dipartimento di fisica e astronomia...nel presente lavoro di tesi, focalizzeremo la nostra...

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA DIPARTIMENTO DI FISICA E ASTRONOMIA Corso di Laurea Triennale in Fisica Maria Costa SCINTILLATORE PLASTICO EJ 299-33: PRIMI TEST DI UN CORRELATORE PER NEUTRONI TESI DI LAUREA RELATORE: Chiar.ma Prof.ssa Francesca Rizzo CORRELATORE: Dott. Emanuele V. Pagano ANNO ACCADEMICO 2017/2018

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  • UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA DIPARTIMENTO DI FISICA E ASTRONOMIA

    Corso di Laurea Triennale in Fisica

    Maria Costa

    SCINTILLATORE PLASTICO EJ 299-33: PRIMI TEST DI UN

    CORRELATORE PER NEUTRONI

    TESI DI LAUREA

    RELATORE:

    Chiar.ma Prof.ssa Francesca Rizzo

    CORRELATORE:

    Dott. Emanuele V. Pagano

    ANNO ACCADEMICO 2017/2018

  • 2

    Indice Introduzione ................................................................................................................................ 3 Capitolo 1 - Dall’interferometria stellare alla fisica nucleare ............................................. 4

    1.1 Interferometria di ampiezza .................................................................................. 4 1.2 Interferometria di intensità .................................................................................................. 6

    1.3 Correlazioni in fisica nucleare ............................................................................................ 8

    Capitolo 2 - Funzioni di correlazione fra due particelle ..................................................... 12

    2.1 Funzione di correlazione protone – protone ...................................................................... 14

    2.2 Funzioni di correlazione protone-neutrone e neutrone-neutrone: esempi di analisi ......... 21

    Capitolo 3 - Rivelatori a Scintillazione ................................................................................ 25

    3.1 Caratteristiche generali...................................................................................................... 25

    3.2 Scintillatori Organici ......................................................................................................... 27

    3.3 Risposta in luce di uno scintillatore .................................................................................. 30

    3.4 Rivelazione di neutroni veloci .......................................................................................... 33

    Capitolo 4 - Caratterizzazione dello scintillatore plastico EJ 276 (ex 299-33) con sorgenti radioattive e fasci ionici ............................................................................................ 37

    4.1 Test con sorgenti radioattive ............................................................................................. 38

    4.2 Test con fasci ionici .......................................................................................................... 46

    Conclusione ............................................................................................................................... 52

    Bibliografia ................................................................................................................................ 53

  • 3

    Introduzione

    La rivelazione simultanea dei neutroni insieme alle particelle cariche nel medesimo

    setup sperimentale, gioca un ruolo fondamentale nel campo della fisica nucleare,

    tuttavia la sua realizzazione presenta non poche difficoltà sperimentali. I neutroni,

    infatti, essendo particelle prive di carica, non subiscono l’interazione Coulombiana,

    pertanto l’unica possibilità che un neutrone rilasci energia attraversando un dato

    materiale si ha tramite interazione nucleare, attraverso sezioni d’urto dell’ordine del

    centinaio di mbarn (per neutroni veloci).

    Nel presente lavoro di tesi, focalizzeremo la nostra attenzione su due test effettuati sullo

    scintillatore plastico EJ 299-33, oggi noto come EJ 276, per studiarne le proprietà di

    discriminazione e di rivelazione di neutroni e particelle cariche, al fine di poter costruire

    in futuro un prototipo di correlatore (rivelatore ad alta risoluzione angolare ed

    energetica) per neutroni e particelle cariche, in modo da studiare correlazioni particella-

    particella che coinvolgono i neutroni.

    Nel capitolo 1 introdurremo i principi che stanno alla base dell’interferometria

    d’intensità, dalle sue originali applicazioni in astronomia alle successive applicazioni in

    fisica nucleare.

    Nel capitolo 2 tratteremo lo studio delle correlazioni tra due particelle, in particolare

    protone-protone e neutrone-neutrone, fondamentali per estrarre informazioni sulle

    caratteristiche spazio-temporali delle sorgenti di emissione.

    Nel capitolo 3 descriveremo le caratteristiche principali dei rivelatori a scintillazione, in

    particolare quelli organici, per poi porre l’attenzione sul metodo di rivelazione dei

    neutroni veloci in particolare con la tecnica del protone di rinculo (proton recoil

    technique).

    Infine nel capitolo 4 illustreremo due studi riguardanti l’utilizzo dello scintillatore EJ

    276, allo scopo di esaminarne le prestazioni in condizioni di basso e alto background

    per la rivelazione di neutroni e particelle cariche.

  • 4

    Capitolo 1 - Dall’interferometria stellare alla fisica nucleare

    1.1 Interferometria di ampiezza

    Nel 1801 il fisico inglese Thomas Young, scienziato dai vasti interessi culturali, fornì

    per la prima volta l’evidenza sperimentale della natura ondulatoria della luce. Il

    principio fisico del famoso esperimento fu chiamato interferometria di ampiezza.

    Dall’esperimento di Young sino ai giorni nostri si sono susseguite varie evoluzioni

    dell’interferometria, fino alla più recente interferometria di intensità, che sono state

    utilizzate per investigare differenti sistemi fisici: dalle misure di dimensioni stellari sino

    a quelle di sistemi nucleari e sub-nucleari (“fotografie” spazio-temporali delle sorgenti

    di emissione delle particelle).

    Nel caso dell’interferometria di ampiezza (Fig.1) un’onda monocromatica è emessa da

    una sorgente supposta puntiforme e fatta passare attraverso due fenditure S1 e S2. S1 e

    S2 diventano quindi sorgenti di due onde coerenti.

    Fig. 1.1 – Schema dell’esperimento di Interferometria di ampiezza a due fenditure di Young

    A distanza D dalle sorgenti S1 e S2 (vedi Fig. 1.1) è posto uno schermo sensibile alla

    radiazione incidente e sia dato, su di esso, un punto R. Nella discussione seguente

    supporremo l’approssimazione (condizioni ideali) che la distanza D dalle fenditure sia

  • 5

    grande rispetto alla distanza d tra le fenditure: D/d >>1. L’ampiezza del campo elettrico

    nel punto R è data dalla somma delle ampiezze riguardanti i due cammini S1-R e S2-R,

    in accordo alle leggi dell’ottica ondulatoria. Nell’esperimento di Young con onde

    monocromatiche e coerenti (la coerenza è determinata dalle due fenditure che insistono

    sullo stesso fronte d’onda), si osserva che il fascio di luce, una volta passato attraverso

    le due fenditure, produce sullo schermo una serie di frange luminose alternate a frange

    scure. Le frange luminose corrispondono ai massimi di intensità e si osservano nei punti

    sullo schermo in cui le ampiezze delle onde si sommano con interferenza costruttiva.

    Tenendo aperta solo la fenditura S1 si rivela nel punto R un’intensità media I1 (data dal

    modulo quadro dell’ampiezza in quel punto x, mediata su un opportuno tempo di misura

    D : 𝐼𝐼 ̅ = 1∆ ∫ 𝐴𝐴

    2(𝑡𝑡, 𝑥𝑥)𝑡𝑡+∆2𝑡𝑡−∆2

    𝑑𝑑𝑡𝑡), allo stesso modo aprendo solo la fenditura S2 si avrebbe I2.

    L’esperimento ideale mostrerebbe che con entrambe le due fenditure aperte ciò che

    viene registrato sullo schermo è una intensità risultante I12 ≠ I1 + I2, questo per la

    presenza del fenomeno di interferenza, caratteristico della natura ondulatoria della luce.

    L’interferenza costruttiva si riscontra quando i cammini ottici, S1R e S2R, differiscono

    di una quantità δ = dsinϴ equivalente ad un numero intero di lunghezze d’onda, vale a

    dire dsinϴ = mλ (m = 0, ±1, ±2,...). Invece è presente interferenza distruttiva quando i

    cammini differiscono di una quantità dsinϴ = (m + ½) λ (m = 0, ±1, ±2,...) e ciò che si

    osserva è la presenza di frange scure (assenza di segnale) sullo schermo e quindi di

    minimi di intensità (in un esperimento reale di laboratorio il contrasto netto tra zone

    illuminate e zone scure potrebbe essere attenuato dalla possibile presenza di un fondo

    luminoso determinato dalla diffusione non coerente della luce). Dunque, utilizzando una

    lunghezza d’onda nota λ, misurando la distribuzione di intensità I(x) dei massimi e dei

    minimi di interferenza, si può ricavare la distanza d tra le due fenditure. Le condizioni

    per il quale si osserva la figura di interferenza sullo schermo sono dovute alla coerenza

    fra le onde emesse da S1 e S2 ed inoltre alla relazione di fase tra i cammini S1-R e S2-R.

    La tecnica sopra esposta si basa sulla misura di intensità (intesa come modulo al

    quadrato di un’ampiezza) di un’onda elettromagnetica (nel visibile, nel caso illustrato) e

    permette di misurare la distanza dalle fenditure se nota la lunghezza d’onda.

    Conseguentemente tale tecnica può essere detta di interferometria di Ampiezza, benché

    si esegua attraverso misure di intensità luminosa. Tuttavia, quanto detto è valido sia per

  • 6

    onde che per particelle, infatti i comportamenti ondulatori delle particelle, previste dalla

    meccanica quantistica, erano già noti dal 1927

    attraverso esperimenti di diffrazione di elettroni condotti da Davisson e Germer, mentre

    veri e proprio esperimenti di interferenza di elettroni prima, e neutroni dopo, furono

    condotti a partire dagli anni ’60. In campo astronomico, la tecnica dell’interferometria

    di Ampiezza fu utilizzata da Michelson, con il suo interferometro, per misurare taglie

    angolari di stelle. La prima dimensione ad essere misurata, proprio da Michelson e F. G.

    Pease, fu Betelgeuse della costellazione di Orione nel 1921 [Swe87]. Altri, sempre

    nell’astronomia di Ampiezza, utilizzarono il suo interferometro per misurare la distanza

    fra due stelle (in sistemi di stelle doppie). Michelson, utilizzò l’interferometro da 100”

    (2.54 m) posto sul Mount Wilson (a nord est di Los Angeles). Note quindi λ la

    lunghezza d’onda, b la linea di base cioè la distanza fra le fenditure (lenti nel caso di

    Michelson) Michelson e collaboratori ricavarono il diametro angolare della stella dalla

    relazione: 𝛼𝛼 = 1.22 𝜆𝜆𝑏𝑏. Al fine di misurare diametri angolari di stelle più “piccole” delle

    giganti rosse come Betelgeuse, si presentò quindi la necessità di poter avere una linea di

    base b molto grande il che comportava la costruzione di interferometri sempre più

    grandi con linee di base che teoricamente sarebbero dovuti arrivare anche alla

    dimensione di diversi km. In generale, diminuendo la lunghezza d’onda è possibile

    mantenere ragionevolmente piccola la linea di base nell’ordine della decina di metri.

    Tuttavia, l’interferometro di Michealson era uno strumento ottico per cui la più piccola

    lunghezza d’onda risultava comunque essere nello spettro del visibile (λ =575 nm),

    questo problema contribuì alla fine dell’interferometria di ampiezza in astronomia

    intorno agli anni’30 del secolo scorso.

