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Ansia e rabbia di Alessandro Geloso 2006 1

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Page 1: di Alessandro Geloso · Capitolo 4 Da Bowlby a Freud 23 Capitolo 5 Strumenti teorici di analisi del processo rabbia/ansia 26 Capitolo 6 Da Freud a Berne 33 ... una mancata elaborazione

Ansia e rabbia

di

Alessandro Geloso

2006

1

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Indice

Introduzione 3

Capitolo 1 John Bowlby analista cognitivo 5

Capitolo 2La rabbia nei bambini: esempi e casistiche 8

Capitolo 3La rabbia funzionale alla sopravvivenza:una spiegazione etologica

14

Capitolo 4Da Bowlby a Freud 23

Capitolo 5Strumenti teorici di analisi del processo rabbia/ansia

26

Capitolo 6Da Freud a Berne 33

Capitolo 7La rabbia in Analisi Transazionale 37

Bibliografia 44

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Introduzione

Con questo breve lavoro ho voluto mostrare come il sentimento di rabbia si

manifesti nel periodo natale e post natale e quali conseguenze possano

derivare da contesti non sicuri.

Per far questo ho usato come strumenti parte della casistica riportata da

Bowlby (Bowlby 1980) e la teoria dell'attaccamento materno.

Ho ripreso le sue considerazioni sull'origine della rabbia inquadrandole in un

contesto storico che unisce Freud a Bowlby e Berne; entrambi questi ultimi, ne

sono a mio avviso i prosecutori, anche se si differenziano sotto molti aspetti.

Bowlby evidenzia gli istinti che si cristallizzano in atteggiamenti sociali, Berne

invece i copioni che sono fondati da spinte emotive, ma in entrambi i casi tutto

ruota intorno al bisogno di carezze e al modo di procurarsele.

Nell'osservazione di casi di abbandono di bambini, sembra esistere una

correlazione fra la rabbia e l'ansia che si esplica attraverso una parabola

discendente che passa attraverso 4 stadi, secondo lo schema qui riportato.

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E' possibile notare come la teoria dell'attaccamento possa dare delle buone

spiegazioni delle paure profonde che animano i copioni; in questo senso il

capitolo 3° cerca di analizzare l'origine delle paure e angoscie secondo le

scoperte teoriche e neurofisiologiche da Freud in poi.

Il capitolo 4° è un caso clinico di Novellino in cui viene trattata una paziente

che ha inizialmente uno stato di ansia, successivamente nella terapia subentra

l'angoscia, infine la collera e la rabbia, riconducibili alla sua visione del

rapporto materno.

Qui sono mostrati gli strumenti dell'Analisi Transazionale direttamente sul

campo, senza ulteriori spiegazioni, ma usando il caso clinico come conferma a

ritroso del percorso sopra descritto, come una sorta di prova del nove.

La semplicità e brevità dell'esempio mi è parsa bastevole all'argomento, che

tuttavia avrei voluto sviluppare ulteriormente, soprattutto nella transizione

istinto/attaccamento materno - tipi psicologici/tipologie di copione.

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1 - John Bowlby: un analista cognitivo

John Bowlby ha contribuito a dimostrare come lo sviluppo armonioso della

personalità del bambino dipenda da un adeguato attaccamento alla figura

materna e influenzato dal contesto culturale e scientifico degli anni ‘50-’60,

fortemente impregnato dai progressi della biologia evoluzionistica, dell’etologia

e della cibernetica, ha fissato le radici del futuro sviluppo del "costrutto

dell’attaccamento".

Bowlby teorizza che l’attaccamento nasce come manifestazione pulsionale, ma

si sviluppa, in seguito, come fenomeno interazionale. Alcuni comportamenti

istintuali, (succhiare, stare attaccati, piangere) riconducibili biologicamente alle

necessità di accudimento e di protezione del neonato, successivamente

evolvono in un legame di attaccamento verso una specifica figura materna

attraverso l’interiorizzazione dei sentimenti e delle modalità affettive di tale

figura e l’organizzarsi di "modelli operativi interni", che si fondano su processi

mentali di attenzione, percezione, memoria, selezione di affetti e di risposte

comportamentali, all’interno di relazioni significative.

Secondo Bowlby, aver sperimentato figure di accudimento sensibili e disponibili

verso gli altri, favorisce la maturazione di un atteggiamento globalmente

fiducioso nei riguardi delle relazioni umane e di un sentimento di sé positivo; al

contrario, aver avuto figure di accudimento inadeguate genera scarsa fiducia in

sé e negli altri e aspettative negative riguardo alle relazioni intime.

I principi della teoria dell’attaccamento formulati da Bowlby furono

successivamente verificati da Mary Ainsworth, che iniziò i suoi studi

sull’argomento influenzata dalla Security Theory di William Blatz. Uno dei

principi più importanti della Security Theory affermava che i bambini nella

prima e seconda infanzia devono sviluppare una dipendenza sicura dai genitori

prima di affrontare situazioni non familiari in cui devono agire da soli. La

dipendenza sicura fornisce le basi per una fiducia in se stessi tale da

permettere una sicura autonomia dai genitori, che successivamente dovrebbe

essere sostituita da una dipendenza sicura dai pari e infine da un partner

eterosessuale. In particolare, si deve alla Ainsworth l’elaborazione di due scale

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di valutazione: la prima mirava a stimare, mediante colloqui, la sensibilità

materna ai segnali del bambino, la seconda, "Strange Situation Procedure", si

proponeva di analizzare l’organizzazione dell’attaccamento nel bambino,

valutando l’equilibrio tra comportamenti di attaccamento e comportamenti di

esplorazione in una situazione di stress. Attraverso quest’ultima scala, la

Ainsworth ha individuato tre patterns principali di attaccamento:

"attaccamento ansioso-evitante", "attaccamento sicuro" e "attaccamento

ansioso-resistente". Più recentemente Main e Solomon hanno descritto un

nuovo pattern denominato "disorganizzato-disorientato".

Attraverso i risultati ottenuti dalla Strange Situation si è potuto, inoltre,

riscontrare rilevanti correlazioni tra i comportamenti del bambino e

l’atteggiamento da parte della figura di attaccamento verso di lui. Le madri dei

bambini "sicuri", rispondono sensibilmente ed in modo appropriato alle

richieste del figlio, fornendogli soltanto quando ne vengono richieste (col pianto

o altri segnali di richiamo), il conforto e la protezione necessari; le madri dei

bambini "evitanti", indisponibili alle richieste del bambino, rifiutanti ed ostili

nello stesso tempo, manifestano avversione al contatto fisico, hanno mimica

rigida e poco espressiva e sembrano addirittura infastidite dalle richieste di

conforto e protezione che il bambino rivolge loro; le madri dei bambini

"resistenti", intrusive ed ipercontrollanti, limitano la tendenza del bambino

all’esplorazione autonoma dell’ambiente ed appaiono imprevedibili ed

incoerenti nella disponibilità a rispondere alle esigenze di attaccamento del

bambino; le madri dei bambini "disorganizzati-disorientati", spesso presentano

una mancata elaborazione del lutto o del "trauma", il ricordo di esperienze di

abuso sessuale (in genere incestuoso) o di altra violenza subita da bambine o

gravi forme di disturbo bipolare, per cui non interagiscono con il figlio in termini

di richieste e mostrano un comportamento spaventato e dolente, non correlato

a quanto accade in quel momento nell’ambiente, che disorienta il bambino,

poiché la madre diviene allo stesso tempo rifugio e fonte di angoscia.

Risulta ancora in via di definizione una nuova e peculiare situazione di

relazione primaria definita "attaccamento forzoso", descritta da Nunziante

Cesaro. Con questa modalità relazionale si intende una forma di attaccamento

fortemente pilotata dalla madre che usa inconsciamente il piccolo per i propri

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bisogni fusionali dilazionando la separazione tra sé e il proprio figlio.Le madri di

questi bambini sono sostanzialmente simbiotiche, capaci di una empatica

relazione con il figlio per tutto ciò che riguarda gli aspetti fusionali del rapporto,

ma improvvisamente abbandoniche quando questi bisogni vanno in direzione

di una sostanziale differenziazione da loro.

Negli ultimi anni, la teoria dell’attaccamento si è inoltre arricchita di riflessioni

relative ad altri fattori in grado di determinare le caratteristiche di tale legame;

in particolare, sono stati valorizzati il temperamento-carattere del bambino,

eventuali condizioni psicopatologiche della madre, il ruolo della figura paterna,

la relazione coniugale ed influenze ambientali in senso lato. Incentrando

l’attenzione sul bambino, recenti ricerche finalizzate allo studio

dell’intenzionalità, quale fattore promuovente lo sviluppo cognitivo in generale

e la capacità di comprendere la mente dell’altro in particolare, hanno

dimostrato che i bambini iniziano in età molto precoce a percepire se stessi e

gli altri come individui e svolgono dunque un ruolo molto più attivo di quanto si

riteneva in passato nell’ambito della relazione primaria.

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2 - La rabbia nei bambini: esempi e casistiche

Bowlby nella sua opera Attaccamento e Perdita (Bowlby 1980) mostra

ampiamente mediante esempi, ricerche ed esperimenti, come la rabbia sia una

reazione istintiva alla separazione, un istinto naturale fortemente legato alla

sopravvivenza della specie; ne mostreremo in questo capitolo alcuni esempi

cercando di darne una ampia e diversificata fenomenologia.

Heinicke e Westheimer (Heinicke C. e Westheimer I. 1966) effettuarono

ricerche sistematiche su dieci bambini che avevano da tredici a trentadue

mesi, durante e dopo un soggiorno di due o più settimane in un nido d'infanzia

residenziale in Inghilterra. Quando i bambini che avevano subito quella

separazione vennero confrontati con un gruppo di bambini che erano rimasti

nelle loro famiglie, risultò evidente nei primi la maggiore tendenza a reagire

aggressivamente. Per esempio, durante il loro soggiorno nel nido d'infanzia,

almeno due volte, con un intervallo di otto giorni, è stato somministrato ai

bambini separati un gioco con la bambola; lo stesso gioco venne somministrato

a casa, con lo stesso intervallo, ai bambini del gruppo di confronto. Entrambe le

volte gli episodi di comportamento ostile durante il gioco con la bambola si

verificarono nei bambini separati con frequenza quadrupla rispetto ai bambini

che vivevano in famiglia. Gli oggetti attaccati erano perlopiù le bambole-

genitori. Dei bambini separati, otto attaccarono una bambola che era stata già

identificata dal bambino stesso come bambola-madre o bambola-padre;

nessuno dei bambini che vivevano in famiglia fece altrettanto. Sei settimane

dopo che i bambini separati avevano fatto ritorno a casa, e dopo un periodo

equivalente per i bambini non separati, si somministrò ancora il gioco con la

bambola; il tutto fu ripetuto dieci settimane più tardi. Nessuna delle due volte,

però, si trovarono differenze di ostilità tra i bambini dei due gruppi; la ragione è

che sei settimane e più dopo il ricongiungimento i bambini che erano stati

separati non erano più particolarmente aggressivi nel loro gioco. Durante il

periodo che va dalla seconda alla ventesima settimana dopo il

ricongiungimento, sei dei dieci bambini separati si comportavano verso le loro

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madri con un'intensità di ambivalenza che non venne riferita per nessuno dei

bambini che erano rimasti in famiglia.

