diritto industriale

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1/12/2011 Elementi della proprietà industriale visto con ottica di disciplina della concorrenza. Quindi vedremo gli elementi della proprietà industriale, ovvero ditta, insegna, marchio e come la disciplina della concorrenza sleale e la normativa antitrust sono indirizzate nell’ottica della disciplina della concorrenza, ovvero l’esigenza che la concorrenza si svolga in maniera leale e che gli elementi pregnanti che attribuiscono vantaggio concorrenziale ad un soggetto (che abbia guadagnato lecitamente questi elementi concorrenziali) siano preservati, e la sua posizione sia tutelata. Tutto questo, a secondo degli istituti che andremo a trattare, riguarda esclusivamente la posizione dell’imprenditore, cioè i soggetti tutelati sono gli imprenditori e non gli altri attori del mercato; in altri casi come nella disciplina antitrust viceversa i soggetti tutelati sono tutti gli attori del mercato, quindi gli imprenditori ma anche i consumatori e gli altri stakeholders che girano intorno ad una determinata impresa. Gli elementi del diritto della concorrenza riguardano un po’ tutti gli istituti. Soffermandoci su quelli che sono i profili soggettivi, cioè chi sono i soggetti tutelati, abbiamo individuato come soggetti tutelati gli imprenditori (nella vasta accezione che il termine imprenditore può avere) e non gli altri soggetti che operano nel mercato, con qualche particolarità che riguarda il diritto antitrust sia nella stessa qualificazione di imprenditore sia come ambito di tutela soggettiva prevista dalla norma (ma lo vedremo poi). Sul piano oggettivo, un altro aspetto centrale (centrale perché questi elementi si ripropongono anche con riferimento non solo alla disciplina della concorrenza sleale ma anche al tema della ditta, dell’insegna, del marchio, che sono i segni distintivi, e in ambito antitrust) è la necessità di capire quando esiste un rapporto di concorrenza fra due imprenditori. P osto che i soggetti tutelati dalla disciplina della concorrenza sleale sono gli imprenditori, e non gli altri operatori del mercato (un esempio limite è se un atto è dannoso per i consumatori ma è non sleale dal punto di vista della categoria imprenditoriale, questo atto non potrà essere valutato nell’ambito della disciplina della concorrenza sleale perché essa si preoccupa soltanto della tutela degli imprenditori; ovviamente se l’atto è dannoso per i consumatori ci saranno altre norme dal codice del consumo alle norme penali in materia di antisofisticazione degli alimenti), quindi ci preoccupiamo in questa norma della tutela degli imprenditori . Se il tema centrale di cui ci occupiamo è quello della concorrenza sleale, dobbiamo comprendere quando due imprenditori sono in un rapporto di concorrenza tra loro perché se non vi è concorrenza tra l’imprenditore leale e l’imprenditore che si comporta slealmente evidentemente allora ci sarà un comportamento che non assume rilevanza ai fini della concorrenza sleale. I due profili dei quali ci dobbiamo occupare e che inducono ad affermare l’esistenza di un rapporto di concorrenza sono il PROFILO MERCEOLOGICO e IL PROFILO TERRITORIALE. 1

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1/12/2011Elementi della proprietà industriale visto con ottica di disciplina della concorrenza. Quindi vedremo gli elementi della proprietà industriale, ovvero ditta, insegna, marchio e come la disciplina della concorrenza sleale e la normativa antitrust sono indirizzate nell’ottica della disciplina della concorrenza, ovvero l’esigenza che la concorrenza si svolga in maniera leale e che gli elementi pregnanti che attribuiscono vantaggio concorrenziale ad un soggetto (che abbia guadagnato lecitamente questi elementi concorrenziali) siano preservati, e la sua posizione sia tutelata. Tutto questo, a secondo degli istituti che andremo a trattare, riguarda esclusivamente la posizione dell’imprenditore, cioè i soggetti tutelati sono gli imprenditori e non gli altri attori del mercato; in altri casi come nella disciplina antitrust viceversa i soggetti tutelati sono tutti gli attori del mercato, quindi gli imprenditori ma anche i consumatori e gli altri stakeholders che girano intorno ad una determinata impresa.Gli elementi del diritto della concorrenza riguardano un po’ tutti gli istituti. Soffermandoci su quelli che sono i profili soggettivi, cioè chi sono i soggetti tutelati, abbiamo individuato come soggetti tutelati gli imprenditori (nella vasta accezione che il termine imprenditore può avere) e non gli altri soggetti che operano nel mercato, con qualche particolarità che riguarda il diritto antitrust sia nella stessa qualificazione di imprenditore sia come ambito di tutela soggettiva prevista dalla norma (ma lo vedremo poi). Sul piano oggettivo, un altro aspetto centrale (centrale perché questi elementi si ripropongono anche con riferimento non solo alla disciplina della concorrenza sleale ma anche al tema della ditta, dell’insegna, del marchio, che sono i segni distintivi, e in ambito antitrust) è la necessità di capire quando esiste un rapporto di concorrenza fra due imprenditori. Posto che i soggetti tutelati dalla disciplina della concorrenza sleale sono gli imprenditori, e non gli altri operatori del mercato (un esempio limite è se un atto è dannoso per i consumatori ma è non sleale dal punto di vista della categoria imprenditoriale, questo atto non potrà essere valutato nell’ambito della disciplina della concorrenza sleale perché essa si preoccupa soltanto della tutela degli imprenditori; ovviamente se l’atto è dannoso per i consumatori ci saranno altre norme dal codice del consumo alle norme penali in materia di antisofisticazione degli alimenti), quindi ci preoccupiamo in questa norma della tutela degli imprenditori . Se il tema centrale di cui ci occupiamo è quello della concorrenza sleale, dobbiamo comprendere quando due imprenditori sono in un rapporto di concorrenza tra loro perché se non vi è concorrenza tra l’imprenditore leale e l’imprenditore che si comporta slealmente evidentemente allora ci sarà un comportamento che non assume rilevanza ai fini della concorrenza sleale. I due profili dei quali ci dobbiamo occupare e che inducono ad affermare l’esistenza di un rapporto di concorrenza sono il PROFILO MERCEOLOGICO e IL PROFILO TERRITORIALE. IL PROFILO MERCEOLOGICO ci porta alla mente il settore di attività nel quale gli imprenditori operano. Un primo problema è che abbiamo imprenditori che operano in settori di attività molto specifici e ben delineati e abbiamo imprenditori che operano in settori di attività più vasti quanto agli elementi della attività economica che svolgono. Il secondo problema riguarda la possibilità che un imprenditore che opera in un determinato settore merceologico si possa spostare su livelli diversi della catena produttiva relativamente a quel settore merceologico, cioè un imprenditore che per es. acquista all’ingrosso per vendere al dettaglio può salire anche al livello superiore e svolgere al contempo attività di grossista e attività di dettagliante; un imprenditore che svolge un’attività di acquisto di semilavorati per poi vendere prodotti finiti può decidere di salire ad un livello precedente della scala produttiva e svolgere anche l’altra attività; il tema è che oggi l’imprenditore non svolge queste attività ma le potrebbe svolgere in futuro. Ecco sorge il problema se dal punto di vista del livello della catena produttiva noi dobbiamo andarci a preoccupare soltanto del settore di attività attuale oppure se dobbiamo vedere anche quali sono le potenzialità di incremento e di passaggio sulla scala produttiva che possono riguardare l’imprenditore. Quando consideriamo un atto di concorrenza sleale evidentemente dobbiamo preoccuparci anche di questi potenziali altri livelli produttivi dello stesso settore sui quali l’imprenditore può andarsi ad estendere e naturalmente questa potenzialità deve essere concreta e non astratta (cioè per es. il concessionario di autoveicoli è difficile che possa avviare un’attività di produzione di automobili, per cui non si ipotizza che tra il concessionario e la Fiat ci possa essere una concorrenza sleale perché è difficile che ci possa essere un passaggio del concessionario su un livello precedente della catena produttiva, per cui il problema del rapporto merceologico tra i due imprenditori non ha ragione di porsi). Viceversa, il fatto che due imprenditori si trovino a livelli diversa della scala produttiva non esclude però che un imprenditore possa operare concorrenza sleale nei

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confronti dell’altro e proprio l’esempio casa produttiva di auto-concessionario è significativo perché la casa produttrice di auto potrebbe operare casi tipici di concorrenza sleale (come ad esempio di boicottaggio) nei confronti di un concessionario che sostanziano attività di concorrenza sleale, ma non perché ci sia la possibilità che uno entri nel livello produttivo dell’altro ma perché anche gli imprenditori che operano a livelli diversi possono essere coinvolti in un unico fenomeno sleale che coinvolga l’uno e l’altro nel caso concreto. Quindi il posizionamento dei due imprenditori su livelli diversi della catena produttiva, se esclude la possibilità di configurare un atto di concorrenza sleale quando non c’è alcuna possibilità (o almeno non è concreta o probabile) che ci sia un passaggio di un imprenditore su una scala produttiva di un altro, può sostanziare anche un rapporto di concorrenza da un punto di vista merceologico quando vi è comunque un’attività che da parte dell’uno possa andare a recare pregiudizio concorrenziale all’altro. Sempre in riferimento al problema del profilo merceologico, ci dobbiamo porre il problema della necessaria identità dei prodotti o dei servizi che sono prestati da due imprenditori. Evidentemente avremo sicuramente un rapporto di concorrenza quando i prodotti sono identici o similari (scarpa e scarpa, oppure coca cola e pepsi ecc) allora in questo caso è chiaro che i due imprenditori di cui parliamo producono gli stessi prodotti e quindi, in presenza di un’identità di prodotto, vi è sicuramente un rapporto di concorrenza. Più delicato è quando il prodotto soddisfa bisogni simili ma non è proprio lo stesso prodotto: per es. fra cocacola e fanta vi è un rapporto di concorrenza o no? Si tratta di prodotti diversi ma pur tuttavia il bisogno che questi prodotti soddisfano sono similari e possono essere sostituiti l’uno con l’altro (è chiaro che magari facendo valutare al singolo consumatore questa sostituibilità non si rinviene ma in linea di principio questi due prodotto soddisfano bisogni uguali o analoghi, quindi fra questi produttori c’è un rapporto di concorrenza). Viceversa non è individuabile un rapporto di concorrenza tra la Cocacola e un imprenditore che produce vino perché tra i due prodotti non c’è sostituibilità per cui non c’è rapporto di concorrenza; a maggior ragione non c’è rapporto di concorrenza tra un produttore di bevande e uno di scarpe perché sono prodotti diversi che soddisfano bisogni diversi rispetto ai quali non è ravvisabile un rapporto di concorrenza. Naturalmente in taluni casi ci dobbiamo preoccupare dell’espandibilità tecnologica di un prodotto, dell’attività di un imprenditore in settori totalmente diversi; come vedremo soprattutto in tema non di concorrenza sleale, ma in tema di marchi, è evidente che la particolare notorietà di un segno distintivo o di un imprenditore può estendersi anche in settori di attività che prima non aveva nemmeno ipotizzato di esplorare (basta pensare per es. ai produttori di abbigliamento che entrano nel settore degli occhiali ecc), cioè alla produzione di prodotti che tra loro non hanno alcun nesso. In taluni casi per la possibile espandibilità dell’attività un determinato imprenditore può estendersi anche in settori totalmente diversi da quelli originali e questa posizione deve essere oggetto di considerazione e di tutela, ma parliamo di casi molto particolari; in linea di principio individuiamo un rapporto di concorrenza da un punto di vista merceologico quando i prodotti e i servizi che sono riferibili a quel determinato imprenditore o sono identici o sono tra loro sostituibili o sono tra loro succedanei, quindi ci deve essere una relazione tra i prodotti altrimenti tra gli imprenditori non è ravvisabile un rapporto di concorrenza. Dire che non è ravvisabile un rapporto di concorrenza vuol dire che non si applica la disciplina della concorrenza sleale, cioè anche se viene compiuto da un imprenditore a danno di un altro un atto sleale sarà eventualmente tutelabile con altri rimedi diversi da quello tipico della concorrenza sleale perché la concorrenza sleale richiede che tra gli imprenditori sussista un rapporto di concorrenza da un punto di vista merceologico. Altro elemento è quello TERRITORIALE cioè, così come ci deve essere concorrenza dal punto di vista merceologico, i due imprenditori devono essere in concorrenza anche dal punto di vista territoriale cioè del luogo nel quale esercitano la loro attività; così come c’è sostituibilità tra i prodotti ci deve essere una sostituibilità tra imprenditori, nel senso che gli operatori del mercato siano essi (consumatori,fornitori,grossisti,finanziatori ecc) devono potersi rivolgere all’uno o all’altro per la soddisfazione del loro bisogno o per lo svolgimento delle loro attività produttive. Se manca questa sostituibilità dal punto di vista territoriale dei due imprenditori, il problema della concorrenza viene meno. Ora è chiaro che il profilo territoriale è ancorato a un rapporto fisico nella vendita, ad esempio: non esiste una concorrenza da un punto di vista del profilo territoriale tra un soggetto che vende prodotti alimentari a Napoli e uno che vende lo stesso prodotto fuori Napoli o in un altro quartiere di Napoli (anche se ci possono essere dei casi limite di particolare qualità del prodotto che può indurre ad andare a comprare il prodotto in un determinato posto, ma in generale non esiste un rapporto di concorrenza territoriale che possa andare al di là dell’ambito territoriale comunale o addirittura del quartiere in molti casi). Evidentemente se non c’è un rapporto di concorrenza almeno potenziale da un

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punto di vista territoriale non esiste la possibilità di avvalersi della disciplina della concorrenza sleale. È chiaro che la stessa cosa avviene quando non è possibile svolgere l’attività in luoghi diversi da quelli assegnati, i casi noti sono quelli dei tassisti o degli istituti di vigilanza o delle onoranze funebri, cioè sono tutte attività le quali per legge possono essere svolte solo in un ambito territoriale nel quale una determinata autorità ha riconosciuto a questi soggetti il diritto di svolgere quell’attività; in questi casi non sarà possibile individuare un’attività di concorrenza sleale tra soggetti che possono operare solo in luoghi diversi perché se lo fanno in realtà compiono un illecito amministrativo che va oltre il problema della concorrenza sleale. Anche nel caso del profilo territoriale dobbiamo preoccuparci non solo dell’attualità del luogo nel quale un determinato imprenditore svolge una determinata attività ma anche della potenzialità, che sia concreta e non meramente astratta, cioè per esempio un piccolo esercizio commerciale di Napoli non sarà concorrente con uno che svolge la stessa attività in altri luoghi d’Italia. La potenzialità naturalmente va vista anche alla luce del settore di mercato interessato, ad es la pellicceria Annabella si trova solo a Pavia ma è configurabile anche dal punto di vista territoriale come un concorrente sleale anche per una pellicceria di Napoli perché c’è la sostituibilità del prodotto in quanto esso è ad elevato costo e questo può indurre la persona ad andare in un luogo specifico per l’acquisto piuttosto che in un altro anche se così distanti tra loro. Anche dal punto di vista territoriale rilevano degli elementi problematici su cui ci siamo soffermati in precedenza cioè la potenzialità di spostamento tra settori che riguarda anche la potenzialità di spostamento tra luoghi, per es. oggi Ikea non svolge la sua attività in Sicilia ma un problema di concorrenza territoriale può sorgere rispetto ad un soggetto che svolge la sua attività in Sicilia. Il problema diventa molto più difficile da pesare dal punto di vista della concorrenza territoriale se consideriamo le nuove modalità di vendita: nel caso della vendita online da parte di un determinato produttore, i limiti del profilo territoriale saltano perché non ha più senso individuare un limite di carattere territoriale (se vendo tramite internet non ha senso parlare di un profilo territoriale perché sono in concorrenza non solo con tutta Italia ma con tutti i luoghi nel mondo in cui sono disponibile a spedire i miei prodotti); quando la vendita è per corrispondenza i problemi di limitazioni territoriali sono problemi che scemano significativamente, così come siamo passati da una fase nella quale era molto più rilevante il profilo territoriale locale nelle attività d’impresa rispetto a quello globale, oggi viceversa è il contrario. Quindi mentre il profilo merceologico continua ad avere una propria significatività, il profilo territoriale è diventato meno rilevante, se non in alcuni casi particolari. Naturalmente questa individuazione degli elementi del profilo merceologico e del profilo territoriale come elementi fondamentali per poter individuare un rapporto di concorrenza e quindi la conseguente lesione del comportamento leale posto da un imprenditore rispetto a quello sleale messo in atto da altro, dovrebbero escludere tutta l’attività compiuta dai terzi e il terzo va qualificato. Vedremo che in alcuni casi il comportamento del terzo configura un atto di concorrenza sleale, in altri casi invece no, cioè non possiamo in linea di principio escludere il comportamento del terzo, dove per terzo mi riferisco ad una persona che non è imprenditore oppure lo è ma non è in concorrenza dal punto di vista territoriale o merceologico rispetto ad un altro. È chiaro che se io svolgo l’attività denigratoria rispetto alla Fiat, io non svolgendo l’attività della Fiat sono solo un terzo che dice delle cose e potrà essere sanzionato secondo le norme per calunnia ecc cioè le norme che intervengono quando si dichiarano cose false. Però dobbiamo considerare che in alcuni casi possiamo avere dei terzi qualificati che sono legati all’imprenditore concorrente, che agiscono per conto dell’imprenditore concorrente o addirittura che sono indotti a certi comportamenti da un imprenditore concorrente; quando è così è evidente che siamo comunque al cospetto di un atto di concorrenza sleale anche se è compiuto dal terzo ma è evidente che affinché ci sia concorrenza sleale nell’atto compiuto dal terzo bisognerà individuare una riferibilità volontaria (o addirittura anche involontaria) del terzo nel confronti dell’imprenditore concorrente perché se non c’è un legame tra il terzo e l’imprenditore concorrente l’attività di concorrenza sleale non sarà riferibile al concorrente e non sarà proprio un atto di concorrenza sleale. Andiamo a vedere quale è la disciplina concreta della concorrenza sleale:l’articolo di riferimento è l’art.2598 del Codice CivileArt. 2598 (Atti di concorrenza sleale) - Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attivita' di un concorrente;2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attivita' di un concorrente, idonei a determinare il

