dicembre 2011_riflettiamoci n.7

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Poste Italiane Spa – spedizione in abb. postale – DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1 comma 2 e 3 NE/TN taxe perçue Registrazione Tribunale di Trento n. 2/2010 del 18/02/2010 Napolitano: i figli degli immigrati grande fonte di speranza Trimestrale dell’associazione Il Gioco degli Specchi ANNO II NUMERO 4 – DICEMBRE 2011

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Il periodico de Il Gioco degli Specchi nel numero di dicembre 2011

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Napolitano: i figli degli immigrati grande fonte di speranza

Trimestrale dell’associazione Il Gioco degli SpecchiANNO II NUMERO 4 – DICEMBRE 2011

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SOMMARIOEdItORIAlE Torna indietro a prendere ciò di cui hai bisogno per andare avanti

PRIMO PIANOI treni delle lacrime

ASSOCIAZIONI“Rasom” significa “Insieme”

dRAMMI dI IERI E dI OGGIUna famiglia di curdi massacrata a Istanbul

MIGRANtI“Chi ha più potere, ha più responsabilità”

MIGRANtIWelcome to the jungle

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fORtEZZA EuROPALa Spoon River di Lampedusa

IMMI/EMIPolenta e Banane

SOCIEtàSan Martino a Trento,un quartiere “a colori”

CINEMAMigrando in una stanza

fuSIONIUna vita dolce per tutti

StORIA La narrazione della Fondazione Museo Storico del Trentino

l’ItAlIA hA EStREMO bISOGNO dEI fIGlI dEGlI IMMIGRAtI

Sono convinto che i bambini e i ragazzi venuti con l’im-migrazione facciano parte integrante dell’Italia di oggi e di domani, e rappresentino una grande fonte di speranza.La nostra è diventata una comunità nazionale nella qua-le i figli di immigrati contano non solo come numeri, ma anche per le capacità che esprimono. Si tratta di una pre-senza che concorre ad alimentare quell’energia vitale di cui oggi l’Italia ha estremo bisogno.Non comprendere la portata del fenomeno migratorio e non capire quanto sia necessario, sia stato e sia neces-sario, il contributo dell’immigrazione per il nostro Paese significa semplicemente non saper guardare alla realtà e al futuro.I nati in Italia ancora giuridicamente stranieri superano il mezzo milione, e complessivamente i minori stranieri residenti in Italia sono quasi un milione; di questi, più di 700mila studiano nelle nostre scuole. Senza questi ra-gazzi il nostro Paese sarebbe decisamente più vecchio e avrebbe minore capacità di sviluppo.Negli ultimi 20 anni, tra il 1991 e il 2011, il numero dei residenti stranieri è aumentato di 12 volte. Tuttavia gli im-migrati che sono diventati cittadini sono ancora relativa-mente pochi, anche se negli ultimi dieci anni c’è stato un notevole incremento. All’interno dei vari progetti di rifor-ma delle norme sulla cittadinanza, la principale questione aperta rimane oggi quella dei bambini e dei ragazzi. Molti di loro non possono considerarsi formalmente nostri con-cittadini perché la normativa italiana non lo consente, ma lo sono nella vita quotidiana, nei sentimenti, nella perce-

zione della propria identità.È opportuno tenere presente che i ragazzi di origine immi-grata nella scuola e nella società sono non solo una sfida da affrontare, ma anche una fonte di stimoli fruttuosi, pro-prio perché provengono da culture diverse. E non deve preoccupare il fatto che la loro sia un’identità comples-sa, non necessariamente unica, esclusiva. L’importante è che vogliano vivere in Italia e contribuire al benessere collettivo condividendo lingua, valori costituzionali, doveri civici e di legge del nostro paese.

Giorgio NapolitanoPresidente della Repubblica

Il GIOCO dEGlI SPECChIperiodico dell’Associazione “Il Gioco degli Specchi”

Reg. trib. Trento num. 2/2010 del 18/02/2010direttore responsabile Fulvio Gardumidirettore editoriale Mirza Latiful Haque

redazionevia S.Pio X 48, 38122 TRENTO tel 0461.916251 - cell. 340.2412552info@ilgiocodeglispecchi.orgwww.ilgiocodeglispecchi.org

progetto grafico Mugrafik

stampa Litografia Amorth, loc. Crosare 12, 38121 Gardolo (Trento)

con il sostegno diComune di TrentoAssessorato alla Cultura e TurismoProvincia Autonoma di Trento

Foto di copertina: www.quirinale.it

Le frasi sono tratte dall'intervento del Presidente Napolitano all'incontro dedicato ai "Nuovi cittadini italiani", che si è tenuto il 15 novembre presso il Palazzo del Quirinale a Roma.

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3 Editoriale

EdItORIAlEdi Maria Rosa Mura

La composizione della nostra società è molto mutata, in tem-pi recenti e all’improvviso. Prima della fine degli anni ‘80 in Tren-tino si conviveva con minoranze arrivate da lontano ma in tempi antichi, popolazioni ormai note e non considerate più come una mi-naccia. Cimbri, ladini e mocheni, nella loro diversità, fanno parte integrante del Trentino, ma non si può dire lo stesso per le nuove mi-noranze, per rumeni marocchini albanesi ecc.Questi immigrati recenti sono però stabilmente tra noi, con le loro famiglie, hanno scelto di vivere qui, sono i nuovi vicini di casa. Bisogna quindi co-noscersi, parlare, capire. Molte di queste persone hanno alle spalle realtà troppo poco conosciute, a volte vere ferite, individuali o collettive di cui non si sa nulla o si ricorda poco. Per una sana conviven-za è bene conoscere queste storie, ricordarle, rispettar-le, vederne le implicazioni nel quotidiano, non solo per avvicinarsi di più alle perso-ne, ma anche per prevenire difficoltà sociali. Quando si parla di immigrati di solito si ragiona secondo un ‘noi’, gli italiani, quelli che sono citta-dini da più lungo tempo, e un ‘loro’, gli immigrati. Non è così semplice, esiste una pluralità di ‘loro’, un mare di diversità a volte in ostile ebollizione tra loro e anche all’interno di comu-nità che sembrano omogenee.Per capire le relazioni che intrecciano tra loro le badanti che si muovono nelle nostre case, dobbiamo sapere che il fiume Dnieper divide in due l’Ucraina anche socialmente e cultu-ralmente, che le due macroregioni hanno avuto a lungo una storia completamente diversa, l’ovest parte dell’impero au-stroungarico e poi della Polonia fino al 1939, l’est dominato

dalla Russia.L’ascolto della storia personale, ma anche una attenzione particolare alla storia dei popoli, risulta essenziale per capi-re e vivere scientemente una quotidianità più complessa di quanto si pensi. Tanto più che negli studi scolastici italiani è sempre stata scarsa l’attenzione al resto del mondo, per

quanto vicino; la geografia è ignorata, la storia privilegia assi-ro babilonesi ed egiziani nel loro limbo esotico, raramente arriva alla contemporaneità.Con una così consistente pre-senza di immigrati che proven-gono da ogni parte del mondo, ora abbiamo l’assoluta necessi-tà di recuperare le nostre caren-

ze sia storiche sia geografiche, di posizionare nell’atlante l’immagine e la posizione precisa dell’Eritrea o della Mol-davia, dobbiamo sapere cosa succede alla foce del Niger o quanto ricca sia stata l’Argentina.I media italiani in genere sono concentrati sul cortile interno, sbandierano la mappa di un paese solo quando scoppia una guerra. Ormai però non è difficile avere queste informazioni, libri, giornali, internet e tv. Anche di prima mano con: qualche nuovo amico, davanti a un caffè alla turca o a un dolcissimo tè alla menta.

torna indietro a prendere ciò di cui hai bisogno per andare avanti

In questo proverbio del Ghana la necessità di conoscere la storia, personale e collettiva

NaUFRaghI deLLa SToRIaIn occasione di una guerra si verificano imponenti spostamenti di popolazioni, peggio ancora quando scoppia la pace.Dopo la seconda guerra mondiale intere popolazioni furono costrette a spostarsi da una parte all’altra dell’Europa, in fuga, sradicati, deportati con la forza. Drammi personali e collettivi che hanno lasciato profonde ferite e che devono essere quindi conosciuti dalla generazione attuale.Ne parlano i saggi che compongono il volume “Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa”, a cura di Guidi Crainz, Raoul Pupo, Silvia Salvatici, Donzelli, 2008.

Molte di queste persone hanno alle

spalle realtà troppo poco conosciute, a

volte vere ferite, individuali o collettive

di cui non si sa nulla o si ricorda poco

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4Primo piano

PRIMO PIANO di HalynaTaratula

Sono figlia e nipote di deportati e sono nata in un vilaggio di deportati. Non in un turbolento paese africano o asiatico, ma a due-tre ore di macchina dalla frontiera dell’Europa Unita: in Ucraina. Sono nata 12 anni dopo la Seconda guerra mondiale e 12 anni dopo quel terribile inverno 1945 quando i miei nonni, con due figli adolescenti – Stefan, il mio futuro padre, e sua sorella Olesia - e la famiglia della sorella della nonna, insieme con migliaia di famiglie di ucraini erano stati portati via dalle loro case, dalla loro terra, Kholmshcyna. Degli altri tre figli – Iosef, soldato sem-plice dell'armata polacca, prigioniero militare, Anna e Maria, deportate ai lavori forzati in Germania - non si sapeva niente.

