e metodo delle scienze della natura. Cfr. in particolare, il saggio “Modelli, strumenti e verità. Lo status del principio di
razionalità nelle scienze sociali” in The Mith of the Framework. In Defence of the Science and Rationality, London-New
York, Routledge, 1994; trad it. Il mito della cornice, Bologna, Il Mulino, 1995.
19
della verità, alcune dispute possono coinvolgere più generazioni di ricercatori, a volte senza che
scaturisca alcun verdetto definitivo in un senso o nell’altro. Nelle scienze storico-sociali, i problemi
di metodo sono pertanto molto più rilevanti che nelle scienze della natura. A volte, una certa teoria
o dottrina esce di scena, non perché se ne dimostri la falsità, ma perché essa viene dimenticata dalla
comunità scientifica quando il mondo appare talmente mutato da renderla irrilevante per la
comprensione della realtà contemporanea.
Qualche cosa di simile sta accadendo al dogma della sovranità nazionale. Questa idea
compare con nettezza nella storia del pensiero politico e sociale europeo a partire dall’età moderna,
quando, con la formazione degli Stati nazionali europei, l’umanità ha cominciato a comprendere
che la storia non era dominata solo dalla forza bruta o dal destino, ma che “dopo matura riflessione”
sarebbe stato possibile istituire un buon governo. E’ vero che l’impazienza rivoluzionaria, a volte,
ha preso il sopravvento sulla “matura riflessione” dei gruppi che avrebbero voluto istituire un
ordine nuovo.38
La storia procede per sentieri impervi e zigzaganti. Tuttavia, nel corso degli ultimi
decenni, il metodo del costituzionalismo si è affermato non solo per la soluzione dei problemi
interni agli Stati, ma anche per quelli internazionali. Il processo di integrazione europea prima e, più
recentemente, la globalizzazione hanno mostrato che la vita sociale si sta organizzando al di là dei
confini nazionali. Questa nuova realtà extra-nazionale consente di demistificare una visione
ideologica delle scienze sociali che ha tenacemente resistito alle prime critiche di alcune
avanguardie intellettuali e politiche. Politica, economia e diritto si sono formate nell’epoca del
consolidamento dello Stato nazionale ed hanno assunto come un postulato inconfessato, o meglio
“naturale”, che la società da studiare sia quella nazionale, che i confini del mondo coincidano con
quelli della propria nazione. La politica è per definizione nazionale. Così l’economia e il diritto. Al
contrario, oggi, alcune discipline, come la politica internazionale, l’economia internazionale e il
diritto internazionale dovrebbero essere considerate discipline di transizione, destinate un giorno a
dissolversi in una concezione autenticamente cosmopolitica della politica, dell’economia e del
diritto. Il vero oggetto di studio delle scienze sociali è l’umanità, sono i comportamenti politici,
economici e giuridici degli individui che agiscono in una società mondiale composta da differenti
nazioni, così come all’interno delle nazioni si considera l’azione di individui che abitano in regioni
o città differenti.
Questa prospettiva di rinnovamento comporta un mutamento del paradigma conoscitivo. Qui
risiede la vera difficoltà che devono superare gli scienziati innovatori. Quando un vecchio
paradigma entra in crisi, perché la realtà è mutata, non basta la critica alla sua incoerenza o ai suoi
postulati per provocarne l’abbandono. Il nuovo paradigma si afferma con difficoltà perché la sua
accettazione dipende “più dalle promesse future che dalle conquiste passate”. Lo storico del
pensiero scientifico Thomas Kuhn, sostiene che “colui che abbraccia un nuovo paradigma fin
dall’inizio, lo fa spesso a dispetto delle prove fornite dalla soluzione dei problemi. Egli deve, cioè,
avere fiducia che il nuovo paradigma riuscirà in futuro a risolvere i molti vasti problemi che gli
stanno davanti, sapendo soltanto che il vecchio paradigma non è riuscito a risolverne alcuni. Una
decisione di tal genere può essere presa soltanto sulla base della fede”.39
Il dogma della sovranità
nazionale è difficile da superare perché il paradigma alternativo, quello federalista, della
organizzazione delle relazioni internazionali deve prima aver dato una sufficiente garanzia di buon
funzionamento. Nella politica, ancor più che nella ricerca scientifica, gli uomini cambiano le loro
idee con prudenza, perché, come sostiene acutamente Machiavelli, gli uomini non credono possibili
38
L’unificazione di Stati, nell’esperienza storica, è avvenuta quasi sempre con la forza. Fa eccezione la nascita degli
Stati Uniti d’America. Ne erano consapevoli i padri fondatori. Vale la pena di ricordare che Hamilton ha scritto nel
Saggio n. 1 del Federalist: “Il popolo di questo paese sembra quasi destinato a risolvere, col proprio comportamento ed
esempio, l’importante quesito, se le società umane siano o meno capaci di darsi, per propria scelta e attraverso matura
riflessione, un buon governo, o se esse non siano invece condannate a far dipendere dal caso o dall’uso della forza le
proprie costituzioni politiche” (trad. it. Il Federalista, op. cit., p 141). 39
T. S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago, The University of Chicago Press, 1962; trad. it. La
struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969, p. 190.