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discredito o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente;3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda.La sanzione che riguarda i comportamenti di cui all’articolo 2598 è stabilita perché il legislatore vuole che tra gli imprenditori la concorrenza si svolga e si svolga in maniera leale. Quindi la sanzione riguarda l’imprenditore che non si comporta secondo canoni di lealtà nella sua attività con la finalità (mediata o immediata) di appropriarsi della altrui clientela, fornitori e così via cioè dell’altrui quota di mercato e comunque di arrecare danno all’altrui azienda. Si parla di finalità e non importa se riesca nel suo intento oppure no, quello che importa è che nell’attività sleale che l’imprenditore concorrente svolge nei confronti dell’altro ci debba essere questa finalità. Il legislatore nel definire i comportamenti sleali non individua un numero chiuso di comportamenti sleali cioè non elenca specificamente le attività ce configurano concorrenza sleale, ma individua degli esempi di concorrenza sleale anche in modo di poter dare all’interprete dei parametri di misurazione rispetto a ciò che è attività di concorrenza sleale e poi lascia una clausola di apertura agli interpreti e alla pratica commerciale, quindi in realtà noi non abbiamo un decalogo dei comportamenti sleali (cioè non possiamo dire con sicurezza se un determinato comportamento è leale o sleale, ogni qualificazione che facciamo sul comportamento di un determinato imprenditore è frutto della nostra interpretazione di quel comportamento. Perché questo? Perché evidentemente il comportamento leale o sleale è un qualcosa che varia; la cosiddetta etica imprenditoriale nei rapporti tra di loro è una pratica che non è la stessa nel corso del tempo o nello spazio, cioè alcuni comportamenti che anni fa sarebbero stati giudicati illeciti e sleali oggi sono pienamente leali o viceversa. La qualificazione di comportamento leale o sleale varia anche a seconda del territorio cioè dello spazio, per es. guardando la pubblicità in altri Paesi vediamo come i comportamenti concorrenziali sono diversamente valutati come legittimi o no (talora ci sono messaggi pubblicitari diffusi in Italia da aziende proveniente da Paesi di common law i quali sono al limite della legittimità per es. quelle di Ryanair che utilizza personaggi famosi come politici; se il messaggio di Ryanair avesse come oggetto un concorrente allora sarebbe sicuramente illecito). Quindi questo dimostra che il concetto di slealtà varia ed ecco che il legislatore ha necessariamente dovuto prefigurare la disciplina della concorrenza sleale come una disciplina aperta e non chiuderla entro margini limitati di ipotesi di concorrenza sleale. Il legislatore nell’art 2598 individua tre atti che sicuramente qualifica come concorrenza sleale che sono:

1. la confusione 2. la denigrazione 3. la vanteria

questi atti sono sicuramente atti di concorrenza sleale che esplicitamente il legislatore qualifica in questo modo, però nella individuazione di questi atti come atti di concorrenza sleale dobbiamo andare a vedere quale è l’evoluzione normativa che ha determinato il passaggio da atti sleali a atti leali (ad es. nella denigrazione oggi affermiamo con sicurezza che la pubblicità comparativa è legittima laddove rispettosa di certi parametri perché c’è una norma di legge che ce lo dice; la pubblicità comparativa individua una denigrazione dell’altrui attività eppure è legittima). Accanto a queste tre ipotesi tipiche la pratica ha qualificato come sleali numerosi ulteriori comportamenti dei quali però non esiste un referente normativo che non sia la clausola generale stabilita nell’art. 2598, cioè la norma aperta che individua un contatto con la pratica per l’individuazione dei casi di concorrenza sleale. Secondo alcuni però tuttavia oggi sarebbero come chiusi questi atti perché sono anni che i tribunali, i giudici, la dottrina individuano gli atti di concorrenza sleale atipici (boicottaggio, concorrenza parassitaria ecc) e si parla di atti atipici perché non sono contenuti nell’art. 2598 ma al di là di questa mancata indicazione ormai anche questi sono tipizzati perché sono stati studiati e analizzati nel dettaglio; per cui alla fine è difficile parlare di numero aperto per questi atti. È vero che da tanti anni i tribunali e la dottrina si occupano di queste ipotesi e ormai ci sono delle conclusioni ormai pacifiche, quindi ci sono dei risultati che sono stati raggiunti per cui la loro atipicità è tale solo perché non sono esplicitamente menzionati nell’art.2598. Il ragionamento secondo cui ormai sarebbe diventato (non per volontà del legislatore) per volontà della pratica un numero chiuso è un discorso che non convince molto perché nulla vieta (la norma di legge certo non lo vieta) che i comportamenti nuovi che dovessero insorgere possano essere qualificati come sleali, che un cambiamento in senso restrittivo, in senso più permissivo dell’etica degli imprenditori possa condurre a riconoscere un comportamento oggi lecito in futuro come illecito, o viceversa. Perché ci riferiamo all’etica dell’imprenditore e al comportamento degli imprenditori? Perché l’art. 2598 dopo aver individuato gli atti tipici di concorrenza sleale

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(confusione, denigrazione, vanteria) precisa che lo è ogni altro atto non conforme ai principi della correttezza professionale: è in questo che noi ritroviamo questa formula aperta, cioè la non conformità dell’atto ai principi della correttezza professionale. Allora chi ce li dice questi principi? Da cosa li traiamo questi principi? È chiaro che l’interpretazione del principio sarà sempre del giudice al quale le parti, gli imprenditori, sottoporranno il caso concreto che si è posto e il giudice deciderà se quel comportamento è un atto non conforme ai principi di correttezza professionale oppure no, ma quali parametri deve usare il giudice per stabilire se un atto è conforme o meno ai parametri della correttezza professionale? Appunto quella che è l’etica degli imprenditori in quel determinato momento, cioè deve interpretare cosa nel comportamento ordinario dell’imprenditore è legittimo oppure no nel momento in cui si trova a decidere di quella determinata questione. E questo percorso interpretativo non riguarda solo quelle ipotesi atipiche ma anche le ipotesi tipiche, cioè anche la confusione o la denigrazione o la vanteria devono essere interpretate alla luce di questa clausola generale cioè se un atto che sembra un atto di confusione (per le modalità in cui è posto in essere, per la diversa evoluzione del comportamento medio degli imprenditori e quant’altro) è un atto non sleale, cioè conforme ai principi della correttezza professionale degli imprenditori, allora il giudice dovrà ritenere che quell’atto è lecito anche se è confusione o denigrazione, cioè non potrà dire che siccome è un atto astrattamente confusorio deve essere sanzionato. Detto questo possiamo passare ad analizzare il primo di questi atti tipici che è la CONFUSIONE:quando parliamo di confusione parliamo di un comportamento dell’imprenditore sleale che mediante

a) l’uso di segni distintivi tipici o atipici b) l’imitazione servile dei prodottic) ogni altro mezzo

induce in confusione il pubblico circa la provenienza o l’attività. Evidentemente c’è un’attività sleale che si sostanzia nell’indurre in confusione il pubblico circa chi sia l’imprenditore o quale sia il prodotto (penso di comprare uno specifico prodotto e invece acquisto un prodotto che proviene da un altro produttore o addirittura compro un prodotto diverso da quello specifico). Come riesco a indurre in confusione il pubblico? Qui parliamo di confusione non necessariamente del consumatore, anche se è chiaro che è più facile che un’attività confusoria abbia come soggetto passivo il consumatore perché gli altri operatori del mercato sono più attenti ed è più difficile che siano indotti in inganno, però il legislatore non limita la confusione esclusivamente al pubblico dei consumatori ma può essere rivolta nei confronti di qualsiasi operatore del mercato, anche se di solito la confusione è operata avendo come soggetto passivo di riferimento i consumatori. Abbiamo visto che la confusione si può quindi sostanziare in tre diversi comportamenti:

a) il primo è la confusione su segni distintivi tipici (cioè la ditta, l’insegna e il marchio) il cui significato è proprio nella capacità che hanno di individuare,selezionare e far riconoscere immediatamente al pubblico un imprenditore (nel caso della ditta), un luogo nel quale viene esercitata una determinata attività (nel caso dell’insegna) o un determinato prodotto (nel caso del marchio). È chiaro che posso indurre in confusione il pubblico utilizzando segni distintivi simili o confondibili con quelli utilizzati da altro imprenditore. Questo è il caso più semplice di confusione. Occorre però dire che, fermo restando che questo è il caso più semplice di confusione perché è chiaro che se io appongo al mio prodotto un marchio di un altro imprenditore, utilizzo una ditta o un’insegna confondibile il pubblico si rivolgerà a me pensando di rivolgersi ad un altro imprenditore, ma è anche vero che quando la confusione operata sui segni distintivi tipici non si utilizza lo strumento della concorrenza sleale ma si utilizzano i più efficaci strumenti previsti dalle altre norme di legge, in particolare ci si riferisce al codice della proprietà industriale in materia di segni distintivi tipici. Allora per esempio in caso di contraffazione di un marchio agirò ai sensi dell’azione di contraffazione non vado a richiamare l’azione di concorrenza sleale perché l’azione di contraffazione mi fornisce una tutela più immediata e più sicura rispetto all’azione di concorrenza sleale. È chiaro che il maggior significato della confusione su segni distintivi riguarda i segni distintivi atipici, i segni distintivi non registrati, quelli cioè non provvisti di una specifica tutela. Questo elemento però riguarda la convenienza dell’imprenditore leale titolare di quel segno

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distintivo ad agire ai sensi delle azioni speciali, cioè nulla vieta all’imprenditore di avvalersi anche dell’azione di concorrenza sleale. Quando l’imprenditore preferirà l’azione di concorrenza sleale alle azioni tipiche? Quando abbia dubbi sulle azioni tipiche, quando ci siano possibili problemi relativi alle azioni tipiche. Se viene utilizzato (lo vedremo anche nell’ambito della disciplina dei segni distintivi tipici come disciplinato nel codice della proprietà industriale) un segno distintivo altrui in maniera diversa da come lo utilizzavano altri cioè utilizzare l’insegna come ditta, l’insegna altrui come marchio, cioè l’utilizzo di un segno distintivo in maniera diversa, anche questo è configurabile come un atto confusorio che non è solo dato da marchio/marchio, ditta/ditta, insegna/insegna ma anche quando utilizzo un segno distintivo altrui in modo diverso da come lo utilizza un altro, ma comunque richiamando l’attenzione del pubblico su quell’elemento distintivo che quel segno offre. Dal punto di vista della confusione per l’utilizzo del segno distintivo (ma lo stesso vale per l’imitazione servile e per l’utilizzo degli altri mezzi) è chiaro che poi dobbiamo introdurre un elemento in più: la confusione sarà più forte, quindi un tentativo di indurre in errore il pubblico molto più particolare e delineato, quando parliamo di un prodotto di elevato livello e costo, quando ci si rivolge ad un pubblico particolarmente attento. Se io faccio una confusione su un auto o su un pc o un telefono ecc è difficile che il pubblico non se ne accorga perché il pubblico che si rivolge a questi bene è un pubblico attento. Se invece pensiamo a prodotti di basso costo o di frequente consumo la confusione è facilissima, per es. detersivi, quindi per questi prodotti basta un elemento confusorio molto lieve per poter indurre in confusione il pubblico perché la soglia di attenzione del pubblico è molto più bassa. Ecco che allora anche la particolarità da un punto di vista confusorio per i segni distintivi ,ma anche per gli altri elementi, è più significativa quanto più il prodotto è di basso costo o di frequente consumo, rispetto al quale la soglia di attenzione è più bassa; mentre è necessario un comportamento che induca in confusione molto più particolare quando parliamo di una soglia di attenzione più elevata.

a) L’imitazione servile:

Quando parliamo di confusione parliamo di confusione da un punto di vista della provenienza del prodotto o della riferibilità di quel prodotto ad un determinato imprenditore (Questa è la confusione). Ecco che allora l’imitazione servile come elemento confusorio riguarda le caratteristiche esterne del prodotto, non quello che c’è dentro ma quello che c’è fuori. Cioè posso io indurre in confusione il pubblico mediante imitazione servile quando imito la forma del prodotto, quello che c’è dentro non importa perché quello che c’è dentro è un altro problema; il problema della confusione è quello che c’è fuori cioè le confezioni, la visibilità esterna di quel determinato prodotto che è tale da indurre in confusione il pubblico circa il prodotto o la sua provenienza. Vediamo come si articola questo problema della confusione per imitazione servile che forse tra le tre ipotesi confusorie è quella più rilevante perché quella dei segni distintivi riguarda praticamente solo quelli atipici, quella degli altri mezzi riguarda solo casi residuali, l’imitazione servile invece la troviamo solo qua ed è quella che è soggetta a maggiori interventi della giurisprudenza. Innanzitutto affinchè ci possa essere una confusione per imitazione servile è necessario che ci si riferisca alle forme esteriori del prodotto, quindi cosa escludiamo subito? Escludiamo subito le forme banali, le forme necessarie; se il prodotto ha una forma necessaria per l’uso al quale è destinato noi non possiamo parlare di un’imitazione servile (nessuno si sognerebbe di richiamare concorrenza sleale per la forma della bottiglia delle bibite, questo in linea di principio). Nei casi delle forme banali o necessarie cosa distingue un prodotto dall’altro? Le etichette che ci sono apposte, i colori delle confezioni ecc. Allora in questo caso non è la forma in sé che

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assume rilevanza ma sarà l’etichetta, il colore della scatola ecc e, siccome questi elementi saranno tutelati da marchi registrati o da altri segni distintivi, ritorniamo alla prima ipotesi. Invece noi qui ci dobbiamo preoccupare della forma esteriore del prodotto che induce un’immediata riconoscibilità del prodotto. Un esempio di bottiglia la cui forma non è banale è quella della bottiglia della Cocacola di vetro (che è anche registrata come marchio) che non ha una forma necessaria ma ha una forma particolare, diversa da ogni altra bottiglia che consente al pubblico di riconoscere immediatamente il prodotto. Ecco che la forma esteriore del prodotto deve attribuire una particolare riconoscibilità rispetto ad ogni altro prodotto, deve essere una forma non banale, non comune, che offre una riconoscibilità al prodotto; quando è imitata questa forma siamo al cospetto dell’imitazione servile. Il problema della forma impatta con altri elementi del diritto industriale e assume elementi di delicatezza: se ad esempio siamo al cospetto della forma necessaria allora non c’è problema di imitazione servile perché se la forma è necessaria non posso impedire che venga utilizzata; dobbiamo essere al cospetto di una forma particolare che offre una particolare riconoscibilità, ma che succede se siamo al cospetto di una forma che offre al prodotto una particolare utilità? Potremmo avere una forma esteriore del prodotto che consente al prodotto di conservarsi meglio, di avere una maggiore resistenza, di dare al prodotto una maggiore utilità ecc in questo caso ci potremmo porre sulla linea di confine tra la forma esteriore che dà riconoscibilità al prodotto e l’invenzione industriale, o quanto meno tra la forma esteriore che dà una maggiore riconoscibilità al prodotto e il modello ornamentale (che non trattiamo).

L’invenzione industriale è quell’elemento che determina un’innovazione di prodotto o di procedimento tale da conseguire un progresso nella tecnica ed è centrale l’utilità dell’invenzione.

Quando io, elaborando una determinata forma particolare, introduco un elemento innovativo che è anche utile e sto borderline con l’invenzione industriale, questo essere borderline con l’invenzione industriale mi porta un problema: se io quell’elemento lo brevetto come invenzione industriale ho rispetto a quell’elemento una tutela assoluta e molto più forte rispetto alla concorrenza sleale, ma ho una tutela limitata nel tempo perché le invenzioni industriali dopo 20 anni non possono essere più rinnovate e diventano pubbliche e a disposizione di tutti. Perché? Se io consentissi un diritto di proprietà sull’invenzione industriale perenne, non consentirei mai il progresso della tecnica, la possibilità che di una determinata entità se ne beneficino un maggior numero di persone a costi ridotti, cioè l’ordinamento sacrifica per un determinato periodo di tempo la possibilità di un utilizzo generale del frutto dell’invenzione perché altrimenti poi nessuno inventerebbe niente (se io invento qualcosa e subito tutti la possono utilizzare che interesse ho a fare ricerca, studi ecc?!). Per alcuni prodotti la tutela è maggiori o minore dei 20 anni. Quindi il legislatore dà una tutela assoluta per 20 anni per stimolare l’inventività ma poi diventa pubblica.

Se lo considero come forma esteriore del prodotto è vero che non ho il beneficio dell’invenzione industriale,cioè la tutela fortissima dell’invenzione industriale, ma è anche vero che l’imitazione servile è perenne, non ha limiti di tempo; se è una forma esteriore particolare che non attribuisce una particolare utilità io la posso utilizzare per sempre, il marchio la ditta e l’insegna sono segni distintivi che se rinnovati possono avere una durata infinita, e perché questo? Perché il segno distintivo è qualcosa che io ho dato al prodotto, non gli attribuisce una particolare utilità, quindi non c’è interesse del mercato, non c’è un progresso per il mercato né una maggiore utilità del segno distintivo.