Lunghi interminabili treni merci, a cominciare dal 1944 e fino al 1946, hanno continuato a portare verso l’ingno-to, in base ad accordi fra i governi sovietico e polacco, gente da Lemkivshchyna, Jaroslavshchyna, Peremeshclshcyna, Liu-bacivshchyna, Pidliashcsci, e Kholmshchyna. Questa operazio-ne, militare in tutti i sensi, era cinicamente denominata “Rim-patrio volontario di ucraini dalla Repubblica Popolare Polacca in Ucraina Sovietica”. Ciò non rispondeva naturalmente alla verità, primo perché questa gente non era mai stata cittadina sovietica, secondo perché, sapendo delle repressioni e carestie in atto in Unione Sovietica, non avrebbero certo avuto voglia di diventare carne da macello nelle carceri della Siberia o schiavi nelle fattorie statali. Tutti e due i governi avevano i loro interessi anti-ucraini: Stalin a eliminare più ucraini possibile, perche si opponevano al suo regime sanguinario; i polacchi a liberarsi di un popolo che non smetteva di chiamarsi col suo nome e pretendeva di essere rispettato come tale. Secondo le statisti-che ufficiali, su questi treni merci furono deportate 520 mila persone. Gli uomini con il bestiame (una mucca, un cavallo) e le donne con bambini, ammalati, anziani, partirono in treni separati, senza sapere niente l’uno dell’altro. Questa deportazione è stata un vero genocidio contro il popolo ucraino, perché nessuno ha contato quelli che si sono opposti e sono stati ammazzati, bruciati vivi nelle loro case, o quelli che sono morti di stenti durante viaggi che duravano mesi. Presi dall’euforia, i vincitori della guerra – americani e inglesi - hanno preferito non vedere quello che succedeva sotto i loro occhi. E

poi c’è stata un’altra operazione, denominata “Wisla”, che ha deportato molta della nostra gente nel Nord della Polonia, nelle terre tolte alla Germania come risarcimento per i danni di guer-ra. Anche qui molti sono morti per le aggressioni dei partigiani polacchi, che dopo la fine della guerra si erano trasformati in bande armate e andavano a caccia dei “rusini”, come chiama-vano in Polonia il mio popolo.

A distanza di oltre 60 anni da quei tragici fatti, spero che la storia darà il suo giudizio, per-ché anche nella sabbia del de-serto il sangue lascia traccia. Perché le lacrime della mia nonna, quando mi raccontava quello che ha subito, le sento ancora dentro il mio cuore.

Il “viaggio delle lacrime” è cominciato alla stazione Tarnograd, qualche decina di chilometri dalla casa dei miei nonni in Vola Obsczanska. Le chiavi di casa le avevano lasciate ai vicini, una famiglia polacca con la quale vivevano, prima della guerra, come se fossero fratelli. “Dai un’occhiata alla casa – disse mia nonna alla sua vicina -. E quando torneranno Iosef, Anna e Ma-ria, aiutali, ti prego”. Come poteva immaginare che i “buoni vici-ni amici” quello stesso giorno si sarebbero trasferiti in casa sua, come se fosse stata loro, e non se ne sarebbero più andati via?Ma perché servono proprio occasioni così brutali, così disuma-ne, per poter capire chi è tuo vero amico e chi invece aspetta il momento giusto se non per ammazzarti, almeno per ferirti? Davvero una bella domanda, vecchia come il mondo, ma la ri-sposta, penso, non sia ancora nata.Il treno era come un carcere su ruote: carrozze-camere sovraf-follate, in cui giovani e vecchi, bambini e ammalati viaggiava-no per lunghe settimane, custoditi dai soldati come se fossero criminali. Anche i bisogni fisiologici erano costretti a farli nella stessa carrozza dove si dormiva, si mangiava, qualcuno nasce-va, qualcuno moriva... Una indescrivibile sofferenza per tutta la durata del viaggio a causa della fame, della puzza, della paura. Le fermate erano lunghe: raramente un giorno, mediamente tre-cinque giorni o una settimana intera. E sempre lontano dalle città o da qualsiasi luogo abitato. Prima fra i campi e poi nelle steppe, dove non si poteva nascondersi per scappare. Ma scappare come? I soldati erano addestrati a sparare contro

le lacrime della mia nonna, quando mi

raccontava quello che aveva subito,

le sento ancora dentro il mio cuore

la deportazione di ucraini in urss: una drammatica storia poco conosciuta

I treni delle lacrime

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5Primo piano

chiunque si azzardasse a sfidare la sorte. Non guardavano se era un uomo, una donna o un ragazzo. Sparavano. In maggio-ranza erano di origine asiatica. Non capivano non solo l’ucraino o il polacco – le lingue dei deportati, ma neanche il russo – la lingua ufficiale sovietica. Perché i deportati parlavano anche polacco? Semplice: prima della guerra, o meglio ancora all’i-nizio degli anni Venti, quando in seguito al patto di Versailles alla Polonia erano state regalate terre ucraine - Galychyna, Kholmshcyna, Pidliaschschia, Ovest di Volygn, Ovest di Polis-sia, Posiannia, Lemkivshcyna - i nostri due popoli, in particolar modo contadini e modesti cittadini, vivevano pacificamente. Si aiutavano a vicenda, si innamoravano e si sposavano, teneva-no a battesimo i figli dei vicini anche se erano di fede diversa: per esempio, mia nonna ortodossa ucraina ha tenuto a batte-simo due figli di suoi vicini in una chiesa cattolica polacca, e la madre di loro, cattolica di origine tedesca (c’era vici-no anche la colonia tedesca), che aveva sposato un polacco, ha tenuto a battesi-mo mio padre e sua sorella Olesia in una chiesa ortodossa. In queste famiglie si parlavano tran-quillamente due lingue. Fino a quando ha preso il potere Jòzef Pilsutsky, con il suo governo nazional-sciovinista, che ha comin-ciato la guerra contro gli ucraini, la cosiddetta “pacificazione”, che ha portato migliaia di morti da tutte e due le parti. Questa guerra fra nazionalità ha fatto un grande favore ai due invasori: i tedeschi, che nel 1938 avevano occupato la Polonia e sfrut-tavano questo odio a loro favore, e i sovietici, che alla fine sono arrivati alla deportazione.

Che erano arrivati al “capolinea”, cioè al punto di destinazione, i deportati lo avevano capito dal comportamento dei militari: non avevano più fretta e non controllavano le persone. La step-pa era come un enorme piatto liscio e nero. Era già primavera. C’erano voluti due lunghi mesi per arrivare. Loro, abituati a vive-re su colline boscose, erano spaventati da questa nuda steppa.

La nonna, raccontandomi questo calvario, diceva che provava la strana sensazione di essere rinchiusa in un carcere senza muri. Forse non solo lei si sentiva così e per questo cercavano di tenersi uniti. Per non perdersi. Non si vedeva nessuna costru-zione, nessun albero. Il loro treno (con donne, bambini, vecchi) era arrivato tre giorni prima di quello che trasportava gli uomini con il bestiame. Quando anche l’altro treno arrivò, erano tutti esausti, uomini e bestie. E non tutti gli animali erano soprav-vissuti: alcuni erano morti per mancanza di foraggio e per la lunghezza eccessiva del viaggio. Dopo essersi ritrovati, si sono riuniti tutti per una Messa im-provvisata: con qualche mobile che avevano, hanno costruito un altare. Fu una cerimonia molto triste, con il battesimo dei neonati venuti al mondo durante il viaggio e la funzione fune-

bre per chi era morto e sepolto durante le varie soste in terra straniera. Ma non potevano sapere quale destino terribile li aspettava.Dopo qualche giorno ar-rivò l’ordine di muoversi, questa volta a piedi, sot-to la minaccia del fucile e dei feroci sguardi dei soldati. Davanti a questi sguardi i genitori teneva-no per mano le loro figlie e non permettevano loro

di allontanarsi neanche di un passo.Dalla stazione al “loro” villaggio c’erano pressappoco dieci chi-lometri, ma per loro, stanchi e sfiniti fisicamente e moralmente, era come fossero cento.

Finalmente, ai loro stanchi occhi si aprì il panorama, che li co-strinse a rallentare il passo, ma non potevano fermarsi: i fucili dei soldati spingevano a camminare. Come era doloroso cam-minare verso case con le finestre inchiodate. Non si vedeva anima viva. Strano villaggio - dicevano fra sé - non si vede nes-suno. Né per strada né vicino alle abitazioni. ... che Ucraina è questa? Perché, nonostante tutte le cose terribili che sapevano sulla vita in Unione Sovietica, speravano di trovare l’Ucraina come era descritta nelle canzoni popolari che si cantavano in casa, o nelle fiabe raccontate dai nonni: con giardini di cilie-gie e mele, con case bianche e gente che non sta mai ferma...