    1.2 Interferometria di intensità

    Basandosi sull’interferometria di Ampiezza attraverso un interferometro classico alla

    Michelson, le misure necessitavano che la luce che entrava nello strumento potesse

    mantenersi coerente almeno per qualche secondo. Tuttavia, l’interazione tra la luce

    proveniente delle stelle e l’atmosfera era causa di perdita di coerenza a causa degli

    effetti distruttivi della diffusione, inoltre tale problema si accentuava in particolari

  • 7

    condizioni climatiche. Sperimentalmente si riuscì a stabilizzare la luce e far funzionare

    l’interferometro sino ad un raggio di circa 6 m. Michelson e collaboratori costruirono un

    interferometro con una linea di base di circa 15 m che però non riuscirono mai a fare

    funzionare. Quella, intorno al 1930, fu il declino dell’interferometria classica applicata a

    misure stellari. Dopo la seconda guerra mondiale, intorno agli anni ’50, Hanbury-Brown

    e Twiss proposero un nuovo tipo di interferometro che utilizzava un principio piuttosto

    diverso [HBT54, HBT56a, HBT56b]. Anziché misurare l’intensità legata all’ampiezza

    delle onde, i due scienziati considerano le proprietà corpuscolari della luce: nasceva così

    l’interferometria di intensità che si basava sui flussi di fotoni associati all’onda

    incidente. Data una sorgente di emissione e due rivelatori R1 e R2 (Fig. 1.2) si misura la

    probabilità di rivelare fotoni in singola nel rivelatore 1 o nel rivelatore 2 e fotoni in

    coincidenza nei medesimi rivelatori, supponendo che l’emissione avvenga a partire da

    due punti A e B distribuiti sulla superficie di un oggetto in lontananza esteso. Tale

    tecnica fu chiamata “interferometria di intensità” e indicata anche con il nome di effetto

    o tecnica HBT, in onore ad Hanbury-Brown e Twiss, che la proposero.

    Una importante differenza fra l’interferometria di ampiezza e quella di intensità

    riguarda la condizione di coerenza sulla fase dei fronti d’onda che nel secondo caso non

    è richiesta come condizione essenziale. Invece, assume un ruolo fondamentale

    l’intervallo del tempo di coincidenza misurato tra due rivelatori che va necessariamente

    registrato.

    Fig. 1.2 –Rappresentazione schematica del principio dell’interferometria di intensità

    Siano R1 e R2 due rivelatori, P12 la probabilità di rivelare in coincidenza due particelle,

    P1 e P2 le probabilità di rivelarle singolarmente nel primo rivelatore o nel secondo.

  • 8

    È più esatto indicarle come medie temporali < P1>, < P2> e < P12> dal momento che le

    rese di singole particelle e di coincidenze esprimono la media di una misura in un tempo

    ben preciso, durante il quale sono effettuate le medesime misure.

    Definiamo dunque la funzione di correlazione:

    𝐶𝐶(𝛳𝛳) = 1 + 𝑅𝑅(𝛳𝛳) =

    (1.1)

    Come è noto dalla teoria della probabilità, se gli eventi di rivelazioni delle due particelle

    da parte dei rivelatori R1 e R2 fossero eventi non correlati fra loro (stocasticamente

    indipendenti), avremmo che la probabilità P12 di rivelare in coincidenza le due particelle

    sarebbe data dal prodotto delle singole probabilità, di conseguenza il rapporto nella

    relazione (1.1) risulterebbe pari all’unità, quindi R=0. Tuttavia se nella relazione (1.1) si

    osservassero deviazioni dalla unità i due eventi non potrebbero essere considerati

    statisticamente indipendenti. Si definisce correlazione (o correlazione positiva) tra gli

    eventi di rivelazione delle particelle in R1 e R2 se C > 1 (cioè R >0). Al contrario, si avrà

    anti-correlazione (o correlazione negativa) tra gli eventi di rivelazione se C < 1 (cioè R

    < 0). Come già detto, tale tecnica non è soggetta a sfasamenti indotti dai disturbi

    atmosferici e può essere adoperata a grandi distante tra i rivelatori posti sulla superficie

    terrestre, e quindi per misurare taglie angolari di stelle molto piccole. Hanbury-Brown e

    Twiss, utilizzando il loro tipo di interferometro nel 1959 misurarono la maglia angolare

    della stella Sirio e gettarono le basi per le osservazioni delle temperature stellari.

    Dunque, il nome di interferometria di intensità nasce dalla considerazione che si

    misurano conteggi o intensità, a differenza della tecnica usata nell’esperimento di

    Young.

    1.3 Correlazioni in fisica nucleare

    L’interferometria di intensità anni dopo, oltre alle applicazioni astronomiche, trova

    applicazione anche nella fisica nucleare. La prima applicazione fu lo studio di

    correlazioni angolari di pioni emessi nella reazione di annichilazione antiprotone –

    protone ad un’energia di 1 GeV [Gol59, Gol60].

  • 9

    La prima evidenza sperimentale dell’effetto HBT è dovuta a Goldhaber, Goldhaber, Lee

    e Pais (GGLP) nel 1959. Essi, sfruttando lo studio delle distribuzioni angolari di pioni

    prodotti durante la reazione �̅�𝑝-p, trovarono che la probabilità di emissione di pioni

    identici in coincidenza era fortemente condizionata dalla loro natura bosonica, la quale

    provocava un aumento della funzione di correlazione per valori tendenti ad impulso

    relativo nullo, 𝑞𝑞 = 12

    (𝑝𝑝1���⃗ − 𝑝𝑝2����⃗ ) = 0 . Questa nuova applicazione della interferometria

    trovò grande apprezzamento nella comunità scientifica e, in seguito, l’effetto osservato

    venne rappresentato in termini di “effetto HBT” e di interferometria di intensità da

    Shuryak [Shu73].

    Il caso delle reazioni nucleari si comprese in poco tempo essere molto diverso dal

    quello dell’astronomia. In questo secondo caso, infatti, la sorgente delle particelle (la

    stella) è un oggetto statico, che non cambia la sua forma (almeno nei tempi caratteristici

    all’osservazione) e in generale nessuna delle loro proprietà durate il tempo di

    osservazione. Mentre, nel caso delle sorgenti nucleari non è così. Le sorgenti nucleari,

    una volta formate a seguito di una collisione nucleare, evolvono cambiando dimensioni,

    densità, ed energia di eccitazione (temperatura) in tempi molto rapidi (dell’ordine delle

    decine di fm/c – 1 fm/c = 10−23 𝑠𝑠 ) rispetto ai tempi di misura che avvengono in

    condizioni asintotiche. Pertanto, le caratteristiche della reazione nei primi istanti della

    collisone verranno modificate successivamente dal decadimento statistico che conduce

    le particelle allo stato fondamentale. La misura di grandezze dinamiche (energie

    cinetiche, angoli di correlazione, impulsi relativi, ecc..) che conservino memoria dei

    primi istanti della collisione, è pertanto di cruciale importanza. Si intuì presto, che la

    forma della funzione di correlazione dipendeva, oltre che dalla dimensione, dalla vita

    media della sorgente di emissione delle particelle (ad esempio dei pioni). Le funzioni di

    correlazione tra particelle prodotte durante le collisioni nucleari sono sensibili

    all’estensione spazio-temporale della sorgente, quindi una situazione molto differente

    da quella riscontrata negli esperimenti di Hanbury Brown e Twiss in astronomia. Le

    sorgenti di emissione in reazioni nucleari evolvono nel tempo su scale temporali molto

    brevi (tipicamente dell’ordine di 10−22𝑠𝑠 − 10−18𝑠𝑠), se vengono confrontate con i tempi

    caratteristici della misurazione della resa di particelle in un rivelatore. A seguito di ciò

    l’interferometria d’intensità, applicata in fisica nucleare, risulta essere molto più

    complessa di quella utilizzata in astronomia che si limitava a studiare taglie di oggetti in

  • 10

    condizioni di staticità. Attualmente le correlazioni tra pioni sono adoperate come

    strumento per esaminare l’estensione spazio-temporale delle sorgenti nucleari, prodotte

    nelle collisioni ad altissima energia. Essi sono di fondamentale importanza nella ricerca

    di plasma formato da quark e gluoni negli esperimenti svolti presso il Relativistic

    Heavy-Ion Collider (RHIC) e il Large Hadron Collider (LHC) [Lis05].

    Intorno agli anni ’70 gli studi di funzioni di correlazione vennero estesi a diversi tipi di

    particelle. Nel 1977 grande importanza ebbe il lavoro di S.E. Koonin che propose

    l’utilizzo di correlazioni protone-protone per studiare le sorgenti di emissione prodotte

    nelle reazioni nucleari alle energie relativistiche [Koo77].

    Le caratteristiche delle funzioni di correlazioni protone-protone sono molto diverse

    rispetto a quelle dei pioni. Essi sono fermioni dunque, nel momento in cui vengono

    emessi ad una distanza r relativamente piccola (qualche fm), devono essere descritti da

    una funzione d’onda anti-simmetrica. L’anti-correlazione, a piccoli valori di impulso

    relativo, osservata sperimentale è anche dovuta alla loro natura fermionica e quindi ad

    interazioni di natura quantistica. Oltre alle interazioni di natura quantistica, le

    interazioni che giocano un ruolo importante nel caso dei protoni sono quella

    Coulombiana anch’essa responsabile dell’anti-correlazione a piccoli valori di impulsi

    relativi e quella nucleare che è responsabile del “bump” di correlazione presente nella

    funzione di correlazione al valore di 20 MeV/c di impulso relativo (Fig 1.3).

    Fig. 1.3 – Esempio di studio di funzione di correlazione p-p.

    I due protoni interagiscono, quindi, attraverso la forza nucleare forte attrattiva, la

    repulsione Coulombiana e l’effetto del principio di esclusione del Pauli, chiamate

  • 11

    interazioni di stato finale (FSI, final state interactions), che dipendono dalla distanza

    relativa tra le due particelle.

    Negli anni ’90 furono molto importanti gli studi di correlazione di particelle molto più

    complesse rispetto ai protoni [Ver06]. La presenza delle FSI (Coulombiana e nucleare)

    ha consentito lo studio dell’estensione spazio-temporale della sorgente di emissione

    radiativa anche per funzioni di correlazione di particelle non identiche, come ad

    esempio il caso deuterio-alfa, protone-alfa o anche nel caso di IMF-IMF (Intermediate

    Mass Fragments, con carica 3

  • 12

    (start), mentre l’istante di arrivo della particella (stop) viene fornito da un segnale

    temporale del rivelatore, opportunamente convertito in segnale logico di chiusura

    (apertura) del circuito elettronico TAC (Timing Amplitude Converter).