20
ordini nuovi “se non ne veggono nata una ferma esperienza”.40
Il superamento della sovranità
nazionale in Europa è un processo lento e faticoso anche per questa ragione. In Europa si sta
mettendo in discussione il paradigma su cui sono fondate tutte le relazioni internazionali, anche
quelle extra-europee. Inoltre, si comprende perché, a livello mondiale, dove il processo di
integrazione si fonda su principi giuridici che ammettono la guerra come strumento per la
risoluzione dei conflitti, la prospettiva di una federazione mondiale appaia evanescente.
A causa di queste difficoltà conoscitive, il compito delle scienze storico-sociali è oggi più
importante e complesso di quanto lo fosse nel passato. La costruzione degli Stati nazionali è
avvenuta mediante un processo in cui la forza ha avuto una parte preponderante. A un certo punto
della loro storia, gli uomini hanno preso atto che il quadro di potere in cui si svolgeva la loro vita
quotidiana era lo Stato nazionale. La transizione ad un ordine mondiale fondato sulla pace tra le
nazioni non potrà procedere nel medesimo modo. Il superamento di una realtà politica in cui le
superpotenze, le grandi potenze, ecc. svolgono un ruolo dominante nel decidere le regole del gioco,
senza escludere il ricorso alla guerra, ad un mondo in cui le regole del gioco sono decise da tutti,
compresi i popoli più deboli e poveri, può avvenire solo sulla base di un processo nel corso del
quale la ragione prevalga sulla forza. Un ordine politico consiste nella trasformazione della forza,
dunque del dominio o dell’egemonia di una potenza, in un potere legittimato dalla volontà
collettiva, che usi la forza per garantire la pace e la giustizia. Non si può, pertanto, sperare che si
possa istituire un ordine mondiale pacifico senza una costituzione mondiale che vincoli tutti gli
Stati a rispettare le norme tra di loro concordate. Se gli Stati e i popoli rinunciano all’uso della forza
in politica estera, devono essere certi che un potere da loro riconosciuto come legittimo ne
garantisca l’indipendenza e la sicurezza.
In una realtà internazionale complessa, dove le prospettive appaiono incerte, occorrono criteri
ben definiti per decidere che fare. Due sono le polarità verso le quali si può orientare l’uomo
politico che agisce nella politica mondiale: la prima è il vecchio paradigma della sovranità
nazionale (all’interno, il potere di fare le leggi; all’esterno, il potere di fare la guerra); la seconda è il
nuovo paradigma del federalismo sovranazionale (un sistema di governi democratici indipendenti e
coordinati). Non vi sono modelli alternativi: tertium non datur.41
Si può agire per tentare di
conservare la sovranità nazionale, oppure si può agire per favorire il suo superamento, affidando i
poteri nazionali ad un governo sovranazionale. E’ a questo punto che occorre constatare come molti
scienziati sociali e filosofi cadano facilmente nell’errore del realismo acritico. Nella convinzione
che la conoscenza oggettiva consista nel riconoscere la realtà storico-sociale così come si manifesta
agli occhi del ricercatore, essi teorizzano alcune istituzioni internazionali transitorie (perché
incapaci di rispondere ai criteri della legittimità democratica e dell’efficacia) come permanenti,
svolgendo così un ruolo conservatore, in alcuni casi anche reazionario, nei confronti di un ordine
internazionale che non è più in grado di garantire un futuro alla specie umana. Ad esempio, per
quanto riguarda l’unificazione europea, Joseph Weiler sostiene la tesi che la Costituzione europea
non abbia alcune rapporto né con un popolo europeo, che a suo avviso non esisterebbe, né con uno
Stato federale europeo, che non è desiderabile. Weiler afferma senza esitazioni che, per quanto
riguarda il processo d’integrazione europea, “si deve evitare il termine federale”.42
L’Unione è
40
Si tratta del cap. VI del Principe. 41
In verità, la prassi politica internazionale mostra che vi sono numerose istituzioni intermedie tra le due polarità
indicate – come la Lega delle Nazioni, l’OCSE, ecc. – ma nessuna di queste rappresenta un modello stabile di comunità
