dipartimento di fisica e astronomia...nel presente lavoro di tesi, focalizzeremo la nostra...
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA DIPARTIMENTO DI FISICA E ASTRONOMIA
Corso di Laurea Triennale in Fisica
Maria Costa
SCINTILLATORE PLASTICO EJ 299-33: PRIMI TEST DI UN
CORRELATORE PER NEUTRONI
TESI DI LAUREA
RELATORE:
Chiar.ma Prof.ssa Francesca Rizzo
CORRELATORE:
Dott. Emanuele V. Pagano
ANNO ACCADEMICO 2017/2018
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Indice Introduzione ................................................................................................................................ 3 Capitolo 1 - Dall’interferometria stellare alla fisica nucleare ............................................. 4
1.1 Interferometria di ampiezza .................................................................................. 4 1.2 Interferometria di intensità .................................................................................................. 6
1.3 Correlazioni in fisica nucleare ............................................................................................ 8
Capitolo 2 - Funzioni di correlazione fra due particelle ..................................................... 12
2.1 Funzione di correlazione protone – protone ...................................................................... 14
2.2 Funzioni di correlazione protone-neutrone e neutrone-neutrone: esempi di analisi ......... 21
Capitolo 3 - Rivelatori a Scintillazione ................................................................................ 25
3.1 Caratteristiche generali...................................................................................................... 25
3.2 Scintillatori Organici ......................................................................................................... 27
3.3 Risposta in luce di uno scintillatore .................................................................................. 30
3.4 Rivelazione di neutroni veloci .......................................................................................... 33
Capitolo 4 - Caratterizzazione dello scintillatore plastico EJ 276 (ex 299-33) con sorgenti radioattive e fasci ionici ............................................................................................ 37
4.1 Test con sorgenti radioattive ............................................................................................. 38
4.2 Test con fasci ionici .......................................................................................................... 46
Conclusione ............................................................................................................................... 52
Bibliografia ................................................................................................................................ 53
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Introduzione
La rivelazione simultanea dei neutroni insieme alle particelle cariche nel medesimo
setup sperimentale, gioca un ruolo fondamentale nel campo della fisica nucleare,
tuttavia la sua realizzazione presenta non poche difficoltà sperimentali. I neutroni,
infatti, essendo particelle prive di carica, non subiscono l’interazione Coulombiana,
pertanto l’unica possibilità che un neutrone rilasci energia attraversando un dato
materiale si ha tramite interazione nucleare, attraverso sezioni d’urto dell’ordine del
centinaio di mbarn (per neutroni veloci).
Nel presente lavoro di tesi, focalizzeremo la nostra attenzione su due test effettuati sullo
scintillatore plastico EJ 299-33, oggi noto come EJ 276, per studiarne le proprietà di
discriminazione e di rivelazione di neutroni e particelle cariche, al fine di poter costruire
in futuro un prototipo di correlatore (rivelatore ad alta risoluzione angolare ed
energetica) per neutroni e particelle cariche, in modo da studiare correlazioni particella-
particella che coinvolgono i neutroni.
Nel capitolo 1 introdurremo i principi che stanno alla base dell’interferometria
d’intensità, dalle sue originali applicazioni in astronomia alle successive applicazioni in
fisica nucleare.
Nel capitolo 2 tratteremo lo studio delle correlazioni tra due particelle, in particolare
protone-protone e neutrone-neutrone, fondamentali per estrarre informazioni sulle
caratteristiche spazio-temporali delle sorgenti di emissione.
Nel capitolo 3 descriveremo le caratteristiche principali dei rivelatori a scintillazione, in
particolare quelli organici, per poi porre l’attenzione sul metodo di rivelazione dei
neutroni veloci in particolare con la tecnica del protone di rinculo (proton recoil
technique).
Infine nel capitolo 4 illustreremo due studi riguardanti l’utilizzo dello scintillatore EJ
276, allo scopo di esaminarne le prestazioni in condizioni di basso e alto background
per la rivelazione di neutroni e particelle cariche.
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Capitolo 1 - Dall’interferometria stellare alla fisica nucleare
1.1 Interferometria di ampiezza
Nel 1801 il fisico inglese Thomas Young, scienziato dai vasti interessi culturali, fornì
per la prima volta l’evidenza sperimentale della natura ondulatoria della luce. Il
principio fisico del famoso esperimento fu chiamato interferometria di ampiezza.
Dall’esperimento di Young sino ai giorni nostri si sono susseguite varie evoluzioni
dell’interferometria, fino alla più recente interferometria di intensità, che sono state
utilizzate per investigare differenti sistemi fisici: dalle misure di dimensioni stellari sino
a quelle di sistemi nucleari e sub-nucleari (“fotografie” spazio-temporali delle sorgenti
di emissione delle particelle).
Nel caso dell’interferometria di ampiezza (Fig.1) un’onda monocromatica è emessa da
una sorgente supposta puntiforme e fatta passare attraverso due fenditure S1 e S2. S1 e
S2 diventano quindi sorgenti di due onde coerenti.
Fig. 1.1 – Schema dell’esperimento di Interferometria di ampiezza a due fenditure di Young
A distanza D dalle sorgenti S1 e S2 (vedi Fig. 1.1) è posto uno schermo sensibile alla
radiazione incidente e sia dato, su di esso, un punto R. Nella discussione seguente
supporremo l’approssimazione (condizioni ideali) che la distanza D dalle fenditure sia
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grande rispetto alla distanza d tra le fenditure: D/d >>1. L’ampiezza del campo elettrico
nel punto R è data dalla somma delle ampiezze riguardanti i due cammini S1-R e S2-R,
in accordo alle leggi dell’ottica ondulatoria. Nell’esperimento di Young con onde
monocromatiche e coerenti (la coerenza è determinata dalle due fenditure che insistono
sullo stesso fronte d’onda), si osserva che il fascio di luce, una volta passato attraverso
le due fenditure, produce sullo schermo una serie di frange luminose alternate a frange
scure. Le frange luminose corrispondono ai massimi di intensità e si osservano nei punti
sullo schermo in cui le ampiezze delle onde si sommano con interferenza costruttiva.
Tenendo aperta solo la fenditura S1 si rivela nel punto R un’intensità media I1 (data dal
modulo quadro dell’ampiezza in quel punto x, mediata su un opportuno tempo di misura
D : 𝐼𝐼 ̅ = 1∆ ∫ 𝐴𝐴
2(𝑡𝑡, 𝑥𝑥)𝑡𝑡+∆2𝑡𝑡−∆2
𝑑𝑑𝑡𝑡), allo stesso modo aprendo solo la fenditura S2 si avrebbe I2.
L’esperimento ideale mostrerebbe che con entrambe le due fenditure aperte ciò che
viene registrato sullo schermo è una intensità risultante I12 ≠ I1 + I2, questo per la
presenza del fenomeno di interferenza, caratteristico della natura ondulatoria della luce.
L’interferenza costruttiva si riscontra quando i cammini ottici, S1R e S2R, differiscono
di una quantità δ = dsinϴ equivalente ad un numero intero di lunghezze d’onda, vale a
dire dsinϴ = mλ (m = 0, ±1, ±2,...). Invece è presente interferenza distruttiva quando i
cammini differiscono di una quantità dsinϴ = (m + ½) λ (m = 0, ±1, ±2,...) e ciò che si
osserva è la presenza di frange scure (assenza di segnale) sullo schermo e quindi di
minimi di intensità (in un esperimento reale di laboratorio il contrasto netto tra zone
illuminate e zone scure potrebbe essere attenuato dalla possibile presenza di un fondo
luminoso determinato dalla diffusione non coerente della luce). Dunque, utilizzando una
lunghezza d’onda nota λ, misurando la distribuzione di intensità I(x) dei massimi e dei
minimi di interferenza, si può ricavare la distanza d tra le due fenditure. Le condizioni
per il quale si osserva la figura di interferenza sullo schermo sono dovute alla coerenza
fra le onde emesse da S1 e S2 ed inoltre alla relazione di fase tra i cammini S1-R e S2-R.
La tecnica sopra esposta si basa sulla misura di intensità (intesa come modulo al
quadrato di un’ampiezza) di un’onda elettromagnetica (nel visibile, nel caso illustrato) e
permette di misurare la distanza dalle fenditure se nota la lunghezza d’onda.
Conseguentemente tale tecnica può essere detta di interferometria di Ampiezza, benché
si esegua attraverso misure di intensità luminosa. Tuttavia, quanto detto è valido sia per
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onde che per particelle, infatti i comportamenti ondulatori delle particelle, previste dalla
meccanica quantistica, erano già noti dal 1927
attraverso esperimenti di diffrazione di elettroni condotti da Davisson e Germer, mentre
veri e proprio esperimenti di interferenza di elettroni prima, e neutroni dopo, furono
condotti a partire dagli anni ’60. In campo astronomico, la tecnica dell’interferometria
di Ampiezza fu utilizzata da Michelson, con il suo interferometro, per misurare taglie
angolari di stelle. La prima dimensione ad essere misurata, proprio da Michelson e F. G.
Pease, fu Betelgeuse della costellazione di Orione nel 1921 [Swe87]. Altri, sempre
nell’astronomia di Ampiezza, utilizzarono il suo interferometro per misurare la distanza
fra due stelle (in sistemi di stelle doppie). Michelson, utilizzò l’interferometro da 100”
(2.54 m) posto sul Mount Wilson (a nord est di Los Angeles). Note quindi λ la
lunghezza d’onda, b la linea di base cioè la distanza fra le fenditure (lenti nel caso di
Michelson) Michelson e collaboratori ricavarono il diametro angolare della stella dalla
relazione: 𝛼𝛼 = 1.22 𝜆𝜆𝑏𝑏. Al fine di misurare diametri angolari di stelle più “piccole” delle
giganti rosse come Betelgeuse, si presentò quindi la necessità di poter avere una linea di
base b molto grande il che comportava la costruzione di interferometri sempre più
grandi con linee di base che teoricamente sarebbero dovuti arrivare anche alla
dimensione di diversi km. In generale, diminuendo la lunghezza d’onda è possibile
mantenere ragionevolmente piccola la linea di base nell’ordine della decina di metri.
Tuttavia, l’interferometro di Michealson era uno strumento ottico per cui la più piccola
lunghezza d’onda risultava comunque essere nello spettro del visibile (λ =575 nm),
questo problema contribuì alla fine dell’interferometria di ampiezza in astronomia
intorno agli anni’30 del secolo scorso.