Il treno era come un carcere su ruote: carrozze

sovraffollate, in cui giovani e vecchi, bambini

e ammalati viaggiavano per lunghe settimane,

custoditi dai soldati come se fossero criminali

IgortQuaderni ucraini Mondadori 2010

Igort (Igor Tuveri), fumettista di fama internazionale, trascrive con

il suo disegno le testimonianze raccolte sull’holodomor, la

carestia provocata da Stalin tra il 1929 e il 1933. In una delle più fertili regioni al mondo morirono

per fame milioni di persone.

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76AssociazioniAssociazioni

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PRIMO PIANO

tedesca. Mia nonna, che io ho sempre ritenuto una donna forte, a questo punto interrompeva il racconto, adducendo il pretesto che doveva andare nell’orto o nella stalla perché aveva dimenticato un lavoro. La cosa che apparve agli occhi

di chi entrava in quelle case erano corvi, grandi corvi neri che divoravano corpi umani. Gonfi di fame, corpi dei vinci-tori in guerra: uomini, donne, bambini. Figli della più ricca e più fertile terra: Zaporizhia.

I corvi, disturbati all’improv-viso, si alzavano sulle loro grandi ali, facendo versi spa-

ventosi, volavano via per le porte spalancate, lasciando giù il loro banchetto. Gridavano al cielo le donne, stringendo a sé i bambini. Gli uomini, coprendosi il viso, tiravano fuo-ri quello che era rimasto dei corpi umani, li caricavano su carri trovati nel villaggio e li portavano fuori, dove si vedeva-no croci di cimitero. Così cominciarono ad essere cittadini sovietici.

All’entrata del villaggio i soldati si fermarono. L’ufficiale coman-dante si avvicinò e disse ai deportati che da quel momento il villaggio era loro: con case, orti e...tutto il resto. Erano liberi di impadronirsi di ogni casa e di cominciare a vivere da cit-tadini sovietici. Parlava velo-ce, nascondendo lo sguardo: sembrava avere paura di incontrare gli occhi di que-sta gente sfinita. Parlava un ucraino perfetto, sembrava un professore. Tanti di loro non avevano mai sentito par-lare così bene la loro lingua. Prima di andare via con i suoi uomini, informò che l’indo-mani sulla piazza ci sarebbe stato l’incontro con le autorità locali e che tutti erano pregati di essere presenti.

Quando si abbassò il polverone dietro i soldati, i deportati decisero di entrare nelle case. Neanche i più vecchi fra di loro avevano mai visto un simile orrore, benché ne aves-sero viste tante durante il terrore polacco e l’occupazione

Come era doloroso camminare verso

case con le finestre inchiodate. Non si

vedeva anima viva. Strano villaggio -

dicevano fra sé - non si vede nessuno.

Concorso per la promozione della lettura“lIbRI A tuttO GAS, le vostre recensioni”Leggere fa bene alla salute. Il Gioco degli Specchi ha indetto il concorso “Libri a tutto gas”, libero e aperto ai residenti in provincia, singole persone (divise secondo l'età: bambini, ragazzi e giovani, adulti), ma anche scuole o gruppi informali. Possono partecipare anche le persone detenute nel car-cere di Trento. Ai singoli lettori si chiede di proporre i loro consigli di lettura attraver-so delle recensioni letterarie (massimo 2.000 caratteri); alle scuole e ai gruppi si chiede invece un resoconto del lavoro svolto a partire da uno o più libri (massimo 10.000 caratteri). I testi possono tratta-re qualsiasi argomento, ma devono essere legati al lavoro culturale dell'associazione Il Gioco degli Specchi che si occupa di emigrazio-ne italiana e immigrazione. La scelta degli autori cade quindi sugli scrittori emigrati, immigrati o loro figli, su quanti nel mondo hanno vissuto questa esperienza di sradicamento e di appartenenza a più paesi, su scrittori che fanno conoscere realtà lontane con cui la so-cietà italiana è venuta a contatto.

Molti i premi previsti, ovviamente in libri. I vincitori potranno parte-cipare ad un programma radio di promozione della lettura presso Radio Trentino in Blu e vi sarà contestuale segnalazione su Vita Tren-tina. Le opere vanno consegnate o spedite entro il 15 marzo 2012 al se-guente indirizzo: Il Gioco degli Specchi, via S. Pio X 48, 38122 Trento o fatte pervenire via mail a [email protected]. In entrambi i casi l'"Elaborato” va inviato senza segni di riconoscimento, senza dati dell’autore o firma, mentre in busta o file separato vanno inviati “Dati e consenso”, con nome, cognome, data di nascita, indirizzo, re-capito telefonico, indirizzo e-mail oltre al consenso per il trattamento dei dati personali.

L'iniziativa è attuata con il sostegno della Fondazione Cassa di ri-sparmio di Trento e Rovereto e della Risto3 s.c.

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76AssociazioniAssociazioni

è il nome dell’associazione cristiano-culturale degli Ucraini in Trentino

“Rasom” significa “Insieme”L'ondata migratoria attuale dall'Ucraina non ha cause politiche come altre in passato, si sviluppa a partire dagli anni novanta, dopo la caduta del muro e lo sfaldamento dell'URSS, quando la si-tuazione economica nel paese si fa pe-sante e si manifestano i primi segni di una crisi economica. Mentre gli uomini partivano per la Russia il Portogallo la Spagna, le donne, soprattutto quelle che avevano perso ogni prospettiva di lavoro, le dipendenti statali, insegnanti medici ingegneri, superando le difficoltà anche psicologiche di lasciare marito e figli, di recarsi in un paese lontano come l'Italia, cominciano ad avventurarsi e di lì a poco con il passaparola l'esodo cresce.L'immigrazione ucraina è ancora preva-lentemente di donne sole che lavorano in famiglia, come collaboratrici e per l'as-sistenza agli anziani. Resta quindi sem-pre il desiderio del rientro, ma i tempi ef-fettivi si perdono in un futuro nebuloso.In Trentino gli ucraini rientrano al setti-mo posto tra le comunità più numerose, la loro immigrazione ebbe inizio 10-15 anni fa, con le prime “badanti” che giun-gevano per svolgere un prezioso lavoro di cura nelle famiglie. In seguito comin-ciarono ad arrivare anche gli uomini con

ASSOCIAZIONI

ContattiPresidente Oleksandra Arendarchuk Via Marco Apuleio, 24/2 - 38122 Trentocellulare 348 9388306 | E-mail [email protected]

i figli, per riunire le famiglie separate. Da dieci anni esiste la comunità religiosa, guidata da don Augustyn Babiak. Messe in lingua ucraina sono celebrate ogni prima e terza domenica del mese in rito cattolico orientale, a Trento, ma anche a Rovereto, Cavalese, Merano, Bolzano e Riva del Garda.L'Associazione cristiano-culturale degli Ucraini in Trentino “RASOM” è nata nel 2004 con lo scopo principale di far cono-scere la cultura ucraina in Trentino, di of-frire un aiuto alle persone immigrate nel loro percorso di integrazione nella socie-tà trentina, di promuovere una collabo-razione più intensa tra l’Italia e l’Ucraina in diversi campi. “Rasom” significa infatti “insieme”.Le principali attività dell’associazione sono il sostegno degli immigrati ucrai-ni nella ricerca del lavoro e della casa, l'insegnamento della lingua madre, l'or-ganizzazione di serate culturali, spesso animate dal gruppo folcloristico dell’as-sociazione che è disponibile per serate e concerti. Con questo gruppo l’Associa-zione Rasom partecipa da tempo con danze e canzoni tradizionali alla Festa dei Popoli di Trento e assieme alla can-tante lirica Halyna Vozna ha visitato con

grande successo diverse Case di riposo di Trento.Dal 9 al 16 ottobre 2011 a Trento e Ro-vereto “Rasom” ha organizzato l'“Ucraina Festival“, in occasione del ventesimo anni-versario dell’indipendenza della nazione. Un'intera settimana dedicata a cultura, storia, cucina, tradizione popolare e fol-clore ucraino che ha permesso ai Tren-tini di scoprire questo paese, di appro-fondirne la conoscenza con una mostra presso la biblioteca comunale di Trento, di sentire le testimonianze delle donne nella serata “Vivere tra due mondi”, le loro poesie e i loro ricordi, di godere del-la musica e delle danze popolari di ospiti ucraini famosi, con il gruppo vocale delle donne” Lileia” di Zhydachiv, la banda po-polare musicale” Vizeruncky” di Hodoriv e il gruppo di giovani danzatori dell’asso-ciazione “Bucovynochka”. La riflessione su Ĉernobył con Mirco Elena verrà ripe-tuta in aprile, in occasione dell' anniver-sario della catastrofe nucleare.Ogni anno genitori e figli si impegnano per mantenere le tradizioni, in particola-re la Festa di San Nicolò, santo che 'arri-va' nella parrocchia di San Giuseppe per portare regali a tutti i bambini.