    Capitolo 2 - Funzioni di correlazione fra due particelle

    Si considerino due particelle 1 e 2, di impulso 𝑝𝑝1→

    e 𝑝𝑝2→

    e massa 𝑚𝑚1ed 𝑚𝑚2, l’impulso

    totale 𝑃𝑃→

    e quello relativo 𝑞𝑞→

    valgono, rispettivamente: 𝑃𝑃→

    = 𝑝𝑝1→

    + 𝑝𝑝2→

    e 𝑞𝑞→

    = 𝜇𝜇 (𝑝𝑝1→

    𝑚𝑚1− 𝑝𝑝2

    𝑚𝑚2)

    (con μ massa ridotta del sistema). La funzione di correlazione sperimentale integrata in

    angolo (angle-averaged) 1 + 𝑅𝑅(|𝑞𝑞|�����⃗ ) è definita nell’ipotesi in cui 𝑃𝑃�⃗ ≫ |𝑞𝑞|�����⃗ dalla seguente

    relazione:

    𝑌𝑌𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐(|𝑞𝑞|�����⃗ ) = 𝑐𝑐 ⋅ [1 + 𝑅𝑅(|𝑞𝑞|�����⃗ )] ⋅ 𝑌𝑌𝑢𝑢𝑢𝑢𝑐𝑐𝑐𝑐𝑢𝑢(|𝑞𝑞|�����⃗ ) (2.1)

    Il valore di 𝑌𝑌𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐(|𝑞𝑞|�����⃗ ) corrisponde alla resa delle due particelle rivelate in coincidenza

    aventi tutte il medesimo valore di impulso relativo in modulo |𝑞𝑞|�����⃗ infatti essendo

    l’impulso relativo una grandezza vettoriale, si sta scegliendo di integrare tutte le coppie

    che hanno il medesimo impulso relativo indipendentemente sia dalla direzione del

    vettore che dal valore del loro impulso totale 𝑃𝑃�⃗ (𝑃𝑃�⃗ ≫ �⃗�𝑞). Il significato della 2.1 consiste

    nel fatto che l’eventuale segnale di correlazione fisica trasportato dalle coincidenze

    𝑌𝑌𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐(|𝑞𝑞|�����⃗ ) viene trasferito nella funzione di correlazione 1 + 𝑅𝑅(|𝑞𝑞|�����⃗ ) in modo tale che

    per quei valori dell’impulso relativo in cui R=0 si ottenga il massimo di non

    correlazione possibile avendosi 𝑌𝑌𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐(|𝑞𝑞|�����⃗ ) = 𝑐𝑐 ⋅ 𝑌𝑌𝑢𝑢𝑢𝑢𝑐𝑐𝑐𝑐𝑢𝑢(|𝑞𝑞|�����⃗ ) dove c è una mera costante

    di proporzionalità e 𝑌𝑌𝑢𝑢𝑢𝑢𝑐𝑐𝑐𝑐𝑢𝑢(|𝑞𝑞|�����⃗ ) rappresenta la resa di coincidenze delle particelle non

    correlate (sempre aventi il medesimo impulso relativo ed indipendentemente sia dalla

    direzione del vettore che dal valore del loro impulso totale). Gli approcci utilizzati per

    calcolare 𝑌𝑌𝑢𝑢𝑢𝑢𝑐𝑐𝑐𝑐𝑢𝑢(|𝑞𝑞|�����⃗ ) sono o di tipo Monte Carlo o di Mixing che consiste nel mischiare

    particelle da eventi diversi, più avanti nella trattazione se ne farà qualche esempio.

  • 13

    Idealmente 𝑌𝑌𝑢𝑢𝑢𝑢𝑐𝑐𝑐𝑐𝑢𝑢(|𝑞𝑞|�����⃗ ) proviene, ricordando la definizione di indipendenza statistica

    data nel capitolo precedente, dal prodotto delle rese di particella singola 𝑌𝑌(𝑝𝑝1���⃗ ) ⋅ 𝑌𝑌(𝑝𝑝2����⃗ ).

    Tuttavia, sperimentalmente non è sempre così semplice determinare le rese di particella

    in singola e successivamente il loro prodotto, a causa di selezioni delle reazioni in

    termini di parametro d’urto, o necessità di abbattere l’eccessivo rate di conteggio

    (soprattutto a piccoli angoli, introducendo trigger di molteplicità ≥ 2 nel sistema di

    acquisizione) o a causa di efficienza di rivelazione diversa dal 100% che può variare

    anche in funzione dell’impulso stesso della particella, per cui si è preferito costruire la

    funzione di correlazione sperimentale a partire dal 𝑌𝑌𝑢𝑢𝑢𝑢𝑐𝑐𝑐𝑐𝑢𝑢(|𝑞𝑞|�����⃗ ) piuttosto che dal

    𝑌𝑌(𝑝𝑝1���⃗ ) ⋅ 𝑌𝑌(𝑝𝑝2����⃗ ), del resto è stato anche mostrato che sotto ben precise ipotesi le due

    grandezze sono molto simili (a meno di un fattore numerico di proporzionalità) ed

    approssimabili 𝑌𝑌(𝑝𝑝1���⃗ ) ⋅ 𝑌𝑌(𝑝𝑝2����⃗ ) ≈ 𝑌𝑌𝑢𝑢𝑢𝑢𝑐𝑐𝑐𝑐𝑢𝑢(|𝑞𝑞|�����⃗ ) [Lis91]. Per determinare la costante di

    normalizzazione 𝑐𝑐 viene imposta la condizione 𝑅𝑅(�⃗�𝑞) = 0 per valori di impulso nel moto

    relativo sufficientemente grandi da poter assumere che tutte le interazioni di stato finale

    (Coulombiana, Nucleare, quantistiche, ecc) siano trascurabili e quindi la funzione di

    correlazione sia pari all’unità, ad esempio nel caso dei protoni il tipico intervallo di

    normalizzazione è stato trovato sperimentalmente nell’intervallo:𝑞𝑞 ≈ 80 − 120 𝑀𝑀𝑀𝑀𝑀𝑀𝑐𝑐

    .

    C’è però da dire che la funzione di correlazione nella (2.1) è una funzione mono-

    dimensionale cioè è dipendente da un’unica variabile ( |𝑞𝑞|�����⃗ ). Pertanto essa è una

    relazione semplificata. Infatti la funzione di correlazione dipendendo da 𝑝𝑝1���⃗ 𝑒𝑒 𝑝𝑝2����⃗ è una

    funzione a sei-dimensioni. Tuttavia nella tesi non analizzeremo questo caso multi

    dimensionale assai complesso matematicamente e ci limiteremo al caso mono

    dimensionale.

    Una delle applicazioni delle funzioni di correlazione tra particelle, soprattutto nella

    dinamica della fisica nucleare è quello di ottenere delle informazioni spazio-temporali

    delle sorgenti di emissione. Come si vedrà nel successivo paragrafo, tale tecnica può

    però essere affetta da quella che si suole chiamare “ambiguità spazio-temporale”. Per

    affrontarla e provare a risolvere tale ambiguità oltre alle funzioni mediate in angolo

    (angle-averaged) sono state costruite funzioni di correlazione direzionali in cui ben

    precise selezioni vengono date all’angolo relativo tra il vettore 𝑃𝑃�⃗ e il vettore �⃗�𝑞 [Lis94].

    Come già accennato all’inizio del paragrafo al fine di rendere trascurabili tutte le

  • 14

    interazioni diverse da quelle di stato finale (FSI) si procede facendo selezioni anche sul

    vettore 𝑃𝑃�⃗ che in generale deve essere 𝑃𝑃�⃗ ≫ �⃗�𝑞 . Analisi di funzioni di correlazione al

    variare delle condizioni (gate) di impulso totale sono state fatte in passato ed hanno

    mostrato come la forma della funzione di correlazione sia sensibile ad essi. Risulta

    chiaro che in analisi sperimentali di funzioni di correlazione fra particelle in impulso

    relativo diventa estremamente importante misurare quanto meglio possibile i vettori

    impulso 𝑝𝑝1���⃗ 𝑒𝑒 𝑝𝑝2����⃗ il che implica lo sviluppo e l’utilizzo di array di rivelatori con grande

    risoluzione energetica ed angolare. È inoltre importante al fine di ridurre l’errore

    statistico che si siano rivelate un congruo numero di coppie di particelle in coincidenze.

    Infatti avere a disposizione una bassa statistica di coppie di particelle rivelate in

    coincidenza renderà grande la barra di errore della funzione di correlazione molto

    dipendente dalla statistica del numeratore della (2.2).

    2.1 Funzione di correlazione protone – protone

    L’interferometria di intensità è ampiamente utilizzata per lo studio delle correlazioni

    protone–protone. Particelle di questo tipo permettono lo studio delle proprietà spazio-

    temporali di un sistema nucleare eccitato in regimi dinamici diversi e in fasi diverse

    della stessa reazione. I protoni sono particelle cariche, che hanno anche un vantaggio di

    natura strumentale: sono facilmente rivelabili ed identificate con alta risoluzione.

    Tipicamente la (2.1) nel caso di studio di evoluzione dinamica di una reazione nucleare

    attraverso i protoni viene costruita nel seguente modo:

    1 + 𝑅𝑅(|𝑞𝑞|�����⃗ ) = 𝑐𝑐 ⋅ 𝑌𝑌𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐(|𝑞𝑞|�����⃗ )

    𝑌𝑌𝑀𝑀𝑐𝑐𝑀𝑀(|𝑞𝑞|�����⃗ ) (2.2)

    In cui 𝑌𝑌𝑀𝑀𝑀𝑀𝑥𝑥(|𝑞𝑞|�����⃗ ), il denominatore non correlato, viene costruito con la tecnica del event -

    mixing. Tale tecnica consiste nel costruire la medesima variabile del numeratore (e di

    cui è dipendente la funzione di correlazione), il modulo dell’impulso relativo |𝑞𝑞|�����⃗ nel

    nostro esempio, prendendo coppie di particelle (di protoni nel nostro caso) da eventi

    diversi e quindi certamente non correlati in cui la loro emissione risulta per definizione

    statisticamente indipendente l’una dall’altra. Tuttavia è stato osservato che gli eventi

  • 15

    scelti per costruire il denominatore devono appartenere alla medesima classe di quelli

    correlati al numeratore, per fare ciò si procede con selezioni di molteplicità totale delle

    particelle cariche rivelate (si impone la stessa molteplicità sia nelle coppie in

    coincidenza che in quelle del mixing). Si può ulteriormente affinare imponendo

    medesimi piani di reazione o utilizzare altre variabili globali che servono in generale a

    caratterizzare l’evento di reazione e quindi la classe di evento.

    La figura 2.1 presenta un esempio di funzione di correlazione protone-protone misurata

    in reazione di 14N+197Au all’energia E/A = 75 MeV/nucleon.

    Fig. 2.1 – Funzione di correlazione p-p misurata in reazione 14N + 197Au ad E/A = 75 MeV/nucleon.

