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Diritto Civile Contemporaneo
Rivista trimestrale online ad accesso gratuito ISSN 2384-8537
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Anno II, numero III, luglio/settembre 2015
Impugnazione di testamento olografo: la «terza via» delle Sezioni Unite
Lalage Mormile
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Impugnazione di testamento olografo: la «terza via» delle Sezioni Unite
di Lalage Mormile
Con la sentenza in commento (15 giugno 2015, n. 12307 Rel. Travaglino) le
Sezioni Unite della Cassazione offrono una soluzione al contrasto sorto in tema di
contestazione dell’autenticità del testamento olografo e individuazione dello
strumento processuale all’uopo richiesto. L’intervento è stato sollecitato dal
dibattito, ormai risalente, fra chi ritiene che la parte che intenda superare l’efficacia
di un testamento olografo sospettato di non autenticità, lo debba semplicemente
disconoscere (così Cass. 16 ottobre 1975, n. 3371, confermata da Cass. 23
dicembre 2011, n. 28673, che giunge a questo esito partendo dalla valorizzazione
della natura di scrittura privata del testamento olografo) e i sostenitori della
necessità della proposizione della querela di falso (in questo senso già Cass. 3
agosto 1968, n. 2793, Cass. 30 ottobre 2003, n. 16362 e, più di recente, Cass. 24
maggio 2012, n. 8272, che muovono dalla considerazione dell’incompatibilità del
procedimento di verificazione rispetto ad una scrittura proveniente da un terzo
necessariamente estraneo al processo qual è il de cuius, e anche Cass. S.U. 23
giugno 2010, n. 15169 che, chiamate a risolvere un contrasto relativo ai modi di
contestazione delle scritture private provenienti da terzi rispetto alla lite, hanno,
seppure in obiter, indicato la querela di falso quale strumento processuale idoneo a
privare di ogni efficacia il testamento olografo, dato il valore “intrinsecamente
elevato” di tale scrittura). Opzioni entrambe avvallate negli anni dalla dottrina
sulla scorta di percorsi argomentativi fondati, volta per volta, sulle peculiarità del
testamento olografo e sulla riflessione in ordine alle conseguenze generate dalla
scelta dei due diversi strumenti predisposti dall’ordinamento per superare la
valenza probatoria di una prova documentale (per una esaustiva ricognizione degli
aspetti più problematici del dibattito giurisprudenziale si rimanda a M. SESTA,
Questioni sulla prova della falsità del testamento olografo, in Contr. impr. 2014, pp. 69-78).
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Le Sezioni Unite ripercorrono analiticamente le tappe fondamentali
dell’evoluzione giurisprudenziale e dottrinaria sul tema, individuandone i passaggi
più opachi che suggeriscono la ricerca di quella che viene presentata come una
«terza via», nell’evidente tentativo di eliminare le esternalità negative prodotte dalle
soluzioni tradizionali, sul piano processuale ma anche sostanziale.
Del primo indirizzo, che facendo perno sulla natura di scrittura privata del
testamento olografo, ritiene essere soluzione obbligata la scelta dello strumento
processuale del mero disconoscimento della parte che intenda caducarne gli
effetti, si evidenziano le esorbitanze sul fronte dell’aggravamento dell’onere
probatorio per l’erede testamentario, che ancorché munito di un titolo
immediatamente esecutivo qual è il testamento olografo una volta pubblicato (ex
art. 620 cc, comma 5), si vedrebbe costretto a dover fornire la prova della sua
autenticità a fronte della semplice contestazione della controparte. Soluzione
questa che, sul piano sostanziale, stride con l’efficacia attribuita dalla legge al
testamento olografo, la cui capacità di attribuire in capo al beneficiario posizioni
sostanziali piene e subito invocabili non è subordinata ad alcun accertamento della
sua autenticità e perciò – e per questo tratto – documento distinto dalla generalità
delle altre scritture private. Lo conferma la disciplina sulla pubblicità degli atti, ove
richiede per la trascrizione dell’acquisto a causa di morte la sola presentazione del
testamento e dell’atto di accettazione dell’eredità (artt. 2648 c.c. e 2660 c.c.), senza
che sia prescritta alcuna verifica di autenticità della scheda che è, dunque,
presupposta. A differenza delle altre scritture private, trascrivibili solo se
autenticate o giudizialmente accertate (cfr. art. 2657 c.c.).