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Viceversa dell’invenzione industriale il mercato si interessa perché essa porta delle utilità al prodotto e al mercato. Ecco che, quando la forma esteriore non è meramente ornamentale o particolare o attributiva di una riconoscibilità, ma è una forma esteriore che è anche utile e l’elemento di utilità sia prevalente rispetto all’elemento estetico, allora in quel caso è dubbio che si possa parlare di imitazione servile ma dovremmo essere al cospetto di un invenzione industriale non brevettata, con tutto quello che consegue. Ma non potrebbe essere sottoposta alla tutela dell’imitazione servile perché avrei dovuto chiedere l’accesso ad altra tutela, non l’ho fatto per beneficiare dei tempi perenni che questo sistema offre e non posso farlo perché altrimenti sottraggo l’utilità che quella forma esteriore può dare al mercato in maniera perenne. È chiaro che quando siamo al cospetto di una forma utile, il discrimine fra forma utile (ma non particolarmente utile) e forma utile da invenzione industriale è molto sottile e dovrà necessariamente essere esaminato nel caso concreto, cioè è difficile dire quando questa linea viene superato e spesso è necessariamente frutto dell’analisi del caso concreto perché non è possibile dare prima una soluzione sicura.

b) L’ultimo elemento relativamente a questo elemento confusorio riguarda gli altri mezzi. Già la disciplina della concorrenza sleale è una norma aperta e il legislatore ha voluto essere aperto anche esplicitamente nella confusione proprio per evitare qualsiasi possibilità restrittiva dal punto di vista confusorio ed ha introdotto come elemento che costituisce confusione anche l’utilizzo di ogni altro mezzo idoneo a creare confusione. Siamo nel campo delle ipotesi residuali quindi ci rientra tutto quello che avremmo qualche difficoltà a far rientrare nelle prime due ipotesi. Ad esempio nel mercato degli spedizioniere il colore dei pullman cioè elementi che non sono proprio di imitazione servile, non sono segni distintivi ma che possono indurre in confusione il pubblico, per es. il particolare colore delle divise ecc cioè elementi che non sono sottoposti a tutela brevettuale, non sono vere e proprie forme esteriori del prodotto, non sono segni distintivi però è qualcosa che induce nel pubblico un riconoscimento di un prodotto, di un servizio, di un produttore e rispetto a quel riconoscimento il pubblico viene indotto in confusione.

05/12/2011Abbiamo visto la concorrenza sleale con riferimento a quella per confusione, ora possiamo vedere le altre due ipotesi tipiche di concorrenza sleale e della problematica della pubblicità comparativa (trattando del tema della denigrazione, vedremo come un elemento denigratorio è sicuramente la pubblicità comparativa ma se essa rispetta i requisiti della legge è legittima in quanto in tal senso si è espresso il legislatore anche rispetto a direttive comunitarie). Le altre due ipotesi tipiche di concorrenza sleale sono la denigrazione e la vanteria.LA DENIGRAZIONELa denigrazione si sostanzia nel gettare discredito sui prodotti e sull’attività di un concorrente, cioè un imprenditore che è in concorrenza con un altro imprenditore svolge un’attività di discredito nei confronti dell’altro. Questo discredito deve riguardare i prodotti e l’attività del concorrente, quindi può riguardare qualunque elemento relativo ai prodotti e all’attività. Quando mi riferisco ai prodotti, ad es. possiamo ipotizzare la qualità dei prodotti quindi sia negare delle qualità ai prodotti del concorrente sia affermare degli elementi sfavorevoli dei prodotti del concorrente, sia quanto al contenuto sia quanto alla loro utilità e funzionalità; quindi qualunque elemento che sia screditante del prodotto del concorrente. Nel momento in cui invece ci riferiamo all’attività del concorrente, ci riferiamo sia alle modalità attraverso le quali il concorrente svolge le sue attività sia quanto alla situazione stessa della sua attività, allo stato della sua attività ed è evidentemente anche correlato alla capacità che l’imprenditore ha di gestire quell’attività e ai successi ed esiti positivi che quell’attività riesce a raggiungere. Gli esempi di denigrazione sono banali: denigrazione relativa ai prodotti può riguardare il negare ai

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prodotti una loro capacità,una loro attività, per es. affermo che il caffè decaffeinato del concorrente in realtà contiene caffeina oppure per es. lo shampoo non ha efficacia per un determinato problema, oppure ancora più gravemente faccio delle affermazioni relative alla pericolosità dei prodotti del concorrente per es. rispetto alla salute. Per quanto l’attività gli esempi possono riguardare sia la slealtà del concorrente (per es. dico che il concorrente è sleale, non corretto ecc) sia lo stato dell’attività (per es. l’imprenditore è in crisi, si trova in uno stato di insolvenza, non è in grado di svolgere la sua attività ecc). È chiaro che vengono fuori da elementi denigratori ,relativi all’attività dei prodotti del concorrente, elementi di carattere personali ma la denigrazione deve riguardare i prodotti e l’attività; se si svolge una denigrazione di ordine personale cioè della persona fisica del concorrente, della sua vita affettiva ecc non siamo al cospetto di una denigrazione ma siamo al cospetto di altro, se quest’attività è portata avanti ed è resa pubblica in una maniera che sia lesiva al decoro di una persona o calunniosa, ci saranno iniziative civili e penali che potranno essere proposte contro questa persona, indipendentemente dal fatto che esso sia imprenditore o meno (come accade in genere tra le persone). Ci sono chiaramente delle situazioni a limite nelle quali la denigrazione di ordine personali può avere effetti anche relativamente all’attività che svolge, ad es. se diffondo la notizia che un imprenditore concorrente usa droga o quant’altro potrei dirlo per non solo per finalità calunniose ma anche per svolgere un’attività denigratoria; se mi rivolgo agli istituti bancari che erogano credito affermando che il concorrente è dedito al gioco di azzardo probabilmente essi non saranno disposti a dare soldi al concorrente, quindi questa azione non è solo calunniosa per la persona ma ha una finalità denigratoria dal punto di vista commerciale, quindi ecco che la calunnia o la lesione della dignità e del decoro altrui relativa a elementi personali possono (in casi particolari) assumere una qualificazione denigratoria dal punto di vista delle concorrenza sleale; ma in linea di principio tutto ciò è da escludere e la denigrazione si deve basare sui prodotti e sull’attività del concorrente. Fermi restando la necessità, affinchè ci sia denigrazione dal punto di vista della concorrenza sleale, che siano rispettati i profili merceologici e territoriali (questo non bisogna mai dimenticarlo!!!) infatti ogni qual volta parliamo di concorrenza sleale è denigrazione quella che è svolta da un concorrente il quale si trova in rapporto di concorrenza sia dal punto di vista merceologico sia dal punto di vista territoriale perché se mancano gli elementi merceologici e territoriali in realtà non siamo al cospetto di un’attività di concorrenza sleale. Quali sono le modalità attraverso le quali si può gettare discredito? Le modalità sono le più varie: ovviamente le attività pubblicitarie vere e proprie, ovvero una comunicazione pubblicitaria volta a denigrare l’attività di un concorrente; abbiamo attività di comunicazione pubblica, possiamo avere ad esempio un’intervista con finalità denigratoria; oppure la formulazione di atti giudiziari nei confronti del concorrente che non abbiamo la finalità di ottenere un risultato effettivo ma abbiamo solo una finalità denigratoria (per es. ti diffido dal compiere determinate azioni che sono lecite ma è la mia diffida che sono illegittime); quindi le modalità possono essere le più varie e spazzano dalla comunicazione pubblicitarie agli atti giudiziari ecc cioè qualsiasi iniziativa che possono avere questo effetto denigratorio. Affinché si abbia denigrazione è necessario che quella comunicazione denigratoria sia rivolta ad un pubblico (non è che l’imprenditore in quanto è tale perde la possibilità di esprimere una sua opinione di un altri imprenditore,magari ad un amico ma l’elemento denigratorio si rinviene nella comunicazione al pubblico di quella opinione o di quel parere denigratorio), è la comunicazione all’esterno che determina la rilevanza denigratoria di un determinato comportamento. In linea di principio di riferiamo alla denigrazione quando essa è rivolta nei confronti di un pubblico indistinto di persone, cioè per es. l’intervista che può essere letta da chiunque sia in contatto con l’imprenditore ed il pubblico che la legge è massimamente indistinto (clienti, fornitori, finanziatori attuali e potenziali) che può venire a conoscenza di quella informazione denigratoria. Posso anche svolgere attività denigratoria mirata, ad esempio vedo sul bilancio di quel determinato concorrente chi sono i clienti, i fornitori, i finanziatori ed invio una comunicazione scritta a un numero congruo di soggetti in correlazione con l’impresa concorrente, allora in questo caso è vero che la comunicazione non è rivolta ad un pubblico indistinto ma è rivolta ad un pubblico molto mirato ed anche in questo caso avremo denigrazione, cioè non è necessario che la comunicazione sia rivolta ad un numero enorme di persone, ma è denigratoria anche la comunicazione rivolta ad un numero ben determinato di persone, purché siano persone che abbiano un contatto/legame con l’impresa concorrente. È sorto il dubbio se la comunicazione denigratoria rivolta a una persona, che non sia la comunicazione familiare o della cerchia dei propri conoscenti, ma che sia una comunicazione denigratoria rivolta ad un solo soggetto sia denigrazione oppure no, perché la denigrazione implica una comunicazione a un

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pubblico, ora questo pubblico può essere di poche o di milioni di persone, può essere distinto o indistinto ma in ogni caso è elemento che connota attività denigratoria la comunicazione ad un certo pubblico; allora se la comunicazione è rivolta nei confronti di un'unica persona certo non è un pubblico. In ogni caso (dal punto di vista del Prof) anche la comunicazione rivolta ad una persona può avere una rilevanza denigratoria, dipende dalla situazione specifica di cui si tratta, cioè se per es. l’amministratore delegato di Banca intesa svolge attività denigratoria rispetto ad Unicredit per il correntista che ha un conto di 10.000€, questa attività è talmente non rilevante e di scarso significato che non mi metto proprio a pensare se è denigratoria o meno (è rivolta nei confronti di UNA persona, che ha dei rapporti con il concorrente ma minimali, nel senso che l’influenza che può avere quella denigrazione sull’attività del concorrente è bassissima), se io mi rivolgessi ad un numero più elevato di persone allora l’effetto sarà maggiore anche perché si ha un effetto di diffusione tra i soggetti. Ma la stessa comunicazione denigratoria fatta ad UNA sola persona può essere vera e propria denigrazione ai fini della concorrenza sleale, (se nel caso di prima non lo era) un caso in cui lo può essere è quando l’attività denigratorio la rivolgo al principale fornitore, al principale cliente, al principale finanziatore di quel determinato concorrente, è vero che vado da una persona ma quella persona è decisiva per lo svolgimento dell’attività del concorrente allora ecco che quando quella persona è particolarmente qualificata per la sua rilevanza, per la rilevanza dei rapporti che quella persona ha col concorrente, io riterrei corretto che anche quell’attività possa qualificarsi come denigratoria, cioè non è rilevante il pubblico in sé ma è rilevante il pubblico quale elemento negativo che quella comunicazione al pubblico ha per i prodotti o l’attività del concorrente. Quindi anche una sola persona può essere rilevantissima se il ruolo che ha nell’attività del concorrente è significativo o addirittura decisivo. Una tematica sulla quale si discute è la denigrazione fondata su elementi veritieri. Se io affermo che l’imprenditore concorrente si trova in stato di insolvenza (che è una delle comunicazioni denigratorie) e lui veramente si trova in stato di insolvenza, se affermo che il prodotto del concorrente non ha utilità ed è vero, se affermo che il prodotto è dannoso ed è vero ecc io mi trovo al cospetto di una denigrazione sui prodotti e sulle attività del concorrente o no? Cioè denigrazione sottintende necessariamente la falsità, l’esagerazione(magari si trova in uno stato solo di un po’ di crisi e io affermo che è insolvente e in questo caso tutti riconoscono che è denigrazione, poiché non è denigrazione solo la notizia radicalmente falsa ma anche la notizia tendenziosa e esagerata o rappresentata come tale) ecc? Parliamo di dichiarazioni che sono proprio vere! Qui si apre il dibattito perché molta parte della dottrina ritiene che la denigrazione non sarebbe tale quando la comunicazione che getta discredito è basata su elementi veritieri, cioè la verità farebbe perdere la rilevanza denigratoria della comunicazione perché non faccio altro che affermare il vero e al contempo posso evitare che nuovi imprenditori o finanziatori assumono rischi nell’entrare in contatto con quel fornitore, evito che altri consumatori assumono un prodotto dannoso per la salute, quindi svolgo anche un’attività sociale. In realtà (secondo il prof) è pur sempre denigrazione anche la denigrazione che si fonda su elementi veritieri nel senso che, dal punto di vista del concorrente, è legittimo porre in essere tutte le attività giudiziarie o stragiudiziarie che riguardano l’attività del concorrente nei limiti in cui questa interessa la sua persona, cioè se ad esempio un imprenditore afferma che il suo prodotto ha delle funzioni che non sono reali ma io invece ho un prodotto che ha realmente quella funzione allora gli potrò fare io un’azione a lui per la sua concorrenza sleale per vanteria, per cui ci sarà un giudice che vedrà se è vero o no e di quella sentenza del giudice potrò dare comunicazione, ma non posso io ergermi giudice di una situazione e comunicarla al mercato. Se ad esempio io affermo che un imprenditore concorrente è insolvente e vado a comunicarlo sul mercato compio un atto illecito dal punto di vista della concorrenza sleale, anche se è vero, questo perché io non sono un soggetto legittimato a far emergere l’insolvenza altrui; i soggetti che possono far emergere l’insolvenza sono i creditori, il debitore e il pubblico ministero nei casi previsti dalla legge, quindi io non ho legittimazione a dare comunicazione al mercato (al pubblico) di una situazione che scredita un concorrente, anche se è vera. Se il prodotto di un concorrente è alterato, è dannoso ecc posso fare una denuncia alla procura della repubblica (autorità giudiziaria), come qualunque cittadino, ma non posso dire che il concorrente compie un atto illecito, se lo faccio compio un’attività sleale. Tanto è vero che compio un’attività sleale che il legislatore ha invece legittimato LA PUBBLICITÀ COMPARATIVA che è un’attività volta a gettare discredito sui prodotti o sull’attività del concorrente, ma in questo caso il discredito è lecito, cioè nel momento in cui io formulo una comunicazione pubblicitaria, che rispetta i dettami stabiliti dal legislatore, è vero che faccio una comparazione fra due prodotti, è vero che getto discredito ma quel discredito è reso legittimo da un intervento del legislatore. Proprio i limiti che mi dà il legislatore alla pubblicità comparativa sono

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(secondo il prof) la più grande dimostrazione della non-correttezza della denigrazione fondata su elementi veritieri perché la semplice denigrazione, anche su dati veri, ma che non risponde a canoni di pubblicità comparativa è un’attività denigratoria. Dobbiamo sempre ricordare che la concorrenza sleale non ha una finalità di tutela di consumatori, fornitori, finanziatori ecc cioè del mercato, ma ha una finalità di tutela esclusivamente degli imprenditori, e l’imprenditore perché dovrebbe andare a fare una comunicazione denigratoria pubblica di un concorrente? Non è questo un comportamento eticamente corretto, fermo restando che se c’è un illecito può far valere l’illecito del concorrente nei limiti in cui abbia una legittimazione, ma se non lo fa valere secondo la legge (come abbiamo vista prima) allora compie un illecito. Questo tema inevitabilmente arriva all’ulteriore tematica della legittima difesa che è una tematica che riguarda sempre la denigrazione cioè supponiamo che io produco crema anticellulite e faccio una comunicazione pubblica e dico “la crema del mio concorrente non ha nessun effetto”, allora il concorrente dice “non soltanto la mia ha effetto ma è la tua che non ha alcun effetto dal punto di vista dei risultati e comunque la tua attività è un’attività sleale perché mi stai facendo concorrenza sleale perché non sei legittimato a fare questa comunicazione al pubblico”, quindi la legittima difesa può riguardare sia comportamenti difensivi rispetto all’attività screditante altrui che si limita alla contestazione sul prodotto o sull’attività, sia una legittima difesa che a prescindere dalla verità o meno delle attestazioni altrui, dalla bontà o meno del prodotto e dell’attività altrui si fondi solo sul dire “sei sleale”, quindi faccio un’intervista pubblica o una comunicazione pubblicitaria attraverso cui affermo che quell’imprenditore è sleale perché fa una comunicazione che non potrebbe fare sul piano della concorrenza sleale. Si è discusso se la legittima difesa sia un’attività possibile, vengo aggredito e mi posso difendere? No, nel senso che, nel momento in cui affermo che l’attività altrui è attività di concorrenza sleale, mi sostituisco al giudice, cioè se c’è un imprenditore che compie un’attività sleale nei miei confronti sono legittimato a rivolgermi al giudice ed avere un provvedimento che è immediato (viene fatto anche nel giro di 15 giorni), per cui è necessario che la slealtà del comportamento altrui sia comunque accertata dal giudice perché, nel momento in cui mi sostituisco al giudice, mi ergo a mia volta a giudice di una determinata situazione e compio un atto illegittimo e anche questa è un’attività sicuramente di concorrenza sleale e come tale va sanzionata. Prima di parlare della pubblicità comparativa, vediamo l’altro caso tipico di concorrenza sleale cioè la vanteria. In realtà non è un caso che siano insieme (denigrazione e vanteria) perché può capitare spesso, al di là dell’astratta riconoscibilità dell’una e dell’altra fattispecie (cioè della denigrazione e della vanteria, infatti è evidente sul piano astratto quale è la differenza tra denigrazione e vanteria), sul piano concreto spesso diventa difficile andare a distinguere le due ipotesi cioè ci sono ipotesi che per la loro configurazione possono essere viste sia come denigrazione che come vanteria, ecco perché queste due fattispecie vanno insieme, si considerano insieme e sono infatti contenute insieme nel numero 2 dell’art.2598. Nella VANTERIA io non svolgo una denigrazione dei prodotti o delle attività di un concorrente ma svolgo una magnificazione dei miei prodotti e della mia attività, cioè attribuisco ai miei prodotti pregi, qualità, risultati, effetti che i miei prodotti in realtà non posseggono. Poi questi pregi e queste qualità possono essere possedute dai prodotti e dall’attività di un concorrente o viceversa possono essere proprio pregi e qualità che non possiede nessun prodotto e nessun concorrente, quindi posso appropriarmi falsamente di pregi altrui (tanto è vero che la vanteria viene nominata anche come appropriazione di pregi altrui, cioè io riconosco al mio prodotto un pregio che il mio prodotto non ha e che invece ha il prodotto di un concorrente, oppure mi approprio di pregi che non ha nessun prodotto. Chi vede la vanteria solo come appropriazioni di pregi altrui riconosce nella vanteria soltanto “quel” comportamento, cioè il comportamento volto ad affermare un pregio del proprio prodotto che non ha ma che invece posseggono altri, ma questa è un’eccessiva puntualizzazione perché sicuramente è un comportamento sleale dal punto di vista concorrenziale anche l’appropriazione di un pregio che non possiede nessuno. Qualcuno quindi ritiene che sia vanteria solo l’appropriazione di pregi altrui, mentre l’appropriazione di pregi non posseduti da nessuno è un’ipotesi atipica di concorrenza sleale. In realtà c’è una piccola differenza che si potrebbe avere tra le due fattispecie: abbiamo accennato nella precedente lezione al tema dell’iniziativa per far valere la concorrenza sleale altrui e abbiamo detto che sicuramente può agire l’imprenditore leale nei confronti dell’imprenditore sleale quando l’imprenditore leale è leso da un atto dell’imprenditore sleale, ci sono delle ipotesi in cui la concorrenza sleale è rivolta non nei confronti di un determinato imprenditore ma di tutti quelli che operano nel mercato che vengono tutti danneggiati, quindi non c’è un determinato imprenditore ad essere danneggiato ma è la categoria imprenditoriale ad essere danneggiata, in questo caso ci può