Un altro esempio di atteggiamento rabbioso è descritto da Robertson

(Robertson 1962) nel caso di Laura, una bambina di due anni e quattro mesi

che egli aveva filmato durante un soggiorno di otto giorni in ospedale per

un'operazione di poco conto. Alcuni mesi dopo il ritorno di Laura a casa,

Robertson stava mostrando una prima versione della pellicola su Laura ai suoi

genitori perché facessero i loro commenti, mentre Laura – così si pensava - era

a letto. Non si sa come, Laura invece si svegliò, si trascinò carponi nella stanza,

e assistette alle ultime fasi della proiezione, quelle in cui la si vedeva il giorno

del ritorno dall'ospedale, prima disorientata mentre chiamava la mamma, poi,

quando si tiravano fuori le sue scarpine, felice all'idea di ritornare a casa, e

infine mentre insieme alla mamma lasciava l'ospedale. Terminata la proiezione,

quando vennero accese le luci, Laura si scostò dalla madre e si fece prendere

in braccio dal padre. Poi, guardando con aria di rimprovero la madre, le chiese:

«Dov'eri tu, mamma? Tu dov'eri?» Analogamente, la Wolfenstein (Wolfenstein

1957), nella sua ricerca sul modo di reagire alle catastrofi, riferisce di una

bimba che durante un tornado era rimasta separata dal padre e che, quando

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1°gruppo

2°gruppo

2 sett 6 sett 10sett

aggr aggr non-aggr

non-aggrnon-aggrnon-aggr

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poi si ritrovò con lui, lo colpì irosamente rimproverandolo di essere stato

lontano da lei. Bowlby è convinto che “queste due bimbette sembravano

entrambe agire in base alla convinzione che i genitori non devono essere

assenti quando il figlio ha paura e ha bisogno di loro, e in base alla speranza

che rammentandoglielo energicamente si potesse essere certi che in seguito

non sarebbero più incorsi in tale mancanza”. Vi sono altri casi in cui la collera

del bambino è quella della disperazione. Sembra provarlo anche il caso di

Reggie (Burlingham, Freud 1942), affidato alle cure delle Hampstead Nurseries,

a due anni e mezzo aveva già avuto numerose figure materne. Due mesi dopo,

l'infermiera a cui si era attaccato se ne andò per sposarsi. Reggie non soltanto

era «sperduto e disperato» dopo la partenza di lei, ma si rifiutò di guardarla

quando venne a trovarlo quindici giorni dopo. La sera, quando se n'era andata,

lo si sentì osservare: «La mia Mary Ann! Ma io non le voglio bene.» Nel caso di

Reggie ci troviamo di fronte a una reazione non soltanto a una singola

separazione temporanea, ma a prolungate e ripetute separazioni, ciascuna

delle quali equivale a una vera e propria perdita.

Sembra plausibile e provato, secondo Bowlby, ritenere quindi che dopo una

perdita si ha un'insorgenza di collera, non soltanto nei bambini, ma anche negli

adulti e questa collera ha una sua funzione biologica. Bowlby propone una

spiegazione etologica in cui nei casi in cui la separazione è solo temporanea,

come accade nella maggioranza dei casi, l'ira ha le due seguenti funzioni:

innanzitutto quella di contribuire a superare gli ostacoli che possono esservi al

ricongiungimento; in secondo luogo, quella di scoraggiare la persona amata

dall'andarsene un'altra volta. Quando invece la perdita è permanente, come

accade dopo un lutto, l'ira e il comportamento aggressivo sono

necessariamente privi di funzionalità. La ragione per cui si verificano

ugualmente così spesso, anche dopo una morte, è che, durante le primissime

fasi del lutto, la persona colpita di solito non crede che la perdita sia veramente

permanente; pertanto essa seguita ad agire come se fosse ancora possibile

non solo ritrovare e recuperare la persona perduta, ma anche rimproverarla

per il suo modo di agire. Infatti la persona perduta non di rado viene

considerata almeno in parte responsabile di quanto è accaduto, cioè di

essersene andata. Di conseguenza, la collera finisce per essere diretta contro

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la persona perduta, con altrettanta naturalezza di quella che viene diretta

contro chiunque si pensi abbia avuto una parte nella perdita o abbia ostacolato

in un modo o nell'altro il ricongiungimento. Parkes (Parkes 1971), nella sua

ricerca sulle reazioni delle vedove alla perdita del marito, trova che la collera è

comune, anche se non a tutte. Anch'egli la considera come parte dei tentativi

del superstite per recuperare la persona perduta. Così, sia quando una

separazione è verificata come temporanea, sia quando una separazione in

corso è ritenuta solo temporanea, la collera verso la figura assente è cosa

comune. La collera viene espressa come comportamento di rimprovero e di

punizione, che si propone di favorire il ricongiungimento e di scoraggiare

un'altra separazione. Pertanto, anche se viene espressa nei riguardi del

partner, questa collera agisce nel senso d'incrementare il legame e non già di

spezzarlo. Lo si può osservare in una madre che, quando suo figlio ha

commesso l'imprudenza di attraversare la strada di corsa, lo rimprovera e lo

punisce con la collera nata dalla paura. Lo si osserva tutte le volte che il

partner sessuale rimprovera l'altro perché gli è infedele, o tale gli sembra. E

ancora, lo si trova in certe famiglie quando un membro si adira tutte le volte

che i suoi tentativi d'approcciò a un altro membro vengono accolti da un

silenzio indifferente. Questo tipo di collera si ritrova anche nei primati non

umani. Per esempio, un babbuino maschio capogruppo, quando vede un

predatore si comporta in modo aggressivo verso qualsiasi membro del proprio

gruppo che si allontana per conto suo e che può trovarsi in pericolo; in

quest'ultimo, spaventato, nasce il comportamento di attaccamento, cosicché

esso si accosta rapidamente al maschio capo, raggiungendo in tal modo la

protezione dovuta alla prossimità. L'esperienza clinica induce a ritenere che le

separazioni, specialmente quando prolungate o ripetute, hanno un doppio

effetto: da una parte suscitano la collera; dall'altra attenuano l'amore. Così non

solo il comportamento iroso d'insoddisfazione può alienare la figura di

attaccamento, ma può anche verificarsi un cambiamento nell'equilibrio

affettivo della persona che ha un attaccamento verso l'altra. Invece di un

affetto dalle solide radici che talvolta s'intreccia con un «cocente dolore», come

si forma in un bambino allevato da genitori affettuosi, nasce un risentimento

radicato nel profondo, tenuto sotto controllo solo parzialmente da un incerto

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affetto ansioso. Appare probabile che le reazioni più violentemente irose siano

quelle suscitate in bambini e adolescenti che non solo hanno sperimentato

separazioni ripetute, ma sono anche costantemente soggetti alla minaccia di

venire abbandonati. Una conclusione analoga venne raggiunta alcuni anni fa da

Stott (Stott 1950), uno psicologo inglese che visse per quattro anni in una

scuola correzionale studiando la personalità e il contesto familiare di centodue

giovani di età compresa tra i quindici e i diciotto anni, che vi erano stati

mandati a causa di reati ripetuti. L'informazione raccolta da Stott proveniva da

lunghi colloqui con i ragazzi stessi e con i loro genitori, e anche da molti

contatti informali con i ragazzi durante il loro soggiorno nella scuola. Egli

osservò che i ragazzi erano profondamente insicuri e che in molti casi

sembrava che i loro reati fossero stati delle bravate. Come accade solitamente

in questo tipo di ricerche, si notò che erano comuni gli atteggiamenti ostili dei

genitori e la rottura dei rapporti, e Stott ritenne che spiegassero in gran parte il

senso d'insicurezza dei ragazzi. Nonostante questo, ciò che impressionò Stott

più di ogni altra cosa fu scoprire che in molti casi la madre, e in alcuni altri il

padre, avevano usato come mezzo disciplinare la minaccia di abbandonare il

figlio, e che questo fatto aveva reso i ragazzi intensamente ansiosi e collerici.

Stott richiama l'attenzione sulla combinazione d'intensa angoscia e intenso

conflitto suscitata inevitabilmente da minacce di questo tipo. Infatti, mentre da

una parte il bambino diventa furibondo per la minaccia di andarsene di un

genitore, dall'altra egli non osa esprimere la sua collera per paura d'indurre il

genitore ad andarsene davvero. Questa è una delle ragioni principali, a detta di

Stott, per cui in casi del genere l'ira verso un genitore viene di solito rimossa e

poi diretta verso obiettivi diversi.

Kestenberg descrive una ragazza di tredici anni che era stata abbandonata dai

genitori e di cui si erano prese cura moltissime persone una dopo l'altra. Essa

non aveva fiducia in nessuno, e reagiva a ogni delusione con un'azione

vendicativa. Durante il trattamento, questa ragazza immaginò di esser

diventata adulta e di esser quindi capace di vendicarsi di sua madre

uccidendola.