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Drammi di ieri e di oggi

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è da mesi che mi sto confrontando con i miei più grandi do-lori di quest'anno. Certamente il fatto di aver perso due cugi-ni in un mese mi ha colpito profondamente, sono dolori che nessuno potrebbe affrontare da solo. Io preferisco condivi-dere con voi. Per questo motivo sto facendo una campagna per sostenere le famiglie colpite, almeno per dare loro un po' di coraggio per andare avanti. Vorrei mandare loro un po' di sorrisi da lontano, con voi.La maggior parte degli abitanti in Italia non sa quasi niente di cosa succede nel paese di un rifugiato politico. Quando ci colpiscono questi avvenimenti non possiamo fare un bel sorriso come tanti fanno, in Italia. è una cosa carina ricevere un sorriso nonostante tutto, ma dentro di noi rifugiati o nei paesi dove siamo nati, succedono un sacco cose che ci tol-gono il nostro sorriso, senza dimenticare le nostre difficoltà per stabilirci in Italia. Ecco un episodio amaro per me e per tutti i miei cari.

Cosa è successo?In Turchia a Istanbul, nel quartiere di Küçükçekmece-Ikitelli il 29 luglio 2011 ho perso un cugino, Hüseyin, che aveva 33 anni, e un secondo cugino, Üstün, è entrato in coma e lo abbiamo perso il giorno 16 agosto 2011. Un terzo fratello, Haydar, gravemente ferito dalle pallottole di un capo quartie-re a Istanbul, è rimasto in ospedale. Un quarto fratello è sve-nuto (quando ha visto cadere i fratelli uno dopo l'altro) ed è sopravvissuto, perché l'assassino pensava che fosse morto.

Come è iniziato?Mio cugino Üstün stava ritornando a casa, voleva parcheg-giare la sua macchina vicinissimo a casa. Il capo quartiere del rione, Mehmet Akif Ersoy, con i suoi seguaci, squadristi, 8-9 persone tutte ubriache, gli ha impedito di parcheggiare. Mio cugino, dopo aver capito che questi non gli avrebbero permesso di parcheggiare, stava facendo marcia indietro con il finestrino aperto. L'hanno fermato, l'hanno tirato fuori dalla macchina e picchiato gravemente. Sanguinante, Üstün è scappato verso casa, dai suoi fratelli e da sua mamma. Appena lo hanno visto, i fratelli hanno chiamato subito la polizia che però non è venuta. Vedendo il fratello soffrire da-vanti a loro, hanno deciso di andare dal capo quartiere. Il capo quartiere, evidentemente preparato all'omicidio, spara a uno dopo l'altro, scaricando completamente su di loro la sua arma.Questo, coinvolto anche in attività mafiose, era già conosciu-to per il suo atteggiamento arretrato contro i curdi e le donne. In un locale “per divertimento” ha sparato e ha ferito una donna. In quella circostanza il sottoprefetto gli sequestrò l'ar-ma, che però gli fu restituita dopo pochi mesi: con queste conseguenze. Prima dell'omicidio, e anche adesso, cosa succedeva in turchia?Il governo turco negli ultimi mesi, sia nel territorio curdo sia in Iran e in Iraq, ha fatto più di 500 voli di bombardamento per continuare il genocidio ai danni dei curdi e di altre minoran-

un immigrato a bolzano piange la morte dei cugini

una famiglia di curdi massacrata a Istanbul

Poiché nessuno dei rispettivi governi ha mai riconosciuto in pieno le aspirazioni autonomistiche curde (anzi, le ha sempre violente-mente represse), non esiste una delimitazione ufficiale dei confini del Kurdistan né alcun censimento ufficiale della sua popolazione. Secondo le valutazioni più accreditate si calcola comunque che la superficie sia di circa 500 mila chilometri quadrati, divisa tra Tur-chia, Iran, Iraq, Siria ed ex repubbliche sovietiche. Le stime riguardo

di G. M.*dRAMMI dI IERI E dI OGGI

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ze. Negli ultimi anni i curdi hanno ottenuto grandi successi nella battaglia pacifica, parlamentare ecc. per i loro diritti. Questo fatto disturba il governo che fa di tutto per impedirlo, provocando la guerra civile nelle montagne del Kurdistan. Il governo turco ha iniziato a fare una grande propaganda via Tv, radio, giornali ecc. Ogni giorno ritornano i cadaveri dei sol-dati turchi o dei guerriglieri in montagna. Nella Turchia c'è un clima di rabbia verso i curdi. Nessun curdo si sente sicuro. Questo è un fatto che ha rafforzato l'atteggiamento arretrato, razzista, mafioso, religioso fanatico del capo quartiere.

Per la cronaca del quartiere:quattro assassinati in 12 mesi: tutti vengono dalla regione di Dersim e tutti si conoscevano.Dersim è la zona dove c'è stato negli anni 1935-1938 un genocidio, dove sono state massacrate più di 40.000 per-sone, tra loro anche mio nonno. Mio padre (a 7 anni) con i suoi fratelli e sorelle è sopravvissuto. Sono stati massacrati gli abitanti di interi villaggi, bruciate le case e gli animali per privare di tutto, fino all'ultima cosa, le persone povere in os-sequio alla politica nazionalista del fondatore della Turchia, Kemal Atatürk.(http://www.balcanicaucaso.org/aree/Turchia/Massacro-di-Dersim-le-scuse-di-Erdogan-108856)Il genocidio richiede ancora nuove vittime, questa volta a Istanbul, e i miei cugini non sono i primi. Abbiamo perso Aykut a fine agosto 2010, aggredito con la complicità della polizia e dopo 2 mesi e mezzo, nello stesso

modo e nello stesso quartiere di Istanbul, viene assassinato il suo amico Savaş, attaccato da un gruppo di sei persone, mentre era seduto con i suoi amici in un parco giochi comu-nale. Anche loro erano nati nella mia città, Dersim, come tutti gli altri.

Il quartiere e il movimentoNella zona dove abitavano i miei cugini ci sono diversi asso-ciazioni curde e turche che fanno attività culturali e politiche per i diritti dei curdi e per i diritti umani di tutti i cittadini in Turchia. Lo stato turco sta cercando di fermare questi tentativi. Pro-prio nei pressi della stazione di polizia, vicino alla casa dei miei cugini a Istanbul, girano indisturbati spacciatori di droga che rendono insicura la zona e bloccano sul nascere ogni tentativo socioculturale.Nella manifestazione, dopo la perdita di Hüseyin, gli abitanti chiamano direttamente in causa le autorità e la polizia, chie-dono di far luce sui fatti e sui rapporti di connivenza degli apparati statali con criminali e clan della droga.Alla notizia della morte del secondo fratello Üstün, 31 anni, le strade si affollano di nuovo di manifestanti curdi, anche se rischiano personalmente. Rimbombano slogan contro il cli-ma razzista e nazionalista in città, contro le pressioni di tipo mafioso sui piccoli commercianti, contro le discriminazioni etniche e religiose che i curdi aleviti vivono quotidianamente.

NON lASCIAMOlI dA SOlI! Il cugino delle vittime ha organizzato a novembre un concerto di beneficenza a Bolzano per poter mandare fondi ai fami-liari. Spese d’ospedale, purtroppo inutili, spese per i funerali, un ricordo per i morti nel loro villaggio, mentre i sopravvissuti si sentono in pericolo dato che il capo quar-tiere è in carcere, ma quelli che lo hanno aiutato sono in libertà, e per questo moti-vo vorrebbero trasferirsi.Chi volesse dare un contributo economi-co alla famiglia delle vittime può utiliz-zare il conto corrente dell’Associazione Popoli Minacciati di Bolzano, specifican-do “causale: famiglia Agdogan”, IBAN IT42E0808111610000306002242.

ÜStÜN AĞdOĞANKAlbIMIZdESIN

hÜSEyIN AĞdOĞANKAlbIMIZdESIN

alla popolazione vanno dai 25 ai 38 milioni di persone, mentre le organizzazioni internazionali calcolano che i profughi, in questo mo-mento, siano almeno cinque milioni. In Europa, il gruppo più consi-stente (circa 500 mila) si trova in Germania, poche centinaia invece in Italia. Per i curdi in Turchia (e il massacro di Dersim) si veda in Limes, 6/2010, “Il ritorno del sultano”, l'articolo “La pace con i curdi* ormai è inevitabile” di Doğu Ergil e passim.

Drammi di ieri e di oggi

un cugino delle vittime

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10Migranti

MIGRANtIdon Sandro de Pretis racconta la situazione dei rifugiati nel campo di Choucha, al confine fra tunisia e libia

“Chi ha più potere, ha più responsabilità”

di Giacomo Zandonini

Entrati nel discorso pubblico con l’arrivo di migliaia di rifugiati dalla Libia in guerra, ter-mini come “esodo di clandestini” o “tsunami umano” non rendono conto delle caratteristi-che e dimensioni del fenomeno delle migra-zioni forzate, che interessa nel mondo milioni di persone e tocca in misura minima i paesi industrializzati. Basti pensare che dal marzo 2011, mentre in Italia arrivavano circa 22.000 persone in fuga dagli scontri, la Tunisia era raggiunta da oltre 200.000 migranti. Molti di loro sono passati dal campo di accoglienza di Choucha, a pochi kilometri dalla frontiera con la Libia, dove dallo scorso maggio opera il sa-cerdote trentino don Sandro de Pretis.

Chi sono le persone che incontra nel campo profughi di Choucha, da quali paesi provengono?