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essere una differenza sul piano della legittimazione. Chi può agire? Possono agire tutti, può agire anche l’associazione di categoria. Quando l’atto illecito di un concorrente è lesivo ad un altro concorrente dell’intera categoria possono agire anche le associazioni di categoria perché quel comportamento danneggia tutto il mercato, quindi può vedere un’iniziativa anche di un’associazione di categoria. Al di là di questo è vanteria (indipendentemente delle persone che possono agire) sia l’una ipotesa che l’altra ipotesi sopra descritta, cioè sia se io mi approprio di pregi altrui, sia laddove mi appropri di pregi di nessuno che però io non ho; il punto centrale è che sicuramente questi pregi non li posso avere perché nel momento in cui ho dei pregi dei quali faccio comunicazione sicuramente non faccio vanteria perché dico la verità. Potrei anche avere dei pregi che possiedo illegittimamente: supponiamo che il prodotto di un imprenditore è tutelato da un brevetto per invenzione industriale, io illecitamente tramite per es. spionaggio industriale mi approprio di quei segreti, li applico e poi mi vanto pure di avere dei pregi, in questo caso non è vanteria ma sarà violazione del brevetto altrui, perché io non mi sto vantando di una cosa che non ho ma mi sto vantando di una cosa che ho e il problema è come ce l’ho. L’elemento centrale ed essenziale affinché si possa individuare vanteria è la assenza nel mio prodotto di quel pregio e di quella qualità che io assumo che il mio prodotto abbia, se ce l’ho realmente non è vanteria ma se ce l’ho illecitamente richiamerò altre norme di legge. Dobbiamo fare delle precisazioni su questa magnificazione dei prodotti che viene fatta dall’imprenditore, cioè è evidente che tutti gli imprenditori svolgono un’attività di magnificazione dei propri prodotti (parlano a favore dei propri prodotti), soprattutto nelle pubblicità, quindi oggi è comportamento lecito tra gli imprenditori quello volto alla magnificazione del proprio prodotto, anche oltre quelle che sono le effettive qualità che possono riconoscersi al prodotto. Però questa magnificazione prevede dei limiti, infatti la pubblicità iperbolica è legittima ma purché l’iperbole sia vista come tale (cioè per es. per la Redbull nessuno pensa che bevendola si vola) ma viceversa potrei toccare degli elementi delicati nella psicologia soprattutto dei consumatori. Se formulo una pubblicità in cui dico che il mio shampoo fa ricrescere i capelli sicuramente non esiste uno shampoo del genere al max possono rallentare la crescita, quindi non faccio né un iperbole né magnifico ma faccio di più cioè faccio vanteria perché attribuisco al mio prodotto un pregio e una qualità che non è posseduto da nessuno e in questo senso faccio concorrenza sleale perché le persone potranno in buona fede credere alla mia affermazione (che non è un iperbole ma è una magnificazione che attribuisce al mio prodotto qualità che non ha), tale da rendere illegittima la mia affermazione dal punto di vista della vanteria. Molto più semplice è il caso della vanteria che si fonda su pregi posseduti da altri: per es. la Renault afferma che la sua macchina arriva a 300 km/h che è invece una caratteristica della Ferrari, allora svolgo un’attività di vanteria; a questa affermazione forse nessuno crederà perché il pubblico è più attento in questo caso rispetto al pubblico che magari compra lo shampoo poiché quanto più il prodotto e qualitativamente o come prezzo elevato, tanto più c’è attenzione da parte del soggetto che acquista.

PUBBLICITÀ COMPARATIVA Definizioni Art.2 D.lgs 2 Agosto 2007 n.145a) pubblicita': qualsiasi forma di messaggio che e' diffuso, in qualsiasi modo, nell'esercizio di un'attivita' commerciale,industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere il trasferimento di beni mobili o immobili, la prestazione di opere o di servizi oppure la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi;b) pubblicita' ingannevole: qualsiasi pubblicita' che in qualunque modo, compresa la sua presentazione e' idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali e' rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente;c) professionista: qualsiasi persona fisica o giuridica che agisce nel quadro della sua attivita' commerciale, industriale, artigianale o professionale; e chiunque agisce in nome o per conto diun professionista;d) pubblicita' comparativa: qualsiasi pubblicita' che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente;e) operatore pubblicitario: il committente del messaggio pubblicitario ed il suo autore, nonche', nel caso in cui non consenta all'identificazione di costoro, il proprietario del mezzo con cui il messaggio

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pubblicitario e' diffuso ovvero il responsabile della programmazione radiofonica o televisiva.Il profilo delicato di questa tema riguarda l’ingannevolezza della comunicazione, cioè la pubblicità sia quando si fonda che quando non si fonda su elementi di comparazione, non deve indurre in inganno i consumatori . Il provvedimento (d.lgsl 2 Agosto 2007 n. 145-pubblicità ingannevole) ha ragioni diverse da quelle della concorrenza sleale. Mentre nella concorrenza sleale il bene tutelato è la correttezza professionale, quindi l’esigenza che non sia lesa mediante atti sleali l’attività e il ruolo che un concorrente occupa, per cui nella concorrenza sleale la rilevanza del pubblico/del mercato/dei consumatori/di tutti quelli che operano con quel determinato imprenditore è visto solo di riflesso, in che senso essi sono tutelati? Nel senso che se gli imprenditori si comportano lealmente il mercato funziona meglio ma non c’è una tutela diretta e immediata del mercato o dei consumatori, i quali non solo non possono agire ai sensi della concorrenza sleale, ma non è una disciplina che è volta alla loro tutela (cioè se io comunico che in un prodotto altrui c’è la diossina ed è vero faccio un atto importante per i consumatori ma commetto un illecito dal punto di vista concorrenziale). Il tema della pubblicità viceversa è stato esaminato con vari provvedimenti (di cui quello citato è solo l’ultimo) perché ci si è resi conto a livello comunitario, e poi a livello nazionale ci si è dovuti uniformare, dell’illogicità di un divieto di pubblicità comparativa, della necessità che il legislatore entrasse sul problema dell’ingannevolezza del messaggio pubblicitario; in realtà sono due elementi della stessa medaglia, solo che l’ingannevolezza non necessariamente richiede una comparazione, la comparazione se svolta male può dar luogo a ingannevolezza. Il tema della pubblicità comparativa come nasce nella sua genesi normativa italiana? Evidentemente la pubblicità comparativa era una pubblicità riconosciuta come illecita perché anche la pubblicità comparativa più corretta o conforme alla verità dei fatti implicava una denigrazione e, nel momento in cui riconoscevamo che la denigrazione è tale anche quando si fonda su elementi veritieri, la pubblicità verissima, correttissima, informativa di cose vere è qualificata come atto denigratorio, quindi come atto illecito. Tuttavia si è ritenuto necessario superare questo vincolo. La comparazione oggi è legittima, la pubblicità comparativa oggi è legittima e i principi generali di legittimità della pubblicità comparativa sono i seguenti: la comparazione deve riguardare elementi• oggettivi, cioè è difficile fare una comparazione per es. sul gusto della birra perché è una comparazione che non posso fare ed essa è inevitabilmente denigratoria; si potrebbe far questa comparazione sulla base del fatto che la faccio assaggiare a 100 esperti ma comunque non è oggettivo perché magari ci sarà il 101esimo che dirà che la birra x è più buona della birra y, quindi questi elementi che non hanno una valutabilità oggettiva, ma hanno una valutazione che si fonda comunque su parametri soggettivi e non legittimano una comparazione; è legittima l’affermazione che si fa in molti prodotti di dire “x persone hanno affermato che questo prodotto è meglio di altri” oppure “consente di risolvere il problema x nel x % dei casi”, in questo caso io racconto una verità storica, quindi è evidente l’effetto magnificativo che faccio dei miei prodotti ma racconto una verità senza dire in maniera in fondata che il mio prodotto è meglio di altri perché non ho il parametro oggettivo per dire che è meglio di altri, quali sono i parametri oggettivi che legittimano una comparazione? Elementi che siano da chiunque misurabili nella loro concretezza. Se dico che la mia birra ha una certa % di alcol mentre un'altra birra un’altra % di alcol allora faccio una valutazione assolutamente veritiera e che si fonda su elementi oggettivi, cioè qualunque persona a mondo può comparare le due birre e vedere quale è il livello di alcol specifico contenuto. Ovviamente poi nel rendere questa comparazione ci sarà chi preferisce l’una e chi l’altra. La comparazione deve avere un’efficacia pubblicitaria e comunicativa. • comparabili, • correttamente comparatiArt. 3 Elementi di valutazione1. Per determinare se la pubblicita' e' ingannevole se ne devono considerare tutti gli elementi, con riguardo in particolare ai suoi riferimenti:a) alle caratteristiche dei beni o dei servizi, quali la loro disponibilita', la natura, l'esecuzione, la composizione, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, l'idoneita' allo scopo, gli usi, la quantita', la descrizione, l'origine geografica o commerciale, o i risultati che si possono ottenere con il loro uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove o controlli effettuati sui beni o sui servizi;b) al prezzo o al modo in cui questo e' calcolato ed alle condizioni alle quali i beni o i servizi sono forniti;c) alla categoria, alle qualifiche e ai diritti dell'operatore pubblicitario, quali l'identita', il patrimonio, le capacita', i diritti di proprieta' intellettuale e industriale, ogni altro diritto su beni immateriali relativi

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all'impresa ed i premi o riconoscimentiI casi più rilevanti di comparazione che sono sottoposti giornalmente ai nostri occhi sono per es. il contenuto di sodio dell’acqua oppure le tariffe telefoniche. È chiaro che questi elementi sono quelli sui quali è intervenuto il giudice e il giudice è nella pubblicità comparativa l’autorità antitrust perché la materia della pubblicità ingannevole e comparativa a differenza della concorrenza sleale non è sottoposta al giudice ordinario. L’atto di concorrenza sleale è sottoposto all’attenzione del giudice ordinario, la pubblicità ingannevole e la pubblicità comparativa sono sottoposti all’attenzione del giudice antitrust, cioè dell’autorità antitrust in Italia. Su queste pubblicità comparative naturalmente sono stati pronunciati numerosi provvedimenti dell’autorità antitrust perché la comparazione per essere corretta deve essere veritiera e riguardare tutti gli elementi di un prodotto rispetto ad un altro nella comunicazione che io vado a fare, cioè se la mia linea telefonica veramente fa pagare 1centesimo al minuto ma la tariffa è valida per la notte, laddove invece nelle altre ore applico 1€ al minuto e il concorrente fa pagare 20 centesimi, allora io non posso dire che la mia tariffa è migliore di quella del mio concorrente perché non è vero! Devo specificare, con gli stessi caratteri, quando offro questa tariffa particolare. La comparazione deve fondarsi su elementi effettivi rilevanti perché per es. se comunico il limitato sodio contenuto nella mia acqua e poi invece gli studi dicono che il contenuto di sodio dell’acqua è irrilevante allora sto facendo una comunicazione pubblicitaria su elementi irrilevanti che magnifico eccessivamente. Le pubblicità comparative sono anche ingannevoli perché ingannano il pubblico su due elementi:1. può essere ingannevole nella comparazione che io vado a fare con i prodotti e l’attività del concorrente 2. può essere ingannevole sulla rilevanza della comunicazione che faccio perché io magari attribuisco rilevanza a un elemento che non ha alcuna rilevanza, cioè per es. do importanza alla quantità di magnesio contenuta nell’acqua che è magari irrilevante ai fini della bontà della stessa, allora magnifico il prodotto su un elemento che non ha alcuna rilevanza e induco in inganno i consumatoriQui la rilevanza non è la slealtà del comportamento per l’altro imprenditore ma è l’induzione all’inganno dei consumatori. Altro elemento ingannatore della pubblicità comparativa che rende la pubblicità illecita sono anche le modalità con cui è effettuata, soprattutto quando la comparazione si propone in realtà delle finalità di agganciamento: io comparo il mio prodotto con quello del concorrente, nel momento in cui faccio la comparazione mi pongo ad un livello cioè dico “la mia acqua è meglio della Ferrarelle perché ha meno anidride carbonica della Ferrarelle”, in questo modo io mi aggancio alla Ferrarelle; nella mente del pubblico dei consumatori introduco il profilo che non solo la mia è migliore della Ferrarelle, ma è quanto meno come la Ferrarelle, comparabile con essa. Quindi in questo modo io faccio una pubblicità che, al di là della legittimità sul piano dell’elemento comparativo che introduco, si aggancia alla notorietà altrui. La pubblicità comparativa non deve avere rilevanza dal punto di vista dell’agganciamento perché se tende a conseguire una finalità di agganciamento è illecita. Allora tutti questi elementi li troviamo nel D.lgs 2 Agosto 2007 n.145. È chiaro che gli elementi di ingannevolezza li ritroviamo non solo in questo provvedimento ma per essere precisi li ritroviamo anche nel codice del consumo. E perché nel codice del consumo e non nel codice della proprietà industriale (che sarebbe stata una “adeguata casa”)? Perché evidentemente i soggetti in prima battuta destinatari della tutela sono i consumatori e quindi il legislatore proprio per sottolineare questo elemento ha preferito, oltre questo decreto legislativo, dare questi elementi di ingannevolezza nel codice del consumo e non nel codice della proprietà industriale. Quali sono le condizioni di liceità della pubblicità comparativa? Il legislatore con l’art. 4 di questo decreto individua questi elementi innanzitutto nella ( Condizioni di liceità della pubblicità comparativa)• non ingannevolezza, • nell’esigenza che siano confrontati beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi (cioè io non posso confrontare la birra con la cocacola perché non c’è una concorrenza dal punto di vista merceologico, non sono soddisfatti gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi)Notiamo che qui vi è un elemento più forte e rigoroso di quello che abbiamo evidenziato sul piano della concorrenza sleale: mentre l’elemento concorrenziale nella concorrenza sleale sia rinviene anche quando si soddisfano bisogni analoghi o succedanei, qui parliamo di stessi bisogni, quindi ci vuole un’identità nei bisogni soddisfatti dai prodotti, non basta la mera succedaneità.

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• Confronta oggettivamente uno o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso il prezzo di tali beni o servizi. Ecco l’oggettività di cui abbiamo parlato: non posso dire è più buono, ha un sapore più gradevole ecc ma devo comparare un elemento che sia oggettivo ed essenziale, pertinente, verificabile e rappresentativo. • Non deve ingenerare confusione sul mercato tra i professionisti o tra l’operatore pubblicitario ed un concorrente (non deve avere quell’effetto di agganciamento di cui abbiamo parlato) o tra i marchi, le denominazioni commerciali o altri segni distintivi, beni o servizi dell’operatore pubblicitario e quelli di un concorrente. La pubblicità comparativa può avere un effetto confusorio o un effetto di agganciamento che non è legittimo.• Non deve causare discredito o denigrazione di marchi, denominazioni commerciali, altri segni distintivi, beni o servizi, attività o posizione di un concorrente. Che vuol dire che non deve causare denigrazione? Evidentemente non deve eccedere quelli che sono i limiti della comparazione obiettiva cioè si deve limitare a dire “questo prodotto costa 2€, l’altro costa 3€, le qualità sono le stesse” e basta, per cui non deve dire “il prodotto del concorrente è pessimo!” perché se aggiunge questo fa denigrazione. • Non trae indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio alla denominazione commerciale, ovvero ad un altro segno distintivo di un concorrente o alle denominazioni di origine di prodotti concorrenti. Ancora una volta il pericolo dell’agganciamento. • Non deve presentare un bene o servizio come imitazione o contraffazione di beni o servizi protetti da un marchio o da una denominazione commerciale depositata, cioè se ho dubbi sulla legittimità del marchio altrui faccio una contraffazione, non posso fare una pubblicità comparativa. (Devo fare un’iniziativa giudiziaria, non lo posso risolvere con la comparazione perché altrimenti ricadrei nella legittima difesa che tanto legittima, come abbiamo visto, non è). Il legislatore si sofferma sull’elemento della verificabilità (di cui abbiamo parlato) che è l’elemento più complesso. Ci sono alcuni elementi di cui è molto dubbia la verificabilità. Il legislatore si sofferma su questo aspetto e cosa dice? Il requisito della verificabilità si intende soddisfatto quando i dati addotti all’illustrazione delle caratteristica del bene o del servizio pubblicizzato sono suscettibili di dimostrazione. Questo in realtà ci aiuta poco nel senso che devono essere elementi dimostrabili (e questo è essenziale) però che vuol dire dimostrabile? È un tema sul quale si può discutere. Ad oggi non si sono mai visti pubblicità nelle quali si è svolta una comparazione su elementi che non siano proprio misurabili, cioè la pubblicità comparativa o riguarda il prezzo o elementi che un’analisi chimica o clinica, di un determinato prodotto, è in grado di fornire. Quando non sono obiettivi o dimostrabili, anche se in virtù di particolari analisi (per es. la valutazione del sommelier) risultano tali ma in realtà non sono dati suscettibili di valutazione o almeno ad oggi non si ritengono tale, tanto è vero che non esiste una comparazione pubblicitaria tra vini.