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Secondo lo schema qui proposto, sia un periodo di separazione sia minacce di

separazione e altre forme di rifiuto vengono considerati atti a suscitare in un

bambino o in un adulto un comportamento ansioso e collerico, entrambi diretti

verso una figura di attaccamento: l'attaccamento ansioso ha lo scopo di

conservare il massimo dell'accessibilità alla figura di attaccamento; la collera è

tanto un rimprovero per quello che è accaduto quanto un deterrente per

evitare che l'accaduto si ripeta. Così succede che amore, angoscia e collera –

talora odio - vengano suscitati da una stessa persona. Ne conseguono

inevitabilmente dolorosi conflitti. Non vi è da sorprendersi che un unico tipo di

esperienza possa suscitare tanto angoscia quanto ira. Gli studiosi del

comportamento animale hanno osservato che in certe situazioni può essere

suscitata l'una o l'altra forma di comportamento, e che il fatto che un animale

reagisca con l'attacco o con la fuga, o con una combinazione di queste due

componenti, dipende da un certo numero di fattori che hanno come effetto

quello di far pendere la bilancia da una parte o dall'altra. Un bambino che a un

dato momento è furiosamente arrabbiato con uno dei genitori può benissimo il

momento dopo cercar sicurezza e conforto da quello stesso genitore. Una

successione analoga si può osservare nei litigi tra innamorati. Gli psicoanalisti

si sono a lungo interessati in modo particolare delle relazioni reciproche tra

amore, paura e odio, perché nel lavoro clinico è cosa comune trovare pazienti i

cui problemi emotivi sembrano provenire da una tendenza a reagire verso la

loro figura di attaccamento con una tumultuosa combinazione di tre elementi:

intensa possessività, intensa angoscia e intensa ira. Non di rado ne nascono dei

circoli viziosi. Un episodio di separazione o di rifiuto suscita l'ostilità di una

persona e induce a pensieri e ad atti ostili; d'altra parte pensieri e atti ostili

diretti verso la propria figura di attaccamento accrescono fortemente la paura

d'essere ulteriormente rifiutati o addirittura di perdere del tutto la figura

amata.

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3 - La rabbia funzionale alla sopravvivenza: una spiegazione etologica

Bowlby propone un'interessante prospettiva per spiegare le pulsioni e le paure

profonde degli esseri umani: una teoria degli istinti. Matura questa convinzione

attraverso osservazioni etologiche, che secondo lui mostrano come l'essere

umano sia stimolato dagli istinti nei suoi comportamenti tesi alla sopravvivenza

e alla riproduzione.

Ma la loro influenza non si presenta in maniera costante, ma solo in alcuni

periodi di tempo che determinano con maggiore forza lo sviluppo futuro

dell'individuo e questo avviene soprattutto nei primi 3 anni di vita dell'individuo

e successivamente nella sua fase di sviluppo ormonale verso l'adolescenza

(altri casi si possono presentare in periodi di forte stress, ma sono risposte a

comportamenti già appresi).

La rabbia viene quindi ad essere in quest'ottica una spinta inconscia al rinforzo

dell'attaccamento materno.

Infatti non soltanto nell'uomo, ma anche in molte altre specie si riscontrano di

norma importanti cambiamenti durante l'ontogenesi dei sistemi

comportamentali.

Nei giovani di tutte le specie di uccelli e mammiferi un certo numero di

movimenti completi sono fin dall'inizio ben eseguiti e specie-specifici, come

negli uccelli il beccare e il lisciarsi le penne, nei mammiferi il succhiare e

l'orinare, e anche i movimenti completi di cattura della preda (per esempio

nella puzzola). Tali movimenti compaiono nel loro normale contesto funzionale

senza una preparazione preliminare. Nella specie umana si riscontrano

la rotazione del capo, la suzione, il pianto del neonato; i modelli del sorriso e

della deambulazione si manifestano in epoca un po' più tarda. Inoltre, sembra

probabile che certi particolari componenti del comportamento sessuale

adulto maschile e femminile, come per esempio l'abbraccio e le contrazioni

pelviche, rientrino anch'esse in questa categoria. Possiamo quindi supporre

che tali movimenti siano espressione di sistemi comportamentali che, per

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quanto riguarda gli schemi motori, sono relativamente poco influenzati da

variazioni ambientali nel corso dello sviluppo e che, in una certa fase del ciclo

di vita, sono pronti per essere attivati da tutti quei fattori causali per rispondere

ai quali sono strutturati.

Tali movimenti sono organizzati e pronti per l'esecuzione non appena arrivi un

certo momento appropriato: ciò dimostra che, per quanto riguarda la

loro forma motoria, sono indipendenti dall'apprendimento. Il fatto che alla

loro prima comparsa facciano seguito o meno le normali conseguenze

funzionali è però tutt'altra questione: i modelli del movimento infatti sono una

cosa, e l'oggetto verso il quale il movimento è diretto un'altra.

Le conseguenze funzionali si verificano solo quando un movimento è diretto

verso un oggetto appropriato. Per esempio, se un pulcino appena nato

si trova a beccare su un terreno cosparso di semi, ne deriva l'ingestione di

cibo. Se invece si trova a beccare su un terreno cosparso di altri oggetti

biancastri, come per esempio trucioli di legno o frammenti di gesso, gli identici

movimenti non lo portano a ingerire nulla che abbia un valore alimentare.

Analogamente, un bambino appena nato può succhiare un oggetto dalla

forma appropriata e riceverne o non riceverne nutrimento. “I sistemi

comportamentali responsabili delle attività di beccare e di succhiare sono

dunque pronti e si attivano nel momento in cui sono presenti i fattori causali

necessari, indipendentemente dal fatto che ne derivi o meno la normale

conseguenza funzionale” (Bowlby 1980).

La gamma di stimoli che possono attivare un qualunque sistema

comportamentale nel soggetto immaturo è spesso assai ampia, ma non

infinitamente ampia: fin dall'inizio gli stimoli tendono a rientrare in certe

categorie e a provocare un determinato tipo di reazione. Ciò indusse Schneirla

(Schneirla 1959, 1965) a supporre che molte reazioni di animali assai giovani

siano inizialmente determinate solo da differenze quantitative nell'intensità

della stimolazione ricevuta. Schneirla fa notare che gli animali giovani tendono

ad avvicinarsi con una parte del corpo o con tutto il corpo a qualunque fonte di

stimolazione i cui effetti neurali siano quantitativamente bassi, regolari, e

abbiano una limitata gamma di ampiezza, mentre tendono a ritrarsi da quelle

fonti di stimolazione i cui input neurali sono alti, irregolari e con una vasta

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gamma di ampiezza. Anche se si tratta di una discriminazione rozza e

semplificata, assai spesso ha una conseguenza funzionale, in quanto il giovane

animale si ritrae da una parte potenzialmente pericolosa dell'ambiente

avvicinandosi a una parte potenzialmente sicura. Numerose osservazioni sui

vertebrati inferiori sembrano confermare la generalizzazione di Schneirla, ma la

portata della sua applicabilità rimane ancora sconosciuta. Gli studiosi dei

vertebrati superiori ritengono perlopiù che la forma particolare del

comportamento provocato sia, fin da una fase precoce dell'ontogenesi,

determinata almeno in parte anche dalla configurazione dello stimolo.

Gli esempi citati mostrano come, nei vertebrati superiori, la gamma di stimoli

in grado di attivare un sistema comportamentale in un animale immaturo e

ancora privo di esperienza sia spesso assai ampia. Con l'esperienza, però, tale

gamma si restringe: in pochi giorni un pulcino impara a beccare soprattutto

semi e a trascurare gli oggetti non commestibili, e un bambino impara a

preferire, quando ha fame, un succhietto che fornisce latte. Si possono

citare molti altri esempi di limitazione nella gamma degli stimoli efficaci. I

giovani uccelli di molte specie in un primo momento reagiscono seguendo

un'ampia gamma di stimoli visivi, ma dopo pochi giorni seguono solo un

oggetto che hanno già seguito in passato. Un bambino di poche settimane

reagisce con il sorriso a ogni stimolo visivo che presenti due macchie scure su

uno sfondo chiaro; a tre o quattro mesi occorre invece un vero viso umano; a

cinque mesi lo stimolo efficace può limitarsi al viso di una persona nota.

Quali sono i processi attraverso i quali, in primo luogo, la gamma degli

stimoli efficaci si restringe così drasticamente, e in secondo luogo allo stimolo

funzionalmente appropriato viene di solito a collegarsi una particolare

reazione?

Uno di tali processi è un miglioramento, nell'individuo in crescita, della

capacità di discriminare l'input sensoriale. Finché la vista e l'udito non sono

in grado di discriminare, una molteplicità di stimoli visivi o uditivi possono

essere trattati come se fossero tutti simili. Mentre certi tipi di miglioramento

sembrano dipendere dallo sviluppo fisiologico e non sono attribuibili

all'apprendimento, altri dipendono dall'esperienza, e in tal caso si parla di

«apprendimento percettivo» o di «apprendimento per esposizione».

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Per esempio, nei mammiferi è dimostrato che la capacità di percepire e di

reagire a forme visive come il cerchio o il quadrato dipende dal fatto che

l'animale abbia già avuto esperienza di forme differenti. In certi casi è

sufficiente la familiarità, e non occorre che l'animale sia compensato con uno

degli abituali rinforzi.

In altri casi non basta la sola esperienza visiva perché ne consegua un

miglioramento della discriminazione: perché un gattino sviluppi un

comportamento efficace guidato da stimoli visivi, occorre non solo che abbia

avuto esperienza visiva dell'ambiente, ma anche che abbia avuto la possibilità

di muoversi attivamente in esso.

Quando è stata acquisita la capacità di discriminare tra gli stimoli, numerosi

processi possono portare alla restrizione della gamma di stimoli collegati con

una particolare risposta. Attraverso questi processi, ciò che segue a una

risposta può contribuire notevolmente a mediare la restrizione: il pulcino, ad

esempio, continua a beccare oggetti che, una volta afferrati, lo inducono a

inghiottirli, e smette di beccare quelli che non provocano questa reazione. I

giovani fringuelli dapprima manifestano solo un limitato grado di preferenza fra

diversi tipi di semi, ma con l'esperienza imparano a scegliere soprattutto quei

tipi di semi che riescono a sgusciare più agevolmente.

A un'altra classe di processi che modellano il comportamento appartengono

quelli che portano ad accostarsi agli oggetti familiari e ad evitare quelli

non familiari. L'importanza della dicotomia fra oggetti familiari e non familiari è

stata riconosciuta solo in epoca relativamente recente, soprattutto per merito

di Hebb (Hebb 1946).

Nello sviluppo degli individui giovani di numerose specie il comportamento di

accostamento si manifesta precocemente e precede la comparsa dei

comportamenti di evitamento e di allontanamento. Di conseguenza, ogni

stimolo a cui il giovane animale viene esposto inizialmente, purché rientri entro

certi limiti, tende a facilitare l'accostamento. Questa fase ha però durata

limitata, e vi pongono fine due processi strettamente connessi: da un lato

l'esperienza dell'ambiente permette all'animale di imparare ciò che è familiare

discriminandolo da ciò che non lo è; dall'altro le reazioni di evitamento

e di allontanamento diventano più facilmente elicitabili, e in seguito vengono

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elicitate soprattutto da stimoli riconosciuti come estranei. In molte specie le

reazioni aggressive seguono un corso evolutivo simile a quello delle reazioni

di allontanamento, in quanto maturano più tardi dell'accostamento e sono

elicitate soprattutto da stimoli riconosciuti come estranei.