    In figura 2.1 si osserva come a grandi valori di impulso relativo la funzione di

    correlazione diventa piatta, è infatti questa la tipica regione utilizzata per determinare la

    costante di normalizzazione c presente nella (2.2) in cui si assume 𝑅𝑅(|𝑞𝑞|�����⃗ ) ≈ 0 il che

    implica che le interazioni di stato finale sono trascurabili (l’interazione Coulombiana, la

    nucleare e le interazioni quantistiche dovute alla natura fermionica delle due particelle

    identiche). Sempre osservando la figura 2.1 si nota l’anti correlazione, 𝑅𝑅(|𝑞𝑞|�����⃗ ) < 0, a

    piccoli valori di impulso relativo. Tale anti correlazione è dovuta alla repulsione

    Coulombiana e alla natura fermionica delle due particelle che riducono la probabilità

    che due protoni possano trovarsi molto “vicini” tra loro nel momento della loro

    emissione. Al valore di impulso relativo di 20 MeV/c si osserva un picco nella funzione

    di correlazione il che implica che 𝑅𝑅(|𝑞𝑞|�����⃗ ) > 0. Esso è indotto dall’interazione nucleare

    che, come sappiamo, per certe condizioni è attrattiva. Il valore di impulso relativo di 20

    MeV/c in effetti è quello che risulta nella risoluzione in onde parziali dell’equazione di

  • 16

    Schrödinger per lo scattering protone-protone nella approssimazione della sola

    componente in onda-S (l=0).

    La funzione di correlazione protone-protone è calcolata teoricamente attraverso la

    cosiddetta “equazione di Koonin-Pratt” [Koo77]:

    1 + 𝑅𝑅(𝒒𝒒) = 1 + ∫ 𝑑𝑑𝒓𝒓𝑆𝑆(𝒓𝒓) ∙ 𝐾𝐾(𝒓𝒓,𝒒𝒒) (2.3)

    L’equazione (2.3) è ricavata attraverso una trattazione teorica che esula dagli obiettivi

    cognitivi del presente lavoro di tesi ma che è possibile trovare nella ref. [Koo77]. Le

    principali ipotesi assunte indipendentemente da Koonin nel ’77 e da Pratt nell’84

    [Pra84], nel considerare la funzione di sorgente S(r) possono essere riassunte come

    segue:

    i. Le interazioni tra le particelle che non sono considerate esplicitamente sono

    trascurabili. Questo implica che non vi è alcuna interazione con la sorgente dopo

    l’emissione;

    ii. Invarianza di Galilei, al fine di eliminare la dipendenza dall’impulso relativo

    |𝑞𝑞|�����⃗ ;

    iii. Le due particelle emesse possono diffondere solo elasticamente;

    iv. Non essendoci correlazione all’interno della sorgente, le due particelle vanno ad

    angolo relativo piccolo (emissione parallela 𝑃𝑃�⃗ ≫ �⃗�𝑞) .

    v. Il ritardo temporale di emissione è molto piccolo (o nullo).

    vi. La posizione relativa delle due particelle si definisce dopo l’emissione della

    seconda particella.

    Analizziamo la (2.3) un po’ più dettagliatamente; a primo membro compare la funzione

    di correlazione in funzione dell’impulso relativo misurata sperimentalmente che

    nell’equazione rappresenta quindi il dato sperimentale, l’obiettivo è quello di risolvere

    l’equazione integrale. A secondo membro è presente un integrale composto da due

    funzioni: la cosiddetta funzione sorgente di emissione a due particelle S(𝑟𝑟→

    ) e la funzione

    Kernel K( 𝑟𝑟→

    , 𝑞𝑞→

    ) (il nucleo della funzione integrale). Una volta misurato il primo

  • 17

    membro, bisogna estrarre la forma spaziale della funzione sorgente S( 𝑟𝑟→

    ) infatti la

    funzione Kernel K(𝑟𝑟→

    , 𝑞𝑞→

    ), è calcolabile come:

    𝐾𝐾 �𝑟𝑟→

    , 𝑞𝑞→� = �𝛹𝛹𝑞𝑞(𝑟𝑟

    →)� − 1 (2.4)

    Dove la 𝛹𝛹𝑞𝑞(𝑟𝑟→

    ) rappresenta la funzione d’onda dello scattering protone-protone per dato

    valore di impulso relativo 𝑞𝑞→

    , la cui energia relativa è 𝐸𝐸 = 𝑞𝑞2

    2𝜇𝜇 [Koo77]. La 𝐾𝐾 �𝑟𝑟

    →, 𝑞𝑞→�

    contiene tutte le informazioni riguardo l’anti-simmetrizzazione della funzione d’onda

    protone-protone, e le mutue interazioni di stato finale Coulombiana e nucleare.

    La funzione sorgente 𝑆𝑆(𝑟𝑟→

    ) è definita come la probabilità di emettere due particelle a

    distanza relativa 𝑟𝑟→

    = 𝑟𝑟1→− 𝑟𝑟2

    → , calcolata nell’istante in cui è emessa la seconda

    particella. Vale a dire con tempi di emissione legati tramite la seguente relazione

    𝑡𝑡2 ≥ 𝑡𝑡1. Visto che la S(𝑟𝑟→

    ) è una distribuzione di probabilità deve essere normalizzata

    all’unità. La funzione sorgente S(𝑟𝑟→

    ) viene stimata o attraverso procedure di best-fit

    assumendo che essa abbia una forma funzionale “semplice” di tipo Gaussiano:

    𝑆𝑆(𝑟𝑟→

    ) ∝ 𝑒𝑒− 𝑟𝑟

    2

    2𝑟𝑟02 (2.5)

    in cui compare solo un parametro 𝑟𝑟0 a cui si associa il significato di “taglia di sorgente a

    due particelle” oppure la 𝑆𝑆(𝑟𝑟→

    ) viene “estratta” dall’equazione integrale (2.3) facendo

    un’inversione numerica, tale procedura è detta di Imaging, ottenendo così una

    distribuzione funzionale in cui per “taglia” si assume la FWHM di tale distribuzione.

  • 18

    Fig. 2.2 – Ambiguità spazio-temporali nella sorgente a due corpi S(𝑟𝑟→

    ) [EVP12]

    È importante fare notare che a causa del legame temporale suddetto presente nella

    funzione di sorgente essa è affetta da, così dette, ambiguità spazio-temporali. Per

    descrivere il fenomeno, seppur in maniera semplicistica, possiamo prendere in esame la

    figura 2.2. Due protoni rivelati nello stesso evento di collisione possono essere emessi

    ad istanti diversi durante la reazione. La funzione sorgente corrisponde alla pura

    distribuzione spaziale a due particelle di una ipotetica sorgente emettitrice solo nel caso

    limite di vita media nulla. In Figura 2.2, schematicamente è illustrato, in maniera

    semplice, quello che può succedere nell’emissione di due protoni da una sorgente a vita

    media finita. A sinistra si ha il caso dell’emissione simultanea di due particelle e a

    destra quello dell’emissione sequenziale. Il valore della distanza relativa r è calcolato

    solo quando viene emessa la seconda particella. Pertanto, la funzione di sorgente nel

    caso di destra avrà un’estensione definita dalla reale distribuzione spaziale dei punti di

    emissione di protoni 𝑟𝑟0 , unita alla componente 𝑣𝑣1 ∗ (𝑡𝑡2 − 𝑡𝑡1) causata dalla non

    simultaneità di emissione delle due particelle. In sostanza S(𝑟𝑟→

    ) dipende sia dalla vita

    media della sorgente emettitrice di protoni che dall’estensione spaziale [EVP12].

    Il comportamento della funzione di correlazione protone-protone, a partire dalla

    equazione di Koonin-Pratt, al variare dei parametri di taglia e di vita media è stato

    studiato in letteratura (fig. 2.3).

  • 19

    Fig. 2.3 – Funzioni di correlazione calcolate con parametro di taglia 𝑟𝑟0 = 2.5𝑓𝑓𝑚𝑚(sorgente piccola, pannello in alto),

    ed 𝑟𝑟0 = 5𝑓𝑓𝑚𝑚 (sorgente grande, pannello in basso).

    Un esempio di studi che si trovano in letteratura è rappresentato nella figura 2.3

    [EVP12]. In questo caso è stata calcolata la funzione di correlazione protone-protone

    per due sorgenti una di taglia più piccola 𝑟𝑟0 = 2.5𝑓𝑓𝑚𝑚 e una più grande 𝑟𝑟0 = 5𝑓𝑓𝑚𝑚 al

    variare delle interazioni di stato finale.

    La linea tratteggiata si riferisce alla funzione di correlazione ottenuta quando i protoni

    interagiscono solo attraverso la repulsione Coulombiana. Questo comporta un’anti-

    correlazione a piccoli valori di impulso, q

  • 20

    di massa intermedia (3< Z

  • 21

    2.2 Funzioni di correlazione protone-neutrone e neutrone-neutrone: esempi di analisi

    Come già detto gli studi delle funzioni di correlazione a due particelle rappresentano

    una tecnica di fondamentale importanza per estrarre informazioni sull’estensione

    spazio-temporale delle sorgenti di emissione. In particolare, se vengono costruite ed

    analizzate funzioni di correlazione tra particelle non identiche è possibile acquisire

    informazioni sulla cronologia di emissione delle particelle in esame. Tale tecnica fu

    inizialmente suggerita al fine di studiare la cronologia di emissione di particelle cariche

    emesse in reazioni tra ioni pesanti [Gel94], e si basava sul confronto degli spettri di

    velocità sperimentali con calcoli di traiettorie Coulombiane. Infatti l’idea di base era che

    se le particelle fossero state emesse con piccoli ritardi temporali avrebbero dovuto

    “sentire” molto la mutua repulsione Coulombiana [Gel95]. Successivamente Lednicky

    et al. [Led96], estendono tale tecnica a qualunque tipo di particella e dimostrano come

    le funzioni di correlazione siano un osservabile sensibile per determinare differenze

    temporali medie di emissione. Un esempio di tali studi condotti a partire da funzioni di

    correlazione protone - neutrone si trova nella referenza Ghetti et al. [Ghe01]. Gli autori

    intendono capire se nella reazione 58Ni+27Al all’E/A = 45 MeV/nucleon si possa

    stabilire una prevalenza temporale di emissione di una particella o dell’altra. Le

    particelle cariche (i protoni in particolare) sono rivelati da un array di rivelatori posti a

    45° nel sistema del laboratorio mentre i neutroni da scintillatori liquidi NE213 letti da

    fototubo, posti a 25°, 45° e 90° nel sistema del laboratorio. Gli autori definiscono due

    classi di eventi. Una classe in cui 𝐸𝐸𝑢𝑢 > 𝐸𝐸𝑝𝑝 ed un’altra in cui 𝐸𝐸𝑢𝑢 < 𝐸𝐸𝑝𝑝 , per entrambe

    calcolano le funzioni di correlazione neutrone-protone e ne fanno il rapporto, come è

    possibile osservare in figura 2.5.

  • 22

    Fig. 2.5 – Funzione di correlazione sperimentale n-p. C(q) è il caso senza constraints, cerchi pieni pannelli (a) e (b);

    Cn(q) è il caso En > Ep pannello (a) cerchi vuoti; pannello (b) quadrati vuoti, Cp(q) caso En < Ep; pannello (c) rapporto

    Cn/Cp. [Ghe01]

    La figura 2.5 mostra le funzioni di correlazione n-p che gli autori indicano con il

    simbolo C(q) nel caso senza generico, cioè senza vincoli (constraints), con Cn(q) nel

    caso della classe di eventi 𝐸𝐸𝑛𝑛 > 𝐸𝐸𝑝𝑝 e Cp(q) in quella 𝐸𝐸𝑛𝑛 < 𝐸𝐸𝑝𝑝. La C(q) è presente in

    figura sia nel pannello (a) che in quello (b) con cerchi pieni, la Cn(q) è indicata nel

    pannello (a) con cerchi vuoti e la Cp(q) è indicate nel pannello (b) con quadrati vuoti.