Lezione 12/12/2011

Nel Corso della prima lezione accanto all'art.2598 prevede si delle ipotesi tipiche di concorrenza

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sleale, ma tale ipotesi hanno solo la funzione di illustrare e far capire quali sono i contorni nei quali ci si muove dalla disciplina della concorrenza sleale nella quale costituire un numero chiuso, tali ipotesi sono oggetto di interpretazione con contenuti mutevoli nel tempo, il significato di denigrazione, vanteria e confusione sono dei significati che sono cambiati nel corso degli anni e questa evoluzione si è fondata su questo numero 3 dell'art. 2598 comma 1, nel quale sono indicati come categoria aperta tutti gli atti non conformi ai principi di concorrenza professionale ed idonei a danneggiare l'altrui azienda.Ed è questo il parametro interpretativo e non solo delle ipotesi tipiche disciplinate ma anche di tutte le altre situazioni concorrenziali in cui ci si viene a trovare.Si tratta di una categoria aperta, quindi possono rientrare in queste situazioni comportamenti che comunque possono ravvisarsi come non conformi ai principi di correttezza professionale, queste semplificazione che andremo a fare non sono delle fattispecie chiuse ma sono aperte, e d'altra parte all'interno di queste fattispecie spesso il confine tra l'una e l'altra non è così precisa, noi ad esempio quando abbiamo accennato della vanteria, abbiamo accennato della situazione in cui ci si appropri dei pregi posseduti da altri prodotti ma anche da pregi che nessuno possiede, ora questa fattispecie non rientra nella vanteria secondo alcuni, ma nella pubblicità ingannevole, non è molto importante capire la classificazione, ma perchè potrei trovare degli argomenti a favore di una tesi o dell'altra, quindi non è importante capire quale determinate ipotesi in quale quadro debba collocarsi.Perché questa collocazione è affidata comunque alla sensibilità del singolo, quello che é importante è individuare quella singola ipotesi se è atto di concorrenza sleale oppure no, cioè se non conforme agli atti di correttezza professionale.Le singole fattispecie:La Prima è la pubblicità ingannevole è peraltro disciplinata dal decreto Lgs già visto in precedenza, perchè così come la pubblicità comparativa che è una fattispecie di legittima denigrazione, così come la pubblicità comparativa laddove non va così secondo i dettami previsti dal D.lgs è una pubblicità ingannevole ogni altra comunicazione pubblicitaria la quale per le modalità di esposizione per le affermazioni che vi sono formulate o per qualsiasi altra ragione è idonea a indurre in errore sulla qualità o sulla provenienza dei prodotti, ora già da questa definizione si trova una conferma su quello che dicevamo prima,a indurre in errore il pubblico sulla provenienza dei prodotti ma anche la confusione è una fattispecie che induce il pubblico in errore sulla provenienza dei prodotti ma anche sulla qualità, ma anche la vanteria è questa situazione, in realtà tra le ipotesi di concorrenza sleale vi è una intercomunicabilità, l'importante è capire se è una concorrenza sleale e non se rientra in una o l‘altra fattispecie , ma proprio relativamente al tema della pubblicità ingannevole, va detto che quel D.lgs in tema di comparativa ed ingannevole affida le determinazioni delle sanzioni per un messaggio pubblicitario ingannevole ad una Autorità Giudiziaria diversa, come per la pubblicità comparativa non è il Giudice ordinario ma è la Commissione per L'Autorità antitrust concorrenza e mercato è anche l'interesse tutelato per questa fattispecie è diverso nel senso che non è specificamente tutelato quello degli imprenditori, ma è più in generale del mercato e dei consumatori.All'autorità Garante per la concorrenza del mercato la denuncia in ordine all'ingannevolezza del messaggio pubblicitario può provenire non soltanto da un'altro imprenditore ma ance da un consumatore che è una particolarità perchè riguarda solo la pubblicità comparativa ed ingannevole, tutte le altre ipotesi possono essere fatte valere solo da un imprenditore che è in concorrenza da un punto di vista territoriale e merceologico, addirittura se un altro imprenditore se non è in concorrenza non la può far valere , viceversa nella comunicazione pubblicitaria ingannevole il novero dei soggetti legittimati è molto più ampio, perchè lo spazio di tutela è più ampio, naturalmente la misurazione della ingannevolezza deve essere fatta invece secondo i parametri dei quali già ci siamo occupati l'ingannevolezza è tale quando per le modalità in cui è svolta e come al pubblico a cui si rivolge è idonea ad indurre in errore come abbiamo detto anche per la confusione, la soglia di errore sarà richiesta diciamo quanto più il mercato è attento quanto più il prodotto è elevato sia in vista del prezzo che di altri elementi ,laddove invece la soglia di attenzione è più bassa basteranno anche elementi di ingannevolezza meno rilevanti l'attenzione è quindi volta alla comunicazione pubblicitaria quindi è una fattispecie molto particolare non un qualunque comportamento,noi per l'atto di concorrenza sleale per quelli che abbiamo visto confusione vanteria e denigrazione non è soltanto la comunicazione pubblicitaria ma qualunque comportamento ,la denigrazione abbiamo detto può essere sia un cartellone pubblicitario nel quale si dice che il concorrente ha i prodotti scadenti ma può essere anche una lettere inviata a cento clienti del concorrente ma anche una diffida,la confusione non è detto che si sostanzi in una comunicazione pubblicitaria può essere semplicemente il segno che ha apposto ai prodotti che sono in vendita nei

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supermercati quindi non è necessario una comunicazione pubblicitaria dietro quell'atto di concorrenza sleale in questo caso noi parliamo specificamente di pubblicità cioè deve trattarsi di pubblicità ingannevole, non ci sono limitazioni quanto alla qualità della comunicazione pubblicitaria cioè può essere quotidiani, cartellonistica ,radiotelevisiva locale, nazionale non ci sono differenze, ma deve trattarsi comunque un messaggio qualificabile come messaggio pubblicitario laddove cio non sia dobbiamo tornare ai nostri limiti della concorrenza sleale sia sul piano oggettivo che soggettivo. Ipotesi ordinarie di concorrenza sleale quelle che rispecchiano i requisito su cui ci siamo soffermati legittimità di agire solo dell'imprenditore concorrente o associazione di categorie interessate, necessarietà di un rapporto di concorrenza dal punto di vista sia merceologico che territoriale ,difformità dell’atto rispetto dei principi di correttezza professionale ed idoneità dello stesso a danneggiare l'altrui azienda.Vendita sottocosto e Ribassi di prezzo che hanno delle similitudini ma sono due cose diverse.1)Ribasso di prezzi si rinviene quando il concorrente visti i livelli prezzi operati dall'imprenditore concorrente opera una riduzione dei suoi prezzi di vendita(99,9% dei casi) o un aumento dei prezzi di acquisti ,al fini di rendere i suoi prodotti o servizi più appetibili rispetto al concorrente, è evidente che l'elemento classico per evidenziare l'andamento del mercato è proprio il prezzo, l'imprenditore fa concorrenza con l'altro operando proprio sui prezzi ,certamente il ribasso che si fa rispetto all'altro che lo fa per acquisire quote di mercato è un comportamento legittimo ma soprattutto fisiologico in alcune situazioni si evidenziano proprio dei vincoli alla concorrenza propria dall'osservazione empirica che i prezzi non cambiano cioè entrano imprenditori sul mercato vogliono acquisire quote di mercato ma non intervengono sui prezzi quindi è strano x' normalmente l'operazione- la battaglia di un concorrente rispetto ad un altro si opera mediante una riduzione dei prezzi 2 elementi oggi 3 sono riduzione dei prezzi, progresso scientifico tecnologico(qualità dei prodotti) ,comunicazione pubblicitaria. Ribasso dei prezzi diventa atto di concorrenza sleale quanto più il ribasso è sganciato da ordinarie attività di concorrenza e quando è finalizzato a danneggiare un concorrente o sottrarre indebitamente clientela all’impresa concorrente. Se un concorrente getta un quantitativo di prodotti maggiore o vuole acquisire quote di mercato anche in vista di un grafico economico siamo più o meno in grado di predire il prezzo ci possono essere degli scostamenti più o meno rilevanti rispetto alla situazione di mercato quando è ingiustificabile siamo in una situazione nella quale si potrebbe individuare una sottrazione illegittima di clientela ,pero nel ribasso di prezzo è necessario che ci siano degli elementi molto appariscenti affinché sia possibile individuare una illegittimità di comportamenti dei prezzi x' il ribasso essendo un atto ordinario di concorrenza leale è difficile che possa essere individuato come atto illegittimo ma può essere illegittimo quando il ribasso quando chi opera un ribasso ha un ruolo rilevante sul mercato cioè se ad esempio carrefour che arriva a via cinthia e vende le stesse cose dei 25 dettaglianti ed pera dei ribassi di prezzi allora se questi ribassi sono rilevanti hanno dei tempi molto lunghi allora effettivamente possono essere visti come concorrenza sleale pero ad esempio carrefour può giustificare questo dicendo che vende a prezzi più bassi x' il dettagliante compra 100 kg di zucchero io ne compro 100 tonnellate compro ad un prezzo più basso e lo rivendo ad un prezzo più basso quindi il ribasso è legittimo.2)Vendita sottocosto fattispecie qualificata del ribasso di prezzi ma risponde a logiche totalmente diverse mentre il ribasso è un normale comportamento concorrenziale, la vendita sottocosto implica in se una perdita, se io vendo sottocosto vuol dire che vendo quel prodotto in perdita per la mia impresa e la vendita in perdita è un comportamento in se antieconomico ,nessun imprenditore nell'attività di mercato opera una vendita sottocosto x' conduce ad una perdita non è una situazione di mercato che può essere vista in modo positiva. Il rischio della vendita sottocosto vendo i miei prodotti sottocosto distruggo i miei concorrenti li elimino dal mercato ed una volta che li ho eliminati farò i prezzi che voglio perchè ci sarò solo io sul mercato da altra parte si inseriscono diversi comportamenti illeciti ad es il dumpig che è una sub-ipotesi qualificata di ribasso di prezzi. Anche la vendita sottocosto può trovare le sue giustificazioni quindi rendere razionale quel comportamento in un ottica economica non renderlo illecito dal punto di vista concorrenziale ad esempio apro un nuovo negozio, una nuova attività entro nel mercato per un brevissimo periodo posso operare una vendita sottocosto x farmi conoscere( es.dvd al 50%) attività legittime e giustificate se previste x un periodo di tempo limitate,altre situazioni legittime quando un'impresa si trova x ragioni gestionali strategiche intende dismettere un settore di attività allora vende sottocosto i suoi prodotti quindi non siamo al cospetto di un illecito concorrenziale anzi io non intendo acquisire quote di mercato ma dismettere quote di mercato infatti viene normalmente operato la vendita sottocosto da imprese in liquidazione addirittura in stato di insolvenza in cui operano procedure concorsuali quindi le vendite sottocosto

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trovano una loro giustificazione. Tuttavia dobbiamo tener presente la vendita sottocosto oggi costituisce un importante fenomeno pubblicitario cioè è noto a tutti che molte imprese operano x determinati periodi di tempo vendite sottocosto per acquisire clientela o sollecitare clientela, i volantini e altre comunicazioni pubblicitarie devono indicare la vendita sottocosto dal -al .Queste vendite sottocosto sono state oggetto di particolare attenzione anche del legislatore antitrust non solo dal punto di vista sleale perchè queste comunicazione devono rispettare dei limiti x' possono sforare nella concorrenza sleale, questi limiti si sono individuati che devono prevedere dei brevi periodi tempo, ne possono essere fatte poche nel corso dell'anno devono essere anche legittime cioè è illegittima quando c è la comunicazione ma poi non c è il prodotto, annuncio che c è la vendita sottocosto ma che in realtà è finita ieri quindi siamo al cospetto di una pubblicità ingannevole ad esempio vendo un televisore di 40 pollici ma ce ne è uno solo ma te lo devo dire qui siamo al cospetto dell'ingannevolezza non solo rispetto agli altri imprenditori concorrenti ma anche rispetto al mercato,la vendita sottocosto se veritiera è un operazione che può essere illecita rispetto ai suoi concorrenti , se fasulla diventa illecita rispetto a 2 persone concorrente e del mercato x' al contempo è anche pubblicità ingannevole quindi il consumatori può denunciare questa situazione all'autorità antitrust la quale farà i dovuti approfondimenti infatti i volantini con vendita sottocosto devono indicare il numero disponibile dopo di che laddove fosse fatta una comunicazione di ingannevolezza x' avevano detto 400 ma io sono andato all'orario di apertura e già erano finiti loro devono giustificare cosa è successo ,devono dimostrare che ad esempio dalle 9 alle 10 sono venute 400 persone che hanno comprato televisori.Ecco che allora lo stesso fenomeno presenta diversi livelli di illecità 1 nei confronti del mercato sottospecie di pubblicità ingannevole 2 rispetto agli altri imprenditori.Laddove la vendita sottocosto non abbia tutti questi parametri dal punto di vista della concorrenza sleale vera e propria la vendita sottocosto laddove non abbia delle motivazione come lancio di un prodotto ,chiusura di un settore o un'attività, brevissimo fenomeno pubblicitario, la vendita sottocosto è un atto illecito di concorrenza sleale x' antieconomico volto ad eliminare concorrenti dal mercato acquisire quote di mercato illegittimamente al fine di alterare il normale gioco concorrenziale.Nell'ambito di un'impresa abbiamo costi fissi e variabili allora x un'impresa può essere x delle ragioni valide vendere coprendo tutti cf e anche una parte dei cv piuttosto che non vendere cioe in un determinato periodo dell'anno non voglio chiudere la fabbrica perche mi costerebbe di piu chiuderla e poi riattivarla piuttosto che vendere sottocosto dico io con una logica economica preferisco vendere x un periodo di tempo sottocosto purchè mi siano coperti i cf e una parte dei cv, questo comportamento ha una sua logica economica, qui siamo al margine perche il comportamento è economico x me non è finalizzato a sottrarre quote di mercato ad altri ma è finalizzato ad un razionale esplicazione della mia attività d'impresa ma al contempo arreca un danno concorrenziale agli altri ,quali non si trovano sulla mia stessa situazione qui siamo al confine poichè il comportamento non è soggettivamente contrario alla correttezza professionale ma lo è oggettivamente ,diventa difficile evidenziare in questi casi limite se la vendita sottocosto sia lecita oppure no.L'imprenditore che effettua una vendita sottocosto sapendo di non fare una cosa che rientra nella normalità si precostituisce le ragioni per le quali lo fa.Ad esempio un produttore di gelati che si vendono maggiormente d'estate quindi di inverno che si vendono meno, abbasso i costi andando un pò sottocosto x' mi costa di più chiudere la gelateria piuttosto che vendere sottocosto x un periodo sottocosto pur sempre coprendo i cf.Situazione nelle quali gli studiosi di economia ci dicono che non sempre la vendita sottocosto è illecita ,la vendita sottocosto in cui sono coperti in cf e una parte dei variabili può essere un comportamento economico e non anti economico.Quindi bisogna andare a vedere se quel comportamento era soggettivamente legittimo poi passare dal soggettivo all'oggettivo mediante un'osservazione del mercato che può essere un comportamento soggettivamente lecito ma oggettivamente illecito.Boigottaggio altro atto di concorrenza sleale,tendo a fare in modo che l'impresa concorrente abbia difficoltà nel reperire le materie prime, semi lavorati ,prodotti finiti se grossista o dettagliante o che abbia difficoltà(mercati di fornitura) ad accedere ai mercati di sbocco che abbia quindi difficoltà a reperire clientela, quindi compiere tutte quelle attività volte a rendere più difficoltoso per il concorrente l'accesso ai mercati di fornitura o di sbocco.Boigottaggio può articolarsi in 2 diverse modalità1)Primario si verifica nella situazione in cui è lo stesso imprenditore concorrente che rifiuta di stipulare contratti con il concorrente. Questa situazione è difficile che si venga a verificare nella realtà x' quando sono io stesso a rifiutare i mercati di sbocco al concorrente vuol dire che sono io il mercato