1.2 Interferometria di intensità
Basandosi sull’interferometria di Ampiezza attraverso un interferometro classico alla
Michelson, le misure necessitavano che la luce che entrava nello strumento potesse
mantenersi coerente almeno per qualche secondo. Tuttavia, l’interazione tra la luce
proveniente delle stelle e l’atmosfera era causa di perdita di coerenza a causa degli
effetti distruttivi della diffusione, inoltre tale problema si accentuava in particolari
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condizioni climatiche. Sperimentalmente si riuscì a stabilizzare la luce e far funzionare
l’interferometro sino ad un raggio di circa 6 m. Michelson e collaboratori costruirono un
interferometro con una linea di base di circa 15 m che però non riuscirono mai a fare
funzionare. Quella, intorno al 1930, fu il declino dell’interferometria classica applicata a
misure stellari. Dopo la seconda guerra mondiale, intorno agli anni ’50, Hanbury-Brown
e Twiss proposero un nuovo tipo di interferometro che utilizzava un principio piuttosto
diverso [HBT54, HBT56a, HBT56b]. Anziché misurare l’intensità legata all’ampiezza
delle onde, i due scienziati considerano le proprietà corpuscolari della luce: nasceva così
l’interferometria di intensità che si basava sui flussi di fotoni associati all’onda
incidente. Data una sorgente di emissione e due rivelatori R1 e R2 (Fig. 1.2) si misura la
probabilità di rivelare fotoni in singola nel rivelatore 1 o nel rivelatore 2 e fotoni in
coincidenza nei medesimi rivelatori, supponendo che l’emissione avvenga a partire da
due punti A e B distribuiti sulla superficie di un oggetto in lontananza esteso. Tale
tecnica fu chiamata “interferometria di intensità” e indicata anche con il nome di effetto
o tecnica HBT, in onore ad Hanbury-Brown e Twiss, che la proposero.
Una importante differenza fra l’interferometria di ampiezza e quella di intensità
riguarda la condizione di coerenza sulla fase dei fronti d’onda che nel secondo caso non
è richiesta come condizione essenziale. Invece, assume un ruolo fondamentale
l’intervallo del tempo di coincidenza misurato tra due rivelatori che va necessariamente
registrato.
Fig. 1.2 –Rappresentazione schematica del principio dell’interferometria di intensità
Siano R1 e R2 due rivelatori, P12 la probabilità di rivelare in coincidenza due particelle,
P1 e P2 le probabilità di rivelarle singolarmente nel primo rivelatore o nel secondo.
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È più esatto indicarle come medie temporali < P1>, < P2> e < P12> dal momento che le
rese di singole particelle e di coincidenze esprimono la media di una misura in un tempo
ben preciso, durante il quale sono effettuate le medesime misure.
Definiamo dunque la funzione di correlazione:
𝐶𝐶(𝛳𝛳) = 1 + 𝑅𝑅(𝛳𝛳) =
(1.1)
Come è noto dalla teoria della probabilità, se gli eventi di rivelazioni delle due particelle
da parte dei rivelatori R1 e R2 fossero eventi non correlati fra loro (stocasticamente
indipendenti), avremmo che la probabilità P12 di rivelare in coincidenza le due particelle
sarebbe data dal prodotto delle singole probabilità, di conseguenza il rapporto nella
relazione (1.1) risulterebbe pari all’unità, quindi R=0. Tuttavia se nella relazione (1.1) si
osservassero deviazioni dalla unità i due eventi non potrebbero essere considerati
statisticamente indipendenti. Si definisce correlazione (o correlazione positiva) tra gli
eventi di rivelazione delle particelle in R1 e R2 se C > 1 (cioè R >0). Al contrario, si avrà
anti-correlazione (o correlazione negativa) tra gli eventi di rivelazione se C < 1 (cioè R
< 0). Come già detto, tale tecnica non è soggetta a sfasamenti indotti dai disturbi
atmosferici e può essere adoperata a grandi distante tra i rivelatori posti sulla superficie
terrestre, e quindi per misurare taglie angolari di stelle molto piccole. Hanbury-Brown e
Twiss, utilizzando il loro tipo di interferometro nel 1959 misurarono la maglia angolare
della stella Sirio e gettarono le basi per le osservazioni delle temperature stellari.
Dunque, il nome di interferometria di intensità nasce dalla considerazione che si
misurano conteggi o intensità, a differenza della tecnica usata nell’esperimento di
Young.
1.3 Correlazioni in fisica nucleare
L’interferometria di intensità anni dopo, oltre alle applicazioni astronomiche, trova
applicazione anche nella fisica nucleare. La prima applicazione fu lo studio di
correlazioni angolari di pioni emessi nella reazione di annichilazione antiprotone –
protone ad un’energia di 1 GeV [Gol59, Gol60].
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La prima evidenza sperimentale dell’effetto HBT è dovuta a Goldhaber, Goldhaber, Lee
e Pais (GGLP) nel 1959. Essi, sfruttando lo studio delle distribuzioni angolari di pioni
prodotti durante la reazione �̅�𝑝-p, trovarono che la probabilità di emissione di pioni
identici in coincidenza era fortemente condizionata dalla loro natura bosonica, la quale
provocava un aumento della funzione di correlazione per valori tendenti ad impulso
relativo nullo, 𝑞𝑞 = 12
(𝑝𝑝1���⃗ − 𝑝𝑝2����⃗ ) = 0 . Questa nuova applicazione della interferometria
trovò grande apprezzamento nella comunità scientifica e, in seguito, l’effetto osservato
venne rappresentato in termini di “effetto HBT” e di interferometria di intensità da
Shuryak [Shu73].
Il caso delle reazioni nucleari si comprese in poco tempo essere molto diverso dal
quello dell’astronomia. In questo secondo caso, infatti, la sorgente delle particelle (la
stella) è un oggetto statico, che non cambia la sua forma (almeno nei tempi caratteristici
all’osservazione) e in generale nessuna delle loro proprietà durate il tempo di
osservazione. Mentre, nel caso delle sorgenti nucleari non è così. Le sorgenti nucleari,
una volta formate a seguito di una collisione nucleare, evolvono cambiando dimensioni,
densità, ed energia di eccitazione (temperatura) in tempi molto rapidi (dell’ordine delle
decine di fm/c – 1 fm/c = 10−23 𝑠𝑠 ) rispetto ai tempi di misura che avvengono in
condizioni asintotiche. Pertanto, le caratteristiche della reazione nei primi istanti della
collisone verranno modificate successivamente dal decadimento statistico che conduce
le particelle allo stato fondamentale. La misura di grandezze dinamiche (energie
cinetiche, angoli di correlazione, impulsi relativi, ecc..) che conservino memoria dei
primi istanti della collisione, è pertanto di cruciale importanza. Si intuì presto, che la
forma della funzione di correlazione dipendeva, oltre che dalla dimensione, dalla vita
media della sorgente di emissione delle particelle (ad esempio dei pioni). Le funzioni di
correlazione tra particelle prodotte durante le collisioni nucleari sono sensibili
all’estensione spazio-temporale della sorgente, quindi una situazione molto differente
da quella riscontrata negli esperimenti di Hanbury Brown e Twiss in astronomia. Le
sorgenti di emissione in reazioni nucleari evolvono nel tempo su scale temporali molto
brevi (tipicamente dell’ordine di 10−22𝑠𝑠 − 10−18𝑠𝑠), se vengono confrontate con i tempi
caratteristici della misurazione della resa di particelle in un rivelatore. A seguito di ciò
l’interferometria d’intensità, applicata in fisica nucleare, risulta essere molto più
complessa di quella utilizzata in astronomia che si limitava a studiare taglie di oggetti in
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condizioni di staticità. Attualmente le correlazioni tra pioni sono adoperate come
strumento per esaminare l’estensione spazio-temporale delle sorgenti nucleari, prodotte
nelle collisioni ad altissima energia. Essi sono di fondamentale importanza nella ricerca
di plasma formato da quark e gluoni negli esperimenti svolti presso il Relativistic
Heavy-Ion Collider (RHIC) e il Large Hadron Collider (LHC) [Lis05].
Intorno agli anni ’70 gli studi di funzioni di correlazione vennero estesi a diversi tipi di
particelle. Nel 1977 grande importanza ebbe il lavoro di S.E. Koonin che propose
l’utilizzo di correlazioni protone-protone per studiare le sorgenti di emissione prodotte
nelle reazioni nucleari alle energie relativistiche [Koo77].
Le caratteristiche delle funzioni di correlazioni protone-protone sono molto diverse
rispetto a quelle dei pioni. Essi sono fermioni dunque, nel momento in cui vengono
emessi ad una distanza r relativamente piccola (qualche fm), devono essere descritti da
una funzione d’onda anti-simmetrica. L’anti-correlazione, a piccoli valori di impulso
relativo, osservata sperimentale è anche dovuta alla loro natura fermionica e quindi ad
interazioni di natura quantistica. Oltre alle interazioni di natura quantistica, le
interazioni che giocano un ruolo importante nel caso dei protoni sono quella
Coulombiana anch’essa responsabile dell’anti-correlazione a piccoli valori di impulsi
relativi e quella nucleare che è responsabile del “bump” di correlazione presente nella
funzione di correlazione al valore di 20 MeV/c di impulso relativo (Fig 1.3).
Fig. 1.3 – Esempio di studio di funzione di correlazione p-p.
I due protoni interagiscono, quindi, attraverso la forza nucleare forte attrattiva, la
repulsione Coulombiana e l’effetto del principio di esclusione del Pauli, chiamate
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interazioni di stato finale (FSI, final state interactions), che dipendono dalla distanza
relativa tra le due particelle.
Negli anni ’90 furono molto importanti gli studi di correlazione di particelle molto più
complesse rispetto ai protoni [Ver06]. La presenza delle FSI (Coulombiana e nucleare)
ha consentito lo studio dell’estensione spazio-temporale della sorgente di emissione
radiativa anche per funzioni di correlazione di particelle non identiche, come ad
esempio il caso deuterio-alfa, protone-alfa o anche nel caso di IMF-IMF (Intermediate
Mass Fragments, con carica 3
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(start), mentre l’istante di arrivo della particella (stop) viene fornito da un segnale
temporale del rivelatore, opportunamente convertito in segnale logico di chiusura
(apertura) del circuito elettronico TAC (Timing Amplitude Converter).