    Nel pannello (c) è riportato il valore del rapporto Cn(q)/Cp(q). Nei pannelli (a) e (b) le

    funzioni di correlazione confrontate parrebbero uguali entro gli errori sperimentali

    tuttavia nel pannello (c), in cui è presente il rapporto delle due funzioni di correlazione

    n-p delle due classi di eventi considerate, si osservano chiaramente deviazioni

    dall’unità, anche se, anche in questo caso permangono grandi barre di errore

    sperimentale. Tuttavia, gli autori, anche attraverso il confronto con calcoli teorici di

    sorgenti evaporative uniti al formalismo di Koonin-Pratt, concludono che dato il buon

    accordo tra i modelli e i dati sperimentali, si osserva un tempo di emissione medio

    maggiore per i protoni rispetto ai neutroni. Appare comunque chiaro anche che ulteriori

    esperimenti andrebbero condotti al fine di approfondire la tematica della cronologia di

    emissione soprattutto alla luce di nuovi apparati sperimentali più specifici e potenti in

    termini di risoluzione energetica ed angolare e in particolare in termini di efficienza al

  • 23

    fine di accumulare un maggiore numero di coppie in coincidenza e diminuire l’errore

    sperimentale sulla funzione di correlazione.

    Il secondo esempio di funzione di correlazione che utilizza neutroni emessi in reazioni

    nucleari ad energia basse ed intermedie è quello descritto nella referenza N. Colonna et

    al. [Col95]. L’esperimento in esame, condotto presso i LNL, consisteva in un fascio di 18O, che all’energia totale di 130 MeV veniva fatto collidere su un target di 26Mg al fine

    di produrre, per fusione nucleare, il nucleo composto di 44Ca. L’obiettivo sperimentale

    era di studiare le proprietà del nucleo formato, in particolare estrarne informazioni

    spaziali di taglia e temporali di vita media. A tal fine, gli autori, hanno utilizzato la

    tecnica della funzione di correlazione neutrone-neutrone, sia quella così detta “angle-

    averaged” sia la tecnica delle funzioni di correlazione direzionali, trasversale e

    longitudinale. Il setup sperimentale consisteva in un array di 18 scintillatori liquidi del

    tipo BC501 posti a 2 metri dal target e centrati a 45° nel sistema di riferimento del

    laboratorio.

    In Fig. 2.6 sono mostrate le funzioni di correlazione neutrone-neutrone per due

    intervalli di impulso totale Pcm del centro di massa nel sistema di riferimento del nucleo

    composto. Nel pannello a), i cerchi pieni, sono la funzione di correlazione di intervallo

    di impulso totale maggiore Pcm > 160MeV/c mentre nel pannello b), con il medesimo

    simbolo, è mostrata quella di intervallo minore Pcm < 140MeV/c. In entrambi i pannelli

    le linee rappresentano calcoli teorici di funzioni di correlazione, nel frame di Koonin-

    Pratt, a partire da neutroni emessi da sorgenti con vita media di 700 fm/c (tipicamente

    emissione di pre-equilibrio) nel caso della linea continua e con vita media più lunga

    1200 fm/c (in cui gradi di libertà interni iniziano ad equilibrarsi e le particelle

    evaporano statisticamente secondo una funzione di tipo Maxwelliano) nel caso della

    linea tratteggiata.

  • 24

    Fig. 2.6 – Funzioni di correlazione “angle-averaged” per due diversi intervalli del momento totale della coppia di

    neutroni, nel frame del nucleo composto. Le curve solide e tratteggiate sono i risultati di calcoli teorici per due diversi valori di vita media della sorgente. [Col95]

    Il confronto tra le funzioni di correlazione teoriche e sperimentati ha portato gli autori

    ha dare una stima della taglia del nucleo composto, della sua vita media e anche ad

    individuare la frazione di neutroni emessi nella prima fase della reazione (pre-

    equilibrio), dimostrando come le funzioni di correlazione neutrone-neutrone siano una

    potente tecnica per studiare anche un caso fisico come quello della fusione nucleare.

    Tuttavia anche in questo caso si osservano barre di errore nella funzione di correlazione

    grandi dovute alla scarsa statistica di neutroni rivelati in coincidenza e anche l’errore

    sull’impulso relativo è grande (distanza tra due punti successivi in figura 2.6)

    soprattutto a bassi valori in cui la risoluzione peggiora notevolmente ed addirittura non

    vi sono più punti per valori inferiori di 8MeV/c, diventa quindi importante fare ulteriori

    investigazioni ed esperimenti soprattutto alla luce di nuovi setup sperimentali più

    potenti ed efficienti.

  • 25

    Capitolo 3 - Rivelatori a Scintillazione

    3.1 Caratteristiche generali

    Il processo di scintillazione è uno dei metodi efficienti ed utilizzati, per la rivelazione di

    molti tipi di radiazioni.

    Il passaggio di radiazioni ionizzanti produce in certi materiali, detti scintillatori,

    emissione di luce visibile (o talvolta anche nello spettro dell’ultravioletto), che,

    opportunamente raccolta, dà informazioni sulle caratteristiche, energia e tipo, della

    radiazione incidente che ha interagito con il materiale.

    Le principali caratteristiche che rendono ottimo uno scintillatore sono:

    i. Alta efficienza di scintillazione (conversione in luce dell’energia depositata -

    fotoni/MeV- con resa elevata);

    ii. Resa in luce (quasi) proporzionale all’energia depositata, ma dipendente dal tipo

    di particella;

    iii. Spettro della luce di scintillazione adatto ad essere rivelato da opportuni

    fotosensori (ad esempio il fotomoltiplicatore o fotodiodo al Silicio);

    iv. Trasparenza alla luce emessa (lunghezza di assorbimento elevata) in modo che

    essa non venga assorbita nuovamente dal rivelatore;

    v. Risposta veloce (tempi di decadimento brevi) nell’emissione della luce;

    vi. Indice di rifrazione simile a quello del vetro (~ 1.5) al fine di avere un ottimo

    accoppiamento ottico con il fotosensore (cioè che esso non rifletta la luce ma la

    raccolga).

    É estremamente complicato che un rivelatore abbia tutte queste qualità insieme anzi si

    può affermare che nessun materiale possiede contemporaneamente tali proprietà, infatti

    la scelta di un particolare scintillatore è sempre un compromesso tra queste proprietà.

    Gli scintillatori più utilizzati si dividono in cristalli inorganici, scintillatori liquidi e

    plastici organici. Gli scintillatori inorganici tendono ad avere migliore resa in luce in

    uscita e hanno una linearità tra la resa in luce e l’energia depositata molto buona. Sono

    prevalentemente caratterizzati da tempi di risposta lenti, tranne alcune eccezioni. I

  • 26

    cristalli inorganici sono anche caratterizzati da un alto valore di Z dei componenti e da

    un’alta densità, queste proprietà ne favoriscono l’utilizzo per la spettroscopia γ, oltre

    che per la rivelazione di particelle cariche. Invece, gli scintillatori organici hanno una

    resa in luce minore, tuttavia sono molto veloci nei tempi di risposta. Sono

    preferibilmente utilizzati per la spettroscopia β e per la rivelazione di neutroni veloci.

    Il processo di scintillazione può avvenire attraverso tre meccanismi:

    ▪ Fluorescenza: emissione di luce visibile da parte di atomi eccitati, con tempi caratteristici da uno a qualche centinaio di ns;

    ▪ Fosforescenza: emissione di luce visibile con tempi dell’ordine dei millisecondi o secondi, e spettro di emissione con lunghezze d’onda maggiori;

    ▪ Fluorescenza ritardata: stesso spettro di emissione della fluorescenza ma con tempi caratteristici maggiori.

    Un materiale, per essere un ottimo scintillatore, dovrebbe convertire una frazione

    quanto più ampia possibile di energia di radiazione incidente in fluorescenza

    (componente veloce), minimizzando eventuali contributi dovuti alla fosforescenza e alla

    fluorescenza ritardata.

    L’efficienza di scintillazione è definita come la frazione di tutta l’energia incidente di

    una particella che è convertita in luce visibile. Dal punto di vista dello sperimentatore si

    vorrebbe avere un’efficienza elevata, tuttavia sono parecchi i processi di diseccitazione

    che avvengono nelle molecole senza emissione di luce, nei quali l’energia della

    particella incidente viene “persa” in calore o nella “rottura” delle parti cristalline (così

    detto danno da radiazione). Tutti questi processi di diseccitazione che nel cristallo non

    producono luce rilevabile dal fotosensore prendono il nome di “quenching”. Una

    componente aggiuntivo per gli scintillatori è il cosiddetto “waveshifter”. La sua

    funzione è quella di assorbire la luce prodotta dalla scintillazione primaria per poi

    irradiarla ad una lunghezza d’onda diversa tipicamente maggiore. Questo è molto utile

    non solo per ridurre i processi di auto assorbimento in grandi scintillatori liquidi o

    plastici, ma anche per avere una efficienza di accoppiamento tra lo spettro di emissione

    dello scintillatore e lo spettro di assorbimento del tubo fotomoltiplicatore o del

    fotodiodo al Silicio.

  • 27

    3.2 Scintillatori Organici

    Gli scintillatori organici vengono suddivisi in cristalli organici, scintillatori organici

    liquidi e scintillatori plastici. Tra i cristalli organici più diffusi abbiamo l’antracene e lo

    stilbene. Hanno tempi di risposta abbastanza veloci (dell’ordine di qualche ns) e sono

    materiali relativamente fragili, difficili da ottenere in grandi dimensioni e difficili da

    modellare per ottenere diverse forme. L’antracene è uno dei materiali più utilizzati e

    possiede la più alta efficienza di scintillazione rispetto a qualsiasi altro scintillatore

    organico.

    Per quanto riguarda gli scintillatori organici liquidi essi sono soluzioni di materiali

    organici in solventi organici come benzene, xylene ecc. Anche essi hanno tempi di

    risposta veloci e la loro efficienza aumenta con la concentrazione del soluto. Un loro

    vantaggio è quello di poter aggiungere altri materiali alla miscela in modo da aumentare

    l’efficienza, come ad esempio gli “waveshifter”, sono tuttavia sconsigliabili in quanto

    risultano nocivi per la salute dello sperimentatore, hanno dimensioni generalmente

    “grandi” con una grande risoluzione spaziale delle particelle rivelate e non possono,

    generalmente, essere utilizzati sotto vuoto.

    Gli scintillatori plastici sono i più usati in fisica nucleare e particellare in quanto, grazie

    alla loro struttura, si possono lavorare e modellare facilmente. Hanno tempi di risposta

    molto veloci (2-3 ns) e presentano un’alta efficienza in termini di resa in luce. Il

    materiale plastico, essendo relativamente economico e semplice da modellare, si presta

    ad essere utilizzato per rivelatori di grandi volumi (anche dell’ordine centinaia di cm3)

    tuttavia per questi rivelati il fenomeno dell’auto-assorbimento non è più trascurabile e

    bisogna tenerne conto. Risulta più spesso utile utilizzare rivelatori plastici di dimensioni

    di pochi cm3 (dell’ordine di una ventina o trentina). Possono essere utilizzati sotto

    vuoto. Esiste, anche, un’ampia gamma di scintillatori plastici composti da fibre di

    piccolo diametro, utilizzati come fibre singole oppure raggruppati in fasci o nastri. Si

    adoperano prevalentemente per la rivelazione della posizione di interazione delle

    particelle ed hanno una grande risoluzione spaziale.