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di sbocco del concorrente perche se non rifiuto e non succede niente, si ha quando un imprenditore concorrente occupa più livelli della scala produttiva rispetto al concorrente che ne occupa uno solo oppure viceversa quando ho altre motivazioni che mi inducono a preferire un concorrente rispetto ad un altro motivazioni che siano del tutto antieconomica, cioè anche nella situazione di libera concorrenza nessun imprenditore è obbligato a contrarre con altri imprenditori o sono in un regime di monopolio quindi sono obbligato a vendere, laddove non vi siano queste situazione di monopolio legale o sostanziale io posso vendere i prodotti ad un concorrente e non venderli ad un altro ,con un prezzo ad uno e un prezzo diverso all'altro.Vi sono comunque dei casi limite di comportamenti scorretti cioè rifiuti totalmente immotivati.Diverso è quando il mio comportamento è di vero boigottaggio nel senso che lo faccio proprio x escluderti dal mercato Si ha boigottaggio primario quando occupo una tale quota di mercato che un mio rifiuto di contrarre determina x te una obiettiva difficoltà o addirittura impossibilità di accedere ai mercati di produzione o di sbocco esempio se io vendo una determinata qualità di legno e tu fai i parquet x i quali ti è necessario avere quella materia prima ed io rifiuto di venderti questo legno ti determino un a obiettiva difficoltà di accesso ai mercati di produzione. Anche per il boigottaggio primario è difficile come x la vendita sottocosto andarne ad individuare il lecito dall'illecito ci vorrà un complesso di atti motivati dal punto di vista economico volti ad escludere un concorrente.2)Secondario che è la modalità più significativa e diffusa mediante la quale un imprenditore o più inducono altri soggetti che si trovano su altri livelli della scala produttiva a non assumere obbligazione con un determinato concorrente es 3-4 produttori importanti di parquet vanno dal rivenditore di legno dicendo di non vendere il legno ad un imprenditore oppure dico di non vendere più i prodotti di tizio ma solo i miei ,non sono io che rifiuto di contrarre con il concorrente ma induco altri a non contrarre con il concorrente perciò secondario x' non lo faccio io personalmente ma lo faccio fare ad altri.(atto illecito).Entrambi sono illegittimi quando obiettivamente rende difficile l'accesso al concorrente ai mercato di produzione o di sbocco quando il prodotto è facilmente sostituibile il boigottaggio sfuma di significato quando invece non è facilmente sostituibile cioè si deve arrecare una obiettiva difficoltà x esserci boigottaggio non semplicemente uno ostacolo immediatamente superabile. Storno dei dipendenti sul piano semantico vuol dire che vado da un concorrente è mi prendo i suoi dipendenti cioè li storno a me o li porto in un’altra impresa quindi sottraggo dipendenti ai concorrenti.Anche pero questo comportamento è di per se neutro sottrarre dipendenti può essere un comportamento lecito o illecito.Nel mercato della lavoro è desiderio di qualsiasi imprenditore poter acquisire le miglior forze competitive, da altra parte x il lavoratore il suo desiderio è andare da chi gli offre di più,a parità di altre condizione, è lecita questa situazione e rientra nelle capacità di un imprenditore saper scegliere i migliori lavoratori del concorrente offrendogli maggior compenso ciò può riguardare sia chi ricopre ruoli apicali o secondari quindi sarebbe assurdo qualificare tale comportamento come illecito.Bisogna andare a vedere quando diventa illegittimo.E’ illegittimo quando la sottrazione dei dipendenti è operata con modalità non conforme ai principi di correttezza professionale e quando si rinviene l’animus nocendi cioè la volontà di danneggiare i concorrenti anzi x alcuni deve essere l’animus nocendi è l’unico motivo che ha mosso il concorrente secondo altri non che sia l’unico motivo ma questo devono essere accompagnate da altre.Modalita con cui si effettua lo storno, una cosa è che io vado dal dipendenti e gli dico vieni da me che ti offro 10.000 euro in più altro è che gli dico che lo vogliono licenziare o che l’impresa è in stato di insolvenza sono stati presentati dei ricorsi di fallimento ti conviene venire da me o che nella fabbrica dove lavori ci sono sostanze nocive.L’animus nocendi si ha quando io opero lo storno non tanto x’ ho bisogno di quelle unità lavorative ma x’ so che sottrarre quei lavoratori al concorrente gli arreco un danno ,ecco che assumono rilevanza 2 elementi non posso sapere cosa c è nell’animo di un imprenditore e non ritrovano delle prove oggettive, mai la troverò nella confessione del concorrente ma sempre la troverò nel raffronto delle 2 imprese devo ritrovare o che a me quel dipendente non serviva, normalmente lo storno riguarda dipendenti che occupano ruoli apicali es direttore vendite ,assumendo il nuovo senza licenziare il precedente lo storno è ispirato solo da un animus nocendi spinto solo dalla volontà di nuocere e non dalla necessità.Un elemento che dimostra l’animus nocendi è il quantitativo di dipendenti x’ nella pratica che voglio effettuare un storno vado a prendermi tutto un settore tutti gli addetti alle vendite contraria ai principi di correttezza .I 2 parametri su cui si evince l’animus nocendi l’apicalità dei ruoli e la circostanza che quel ruolo è già ricoperto da un’altra persona non servono,e dal quantitativo di dipendenti sottratti , fatto anche con

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determinate modalità è fatto in più che denota l’animus nocendi.Un problema in più è la circostanza che c è un terzo, allora normalmente se viene compiuto un atto illecito io sarei portato a dire che devo ripristinare ove possibile la situazione precedente,x il dipendente il discorso è diverso x’ non posso costringere il dipendente a tornare indietro ,nello storno quando ci sono tutte le prove alla fine il precedente datore di lavoro può avere indietro il dipendente?no solo se lui se ne vuole andare c è la libera volontà del dipendente qui il diritto del lavoro contrasta con la disciplina della concorrenza sleale non posso andare ad incidere sulle decisioni altrui.Quindi lo storno anche quando accertato non determina un vincolo per il dipendente di tornare indietro ma le conseguenze ordinarie che si producono in qualsiasi atto di concorrenza sleale.Concorrenza dell ’ ex dipendente una particolare rapporto che lega il dipendente al suo datore di lavoro,il dipendente evidentemente che presta la sua attività lavorativa acquista delle cognizioni che siano tecniche capacita di fare delle cose sia relative all’azienda elenco fornitori, elenco clienti dipende sempre dal ruolo occupato. Nel momento il cui il dipendente presta la sua attività lavorativa alle dipendenze di un determinato datore di lavoro sorge a suo carico un divieto di concorrenza con il suo datore di lavoro previsto dal codice civile in materia di rapporto di lavoro nel caso in cui si ha la concorrenza si incorre nel licenziamento e nel risarcimento danni. Problema che si pone è con l’ex dipendente che svolgeva attività di lavoro che cessa il rapporto avvia in proprio una prioria attività o che va alle dipendenze di altro datore di lavoro al quale fornisce tutte le sue conoscenze in questa situazione ,il comportamento del lavoratore è sempre legittimo cioè il contratto di lavoro prevede un vincolo di lavoro in costanza del rapporto di lavoro, una volta che il rapporto è cessato non esistono più vincoli di non concorrenza a carico del vecchio dipendenti.Unica situazione che non può essere fatto è quando i contratti collettivi di lavoro prevedeva un vincolo di non concorrenza cioè il vincolo di non concorrenza o è negoziale nazionale oppure individuale che prevedeva che x un determinato periodo non era possibile svolgere attività di concorrenza, naturalmente a livello di contrattazione nazionale ed individuale esista un patto di non concorrenza l’ex dipendente che svolge l’atto svolge un atto illecito,tale patto di non concorrenza stipulato dal dipendente e dal datore è legittimo?se il datore vincola alla non concorrenza il dipendente con particolare manualità nel fare serrature se il datore dice che x 2 anni non può svolgere quella attività il dipendente come fa a vivere!il contratto che prevede un vincolo di non concorrenza deve essere lecito e deve prevedere un compenso che deve essere congruo x compensare la mancata attività lavorativa il patto per essere valido deve essere delimitato e pagato cioè prevedere un corrispettivo.Concorrenza parassitari elementi in comune con la confusione ma se ne differenzia , nella confusione vengono utilizzati dei segni distintivi o viene imitato servilmente un prodotto in modo da indurre in errore la clientela circa il prodotto o la provenienza .Nella concorrenza parassitaria io non compio nessuno di questi atti e pur tuttavia sfrutto tutte quelle iniziative,attività, peculiarità del concorrente idonee a determinare il plus per il concorrente e che io mi limito a ricopiare in questo senso si parla di concorrenza parassitaria, senza sostenere nessun costo mi limito a riprodurre tutto quello che fa un concorrente ottenendo i vantaggi da quello che fa il concorrente e riducendo i suoi vantaggi x’ io faccio la stessa cosa senza che pero nelle mie attività ci sia un’iniziativa o un costo o impulso imprenditoriale che possa dare conto delle mie attività esempio inizia una riduzione di prezzi è la faccio anch’io ,dispongo i prodotti in un determinato modo sugli scaffali e lo faccio anch’io,senza entrare nella confusione infatti l’elemento delicato della concorrenza parassitaria è proprio la sua distinzione dalla confusione se io imito il volantino ,il prodotto, il segno distintivo altrui faccio confusione,nella concorrenza parassitaria in nessun momento faccio confusione ma semplicemente mi limito a riprodurre tutte le iniziative del concorrente è chiaro che affinché ci sia concorrenza parassitaria non basta il singolo atto mai x’ che il concorrente faccia un ribasso di prezzi quando il suo concorrente lo fa è un atto normalissimo ,la concorrenza parassitaria sorge solo quando c è un complesso di atti che si ripetano in maniera abituale e non occasionale e che oggettivamente si deduca che il concorrente mi sta copiando cioè in maniera parassitaria si appropria di tutte le mie iniziative x la confusione è necessario un solo atto x’ c è una esplicita induzione in errore, nella concorrenza parassitaria c è uno sfruttamento abusivo altrui senza una palese induzione in errore pero in determinate situazione la concorrenza parassitaria sfocia nella confusione x’ se io faccio proprio le stesse cose proprio come mezzo x creare confusione (3° ipotesi ),al fine di evitare perplessità la pratica ha delimitato questa fattispecie di concorrenza parassitaria facendola rientrare negli altri atti non conformi ai principi di correttezza professionale. Non rispetto di normative in senso lato pubblicistiche abbiamo fatto già cenno con la denigrazione, se il concorrente non rispetta le norme di legge esempio urbanistiche si decide di ampliare il capannone

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senza avere le necessarie licenze di edificazione, se il concorrente paga i dipendente a nero (inps, ritenute) se il concorrente non paga le tasse se il con concorrente non rispetta le norme sull ’igiene e informativa dei prodotti questo signore si rende responsabile di iniziative dannose x la salute o illecite viola le norme pubblicistiche.Questo è anche atto di concorrenza sleale x’ nel momento che tu violi quelle norme allo stesso tempo hai un vantaggio concorrenziale rispetto a me in maniera illecita, se il concorrente paga i dipendenti a nero risparmia che invece io pago quindi il mio prodotto lo devo far pagare in più ,il concorrente non può andare a comunicare al pubblico questa situazione x’ anche se veritiera compie un atto di denigrazione e compie a sua volta un illecito concorrenziale quello che può fare il concorrente sono 2 cose: può denunciare questa situazione all’autorità giudiziaria quando ne ha le prove e può agire concorrenza sleale questo atto è al contempo la violazione di norme pubblicistiche che espone il concorrente ad iniziative di ordine penale e al contempo è un atto di concorrenza sleale che espone il concorrente anche a tutte le iniziative di concorrenza sleale.Ad esempio le fondazioni e le associazioni che svolgono pero attività d’impresa si trovano a non pagare le tasse e avere i vantaggi ,quando appaio sul mercato in una maniera diversa di quella che sono compio oltre ad altri illeciti anche quello concorrenziale ,il problema è che ci sono delle leggi italiane che tutelano queste situazione Ad esempio dal punto di vista comunitario questo problema non si pone proprio nel senso che l’impresa è vista sul piano dell’attività che svolge e non sul piano della forma che riveste e quindi se un impresa è tale è soggetta a tutti i vincoli che ne derivano dal punto di vista italiano questi problemi ci sono quando è la norma di legge che legittima certe situazione il concorrente che subisce questa situazione potrebbe fare un azione di accertamento al giudice facendo presente che quella fondazione o associazione fa attività di impresa o una denuncia alla prefettura. Caso se le fondazioni si dichiarano fallite ad esempio la fondazione “ San Raffaele” che si discute della sua ammissione al concordato preventivo e al fallimento ma essendo una fondazione e non impresa non potrebbe, quindi dovrebbe cosi facendo essere considerata come impresa ma ciò si evince nei momenti patologici quando invece parliamo di concorrenza sleale noi parliamo di momenti fisiologici nella vita ordinaria dell’impresa.

Lezione del 15.12.2011Art. 2599 e l’art. 2600 sono i due articoli da cui iniziamo la lezione. Art. 2599 dice che la sentenza che accerta l’atto di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e dà opportuni provvedimenti affinché vengano eliminati i suoi effetti. Art 2600 se gli atti di concorrenza sono compiuti con dolo o colpa l’autore degli atti di concorrenza sleale è tenuto al risarcimento del danno. In questa ipotesi può essere ordinata anche la pubblicazione della sentenza. Accertati gli atti di concorrenza sleale la colpa si presume. La disciplina della concorrenza sleale si applica nei rapporti tra imprenditori concorrenti. Il rapporto concorrenziale non è solo quello che L’argomento di cui parliamo oggi è quello che riguarda i mezzi a disposizione dell’imprenditore che è stato leso per difendersi contro gli atti di concorrenza sleale compiuti da un imprenditore concorrente. Nel diritto processuale civile, l’argomento di cui parliamo oggi cioè quello dei mezzi di tutela, richiama l’esercizio di azioni giudiziarie dal punto di vista dei giuristi ha un profilo sostanziale cioè quello del diritto leso che si fa valere in giudizio ma anche un profilo processuale cioè come si fa valere, chi lo può far valere, quale è il tipo di provvedimento, ecc. perciò quando diciamo che il legittimato attivo è l’imprenditore che ha subito l’atto di concorrenza sleale cioè chi è il legittimato attivo? È il soggetto che può far valere le azioni che i testi di legge gli mettono a disposizione per difendersi contro gli atti di concorrenza sleale. In termini di diritto processuale civile, l’imprenditore che ha subito l’atto di concorrenza sleale è il legittimato attivo cioè colui che ha la legittimazione ad avvalersi degli strumenti di tutela messi a disposizione dal legislatore cioè colui che ha subito l’atto di concorrenza sleale. Chi è il legittimato passivo? Il legittimato passivo è l’imprenditore concorrente che ha compiuto l’atto di concorrenza sleale. Le due norme presuppongono che ci sia un soggetto che si può avvalere di certi strumenti e che c’è un soggetto chiamato in giudizio a rispondere di certi comportamenti. Nella prima parte della norma, cioè la sentenza che accerta gli atti di concorrenza sleale, ne inibisce la continuazione e dà opportuni provvedimenti affinché vengano eliminati i suoi effetti non si parla della colpa o del dolo del soggetto che ha agito perché? Non è richiesto nessun elemento soggettivo cioè cosa classifica l’atto come atto di concorrenza sleale cioè non essere conforme ai principi di correttezza professionale che siano idonei a danneggiare l’altrui azienda. Significa che ci sono alcuni tipi di rimedi contro gli atti di concorrenza sleale che sono connessi solo ed esclusivamente al compimento dell’atto e all’accertamento di quell’atto a prescindere dall’indagine sull’eventuale elemento soggettivo del soggetto agente. L’illecito

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aquiliano si fonda sull’esistenza…la responsabilità è contrattuale ed extra contrattuale e l’extra contrattuale si fonda sull’articolo 2043 cioè ogni soggetto che compie un atto doloso o colposo è tenuto a risarcire a colui che ha subito il danno ingiusto. Uno dei pilastri del nostro ordinamento è l’illecito extracontrattuale (art. 2043) per cui ogni atto doloso o colposo che cagioni ad altri un danno ingiusto obbliga colui che l’ha compito al risarcimento del danno e questo risarcimento del danno di natura extra contrattuale cioè che prescinde da una pattuizione ed incide sulla sua prescrizione e su una serie di altre cose per esempio il termine di prescrizione dell’illecito aquiliano è di 5 anni mentre invece il termine di prescrizione dell’illecito contrattuale è di 10 anni. Il diritto al risarcimento del danno extra contrattuale presuppone l’anti giuridicità del comportamento, il nesso causale fra il comportamento e il danno è l’elemento soggettivo cioè deve essere un comportamento doloso o colposo. Sotto questo punto di vista se noi volessimo tentare di fare un raggruppamento secondo voi quando parliamo degli strumenti di tutela contro gli atti di concorrenza sleale in linea generale in che macroarea ci collochiamo nell’illecito contrattuale o nell’illecito extra contrattuale? Nell’illecito extra contrattuale. Se noi dovessimo dire questa fattispecie e più avvicinabile all’illecito contrattuale o extra contrattuale dovremmo riconoscere che la matrice è quella dell’articolo 2043. Rispetto all’articolo 2043 la tutela della concorrenza sleale ha delle agevolazioni. La tutela della concorrenza sleale si caratterizza perché viene agevolato l’accesso agli strumenti di tutela e anche l’onere della prova perché nella tutela ex articolo 2043 l’attore che agisce in giudizio deve provare il comportare, il fatto, deve provare il nesso causale e deve provare l’elemento soggettivo. Qui già vi siete accorti che per alcuni provvedimenti dell’elemento soggettivo non se ne parla proprio mentre nella seconda norma accertati gli atti di concorrenza sleale la colpa si presume questa è una agevolazione, cioè l’imprenditore che agisce in giudizio per tutelarsi contro gli atti di concorrenza sleale non deve scendere nel dettaglio sull’elemento soggettivo, spetta all’imprenditore legittimato passivo convenuto in giudizio dimostrare che l’atto non era colposo o non era doloso. Si presume la colpa è un’agevolazione in più rispetto alla tutela extra contrattuale del diritto in generale questo per il risarcimento del danno. All’illecito extra contrattuale si ricollega la tutela della concorrenza sleale. Gli articoli 2599 e 2600 ci indicano gli strumenti di tutela contro gli atti di concorrenza sleale e la sola lettura ci fa capire che ci sono delle agevolazioni, delle differenze. Il compimento di un atto di concorrenza sleale non dà luogo ad una responsabilità contrattuale ma da luogo ad una responsabilità di tipo extra contrattuale. Si differenziano rispetto all’articolo 2043 pur essendo della stessa matrice. La sentenza che accerta gli atti di concorrenza sleale dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti ma non ci viene dato un elenco che indica quali sono i provvedimenti quindi siamo di fronte ad un'altra categoria aperta. La seconda osservazione che possiamo fare, la prima riguarda l’ampiezza degli strumenti di tutela, e che la tutela concorrenziale non guarda solamente al passato cioè non soccorre la vittima solo al risarcimento del danno che si è già verificato ma guarda al presente attraverso quelli opportuni provvedimenti che vi dicevo prima che servono a reintegrare o a ricostituire l’interesse che è stato leso e guarda anche al futuro cioè impedisce la continuazione o il ripetersi dell’illecito già compiuto. Anche l’atto di concorrenza sleale è un comportamento anti giuridico riconducibile all’illecito extra contrattuale ma sottoposto ad una disciplina speciale per certi versi fonte di una tutela un pò più agevolata rispetto a quella che sarebbe invocabile in base all’articolo 2043. Non si limita a guardare solo al passato, con il risarcimento del danno, ma al presente con la rimozione degli effetti al futuro con il tentativo di impedire la continuazione o il ripetersi dell’illecito. Le norme che abbiamo letto consentono al soggetto che ha subito atti di concorrenza sleale, quindi è soggetto passivo dell’atto perché lo ha subito ma è legittimato attivo per lo strumento di tutela significa che può andare in giudizio a farlo valere, ha la legittimazione ad andare in giudizio ad invocare la tutela degli articoli 2599 e 2600. Queste norme possono dar luogo ad una serie di provvedimenti: pronunce di accertamento, la sentenza che accerta gli atti di concorrenza sleale, provvedimenti di carattere restitutorio, sono quei provvedimenti che vengono adottati per eliminare gli effetti degli atti di concorrenza sleale, provvedimenti di carattere inibitorio e provvedimenti di natura risarcitoria. Facciamo un osservazione i provvedimenti restitutori cioè sono quei provvedimenti che la sentenza che accerta l’esistenza degli atti di concorrenza sleale può adottare affinché vengano eliminati i suoi effetti questi provvedimenti di carattere restitutorio non corrispondono a quelli risarcitori perché tendono a restaurare l’interesse leso direttamente. Quelli inibitori sono rivolti a vietare la eventuale continuazione o ripetizione dell’atto di concorrenza sleale cioè questi diversi tipi di provvedimenti, estratti da quelle due norme che abbiamo letto, sono affiancati anche da altri strumenti di tutela che sono a disposizione in generale di tutti i consociati nel senso che sono forme di tutela previste in via generale dal codice di procedura civile mi riferisco ad