Si tratta di persone che si trovavano in Libia e allo scoppio delle ostilità, nel febbraio 2011, sono scappate dal paese. Parte di loro è entra-ta in Tunisia mentre altri hanno attraversato il mare o sono morti nel tentativo di farlo. Ades-so, a novembre, a Choucha si trovano circa 3500 persone, quasi tutti migranti provenienti dall’Africa sub sahariana. I tre gruppi più nu-

Campo profughi di Choucha in Tunisia

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merosi sono gli eritrei, i somali e i cittadini del Darfur, in Sudan, mentre gruppi più piccoli provengono da Ciad, Nigeria, Costa d’Avorio o Etiopia. E’ probabile che oltre 2500 persone otterranno lo status di rifugiato, mentre i rima-nenti mille si troveranno in un limbo, di fronte a decisioni importanti: se rientrare nel loro paese, al momento cosa poco probabile, se rientrare in Libia, cosa altrettanto difficile vi-sta l’instabilità e la pericolosità persistente nel paese, oppure ancora se rimanere in modo illegale in Tunisia, scelta altrettanto rischiosa, considerando che l’irregolarità è punita con il carcere.

Quali sono gli aspetti più difficili della vita delle persone bloccate in questo campo?

A mio avviso la difficoltà maggiore è rappre-sentata dal timore per il futuro. Queste perso-ne vengono da situazioni già difficili nei paesi di origine e per questo sono scappate. Molti hanno alle spalle anni e anni di vita fuori dal proprio paese, in genere prima in Sudan e poi in Libia, dove sono spesso andati incontro a mesi e anni di prigione in quanto migranti il-legali, bloccati dagli accordi fra Italia e Ghed-

dafi. Sono quindi abituati ad una situazione di incertezza, di mancanza di diritti, a essere in qualche modo degli ostaggi di situazioni più grandi e estremamente difficili. Tante volte noi europei guardiamo solo al risultato finale, al fatto che le persone arrivano nei nostri paesi, che ci tolgono il lavoro e ci causano problemi. Non è vero. Le persone che ho incontrato a Choucha hanno una maturità e un coraggio che noi ci sogniamo, e sono scappate da si-tuazioni di cui noi spesso non sappiamo nulla e dalle quali, se avessimo avuto lo stesso co-raggio, saremmo scappati anche noi.

La fine della guerra in Libia non ha influito sul futuro dei rifugiati di Choucha?

Chi ha la possibilità di ottenere una protezio-ne internazionale potrà trovare un paese che lo accolga, in Europa o America del nord. Di fronte a questa possibilità nessuno vorrebbe tornare in Libia, tanto più che buona parte di loro in Libia ha sofferto molto. Non sono andati in Libia per rimanerci, ma si sono ri-trovati ostaggi, se non prigionieri nel paese, per mesi o anni. Ho conosciuto varie persone che sono state 3 anni in prigione perché “il-

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11Migranti

MIGRANtIl’accoglienza dei migranti provenienti dal Nord Africa

Welcome to the jungle

di Maria Francesca Cardin

Quante volte attraversiamo di corsa Piazza Dante, a Trento, diretti in stazione e fugace-mente incrociamo lo sguardo di giovani ragazzi africani che chiacchierano tra di loro seduti sulle panchine e magari pensiamo “quelli sì che fanno una bella vita”. Fermatevi un attimo perché quelli che avete visto potrebbero essere quei famosi profughi arrivati dalla Libia che lo Stato italiano ha accolto dopo lo scoppio del conflitto civile. Quando vivevano in Libia la mattina si alzavano per andare a lavorare, solo che la mattina del 17 febbraio 2011, conosciuto come giorno della collera, si sono svegliati in uno Stato in guerra. La situazione nei mesi successivi non è migliorata; sono infatti iniziati i bombardamenti NATO. L'istinto di tutti è stato quello di scappare e se nei loro Paesi d'origine queste persone non ci potevano tornare, perché non sempre ci si allontana dalla propria Nazione per motivi lavorativi, la scelta, non semplice, è stata quella di intraprende un viaggio su barconi malconci e provare ad arrivare in Europa.Se dal 2008, in barba alla normativa europea ed internazionale, attraverso accordi di amicizia con l'ex alleato Gheddafi, l'Italia ha sviluppato una prassi di intercettazioni e re-spingimenti di migranti in alto mare, la cui legittimità è tutt'ora sotto il vaglio della Corte europea dei diritti dell'uomo (Caso n. 27765/09 Hirsi e altri contro Italia), dopo lo scoppio del conflitto libico le cose sono cambiate. Il Regolamento europeo Dublino II è chiaro: “se il richiedente asilo ha varcato illegalmente le frontiere di uno Stato membro, quest'ultimo è competente per l’esame della sua domanda di asilo”. Ecco che il Bel Paese si vede co-stretto ad accogliere 22.293 richiedenti protezione internazionale; sarebbe potuta essere una buona occasione per armonizzare la normativa interna a quella comunitaria e interna-zionale in materia di immigrazione e diritto d'asilo, come sancito dalla nostra Costituzione all'art. 10 co. 2, ma è stato molto più comodo dichiarare lo Stato d'emergenza nazionale e trasferire i migranti nelle diverse Regioni italiane. Si è sviluppato un sistema di accoglienza differenziato in base alla Regione ospitante, gestito a monte dalla Protezione Civile e dai più disparati Enti.Questi migranti per i primi sei mesi, dopo la richiesta di protezione internazionale, non pos-sono accedere al mercato del lavoro, come sancito dal Decreto Legislativo 30 maggio 2005 n.140, in applicazione della Direttiva comunitaria n. 9 del 2003. Lo Stato si impegna a for-nire agli Enti che gestiscono l'accoglienza una quota giornaliera per coprire le spese di vitto e alloggio dei migranti, che perciò non ottengono in nessun caso denaro in contanti, come a volte qualche politicante afferma. Presentare domanda d'asilo significa attendere che una Commissione vagli e decida in base ai trascorsi che ogni singolo migrante ha, se realmente il soggetto necessita della protezione dello Stato italiano. Tutte le domande di asilo presen-tate dai 211 migranti accolti in Trentino sono attualmente sotto il vaglio della Commissione di Verona. Si parla di mesi di attesa per poi magari ricevere un diniego, che equivale a dire “arrivederci torna al tuo Paese”. C'è sempre la possibilità del ricorso, ma si parla di ulteriori mesi di attesa, oppure si ha la possibilità del rimpatrio assistito, che consiste nel ricevere un biglietto aereo per ritornare nel proprio Paese d'origine ed un'indennità di 200 euro. Il rischio ultimo è quello che tale prassi porti alla produzione di irregolarità. Appare chiaro che la questione della gestione dell'accoglienza dei migranti provenienti dal Nord Africa non si è mossa sul terreno del diritto... allora cosa fare? Nel sito http://www.meltingpot.org/articolo17149.html si trova una risposta a questa “emergenza”: una petizione per il rilascio di un titolo di soggiorno umanitario attraverso l’istituzione della protezione temporanea (art 20 TU) o le altre forme previste dall’ordinamento giuridico. Sta a voi decidere!

Al campo profughi di Marco, vicino a Rovereto

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legali” e ciò deriva da una parte dal razzismo verso gli africani neri che si respira in Libia e dall’altra dagli accordi con il governo italiano, che permetteva a Gheddafi di fare il lavoro sporco per conto dell’Europa. La situazione oggi non sembra cambiare: i primi contatti dei governi europei con il nuovo governo libico hanno messo come priorità assolute il blocco del flusso di migranti e la continuazione del business occidentale, dei grandi appalti. Mi fa pensare molto il disinteresse che vedo da parte dei nostri governi e delle nostre socie-tà, per cui l’aspetto economico e strategico, declinato in termini di rapporti diplomatici, di sfere di influenza, conta sopra ogni cosa… Qui c’è l’ipocrisia del nostro mondo, che parla molto di diritti umani. Chi ha più potere, ha più responsabilità e i nostri governi dovreb-bero prendersi queste responsabilità. Tutta l’Africa non ha il potere economico e politico che hanno gli Stati Uniti, l’Europa o la Cina e questo rende evidente che quando parliamo di crisi economica, dovremmo ricozrdare che prima di questa c’è nel mondo una crisi della giustizia, che si riflette sulla vita dei rifugiati e in qualche modo su ognuno di noi.