  • 28

    Nelle applicazioni di fisica particellare, gli scintillatori plastici possono essere esposti

    ad elevati livelli di radiazione, il quale portano ad un danneggiamento del processo di

    emissione di luce di scintillazione.

    Generalmente gli scintillatori organici sono utili per la rivelazione diretta di particelle

    beta (elettroni veloci) o particelle leggere (ioni positivi) come protoni, neutroni (tramite

    scattering del protone), tritoni, alfa e isotopi delle alfa. Oltre a ciò sono facilmente

    adattabili al rilevamento dei neutroni veloci.

    Nei materiali organici il processo di fluorescenza nasce dalle transizioni che avvengono

    nella struttura dei livelli energetici delle singole molecole ed è osservato in una data

    specie molecolare indipendentemente (o quasi, perché ci potrebbe essere influenza della

    temperatura) del suo stato fisico. Una vasta categoria di scintillatori organici è composta

    da molecole con ben determinate proprietà di simmetria che danno origine a ciò che è

    noto come struttura π-elettrone. In questo tipo di molecole è presente un doppio spettro

    energetico, di singoletto o tripletto, a seconda dello spin. Come mostrato in figura 3.1,

    l’assorbimento della radiazione induce una transizione dallo stato fondamentale 𝑆𝑆00 ad

    uno degli stati 𝑆𝑆1,𝑆𝑆2,𝑆𝑆3, dagli ultimi due stati si ha un decadimento immediato ( t < 10

    pc) verso il primo stato eccitato elettronico 𝑆𝑆1 mediante un processo chiamato

    conversione interna senza emissione di radiazioni. Da questo livello si ha poi, dopo un

    tempo di qualche ns, una transizione verso uno degli stati vibrazionali (che differiscono

    dallo stato fondamentale S00 di circa 0.15 eV ciascuno) di 𝑆𝑆0 (compreso il livello dello

    stato fondamentale S00) con emissione di fotoni che spiega il fenomeno della pronta

    fluorescenza. Il processo di fosforescenza avviene invece quando il sistema passa dallo

    stato di singoletto allo stato di tripletto (o viceversa) per poi decadere allo stato

    fondamentale. Nello stato 𝑇𝑇1 alcune molecole possono essere eccitate termicamente e

    passare allo stato 𝑆𝑆1 , per poi decadere successivamente attraverso il processo di

    fluorescenza. Tale processo rappresenta l’origine della fluorescenza ritardata nei

    materiali organici.

  • 29

    Fig. 3.1 – Livelli energetici di una molecola inorganica con struttura π-elettrone [BIR64]

    Detta τ la costante di tempo di decadimento della fluorescenza per il livello 𝑆𝑆10, si avrà

    che l’intensità al tempo t dopo l’eccitazione sarà:

    𝐼𝐼 = 𝐼𝐼0𝑒𝑒−𝑡𝑡/𝜏𝜏 (3.1)

    Nella maggior parte degli scintillatori organici τ è di qualche ns e la componente di

    scintillazione risulta essere abbastanza veloce.

    Esistono però quei materiali che presentano sia una componente veloce che una lenta e

    si ha un’emissione la cui intensità risulta essere la sovrapposizione di più esponenziali

    ognuno con il suo tempo caratteristico (ns per la componente veloce e diverse centinaia

    di ns per la componente lenta), assumendo istantaneo il tempo di salita del segnale

    possiamo scrivere la seguente relazione:

    𝐼𝐼 = 𝐼𝐼𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑡𝑡𝑒𝑒−𝑡𝑡/𝜏𝜏𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓 + 𝐼𝐼𝑓𝑓𝑠𝑠𝑐𝑐𝑠𝑠𝑒𝑒−𝑡𝑡/𝜏𝜏𝑓𝑓𝑠𝑠𝑐𝑐𝑠𝑠 (3.2)

    In figura 3.1, le lunghezze d’onda corrispondenti alle frecce in alto rappresentano il

    fenomeno di assorbimento da parte del materiale. Le transizioni indotte dalla

    fluorescenza sono rappresentate dalle frecce rivolte verso il basso ed hanno energia

    inferiore al minimo richiesto per l’eccitazione. Questo causa una piccola

    sovrapposizione tra spettro di assorbimento e di emissione (spesso chiamato “Stokes

    shift”), che ha come conseguenza un lieve auto-assorbimento da parte della

    fluorescenza.

  • 30

    Fig. 3.2 – Spettro di assorbimento e di emissione per un tipico scintillatore organico [KNO]

    3.3 Risposta in luce di uno scintillatore

    Negli scintillatori, come già detto, solamente una frazione dell’energia depositata è

    convertita in luce, mentre il resto dà luogo a processi non radiativi. L’efficienza di

    scintillazione, cioè la frazione di energia depositata da una radiazione (ionizzante o non)

    effettivamente convertita in luce, dipende sia dal tipo di particella sia dalla sua energia.

    Tuttavia in alcuni casi, potrebbe essere indipendente da quest’ultima, è questo il caso in

    cui vi è linearità fra resa in luce ed energia iniziale della particella. Per gli scintillatori

    organici, la risposta di scintillazione per gli elettroni è lineare dall’energia di circa 125

    keV in poi. Per particelle cariche più pesanti degli elettroni, come protoni o particelle

    alfa (e loro isotopi), la risposta, a parità di energia, è minore rispetto agli elettroni, che

    può arrivare sino ad un fattore 10 di conteggi in meno rispetto all’equivalente energia

    rilasciata dagli elettroni per valori inferiori al MeV, e segue un andamento non lineare

    ad energie elevate, pur restando sempre sotto l’equivalente energia depositata dagli

    elettroni come mostrato in Figura 3.3, in cui è mostrato un tipico spettro di risposta di

    scintillazione per un comune scintillatore plastico, (NE 102). Per tale motivo, nella

    nomenclatura scientifica è in uso la grandezza MeVee (MeV electron equivalent) in

    modo da uniformare la resa in luce con una grandezza assoluta riferita agli elettroni.

  • 31

    Fig. 3.3 – Risposta di scintillazione per un comune scintillatore plastico (NE 102) eccitato da elettroni e

    protoni[KNO].

    La risposta in luce degli scintillatori organici può essere al meglio descritta da una

    relazione che lega la frazione di luce emessa dL per unità di lunghezza del percorso

    dL/dx, con la perdita di energia dE della particella carica dE/dx per unità di lunghezza

    del percorso. In assenza di processi di quenching la resa luminosa risulta essere

    proporzionale all’energia persa (stopping power). Dunque nel caso ideale di linearità si

    avrà che:

    𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑

    = 𝑆𝑆 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑

    (3.3)

    Dove S è l’efficienza di scintillazione e dE/dx lo stopping power del materiale. In molti

    casi la relazione non è lineare, ad esempio per protoni, particelle alfa o particelle cariche

    ancora più pesanti (Z≥3). In letteratura è utilizzata una relazione, suggerita

    empiricamente da Birks [BIR64], basata sull’assunzione che un’alta densità di

    ionizzazione, lungo la traccia della particella, porti a fenomeni di diseccitazione privi di

    emissione di luce ed ad un conseguente abbassamento dell’efficienza di scintillazione,

    in particolare, secondo Birks buona parte dell’energia rilasciata dalla particella nel

    rivelatore e non convertita in luce doveva essere responsabile del danneggiamento della

    struttura cristallina del rivelatore o comunque delle molecole che lo costituiscono.

  • 32

    Supponendo che la densità di molecole danneggiate dalla particella nel suo percorso

    all’interno del rivelatore sia proporzionale alla densità di ionizzazione della particella

    stessa, indicandone con B la costante di proporzionalità, inoltre assumendo di indicare

    con k la frazione di molecole che all’interno del rivelatore causano il quenching Birks

    corresse la precedente formula con la seguente, detta appunto formula di Birks:

    𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑

    =𝑆𝑆𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑀𝑀

    1+𝑘𝑘𝑘𝑘𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑀𝑀 (3.4)

    La costante kB si ottiene empiricamente attraverso un’operazione di fit della relazione

    (3.4) sugli spettri sperimentali di risposta in luce di un rivelatore, e dipende nel caso più

    generale dal tipo di scintillatore, dalla particella incidente e dalla sua energia.

    Negli scintillatori organici è la fluorescenza a rappresentare la maggior parte della luce

    di scintillazione osservata, in altri casi si osserva anche una componente con lunga vita

    media, appartenente alla fluorescenza ritardata. La curva corrispondente alla resa di

    entrambi i processi può essere rappresentata come la somma dei due decadimenti

    esponenziali composti dalla componente lenta (pochi ns) e veloce (centinaia di ns).

    In alcuni scintillatori è possibile individuare il tipo di particella che deposita energia

    all’interno di essi. La componente lenta del processo di emissione dipende dalla perdita

    di energia specifica (stopping power) dE/dx, quindi poiché particelle diverse rilasciano

    energia in modo diverso, viene analizzato il segnale prodotto del fotosensore, al quale il

    materiale scintillante è associato, per determinare la loro natura. Questa tecnica prende

    il nome di Pulse Shape Discrimination (PSD). Vari scintillatori organici, come lo

    stilbene o scintillatori liquidi, sono particolarmente indicati per il PSD a causa delle

    differenze presenti nella componente lenta indotta da diverse radiazioni.

  • 33

    Fig. 3.4 – Evoluzione temporale degli impulsi di scintillazione nello stilbene (uguale intensità al t=0) al passaggio di

    particelle diverse [KNO]

    In figura 3.4 sono mostrate le differenze per lo stilbene, al passaggio di particelle alfa,

    neutroni veloci (protoni di rinculo) e raggi gamma (elettroni veloci). Tuttavia

    attualmente sul mercato sono presenti, oltre ai classici, già citati, stilbene e scintillatori

    liquidi, anche altri tipi di scintillatori plastici, come l’EJ 276 (già EJ 299-33) che hanno

    ottime capacità di discriminazione attraverso l’analisi in forma del segnale, non solo tra

    gamma e protoni ma anche tra particelle cariche leggere [EVP18a,EVP18b] che sono

    molto promettenti per future applicazioni nella fisica nucleare di energie basse ed

    intermedie al fine di costruire nuovi e più performanti sistemi di rivelazione.

    3.4 Rivelazione di neutroni veloci

    I neutroni, essendo elettricamente neutri, non interagiscono nel materiale assorbitore

    mediante l’interazione Coulombiana (processo di ionizzazione), ma solo mediante

    l’interazione nucleare, il che è il diretto responsabile della generale bassa efficienza di

    rivelazione (numero di particelle rivelate rispetto al numero totale incidente nel

    rivelatore) dei neutroni, circa 1% per cm3 di materiale plastico alle energie incidenti 1≤

    En ≤100 MeV, rispetto al tipico 100% delle particelle cariche nel medesimo intervallo

    di energia (una volta superata una soglia essenzialmente di carattere elettronico).