politica, nel senso che garantisce l’efficienza e la democraticità delle decisioni prese. 42
J. H. H. Weiler, The Constitution of Europe, Cambridge, Cabridge University Press, 1999; trad. it. La Costituzione
dell’Europa, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 15. Weiler sostiene che il termine Europa federale è fuorviante perché
sostituisce quello di Stato federale europeo, a cui si oppone per varie ragioni, una delle quali è che sarebbe “inevitabile
la tendenza all’aggregazione del potere nelle istituzioni federali” (p. 566), inoltre l’Unione di Stati, così come si è
costituita con il Trattato di Amsterdam, è “una organizzazione politica senza precedenti e, sostiene Weiler, aborrirei
l’idea che possa venire rimpiazzata da uno Stato” (p. 576) che introdurrebbe un confine “tra un noi europeo e un loro
non-europeo” (p. 572). Weiler tuttavia non spiega per quale ragione vorrebbe lasciare le decisioni della politica
mondiale nelle mani di altri Stati, come gli USA, la Russia, la Cina, l’India, ecc. e non anche in quelle dell’Europa.
21
un’organizzazione originale, che non deve necessariamente evolvere verso una Federazione. Per
quanto riguarda la riforma dell’ONU, alcuni politologi43
hanno teorizzato una governance mondiale
senza un governo mondiale. Habermas discute della possibilità di una politica interna mondiale e di
un diritto costituzionale mondiale senza un governo mondiale. Eppure, se l’esperienza europea è
sufficientemente significativa, la costituzionalizzazione del diritto internazionale non sarà possibile
non solo senza una Corte di giustizia mondiale, che decida le controversie internazionali, ma anche
senza le istituzioni democratiche necessarie per produrre un diritto che sia l’espressione della
volontà dei cittadini del mondo. Gli economisti, nel dibattito che ha preceduto la creazione della
moneta europea, hanno difeso a grande maggioranza il mantenimento di un regime di cambi
flessibili o aggiustabili, in alternativa a una moneta unica europea. In alcuni casi, hanno anche
teorizzato la possibilità di una moneta europea senza una banca centrale europea. Oggi, nonostante
l’esperienza europea, le continue crisi finanziarie internazionali e la crescente integrazione
economica internazionale, l’ipotesi di una moneta mondiale (almeno come punto di arrivo di un
processo di riforma) non viene nemmeno presa in considerazione. Eppure non vi è alcun
fondamento economico razionale nell’ipotesi che l’area monetaria debba necessariamente
coincidere con l’area dello Stato nazionale.
Questi esempi dimostrano che l’abbandono del vecchio paradigma conoscitivo della sovranità
nazionale è difficile e che richiede il coraggio degli innovatori. Come osserva Kuhn, “una decisione
di tal genere può essere presa soltanto sulla base della fede”. Forse è per questo che le avanguardie
svolgono un ruolo indispensabile, nella politica come nella scienza. E’ in effetti nella ragione che
occorre riporre la speranza per un futuro di pace e di giustizia. Il passato testimonia con sin troppa
evidenza quali atrocità gli esseri umani sono in grado di commettere verso i propri simili, quando
agiscono come un’orda organizzata scientificamente. Nel passato, gli Stati si sono formati e
consolidati anche per difendersi contro minacce esterne. Ma, a livello mondiale, la sola minaccia
esterna che può spingere l’umanità a darsi un governo, consiste nella possibile distruzione del
Pianeta causata dall’inquinamento, da una crisi ecologica irreversibile. Tuttavia, anche questa
minaccia non è esterna alla volontà umana. Dipende da un sistema produttivo insostenibile che
potrà essere riorganizzato e riformato da un’appropriata politica ecologica su scala mondiale. Non si
può dunque sfuggire alla conclusione che l’umanità potrà decidere del suo futuro solo se si darà i
mezzi politici, economici e giuridici di autogoverno. Un ordine mondiale pacifico è una costruzione
artificiale, una organizzazione pianificata e voluta dalla ragione. Si dovrebbe dire che la pace è un
ordine contro natura, se la ragione non fosse parte integrante di ogni essere umano.