Del secondo indirizzo, fondato proprio sulla rilevanza sostanziale del testamento,
di per sé incoerente con un atteggiamento processuale di sfavore nei confronti di
chi di ne è, fino a prova contraria, il beneficiario, e per questo sulla conseguente
ritenuta necessità che l’asserita non genuinità sia sollevata attraverso l’eccezione di
falso da promuoversi nei modi e con le forme di cui all’art. 221 c.p.c. e ss., ma
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anche sulla pacifica non equiparazione del regime probatorio delle scritture
provenienti da una delle parti del processo rispetto a quelle redatte da un terzo
estraneo ad esso (c.d. prove documentali atipiche, cui, comunque, il testamento
olografo non apparterrebbe, come chiarito dalle S.U. del 2010 sopra richiamate), si
evidenzia la mancanza di un qualsiasi appiglio normativo “che sostenga
l’intrinseco grado di attendibilità del testamento olografo a giustificazione della
necessaria proposizione della querela di falso” (così nella sentenza in commento) e
dunque consenta il richiamo allo specifico procedimento per contestare la
veridicità di un documento che, comunque, si colloca al di fuori della categoria
dell’atto pubblico. L’indirizzo, mosso cioè dalla necessità di evitare l’aggravamento
dell’onere probatorio eventualmente incombente sull’erede testamentario
costretto a promuovere il procedimento di verificazione, disvelerebbe la pretesa di
colmare l’assenza di uno specifico riferimento testuale atto a giustificare
l’estensione del procedimento di falso in caso di contestazione del testamento
olografo facendo leva su valutazioni di ordine pragmatico.
Partendo dalla condivisibile osservazione circa la duplicità dei piani coinvolti dalla
vicenda, di diritto sostanziale e, di riflesso, coinvolgente profili prettamente
processuali, le SU ripropongono un autorevole precedente del 1951 (Cass. 15
giugno 1951, n.1545, estensore Torrente e Presidente Mandrioli) ove si era
ritenuto che l’impugnazione del testamento olografo altro non fosse che un’azione
di accertamento negativo. La pronuncia focalizza, in prima battuta, l’attenzione sul
petitum sostanziale sotteso alla domanda rivolta alla negazione del titolo,
osservando che l’asserita non autenticità del testamento si risolve in una quaestio
nullitatis per assenza di uno dei requisiti sostanziali richiesti dalla legge. La
fattispecie è così ricondotta nel suo alveo naturale, che è la disciplina del
testamento olografo dettata dagli artt. 601 e ss. c.c.. In questo modo il dibattito in
ordine allo strumento processuale richiesto per vincere la forza probatoria del
testamento inteso quale documento è destinato a sbiadire, proprio perché l’atto
non è invocato quale strumento probatorio, ma nella sua essenza di negozio mortis
causa che per produrre i suoi effetti deve innanzitutto possedere i requisiti di
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forma richiesti dalla legge. I riflessi di tale ricostruzione convincono, in seconda
battuta, anche sul fronte della ripartizione dell’onere probatorio poiché spetterà a
chi invochi tale nullità, dunque all’eventuale erede pregiudicato dall’esistenza del
testamento, provarne la non genuinità senza che per ciò sia necessario
promuovere il giudizio di falso e senza che, d’altra parte, l’erede testamentario sia
oltremodo gravato nonostante la sua attuale posizione di vantaggio.