  • 34

    I metodi di rivelazione dei neutroni veloci (En ≥ 1 MeV) sono basati sulla loro

    rivelazione indiretta attraverso urti elastici (tipicamente con nuclei di Idrogeno

    (protoni)). In tale interazione il neutrone incidente trasferisce una parte della sua energia

    al target (o anche tutta in target di Idrogeno), dando origine ad un nucleo di rinculo.

    Quando il neutrone incidente raggiunge energie almeno dell’ordine del MeV vengono

    prodotti nuclei di rinculo (di almeno qualche centinaia di keV) che permettono la

    rivelazione dei neutroni veloci. Tipicamente il target più utilizzato per questo tipo di

    processi è l’Idrogeno che, alle basse ed intermedie energie, grazie alla sua ampia

    sezione trasversale di scattering neutronico massimizza la sezione d’urto del processo.

    Durante un singolo urto con il nucleo di Idrogeno il neutrone incidente può trasferire

    fino a tutta la propria energia.

    Nelle applicazioni che coinvolgono la rivelazione di neutroni veloci è spesso importante

    misurare l’energia del neutrone incidente. Nel caso in cui il neutrone venga rivelato con

    un processo fisico diverso dallo scattering elastico (Q di reazione diverso da zero)

    bisogna tener conto che le informazioni riguardo l’energia cinetica dei neutroni sono

    perse se l’energia del neutrone incidente è molto più piccola rispetto all’energia liberata

    durante la reazione (Q-valore). Tuttavia, se l’energia del neutrone incidente non risulta

    più essere trascurabile rispetto al Q della reazione, l’energia dei prodotti di reazione (in

    particolare del nucleo di rinculo) può essere usata per misurare l’energia iniziale del

    neutrone. Dunque misurando le energie dei prodotti di reazione e sottraendo a queste il

    Q-valore si potrebbe risalire all’energia del neutrone incidente con buona

    approssimazione. Ad esempio, nel caso di scattering elastico Q = 0 per stimare l’energia

    dei neutroni incidenti si utilizza tale metodo solo se i nuclei di rinculo hanno energie

    misurabili (metodo del nucleus recoil).

    Le diverse metodologie e tecniche utilizzate per la misurazione dell’energia dei neutroni

    veloci sono proprie della cosiddetta spettroscopia di neutroni veloci. Talvolta lo scopo

    della misura è quello di rivelare l’eventuale presenza dei neutroni, ed eventualmente

    contarne il numero, senza misurarne l’energia. Tali contatori possono convertire i

    neutroni in particelle cariche e registrarne semplicemente gli impulsi dal rivelatore. Nel

    caso di scattering elastico di un neutrone con un nucleo bersaglio, attraverso

    l’imposizione della conservazione della quantità di moto e dell’energia, l’energia del

  • 35

    nucleo di rinculo (nel sistema del laboratorio) sarà dato dalla seguente relazione (En

  • 36

    che combinata con la 3.5 fornisce la relazione finale dell’energia del nucleo di rinculo in

    termini del suo angolo di scattering:

    𝐸𝐸𝑅𝑅 =4𝐴𝐴

    (1+𝐴𝐴)2(1− 𝑐𝑐𝑐𝑐𝑠𝑠2𝑐𝑐 )𝐸𝐸𝑛𝑛 (3.7)

    Dalla relazione (3.7) è immediato osservare che l’energia trasferita al nucleo di rinculo

    è determinata dall’angolo di scattering. Nel caso in cui il neutrone viene deviato

    leggermente rispetto alla sua direzione iniziale, il nucleo di rinculo viene emesso quasi

    perpendicolare alla direzione del neutrone incidente (θ = 90°) e la 3.7 risulta prossima

    allo zero. Nel caso opposto, una collisione frontale tra neutrone incidente e target

    porterà ad un rinculo nella stessa direzione (θ = 0°), con energia massima data da:

    𝐸𝐸𝑅𝑅|𝑚𝑚𝑚𝑚𝑥𝑥 =4𝐴𝐴

    (1+𝐴𝐴)2𝐸𝐸𝑛𝑛 (3.8)

    Le energie di rinculo si distribuiscono tra zero ed un valore massimo e visto che tutti gli

    angoli ( nel centro di massa ) di scattering sono consentiti, si osserverà uno spettro

    energetico, per il nucleo di rinculo, continuo dal valore limite di zero (θ = 90°) al valore

    massimo possibile trasferibile 𝐸𝐸𝑅𝑅|𝑚𝑚𝑚𝑚𝑥𝑥 (θ = 0°). Data la relazione (3.8) risulta ovvio che

    solo nel caso del bersaglio di Idrogeno si potrà avere (θ = 0°) che tutta l’energia del

    neutrone sia trasferita al protone. È questo un ulteriore motivo del largo uso di rivelatori

    plastici in cui vi è un’alta concentrazione di nuclei di Idrogeno, tecnica del proton

    recoil, come mostrato in Figura 3.6, dove è mostrato lo spettro continuo di protoni di

    rinculo che vanno dal valore limite energetico di 0 sino al massimo En, energia dei

    neutroni incidenti monoenergetici. In Figura 3.6 nell’asse ordinate vi è riportata la

    probabilità di rivelazione del nucleo di rinculo per data energia, come si osserva essa è

    costante, il che indica l’equa probabilità di angolo di scattering.

    L’efficienza di rivelazione di un dispositivo basato sul rinculo dei protoni (protons

    recoil) o di altri nuclei può essere calcolato a partire dalla sezione d’urto totale di

    scattering σs. Se sono presenti nuclei di una sola specie allora l’efficienza intrinseca sarà

    data semplicemente da:

  • 37

    𝜀𝜀 = 1 − 𝑒𝑒𝑥𝑥𝑝𝑝 (−𝑁𝑁𝜎𝜎𝑓𝑓𝑑𝑑) (3.9)

    Dove N è la densità numerica dei nuclei target, σs la sezione d’urto di scattering per

    questi nuclei e d la lunghezza del tragitto attraverso il rivelatore per i neutroni incidenti.

    Fig. 3.6 – Distribuzione di energia Ep dei protoni di rinculo prodotta da neutroni monoenergetici. Energie indicate per

    vari valori dell’angolo di emissione di rinculo θ come indicato dall’Eq. 3.7 [KNO].

    Il modo più semplice per utilizzare il rinculo del protone (proton recoil) per rivelare

    neutroni veloci è attraverso l’utilizzo di scintillatori contenenti idrogeno. I neutroni

    veloci incidenti sullo scintillatore possono dare origine a protoni di rinculo la cui

    distribuzione di energia è approssimativamente rettangolare, come visto in figura 3.6,

    variando da zero a tutta l'energia dei neutroni. Poiché, tipicamente, rispetto alle

    dimensioni del rivelatore, il percorso dei protoni di rinculo prodotti è minore, la loro

    energia viene depositata all’interno dello scintillatore e la distribuzione dell’altezza

    dell'impulso prevista è anch'essa approssimativamente rettangolare. I rivelatori a

    scintillazione contenenti idrogeno sono ampiamente applicati in molte aree di ricerca

    sulla fisica dei neutroni.

    Capitolo 4 - Caratterizzazione dello scintillatore plastico EJ

    276 (ex 299-33) con sorgenti radioattive e fasci ionici

    Nel presente capitolo verranno illustrati alcuni test eseguiti presso i Laboratori

    Nazionali del Sud di Catania riguardanti le proprietà di discriminazione con la tecnica

  • 38

    della PSD dello scintillatore plastico EJ 276 per la rivelazione di neutroni veloci e

    particelle cariche.

    Il modello EJ 276, inizialmente chiamato EJ 299-33 [Poz13], prodotto dalla Eljen

    Technology, è lo scintillatore plastico con proprietà uniche di discriminazione per

    neutroni, raggi gamma e particelle cariche, e rappresenta una valida alternativa agli

    scintillatori liquidi comunemente usati per la discriminazione gamma-neutrone.

    Fig. 4.1 – Scintillatore EJ 276 [ELJ]

    4.1 Test con sorgenti radioattive

    Il primo test eseguito, in ordine temporale sull’ EJ 276 presso i LNS, è stato condotto

    attraverso l’utilizzo di sorgenti radioattive, al fine di minimizzare il rumore di fondo

    (background) che solitamente si ha nelle reazioni nucleari indotte da fasci ionici

    [EVP18a]. Tale studio è stato condotto presso i Laboratori Nazionali del Sud – INFN di

    Catania all’interno dei lavori di upgrade del multirivelatore CHIMERA. I test sono stati

    eseguiti utilizzando una sorgente di Americio-Berillio (Am-Be) che emette neutroni e

    gamma. I neutroni vengono emessi grazie alla combinazione di una sorgente emettitrice

    𝛼𝛼 come, ad esempio, nel nostro caso la sorgente di Americio-241 ed un nucleo stabile

    come il Berillio-9 che ha un neutrone relativamente poco legato (energia di legame 1,7

  • 39

    MeV). Il 9Be cattura (per fusione nucleare) la particella 𝛼𝛼 e emette un neutrone secondo

    la seguente reazione nucleare: 4𝐻𝐻𝑒𝑒+9𝐵𝐵𝑒𝑒 −> 12𝐶𝐶 + 𝑛𝑛

    Il cui Q-Valore è 5,7 MeV. Si ottiene quindi una continua emissione di neutroni con

    uno spettro energetico che varia dai 5 MeV circa sino ad un massimo che dipende

    dall’energia della particella α (tipicamente circa 5 MeV nella sorgente di 241Am). La

    figura 4.2 mostra un tipico spettro di neutroni emessi da una sorgente radioattiva di Am-

    Be.

    Fig. 4.2 - [Pic13]

    Sono state utilizzate anche altre due sorgenti emettitrici α, così detta a tre picchi a

    radionuclidi misti (239Pu, 241Am e 244Cu) di energie intorno a 5 MeV, ed un’altra di

    Torio-228 (228Th) e varie sorgenti gamma come 22Na, 60Co e 137Cs. Lo scintillatore

    plastico, utilizzato nei test, di dimensione 3 cm x 3 cm x 3 cm, è stato posto ad una

    distanza di circa 3 cm dalla sorgente, utilizzato sotto vuoto e non schermato per rilevare

    neutroni, raggi gamma e particelle alfa. Otticamente accoppiato alla finestra di quarzo

    del tubo fotomoltiplicatore 9514B, prodotto dalla EMI, alimentato a 1,7 KV. La

    lunghezza d’onda di emissione dell’EJ 276 il cui picco è a circa 420 nm, è in accordo

    per il 70% con lo spettro di assorbimento del fotocatodo del PMT. Gli impulsi di

    segnale anodici del fotomoltiplicatore sono stati digitalizzati tramite l’elettronica GET

  • 40

    (General Electronics for TPC) [Gio16, Pol18], registrati e memorizzati in un sistema di

    acquisizione dati per un’opportuna analisi off-line.