Capitolo 2 - Funzioni di correlazione fra due particelle
Si considerino due particelle 1 e 2, di impulso 𝑝𝑝1→
e 𝑝𝑝2→
e massa 𝑚𝑚1ed 𝑚𝑚2, l’impulso
totale 𝑃𝑃→
e quello relativo 𝑞𝑞→
valgono, rispettivamente: 𝑃𝑃→
= 𝑝𝑝1→
+ 𝑝𝑝2→
e 𝑞𝑞→
= 𝜇𝜇 (𝑝𝑝1→
𝑚𝑚1− 𝑝𝑝2
→
𝑚𝑚2)
(con μ massa ridotta del sistema). La funzione di correlazione sperimentale integrata in
angolo (angle-averaged) 1 + 𝑅𝑅(|𝑞𝑞|�����⃗ ) è definita nell’ipotesi in cui 𝑃𝑃�⃗ ≫ |𝑞𝑞|�����⃗ dalla seguente
relazione:
𝑌𝑌𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐(|𝑞𝑞|�����⃗ ) = 𝑐𝑐 ⋅ [1 + 𝑅𝑅(|𝑞𝑞|�����⃗ )] ⋅ 𝑌𝑌𝑢𝑢𝑢𝑢𝑐𝑐𝑐𝑐𝑢𝑢(|𝑞𝑞|�����⃗ ) (2.1)
Il valore di 𝑌𝑌𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐(|𝑞𝑞|�����⃗ ) corrisponde alla resa delle due particelle rivelate in coincidenza
aventi tutte il medesimo valore di impulso relativo in modulo |𝑞𝑞|�����⃗ infatti essendo
l’impulso relativo una grandezza vettoriale, si sta scegliendo di integrare tutte le coppie
che hanno il medesimo impulso relativo indipendentemente sia dalla direzione del
vettore che dal valore del loro impulso totale 𝑃𝑃�⃗ (𝑃𝑃�⃗ ≫ �⃗�𝑞). Il significato della 2.1 consiste
nel fatto che l’eventuale segnale di correlazione fisica trasportato dalle coincidenze
𝑌𝑌𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐(|𝑞𝑞|�����⃗ ) viene trasferito nella funzione di correlazione 1 + 𝑅𝑅(|𝑞𝑞|�����⃗ ) in modo tale che
per quei valori dell’impulso relativo in cui R=0 si ottenga il massimo di non
correlazione possibile avendosi 𝑌𝑌𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐(|𝑞𝑞|�����⃗ ) = 𝑐𝑐 ⋅ 𝑌𝑌𝑢𝑢𝑢𝑢𝑐𝑐𝑐𝑐𝑢𝑢(|𝑞𝑞|�����⃗ ) dove c è una mera costante
di proporzionalità e 𝑌𝑌𝑢𝑢𝑢𝑢𝑐𝑐𝑐𝑐𝑢𝑢(|𝑞𝑞|�����⃗ ) rappresenta la resa di coincidenze delle particelle non
correlate (sempre aventi il medesimo impulso relativo ed indipendentemente sia dalla
direzione del vettore che dal valore del loro impulso totale). Gli approcci utilizzati per
calcolare 𝑌𝑌𝑢𝑢𝑢𝑢𝑐𝑐𝑐𝑐𝑢𝑢(|𝑞𝑞|�����⃗ ) sono o di tipo Monte Carlo o di Mixing che consiste nel mischiare
particelle da eventi diversi, più avanti nella trattazione se ne farà qualche esempio.
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Idealmente 𝑌𝑌𝑢𝑢𝑢𝑢𝑐𝑐𝑐𝑐𝑢𝑢(|𝑞𝑞|�����⃗ ) proviene, ricordando la definizione di indipendenza statistica
data nel capitolo precedente, dal prodotto delle rese di particella singola 𝑌𝑌(𝑝𝑝1���⃗ ) ⋅ 𝑌𝑌(𝑝𝑝2����⃗ ).
Tuttavia, sperimentalmente non è sempre così semplice determinare le rese di particella
in singola e successivamente il loro prodotto, a causa di selezioni delle reazioni in
termini di parametro d’urto, o necessità di abbattere l’eccessivo rate di conteggio
(soprattutto a piccoli angoli, introducendo trigger di molteplicità ≥ 2 nel sistema di
acquisizione) o a causa di efficienza di rivelazione diversa dal 100% che può variare
anche in funzione dell’impulso stesso della particella, per cui si è preferito costruire la
funzione di correlazione sperimentale a partire dal 𝑌𝑌𝑢𝑢𝑢𝑢𝑐𝑐𝑐𝑐𝑢𝑢(|𝑞𝑞|�����⃗ ) piuttosto che dal
𝑌𝑌(𝑝𝑝1���⃗ ) ⋅ 𝑌𝑌(𝑝𝑝2����⃗ ), del resto è stato anche mostrato che sotto ben precise ipotesi le due
grandezze sono molto simili (a meno di un fattore numerico di proporzionalità) ed
approssimabili 𝑌𝑌(𝑝𝑝1���⃗ ) ⋅ 𝑌𝑌(𝑝𝑝2����⃗ ) ≈ 𝑌𝑌𝑢𝑢𝑢𝑢𝑐𝑐𝑐𝑐𝑢𝑢(|𝑞𝑞|�����⃗ ) [Lis91]. Per determinare la costante di
normalizzazione 𝑐𝑐 viene imposta la condizione 𝑅𝑅(�⃗�𝑞) = 0 per valori di impulso nel moto
relativo sufficientemente grandi da poter assumere che tutte le interazioni di stato finale
(Coulombiana, Nucleare, quantistiche, ecc) siano trascurabili e quindi la funzione di
correlazione sia pari all’unità, ad esempio nel caso dei protoni il tipico intervallo di
normalizzazione è stato trovato sperimentalmente nell’intervallo:𝑞𝑞 ≈ 80 − 120 𝑀𝑀𝑀𝑀𝑀𝑀𝑐𝑐
.
C’è però da dire che la funzione di correlazione nella (2.1) è una funzione mono-
dimensionale cioè è dipendente da un’unica variabile ( |𝑞𝑞|�����⃗ ). Pertanto essa è una
relazione semplificata. Infatti la funzione di correlazione dipendendo da 𝑝𝑝1���⃗ 𝑒𝑒 𝑝𝑝2����⃗ è una
funzione a sei-dimensioni. Tuttavia nella tesi non analizzeremo questo caso multi
dimensionale assai complesso matematicamente e ci limiteremo al caso mono
dimensionale.
Una delle applicazioni delle funzioni di correlazione tra particelle, soprattutto nella
dinamica della fisica nucleare è quello di ottenere delle informazioni spazio-temporali
delle sorgenti di emissione. Come si vedrà nel successivo paragrafo, tale tecnica può
però essere affetta da quella che si suole chiamare “ambiguità spazio-temporale”. Per
affrontarla e provare a risolvere tale ambiguità oltre alle funzioni mediate in angolo
(angle-averaged) sono state costruite funzioni di correlazione direzionali in cui ben
precise selezioni vengono date all’angolo relativo tra il vettore 𝑃𝑃�⃗ e il vettore �⃗�𝑞 [Lis94].
Come già accennato all’inizio del paragrafo al fine di rendere trascurabili tutte le
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interazioni diverse da quelle di stato finale (FSI) si procede facendo selezioni anche sul
vettore 𝑃𝑃�⃗ che in generale deve essere 𝑃𝑃�⃗ ≫ �⃗�𝑞 . Analisi di funzioni di correlazione al
variare delle condizioni (gate) di impulso totale sono state fatte in passato ed hanno
mostrato come la forma della funzione di correlazione sia sensibile ad essi. Risulta
chiaro che in analisi sperimentali di funzioni di correlazione fra particelle in impulso
relativo diventa estremamente importante misurare quanto meglio possibile i vettori
impulso 𝑝𝑝1���⃗ 𝑒𝑒 𝑝𝑝2����⃗ il che implica lo sviluppo e l’utilizzo di array di rivelatori con grande
risoluzione energetica ed angolare. È inoltre importante al fine di ridurre l’errore
statistico che si siano rivelate un congruo numero di coppie di particelle in coincidenze.
Infatti avere a disposizione una bassa statistica di coppie di particelle rivelate in
coincidenza renderà grande la barra di errore della funzione di correlazione molto
dipendente dalla statistica del numeratore della (2.2).
2.1 Funzione di correlazione protone – protone
L’interferometria di intensità è ampiamente utilizzata per lo studio delle correlazioni
protone–protone. Particelle di questo tipo permettono lo studio delle proprietà spazio-
temporali di un sistema nucleare eccitato in regimi dinamici diversi e in fasi diverse
della stessa reazione. I protoni sono particelle cariche, che hanno anche un vantaggio di
natura strumentale: sono facilmente rivelabili ed identificate con alta risoluzione.
Tipicamente la (2.1) nel caso di studio di evoluzione dinamica di una reazione nucleare
attraverso i protoni viene costruita nel seguente modo:
1 + 𝑅𝑅(|𝑞𝑞|�����⃗ ) = 𝑐𝑐 ⋅ 𝑌𝑌𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐(|𝑞𝑞|�����⃗ )
𝑌𝑌𝑀𝑀𝑐𝑐𝑀𝑀(|𝑞𝑞|�����⃗ ) (2.2)
In cui 𝑌𝑌𝑀𝑀𝑀𝑀𝑥𝑥(|𝑞𝑞|�����⃗ ), il denominatore non correlato, viene costruito con la tecnica del event -
mixing. Tale tecnica consiste nel costruire la medesima variabile del numeratore (e di
cui è dipendente la funzione di correlazione), il modulo dell’impulso relativo |𝑞𝑞|�����⃗ nel
nostro esempio, prendendo coppie di particelle (di protoni nel nostro caso) da eventi
diversi e quindi certamente non correlati in cui la loro emissione risulta per definizione
statisticamente indipendente l’una dall’altra. Tuttavia è stato osservato che gli eventi
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scelti per costruire il denominatore devono appartenere alla medesima classe di quelli
correlati al numeratore, per fare ciò si procede con selezioni di molteplicità totale delle
particelle cariche rivelate (si impone la stessa molteplicità sia nelle coppie in
coincidenza che in quelle del mixing). Si può ulteriormente affinare imponendo
medesimi piani di reazione o utilizzare altre variabili globali che servono in generale a
caratterizzare l’evento di reazione e quindi la classe di evento.
La figura 2.1 presenta un esempio di funzione di correlazione protone-protone misurata
in reazione di 14N+197Au all’energia E/A = 75 MeV/nucleon.
Fig. 2.1 – Funzione di correlazione p-p misurata in reazione 14N + 197Au ad E/A = 75 MeV/nucleon.
In figura 2.1 si osserva come a grandi valori di impulso relativo la funzione di
correlazione diventa piatta, è infatti questa la tipica regione utilizzata per determinare la
costante di normalizzazione c presente nella (2.2) in cui si assume 𝑅𝑅(|𝑞𝑞|�����⃗ ) ≈ 0 il che
implica che le interazioni di stato finale sono trascurabili (l’interazione Coulombiana, la
nucleare e le interazioni quantistiche dovute alla natura fermionica delle due particelle
identiche). Sempre osservando la figura 2.1 si nota l’anti correlazione, 𝑅𝑅(|𝑞𝑞|�����⃗ ) < 0, a
piccoli valori di impulso relativo. Tale anti correlazione è dovuta alla repulsione
Coulombiana e alla natura fermionica delle due particelle che riducono la probabilità
che due protoni possano trovarsi molto “vicini” tra loro nel momento della loro
emissione. Al valore di impulso relativo di 20 MeV/c si osserva un picco nella funzione
di correlazione il che implica che 𝑅𝑅(|𝑞𝑞|�����⃗ ) > 0. Esso è indotto dall’interazione nucleare
che, come sappiamo, per certe condizioni è attrattiva. Il valore di impulso relativo di 20
MeV/c in effetti è quello che risulta nella risoluzione in onde parziali dell’equazione di
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Schrödinger per lo scattering protone-protone nella approssimazione della sola
componente in onda-S (l=0).