La sentenza si apprezza, innanzitutto, per la sua coerenza sistematica. Coerenza
che impone al giudicante di percorrere in modo ordinato un iter argomentativo
che deve necessariamente partire dalla riconduzione del fatto nell’alveo della
fattispecie astratta di riferimento, muovendosi attraverso i binari tracciati dalle
norme. Ciò consente, nella specie, di evitare la sovrapposizione, e la conseguente
contaminazione, di ambiti di disciplina differenti quali sono quelli che si
riferiscono alla natura e all’efficacia del negozio testamentario rispetto a quelli
relativi alla disciplina delle prove e alla speciale valenza riconosciuta alla prova
documentale. In questo senso la questione dell’assunta falsità si pone certamente
sul piano della “morfologia” e dunque dell’efficacia del testamento. La mancanza
di olografia si traduce, infatti, in un vizio di forma richiesta ad substantiam
determinante la nullità o addirittura l’inesistenza del negozio. Il testamento è
invocato in giudizio come negozio e non come mero documento attestante le
circostanze oggetto di prova che il giudice dovrà vagliare. La sua qualificazione in
termini di scrittura privata non ha alcun rilievo, almeno nei giudizi in cui si discute
della sua efficacia a valere quale titolo di trasferimento dei diritti e a qualificare il
pretendente erede.
Questa nitida e convincente soluzione offre alle Sezioni Unite l’occasione per
correggere il precedente errore di valutazione cui quelle stesse Sezioni erano
incorse. Pur non vertendosi, nella specie, sulla possibile, seppur improbabile e
residuale, rilevanza documentale della scheda, il decidente si premura di chiarire
che la soluzione adottata consente di rispondere all’esigenza “di mantenere il
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testamento olografo definitivamente circoscritto nell’orbita delle scritture private”
ma anche – ed è qui che la pronuncia tradisce l’intento di eliminare il precedente
obiter riaprendo, però, il dibattito sul fronte del valore documentale del testamento
olografo– “di evitare la necessità di individuare un assai problematico criterio che
consenta una soddisfacente distinzione tra la categoria delle scritture private la cui
valenza probatoria risulterebbe di incidenza sostanziale e processuale
intrinsecamente elevata, tale da richiedersi la querela di falso” e al contempo “di
non equiparare l’olografo, con inaccettabile semplificazione ad una qualsivoglia
scrittura proveniente da terzi, destinata, come tale a rappresentare, quoad
probationis, un’ordinaria forma di scrittura privata non riconducibile alle parti in
causa”. Invero, una volta distinto il piano della morfologia del negozio da quello
della rilevanza probatoria della forma che lo contiene, il dilemma
dell’inquadramento in una delle due categorie di prove documentali riconosciute
dall’ordinamento appare essere un falso problema.
Certo, potrebbe anche accadere che fra i documenti prodotti dalle parti di un
giudizio per provare un determinato fatto vi sia un testamento olografo, ma in
questo caso esso sarebbe certamente da ricondurre alla categoria delle prove
documentali atipiche provenienti da terzi estranei alla lite e, in quanto tale,
liberamente apprezzabile dal giudice senza che tale equiparazione possa
considerarsi semplicistica. Si pensi alle eventuali dichiarazioni di scienza effettate
dal de cuius nella sua scheda e possibilmente invocate a sostegno dell’accertamento
di un fatto in un determinato giudizio che potrebbe coinvolgere gli stessi eredi in
conflitto o soggetti terzi (es. “lascio a Tizio 100 perché ho concesso a Caio di
abitare nella mia villetta di campagna per dieci anni”). Ma tale possibile attitudine a
rilevare quale semplice prova documentale è certamente da escludere nei giudizi in
cui si discute dell’eventuale sua nullità, proprio perché in questi ad essere oggetto
di indagine è il testamento in quanto negozio, e in quanto tale soggetto ai requisiti
di validità imposti dalla legge, e non anche la scheda in quanto mero documento
attestante fatti.
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In questo modo la «terza via» offerta dalle Sezioni Unite è in realtà una «via di
fuga» dalle opacità insite nel precedente del 2010 (per le quali si rimanda a G.
FINOCCHIARO, Sul regime giuridico delle scritture private provenienti da terzi, in Riv. dir.
proc. 2011, pp. 971-983), appunto criticato per aver sollecitato la ricerca del criterio
atto a discernere, fra i documenti provenienti da terzi e in quanto tali qualificabili
in termini di prove atipiche liberamente apprezzabili dal giudice, quelle che
sarebbero dotate di valenza probatoria sostanziale e processuale intrinsecamente
elevata tale da richiedere una querela di falso al di là di un espresso riferimento
normativo.