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altri tipi di provvedimenti cautelari ad esempio nel codice di procedura civile c’è l’articolo 700 che è lo strumento per richiedere ai tribunali l’adozione di provvedimenti di urgenza di carattere atipico, possono essere utilizzati in tutti i casi anche nel caso della concorrenza sleale cioè se vogliamo ottenere un provvedimento immediato senza attendere l’esito del processo che accerta l’atto di concorrenza sleale e poi adotta i provvedimenti non vi è preclusa la possibilità di utilizzare altri strumenti di tutela previsti all’interno del codice di procedura civile il più importante è quello previsto dall’articolo 700 oppure un rimedio che è previsto nel codice civile che è l’azione di ingiustificato arricchimento art. 2041 quando non ci sono i presupposti per avere il risarcimento del danno perché per esempio il dolo o la colpa non c’è. I provvedimenti che si possono estrarre dall’articolo 2599 e 2600, questa gamma di provvedimenti possono essere affiancati da altri mezzi di tutela utilizzabili anche in materia di concorrenza sleale ma non solo, strumenti di carattere generale. Cominciamo dalle pronunce di accertamento art. 2599. La sentenza che accerta gli atti di concorrenza sleale, l’adozione di questi provvedimenti da parte di un tribunale presuppone che il soggetto che è legittimato attivo cioè quello che ha subito l’atto di concorrenza sleale abbia iniziato una causa nei confronti del legittimato passivo cioè colui che ha compito l’atto di concorrenza sleale abbia chiesto al giudice di accertare l’atto di concorrenza sleale e di adottare i provvedimenti consequenziale e anche la domanda di risarcimento del danno che non è obbligatoria alle volte bisogna chiederle le cose questo è un altro principio del codice di procedura civile cioè il principio della domanda cioè il giudice si pronuncia sulle cose che gli chiedete. Questa pronuncia di accertamento cioè il provvedimento del giudice sentenza che accerta l’atto di concorrenza sleale è il presupposto logico ma non solo dell’adozione di tutti gli altri strumenti di tutele cioè quelli inibitori, restitutori e quelli di risarcimento del danno. Il presupposto è che ci sia una sentenza che accerta il compimento dell’atto di concorrenza sleale cioè che consiste nella declaratoria del compimento di atti di concorrenza sleale ai sensi dell’articolo 2598, uno di quelli previsti dall’articolo 2598 la sentenza che accerta l’esistenza di uno di questi atti è il presupposto per l’adozione di qualunque strumento di tutela tra quelli che abbiamo elencati. Chiaramente il provvedimento cautelare può essere chiesto prima della sentenza che accerta l’atto di concorrenza sleale perciò l’adozione di un provvedimento cautelare ha bisogno di determinati presupposti, la fondatezza del diritto è il pericolo del pregiudizio però quello è la tutela cautelare la tutela non cautelare ha bisogno dell’accertamento con processo di cognizione ordinario. Quale è il presupposto per la adozione della sentenza di accertamento o del provvedimento che accerta l’atto di concorrenza sleale? Il compimento dell’atto di concorrenza sleale cioè la pronuncia di accertamento dell’atto di concorrenza sleale in se per se prescinde sia dalla verifica del danno sia dallo stato soggettivo dell’agente (colui che ha compito l’atto di concorrenza sleale). L’accertamento dell’atto di concorrenza è pregiudiziale rispetto a tutti gli atri mezzi di tutela che possiamo invocare contro gli atti di concorrenza sleale. ma è ammissibile la richiesta al giudice di una sentenza di mero accertamento cioè una sentenza che si limiti a rispondere alla domanda del soggetto che ha subito l’atto di concorrenza sleale accertami l’esistenza dell’atto di concorrenza sleale ma non chiedere una condanna al risarcimento del danno o l’adozione di determinati provvedimenti? La sentenza di mero accertamento è un concetto tipico del diritto processuale civile. Si dà normalmente risposta positiva a questa domanda cioè che si può adottare una sentenza di mero accertamento però solo la sentenza di accertamento positivo può essere seguita dall’adozione di altri provvedimenti cioè di altre misure di tutela contro gli atti di concorrenza sleale cioè solo l’accertamento positivo dell’atto di concorrenza sleale si può combinare con l’adozione di altri provvedimenti o restitutori, o inibitori o di risarcimento del danno non certo l’accertamento negativo. Proseguendo, dopo aver esaminato che tipo di accertamento deve fare il giudice, deve accertare il compimento dell’atto di concorrenza sleale, l’articolo 2599 ci dice che la sentenza che accerta l’esistenza dell’atto di concorrenza sleale può adottare opportuni provvedimenti che ne eliminano gli effetti procedimenti che abbiamo definito di carattere restitutorio o di rimozione degli effetti. Vi ricordo che solo dopo l’accertamento dell’atto di concorrenza sleale si può adottare un provvedimento restitutorio o di rimozione degli effetti. La legge non indica quali sono di preciso i provvedimenti infatti ci dice che si può adottare gli opportuni provvedimenti idonei ad eliminare gli effetti dell’atto di concorrenza sleale. Da cosa è condizionato questo provvedimento restitutorio o di rimozione degli effetti? Solo dall’accertamento dell’atto di concorrenza sleale. La eliminazione degli effetti che il provvedimento dovrebbe ottenere ci indica che non si riferisce alla riparazione del danno eventualmente subito perché voi di questo assunto troviamo conferma nell’articolo 2600 che invece è la norma dedicata al risarcimento del danno. Se vi fosse una sovrapposizione tra l’articolo 2599 e 2600 uno dei due sarebbe inutile. Il fatto che sono disciplinati in due articoli diversi dà la certezza che il provvedimento che serve a rimuovere gli effetti è una cosa, il

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provvedimento che mira al risarcimento del danno è un’ altra cosa e quindi il provvedimento di restituzione o di rimozione non è rivolto alla riparazione ne in forma generica ne in forma specifica del danno che si sia eventualmente verificato. Inoltre non sarebbe possibile ammettere misure di tipo risarcitorio cioè di risarcimento del danno verificato senza indagine sugli stadi soggettivi che sono quelli che anche se con qualche agevolazione l’articolo 2600 prevede mentre l’articolo 2599 non parla degli stadi soggettivi cioè l’accertamento dell’atto di concorrenza sleale e il provvedimento restitutorio non necessitano della prova della colpa o del dolo di quello che ha compiuto l’atto di concorrenza sleale ma solo dell’accertamento dell’atto di concorrenza sleale. Se dovessimo identificare una caratteristica generale di questi provvedimenti che servono a rimuovere gli effetti dell’atto di concorrenza sleale dovremmo dire che tendono a ricostituire la situazione di fatto che corrisponde all’interesse che è stato leso o lo stato di fatto esistente prima del compimento dell’atto di concorrenza sleale, lo status co ante. Il fatto che mirino a ricostituire la situazione di fatto corrispondente all’interesse leso ed esistente prima dell’atto di concorrenza sleale ci dice anche che è irrilevante per l’adozione di questi provvedimenti sotto il profilo giuridico il fatto che possano avvicinarsi anche al profilo del risarcimento del danno, sia danni già verificati sia quelli che si potrebbero verificare. Questi provvedimenti cioè mirano a ricostituire l’interesse leso mentre i provvedimento di tipo risarcitorio vogliono recuperare l’utilità perduta. Facciamo alcuni esempi: hanno natura restitutorio o di rimozione degli effetti l’ordine di ritiro dal commercio di prodotti che sono una imitazione di prodotti dei concorrenti, l’adozione di determinate misure che servono a eliminare la confondibilità di prodotti messi in commercio da un concorrente che ha compiuto atti di concorrenza sleale, ecc. Solo per i provvedimenti risarcitorio non per quelli di rimozione degli effetti occorre verificare l’esistenza del danno e dell’elemento soggettivo, sebbene con quella agevolazione prevista dall’articolo 2600 che la colpa si presume. Quella è un’agevolazione ma non vuol dire che non ci deve essere. Per i provvedimenti restitutori, invece, la concezione di provvedimenti restitutori non è influenzata da questa indagine ma solo dall’accertamento dell’atto di concorrenza sleale. In dottrina per la rimozione degli effetti non sarebbe necessario neppure che il danno sussista sotto il profilo potenziale come invece succede per i provvedimenti inibitori. La potenzialità del danno, però, qualifica in sé l’atto di concorrenza sleale e quindi la potenzialità a ledere l’altrui azienda. Ad ogni modo questo tipo di provvedimenti cioè la rimozione degli effetti che possono accompagnare la sentenza che accerta l’esistenza dell’atto di concorrenza sleale sono legati solo ed esclusivamente all’accertamento positivo del compimento dell’atto di concorrenza sleale prescindono dallo stato soggettivo e dall’esistenza vera e propria del danno. Questa è una tutela più avanzata rispetto alla tutela dell’illecito extra contrattuale articolo 2043. La disciplina dei segni distintivi e della ditta, sotto il profilo della ditta utilizzata legittimamente da altri questi profili si confondono, disciplina della ditta e della concorrenza sleale, però la tutela dei segni distintivi è uno step ancora più avanzato rispetto sia all’illecito aquiliano sia alla concorrenza sleale, è un gradino ancora più su. Perché per escludere uno che utilizza la ditta legittimamente utilizzata da noi di cosa abbiamo bisogno solo che la ditta sia confondibile con la nostra, non abbiamo bisogno nemmeno del danno potenziale. Art. 2043 è quella generale serve il fatto, il comportamento che ha cagionato il danno, il danno, il nesso causale e l’elemento soggettivo nella tutela degli atti di concorrenza sleale per alcuni tipi di provvedimenti, quelli che stiamo vedendo adesso, basta che sia compiuto l’atto di concorrenza sleale che è quello generalmente individuato dall’articolo 2598 numero 3. Per il risarcimento del danno servono altre cose mentre per i provvedimenti esaminati c’è una tutela più avanzata dell’articolo 2043. La tutela dei segni distintivi che si può accavallare con quella degli atti di confusione ha una tutela ancora più avanzata. Se vogliamo impedire ad una persona l’utilizzo di un segno distintivo legittimamente utilizzato da noi non ci serve nemmeno il danno potenziale. Da un punto di vista processuale, i provvedimenti che ordinano la rimozione degli effetti degli atti di concorrenza sleale si qualificano come sentenze di condanna cioè sentenze che costituiscono un obbligo, obbligo di fare a carico della controparte cioè di colui che è stato accertato di essere autore dell’atto di concorrenza sleale. Il contenuto di questi obblighi di fare per eliminare gli effetti dell’atto di concorrenza sleale non può essere definito a priori, la legge ci dice che possono essere utilizzati i più opportuni provvedimenti, non ci dice quali. In sostanza il contenuto di questi obblighi và modellato in base alle circostanze del caso concreto, cioè caso per caso, sulla peculiarità della singola situazione e degli interessi da conseguire tenuto conto del fatto che non si può gravare inutilmente e oltre una misura limite il convenuto, cioè quello che abbiamo chiamato in giudizio, nell’adozione di questi provvedimenti bisogna bilanciare anche gli effetti, non bisogna chiedere cose inutilmente gravose. Per esempio la pubblicazione di smentite, non la pubblicazione della sentenza che accerta l’esistenza dell’atto di concorrenza sleale, il ritiro dal commercio di prodotti

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che sono frutto di imitazione servile o la loro distruzione o l’aggiunta di varianti nei casi di imitazione servile, per esempio anche la rimozione di prodotti di etichette mendaci, nei casi di appropriazione di pregi altrui, oppure anche al ripristino delle relazioni contrattuali nel caso di boicottaggio, ma vi ripeto che la categoria è aperta dipende dal tipo di atto di concorrenza sleale che a sua volta è aperta e dalle circostanze del caso concreto. In sintesi la sentenza che accerta l’atto di concorrenza sleale e l’accertamento positivo contenuto in questa sentenza può essere presupposto di un tipo di provvedimento che è il provvedimento di rimozione degli effetti. Questo provvedimento si differenzia da quello risarcitorio per il suo presupposto in particolare, disciplinato dall’articolo 2599 ed è una categoria aperta. La sentenza che accerta l’esistenza dell’atto di concorrenza sleale è presupposto per l’adozione oltre che di provvedimenti di tipo restitutorio e di rimozione degli effetti ma anche di tipo inibitorio. Che cosa si intende per provvedimento inibitorio? Nel nostro ordinamento c’è un inibitoria che ha carattere processuale che vuol dire sospendere l’efficacia esecutiva di una sentenza, togliere l’efficacia esecutiva ad un certo provvedimento. La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva. Esiste però anche una inibitoria sostanziale che consiste nella condanna oppure si può dire che con l’adozione di questo provvedimento il soggetto che lo chiede cioè chi ha subito l’atto di concorrenza sleale può chiedere al giudice di accertare l’esistenza dell’atto di concorrenza sleale e sulla base di questo accertamento ordina a quello che l’ha compito l’atto di concorrenza sleale di non continuare o di non ripetere il comportamento illecito. Questi sono i tipi di provvedimenti inibitori previsti dall’articolo 2599, cioè dalla norma che ci dice quali sono gli strumenti di tutela contro gli atti di concorrenza sleale. Anche in questo caso il presupposto per l’adozione della inibitoria è non il danno che si sia già verificato ma il pericolo del danno, vale a dire la probabilità che sia continuata o ripetuta la condotta che integra la concorrenza sleale. Questo significa che se l’attività dell’impresa del soggetto che abbiamo convenuto in giudizio cessa cessano i presupposti per l’adozione di un provvedimento inibitorio. In questo caso non ci sarebbe la possibilità di una ripetizione o continuazione del provvedimento che integra l’illecito. L’inibitoria si orienta verso le ripetizioni e le continuazioni dell’atto di concorrenza sleale. La inibitoria prevista dall’articolo 2599 è quella che segue l’accertamento dell’atto di concorrenza sleale cioè quella contenuta insieme con la sentenza che accerta l’atto di concorrenza sleale cioè quella che presuppone che l’accertamento sia stato già compiuto. Questo non impedisce di chiedere lo stesso tipo di provvedimento o un provvedimento di carattere cautelare prima che la sentenza sia adotta, prima che il processo di cognizione ordinario si sia compiuto con un provvedimento di carattere cautelare che si sovrappone dal punto di vita dei contenuti dall’inibitoria ma che è adottato in via cautelare in virtù dell’articolo 700, cioè l’inibitoria articolo 2599 è quella che segue l’accertamento dell’atto di concorrenza sleale ma questo non ci impedisce di tutelarci prima che il processo sia finito con strumenti di natura cautelare. Anche dal punto di vista del contenuto l’inibitoria cioè l’ordine di non continuare o ripetere il comportamento illecito è una sentenza di condanna, una condanna di non fare cioè non ripetere e continuare il comportamento illecito. Se la sentenza ordina l’inibitoria cioè ordina all’imprenditore concorrente che ha compiuto l’atto di concorrenza sleale di non continuare il comportamento ma quello lo continua io come vengo tutelato? Per forza attraverso un obbligo di fare però questo non è in contraddizione con il fatto che il contenuto dell’inibitoria sia un ordine di non fare se uno non ottempera potremmo ottenere l’esecuzione forzata solo attraverso un ulteriore rimozione ma si tratterebbe pur sempre dell’esecuzione della inibitoria. I provvedimenti risarcitori, l’articolo 2600 ci dice che gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o colpa l’autore è tenuto al risarcimento dei danni. In tale ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza è una forma di risarcimento del danno in forma specifica e la colpa si presume accertato l’atto di concorrenza sleale. Quali sono i presupposti per l’adozione del provvedimento risarcitorio? Quali sono i presupposti affinché la sentenza che contiene l’accertamento dell’atto di concorrenza sleale condanni quello che l’ha compiuto a ristorarci del danno che abbiamo subito sia in termini numerici sia in forma specifica cioè la pubblicazione della sentenza? Primo presupposto la sussistenza del danno inteso sia come danno emergente sia come danno cessante. Secondo la presenza dell’elemento caratterizzante di tipo soggettivo cioè il dolo o la colpa del soggetto agente. Qualora mancano questi presupposti il danno potrà essere solo ristorato con un’azione di arricchimento senza causa. La pubblicazione della sentenza che accerta l’esistenza degli atti di concorrenza sleale è considerata soprattutto nei rapporti fra le grandi imprese una forma molto efficace di risarcimento del danno cioè in una buona parte delle cause di concorrenza sleale la cosa che più è temuta è la pubblicazione della sentenza che accerta che abbiamo compiuto un atto di concorrenza sleale. Si tratta di un provvedimento molto temuto quello della pubblicazione della sentenza. La tutela contro gli atti di concorrenza sleale ha fino ad un certo punto natura sostanziale poi