La funzione di correlazione protone-protone è calcolata teoricamente attraverso la
cosiddetta “equazione di Koonin-Pratt” [Koo77]:
1 + 𝑅𝑅(𝒒𝒒) = 1 + ∫ 𝑑𝑑𝒓𝒓𝑆𝑆(𝒓𝒓) ∙ 𝐾𝐾(𝒓𝒓,𝒒𝒒) (2.3)
L’equazione (2.3) è ricavata attraverso una trattazione teorica che esula dagli obiettivi
cognitivi del presente lavoro di tesi ma che è possibile trovare nella ref. [Koo77]. Le
principali ipotesi assunte indipendentemente da Koonin nel ’77 e da Pratt nell’84
[Pra84], nel considerare la funzione di sorgente S(r) possono essere riassunte come
segue:
i. Le interazioni tra le particelle che non sono considerate esplicitamente sono
trascurabili. Questo implica che non vi è alcuna interazione con la sorgente dopo
l’emissione;
ii. Invarianza di Galilei, al fine di eliminare la dipendenza dall’impulso relativo
|𝑞𝑞|�����⃗ ;
iii. Le due particelle emesse possono diffondere solo elasticamente;
iv. Non essendoci correlazione all’interno della sorgente, le due particelle vanno ad
angolo relativo piccolo (emissione parallela 𝑃𝑃�⃗ ≫ �⃗�𝑞) .
v. Il ritardo temporale di emissione è molto piccolo (o nullo).
vi. La posizione relativa delle due particelle si definisce dopo l’emissione della
seconda particella.
Analizziamo la (2.3) un po’ più dettagliatamente; a primo membro compare la funzione
di correlazione in funzione dell’impulso relativo misurata sperimentalmente che
nell’equazione rappresenta quindi il dato sperimentale, l’obiettivo è quello di risolvere
l’equazione integrale. A secondo membro è presente un integrale composto da due
funzioni: la cosiddetta funzione sorgente di emissione a due particelle S(𝑟𝑟→
) e la funzione
Kernel K( 𝑟𝑟→
, 𝑞𝑞→
) (il nucleo della funzione integrale). Una volta misurato il primo
-
17
membro, bisogna estrarre la forma spaziale della funzione sorgente S( 𝑟𝑟→
) infatti la
funzione Kernel K(𝑟𝑟→
, 𝑞𝑞→
), è calcolabile come:
𝐾𝐾 �𝑟𝑟→
, 𝑞𝑞→� = �𝛹𝛹𝑞𝑞(𝑟𝑟
→)� − 1 (2.4)
Dove la 𝛹𝛹𝑞𝑞(𝑟𝑟→
) rappresenta la funzione d’onda dello scattering protone-protone per dato
valore di impulso relativo 𝑞𝑞→
, la cui energia relativa è 𝐸𝐸 = 𝑞𝑞2
2𝜇𝜇 [Koo77]. La 𝐾𝐾 �𝑟𝑟
→, 𝑞𝑞→�
contiene tutte le informazioni riguardo l’anti-simmetrizzazione della funzione d’onda
protone-protone, e le mutue interazioni di stato finale Coulombiana e nucleare.
La funzione sorgente 𝑆𝑆(𝑟𝑟→
) è definita come la probabilità di emettere due particelle a
distanza relativa 𝑟𝑟→
= 𝑟𝑟1→− 𝑟𝑟2
→ , calcolata nell’istante in cui è emessa la seconda
particella. Vale a dire con tempi di emissione legati tramite la seguente relazione
𝑡𝑡2 ≥ 𝑡𝑡1. Visto che la S(𝑟𝑟→
) è una distribuzione di probabilità deve essere normalizzata
all’unità. La funzione sorgente S(𝑟𝑟→
) viene stimata o attraverso procedure di best-fit
assumendo che essa abbia una forma funzionale “semplice” di tipo Gaussiano:
𝑆𝑆(𝑟𝑟→
) ∝ 𝑒𝑒− 𝑟𝑟
2
2𝑟𝑟02 (2.5)
in cui compare solo un parametro 𝑟𝑟0 a cui si associa il significato di “taglia di sorgente a
due particelle” oppure la 𝑆𝑆(𝑟𝑟→
) viene “estratta” dall’equazione integrale (2.3) facendo
un’inversione numerica, tale procedura è detta di Imaging, ottenendo così una
distribuzione funzionale in cui per “taglia” si assume la FWHM di tale distribuzione.
-
18
Fig. 2.2 – Ambiguità spazio-temporali nella sorgente a due corpi S(𝑟𝑟→
) [EVP12]
È importante fare notare che a causa del legame temporale suddetto presente nella
funzione di sorgente essa è affetta da, così dette, ambiguità spazio-temporali. Per
descrivere il fenomeno, seppur in maniera semplicistica, possiamo prendere in esame la
figura 2.2. Due protoni rivelati nello stesso evento di collisione possono essere emessi
ad istanti diversi durante la reazione. La funzione sorgente corrisponde alla pura
distribuzione spaziale a due particelle di una ipotetica sorgente emettitrice solo nel caso
limite di vita media nulla. In Figura 2.2, schematicamente è illustrato, in maniera
semplice, quello che può succedere nell’emissione di due protoni da una sorgente a vita
media finita. A sinistra si ha il caso dell’emissione simultanea di due particelle e a
destra quello dell’emissione sequenziale. Il valore della distanza relativa r è calcolato
solo quando viene emessa la seconda particella. Pertanto, la funzione di sorgente nel
caso di destra avrà un’estensione definita dalla reale distribuzione spaziale dei punti di
emissione di protoni 𝑟𝑟0 , unita alla componente 𝑣𝑣1 ∗ (𝑡𝑡2 − 𝑡𝑡1) causata dalla non
simultaneità di emissione delle due particelle. In sostanza S(𝑟𝑟→
) dipende sia dalla vita
media della sorgente emettitrice di protoni che dall’estensione spaziale [EVP12].
Il comportamento della funzione di correlazione protone-protone, a partire dalla
equazione di Koonin-Pratt, al variare dei parametri di taglia e di vita media è stato
studiato in letteratura (fig. 2.3).
-
19
Fig. 2.3 – Funzioni di correlazione calcolate con parametro di taglia 𝑟𝑟0 = 2.5𝑓𝑓𝑚𝑚(sorgente piccola, pannello in alto),
ed 𝑟𝑟0 = 5𝑓𝑓𝑚𝑚 (sorgente grande, pannello in basso).
Un esempio di studi che si trovano in letteratura è rappresentato nella figura 2.3
[EVP12]. In questo caso è stata calcolata la funzione di correlazione protone-protone
per due sorgenti una di taglia più piccola 𝑟𝑟0 = 2.5𝑓𝑓𝑚𝑚 e una più grande 𝑟𝑟0 = 5𝑓𝑓𝑚𝑚 al
variare delle interazioni di stato finale.
La linea tratteggiata si riferisce alla funzione di correlazione ottenuta quando i protoni
interagiscono solo attraverso la repulsione Coulombiana. Questo comporta un’anti-
correlazione a piccoli valori di impulso, q
-
20
di massa intermedia (3< Z
-
21
2.2 Funzioni di correlazione protone-neutrone e neutrone-neutrone: esempi di analisi
Come già detto gli studi delle funzioni di correlazione a due particelle rappresentano
una tecnica di fondamentale importanza per estrarre informazioni sull’estensione
spazio-temporale delle sorgenti di emissione. In particolare, se vengono costruite ed
analizzate funzioni di correlazione tra particelle non identiche è possibile acquisire
informazioni sulla cronologia di emissione delle particelle in esame. Tale tecnica fu
inizialmente suggerita al fine di studiare la cronologia di emissione di particelle cariche
emesse in reazioni tra ioni pesanti [Gel94], e si basava sul confronto degli spettri di
velocità sperimentali con calcoli di traiettorie Coulombiane. Infatti l’idea di base era che
se le particelle fossero state emesse con piccoli ritardi temporali avrebbero dovuto
“sentire” molto la mutua repulsione Coulombiana [Gel95]. Successivamente Lednicky
et al. [Led96], estendono tale tecnica a qualunque tipo di particella e dimostrano come
le funzioni di correlazione siano un osservabile sensibile per determinare differenze
temporali medie di emissione. Un esempio di tali studi condotti a partire da funzioni di
correlazione protone - neutrone si trova nella referenza Ghetti et al. [Ghe01]. Gli autori
intendono capire se nella reazione 58Ni+27Al all’E/A = 45 MeV/nucleon si possa
stabilire una prevalenza temporale di emissione di una particella o dell’altra. Le
particelle cariche (i protoni in particolare) sono rivelati da un array di rivelatori posti a
45° nel sistema del laboratorio mentre i neutroni da scintillatori liquidi NE213 letti da
fototubo, posti a 25°, 45° e 90° nel sistema del laboratorio. Gli autori definiscono due
classi di eventi. Una classe in cui 𝐸𝐸𝑢𝑢 > 𝐸𝐸𝑝𝑝 ed un’altra in cui 𝐸𝐸𝑢𝑢 < 𝐸𝐸𝑝𝑝 , per entrambe
calcolano le funzioni di correlazione neutrone-protone e ne fanno il rapporto, come è
possibile osservare in figura 2.5.
-
22
Fig. 2.5 – Funzione di correlazione sperimentale n-p. C(q) è il caso senza constraints, cerchi pieni pannelli (a) e (b);
Cn(q) è il caso En > Ep pannello (a) cerchi vuoti; pannello (b) quadrati vuoti, Cp(q) caso En < Ep; pannello (c) rapporto
Cn/Cp. [Ghe01]
La figura 2.5 mostra le funzioni di correlazione n-p che gli autori indicano con il
simbolo C(q) nel caso senza generico, cioè senza vincoli (constraints), con Cn(q) nel
caso della classe di eventi 𝐸𝐸𝑛𝑛 > 𝐸𝐸𝑝𝑝 e Cp(q) in quella 𝐸𝐸𝑛𝑛 < 𝐸𝐸𝑝𝑝. La C(q) è presente in
figura sia nel pannello (a) che in quello (b) con cerchi pieni, la Cn(q) è indicata nel
pannello (a) con cerchi vuoti e la Cp(q) è indicate nel pannello (b) con quadrati vuoti.