43
J. N. Rosenau, E-O Czempiel, Governance without Government: Order and Change in World Politics, Cambridge,
Cambridge University Press, 1992.
APPENDICE
Il ruolo del Parlamento europeo nel processo costituente
L’Assemblea parlamentare europea della CECA, voluta da Jean Monnet, era inizialmente
poco più di un’espressione simbolica del popolo europeo. Tuttavia, proprio in virtù del suo valore
simbolico, fu chiamata ad elaborare la prima proposta di costituzione europea. Nel 1952, venne
incaricata dai Sei governi della Piccola Europa di redigere un progetto di Comunità politica
europea. L’Assemblea parlamentare svolse diligentemente l’incarico che non aveva sollecitato.
Quando la Francia respinse il progetto, uscì di scena in silenzio. D’altro canto, non aveva nemmeno
avuto il coraggio di proclamarsi Assemblea costituente. Un’Assemblea parlamentare, priva del
sostegno popolare che può derivare solo dal suffragio universale, finisce inevitabilmente per essere
un docile strumento nelle mani degli esecutivi nazionali.
22
Lo Statuto,1 adottato dall’Assemblea ad hoc nel 1953, prevedeva la creazione di un
Parlamento bicamerale: una Camera dei popoli, composta da deputati eletti direttamente dai
cittadini, ed un Senato, composto da senatori eletti dai Parlamenti nazionali. Le leggi europee
avrebbero dovute essere approvate da entrambe le camere. Un Consiglio esecutivo europeo avrebbe
assicurato “il governo della Comunità”. Il Senato eleggeva il Presidente del Consiglio esecutivo
europeo che, dopo aver scelto i suoi Ministri, avrebbe dovuto presentarsi di fronte alle due Camere
per ricevere un voto di fiducia. Queste istituzioni, oltre alla Corte, potrebbero essere definite, nel
loro insieme, come federali. Tuttavia, il Consiglio esecutivo non godeva di pieni poteri, né sulle
questioni economiche, né su quelle riguardanti la sicurezza e la politica estera. Infatti, alcuni poteri
cruciali erano riservati al Consiglio dei Ministri nazionali. Per quanto riguarda l’economia si
prevedeva la creazione di un mercato comune europeo, ma solo attraverso il coordinamento delle
politiche monetarie (nessun cenno veniva fatto alla necessità di una moneta unica e di una Banca
centrale europea). La Comunità godeva di risorse proprie e del potere di ricorrere a prestiti, ma il
Consiglio dei Ministri avrebbe dovuto esprimere il suo “parere conforme” all’unanimità sulla
proposta di bilancio presentata dal Consiglio esecutivo. Infine, la politica estera e della sicurezza
doveva essere coordinata dalla Comunità ed il Consiglio esecutivo europeo avrebbe potuto agire “in
qualità di mandatario comune degli Stati membri” solo in seguito ad una decisione all’unanimità del
Consiglio dei ministri. In sostanza, lo Statuto creava un governo bicefalo, perché su alcune
questioni rilevanti il Consiglio esecutivo doveva ottenere il consenso unanime del Consiglio dei
Ministri, che poteva dunque essere considerato come il secondo organo esecutivo della Comunità
europea.
Nonostante questi limiti di democraticità nel processo decisionale, lo Statuto dell’Assemblea
ad hoc, se ratificato, avrebbe impresso una svolta decisiva al processo di unificazione politica
dell’Europa. Le nuove istituzioni sovranazionali consentivano di mettere nelle mani dei cittadini e
dei partiti europei, non appena il Parlamento europeo fosse stato eletto a suffragio universale, una
parte consistente delle decisioni europee. Tuttavia, come è noto, il progetto della CED venne
bocciato dall’Assemblea nazionale francese nell’agosto del 1954, dopo che la Germania e i paesi
del Benelux lo avevano già approvato. E, con la CED, cadde anche il progetto di Comunità politica
europea.