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12Fortezza Europa

fORtEZZA EuROPA

Sono tornato da Tunisi con una trenti-na di fotografie. Foto di ragazzi. Alcu-ne a colori, altre in bianco e nero. Le tengo custodite in una busta dentro un quaderno. Avvolte da un foglio di car-ta con su scritto a penna un elenco di nomi e date di nascita, in arabo. Ogni volta guardarle mi fa un po' impressio-ne. Come se temessi di incrociare il loro sguardo vivo che adesso non c'è più. Sì perché quei trenta ragazzi sono alcuni degli almeno 187 <http://for-tresseurope.blogspot.com/2011/05/mai-cosi-tanti-1510-morti-in-5-mesi-nel.html> tunisini dispersi in mare nel 2011 lungo la rotta per Lampedusa. Me le hanno consegnate i loro fami-liari. E mi hanno chiesto di pubblicar-

Che cosa sono i Centri di Identificazione e Espulsione

CIE, uNA vERGOGNA ItAlIANANei centri d'identificazione e espulsio-ne (CIE) vengono trattenuti uomini e donne colpevoli di aver visto scadere il proprio titolo di soggiorno o di non averlo mai avuto. Istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano con il nome di centri di permanenza tem-poranea (CPT), sono stati oggetto negli anni di forti critiche da parte di organiz-zazioni per i diritti umani sia nazionali che internazionali. Il limite massimo di trattenimento nei CIE è stato aumentato nel 2008 fino a 18 mesi e viene disposto "quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante ac-compagnamento alla frontiera ovvero il respingimento perché occorre procedere

al soccorso dello straniero, ad accerta-menti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all’acquisi-zione di documenti per il viaggio, ovve-ro per l’indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo".Attualmente esistono in Italia 13 CIE distribuiti su tutto il territorio nazionale, ma non in tutte le regioni come propa-gandato dal passato governo, per un totale di 1806 posti. Sono presenti a Bari, Bologna, Brindisi, Caltanissetta, Catanzaro, Crotone, Gorizia, Milano, Modena, Roma, Torino, Trapani (dove ci sono 2 centri). Questi anni sono sta-ti caratterizzati da varie inchieste e in-terrogazioni parlamentari che hanno

riguardato i CIE, sono stati denunciati i costi poco trasparenti ed eccessivi per la loro gestione, le violenze avvenute al loro interno, la doppia pena che diversi stranieri hanno dovuto scontare dopo il trasferimento dalle carceri ai CIE per essere identificati, le storie di persone incarcerate per errore o più volte perché impossibili da rimpatriare.L’ultima polemica riguardo ai CIE si è ri-solta pochi giorni dopo l’insediamento del nuovo governo, quando finalmente, dopo mesi di censura, grazie ad una cir-colare del nuovo ministro dell’Interno, i giornalisti hanno potuto ricominciare ad entrare nei CIE per documentare le con-dizioni di vita al loro interno.

Patrizia toss

le e di chiedere se qualcuno li ha mai visti in Italia, nei Cie o nelle carceri o in qualsiasi altro posto. L'esperien-za di questi anni mi aiuta a pensare che non ci siano speranze di ritrovarli ancora in vita. Ma ho deciso di pubbli-carle lo stesso. E chiedo ai lettori del blog di fare uno sforzo. Ne pubblicherò una al giorno, per due settimane. Cer-cate di incrociare il loro sguardo che non c'è più. E imparate a pronunciare i loro nomi. E a celebrarli. Perché alla fine dei conti non saranno ricordati soltanto come vittime. Bensì come martiri. Caduti in questa sporca guer-ra delle frontiere. Eroi ribelli di uno spontaneo movimento di disobbedien-za civile contro le leggi ingiuste delle

http://fortresseurope.blogspot.com/2011/11/la-spoon-river-di-lampedusa.html

Storie e immagini di troppi giovani tunisini dispersi in mare

la Spoon River di lampedusafrontiere e contro la criminalizzazione della libera circolazione. Ragazzi ucci-si dalle nostre ambasciate prima an-cora che dalle onde del mare. Ragazzi che violando deliberatamente le leggi europee sull'immigrazione ci spingono a interrogarci sull'istituzionalizzazione del razzismo, sul divieto di circolazione e sulla detenzione amministrativa di chi è senza documenti. Questi volti fa-ranno parte delle collezioni del museo dell'emigrazione che un giorno aprirà a Lampedusa, come oggi a Ellis Island negli Stati Uniti d'America. Ma allora sarà troppo tardi per battersi il petto e riempirsi la bocca di retorica. Faccia-mo in modo fino da oggi che questi gio-vani non siano morti per niente.

di Gabriele Del Grande *

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13Immi/Emi

IMMI/EMI trentini in brasile: una lunga storia di integrazione

Polenta e bananeFa un certo effetto sentir parlare dialetto trentino a oltre 10 mila chilometri di distanza dal Trentino, tra risaie e bananeti, nell’interno del Brasile. E fa ancora più effetto sapere che quei brasiliani dai cognomi trentini sono discendenti di per-sone emigrate là nell’800, quasi 150 anni fa.Una visita allo Stato di Santa Catarina, nel sud del Brasile, è un’esperienza straordinaria. Ho potuto viverla recentemente grazie all’Ufficio Emigrazione della Provincia di Trento e alla Trentini nel Mondo, che hanno organizzato a Presidente Ge-tulio, cittadina di 13 mila abitanti dove vivono molti discen-denti di trentini, un Soggiorno formativo per giovani brasilia-ni di origine trentina. Obiettivo del Soggiorno era quello di formare animatori di comunità, in vista di un’assunzione di responsabilità dei più giovani nei Circoli Trentini attivi nelle varie realtà del Brasile, circoli che mantengono vivi i legami con la madrepatria.Il primo impatto con una realtà così diversa dalla nostra, la vista di insegne che potrebbero essere quelle di un qualsiasi comune trentino, con cognomi come Fronza, Lunelli, Nardelli, Orsi, Piffer, Moser … ma inseriti in un contesto completamen-te differente, crea un effetto straniante. Poi parli con le per-sone, le senti usare il tuo stesso dialetto, cantare le stesse canzoni di montagna, avverti il loro orgoglio di essere trentini,

il loro legame forte con le tradizioni dei nostri nonni (la polen-ta è immancabile sulle loro tavole e prepararla e mangiarla è un rito) e non puoi fare a meno di pensare a quell’emigrazio-ne che fra il 1870 e il 1890 svuotò interi paesi trentini, dove la vita era diventata impossibile per le carestie, le alluvioni, le epidemie. Ma certamente il destino che attendeva quelle famiglie al di là dell’Oceano non era migliore, anzi! A sentire i racconti dei vecchi e a leggere i numerosi libri che sono stati

scritti su quell’epopea (da noi, in particolare, i libri di Renzo Maria Grosselli), vengono ancor oggi i brividi. Viaggi in nave di oltre un mese, in condizioni inimmaginabili: molti morivano durante il viaggio e i loro corpi venivano buttati in mare. All’ arrivo, si presentava ai loro occhi un territorio coperto di fore-ste inestricabili da bonificare con la sola forza delle braccia. Non c’erano strade né case: ci si riparava in capanne e si accendevano fuochi contro le belve. L’acqua non era quella limpida dei torrenti di montagna e gli insetti, i serpenti, le piante sconosciute costituivano altrettanti pericoli mortali. Gli indigeni che abitavano quelle terre non erano certo felici di vedere quegli invasori e i rapporti furono spesso conflit-tuali. Soltanto una tenacia e uno spirito di sacrificio eroici, uniti ad una fede incrollabile, hanno permesso di sopravvive-re in condizioni così disperate. Oggi molti dei discendenti di quei primi coloni sono diplomati o laureati e svolgono attività che permettono loro una vita benestante. Alcuni, soprattutto quelli che lavorano nei campi più isolati, vivono in condizioni più difficili. Tutti però ricordano le loro radici trentine e quan-do dici che vieni dal Trentino si commuovono e si fanno in quattro per ospitarti. La caratteristica più interessante è comunque l’integrazione tra i nostri emigrati e gli emigrati di altri paesi europei, so-

prattutto tedeschi, svizzeri e polacchi. E’ curioso vedere af-fiancate case di stile nordico e case che ricordano il Trentino. In passato ognuna di queste culture si teneva ben separata: oggi convivono tranquillamente e si sono mescolate. E pro-babilmente questo è il segreto della prosperità di queste co-munità e del clima di dinamismo che si respira in quei paesi, dove nel settembre scorso un’alluvione ha fatto dichiarare lo stato di calamità, ma dove oggi a malapena si vedono i segni.

di Fulvio Gardumi

Florianopolis Architettura ‘tedesca’ in Brasile Santuario di Santa Paolina a Nova Trento

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14Società

SOCIEtà

San Martino a trento,un quartiere "a colori"Piccola indagine "sul campo" fra i commercianti "stranieri", che con le loro attività si guadagnano da vivere, contribuiscono alla vita economica del rione e ragionano come i loro colleghi "autoctoni"