Nel pannello (c) è riportato il valore del rapporto Cn(q)/Cp(q). Nei pannelli (a) e (b) le
funzioni di correlazione confrontate parrebbero uguali entro gli errori sperimentali
tuttavia nel pannello (c), in cui è presente il rapporto delle due funzioni di correlazione
n-p delle due classi di eventi considerate, si osservano chiaramente deviazioni
dall’unità, anche se, anche in questo caso permangono grandi barre di errore
sperimentale. Tuttavia, gli autori, anche attraverso il confronto con calcoli teorici di
sorgenti evaporative uniti al formalismo di Koonin-Pratt, concludono che dato il buon
accordo tra i modelli e i dati sperimentali, si osserva un tempo di emissione medio
maggiore per i protoni rispetto ai neutroni. Appare comunque chiaro anche che ulteriori
esperimenti andrebbero condotti al fine di approfondire la tematica della cronologia di
emissione soprattutto alla luce di nuovi apparati sperimentali più specifici e potenti in
termini di risoluzione energetica ed angolare e in particolare in termini di efficienza al
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23
fine di accumulare un maggiore numero di coppie in coincidenza e diminuire l’errore
sperimentale sulla funzione di correlazione.
Il secondo esempio di funzione di correlazione che utilizza neutroni emessi in reazioni
nucleari ad energia basse ed intermedie è quello descritto nella referenza N. Colonna et
al. [Col95]. L’esperimento in esame, condotto presso i LNL, consisteva in un fascio di 18O, che all’energia totale di 130 MeV veniva fatto collidere su un target di 26Mg al fine
di produrre, per fusione nucleare, il nucleo composto di 44Ca. L’obiettivo sperimentale
era di studiare le proprietà del nucleo formato, in particolare estrarne informazioni
spaziali di taglia e temporali di vita media. A tal fine, gli autori, hanno utilizzato la
tecnica della funzione di correlazione neutrone-neutrone, sia quella così detta “angle-
averaged” sia la tecnica delle funzioni di correlazione direzionali, trasversale e
longitudinale. Il setup sperimentale consisteva in un array di 18 scintillatori liquidi del
tipo BC501 posti a 2 metri dal target e centrati a 45° nel sistema di riferimento del
laboratorio.
In Fig. 2.6 sono mostrate le funzioni di correlazione neutrone-neutrone per due
intervalli di impulso totale Pcm del centro di massa nel sistema di riferimento del nucleo
composto. Nel pannello a), i cerchi pieni, sono la funzione di correlazione di intervallo
di impulso totale maggiore Pcm > 160MeV/c mentre nel pannello b), con il medesimo
simbolo, è mostrata quella di intervallo minore Pcm < 140MeV/c. In entrambi i pannelli
le linee rappresentano calcoli teorici di funzioni di correlazione, nel frame di Koonin-
Pratt, a partire da neutroni emessi da sorgenti con vita media di 700 fm/c (tipicamente
emissione di pre-equilibrio) nel caso della linea continua e con vita media più lunga
1200 fm/c (in cui gradi di libertà interni iniziano ad equilibrarsi e le particelle
evaporano statisticamente secondo una funzione di tipo Maxwelliano) nel caso della
linea tratteggiata.
-
24
Fig. 2.6 – Funzioni di correlazione “angle-averaged” per due diversi intervalli del momento totale della coppia di
neutroni, nel frame del nucleo composto. Le curve solide e tratteggiate sono i risultati di calcoli teorici per due diversi valori di vita media della sorgente. [Col95]
Il confronto tra le funzioni di correlazione teoriche e sperimentati ha portato gli autori
ha dare una stima della taglia del nucleo composto, della sua vita media e anche ad
individuare la frazione di neutroni emessi nella prima fase della reazione (pre-
equilibrio), dimostrando come le funzioni di correlazione neutrone-neutrone siano una
potente tecnica per studiare anche un caso fisico come quello della fusione nucleare.
Tuttavia anche in questo caso si osservano barre di errore nella funzione di correlazione
grandi dovute alla scarsa statistica di neutroni rivelati in coincidenza e anche l’errore
sull’impulso relativo è grande (distanza tra due punti successivi in figura 2.6)
soprattutto a bassi valori in cui la risoluzione peggiora notevolmente ed addirittura non
vi sono più punti per valori inferiori di 8MeV/c, diventa quindi importante fare ulteriori
investigazioni ed esperimenti soprattutto alla luce di nuovi setup sperimentali più
potenti ed efficienti.
-
25
Capitolo 3 - Rivelatori a Scintillazione
3.1 Caratteristiche generali
Il processo di scintillazione è uno dei metodi efficienti ed utilizzati, per la rivelazione di
molti tipi di radiazioni.
Il passaggio di radiazioni ionizzanti produce in certi materiali, detti scintillatori,
emissione di luce visibile (o talvolta anche nello spettro dell’ultravioletto), che,
opportunamente raccolta, dà informazioni sulle caratteristiche, energia e tipo, della
radiazione incidente che ha interagito con il materiale.
Le principali caratteristiche che rendono ottimo uno scintillatore sono:
i. Alta efficienza di scintillazione (conversione in luce dell’energia depositata -
fotoni/MeV- con resa elevata);
ii. Resa in luce (quasi) proporzionale all’energia depositata, ma dipendente dal tipo
di particella;
iii. Spettro della luce di scintillazione adatto ad essere rivelato da opportuni
fotosensori (ad esempio il fotomoltiplicatore o fotodiodo al Silicio);
iv. Trasparenza alla luce emessa (lunghezza di assorbimento elevata) in modo che
essa non venga assorbita nuovamente dal rivelatore;
v. Risposta veloce (tempi di decadimento brevi) nell’emissione della luce;
vi. Indice di rifrazione simile a quello del vetro (~ 1.5) al fine di avere un ottimo
accoppiamento ottico con il fotosensore (cioè che esso non rifletta la luce ma la
raccolga).
É estremamente complicato che un rivelatore abbia tutte queste qualità insieme anzi si
può affermare che nessun materiale possiede contemporaneamente tali proprietà, infatti
la scelta di un particolare scintillatore è sempre un compromesso tra queste proprietà.
Gli scintillatori più utilizzati si dividono in cristalli inorganici, scintillatori liquidi e
plastici organici. Gli scintillatori inorganici tendono ad avere migliore resa in luce in
uscita e hanno una linearità tra la resa in luce e l’energia depositata molto buona. Sono
prevalentemente caratterizzati da tempi di risposta lenti, tranne alcune eccezioni. I
-
26
cristalli inorganici sono anche caratterizzati da un alto valore di Z dei componenti e da
un’alta densità, queste proprietà ne favoriscono l’utilizzo per la spettroscopia γ, oltre
che per la rivelazione di particelle cariche. Invece, gli scintillatori organici hanno una
resa in luce minore, tuttavia sono molto veloci nei tempi di risposta. Sono
preferibilmente utilizzati per la spettroscopia β e per la rivelazione di neutroni veloci.
Il processo di scintillazione può avvenire attraverso tre meccanismi:
▪ Fluorescenza: emissione di luce visibile da parte di atomi eccitati, con tempi caratteristici da uno a qualche centinaio di ns;
▪ Fosforescenza: emissione di luce visibile con tempi dell’ordine dei millisecondi o secondi, e spettro di emissione con lunghezze d’onda maggiori;
▪ Fluorescenza ritardata: stesso spettro di emissione della fluorescenza ma con tempi caratteristici maggiori.
Un materiale, per essere un ottimo scintillatore, dovrebbe convertire una frazione
quanto più ampia possibile di energia di radiazione incidente in fluorescenza
(componente veloce), minimizzando eventuali contributi dovuti alla fosforescenza e alla
fluorescenza ritardata.
L’efficienza di scintillazione è definita come la frazione di tutta l’energia incidente di
una particella che è convertita in luce visibile. Dal punto di vista dello sperimentatore si
vorrebbe avere un’efficienza elevata, tuttavia sono parecchi i processi di diseccitazione
che avvengono nelle molecole senza emissione di luce, nei quali l’energia della
particella incidente viene “persa” in calore o nella “rottura” delle parti cristalline (così
detto danno da radiazione). Tutti questi processi di diseccitazione che nel cristallo non
producono luce rilevabile dal fotosensore prendono il nome di “quenching”. Una
componente aggiuntivo per gli scintillatori è il cosiddetto “waveshifter”. La sua
funzione è quella di assorbire la luce prodotta dalla scintillazione primaria per poi
irradiarla ad una lunghezza d’onda diversa tipicamente maggiore. Questo è molto utile
non solo per ridurre i processi di auto assorbimento in grandi scintillatori liquidi o
plastici, ma anche per avere una efficienza di accoppiamento tra lo spettro di emissione
dello scintillatore e lo spettro di assorbimento del tubo fotomoltiplicatore o del
fotodiodo al Silicio.
-
27
3.2 Scintillatori Organici
Gli scintillatori organici vengono suddivisi in cristalli organici, scintillatori organici
liquidi e scintillatori plastici. Tra i cristalli organici più diffusi abbiamo l’antracene e lo
stilbene. Hanno tempi di risposta abbastanza veloci (dell’ordine di qualche ns) e sono
materiali relativamente fragili, difficili da ottenere in grandi dimensioni e difficili da
modellare per ottenere diverse forme. L’antracene è uno dei materiali più utilizzati e
possiede la più alta efficienza di scintillazione rispetto a qualsiasi altro scintillatore
organico.
Per quanto riguarda gli scintillatori organici liquidi essi sono soluzioni di materiali
organici in solventi organici come benzene, xylene ecc. Anche essi hanno tempi di
risposta veloci e la loro efficienza aumenta con la concentrazione del soluto. Un loro
vantaggio è quello di poter aggiungere altri materiali alla miscela in modo da aumentare
l’efficienza, come ad esempio gli “waveshifter”, sono tuttavia sconsigliabili in quanto
risultano nocivi per la salute dello sperimentatore, hanno dimensioni generalmente
“grandi” con una grande risoluzione spaziale delle particelle rivelate e non possono,
generalmente, essere utilizzati sotto vuoto.
Gli scintillatori plastici sono i più usati in fisica nucleare e particellare in quanto, grazie
alla loro struttura, si possono lavorare e modellare facilmente. Hanno tempi di risposta
molto veloci (2-3 ns) e presentano un’alta efficienza in termini di resa in luce. Il
materiale plastico, essendo relativamente economico e semplice da modellare, si presta
ad essere utilizzato per rivelatori di grandi volumi (anche dell’ordine centinaia di cm3)
tuttavia per questi rivelati il fenomeno dell’auto-assorbimento non è più trascurabile e
bisogna tenerne conto. Risulta più spesso utile utilizzare rivelatori plastici di dimensioni
di pochi cm3 (dell’ordine di una ventina o trentina). Possono essere utilizzati sotto
vuoto. Esiste, anche, un’ampia gamma di scintillatori plastici composti da fibre di
piccolo diametro, utilizzati come fibre singole oppure raggruppati in fasci o nastri. Si
adoperano prevalentemente per la rivelazione della posizione di interazione delle
particelle ed hanno una grande risoluzione spaziale.