Il colpo inferto dalla Francia all’unificazione europea ebbe conseguenze gravissime. Si è
trattato di una vera e propria “restaurazione nazionale” (l’espressione è di Altiero Spinelli). Per un
lungo periodo di tempo, nonostante il rilancio del processo di integrazione alla Conferenza di
Messina (1955), dai discorsi europei venne sistematicamente bandito ogni riferimento ad una
Costituzione europea e ad una politica estera e della sicurezza comune. Tuttavia, tra le macerie
della costruzione comunitaria, restava intatta la CECA, con il suo approccio in parte federale ed in
parte confederale. Ed è, in effetti, su questa base che vennero costruite, con i Trattati di Roma
(1957), la Comunità economica europea (CEE) e l’Euratom. Lo scopo prioritario della CEE
sarebbe stato quello, ben delimitato, di realizzare un mercato comune, mediante l’abbattimento,
entro un periodo transitorio di dodici anni, della barriere doganali interne e la costruzione di una
tariffa esterna comune. Tuttavia, le istituzioni comuni vennero depotenziate. L’Alta Autorità
diventò la Commissione europea, ma senza più il potere di emettere prestiti e di imporre tasse,
come poteva fare la CECA. L’Assemblea parlamentare restò formata per molti anni da parlamentari
provenienti dai parlamenti nazionali, dunque, eletti indirettamente. Quasi tutti i poteri vennero
concentrati nelle mani dei governi nazionali.
Dopo il varo del Mercato comune, quando la Comunità europea cominciò a rappresentare un
quadro pacifico entro il quale gli Stati europei potevano garantire un crescente benessere ai propri
cittadini, anche l’Assemblea parlamentare fu costretta a giocare la sua parte, rivendicando alcuni
poteri di bilancio di cui era priva. L’occasione si presentò quando il Presidente francese De Gaulle
propose di organizzare la prima politica europea comune: la politica agricola comunitaria. La
1 Lo Statuto della Assemblea ad hoc è stato recentemente ripubblicato in U. De Siervo (a cura di), Costituzionalizzare
l’Europa ieri ed oggi, Bologna, Il Mulino, 2001.
23
realizzazione della PAC richiedeva la fissazione dei prezzi europei dei prodotti agricoli, che
dovevano essere sostenuti da prelievi all’agricoltura e da una tariffa esterna comune. La PAC
richiedeva, dunque, un bilancio comunitario per il suo funzionamento. Fu a questo punto che si aprì
una crisi grave tra le istituzioni comunitarie (sfociata, nel 1965, nella politica delle “sedia vuota” da
parte della Francia) poiché la Commissione Hallstein e l’Assemblea parlamentare, sostenuta in
particolare dal governo olandese, pretendevano un controllo democratico sulle risorse proprie della
Comunità, invocando lo storico principio No taxation, without representation. La questione si
risolse solo dopo l’uscita di scena del Generale De Gaulle, con un compromesso tra Parlamento
europeo e Consiglio, in cui si prevedeva una procedura secondo la quale il Consiglio poteva
imporre nel bilancio il rispetto di alcuni voci rilevanti considerate come “spese obbligatorie” (le
spese per il sostegno della PAC e quelle per l’amministrazione della Comunità), mentre il
Presidente del Parlamento europeo avrebbe avuto l’ultima parola per l’approvazione definitiva del
bilancio. In breve, il Parlamento europeo, in base all’accordo del 22 luglio 1975, poteva rifiutare
globalmente il progetto di bilancio e pretendere la presentazione di un nuovo progetto. In questo
modo, il Parlamento europeo conquistò il potere di orientare secondo la sua volontà la parte delle
spese “non obbligatorie”, che inizialmente rappresentavano una quota molto piccola del totale, ma
che con il progressivo ridimensionamento della PAC, sono diventate la parte più consistente del
bilancio.
Un ruolo politico, tuttavia, il Parlamento europeo avrebbe potuto svolgerlo solo se eletto
direttamente. L’elezione europea maturò nel corso degli anni Settanta, quando la Comunità
attraversò una grave crisi, anche a causa del crollo del sistema di Bretton Woods, che privò il
Mercato comune di una moneta stabile. Il rilancio avvenne nel 1979 su due fronti: la creazione del
Sistema monetario europeo e l’elezione diretta del Parlamento europeo.