“Un ambiente istituzionale, economico e culturale in cui il lavoro autonomo ha una radicata tradizione”, tanto da es-sere considerato il “principale canale di mobilità sociale”, ovvero di considerazione sociale dell'individuo. è questa la fotografia tratteggiata dal sociologo Maurizio Ambrosini nel parlare di una parte del mercato italiano nell'annuale Rap-porto 2010 sull'Immigrazione in Trentino. Gli anni '80 sono il periodo in cui in Italia il mercato inizia a colorarsi di diversità in termini non solo di merci ma soprat-tutto di nazionalità degli imprenditori presenti. Riuscire a tro-vare un denominatore comune a spiegazione dell'interesse da parte di cittadini stranieri per il lavoro autonomo è tanto complesso quanto riduttivo: le ragioni economiche, culturali o sociali che stanno alla base dell'avvio di una attività im-prenditoriale non sono le medesime per tutto il gruppo degli stranieri, comprendente non soltanto un alto numero di indi-vidui ma soprattutto di nazionalità. Basti infatti pensare che, nel 2011, su 110 diverse nazionalità presenti nella Provincia di Trento 87 hanno uno o più titolari di attività imprenditoria-li, per un totale di oltre 2.000 spalmate su tutto il territorio provinciale.Alla luce di questo dato (...e della scadenza da rispettare per la consegna di questo articolo), mi è chiaro che un'analisi qualitativa del fenomeno in toto è fuori da ogni discussione. Tanto meno intendo “stordire” il lettore con percentuali e cifre, anche se per avere un'indicazione delle dinamiche in corso, rimane indubbio l’aiuto che ho tratto sia dal Rapporto Annuale sull'Immigrazione in Trentino così come dai dati gen-tilmente forniti dal Servizio Studi e Ricerche della Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Trento.Non mi rimane che chiudere i libri e andare a fare quattro passi per entrare in contatto con una parte (minima) di una realtà altamente sfaccettata che attraverso i soli dati statisti-ci risulta difficilmente comprensibile. Il rione di S. Martino a Trento, a due passi dal centro storico,

ma ancora escluso dalla maggior parte degli eventi di promo-zione turistico-commerciale, offre una serie di caratteristiche per un’adeguata indagine sul campo. La densità, così come la varietà delle attività commerciali, ne fanno una zona che si presenta pulsante, con un percettibile interesse a rivalutarsi e farsi rivalutare; un compito questo che, forse non del tutto ingenuamente, è stato scaricato sulle spalle dell’imprendito-ria straniera. Parto dal caffè Bookique e lì, parlando della festa di S. Mar-tino - Il fiume che non c'è - vengo indirizzato alla cooperativa sociale Delfino che si occupa, tra le varie attività, dell'organiz-zazione della festa. Mi viene raccontato dell'abbandono che il rione ha vissuto, ma anche della voglia crescente, sentita da chi il rione lo vive e da chi lo fa vivere, di rivalorizzare la zona. Andiamo a conoscere questi attori. Assieme al caro amico Massimo - autore delle foto che corre-dano questo articolo - decidiamo di rompere il ghiaccio con un negozio di sartoria. Il proprietario si chiama Kamal (35 anni) ed è nato in Bangladesh. Lì ha studiato matematica, proprio per non dovere fare il sarto, lavoro che poi si è trovato a dovere imparare a Napoli, sua città di arrivo in Italia. La situazione di Kamal mette subito in luce alcuni aspetti spino-si che vengono considerati spinte verso il lavoro autonomo: una certa riluttanza, tutta italiana, nel riconoscere compe-tenze professionali conferite all'estero, congiuntamente alla diminuzione dell'offerta imprenditoriale, inducono ad avviare attività in settori di mercato per le quali esiste disinteresse da parte degli autoctoni, poiché considerate poco gratificanti. Il primo passo è fatto; breve consultazione con Massimo per decidere la prossima tappa: un negozio di barbiere gestito da un signore pakistano. L'uomo, sulla cinquantina, non parla molto bene l'italiano e viene così aiutato da alcuni ragazzi, presumo clienti connazionali, che si trovano nel locale. Il suo arrivo in Italia, prima a Bolzano poi a Trento, è legato ad una

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15Società

rete di conoscenze le quali hanno garantito probabilmente un primo appoggio economico ed informativo per l'apertura della attività. Diversamente da Kamal, lui svolgeva la profes-sione del barbiere già in Pakistan; lì si è formato e con orgo-glio mi mostra il suo diploma professionale.La chiacchierata mi rimanda ad un'analisi proposta dallo studio sulle discriminazioni degli immigrati nel mondo del lavoro trentino (a cura di MIGRA) in cui si rileva come “i mec-canismi informali di ingresso in Italia […] hanno spesso reso possibile l'arrivo di una manodopera fortemente sguarni-ta di competenze linguistiche e comunicative […] tributaria dell'inserimento in nicchie fortemente et-nicizzate del lavoro e di una condizione di complessivo isolamento sociale”. Un'ana-lisi che troverà poi una conferma, quando altri commercianti contattati per questa "indagine sul campo" hanno gentilmente risposto in maniera negativa alla richiesta di essere intervistati.Proseguiamo la nostra passeggiata sino a giungere all'ingresso di un alimentari/ma-celleria con servizio di telefonia ed inter-net annesso. Il mio interlocutore si chiama Azaz (20 anni) e viene dal Pakistan. Il suo sorriso sornione mi fa capire che la con-versazione non si dovrà dilungare troppo. Parlando di Trento, esce una prima critica, più da commer-ciante che da immigrato, relativamente all'obbligo di dove-re chiudere troppo presto il negozio. A differenza degli altri intervistati, Azaz, vista la merceologia che commercializza, punta sul valorizzare la sua origine etnica attraverso l'attivi-tà che gestisce, proponendo prodotti esotici che hanno visto negli ultimi anni un aumento di considerazione da parte degli autoctoni. Giungiamo infine al termine di via S. Martino ed entriamo nella libreria Rileggo dove troviamo Cristina, la proprietaria. I discorsi spaziano, ma tra tutti cerco di concentrare l'attenzio-ne sul suo (ex)dirimpettaio, un negoziante che nel corso degli anni ha cercato di rimanere a galla, attraverso varie proposte commerciali (prodotti alimentari, servizio di telefonia ed in-

ternet, kebab). L'ex proprietario, tunisino, ha visto nel nego-zio un ottimo vettore per l'integrazione sociale, aprendosi ai suoi vicini, chiedendo ad esempio consigli per come potere allargare la sua clientela. In questo sfortunato caso il rischio del mettersi in proprio ha mostrato il suo lato più crudo: il fallimento. Prima di chiudere con le interviste, Cristina ci con-siglia di andare a fare due chiacchiere con Lofti (44 anni), il proprietario del Kebab Jasmine. Lofti, anche lui tunisino, è in Italia da molto tempo e il suo attuale lavoro l'ha imparato, alle dipendenze, in una gastro-nomia nei pressi di Latina (Lazio). Successivamente e ca-

sualmente si è poi spostato a Trento dove ha deciso di mettersi in proprio. Soddisfatto del suo rapporto con i suoi clienti-vicini-commercianti, non lo è invece affatto della condizione di visibile abbandono in cui giacciono alcuni edifici nel rione. L’ubicazione del quartiere, solo apparentemente periferica, toglie attenzioni da parte delle istituzioni rendendo così ancora più difficile la sopravvivenza delle at-tività commerciali. Come Azaz, il suo essere commerciante lo porta a di-chiararsi scontento dei limiti imposti sugli orari di chiusura: per lui gli affari

andrebbero molto bene anche la sera, la notte, quando la gente esce dai locali. Ci racconta infine le difficoltà di alcu-ni suoi colleghi, che oltre la crisi devono gestire non facili locatori. Per lui l'attività è stata certamente veicolo di pro-mozione sociale, conquistata grazie anche ad una sempre maggiore conoscenza della lingua e alla partecipazione ad iniziative di carattere locale e indubbiamente favorita dal suo carattere.Concludendo questa piccola "indagine sul campo", non mi resta che dire che negli esercizi di S. Martino prima che stranieri ho incontrato stranamente comuni commercianti, con comuni preoccupazioni e desideri. Ognuno con le pro-prie storie, di cui ho potuto avere solo un breve assaggio. E ora a me è venuto appetito... spero anche a voi!!

sociologo

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Il cinema racconta la realtà politica e sociale

Migrando in una stanza

Cinema

CINEMA

Nel 2010, durante la 63a edizione del Festival di Cannes, una sedia perenne-mente vuota spiccava fra i ranghi della giuria. Era la sedia riservata al regista iraniano Jafar Panahi, autore di film in-signiti dei massimi riconoscimenti alle mostre di Cannes, Locarno, Berlino e Venezia (“Il palloncino bianco”, 1995; “Lo specchio”, 1997; “Il cerchio”, 2000; “Oro rosso”, 2003; “Offside”, 2006).

Panahi era assente dalla Croisette perché posto agli arresti nel marzo del 2010, insieme al collega Mohammad Rasoulof, con l’accusa di avere par-tecipato alle manifestazioni del Movi-mento Verde contro i brogli elettorali che assicurarono nel 2009 la presi-denza dell’Iran a Mahmoud Ahmadi-nejad. Oltre a ciò, Panahi è stato giu-dicato colpevole del crimine di avere progettato un documentario sulle pro-teste: un’intenzione, quest’ultima, che a parere dei suoi giudici costituisce di per sé un attentato alla sicurezza na-zionale.

Il tribunale ha condannato in primo grado il regista a sei anni di detenzio-ne, facendogli anche divieto di conce-dere interviste e di realizzare film per i prossimi vent’anni: una proibizione che Panahi ha già infranto nel 2011 trasmettendo clandestinamente a Cannes, su una chiavetta USB, la sua ultima opera, che sarà inserita fra i capi d’accusa del processo di appello e contribuirà prevedibilmente alla con-ferma se non all’aggravamento delle pene già sentenziate.Jafar Panahi aveva già esibito la pro-pria insofferenza verso le restrizioni della libertà personale allorquando, in transito negli USA, s’era rifiutato di sottoporsi al rilevamento delle impron-te digitali, richiesto a lui come agli altri migranti meno illustri provenienti da paesi sospettati di alimentare il terro-rismo. Il suo messaggio in una chiavet-ta, che strizza amaramente l’occhio a Magritte col titolo “Questo non è un film”, mostra il regista offside nel pro-prio appartamento, mentre si aggira in uno spazio altrettanto angusto di

Jafar Panahi

di Giulio Bazzanella

quello destinato ai lavoratori clande-stini nei Centri di identificazione e di espulsione.