L'atteggiamento aggressivo nei babbuini adulti nei confronti di quelli più

giovani in caso di allontanamento dal branco in situazioni di pericolo, rientra in

questa tipologia; come i genitori che sgridano i bambini in caso di pericolo,

questo atteggiamento rabbioso favorisce l'attaccamento da parte del bambino.

Un esempio di cambiamento in un sistema, che si verifica in una fase assai

precoce, si riscontra nelle papere, che durante le prime ventiquattr'ore di vita

seguono qualunque oggetto in movimento. Dopo uno o due giorni, però, non

solo tale comportamento potrà essere provocato soltanto da oggetti noti, ma,

quando l'oggetto è assente, la papera addirittura lo cercherà. Quindi un

comportamento organizzato all'inizio come semplice sistema corretto secondo

lo scopo ben presto si riorganizza come parte di un piano. Analogamente, il

comportamento di attaccamento degli scimmiotti si evolve da un semplice

riflesso di pressione a sequenze complesse consistenti nel seguire e

nell'attaccarsi alla madre, organizzate anch'esse come parti di un piano.

Il passaggio dal controllo di un sistema semplice, al controllo di un sistema

organizzato in modo più complesso, è dovuto di solito al fatto che il sistema

più semplice viene incorporato in quello più complesso. Quando ciò avviene,

l'attivazione del sistema più semplice viene ad essere sottoposta a un controllo

più discriminante: invece di comparire immediatamente al momento in cui il

soggetto riceve gli stimoli elementari (appartenenti a una gamma più o meno

ampia), l'attivazione è inibita fino al momento in cui si verificano certe

condizioni molto particolari. Il soggetto può attendere passivamente che tali

condizioni si verifichino, oppure può promuoverle attivamente con un

comportamento di tipo del tutto diverso ma appropriato: per esempio quello

della papera che cerca l'oggetto.

Nei carnivori e nei Primati adulti a volte sembra che il comportamento sia

strutturato in base a semplici piani gerarchici. Questa ipotesi permette di

comprendere con facilità il modo in cui i leoni danno la caccia alla preda, o il

modo in cui un branco di babbuini cambia la sua formazione per difendersi

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dai predatori. Tuttavia questi modi complicati di organizzazione del

comportamento si manifestano soltanto in animali relativamente maturi: leoni

e babbuini giovani non ne sono capaci.

Spesso si definisce il passaggio, nel tipo di sistema che controlla il

comportamento, da un semplice schema stimolo-risposta a un tipo corretto

secondo lo scopo, come un passaggio dal comportamento per prove ed errori

al comportamento per insight. Piaget (1947) lo definisce il passaggio dal

comportamento organizzato in base all'intelligenza senso motoria al

comportamento organizzato in base al pensiero simbolico e preconcettuale:

«L'intelligenza sensomotoria agisce come un film al rallentatore, in cui tutte le

immagini sono viste in successione ma senza essere fuse, e quindi senza quella

visione continua che è necessaria per comprendere il tutto», mentre il tipo più

avanzato di organizzazione assomiglia a un film proiettato alla giusta velocità.

Negli esseri umani lo sviluppo psicologico è caratterizzato non solo dal

fatto che i sistemi semplici sono sostituiti da sistemi corretti secondo lo scopo,

ma anche dal fatto che l'individuo diventa sempre più consapevole degli scopi

stabiliti da lui adottati, e sviluppa piani sempre più elaborati per conseguirli,

con una crescente capacità di correlare i piani fra loro, di scoprire

l'incompatibilità fra diversi piani e di ordinarli in termini di priorità. Nella

terminologia psicoanalitica questi cambiamenti sono attribuiti al subentrare

dell'Io laddove prima c'era l'Es.

I primi passi di tale sviluppo sono illustrati dal cambiamento che avviene

nei primi due o tre anni di vita nei tipi di sistemi che esercitano il controllo

vescicale nel bambino: questo processo è stato studiato da McGraw (McGraw

1943).

Nel primo anno di vita lo svuotamento della vescica è controllato da un

meccanismo riflesso, che nel primo semestre di vita è sensibile a un'ampia

gamma di stimoli e nel secondo semestre a una gamma più limitata. All'inizio

del secondo anno questa funzione perde l'automatismo di un meccanismo

riflesso, ma il bambino sembra sempre inconsapevole dell'atto e delle sue

conseguenze; per un breve periodo può anche diventare più collaborante e più

prevedibile sotto questo aspetto. Poi anche questa fase scompare, e molti

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bambini per un certo periodo diventano assai poco collaborativi. Infine, di solito

verso il termine del secondo anno, il controllo viene affidato a un sistema

comportamentale assai più complesso, organizzato in modo da tenere conto

sia della posizione del bambino sia delle circostanze. In questa fase lo

svuotamento della vescica è (di solito) inibito finché il bambino non ha trovato

un recipiente adatto e si è messo in posizione appropriata. Evidentemente

questo comportamento è strutturato in modo da raggiungere un fine stabilito,

cioè lo svuotamento della vescica in un recipiente, ed è organizzato in base a

un piano semplice. Nell'esecuzione del piano, il passaggio da una fase della

sequenza comportamentale richiesta alla fase successiva, per esempio la

ricerca del vasino per poi sedercisi sopra, dipende da un processo di feedback.

Il successo della prima fase, la ricerca del vasino, dipende inoltre dal fatto che

il bambino possieda un'adeguata mappa cognitiva dei servizi igienici della

famiglia.

Così una risposta semplice, inizialmente sensibile a un'ampia gamma di

stimoli non strutturati, è incorporata in un sistema comportamentale

organizzato come un piano gerarchico e sensibile a percezioni assai specifiche.

Si ritiene che una simile successione di sistemi sempre più elaborati sia ciò

che media anche il comportamento di attaccamento nell'uomo. Mentre nei

primi mesi di vita tale comportamento consiste solo in movimenti riflessi e

di stiramento, nel secondo e nel terzo anno si organizza in termini di scopi

stabiliti e di piani. Questi piani si organizzano in modo sempre più complesso, e

alla fine vengono a includere anche sottopiani, uno dei quali può essere quello

di modificare i sistemi comportamentali e gli scopi stabiliti della figura materna

alla quale il bambino è attaccato.

Un altro esempio della sempre maggiore complessità dei sistemi che negli

esseri umani vengono successivamente attivati per svolgere una singola

funzione, si riscontra nel comportamento che porta all'assunzione di cibo. Nel

neonato l'ingestione del cibo è una conseguenza del comportamento

organizzato come catena di semplici schemi fissi d'azione, come ruotare il

capo, succhiare, inghiottire, che sono attivati da stimoli ambientali

relativamente non specifici, di solito quando la situazione organica del neonato

presenta determinate caratteristiche. Dopo alcuni mesi il comportamento

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alimentare ha inizio soltanto quando il neonato percepisce che le condizioni

esterne sono conformi a un certo modello atteso: la madre pronta col seno, il

biberon o il cucchiaino. Nel secondo anno si riscontrano molti nuovi tipi di

comportamento al servizio dell'alimentazione: afferrare il cibo, portarlo alla

bocca, mordere, masticare; il collegamento fra diversi tipi di comportamento è

venuto organizzandosi più come piano che come catena. Man mano che il

bambino cresce, il piano diviene più complesso, e aumenta la durata della sua

esecuzione: comprare il cibo, prepararlo, cuocerlo ecc. Infine, anche negli

adulti che non appartengono a comunità civilizzate, l'ingestione del cibo

diventa il punto culminante di un piano generale la cui esecuzione può

comprendere tutta un'annata di attività agricole e contenere come sottopiani

molte diverse tecniche di coltivazione, di raccolta, di conservazione e di

preparazione.

Mentre dunque durante l'infanzia e la fanciullezza gli esseri umani sono

incapaci di strutturare il loro comportamento se non secondo un piano

semplicissimo, nell'adolescenza e nell'età adulta il comportamento è di solito

strutturato in base a piani gerarchici assai complessi. Naturalmente questo

enorme sviluppo nella complessità dell'organizzazione comportamentale

attivata è reso possibile dall'aumentata capacità dell'essere umano, man mano

che cresce, di servirsi dei simboli, e specialmente del linguaggio.

Poiché nel corso dello sviluppo umano il comportamento attivato per svolgere

una funzione passa, nella sua organizzazione, da una modalità semplice e

stereotipata a una modalità complessa e variabile, si è soliti dire che gli esseri

umani non manifestano un comportamento istintivo. Si potrebbe invece dire

che i sistemi responsabili del comportamento istintivo di solito vengono

incorporati in sistemi assai complessi, in modo che non si possono più

riscontrare i modelli tipici e riconoscibili che di solito si attribuiscono al

comportamento istintivo, tranne quando si è sul punto di raggiungere uno

scopo stabilito.

Il fatto che nel corso dello sviluppo individuale il controllo del comportamento

passi da sistemi più semplici a sistemi più complessi dipende certamente in

gran parte dallo sviluppo del sistema nervoso centrale. Il confronto

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operato da Bronson (Bronson 1965) fra quel che sappiamo sulle capacità

comportamentali di diverse parti del cervello umano, e sul loro stato di sviluppo

nei primi anni di vita, e quel che sappiamo sulla crescente complessità dei

sistemi comportamentali operanti in ogni fase successiva, fa pensare che nel

corso dello sviluppo umano la struttura del cervello e la struttura del

comportamento procedano di pari passo.

Nel primo mese di vita la neocorteccia del bambino è poco sviluppata, e perciò

il comportamento si mantiene al livello di movimenti riflessi. Durante il

terzo mese probabilmente diventano funzionanti certe parti della neocorteccia,

e allora compaiono reazioni sensibili alla configurazione, che per brevi periodi

possono anche essere differite. Per esempio un bambino di tre mesi può

restare tranquillo in attesa mentre la madre si prepara a nutrirlo, cosa che non

fa un neonato di poche settimane. Ma nei primi due anni di vita lo sviluppo

delle zone di elaborazione della neocorteccia è assai inferiore a quello delle

zone di proiezione primaria e, conformemente a questa differenza, i processi

cognitivi e i piani non procedono oltre un livello relativamente primitivo.

Anche verso i due anni i lobi prefrontali sono ancora assai poco sviluppati:

sembra che queste parti del cervello siano necessarie perché il soggetto possa

inibire la reazione immediata, in modo da portare a compimento un piano di

azione, in dipendenza da fattori non presenti nell'ambiente immediato.