-
28
Nelle applicazioni di fisica particellare, gli scintillatori plastici possono essere esposti
ad elevati livelli di radiazione, il quale portano ad un danneggiamento del processo di
emissione di luce di scintillazione.
Generalmente gli scintillatori organici sono utili per la rivelazione diretta di particelle
beta (elettroni veloci) o particelle leggere (ioni positivi) come protoni, neutroni (tramite
scattering del protone), tritoni, alfa e isotopi delle alfa. Oltre a ciò sono facilmente
adattabili al rilevamento dei neutroni veloci.
Nei materiali organici il processo di fluorescenza nasce dalle transizioni che avvengono
nella struttura dei livelli energetici delle singole molecole ed è osservato in una data
specie molecolare indipendentemente (o quasi, perché ci potrebbe essere influenza della
temperatura) del suo stato fisico. Una vasta categoria di scintillatori organici è composta
da molecole con ben determinate proprietà di simmetria che danno origine a ciò che è
noto come struttura π-elettrone. In questo tipo di molecole è presente un doppio spettro
energetico, di singoletto o tripletto, a seconda dello spin. Come mostrato in figura 3.1,
l’assorbimento della radiazione induce una transizione dallo stato fondamentale 𝑆𝑆00 ad
uno degli stati 𝑆𝑆1,𝑆𝑆2,𝑆𝑆3, dagli ultimi due stati si ha un decadimento immediato ( t < 10
pc) verso il primo stato eccitato elettronico 𝑆𝑆1 mediante un processo chiamato
conversione interna senza emissione di radiazioni. Da questo livello si ha poi, dopo un
tempo di qualche ns, una transizione verso uno degli stati vibrazionali (che differiscono
dallo stato fondamentale S00 di circa 0.15 eV ciascuno) di 𝑆𝑆0 (compreso il livello dello
stato fondamentale S00) con emissione di fotoni che spiega il fenomeno della pronta
fluorescenza. Il processo di fosforescenza avviene invece quando il sistema passa dallo
stato di singoletto allo stato di tripletto (o viceversa) per poi decadere allo stato
fondamentale. Nello stato 𝑇𝑇1 alcune molecole possono essere eccitate termicamente e
passare allo stato 𝑆𝑆1 , per poi decadere successivamente attraverso il processo di
fluorescenza. Tale processo rappresenta l’origine della fluorescenza ritardata nei
materiali organici.
-
29
Fig. 3.1 – Livelli energetici di una molecola inorganica con struttura π-elettrone [BIR64]
Detta τ la costante di tempo di decadimento della fluorescenza per il livello 𝑆𝑆10, si avrà
che l’intensità al tempo t dopo l’eccitazione sarà:
𝐼𝐼 = 𝐼𝐼0𝑒𝑒−𝑡𝑡/𝜏𝜏 (3.1)
Nella maggior parte degli scintillatori organici τ è di qualche ns e la componente di
scintillazione risulta essere abbastanza veloce.
Esistono però quei materiali che presentano sia una componente veloce che una lenta e
si ha un’emissione la cui intensità risulta essere la sovrapposizione di più esponenziali
ognuno con il suo tempo caratteristico (ns per la componente veloce e diverse centinaia
di ns per la componente lenta), assumendo istantaneo il tempo di salita del segnale
possiamo scrivere la seguente relazione:
𝐼𝐼 = 𝐼𝐼𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑡𝑡𝑒𝑒−𝑡𝑡/𝜏𝜏𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓 + 𝐼𝐼𝑓𝑓𝑠𝑠𝑐𝑐𝑠𝑠𝑒𝑒−𝑡𝑡/𝜏𝜏𝑓𝑓𝑠𝑠𝑐𝑐𝑠𝑠 (3.2)
In figura 3.1, le lunghezze d’onda corrispondenti alle frecce in alto rappresentano il
fenomeno di assorbimento da parte del materiale. Le transizioni indotte dalla
fluorescenza sono rappresentate dalle frecce rivolte verso il basso ed hanno energia
inferiore al minimo richiesto per l’eccitazione. Questo causa una piccola
sovrapposizione tra spettro di assorbimento e di emissione (spesso chiamato “Stokes
shift”), che ha come conseguenza un lieve auto-assorbimento da parte della
fluorescenza.
-
30
Fig. 3.2 – Spettro di assorbimento e di emissione per un tipico scintillatore organico [KNO]
3.3 Risposta in luce di uno scintillatore
Negli scintillatori, come già detto, solamente una frazione dell’energia depositata è
convertita in luce, mentre il resto dà luogo a processi non radiativi. L’efficienza di
scintillazione, cioè la frazione di energia depositata da una radiazione (ionizzante o non)
effettivamente convertita in luce, dipende sia dal tipo di particella sia dalla sua energia.
Tuttavia in alcuni casi, potrebbe essere indipendente da quest’ultima, è questo il caso in
cui vi è linearità fra resa in luce ed energia iniziale della particella. Per gli scintillatori
organici, la risposta di scintillazione per gli elettroni è lineare dall’energia di circa 125
keV in poi. Per particelle cariche più pesanti degli elettroni, come protoni o particelle
alfa (e loro isotopi), la risposta, a parità di energia, è minore rispetto agli elettroni, che
può arrivare sino ad un fattore 10 di conteggi in meno rispetto all’equivalente energia
rilasciata dagli elettroni per valori inferiori al MeV, e segue un andamento non lineare
ad energie elevate, pur restando sempre sotto l’equivalente energia depositata dagli
elettroni come mostrato in Figura 3.3, in cui è mostrato un tipico spettro di risposta di
scintillazione per un comune scintillatore plastico, (NE 102). Per tale motivo, nella
nomenclatura scientifica è in uso la grandezza MeVee (MeV electron equivalent) in
modo da uniformare la resa in luce con una grandezza assoluta riferita agli elettroni.
-
31
Fig. 3.3 – Risposta di scintillazione per un comune scintillatore plastico (NE 102) eccitato da elettroni e
protoni[KNO].
La risposta in luce degli scintillatori organici può essere al meglio descritta da una
relazione che lega la frazione di luce emessa dL per unità di lunghezza del percorso
dL/dx, con la perdita di energia dE della particella carica dE/dx per unità di lunghezza
del percorso. In assenza di processi di quenching la resa luminosa risulta essere
proporzionale all’energia persa (stopping power). Dunque nel caso ideale di linearità si
avrà che:
𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑
= 𝑆𝑆 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑
(3.3)
Dove S è l’efficienza di scintillazione e dE/dx lo stopping power del materiale. In molti
casi la relazione non è lineare, ad esempio per protoni, particelle alfa o particelle cariche
ancora più pesanti (Z≥3). In letteratura è utilizzata una relazione, suggerita
empiricamente da Birks [BIR64], basata sull’assunzione che un’alta densità di
ionizzazione, lungo la traccia della particella, porti a fenomeni di diseccitazione privi di
emissione di luce ed ad un conseguente abbassamento dell’efficienza di scintillazione,
in particolare, secondo Birks buona parte dell’energia rilasciata dalla particella nel
rivelatore e non convertita in luce doveva essere responsabile del danneggiamento della
struttura cristallina del rivelatore o comunque delle molecole che lo costituiscono.
-
32
Supponendo che la densità di molecole danneggiate dalla particella nel suo percorso
all’interno del rivelatore sia proporzionale alla densità di ionizzazione della particella
stessa, indicandone con B la costante di proporzionalità, inoltre assumendo di indicare
con k la frazione di molecole che all’interno del rivelatore causano il quenching Birks
corresse la precedente formula con la seguente, detta appunto formula di Birks:
𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑
=𝑆𝑆𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑀𝑀
1+𝑘𝑘𝑘𝑘𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑀𝑀 (3.4)
La costante kB si ottiene empiricamente attraverso un’operazione di fit della relazione
(3.4) sugli spettri sperimentali di risposta in luce di un rivelatore, e dipende nel caso più
generale dal tipo di scintillatore, dalla particella incidente e dalla sua energia.
Negli scintillatori organici è la fluorescenza a rappresentare la maggior parte della luce
di scintillazione osservata, in altri casi si osserva anche una componente con lunga vita
media, appartenente alla fluorescenza ritardata. La curva corrispondente alla resa di
entrambi i processi può essere rappresentata come la somma dei due decadimenti
esponenziali composti dalla componente lenta (pochi ns) e veloce (centinaia di ns).
In alcuni scintillatori è possibile individuare il tipo di particella che deposita energia
all’interno di essi. La componente lenta del processo di emissione dipende dalla perdita
di energia specifica (stopping power) dE/dx, quindi poiché particelle diverse rilasciano
energia in modo diverso, viene analizzato il segnale prodotto del fotosensore, al quale il
materiale scintillante è associato, per determinare la loro natura. Questa tecnica prende
il nome di Pulse Shape Discrimination (PSD). Vari scintillatori organici, come lo
stilbene o scintillatori liquidi, sono particolarmente indicati per il PSD a causa delle
differenze presenti nella componente lenta indotta da diverse radiazioni.
-
33
Fig. 3.4 – Evoluzione temporale degli impulsi di scintillazione nello stilbene (uguale intensità al t=0) al passaggio di
particelle diverse [KNO]
In figura 3.4 sono mostrate le differenze per lo stilbene, al passaggio di particelle alfa,
neutroni veloci (protoni di rinculo) e raggi gamma (elettroni veloci). Tuttavia
attualmente sul mercato sono presenti, oltre ai classici, già citati, stilbene e scintillatori
liquidi, anche altri tipi di scintillatori plastici, come l’EJ 276 (già EJ 299-33) che hanno
ottime capacità di discriminazione attraverso l’analisi in forma del segnale, non solo tra
gamma e protoni ma anche tra particelle cariche leggere [EVP18a,EVP18b] che sono
molto promettenti per future applicazioni nella fisica nucleare di energie basse ed
intermedie al fine di costruire nuovi e più performanti sistemi di rivelazione.
3.4 Rivelazione di neutroni veloci
I neutroni, essendo elettricamente neutri, non interagiscono nel materiale assorbitore
mediante l’interazione Coulombiana (processo di ionizzazione), ma solo mediante
l’interazione nucleare, il che è il diretto responsabile della generale bassa efficienza di
rivelazione (numero di particelle rivelate rispetto al numero totale incidente nel
rivelatore) dei neutroni, circa 1% per cm3 di materiale plastico alle energie incidenti 1≤
En ≤100 MeV, rispetto al tipico 100% delle particelle cariche nel medesimo intervallo
di energia (una volta superata una soglia essenzialmente di carattere elettronico).