La prima elezione europea del 1979 fu preceduta da un intenso dibattito sul significato
dell’elezione. La proposta suscitava la perplessità di coloro che ritenevano inutile eleggere un
Parlamento senza poteri. In quella occasione, l’ex-cancelliere Willy Brandt sostenne che il
Parlamento europeo avrebbe potuto svolgere il ruolo di una Assemblea costituente permanente. La
terminologia può sembrare inappropriata, poiché solitamente le assemblee costituenti hanno una
vita breve, che termina una volta che l’accordo sul testo di costituzione è trovato. Ma, nel caso
dell’Europa questa obiezione appare poco fondata. Mario Albertini, a proposito del ruolo
costituente del Parlamento europeo, ha osservato che “in teoria si può pensare ad una Assemblea
costituente tradizionale, ma ciò comporta che con una sola azione (i lavori, appunto, di questa
Assemblea), si dovrebbe dotare la Comunità non solo di una moneta europea, ma anche di un
esercito europeo e di un apparato burocratico per questi nuovi campi di attività; e che tutto ciò
dovrebbe entrare in funzione subito dopo l’approvazione della costituzione. Le assemblee
costituenti del passato hanno proceduto in questo modo, ma perché hanno dato forma nuova ad uno
Stato che esisteva di già, con una moneta, un esercito e una burocrazia completa. Ma in Europa non
si tratta di trasformare uno Stato già esistente, ma di costruirne uno ex-novo. Ciò mostra che
l’espressione usata da Willy Brandt per il Parlamento europeo eletto direttamente – costituente
permanente – è corretta, e descrive adeguatamente lo stato delle cose, a patto tuttavia di adoperarla
come un concetto e non come un semplice slogan”.2
In effetti, il Parlamento europeo, se si considerano le sue iniziative politiche, a partire dalla
sua elezione diretta, ha svolto un ruolo di assemblea costituente permanente, sia perché ha avanzato
espliciti progetti di riforma dell’Unione, sia perché ha costantemente premuto sui governi per
2 Il testo citato, di Mario Albertini, continua così: “Ciò che importa, in questa prospettiva di una costruzione graduale, è
stabilire che si comincia davvero, e come si comincia. Orbene, l’elezione europea è a questo riguardo la sola garanzia
reale ed efficace perché col voto si affida la costruzione dello Stato europeo alla sola forza che può costruirlo davvero:
il popolo europeo. Il voto, d’altra parte, non è soltanto una specie di tacito mandato costituzionale al popolo europeo,
ma è anche, e senza dubbio, il primo atto costituzionale e la prima realizzazione costituzionale. E va anche detto che
questi fatti non possono essere concepiti che come i primi fatti della vita dello Stato europeo: il che mostra che a partire
dal primo voto europeo avrà una prima forma ed esistenza proprio lo Stato europeo” (dal Rapporto di Mario Albertini a l
Comitato federale dell’UEF del 18-19 febbraio 1978; in L’Unità europea, Marzo 1978, n. 49)
24
ottenere maggiori poteri, al fine di eliminare il deficit di democrazia europea da lui stesso
denunciato. Secondo Richard Corbett,3 il Parlamento europeo ha sviluppato le sue rivendicazioni
lungo tre linee fondamentali. La prima è consistita nella difesa del principio di sussidiarietà,
secondo il quale devono essere attribuiti al livello europeo quei poteri che i governi nazionali non
sono in grado di gestire adeguatamente. Il principio di sussidiarietà può, dunque, essere fatto valere
principalmente per il settore della moneta, della sicurezza e della politica estera, ma anche per altre
politiche, come la ricerca, le grandi reti di comunicazione, la coesione sociale, ecc. In secondo
luogo, il Parlamento europeo ha sempre sostenuto che le responsabilità e i poteri che vengono
attribuiti al livello europeo devono essere gestiti in modo efficace, dunque democratico. Per questo,
ha criticato la procedura, adottata nel Consiglio, delle decisioni all’unanimità, che di fatto
legittimano la “dittatura della minoranza”. In terzo luogo, il Parlamento ha sostenuto che, al fine di
superare il deficit democratico europeo, i poteri a cui rinunciano i parlamenti nazionali siano gestiti
dall’Unione mediante una procedura di codecisione tra Parlamento e Consiglio (principio della
doppia legittimità). L’accumulazione di poteri esecutivi e legislativi da parte del Consiglio
rappresenta la vera anomalia di un sistema decisionale democratico. L’eliminazione di questa
anomalia comporta la trasformazione del Consiglio dei Ministri in una seconda camera legislativa e
della Commissione in un esecutivo responsabile di fronte al Parlamento (ed eventualmente anche al
Consiglio).