Coerentemente, si riscontra che solo verso la fine dell'età prescolare la

maggior parte dei bambini sono in grado di operare una scelta che tenga

decisamente conto dei fattori non immediatamente presenti nell'ambiente

attuale. Sembra dunque chiaro che, per diversi anni dell'infanzia, la

complessità dei sistemi comportamentali passibili di sviluppo è strettamente

vincolata allo stato di sviluppo del cervello. Senza la necessaria dotazione

neurale, la dotazione comportamentale non può essere elaborata; e finché non

viene elaborata, il comportamento rimane più aderente al principio di piacere

che al principio di realtà.

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4- Da Bowlby a Freud

La visione etologica è secondo Bowlby assimilabile a quella freudiana.

Sia nelle sue primissime formulazioni sia in quelle finali, le idee di Freud sui

fattori causali delle nevrosi e dei disturbi concomitanti vertono sempre sul

concetto di trauma. Questo viene spesso dimenticato. Nelle sue ultime opere,

come L'uomo Mosè e la religione monoteistica (Freud 1934-38) e il Compendio

di psicoanalisi (Freud 1938), egli dedica diverse pagine alla natura del trauma,

al periodo della vita di massima vulnerabilità, al tipo di eventi che possono

essere traumatici e ai loro effetti sullo sviluppo psichico successivo. La natura

del trauma è l'elemento centrale della teoria freudiana. Per Freud e non solo

per lui, sono qui in gioco due tipi di fattori: l'evento traumatico e la costituzione

dell'individuo che lo sperimenta; in altri termini, il trauma risulta

dall'interazione fra questi due fattori. Quando un'esperienza provoca una

reazione patologica insolita, per Freud ciò avviene perché essa sottopone la

personalità a una pressione eccessiva, cioè perché la personalità viene esposta

a quantità di eccitamento superiori alla sua capacità di farvi fronte. Per quanto

riguarda i fattori costituzionali, Freud ritiene che gli individui siano diversi nella

capacità di far fronte a tali pressioni, e che quindi «una cosa può costituire un

trauma per una costituzione mentre non avrebbe tale effetto per un'altra»

(Freud 1934-38). Nello stesso tempo, c'è una particolare fase della vita, fino ai

cinque-sei a

nni, in cui ogni creatura umana tende a essere vulnerabile. Ciò avverrebbe

perché in questa fase «l'Io (...) è debole, immaturo e incapace di resistenza». Di

conseguenza l'Io «è incapace di affrontare compiti che in seguito potrebbe

sostenere con estrema facilità», e ricorre invece alla rimozione o alla scissione.

Questo è il motivo per cui «le nevrosi si contraggono solo nella prima infanzia»

(Freud 1938). Quando Freud parla di «prima infanzia» si riferisce a un periodo

che copre parecchi anni; in L'uomo Mosè e la religione monoteistica parla dei

primi cinque anni di vita, nel Compendio di psicoanalisi dei primi sei. Entro

questa fase «il periodo fra i due e i quattro anni sembra essere quello più

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importante» (Freud 1934-38) . Egli non s'interessa particolarmente dei primi

mesi e appare incerto sulla loro importanza: «Non si può determinare con

sicurezza quanto tempo dopo la nascita incominci il periodo di ricettività»

(Freud 1934-38). Questa è dunque la teoria etiologica generale di Freud. La

teoria qui presentata vi aderisce strettamente: si afferma infatti che la

separazione dalla madre può essere traumatica nel senso della definizione

proposta da Freud, soprattutto quando il bambino viene a trovarsi in un

ambiente estraneo e fra persone estranee; inoltre, il periodo della vita nel

quale questo evento si dimostra traumatico si sovrappone quasi esattamente a

quello che secondo Freud è un periodo di particolare vulnerabilità. Mostrerò ora

come in Bowlby il concetto di separazione dalla madre concordi con il concetto

freudiano di trauma. Freud definisce il concetto di trauma in termini di

condizioni causali e di conseguenze psicologiche: sotto entrambi gli aspetti la

separazione dalla madre nei primi anni di vita rientra in questa categoria. Per

quanto riguarda le condizioni causali, è noto che la separazione e l'inserimento

in ambiente estraneo provocano un intenso disagio per un lungo periodo; ciò

concorda con l'ipotesi freudiana che si abbia un trauma quando l'apparato

psichico viene esposto a quantità eccessive di eccitamento. Quanto alle

conseguenze, si può dimostrare che i cambiamenti psicologici che

regolarmente seguono il prolungato disagio dovuto alla separazione non sono

altro che la rimozione,la scissione e il diniego, cioè proprio quei processi

difensivi che nella teoria di Freud sono i risultati del trauma, quei processi per

spiegare i quali Freud ha proposto la sua teoria del trauma. Dunque l'agente

etiologico scelto per la nostra indagine è semplicemente un caso particolare

degli eventi concepiti da Freud come traumatici. Di conseguenza, la teoria

della nevrosi elaborata da Bowlby, sotto molti aspetti, non è che una variante

della teoria freudiana del trauma. Si deve tuttavia notare che, sebbene la

separazione dalla madre sia compatibile con la teoria generale della nevrosi di

Freud, e sebbene nell'elaborare tale teoria egli abbia preso in sempre maggiore

considerazione l'angoscia di separazione, la perdita e il lutto, solo raramente ha

considerato come fonte del trauma un evento di separazione o di perdita

verificatosi nei primi anni di vita. Parlando degli eventi che possono essere

traumatici, Freud nei suoi scritti più tardi è molto prudente, e per descriverli

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usa termini così generici che spesso non è affatto chiaro a che cosa si riferisca.

Per esempio, si limita ad affermare che tali eventi «sono connessi a impressioni

di natura sessuale e aggressiva, e certamente anche a precoci ferite dell'Io

(mortificazioni narcisistiche)» (Freud 1934-38). Si ammette comunemente che

una separazione precoce va considerata come una ferita inferta all'Io; ma, pur

essendo indubbio che una separazione precoce può danneggiare l'Io, non è

certo che fosse questa la tesi di Freud. Mentre dunque la separazione dalla

madre nei primi anni di vita rientra perfettamente nella definizione freudiana di

evento traumatico, non si può affermare che Freud stesso si sia occupato

seriamente di tali separazioni come di una particolare classe di eventi

traumatici. II terzo aspetto del metodo adottato è l'uso di dati ricavati

dall'osservazione diretta del comportamento; e anche questo è strettamente

aderente alle concezioni di Freud. Bisogna anzitutto notare che, anche se Freud

attinse solo raramente ai dati dell'osservazione diretta, lo fece però in una o

due occasioni fondamentali; per esempio nel caso dell'episodio del «gioco del

rocchetto» su cui fonda gran parte della sua argomentazione in Al di là del

principio di piacere (Freud 1920) e nella tormentata rivalutazione della teoria

dell'angoscia in Inibizione, sintomo e angoscia (Freud 1925). Di fronte a

conclusioni complesse e contraddittorie sull'angoscia, Freud cerca e trova un

punto fermo nelle osservazioni sul comportamento dei bambini quando sono da

soli, o al buio, o con estranei. La seconda formulazione freudiana dell'angoscia

poggia su questo fondamento. Inoltre, è interessante che vent'anni prima, nei

Tre saggi sulla teoria sessuale (Freud 1905), Freud avesse esplicitamente

raccomandato l'osservazione diretta dei bambini come complementare

all'indagine psicoanalitica.

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5 - Strumenti teorici di analisi del percorso rabbia/ansia

Al momento si sta stampando una mia nuova opera, Inibizione, sintomo e angoscia. Darà uno scossone a parecchie idee tradizionali e mira a rimettere in movimento cose che sembrano già pietrificate. Gli analisti che desiderano anzitutto tranquillità e certezza saranno scontenti di dover rivedere le loro convinzioni. Sarebbe presuntuoso però credere ch'io sia riuscito questa volta a risolvere definitivamente il problema della connessione fra angoscia e nevrosi.

Sigmund Freud

1 Lettera a Oskar Pfister del 3 gennaio 1926.

Dalle primissime ricerche di Freud sull'etiologia delle nevrosi, fino alla fine

della sua vita, i problemi gemelli dell'angoscia nevrotica e della difesa non

abbandonarono mai la sua mente. Egli vi ritornò di continuo, e sulle sue diverse

soluzioni provvisorie si basano le successive formulazioni teoriche da lui

proposte. Dalla morte di Freud in poi le teorie dell'angoscia e della difesa hanno

continuato a essere la base della psicopatologia psicoanalitica; e se sono sorte

più scuole psicoanalitiche distinte, ciò è dovuto al fatto che esse hanno sposato

idee differenti sulla natura e sulle origini di questi fenomeni.

Nelle prime formulazioni di Freud non vi è cenno al fatto che l'angoscia nasca

dalla perdita, o dalla minaccia di perdita, o che i processi difensivi insorgano in

condizioni di angoscia intensa. Solo un poco alla volta, e soprattutto verso la

fine della sua vita, Freud avanzò queste ipotesi, mettendo in tal modo in

rapporto le sue idee sull'angoscia e sulle difese con quelle sul lutto, che fino a

quel momento erano state un filone significativo ma del tutto distinto del suo

pensiero. Uno dei risultati più importanti della sua nuova formulazione fu,

come egli previde giustamente, quello di rimettere tutto «in movimento».

Anche se lo stesso Freud in periodi diversi della sua vita adottò svariate teorie

radicalmente diverse sull'angoscia, sul lutto e sulle difese, così come hanno

fatto le diverse scuole di pensiero che sono sorte successivamente, ogni teoria è

basata su dati ottenuti con uno stesso metodo d'indagine.

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I dati primari sono osservazioni sul modo in cui i bambini piccoli si comportano

in determinate situazioni; alla luce di questi dati, si tenta di descrivere alcune

fasi precoci del funzionamento della personalità, e da lì fare deduzioni in altre

direzioni. In particolare, si tenta di descrivere modelli di reazione che si

presentano con regolarità nella primissima infanzia, e quindi vedere come si

possono distinguere modelli analoghi nel funzionamento successivo della

personalità.