    Nel test, dapprima si è proceduto alla opportuna calibrazione del rivelatore utilizzando

    le sorgenti radioattive di gamma. Le caratteristiche fondamentali di un rivelatore unito

    ad un’opportuna elettronica sono la funzione di altezza dell’impulso L(E) e la

    risoluzione dL(E)/L(E). I raggi gamma interagendo con un materiale (il rivelatore ed

    esempio), producono elettroni attraverso l’effetto fotoelettrico, l’effetto Compton o la

    produzione di coppie (e+-e-), se energeticamente possibile. Nel caso degli scintillatori

    plastici di piccole dimensioni e con basso numero atomico, l’energia dei raggi gamma

    incidenti è trasferita attraverso lo scattering Compton agli elettroni di rinculo. In uno

    scintillatore organico la risposta di scintillazione per elettroni con energie superiori a

    ~150 keV si assume essere lineare. Per verificare la linearità ed arrivare alla

    calibrazione energetica dello scintillatore, sono state utilizzate le sorgenti di 22Na, 60Co

    e 137Cs, di energie di “Compton edge” (“spalla” Compton) rispettivamente di 341 keV e

    1062 keV corrispondenti a 511 keV e 1275 keV per i raggi gamma della sorgente di 22Na, energia di Compton edge di 1041 keV corrispondenti a 1173 keV e 1332 keV per

    i raggi gamma della sorgente di 60Co, ed energia di Compton edge di 447 keV

    corrispondente a 662 keV per i raggi gamma della sorgente di 137Cs. In figura 4.3 è

    mostrato lo spettro del profilo Compton ricavato dagli autori per la sorgente di 137Cs.

    Fig. 4.3 – Spettro gamma della componente totale dell’emissione luminosa non calibrata prodotta dalla sorgente di

    137Cs [EVP18a].

    Per avere una buona calibrazione energetica il Compton edge deve essere determinato

    con una precisione il più accurata possibile nello spettro Compton del gamma, e si sa

  • 41

    che la scelta della posizione corrispondente alla massima energia elettronica della

    distribuzione dipende sia dallo scintillatore che dall’elettronica. Gli autori al fine di

    determinare il “miglior” punto (ed il corrispondente canale elettronico) dopo il massimo

    dello spettro a cui associare l’energia del Compton edge, hanno confrontato, attraverso

    procedure di best fit, i valori corrispondenti al 90%, al 70% e al 50% del massimo oltre

    il picco per ogni raggio gamma. Per lo scintillatore EJ 276 gli autori hanno osservato

    che il caso migliore (con varianza più piccola) è quello quando si considera il 50% dal

    picco dello spettro.

    Dopo aver opportunamente associato canale elettronico ed energia del gamma

    corrispondente si è osservato un’ottima linearità nella calibrazione energetica

    dell’emissione totale di luce dello scintillatore plastico (Figura 4.4).

    Fig. 4.4 – Calibrazione energetica dell’emissione di luce totale (LTOT) espressa in keV dello scintillatore, con energie

    di Compton edge per i raggi gamma delle sorgenti. LTOT = a*canali+b, con parametri a = 2,25 keV/channel, b= -61,6

    keV e deviazioni standard di σa = 0,0487 keV/channel, σb = 20,3 keV. [EVP18a]

    Per quanto concerne la misura dell’energia dei neutroni (protoni) che arrivano al

    rivelatore, fattore molto importante soprattutto per la stima dell’energia di soglia per

    varie particelle, si è proceduto ad esprimere la luce totale emessa (LTOT) in termini di

    MeV equivalente di elettroni (MeVee), sappiamo infatti, come già detto nel capitolo 3

    del presente lavoro di tesi, che a causa del quenching, a parità di energia, un elettrone ed

    una particella più massiva come ad esempio un protone (ma il fenomeno si osserva

    anche tra un tipo di particella ed una più massiva), non si avrà la medesima resa in luce,

    ragione per cui si è preferito operare in un unità energetica equivalente. Tuttavia proprio

  • 42

    per studiare l’energia minima rivelabile dei neutroni (energia di soglia) che ovviamente

    è il risultato sia del rivelatore ma anche della sua elettronica, si è cercato di stimare

    l’energia dei neutroni a partire dalla loro luce totale emessa (equivalente agli elettroni).

    In uno scintillatore plastico come è l’EJ 276, l’emissione luminosa prodotta dai neutroni

    non mostra una semplice dipendenza lineare dall’energia da loro posseduta, come nel

    caso di altre particelle. Infatti si è visto che la relazione tra la luce totale emessa

    (espressa in elettroni equivalenti) e l’energia dei protoni (neutroni) dipende dalle

    concentrazioni di H e C in tale scintillatore. Al fine di ottenere una relazione funzionale

    tra la luce totale emessa (Lout) e l’energia depositata dai neutroni (Edep) Cecil et al.

    [Cec79], a seguito di molti studi sull’interazione dei neutroni nei rivelatori plastici

    hanno proposto la seguente parametrizzazione esponenziale:

    𝐿𝐿𝑐𝑐𝑜𝑜𝑡𝑡 = 𝑚𝑚𝐸𝐸𝑑𝑑𝑒𝑒𝑝𝑝 − 𝑏𝑏(1− 𝑒𝑒−𝑐𝑐𝐸𝐸𝑑𝑑𝑒𝑒𝑝𝑝) (4.1)

    Nel caso dell’EJ 276, gli autori hanno adottato come valori dei parametri dell’Eq (4.1)

    quelli dati dal lavoro fatto da Lawrence et al. [Law14], applicando solo un piccolo

    adattamento dovuto alla differenza di integrazione temporale del segnale, i valori usati

    sono: a = 0,8, b = 3,9 e c = 0,22, espressi in rispettivamente MeVee*MeV-1, MeVee e

    MeV-1; da cui segue che Lout è in MeVee e Edep in MeV.

    Al fine di studiare le capacità di discriminazione in forma del segnale prodotto dai

    neutroni e dai raggi gamma sono state utilizzate due sorgenti, quella di Am-Be e quella

    di 60Co. Dagli studi effettuati in precedenza sulla sorgente Am-Be [Not69, Mar95], sono

    stati misurati attentamente gli spettri di energia dei neutroni con energie da poche

    centinaia di keV a 10 MeV e osservati processi di assorbimento dei raggi gamma da

    parte della stessa sorgente. Per tale ragione, è stata utilizzata per lo studio della PSD

    anche la sorgente di 60Co.

    Così come dichiarato dalla casa costruttrice [ELJ] lo scintillatore EJ 276, ha tre costanti

    di decadimento: 13 ns, 50 ns e 460 ns per le interazioni con i neutroni e 13 ns, 35 ns e

    270 ns per le eccitazioni dovute ai raggi gamma. In virtù delle diverse costanti di

    decadimento questo scintillatore plastico è dotato di analisi in forma del segnale per la

    discriminazione delle particelle, gli autori hanno analizzato tali proprietà discriminanti

    definendo tre finestre temporali di integrazione dell’impulso digitalizzato del PMT: per

    la componente totale (Total) in un intervallo di tempo di 30-600 ns, per la componente

  • 43

    veloce (Fast) in un intervallo di 30-150 ns e per la componente lenta (Slow) in un

    intervallo di 200-600 ns. Grazie alla digitalizzazione del segnale la scelta delle tre

    finestre di integrazione per la definizione delle componenti Fast, Slow e Total del

    segnale è stato fatto off-line, successivamente all’esperimento-test, e via software, sono

    infatti state provate diverse finestre di integrazione temporale del segnale sino ad

    ottenere quelle suddette considerate ottimali. Questo in effetti, è un bel vantaggio

    introdotto da una elettronica di tipo digitale, rispetto a quella analogica tradizionale, per

    la quale tale processo di integrazione avveniva on-line (durante la presa dati) e via

    hardware e successivamente non era più possibile fare alcun cambiamento. Nelle figure

    4.5(a), 4.5(b) e 4.5(c) sono rappresentati i risultati di tale lavoro: il confronto fra la

    componente Total in funzione della componente Fast, la Total in funzione della Slow e

    la Slow in funzione di quella Fast ha mostrato una chiara separazione tra neutroni e

    raggi gamma, in particolare nella fig. 4.5(c) tale separazione risulta essere migliore a

    partire da un valore di soglia di identificazione pari a 150 keVee della componente

    veloce (Fast). La figura 4.5 (d) rappresenta invece la cosiddetta figura di merito (Figure

    Of Merit, FOM), data dal rapporto tra la differenza dei centroidi delle due distribuzioni

    e la somma delle larghezze a metà altezza (FWHMs), utile per definire la capacità di

    discriminazione per un preciso intervallo di energia. Gli autori hanno trovato una FOM

    pari a 1.3, data dalla proiezione sull’asse della componente lenta (figura 4.5(c)) dei

    valori, rappresentati dalle linee tratteggiate, compresi tra 1100-1200 keVee della

    componente veloce (figura 4.5(c)). Tale range energetico valido per i gamma, è

    equivalente all’intervallo energetico compreso tra 5.0-5.5 MeV per i neutroni,

    utilizzando per la conversione l’equazione 4.1. All’energia prossima a quella di soglia,

    nell’intervallo di 150-250 keVee della componente veloce la FOM è di 0.42.

  • 44

    Fig. 4.5 –Spettri bidimensionali della PSD per la discriminazione di neutroni e raggi gamma con le sorgenti di Am-

    Be e 60Co: (a)Total Vs Fast; (b) Total Vs Slow; (c) Slow Vs Fast; (d) FOM relativa alla fetta della componente Fast

    mostrata dalla linea tratteggiata verticale nel pannello(c) [EVP18a].

    Per quanto riguarda lo studio delle proprietà di discriminazione tra particelle alfa e raggi

    gamma, gli autori hanno utilizzato una sorgente di 228Th che emette raggi gamma di

    energie comprese tra 238 keV e 2614 keV e particelle alfa ad energie di 5.4, 5.7, 6.3,

    6.8 e 8.7 MeV [Man12].

    Fig. 4.6 – (a) Spettro bidimensionale dello studio della PSD che mostra la discriminazione per particelle alfa e raggi

    gamma. (b) Spettro della componente totale delle particelle alfa. [EVP18a]

    In figura 4.6 sono mostrati i risultati della PSD nel caso della sorgente di Torio-228 in

    cui si vedono chiaramente i picchi delle particelle alfa e la linea continua dei gamma, in

    particolare nel pannello (a) è mostrata l’ottima discriminazione tra le particelle alfa e i

    raggi gamma mentre nel pannello (b) è stato riportato lo spettro della componete totale

    delle particelle alfa della sorgente. Quest’ultimo è stato ottenuto selezionando le

    posizioni delle particelle alfa da quelle dei raggi gamma e considerando un cut grafico

    di contorno alle particelle alfa (figura 4.6(a)) proiettandolo sulla componente totale.

    Le particelle alfa ad energie comprese tra 5.4 e 6.8 MeV mostrano il picco composito

    (largo) mentre ad 8.7 MeV si osserva un picco isolato ben definito, la linea rossa in

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    figura invece rappresenta il fit gaussiano ottenuto dalla convoluzione di tre curve

    (gaussiane) (Fig. 4.6(b)). La risoluzione energetica totale (intrinseca del rivelatore

    sommata a quella dell’elettronica) è stata stimata per il picco a 8.7 MeV ed è pari a circa

    il 18.5 % (FWHM = 166.3 keVee), mentre la