La prima, e più importante, iniziativa costituente del Parlamento europeo è consistita
nell’approvazione, il 14 febbraio 1984, del Trattato che istituisce l’Unione europea, grazie
all’azione di Altiero Spinelli. Questa iniziativa non ebbe successo, perché il Consiglio europeo non
accettò di sottoporre il Progetto di Trattato alle ratifiche nazionali. Ciò nondimeno esso rappresenta
una pietra miliare nella storia del processo di unificazione europea, perché, come ha scritto Maurice
Duverger, ha influenzato tutte le successive riforme, fornendo “l’equivalente di una Guida Michelin
per un viaggio in una regione sconosciuta”.4 Il Trattato di Unione europea (e va notato che la
Comunità solo successivamente a questa iniziativa assumerà la nuova denominazione, a Maastricht)
è, in verità, un vero e proprio progetto di Costituzione. Il Trattato non prevede il trasferimento di
poteri “sovrani” all’Unione, ma predispone un quadro giuridico in cui questi poteri avrebbero
potuto essere trasferiti con gradualità ad istituzioni democratiche ed efficaci. Per quanto riguarda la
moneta, si afferma in effetti che “l’Unione esercita una competenza concorrente in vista della
progressiva realizzazione dell’Unione monetaria compiuta”, mentre nel campo della politica estera
e della sicurezza il Trattato riconosce la necessità di procedere ancora mediante il metodo
intergovernativo. Tuttavia, l’architettura istituzionale fondamentale è chiaramente di ispirazione
federalista. Il Parlamento europeo partecipa “alla procedura legislativa e a quella di bilancio nonché
alla stipulazione degli accordi internazionali; dà l’investitura alla Commissione, approvando il suo
programma politico; esercita il controllo politico sulla Commissione; ha il potere di approvare a
maggioranza qualifica una mozione di censura che obbliga i membri della Commissione a
dimettersi collettivamente dalle loro funzioni”. Il Consiglio dei Ministri “vota a maggioranza
semplice” nei casi in cui non sia previsto un voto a maggioranza qualificata o all’unanimità
(dunque, in quest’ultimo caso, sulle questioni relative alla politica estera e della sicurezza). Il
Trattato non prevedeva una Carta dei diritti, tuttavia statuiva che entro cinque anni, l’Unione
avrebbe adottato una “propria dichiarazione dei diritti fondamentali”. Particolarmente innovativa è
la procedura di entrata in vigore del Trattato. L’art. 82 afferma che “allorché il presente Trattato
sarà stato ratificato da una maggioranza degli Stati membri della Comunità la cui popolazione
costituisca i 2/3 della popolazione complessiva della Comunità, i governi degli Stati membri che
avranno ratificato si riuniranno immediatamente per decidere di comune accordo le procedure e la
3 R. Corbett, “The European Parliament and the Idea of European Representative Government” in J. Pinder Foundations
of Democracy in the European Union. From the Genesis of Parliamentary Democracy to the European Parliament,
London, Macmillan Press, 1999, pp.92-3. 4 M. Duverger, L’Europe dans tous ses Etats, Paris, PUF, 1995, p. 44. Recentemente il Progetto Spinelli è stato
ripubblicato in U. Di Siervo (a cura di), Costituzionalizzare l’Europa oggi, op. cit. p. 191.
25
data di entrata in vigore del presente Trattato nonché le relazioni con gli altri Stati membri che non
hanno ancora ratificato”.
Il Progetto Spinelli, come si è detto, non ebbe fortuna. I governi nazionali preferirono
accantonarlo ed adottare un programma di integrazione molto più modesto: l’Atto unico, per
realizzare il mercato interno entro il 1992. Tuttavia, la sfida costituzionale era solo rinviata, perché
dopo il crollo del Muro di Berlino e l’unificazione tedesca, il progetto europeo riprese vigore
intorno ad un capitolo che sino ad allora non era riuscito ad imporsi come decisivo: l’Unione
monetaria. Il Parlamento europeo riprese coraggio e, in occasione delle trattative intergovernative
che sarebbero sfociate nel Trattato di Maastricht, riuscì a proporre e a realizzare delle Assise
(denominate ufficialmente “Conferenza dei Parlamenti della Comunità”) a Roma nel 1990. Lo
scopo delle Assise era quello di radunare i rappresentanti del Parlamento europeo e i rappresentanti
dei Parlamenti nazionali della Comunità per proporre alcune riforme essenziali ai Capi di Stato e di
governo. In questo modo, il Parlamento europeo cercava di uscire dall’isolamento che aveva
probabilmente causato il fallimento del Progetto Spinelli, discusso ed elaborato solo in sede
europea. Una preventiva discussione con i parlamenti nazionali avrebbe senza dubbio dato maggior
forza alle proposte provenienti dal Parlamento europeo. In effetti, alcune proposte delle Assise
vennero accolte nel Trattato di Maastricht, che invitava “il Parlamento europeo e i parlamenti
nazionali a riunirsi se necessario sotto forma di Conferenza dei Parlamenti (o Assise)”.5
Il Trattato di Maastricht risolse il problema dell’Unione monetaria, ma non quello
dell’Unione politica. Il deficit democratico europeo restava, anche se il Parlamento europeo poteva
vantarsi di aver strappato nuovi consistenti poteri, passando così da organo puramente consultivo ad
organo co-legislativo, insieme al Consiglio. In parte, il potere di co-decisione legislativa era già
stato concesso al Parlamento europeo con l’Atto Unico, ma ora la procedura di co-decisione veniva
codificata ed estesa anche alla formazione del bilancio. Tuttavia, nonostante che la politica estera e
della sicurezza divennero, a Maastricht, una competenza dell’Unione, i mezzi con cui si sarebbe
dovuta realizzare erano assolutamente inadeguati. Era evidente che l’Unione non era in grado di
affrontare il problema pressante dell’allargamento, verso le nuove democrazie dell’Est, senza una
rifondazione istituzionale radicale.