Confidandosi all’amico documentari-sta Mojtaba Mirtahmasb, fra reticen-ze e allusioni dovute alla presenza di microspie, Panahi nutre l’iguana do-mestica, discute con l’avvocato, innaf-fia i fiori, senza smettere d’inseguire il fantasma d’un film che non sarà mai realizzato, ma che viene evocato sul display di un cellulare, nei pochi siti non oscurati della rete o tracciando sul pavimento, come il Thornton Wil-der di “Piccola città” o il Lars Von Trier di “Dogville”, il perimetro di scenogra-fie immaginarie. Tecnologia elettroni-ca, bric-à-brac delle avanguardie sto-riche, flagranza corporea: un secolo di utopie estetiche e politiche sembra implodere nel modesto appartamen-to di Panahi, lasciando dietro a sé un confuso sentimento d’impotenza. Quello stesso suscitato dalla reazione del regime sciita alle petizioni interne e internazionali a favore di Rasoulof

Una scena dal film “Io sono“

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una vita dolce per tutti

L’halva è una pasta densa, dolcissima (questo infatti significa l’originario nome arabo), diffusa dal Marocco ai Balcani arriva fino in Pakistan e in India, realizzata con ingredienti diversi addolciti con zucchero o miele. C’è l’halva di semolino e quella di sesamo, in Ucraina la fanno con i semi di girasole, friabile che si scioglie in bocca, quella indiana è una versione con le carote, si può farla anche con la zucca. Poi ognuno ha inventato altri modi per aromatizzarla e arricchirla, con pistacchi, mandorle, uvetta, anacardi, vaniglia, acqua di rose, succo di arancia, cioccolato o cardamomo...

I nomi italiani dei colori, lo sappiamo, derivano da altre lin-gue: alcuni come sempre dal latino, nero rosso giallo verde, altri dal germanico, bianco bruno, a volte attraverso il fran-cese, grigio blu. Quello a cui non si pensa è che il nome na-sce in relazione all’oggetto, per cui alcuni colori i cui nomi ci arrivano da lontane tradizioni persiane o indiane attraverso

Arance e lapislazzulila miniera della lingua

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Fusioni

gli arabi, noi li abbiamo riconosciuti quando abbiamo visto l’oggetto. Dopo che abbiamo tenuto in mano i lapislazzuli abbiamo compreso più chiaramente la sfumatura di colore che ora chiamiamo azzurro, quello che prima era assimilato ad un generico rosso si è definito come arancione dopo che abbiamo visto il frutto arrivato dalla lontana Cina..

e Panahi, che hanno provocato una nuova ondata di arresti fra gli autori di documentari (Mohsen Shanazdar e lo stesso Mirtahmasb), i produttori (come la coraggiosa Katayoune Sha-habi) e i registi (Nasser Saffarian, Hadi Afarideh, Shahnam Bazdar, Mehrdad Zahedian).

“This is not a film” è stato proiettato alla Mostra del Cinema di Venezia il 9 settembre 2011, in occasione della Giornata della libertà per il cinema e per i diritti umani. Nella stessa data è stato presentato, nella sezione “Con-trocampo”, il documentario sull’emi-grazione di Barbara Cupisti intitolato “Io sono:storie di schiavitù”, con il patrocinio di Amnesty International e dell’Associazione Articolo 21.

Gli organizzatori hanno così voluto sottolineare l’analogia fra gli impedi-menti opposti alla circolazione delle idee e quelli che ostacolano la libertà di movimento dei migranti, costretti a subire la tratta gestita dalle organiz-zazioni criminali che hanno nel traffi-co d’esseri umani la terza fra le loro principali fonti di reddito, subito dopo il commercio delle armi e quello della droga.

L’opera della Cupisti, prodotta da Am-nesty, Faro Film e Rai Cinema, racco-glie le testimonianze dei migranti fra Palmi, Napoli e Crotone, ma avrebbe dovuto essere girata, secondo il pro-getto originale, all’interno dei Centri di accoglienza, preclusi ai giornalisti da una disposizione ministeriale di

Maroni. Proprio contro la sistematica negazione dei diritti umani nei C.I.E., i registi e gli attori partecipanti alla 68a Mostra di Venezia hanno sottoscritto un appello richiedente la revoca del provvedimento che prolunga fino a otto mesi l’obbligo di permanenza nei Centri, invocando contestualmente l’a-bolizione del reato di clandestinità e la concessione della cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia (“ius soli”). Il tema dell’immigrazione, clandestina o legale, è stato d’altronde predomi-nante nelle produzioni italiane presen-tate a Venezia.

A cura di fORMAt/Centro audiovisivi della Provincia

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18Storia

I testimoni raccontano dell’industrializ-zazione in Trentino e l’inizio del lavoro in fabbriche come la Michelin e la Ignis-IRET, poi Whirlpool. Parlano di episodi di emi-grazione come quelli verso i paesi del sud America prevalentemente nel secondo dopo guerra. Ricordano gli sfollamenti, i bombardamenti, i conflitti. Temi che emergono anche dalle letture di brani dell’Archivio della Scrittura popolare della Fondazione Museo storico del Trentino. Ma c’è anche il tempo libero – le gite, le escursioni, lo sport, le feste – registrati “in diretta” e restituiti dai filmati super 8. E ci sono gli eventi storici, come la firma dell’accordo nel 1946 tra Alcide De Ga-speri e Karl Gruber – testimoniati dalle fotografie.

Emigrazione, guerra, lavoro, tempo libe-ro. Sono alcuni dei tratti di una società in evoluzione affrontati nella program-mazione di History Lab, un canale che ha iniziato a trasmettere il 17 ottobre

2011 sul 602 del digitale terrestre. Nato come progetto di riflessione sui temi della storia e della memoria e so-prattutto sulla loro divulgazione, History Lab ha esordito in televisione con una programmazione sperimentale. Il nu-cleo di questo esperimento sono delle sequenze composte da contenuti au-diovisivi e fotografici, nati dalla rielabo-razione di materiali d’archivio della Fon-dazione Museo storico del Trentino. A brevi aneddoti del quotidiano, si affian-cano le interviste ai testimoni, i viaggi nei fondi fotografici, i super 8, le letture.Il tutto forma una narrazione a più voci e composita. Un racconto che mescola e fa suoi gli stili del parlato, del video e del web.

Su questo tappeto sonoro e visivo sono state innestate altre produzioni. I do-cumentari, le interviste a professori e ricercatori che hanno sintetizzato con-vegni e seminari, i Lab. Questi ultimi sono approfondimenti live e colloquiali di realtà che in Trentino, in vari modi, si occupano di storia e memo-ria. Sono viaggi nel “dietro le quinte” dei progetti, di ciò che normalmente i frui-tori di servizi e iniziative vedono. Sono composti da chiacchierate con volontari e responsabili, video autoprodotti dalle associazioni, considerazioni e appelli alla partecipazione e al coinvolgimento. Per la realizzazione di questa piccola produzione hanno già collaborato Il Gio-co degli Specchi, Terra del Fuoco, Fon-dazione Stava 1985, A.R.C.I Mori, un gruppo di ricerca sull’alimentazione in Primiero. Altri ne verranno.

canale

602digitale terrestreSe il televisore non segnala la presenza sul canale 602 di HISTORY LAB, è sufficiente avviare una nuova sintonizzazione automatica (alcuni apparecchi potrebbero riceverlo su un altro canale).

Quali le prospettive per il futuro? L’o-biettivo è quello di ampliare questa rete di storie e memorie, offrendo altri programmi e un palinsesto più ricco. Sono in corso di realizzazione nuove produzioni che indagano diverse fonti storiche – come il teatro e la cucina – e programmi proposti e realizzati all’e-sterno della Fondazione Museo storico del Trentino. Uno degli obiettivi di Histo-ry Lab è proprio quello di essere una re-altà aperta e disponibile ad accogliere idee e contenuti.

Anche per questo motivo, è stato indet-to un concorso che utilizza la formula del 3 x 3. Verranno premiati e trasmessi i migliori filmati, di durata massima di tre minuti e realizzati in tre giorni, che ri-sponderanno ad alcune caratteristiche. In particolate dovranno far riferimento ad un tema di carattere storico e conte-nere un elemento a sorpresa comunica-to all’ultimo.

Maggiori informazioni sul sito www.museostorico.it

una narrazione dedicata alla storia e alla memoria che mescola stili e linguaggi

StORIA

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Gonars, provincia di Udine: qui è allestito un campo di concentramento per civili, uno dei tanti dislocati in tutta Italia durante la seconda guerra mondiale. Vi vengono deportati uomini, donne e bambini sloveni, in base ad un’idea di pulizia etnica del governo italiano fascista. Il disegno di davide Toffolo entra nel campo con gli occhi ed i sentimenti di due bambini.

dal graphic novel “L’inverno d’Italia” di davide Toffolo - edizioni Coconino Press, per gentile concessione dell’autore