-
34
I metodi di rivelazione dei neutroni veloci (En ≥ 1 MeV) sono basati sulla loro
rivelazione indiretta attraverso urti elastici (tipicamente con nuclei di Idrogeno
(protoni)). In tale interazione il neutrone incidente trasferisce una parte della sua energia
al target (o anche tutta in target di Idrogeno), dando origine ad un nucleo di rinculo.
Quando il neutrone incidente raggiunge energie almeno dell’ordine del MeV vengono
prodotti nuclei di rinculo (di almeno qualche centinaia di keV) che permettono la
rivelazione dei neutroni veloci. Tipicamente il target più utilizzato per questo tipo di
processi è l’Idrogeno che, alle basse ed intermedie energie, grazie alla sua ampia
sezione trasversale di scattering neutronico massimizza la sezione d’urto del processo.
Durante un singolo urto con il nucleo di Idrogeno il neutrone incidente può trasferire
fino a tutta la propria energia.
Nelle applicazioni che coinvolgono la rivelazione di neutroni veloci è spesso importante
misurare l’energia del neutrone incidente. Nel caso in cui il neutrone venga rivelato con
un processo fisico diverso dallo scattering elastico (Q di reazione diverso da zero)
bisogna tener conto che le informazioni riguardo l’energia cinetica dei neutroni sono
perse se l’energia del neutrone incidente è molto più piccola rispetto all’energia liberata
durante la reazione (Q-valore). Tuttavia, se l’energia del neutrone incidente non risulta
più essere trascurabile rispetto al Q della reazione, l’energia dei prodotti di reazione (in
particolare del nucleo di rinculo) può essere usata per misurare l’energia iniziale del
neutrone. Dunque misurando le energie dei prodotti di reazione e sottraendo a queste il
Q-valore si potrebbe risalire all’energia del neutrone incidente con buona
approssimazione. Ad esempio, nel caso di scattering elastico Q = 0 per stimare l’energia
dei neutroni incidenti si utilizza tale metodo solo se i nuclei di rinculo hanno energie
misurabili (metodo del nucleus recoil).
Le diverse metodologie e tecniche utilizzate per la misurazione dell’energia dei neutroni
veloci sono proprie della cosiddetta spettroscopia di neutroni veloci. Talvolta lo scopo
della misura è quello di rivelare l’eventuale presenza dei neutroni, ed eventualmente
contarne il numero, senza misurarne l’energia. Tali contatori possono convertire i
neutroni in particelle cariche e registrarne semplicemente gli impulsi dal rivelatore. Nel
caso di scattering elastico di un neutrone con un nucleo bersaglio, attraverso
l’imposizione della conservazione della quantità di moto e dell’energia, l’energia del
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35
nucleo di rinculo (nel sistema del laboratorio) sarà dato dalla seguente relazione (En
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che combinata con la 3.5 fornisce la relazione finale dell’energia del nucleo di rinculo in
termini del suo angolo di scattering:
𝐸𝐸𝑅𝑅 =4𝐴𝐴
(1+𝐴𝐴)2(1− 𝑐𝑐𝑐𝑐𝑠𝑠2𝑐𝑐 )𝐸𝐸𝑛𝑛 (3.7)
Dalla relazione (3.7) è immediato osservare che l’energia trasferita al nucleo di rinculo
è determinata dall’angolo di scattering. Nel caso in cui il neutrone viene deviato
leggermente rispetto alla sua direzione iniziale, il nucleo di rinculo viene emesso quasi
perpendicolare alla direzione del neutrone incidente (θ = 90°) e la 3.7 risulta prossima
allo zero. Nel caso opposto, una collisione frontale tra neutrone incidente e target
porterà ad un rinculo nella stessa direzione (θ = 0°), con energia massima data da:
𝐸𝐸𝑅𝑅|𝑚𝑚𝑚𝑚𝑥𝑥 =4𝐴𝐴
(1+𝐴𝐴)2𝐸𝐸𝑛𝑛 (3.8)
Le energie di rinculo si distribuiscono tra zero ed un valore massimo e visto che tutti gli
angoli ( nel centro di massa ) di scattering sono consentiti, si osserverà uno spettro
energetico, per il nucleo di rinculo, continuo dal valore limite di zero (θ = 90°) al valore
massimo possibile trasferibile 𝐸𝐸𝑅𝑅|𝑚𝑚𝑚𝑚𝑥𝑥 (θ = 0°). Data la relazione (3.8) risulta ovvio che
solo nel caso del bersaglio di Idrogeno si potrà avere (θ = 0°) che tutta l’energia del
neutrone sia trasferita al protone. È questo un ulteriore motivo del largo uso di rivelatori
plastici in cui vi è un’alta concentrazione di nuclei di Idrogeno, tecnica del proton
recoil, come mostrato in Figura 3.6, dove è mostrato lo spettro continuo di protoni di
rinculo che vanno dal valore limite energetico di 0 sino al massimo En, energia dei
neutroni incidenti monoenergetici. In Figura 3.6 nell’asse ordinate vi è riportata la
probabilità di rivelazione del nucleo di rinculo per data energia, come si osserva essa è
costante, il che indica l’equa probabilità di angolo di scattering.
L’efficienza di rivelazione di un dispositivo basato sul rinculo dei protoni (protons
recoil) o di altri nuclei può essere calcolato a partire dalla sezione d’urto totale di
scattering σs. Se sono presenti nuclei di una sola specie allora l’efficienza intrinseca sarà
data semplicemente da:
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𝜀𝜀 = 1 − 𝑒𝑒𝑥𝑥𝑝𝑝 (−𝑁𝑁𝜎𝜎𝑓𝑓𝑑𝑑) (3.9)
Dove N è la densità numerica dei nuclei target, σs la sezione d’urto di scattering per
questi nuclei e d la lunghezza del tragitto attraverso il rivelatore per i neutroni incidenti.
Fig. 3.6 – Distribuzione di energia Ep dei protoni di rinculo prodotta da neutroni monoenergetici. Energie indicate per
vari valori dell’angolo di emissione di rinculo θ come indicato dall’Eq. 3.7 [KNO].
Il modo più semplice per utilizzare il rinculo del protone (proton recoil) per rivelare
neutroni veloci è attraverso l’utilizzo di scintillatori contenenti idrogeno. I neutroni
veloci incidenti sullo scintillatore possono dare origine a protoni di rinculo la cui
distribuzione di energia è approssimativamente rettangolare, come visto in figura 3.6,
variando da zero a tutta l'energia dei neutroni. Poiché, tipicamente, rispetto alle
dimensioni del rivelatore, il percorso dei protoni di rinculo prodotti è minore, la loro
energia viene depositata all’interno dello scintillatore e la distribuzione dell’altezza
dell'impulso prevista è anch'essa approssimativamente rettangolare. I rivelatori a
scintillazione contenenti idrogeno sono ampiamente applicati in molte aree di ricerca
sulla fisica dei neutroni.
Capitolo 4 - Caratterizzazione dello scintillatore plastico EJ
276 (ex 299-33) con sorgenti radioattive e fasci ionici
Nel presente capitolo verranno illustrati alcuni test eseguiti presso i Laboratori
Nazionali del Sud di Catania riguardanti le proprietà di discriminazione con la tecnica
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della PSD dello scintillatore plastico EJ 276 per la rivelazione di neutroni veloci e
particelle cariche.
Il modello EJ 276, inizialmente chiamato EJ 299-33 [Poz13], prodotto dalla Eljen
Technology, è lo scintillatore plastico con proprietà uniche di discriminazione per
neutroni, raggi gamma e particelle cariche, e rappresenta una valida alternativa agli
scintillatori liquidi comunemente usati per la discriminazione gamma-neutrone.
Fig. 4.1 – Scintillatore EJ 276 [ELJ]
4.1 Test con sorgenti radioattive
Il primo test eseguito, in ordine temporale sull’ EJ 276 presso i LNS, è stato condotto
attraverso l’utilizzo di sorgenti radioattive, al fine di minimizzare il rumore di fondo
(background) che solitamente si ha nelle reazioni nucleari indotte da fasci ionici
[EVP18a]. Tale studio è stato condotto presso i Laboratori Nazionali del Sud – INFN di
Catania all’interno dei lavori di upgrade del multirivelatore CHIMERA. I test sono stati
eseguiti utilizzando una sorgente di Americio-Berillio (Am-Be) che emette neutroni e
gamma. I neutroni vengono emessi grazie alla combinazione di una sorgente emettitrice
𝛼𝛼 come, ad esempio, nel nostro caso la sorgente di Americio-241 ed un nucleo stabile
come il Berillio-9 che ha un neutrone relativamente poco legato (energia di legame 1,7
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MeV). Il 9Be cattura (per fusione nucleare) la particella 𝛼𝛼 e emette un neutrone secondo
la seguente reazione nucleare: 4𝐻𝐻𝑒𝑒+9𝐵𝐵𝑒𝑒 −> 12𝐶𝐶 + 𝑛𝑛
Il cui Q-Valore è 5,7 MeV. Si ottiene quindi una continua emissione di neutroni con
uno spettro energetico che varia dai 5 MeV circa sino ad un massimo che dipende
dall’energia della particella α (tipicamente circa 5 MeV nella sorgente di 241Am). La
figura 4.2 mostra un tipico spettro di neutroni emessi da una sorgente radioattiva di Am-
Be.
Fig. 4.2 - [Pic13]
Sono state utilizzate anche altre due sorgenti emettitrici α, così detta a tre picchi a
radionuclidi misti (239Pu, 241Am e 244Cu) di energie intorno a 5 MeV, ed un’altra di
Torio-228 (228Th) e varie sorgenti gamma come 22Na, 60Co e 137Cs. Lo scintillatore
plastico, utilizzato nei test, di dimensione 3 cm x 3 cm x 3 cm, è stato posto ad una
distanza di circa 3 cm dalla sorgente, utilizzato sotto vuoto e non schermato per rilevare
neutroni, raggi gamma e particelle alfa. Otticamente accoppiato alla finestra di quarzo
del tubo fotomoltiplicatore 9514B, prodotto dalla EMI, alimentato a 1,7 KV. La
lunghezza d’onda di emissione dell’EJ 276 il cui picco è a circa 420 nm, è in accordo
per il 70% con lo spettro di assorbimento del fotocatodo del PMT. Gli impulsi di
segnale anodici del fotomoltiplicatore sono stati digitalizzati tramite l’elettronica GET
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(General Electronics for TPC) [Gio16, Pol18], registrati e memorizzati in un sistema di
acquisizione dati per un’opportuna analisi off-line.