Alcuni dei dati essenziali, così come li abbiamo descritti nel capitolo precedente,

si possono riassumere come segue. Ogni volta che un bambino piccolo che

aveva avuto l'opportunità di sviluppare un certo attaccamento a una figura

materna, ne viene separato, appare a disagio; se poi lo si colloca in un

ambiente sconosciuto e se di lui si prende cura una serie di persone estranee, è

facile che questo disagio si intensifichi. Il modo in cui il bambino si comporta si

presenta con una sequenza tipica. All'inizio protesta con energia e cerca con

tutti i mezzi a sua disposizione di recuperare la madre. Poi sembra che disperi di

riaverla, però seguita a pensare a lei e ad aspettarne il ritorno. Più tardi,

sembra perdere interesse per la madre e appare emotivamente distaccato da

lei. Nonostante ciò, se il periodo di separazione non è troppo lungo, il bambino

non rimane indefinitamente distaccato. Presto o tardi, dopo che lo si è riunito

alla madre, il suo attaccamento verso di lei riappare. Dopo di allora, per giorni o

per settimane, e qualche volta molto più a lungo, insiste a volerle restare

vicino. Inoltre, tutte le volte che ha l'impressione di poterla perdere ancora,

manifesta una acuta angoscia.

Quando Bowlby si accinse a esaminare i problemi teorici sollevati da queste

osservazioni, trovò evidente che il primo passo doveva consistere nel

raggiungere una comprensione più chiara del legame tra il bambino e la

madre. In secondo luogo, diventa sempre più evidente che ciascuna delle tre

fasi principali della reazione del bambino alla separazione è in relazione all'una o

all'altra delle questioni centrali della teoria psicoanalitica. La fase di protesta

solleva il problema dell'angoscia di separazione; la disperazione quello del dolore

e del lutto; il distacco quello della difesa. La tesi che venne allora proposta fu

che i tre tipi di reazione - angoscia di separazione, dolore e lutto e difesa - siano

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fasi di un unico processo, e che solo quando vengono considerati come tali se ne

colga il vero significato.

Il modello dell'energia psichica è un modello possibile ma certamente non

indispensabile per spiegare i dati su cui Freud aveva attirato l'attenzione.

Dobbiamo dunque sottolineare in primo luogo che il modello freudiano

dell'energia psichica ha avuto origine al di fuori della psicoanalisi, e in secondo

luogo che Freud l'aveva introdotto soprattutto per garantire che la sua

psicologia si uniformasse a quelle che considerava le migliori idee scientifiche

del tempo. Non c'è nulla nelle sue osservazioni cliniche che richieda o anche

suggerisca tale modello, come appare a una rilettura dei suoi primi casi clinici.

E indubbiamente la maggior parte degli analisti hanno continuato a utilizzare

questo modello in parte perché Freud vi aveva aderito per tutta la vita e in

parte perché non esisteva un modello alternativo decisamente migliore.

Il modello dell'energia psichica non è logicamente connesso ai concetti che

Freud e i suoi seguaci considerano come veramente essenziali alla psicoanalisi:

il ruolo dei processi psichici inconsci, la rimozione come processo attivo per

mantenerli tali, il transfert come una delle principali determinanti del

comportamento, l'origine della nevrosi nel trauma infantile. Nessuno di questi

concetti ha un rapporto intrinseco con un modello dell'energia psichica, e

anche se si accantona tale modello essi rimangono tutti e quattro intatti e

immutati.

L'azione non solo ha un inizio ma ha anche un termine. Nel modello

dell'energia psichica si ritiene che l'inizio derivi dall'accumulazione di energia

psichica e la cessazione dall'esaurimento di tale energia. Quindi, prima che un

atto possa essere ripetuto, si deve accumulare una nuova provvista di energia

psichica. Molti comportamenti però non sono facilmente spiegabili in questo

modo. Per esempio, un bambino può cessare di piangere quando vede la

madre e ricominciare poco dopo quando la madre scompare alla sua vista, e

questa sequenza può ripetersi parecchie volte; in tal caso è difficile supporre

che la cessazione del pianto e la sua ripresa siano causate prima da una caduta

e in seguito da un aumento della quantità di energia psichica disponibile. Un

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problema simile si pone a proposito della costruzione del nido da parte degli

uccelli: quando il nido è completato l'uccello smette di costruire; ma se il nido

viene rimosso l'animale riprende subito la sua attività. Anche in questo caso

non è facile supporre che la ripetizione dipenda da un improvviso afflusso di

un'energia speciale, che non si sarebbe verificata se il nido fosse stato lasciato

al suo posto. In entrambi i casi il cambiamento di comportamento si comprende

facilmente attribuendolo a segnali provenienti da un cambiamento ambientale.

Il secondo inconveniente del modello psicoanalitico dell'energia psichica, e di

altri modelli simili, sta nel suo scarso grado di verificabilità. Come ha sostenuto

Popper (Popper 1934), ciò che distingue una teoria scientifica da una teoria non

scientifica non è la sua origine, ma il fatto che essa possa essere e sia

effettivamente sottoposta a verifica, non una volta sola ma ripetutamente.

Quanto più spesso e più rigorosamente una teoria è stata sottoposta a verifica

e ha superato la prova, tanto più elevata è la sua scientificità. In fisica si

definisce l'energia come capacità di eseguire un lavoro, e il lavoro si può

misurare in chilogrammetri o in altre unità di misura equivalenti. Quindi la

teoria dell'energia fisica può essere sottoposta a verifica, e spesso lo è stata,

per determinare se le previsioni dedotte da essa risultano vere o false. Finora,

naturalmente, la maggior parte delle previsioni esaminate si sono dimostrate

vere. Invece per la teoria freudiana dell'energia psichica e per tutte le teorie

dello stesso tipo non è stata ancora proposta alcuna verifica analoga. Quindi la

teoria dell'energia psichica rimane indimostrata; e finché non sarà definita in

termini di qualcosa che può essere osservato, e preferibilmente misurato, la si

dovrà considerare indimostrabile. Per una teoria scientifica questa è una grave

pecca. Il terzo difetto del modello deriva paradossalmente da quello che a

Freud era sembrato il suo principale vantaggio. Per Freud il modello

dell'energia psichica era il tentativo di concettualizzare i dati della psicologia in

termini analoghi a quelli della fisica e della chimica dei suoi tempi, e quindi

esso presentava il grande vantaggio di collegare la psicologia con la scienza

vera e propria. Oggi accade esattamente il contrario: i modelli della

motivazione che postulano l'esistenza di una particolare forma di energia

distinta da quella fisica non convincono i biologi (Hinde, 1966); ne si suppone

che il principio dell'entropia si applichi ai sistemi viventi nel modo in cui si

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applica ai sistemi non viventi. Nella teoria biologica attuale si da invece per

scontato l'operare dell'energia fisica, e si insiste principalmente sui concetti di

organizzazione e di informazione, indipendenti dalla materia e dall'energia, e

sull'organismo vivente come un sistema aperto e non chiuso. Di conseguenza il

modello dell'energia psichica, lungi dall'integrare la psicoanalisi nella scienza

attuale, ottiene l'effetto opposto, costituendo una barriera a tale collegamento.

Bowlby sostiene che il modello etologico non soffre di tali difetti: attraverso il

concetto di feedback, attribuisce importanza alle condizioni che fanno cessare

l'azione oltre che a quelle che la fanno cominciare; essendo strettamente

collegato ai dati osservabili, è passibile di verifica sperimentale; essendo

formulato nei termini della teoria dei sistemi e della teoria dell'evoluzione,

collega la psicoanalisi con i concetti essenziali dell'attuale biologia. Infine,

ritiene che dei dati di cui si occupa la psicoanalisi, questo modello possa fornire

una spiegazione più semplice e più coerente che non il modello dell'energia

psichica.

E' probabile che sotto certi aspetti la teoria della motivazione presentata da

Bowlby non sia tanto diversa da certe idee di Freud quanto potremmo ritenere.

Negli ultimi anni si è rinnovato l'interesse per il modello neurologico presentato

da Freud nel Progetto di una psicologia, scritto nel 1895 ma pubblicato

postumo. Il neurofisiologo Pribram (Pribram 1962) richiama l'attenzione su

molti aspetti di quel modello, tra i quali il feedback negativo, che sono assai

raffinati anche rispetto agli attuali criteri. Anche Strachey (Strachey 1966)

richiama l'attenzione sulle somiglianze tra le prime idee di Freud e i concetti

moderni: ad esempio, «nella spiegazione freudiana del meccanismo della

percezione troviamo l'introduzione del concetto fondamentale di feedback

come mezzo per correggere gli errori nei contatti della stessa macchina con

l'ambiente». La presenza di queste idee nel Progetto di una psicologia (Freud

1965) induce Strachey a ritenere che il modello del comportamento istintivo da

Bowlby proposto, e in particolare l'idea che l'azione venga fatta cessare dalla

percezione del cambiamento ambientale, sia meno diverso dalle idee di Freud

di quanto Bowlby ritenesse:

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Nel Progetto in ogni caso Freud afferma che Inazione “ha inizio come risultato

d'una percezione proveniente dal mondo esterno e ha termine a causa d'una

nuova percezione dall'esterno, poi ricomincia a causa di un'ulteriore

percezione dall'esterno (comunicazione personale)”. E possibile individuare

l'idea di feedback anche nei concetti freudiani di meta e di oggetto della

pulsione. In Pulsioni e loro destini (Freud 1915) Freud descrive tali concetti nel

modo seguente: “La meta di una pulsione è sempre il soddisfacimento, che

può essere raggiunto soltanto con l'eliminazione dello stato stimolatore nella

fonte della pulsione (...) Oggetto della pulsione è quello nel quale, o mediante il

quale, la pulsione raggiunge la sua meta”. L'eliminazione di uno stato di

stimolazione alla fonte attraverso la relazione con un oggetto è facilmente

comprensibile in termini di feedback, mentre invece non ha niente a che

vedere con il concetto di scarica. E molto interessante ritrovare il concetto di

feedback in questi punti della teorizzazione freudiana, tuttavia tale concetto è

sempre messo in secondo piano e spesso escluso da concetti di tipo diverso. Di

conseguenza, non è mai stato sfruttato nella teorizzazione psicoanalitica; anzi

di solito, per esempio nell'esposizione della metapsicologia di Rapaport e Gill

(Rapaport e Gill 1959), esso brilla per la sua assenza. Quando si cercano le idee

attuali nel pensiero di una generazione precedente c'è sempre il pericolo di

leggervi più di quanto in realtà non vi sia. Per esempio, forse non è legittimo

considerare il principio d'inerzia di Freud come un caso particolare del principio

dell'omeostasi, come suggerisce Pribram: «L'inerzia è l'omeostasi nella sua

forma più nuda.» Pare invece che fra i due principi vi sia una differenza

essenziale: mentre il freudiano principio d'inerzia è concepito come tendenza a

ridurre a zero il livello di eccitamento, il principio dell'omeostasi è concepito

non solo come tendenza dei livelli a mantenersi entro certi limiti positivi, ma

anche come processo volto a mantenere limiti stabiliti soprattutto da fattori

genetici e tendente verso punti che rendano massima la probabilità di

sopravvivenza. Il primo principio è concepito in termini di fisica e di entropia, il

secondo in termini di biologia e di sopravvivenza. Per la sua somiglianza con il

principio dell'omeostasi, il principio di costanza sembra più promettente di

quello d'inerzia.