Condivisa la ricostruzione, una riflessione si impone, però, sul fronte delle
conseguenze applicative. Vero è, infatti, che nessun dubbio dovrà ancora
muoversi sull’individuazione della parte gravata dal relativo onere probatorio che
sarà certamente l’erede legittimo – o l’aitante tale – pregiudicato, in tutto o in
parte, dall’esistenza del testamento sospettato di falsità; ma altre perplessità si
insinuano, peraltro sollecitate proprio dall’autorevole precedente del 1951
richiamato che, qualificando l’azione in termini di accertamento negativo,
concludeva ritenendo non fosse comunque quella la sede per precisare se sul
fronte probatorio fosse “all’uopo necessaria la querela di falso” (così Cass. 15
giugno 1951, n.1545 in Foro it.,1951, I, 855 e in Riv. dir. proc., 1952, II, p. 69). E’
infatti d’obbligo chiedersi: 1. se, tale azione di accertamento negativo escluda
sempre e comunque il giudizio di falso, nel senso che questo, sebbene non necessario
e non necessitato, sia comunque invocabile dalla parte interessata, al fine di
ottenere la completa rimozione del valore del documento con effetti erga omnes e
non nei soli riguardi della controparte (sul punto si veda Cass, SS.UU., 4 giugno
1986, n. 3734); 2. Se, in ogni caso, la prova della mancanza di autografia che in tal
modo chi contesti l’autenticità dello scritto deve fornire, rimandi comunque alla
disciplina della querela di falso. Evenienza, questa, che ribalterebbe l’interprete al
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punto di partenza, ossia alla difficoltà di ritenere applicabile la querela di falso in
relazione ad un documento che si colloca nella categoria delle scritture private.
Il primo profilo, di interesse certamente teorico ma dai riflessi pratici più sfumati,
importa una riflessione in ordine alle eventuali diverse conseguenze del giudicato
di accertamento negativo rispetto a quello di falsità del documento. Pur aderendo
alla tesi c.d. privatistica del processo e ai suoi riflessi sul fronte del giudicato di
nullità [profilo questo indagato, anche se sotto il profilo della declaratoria di nullità
in assenza di espressa domanda di parte, da F. RUSSO, La rilevabilità d’ufficio delle
nullità nel sistema delle eccezioni secondo le Sezioni Unite (note in margine a Cass. sez. un.
26242 e 26243 del 12 dicembre 2014), in Dir. civ. cont., 15 marzo 2015, cui si rinvia
anche per i riferimenti bibliografici] e dunque pur dovendosi ritenere che una
sentenza di accertamento negativo dell’esistenza del requisito dell’olografia, una
volta divenuta definitiva, farebbe stato solo fra le parti del giudizio, i loro eredi e
aventi causa, la speculazione in ordine alla maggiore opportunità di esperire il
procedimento di falso al fine di ottenere il risultato della definitiva eliminazione
dal mondo giuridico della scheda, è destinata a perdere una sua consistenza sul
fronte applicativo proprio per la rilevanza comunque relazionale che la vicenda
successoria apre. I limiti soggettivi del giudicato, di ampiezza tale da comprendere
gli eredi e aventi causa delle parti, rendono infatti l’accertamento negativo del
tutto confacente all’interesse delle parti, che è appunto quello di risolvere il
contrasto sorto sul titolo della delazione. Appare cioè difficilmente immaginabile
l’evenienza di un soggetto terzo, portatore di un interesse giuridicamente rilevante
e legittimante il diritto di azione, che possa rimanere fuori dall’ambito di
applicazione del giudicato di accertamento negativo eventualmente formatosi. In
ogni caso, a fronte di questa efficacia più limitata del giudicato, apprezzabile solo
sul piano teorico, più evidenti sarebbero per la parte i vantaggi sotto il profilo
procedimentale. Non sarebbe infatti necessaria la partecipazione al giudizio del
p.m.; verrebbe esclusa la competenza funzionale del collegio; ma soprattutto ci si
muoverebbe al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 221 c.p.c. che impone,
già al momento della proposizione della querela, l’indicazione, a pena di nullità
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“degli elementi e delle prove della falsità”. Il procedimento manterrebbe cioè una
sua struttura unitaria, regolata dalla disciplina ordinaria.