Nel test, dapprima si è proceduto alla opportuna calibrazione del rivelatore utilizzando
le sorgenti radioattive di gamma. Le caratteristiche fondamentali di un rivelatore unito
ad un’opportuna elettronica sono la funzione di altezza dell’impulso L(E) e la
risoluzione dL(E)/L(E). I raggi gamma interagendo con un materiale (il rivelatore ed
esempio), producono elettroni attraverso l’effetto fotoelettrico, l’effetto Compton o la
produzione di coppie (e+-e-), se energeticamente possibile. Nel caso degli scintillatori
plastici di piccole dimensioni e con basso numero atomico, l’energia dei raggi gamma
incidenti è trasferita attraverso lo scattering Compton agli elettroni di rinculo. In uno
scintillatore organico la risposta di scintillazione per elettroni con energie superiori a
~150 keV si assume essere lineare. Per verificare la linearità ed arrivare alla
calibrazione energetica dello scintillatore, sono state utilizzate le sorgenti di 22Na, 60Co
e 137Cs, di energie di “Compton edge” (“spalla” Compton) rispettivamente di 341 keV e
1062 keV corrispondenti a 511 keV e 1275 keV per i raggi gamma della sorgente di 22Na, energia di Compton edge di 1041 keV corrispondenti a 1173 keV e 1332 keV per
i raggi gamma della sorgente di 60Co, ed energia di Compton edge di 447 keV
corrispondente a 662 keV per i raggi gamma della sorgente di 137Cs. In figura 4.3 è
mostrato lo spettro del profilo Compton ricavato dagli autori per la sorgente di 137Cs.
Fig. 4.3 – Spettro gamma della componente totale dell’emissione luminosa non calibrata prodotta dalla sorgente di
137Cs [EVP18a].
Per avere una buona calibrazione energetica il Compton edge deve essere determinato
con una precisione il più accurata possibile nello spettro Compton del gamma, e si sa
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che la scelta della posizione corrispondente alla massima energia elettronica della
distribuzione dipende sia dallo scintillatore che dall’elettronica. Gli autori al fine di
determinare il “miglior” punto (ed il corrispondente canale elettronico) dopo il massimo
dello spettro a cui associare l’energia del Compton edge, hanno confrontato, attraverso
procedure di best fit, i valori corrispondenti al 90%, al 70% e al 50% del massimo oltre
il picco per ogni raggio gamma. Per lo scintillatore EJ 276 gli autori hanno osservato
che il caso migliore (con varianza più piccola) è quello quando si considera il 50% dal
picco dello spettro.
Dopo aver opportunamente associato canale elettronico ed energia del gamma
corrispondente si è osservato un’ottima linearità nella calibrazione energetica
dell’emissione totale di luce dello scintillatore plastico (Figura 4.4).
Fig. 4.4 – Calibrazione energetica dell’emissione di luce totale (LTOT) espressa in keV dello scintillatore, con energie
di Compton edge per i raggi gamma delle sorgenti. LTOT = a*canali+b, con parametri a = 2,25 keV/channel, b= -61,6
keV e deviazioni standard di σa = 0,0487 keV/channel, σb = 20,3 keV. [EVP18a]
Per quanto concerne la misura dell’energia dei neutroni (protoni) che arrivano al
rivelatore, fattore molto importante soprattutto per la stima dell’energia di soglia per
varie particelle, si è proceduto ad esprimere la luce totale emessa (LTOT) in termini di
MeV equivalente di elettroni (MeVee), sappiamo infatti, come già detto nel capitolo 3
del presente lavoro di tesi, che a causa del quenching, a parità di energia, un elettrone ed
una particella più massiva come ad esempio un protone (ma il fenomeno si osserva
anche tra un tipo di particella ed una più massiva), non si avrà la medesima resa in luce,
ragione per cui si è preferito operare in un unità energetica equivalente. Tuttavia proprio
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per studiare l’energia minima rivelabile dei neutroni (energia di soglia) che ovviamente
è il risultato sia del rivelatore ma anche della sua elettronica, si è cercato di stimare
l’energia dei neutroni a partire dalla loro luce totale emessa (equivalente agli elettroni).
In uno scintillatore plastico come è l’EJ 276, l’emissione luminosa prodotta dai neutroni
non mostra una semplice dipendenza lineare dall’energia da loro posseduta, come nel
caso di altre particelle. Infatti si è visto che la relazione tra la luce totale emessa
(espressa in elettroni equivalenti) e l’energia dei protoni (neutroni) dipende dalle
concentrazioni di H e C in tale scintillatore. Al fine di ottenere una relazione funzionale
tra la luce totale emessa (Lout) e l’energia depositata dai neutroni (Edep) Cecil et al.
[Cec79], a seguito di molti studi sull’interazione dei neutroni nei rivelatori plastici
hanno proposto la seguente parametrizzazione esponenziale:
𝐿𝐿𝑐𝑐𝑜𝑜𝑡𝑡 = 𝑚𝑚𝐸𝐸𝑑𝑑𝑒𝑒𝑝𝑝 − 𝑏𝑏(1− 𝑒𝑒−𝑐𝑐𝐸𝐸𝑑𝑑𝑒𝑒𝑝𝑝) (4.1)
Nel caso dell’EJ 276, gli autori hanno adottato come valori dei parametri dell’Eq (4.1)
quelli dati dal lavoro fatto da Lawrence et al. [Law14], applicando solo un piccolo
adattamento dovuto alla differenza di integrazione temporale del segnale, i valori usati
sono: a = 0,8, b = 3,9 e c = 0,22, espressi in rispettivamente MeVee*MeV-1, MeVee e
MeV-1; da cui segue che Lout è in MeVee e Edep in MeV.
Al fine di studiare le capacità di discriminazione in forma del segnale prodotto dai
neutroni e dai raggi gamma sono state utilizzate due sorgenti, quella di Am-Be e quella
di 60Co. Dagli studi effettuati in precedenza sulla sorgente Am-Be [Not69, Mar95], sono
stati misurati attentamente gli spettri di energia dei neutroni con energie da poche
centinaia di keV a 10 MeV e osservati processi di assorbimento dei raggi gamma da
parte della stessa sorgente. Per tale ragione, è stata utilizzata per lo studio della PSD
anche la sorgente di 60Co.
Così come dichiarato dalla casa costruttrice [ELJ] lo scintillatore EJ 276, ha tre costanti
di decadimento: 13 ns, 50 ns e 460 ns per le interazioni con i neutroni e 13 ns, 35 ns e
270 ns per le eccitazioni dovute ai raggi gamma. In virtù delle diverse costanti di
decadimento questo scintillatore plastico è dotato di analisi in forma del segnale per la
discriminazione delle particelle, gli autori hanno analizzato tali proprietà discriminanti
definendo tre finestre temporali di integrazione dell’impulso digitalizzato del PMT: per
la componente totale (Total) in un intervallo di tempo di 30-600 ns, per la componente
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veloce (Fast) in un intervallo di 30-150 ns e per la componente lenta (Slow) in un
intervallo di 200-600 ns. Grazie alla digitalizzazione del segnale la scelta delle tre
finestre di integrazione per la definizione delle componenti Fast, Slow e Total del
segnale è stato fatto off-line, successivamente all’esperimento-test, e via software, sono
infatti state provate diverse finestre di integrazione temporale del segnale sino ad
ottenere quelle suddette considerate ottimali. Questo in effetti, è un bel vantaggio
introdotto da una elettronica di tipo digitale, rispetto a quella analogica tradizionale, per
la quale tale processo di integrazione avveniva on-line (durante la presa dati) e via
hardware e successivamente non era più possibile fare alcun cambiamento. Nelle figure
4.5(a), 4.5(b) e 4.5(c) sono rappresentati i risultati di tale lavoro: il confronto fra la
componente Total in funzione della componente Fast, la Total in funzione della Slow e
la Slow in funzione di quella Fast ha mostrato una chiara separazione tra neutroni e
raggi gamma, in particolare nella fig. 4.5(c) tale separazione risulta essere migliore a
partire da un valore di soglia di identificazione pari a 150 keVee della componente
veloce (Fast). La figura 4.5 (d) rappresenta invece la cosiddetta figura di merito (Figure
Of Merit, FOM), data dal rapporto tra la differenza dei centroidi delle due distribuzioni
e la somma delle larghezze a metà altezza (FWHMs), utile per definire la capacità di
discriminazione per un preciso intervallo di energia. Gli autori hanno trovato una FOM
pari a 1.3, data dalla proiezione sull’asse della componente lenta (figura 4.5(c)) dei
valori, rappresentati dalle linee tratteggiate, compresi tra 1100-1200 keVee della
componente veloce (figura 4.5(c)). Tale range energetico valido per i gamma, è
equivalente all’intervallo energetico compreso tra 5.0-5.5 MeV per i neutroni,
utilizzando per la conversione l’equazione 4.1. All’energia prossima a quella di soglia,
nell’intervallo di 150-250 keVee della componente veloce la FOM è di 0.42.
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Fig. 4.5 –Spettri bidimensionali della PSD per la discriminazione di neutroni e raggi gamma con le sorgenti di Am-
Be e 60Co: (a)Total Vs Fast; (b) Total Vs Slow; (c) Slow Vs Fast; (d) FOM relativa alla fetta della componente Fast
mostrata dalla linea tratteggiata verticale nel pannello(c) [EVP18a].
Per quanto riguarda lo studio delle proprietà di discriminazione tra particelle alfa e raggi
gamma, gli autori hanno utilizzato una sorgente di 228Th che emette raggi gamma di
energie comprese tra 238 keV e 2614 keV e particelle alfa ad energie di 5.4, 5.7, 6.3,
6.8 e 8.7 MeV [Man12].
Fig. 4.6 – (a) Spettro bidimensionale dello studio della PSD che mostra la discriminazione per particelle alfa e raggi
gamma. (b) Spettro della componente totale delle particelle alfa. [EVP18a]
In figura 4.6 sono mostrati i risultati della PSD nel caso della sorgente di Torio-228 in
cui si vedono chiaramente i picchi delle particelle alfa e la linea continua dei gamma, in
particolare nel pannello (a) è mostrata l’ottima discriminazione tra le particelle alfa e i
raggi gamma mentre nel pannello (b) è stato riportato lo spettro della componete totale
delle particelle alfa della sorgente. Quest’ultimo è stato ottenuto selezionando le
posizioni delle particelle alfa da quelle dei raggi gamma e considerando un cut grafico
di contorno alle particelle alfa (figura 4.6(a)) proiettandolo sulla componente totale.
Le particelle alfa ad energie comprese tra 5.4 e 6.8 MeV mostrano il picco composito
(largo) mentre ad 8.7 MeV si osserva un picco isolato ben definito, la linea rossa in
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figura invece rappresenta il fit gaussiano ottenuto dalla convoluzione di tre curve
(gaussiane) (Fig. 4.6(b)). La risoluzione energetica totale (intrinseca del rivelatore
sommata a quella dell’elettronica) è stata stimata per il picco a 8.7 MeV ed è pari a circa
il 18.5 % (FWHM = 166.3 keVee), mentre la