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Come il modello di Freud è legato alle teorie energetiche del suo tempo

(magnetismo e campi energetici) e quello di Bowlby ad un primo cognitivismo

ed ai primi concetti di feed-back, è auspicabile la creazione di un nuovo

modello derivante dai precedenti che tenga conto delle attuali scoperte in

campo cognitivo ( come sistemi aperti, addestramento delle reti e logica fuzzy

e in campo Analitico Transazionale (spinte, emozioni parassite, credenze

patogene, tipi psicologici, triangolo di Karnap).

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6 - Da Freud a Berne

Le radici freudiane dell’opera di Berne sono considerate essenziali per una

metodologia basata su tre cardini: 1) il setting di lavoro, 2) l’analisi del

transfert e del controtransfert, 3) l’interpretazione.

Nel suo ultimo lavoro L’approccio clinico dell’analisi transazionale (Novellino

1998), novellino propone il termine psico-analisi transazionale per

caratterizzare gli sviluppi attuali di una concezione della psicoterapia berniana

a orientamento psicodinamico (Novellino - Moiso 1990), per come va applicata

al setting psicoterapeutico individuale.

L'idea centrale che muove la ricerca di novellino da quasi vent’anni, è che

risulta utile e stimolante esplorare gli estremi limiti della proposta berniana di

considerare l’analisi transazionale come un avanzamento fenomenologico della

psicoanalisi (Berne 1961).

Secondo l’impostazione concettuale che segue nella sua ricerca, l’analisi

transazionale andrebbe collocata all’interno del movimento psicoanalitico

moderno.

Tale linea guida trae sostanza in particolare dall’opera di Mitchell ( Mitchell

1988 ).

Quest’ultimo, riportando Sullivan, padre della psichiatria interpersonale, al

centro dell’attuale movimento psicoanalitico, toglie il primato della ricerca

psicodinamica alla concezione freudiana, di natura meccanicistica e pulsionale,

per restituirlo a un orientamento di tipo oggettuale.

Risulta fondamentale l’inquadramento proposto da Mitchell sulle diverse

concezioni della mente all’interno della cultura psicoanalitica.

La mente freudiana lavora su un sistema di compromessi tra l’espressione

degli impulsi e le difese che li regolano, ma rimane sostanzialmente una mente

monadica, ossia di natura intrapsichica.

Nei modelli interpersonali la mente relazionale viene concepita come un

apparato complesso che regola i suoi impulsi allo scopo di mantenere i propri

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legami oggettuali e anche per individuarsi da essi, per cui siamo di fronte a una

mente diadica per la quale impulsi e bisogni sono elaborati all’interno di un

conteso motivazionale dato dalle relazioni.

Il movimento relazionale (Kohut, Fairbairn, Mahler, Winnicott, Loewald, Gill,

Stern), si propone di superare la contraddizione tra intrapsichico e

interpersonale, considerando comunque i fenomeni psicodinamici all’interno di

una matrice relazionale.

Ritengo che la proposta di una psico-analisi transazionale sia ben motivata

dalla rispondenza del modello berniano ai criteri epistemologici proposti da

Mitchell.

Possiamo riassumere tali criteri nei seguenti punti:

1) Berne fonda la sua ricerca teorica partendo dal modello freudiano, del quale

rispetta i presupposti

legati alle due topiche (conscio- preconscio- inconscio; Superlo - Io - Es). Egli

supera d’altra parte le sue radici in modo rivoluzionario proponendo come

motivazione primaria del comportamento la fame di carezze (Beme 1961);

2) i livelli intrapsichico e interpersonale sono visti come due facce della stessa

medaglia, elaborati in un sistema concettuale unico per i suoi tempi. Dialogo

interno e comunicazione sono lo specchio dell’attività mentale dell’individuo

all’interno del suo contesto interpersonale;

3) i modelli arcaici di relazione interpersonale influenzano quelli attuali in un

dinamismo reciproco: quanto è avvenuto con le figure genitoriali originali in

parte spiega gli stili transazionali nel qui-e-ora, ma questi ultimi a loro volta

portano a una continua elaborazione dei primi;

4) la mente berniana è di tipo diadico, sia nall’analisi del comportamento (il

dialogo interno si riflette nelle diverse opzioni transazionali), che nella

concezione della psicopatologia (teoria del copione psicologico).

Novellino ritiene che Berne collochi la sua opera a una sorta di bivio nel quale

si è trovata la psicoanalisi tutta, sia in seguito a una evoluzione della ricerca

teorica, che a causa di una crisi metodologica dovuta al confronto concreto con

i risultati della clinica.

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Tale collocazione fa dell’analisi transazionale una psicoterapia caratterizzata da

una ricerca fenomenologica sulla personalità intesa in senso spiccatamente

interpersonale.

Della sua cultura psicoanalitica di origine, Berne mantiene la concezione della

psiche vista come un insieme dinamico di sistemi tra loro interagenti.

La mente si sviluppa, nei suoi diversi apparati, in seguito alla necessità

filogenetica e ontogenetica di arrivare a una mediazione tra le necessità

psicobiologiche dell’individuo e le istanza della realtà, comprese quelle

culturali.

L’Io berniano è un Io freudiano in quanto media istanze interne ed esterne: è

deputato all’omeostasi dell’individuo rispetto al mondo e alla sua storia

personale.

Il tentativo di Berne è quello di porre l’Io al centro di tre temi essenziali della

psicologia:

1) la conoscenza di sé,

2) il destino individuale,

3) il comportamento sociale.

L’Io viene concepito allora come il risultato di una serie di eventi di natura

relazionale, dove le “vicende” transazionali tra bambino e ambiente vengono

viste nella loro dinamica di vissuti, sia realistici che fantasmatici: quelle che

erano state transazioni tra il bambino e le sue figure genitoriali portano alla

costruzione di “depositi” intrapsichici, i quali ripetono a livello di dialogo

interno e di comportamento interpersonale le suddette transazioni.

Quanto era avvenuto nelle transazioni infantili si può ripetere a livello

intraegoico e interegoico.

Nell' evoluzione dei sistemi intraegoici, detti stati dell' Io, un ulteriore

aspetto che caratterizza la concezione berniana è quello motivazionale: in

questo Beme si allontana dalla psicoanalisi freudiana, per avvicinarsi, se non

anticipare, l’attuale filone della psicoanalisi interpersonale.

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La principale motivazione umana non è legata alle pulsioni aggressive

e sessuali come in Freud, bensì a quella che Berne chiama la fame di

riconoscimento.

Esiste un bisogno innato e primario di stimoli, e questa fame influenza

secondariamente le varie vicende delle interazioni bambino-ambiente.

Beme si pone quindi in un’ottica vicina, ad esempio, a quella di Bowlby, altro

psicoanalista che ha sviluppato il concetto di relazione allontanandosi dalla

concezione freudiana, partendo da intuizioni di tipo etologico.

Tutta l’opera di Beme è costellata di riferimenti alla sua matrice psicoanalitica

(Beme 1961, 1964, 1966, 1972).

Ritengo utile infine accennare, a scopo esemplificativo, ad alcuni spunti che

ritroviamo in diversi momenti dell’opera berniana:

• la rimozione viene paragonata a una esclusione parziale,

• il protocollo è collegato a un Edipo rimosso,

• il concetto di maglietta è paragonato a quello di difesa caratteriale,

• il copione è visto come un dramma transferale,

• il protocollo è all' origine dei fenomeni transferali,

• esplora ampiamente le dinamiche inconsce dei giochi psicologici,

• le transazioni di transfert e controtransfert sono ritenuti essenziali,

• l'interpretazione è l'operazione centrale della deconfusione.

In sostanza, l'influsso psicoanalitico è centrale e costante.

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7 - La rabbia in Analisi Transazionale

Abbiamo visto nei primi capitoli il processo che dalla rabbia conduce all'ansia

ed ora mostrerò un caso clinico di Novellino, in cui lo psicoterapeuta guida la

paziente in un percorso a ritroso alla scoperta della sua rabbia originaria.

La storia clinica di P.

P. è una donna di mezza età, esercita una professione sanitaria, e arriva in

consultazione da me dopo diversi tentativi falliti di terapia, sia farmacologica

che psicoterapeutica.

Ella soffre di crisi depressive ricorrenti, di seri disturbi nella vita sessuale

(vaginismo e anorgasmia), non è riuscita mai a costruirsi una vita affettiva

duratura, ha avuto diverse somatizzazioni a livello gastrico e cardiaco.

Durante gli anni dell’università ha messo in atto un serio tentativo di suicidio.

Al momento della prima consultazione vive sola, si sente terribilmente frustrata

per non essere riuscita a costruirsi una famiglia, sente il suo ambiente sociale

freddo e ostile.

Nel suo quadro psicopatologico, sono fondamentali due nuclei di

contaminazione:

a) contaminazione G/A : non fidarti degli estranei (soprattutto degli uomini)

b) contaminazione B/A: non mi legherò mai a nessuno (come a mia madre)

Nella sua anamnesi l’evento di protocollo è costituito dall’abbandono della

madre da parte del padre quando lei aveva due anni.

La figura del padre è stata sempre filtrata dal rancore che la madre ha

mantenuto nei suoi confronti per tutta la vita.

Nella diagnosi analitico-transazionale di P., possiamo usare i capitoli classici

della teoria berniana.

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I suoi stati dell’Io sono rinvenibili nei quattro modi classici della diagnosi

comportamentale, sociale, storica e fenomenologica.

Ella energizza, insieme a un Adulto molto efficiente sul lavoro, un Genitore

molto critico, sia verso se stessa che verso gli altri, e un Bambino molto

spaventato dalle situazioni di novità e dall’interesse che gli altri possono avere

verso di lei.

Il suo copione presenta le caratteristiche, indicate da Berne, di una nevrosi di

transfert, in quanto compulsivamente P. continua a proiettare sugli uomini il

rancore di ricatto appreso dalla madre.

Come quest’ultima, P. tiene lontana gli uomini ed evita di cercare il piacere e le

carezze positive nella vita.