Accertamento negativo della sussistenza dell’olografia e falsità, dunque, non sono
sinonimi. Ma è allora così certo che la questione che il testamento possa essere
oggetto di querela di falso sia definitivamente messa fuori gioco? L’analisi delle
norme di riferimento potrebbe infatti indurre a ritenere che l’ambito di
applicazione dello specifico strumento disciplinato dagli artt. 221 c.p.c. sia in realtà
più ampio di quello che sembrerebbe derivare da una valutazione fatta alla luce
della disciplina di diritto sostanziale sulle prove. E’ vero, cioè, che l’art. 2700 c.c.
afferma che l’atto pubblico fa piena prova fino a querela di falso, ma nessuna
norma esclude che la querela di falso serva, solo ed esclusivamente, ad eliminare la
pubblica fede attribuita o acquisita da un documento. La falsità non è, cioè,
sinonimo di pubblica fede, dal momento che anche un documento privato può
essere affetto da falsità (cfr. art. 482, 485 e soprattutto art. 491 ove trattando dei
documenti equiparati agli atti pubblici agli effetti della pena, si menziona proprio il
testamento olografo). Il procedimento di falso in sede civile manifesta
chiaramente la sua vocazione penale, ove, però, l’accertamento del falso è
funzionale alla reazione avverso la condotta illecita e dunque all’individuazione del
falsario. Ma è proprio la specifica funzione di tale ingresso del giudizio di falso nel
processo civile ad offrire all’interprete delle valide coordinate di riferimento. Il
giudizio incidentale di falso, cioè, resta pur sempre funzionale al regime, di
formazione ed efficacia, delle prove nel processo. D’altra parte, il costante
riferimento al piano “documentale” presente anche nell’art. 221 c.p.c. porta a
ritenere che la querela di falso si muove necessariamente sul piano della valenza
certificativa dell’atto contenente il negozio e non anche su quello sostanziale. Lo
strumento è infatti preordinato non all’accertamento del falso in quanto
conseguenza di un comportamento avversato dall’ordinamento, quanto
all’esigenza che il documento falso, e perciò destinato a condurre il giudice ad una
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decisione obbligata dal sistema delle prove legali ma errata, venga eliminato dal
mondo giuridico.
Non si può però escludere che l’erede legittimo, pregiudicato dalla non autenticità
del testamento, sia anche interessato a ricercare l’autore del falso, onde, ad
esempio, chiedere il risarcimento dei danni conseguenti a tale condotta. Ma anche
in questo caso l’azione da intraprendere non sarebbe la querela di falso, quanto
l’accertamento della condotta delittuosa da compiersi in sede penale o, se del caso,
incidenter tantum, in sede civile, al fine di ottenere l’auspicato risarcimento.
Resta ancora aperto il quesito in ordine alla prova che, in seno all’azione di
accertamento negativo, la parte dovrà offrire per convincere il giudice che il
testamento manca dell’elemento essenziale dell’olografia. Sotto questo profilo non
pare possa muoversi dubbio alcuno che tale prova sia destinata a ridursi in una
consulenza tecnica calligrafica e/o grafologica. Consulenza che dovrà essere
eseguita attraverso il confronto con le scritture di comparazione su cui v’è accordo
fra le parti, o comunque con quelle di provenienza accertata per sentenza di
giudice o atto pubblico (art. 218 c.p.c.). E sarà chi contesta l’autenticità del
negozio a dover assolvere all’onere di produrre o comunque indicare tali scritture
di comparazione, in assenza delle quali la consulenza tecnica non potrà eseguirsi e
dunque la prova dovrà reputarsi non raggiunta.
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Questa Nota può essere così citata:
L. MORMILE, Impugnazione di testamento olografo: la «terza via» delle Sezioni Unite, in
Dir. c iv . cont ., 2 settembre 2015