Per questo, il Parlamento europeo si rimise al lavoro su un nuovo progetto di Costituzione,
detto Progetto Herman,6 che venne approvato alla vigilia delle elezioni europee del 1994. Il
Progetto Herman riprese le grandi linee di riforma istituzionale del Progetto Spinelli, per quanto
riguarda le funzioni e i poteri della Commissione, del Parlamento e del Consiglio, ma assunse
decisamente la forma di una Costituzione (oltre che il nome) includendo una Carta dei diritti
dell’uomo garantiti dall’Unione. E’ poi interessante notare che nella risoluzione (del 10 aprile 1994)
in cui si approvava il progetto di Costituzione, il Parlamento europeo propose anche che “una
Convenzione europea che riunisca i membri del Parlamento europeo e dei Parlamenti degli Stati
membri dell’Unione abbia luogo prima della Conferenza intergovernativa prevista per il 1996 al
fine di adottare, sulla base di un progetto di Costituzione da sottoporre al Parlamento europeo, le
linee direttive per una Costituzione dell’Unione europea e di affidare al Parlamento europeo il
compito di elaborare un progetto definitivo”.
Il destino del Progetto Herman non fu differente da quello precedente di Spinelli, tuttavia la
proposta di una Convenzione europea cominciò ad affermarsi come la via maestra per superare
l’impasse creata dalle Conferenze intergovernative, nelle quali il compito di riformare l’Unione era
affidato a diplomatici che rispondevano unicamente ai propri governi. La Convenzione, al contrario,
comporta che siano i rappresentanti dei cittadini europei a dover decidere il futuro dell’Europa. La
proposta di una Convenzione europea venne tuttavia ignorata dai governi che, in vista del Trattato
di Amsterdam e poi di quello di Nizza, procedettero sulla base del vecchio metodo
5 Cfr. M. Duverger, op. cit., p. 62.
6 Sul Progetto Herman, cfr. J-V. Louis, “Le projets de constitution dans l’histoire de la construction européenne”, in P.
Magnette (editeur), La Constitution de l’Europe, Bruxelles, Editions de l’Université de Bruxelles, 2000, p. 41.
26
intergovernativo. Solo dopo il clamoroso fallimento di Nizza, i governi furono costretti a prendere
in considerazione l’ipotesi di una Convenzione e di una Costituzione europea.
L’art. IV-443 della Costituzione europea, sulla procedura di revisione della Costituzione, deve
dunque essere considerato come una vittoria del Parlamento europeo. Esso, alla pari della
Commissione e dei governi degli Stati membri, può ora chiedere al Consiglio, che decide a
maggioranza semplice, la convocazione di una nuova Convenzione. Si tratta di un potere di riforma
delle istituzioni che il Parlamento europeo non aveva e che ora potrebbe consentire nuovi
importanti passi in avanti. Questa procedura è purtroppo ancora sottoposta alle forche caudine di
una successiva Conferenza intergovernativa, in cui i governi nazionali possono ridimensionare le
eventuali proposte innovative della Convenzione. In verità, il Parlamento europeo non ha ancora
conquistato un pieno potere di co-decisione costituente, come è indispensabile se si vuole rispettare
il principio della doppia legittimità dell’Unione. Ma la strada è aperta per una revisione della
Costituzione che la renda del tutto autonoma nei confronti dei poteri nazionali, dai quali, per ora,
deriverebbero tutti i poteri europei (art. I-1).