I giochi psicologici riflettono e producono questa coazione a ripetere, prima di

tutto “Difetto” e “Ti ho beccato, figlio di puttana!”.

Questi stessi giochi sono stati giocati con i terapeuti precedenti, se donne in

quanto non erano mai all'altezza della madre, se uomini in quanto deludenti

come il padre.

Come si può facilmente comprendere, l’approccio nei miei confronti non può

che ripetere i suddetti schemi.

A questo punto vediamo come i concetti di impasse transferale e di

comunicazione inconscia possono completare una analisi berniana del caso di

P., rimanendo all’interno di un quadro rigoroso di analisi transazionale.

Vediamo prima di tutto come possiamo utilizzare il concetto di impasse

transferale.

P. presenta i tre tipi classici di impasse descritti dai Goulding e da Mellor.

l) l’impasse di terzo tipo si fissa a due anni, quando in seguito all’abbandono

del marito la madre soffre di una profonda depressione, con conseguente

ingiunzione non esistere (non contare sui legami),

2) l’impasse di secondo tipo si fissa durante la fase edipica di sviluppo,

allorchè, a causa dell’assenza del padre, che viene inoltre estremamente

svalutato dalla madre, P. vive un’ingiunzione di non essere importante (come

femmina),

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3) durante la fase di sviluppo tra i sei e i quindici anni, si fissa l’impasse di

primo tipo attraverso le richieste materne di essere “la prima della classe” e di

“farsi trovare sempre in ordine”, con una conseguente contro ingiunzione di

essere perfetta (così non avrai bisogno di nessuno).

Queste tre impasse, oltre che a portare alle due contaminazioni suddescritte,

evocano le diverse reazioni transferali che si sviluppano nella relazione

terapeutica.

Durante tutta la terapia il rapporto di P. con me è caratterizzato dai seguenti

fenomeni.

Prima di tutto P. cerca di essere “perfetta” non appena mi attribuisce

aspettative nei suoi confronti: ad esempio, essendo io un analista transazionale

corre a leggere attentamente i testi di analisi transazionale. D’altro canto,

cercando lei di essere perfetta, si aspetta che lo sia anch’io, per cui reagisce

con rabbia e frustrazione a ogni mio “errore”, magari anche avere iniziato una

seduta con due minuti di ritardo: i giochi di “Difetto” e di “ T’ho beccato, figlio

di puttana!” caratterizzano tutta la prima fase di terapia, e si ripetono durante

le fasi critiche.

D’altro canto, passando ai livelli più profondi del comportamento di P., ben

presto io e la paziente ci rendiamo conto delle paure che lo motivano.

Ella non deve stabilire un legame profondo con me: rischierebbe, nel suo

vissuto, purtroppo rinforzato dai precedenti fallimenti terapeutici, sia di essere

abbandonata come persona, che di non ricevere importanza come donna.

In altre parole P. teme che le si ripeta il dramma transferale nei confronti della

figura patema, già vissuto da bambina sia direttamente, che tramite

l'esperienza della madre.

Allora lei fa di tutto per tenermi a distanza per non rischiare un legame che

potrebbe poi perdere. Ciononostante, P. ha un bisogno disperato di aiuto e di

ascolto, e del resto aver continuato per anni a cercare sostegno terapeutico ne

fornisce una testimonianza.

A questo punto possiamo introdurre il concetto di comunicazione inconscia.

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In che modo P. può comunicarmi il suo bisogno naturale di protezione e di

fiducia?

Lei non può coscientemente e volontariamente contraddire circa quarant’anni

di ripetizione di un copione nel quale non ci deve essere posto per legami

significativi extra-familiari.

Tuttavia, fin dalle prime sedute P. fa dei “discorsi” che hanno tutte le

caratteristiche di quella che ho definito, applicando le teorie di Langs in analisi

transazionale, comunicazione inconscia.

Ad esempio mi parla spesso di come una sua sorella educhi in modo troppo

ossessivo la figlia di pochi anni, e di come sia irritata del fatto che la sorella

non comprenda che, dietro i “capricci” e le “bizze” della bambina si nasconda

un grande bisogno di ascolto e di attenzione.

In termini di comunicazione inconscia, P. mi trasmette il messaggio di andare al

di là dei suoi perfezionismi e delle sue “beccate”: ella vuole profondamente il

mio ascolto e la mia attenzione.

La storia di P. non è dimostrativa, come tutti i singoli casi di psicoterapia, di

una coerenza teorica o di una efficacia clinica, eppure ha un alto valore

esemplificativo di quanto affermo in questo articolo. L’analisi transazionale si

rivela una teoria con profonde basi psicodinamiche e, nel pieno rispetto delle

sue radici berniane, diventa una lettura coerente del comportamento umano

per come si dispiega nella relazione terapeutica se mantiene una adesione ai

fenomeni transferali.

Lavorare in un setting individuale rimanendo analisti transazionali, significa

primariamente definire i parametri secondo i quali si possa realizzare

efficacemente una analisi del copione.

In un setting di gruppo, l’analisi del copione psicologico del paziente viene

realizzata tramite l’analisi delle transazioni e dei giochi psicologici che

quest’ultimo esprime con gli altri membri del gruppo, portando a quella che

Berne chiama la analisi della group imago (1966).

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Il copione psicologico è visto da Berne come un equivalente della nevrosi di

transfert, quindi come il realizzarsi nel qui-e-ora delle esperienze infantili non

risolte.

In un setting individuale dovremo ricercare le condizioni adatte a facilitare

l’emergere e il riconoscimento di tali esperienze infantili, ossia del tranfert.

Allora il setting, così come nella psicoanalisi e nella psicoterapia a

orientamento psicoanalitico, assume un valore essenziale per permettere

l’esplicitazione dei fenomeni transferali e la loro analisi. Ponendo un esempio

classico, il modo con cui il paziente partecipa emotivamente alla frequenza

degli appuntamenti è rivelatore.

Ad esempio un paziente di tipo borderline esprimerà la sua rabbia verso il

terapeuta mancando alle sedute, oppure pretendendo di recuperare il tempo

dei suoi ritardi.

Un paziente fobico chiederà spesso di rendere meno frequenti gli incontri nelle

fasi critiche del rapporto.

Possiamo affermare che in un contesto analitico-transazionale individuale, il

setting costituisce il parametro primario per un’analisi del copione, in quanto

permette l’individuazione delle manovre attraverso le quali il paziente tenta,

inconsciamente, di ricreare con il terapeuta le condizioni che lo avevano

portato alle proprie impasse e alle conseguenti decisioni di copione.

Allo stesso modo, il controtransfert del terapeuta diventa uno strumento

ineliminabile per seguire le vicissitudini emotive del paziente

(Novellino, 1984 ).

I fenomeni dell’identificazione concordante e complementare aiutano il

terapeuta a intuire quanto accade nell’inconscio del paziente.

Transfert e controtransfert non sono solamente concetti interessanti, ma

colonne portanti del lavoro analitico transazionale.

Attraverso l’analisi dei fenomeni transferali e controtransferali, l’analista

transazionale potrà cogliere l’esternarsi del copione come nevrosi di transfert

nella relazione terapeutica.

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Le contaminazioni del paziente vengono proiettate sul terapeuta, che dovrà

riconoscerle, aiutando l’Adulto del paziente a diventarne consapevole

(decontaminazione), e il Bambino a ridecidere nuove opzioni (deconfusione).

L’insieme della metodologia così descritta prende il nome di analisi

ridecisionale del transfert (Novellino, 1985, 1987).

Tutto questo significa approfondire il livello inconscio della relazione

terapeutica, con una particolare attenzione ai sogni e alla comunicazione

inconscia.

L'analista transazionale utilizzerà come operazione terapeutica centrale

l’interpretazione, come del resto descritto da Berne (1966).

Interpretare, nel senso psicoanalitico corretto, non significa beninteso

sostituirsi all’Adulto del paziente, quanto guidare quest’ultimo verso l’insight su

come ripete nel presente le proprie decisioni di copione.

Vediamo come questi concetti hanno favorito la psicoterapia con P.

La psico-analisi transazionale di P.

Mi limiterò a descrivere quanto emerso nella terapia di P., che possa aiutare a

collocare concretamente i principi di metodologia che ho esposto in

precedenza.

L’analisi della comunicazione inconscia ha portato, prima di tutto, a esplicitare

il bisogno sottostante di P. di essere trattata con attenzione al di là delle sue

manovre perfezioniste e “beccatorie”.

Il controtransfert è stato essenziale. La consapevolezza dell’irritazione che

provocava il perfezionismo della paziente, discusso ed elaborato insieme a

quest’ultima, ha portato a ricostruire la rabbia con la quale la madre

rispondeva alle sue richieste di ascolto.

In particolare la madre la “gelava” allorché lei esprimeva, anche larvatamente,

sentimenti positivi verso il padre. Lei aveva allora imparato a fare come la

madre, ossia a tenere lontani gli uomini, e i suoi sentimenti positivi verso di

essi, cogliendone i difetti.

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Nessuno di loro era mai all’altezza, per cui faceva in modo di esasperarli e

rimanere sola (come la madre).

Una volta stabilita un’alleanza, abbiamo per stadi potuto ricostruire i diversi tipi

di impasse più profondi, ossia di secondo e terzo tipo.

P. era terrorizzata all’idea di stabilire un legame profondo: sarebbe stata

tradita e abbandonata, ma, soprattutto, avrebbe tradito le aspettative della

madre di rimanere sola come lei.

La relazione con me ha costituito una sorta di setting psicodrammatico, entro il

quale P. ha rivissuto sia la rabbia verso il padre che l’aveva abbandonata “nelle

grinfie” della madre, che il bisogno disperato di fidarsi di qualcuno che non

fosse la madre.

Abbiamo interpretato i giochi psicologici atti a tenere lontani gli uomini e a

confermarsi nel suo copione di insoddisfazione e solitudine.

Dopo diversi lavori anche di tipo emotivo, P. è arrivata a maturare la

ridecisione più importante:

io non sono mia madre!

Quindi ella ha potuto distaccarsi dalle ingiunzioni che l’avevano condotta a

respingere gli uomini e il loro affetto.

P. si è sposata con grande gioia, e ha sviluppato una rete di amicizie

fortemente alternative alla famiglia di origine, alla quale era sempre stata

legata simbioticamente.

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1915 Pulsioni e loro destini, vol.8

1920 Al di là del principio di piacere, vol.9

1925 Inibizione, Sintomo,angoscia, vol.10

1934-38 L'uomo mosè e la religione monoteistica, vol. 2.

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