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acquisisce ad un certo punto necessariamente natura processuale. L’atto di concorrenza sleale presuppone, anche se dà una presunzione a favore del soggetto che agisce e quindi una agevolazione rispetto alla normale tutela contro gli illeciti, l’esistenza dell’elemento soggettivo cioè la necessaria presenza del dolo o della colpa dell’agente. La colpa è la condizione di colui che volontariamente compie un atto di quelli che entrano nell’articolo 2598 ma per negligente accertamento ignora che esso integri gli elementi della fattispecie illecita cioè il compimento dell’atto è volontario ma c’è negligenza sulla riconduzione alla fattispecie illecita. Non è l’atto involontario, l’atto colposo è l’atto compiuto volontariamente. Se avesse saputo che l’atto che stava compiendo volontariamente integrava i requisiti dell’articolo 2598 sarebbe stato compiuto con consapevolezza ma sempre volontario è il compimento dell’atto. Questa consapevolezza manca per negligenza e questa negligenza integra la colpa. Estranea è la consapevolezza delle conseguenze dannose. In conclusione, tenuto conto di quello che abbiamo detto cioè che, accertato l’atto di concorrenza sleale, la colpa si presume, sappiamo chi è gravato dell’onere della prova è quello che abbiamo convenuto in giudizio cioè quello che viene accusato di aver compiuto atti di concorrenza sleale. Colui che viene accusato di compiere atti di concorrenza sleale il convenuto in giudizio una volta che l’atto è accertato lui è gravato dell’onere della prova circa la mancanza della colpa. Questa è una agevolazione che la disciplina della concorrenza sleale dà al soggetto leso che vuole avvalersi degli strumenti di tutela. Per escludere la colpa il convenuto deve dimostrare l’ignoranza incolpevole degli elementi di fatto che integrano l’atto di concorrenza sleale. Per esempio dimostrando di aver compiuto le dovute ricerche per accertare la presenza di segni distintivi altrui e la presenza di comportamenti diligenti. Questa è l’agevolazione che viene data dall’ordinamento. La colpa, accertata gli atti di concorrenza sleale, la presunzione vale solo per la colpa non per il dolo, la colpa si presume. Questo viene indicato in dottrina come regime di tutela privilegiato cioè questa differenza che consiste nell’esistenza di una presunzione di colpa a carico del soggetto convenuto in giudizio quando è accertato l’esistenza dell’atto di concorrenza sleale integra il regime privilegiato che viene accordato rispetto a quello previsto dall’articolo 2043 cioè la vittima dell’illecito concorrenziale ha un privilegio sull’onere della prova. È un regime che vale solo per gli imprenditori cioè attore e convenuto devono essere imprenditori in rapporto di concorrenza tra di loro. In conclusione l’autore dell’atto di concorrenza sleale se vuole evitare la condanna al risarcimento del danno, sulla rimozione degli effetti e sull’inibitoria questo elemento non serve gli stati soggettivi non sono necessari, deve provare che l’ignoranza era incolpevole. Vi leggo una massima è il principio di diritto estratto da una sentenza: perché possa ritenersi la sussistenza di atti di concorrenza sleale e perché possa esserne inibita la continuazione inibitoria è sufficiente che gli atti di concorrenza sleale siano idonei a produrre un effetto dannoso per aziende concorrenti anche se questo effetto non si è ancora avverato. L’estremo del dolo o della colpa non è necessario. Infatti il tipo di provvedimento di cui stiamo parlando è l’inibitoria. Perché il pericolo è insito nella reiterazione del comportamento illecito, che si è accettato come illecito, quindi l’estremo della colpa o del dolo non è necessario. Esso è richiesto invece per la condanna al risarcimento del danno e per l’ordine di pubblicazione della sentenza, ma a norma dell’articolo 2600 accertato l’atto di concorrenza sleale, la colpa si presume sicché si incombe sugli autori di quelli atti che essi furono compiuti senza colpa. Il dolo in questo caso, secondo l’opinione più accreditata, deve essere inteso come rappresentazione degli effetti dannosi inerenti al proprio comportamento, per esempio la consapevolezza di adottare un segno distintivo confondibile con il segno altrui. Quale è una delle cose più difficili in questo tipo di cause? La quantificazione del danno e in genere si fonda, nelle cause di questo tipo, il ricorso ad un mezzo di prova che è la consulenza tecnica di ufficio, che in questo caso avrebbe natura contabile, la farebbero nella maggioranza dei casi persone che hanno più o meno il tipo di profilo economico invece che di giurista. L’acquisizione dei dati necessari alla quantificazione del danno avviene in base all’istituto della consulenza tecnica di ufficio in sede processuale che postula a sua volta un indagine sulle scritture contabili e sui libri contabili. Sintesi: dove troviamo le norme che disciplinano gli strumenti di tutela contro gli atti di concorrenza sleale? Nel codice civile articolo 2599 e 2600. Questo significa che gli strumenti di tutela si esauriscono in quelli che sono previsti in queste due norme? No, ci sono anche strumenti di tutela cautelare previsti dal codice di procedura civile. Quali tipi di provvedimenti possono essere adottati dal giudice investito della controversia? Provvedimento di accertamento, restitutorio o di rimozione degli effetti, inibitorio e di limitazione del danno. Si basano su presupposti simili? In parte si e in parte no. L’accertamento positivo dell’atto di concorrenza sleale si può combinare con altri tipi di provvedimenti. La rimozione degli effetti o la restituzione presuppone l’accertamento dell’atto di concorrenza sleale ma non presuppone gli stati soggettivi, dolo o colpa del soggetto agente. La legge ci dice solo i più opportuni provvedimenti idonei a rimuovere gli effetti ma

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non quali sono. Cosa è l’inibitoria? L’inibitoria è il provvedimento inteso a impedire la continuazione la reiterazione del comportamento illecito, ha ad oggetto un obbligo di non fare e chiaro che in caso di inadempimento noi possiamo ottenere un esecuzione solo attraverso un obbligo a fare che si traduce in un nuovo provvedimento restitutorio che serve ad eliminare cose che non si dovevano fare. Il risarcimento del danno avvicina la tutela della concorrenza sleale a quella generale dell’illecito acquiliano ma non del tutto perché c’è un regime privilegiato sulla dimostrazione dell’elemento soggettivo. Per il risarcimento del danno anche in sede di concorrenza sleale serve il danno e la prova dell’elemento soggettivo. Per invocare gli strumenti di concorrenza sleale in primis basta il compimento dell’atto di concorrenza sleale e l’idoneità a ledere l’altrui azienda ma per il risarcimento del danno ci vuole che il danno si sia verificato. Questo è un provvedimento che guarda al passato cioè a ripristinare l’utilità che si è persa mentre quello restitutorio serve a ripristinare la situazione di fatto e l’interesse leso però presuppone il danno e l’elemento soggettivo. La differenza rispetto all’illecito extracontrattuale sta nel fatto ché accertato l’atto di concorrenza sleale chi è che viene chiamato a discolparsi? Quello che viene chiamato in giudizio, quello che ha compiuto l’atto di concorrenza sleale, non lo dobbiamo provare noi cioè quello che agisce. Altra forma risarcitoria tipicamente prevista dalla legge è quella della pubblicazione della sentenza.

Lezione 19/12/2011Nella precedente lezione ci siamo soffermati sulle azioni di difesa dell’imprenditore nel caso in cui esso sia aggredito da un atto di concorrenza sleale e di tutte le azioni giudiziarie che gli sono consentite.I segno distintivi costituiscono un altro elemento importante del diritto industriale e (insieme alle invenzioni industriali e ai modelli di utilità ornamentale) costituiscono in settore in cui è più forte l’elemento della proprietà industriale.Sono beni immateriali rispetto ai quali l’imprenditore esercita un diritto di proprietà (il diritto di proprietà industriale), cioè l’imprenditore è titolare di tali segni distintivi così come è titolare dei brevetti per invenzioni e per modelli. Ne può disporre nei sensi che desidera ma mentre il diritto di proprietà su una penna o su un immobile si esercita nel senso più pieno della proprietà, nel diritto industriale tale diritto di proprietà deve essere esercitato compatibilmente con la funzione svolta da tali beni immateriali in relazione agli interessi tutelati, non solo degli imprenditori ma di tutti gli agenti del mercato in generale.Per quanto riguarda i segni distintivi la tutela offerta riguarda principalmente gli imprenditori proprietari di tali segni. E’ intuitivo che se io posseggo un segno distintivo tipico/atipico, un altro imprenditore non potrà usare lo stesso segno distintivo. Ciò perché, capirete bene, il segno distintivo allude ad una funzione distintiva che il segno ha sul mercato, cioè il segno distintivo contraddistingue un elemento dell’ attività d’impresa esercitata da un certo imprenditore sul mercato. In particolare noi distinguiamo segni distintivi:

1. TIPICI: Quelli che sono oggetto di specifica considerazione da parte del legislatore e che trovano una puntuale disciplina nel nostro ordinamento e sono: ditta, insegna e marchio.

2. ATIPICI: Tutti gli altri elementi utili a connotare, a distinguere un’impresa, i suoi prodotti, i suoi servizi, la sua attività e il luogo in cui è esercitata sul mercato.

Già un cenno a questa tematica dei segni distintivi tipici e atipici è stata da noi accennata quando abbiamo parlato della concorrenza sleale per confusione: abbiamo detto che la confusione si riferisce all’ utilizzo di segni distintivi altrui tipici o atipici.Per i segni distintivi ATIPICI la forma di tutela è proprio la disciplina della concorrenza sleale, per quelli TIPICI c’è una disciplina speciale della quale ci andiamo ad occupare.Tale discorso vale per tutti i segni distintivi: essi sono entità sulle quali l’imprenditore esercita il suo diritto di proprietà. Come sorge il diritto di proprietà di un imprenditore su un determinato segno distintivo? Essi sono beni immateriali infatti non è che troviamo un oggetto che è un segno distintivo, ma su di esso possono essere rappresentati. Il segno distintivo rientra nella categoria di beni immateriali ciò vuol dire che non sono beni in senso fisico ma sono beni in senso giuridico e su di essi l’imprenditore esercita il suo diritto di proprietà.Come ogni altro diritto immateriale si tratta di un’entità che può essere conferita, venduta ed è valutata nei bilanci imprenditoriali (c’è un’apposita voce relativa ai diritti e agli altri beni immateriali tra i quali rientrano i segni distintivi).La ditta in quanto tale non c’è, si può trovare scritta ma non troviamo un oggetto che è la ditta.

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DITTA : Contraddistingue l’imprenditore e allo stesso tempo l’impresa (Contraddistingue l’attività)

INSEGNA : Contraddistingue il luogo in cui si svolge una determinata attività MARCHIO : Contraddistingue il prodotto o il servizio

DITTA: Ogni imprenditore che svolge la sua attività sul mercato spende il proprio nome per l’assunzione di obbligazioni e l’acquisto di diritti (si fa conoscere sul mercato in un determinato modo). Tale nome può coincidere con il nome civile (laddove parliamo di imprenditore persona fisica) o può essere arricchito da un nome di fantasia (anche se non è necessario).Il patronimico dell’imprenditore è sufficiente: se un imprenditore connota la sua attività sul mercato con il nome “Francesco Esposito” non per questo la denominazione “Francesco Esposito” non può essere qualificata come ditta anzi! Come un imprenditore diviene proprietario di un segno distintivo? E in particolare come si diventa proprietari della ditta? Attraverso l’uso di quel segno distintivo. Cioè “Francesco Esposito” o “antichi sapori di Francesco Esposito” può essere una ditta ma per il momento è solo un patronimico o un nome di fantasia che si affianca ad un patronimico. Non è ancora una ditta, lo diventerà attraverso il suo uso da parte dell’ imprenditore.La ditta diviene tale con l’utilizzo legittimo che l’ imprenditore ne fa ( in linea di principio l’ utilizzo illegittimo della ditta non permette all’ imprenditore di divenirne proprietario).Con l’utilizzo avviene che quella ditta acquista una capacità distintiva sul mercato perché di per se “antichi sapori di Francesco Esposito” non ha una funzione distintiva sul mercato ma è una denominazione di fantasia e basta. Con l’utilizzo che l’imprenditore fa di quella determinata denominazione (ad esempio la usa nei suoi rapporti con i clienti e fornitori, fa pubblicità su Tv, quotidiani, volantinaggio) e sul mercato si allude ad “antichi sapori di Francesco Esposito” con quella specifica e non con un’altra, allora la ditta diventa tale e l’imprenditore acquista la proprietà su quel segno.In quest’ operazione (cioè la diffusione del nome sul mercato da parte dell’ imprenditore) si verifica un altro fenomeno: la ditta nasce sempre soggettiva cioè identifichiamo quella determinata ditta con quella determinata persona fisica. Anche se l’ attività viene svolta sotto la ditta “antichi sapori di Francesco Esposito” (almeno all’ inizio) tutti identificano quella attività “antichi sapori di Francesco Esposito” con la persona di Francesco Esposito (ed è in tal senso che parliamo di ditta soggettiva). Con l’uso che l’imprenditore fa della ditta, la ditta si oggettivizza (diventa oggettiva).Questo discorso cambia a seconda dell’ attività d’impresa di cui si tratta, della dimensione, del mercato su cui opera e della dimensione del marcato su cui opera. Ciò che è certo è che la ditta si spersonalizza, diventa oggettiva. Quell’ associazione di parole che costituisce la ditta è tale da distinguerla da ogni altra impresa o persona fisica. Noi contraddistinguiamo quella ditta non perché dietro ci sia quella determinata persona ma perché associamo delle caratteristiche alla attività ( e non più alla persona). E’ la ditta oggettiva che ha un valore distintivo sul mercato: si perde l’iniziale correlazione con la persona dell’ imprenditore (anche se di tale persona si continua a dare notizia nella ditta). Esempio: “antichi sapori di Francesco Esposito” tra 2 – 5 – 10 anni magari non sarà più esercitata da Francesco Esposito ma da un altro soggetto. Tuttavia la ditta non si cambia ma rimarrà comunque “antichi sapori di Francesco Esposito” (anche se poi ad esercitare l’attività d’impresa, ad essere proprietario della ditta non è più Francesco Esposito ma Mario Rossi).Normalmente la ditta si compone di due elementi:

a) Il patronimico dell’imprenditore (nome e cognome)b) Una denominazione di fantasia ( che si aggiunge al patronimico)

Nella ditta l’ elemento essenziale e imprescindibile è il nome dell’ imprenditore. La ditta non è più tale se manca il patronimico dell’imprenditore. E’ l’ elemento essenziale. Il patronimico dell’ imprenditore che ha iniziato(creato) l’attività è uno degli elementi (e secondo alcuni l’unico) che costituisce la verità della ditta. E’ necessario che ci sia almeno il cognome ma è sufficiente anche solo la sigla del nome e del cognome dell’imprenditore.I caratteri della ditta sono 3:1) VERITA’; 2)LICEITA’; 3)NOVITA’Il patronimico dell’ imprenditore non è un elemento di verità perenne ed effettiva ma un elemento di verità storica, nel senso che sicuramente nel momento in cui è nata la ditta quel nome e quel cognome contraddistinguevano l’imprenditore che l’ha creata (e in quel momento la ditta è vera) ma dopo 1 – 20 – 100 anni la stessa ditta potrà essere usata con quel nome da un’altra persona che si chiama in un

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altro modo. A questo punto la ditta è ancora vera perché l’elemento di verità si riallaccia al dato storico di qual’era la ditta al momento in cui è stata creata.La denominazione di fantasia non è imposta dal legislatore all’ imprenditore ma viene aggiunta poiché la ditta nasce soggettiva ed è necessario che nel passaggio tra ditta soggettiva e oggettiva venga indicato il nome dell’imprenditore poiché egli è colui che, con l’uso che ne fa, da alla ditta un valore di riconoscibilità sul mercato. Spesso accade che nome e cognome non siano di grande richiamo, non siano sufficienti ad oggettivizzare una ditta, cioè non sono sufficienti a costituire un elemento distintivo sul mercato. Chi nel 2012 vuole utilizzare una ditta con il proprio nome e cognome troverà già alte persone che avranno registrato tale ditta con quel nome e cognome.La parte di fantasia può avere un aspetto di richiamo prevalente o meno rispetto al nome o essere interessante nel suo complesso. Non rientra nella parte di fantasia la mera descrizione dell’attività dell’imprenditore (ESEMPIO: “salumeria di Francesco Esposito” non va bene, la ditta rimane solo “Francesco Esposito”). La descrizione dell’ attività però può essere fatta in modo originale (ESEMPIO: “salumi nostrani dell’ Abruzzo di Francesco Esposito”) oppure non avere nulla o poco a che fare con l’attività svolta dall’imprenditore (ESEMPIO: “ i prodotti di marte di Francesco Esposito”).Per tutti i segni distintivi (e soprattutto con il marchio) quanto più la denominazione di fantasia è lontana dall’ attività che si svolge tanto più la denominazione di fantasia ha un valore distintivo sul mercato. Questo perché di “salumi nostrani di Francesco Esposito” ce ne saranno tantissimi viceversa invece per “i prodotti di marte di Francesco Esposito”. Entrambe sono denominazioni di fantasia, entrambe possono essere legittime se rispettano la novità ma il valore distintivo sarà diverso. Nell’utilizzare la denominazione di fantasia, specie se la denominazione di fantasia fa in qualche modo capire quello che faccio, l’attività che svolgo, devo usarne una che non sia decettiva. ESEMPIO: se chiamo una salumeria “salumeria dell’ Abruzzo” ci aspettiamo che dentro ci siano i prodotti dell’ Abruzzo, infatti se chiamo la mia una salumeria “salumeria dell’ Abruzzo” e dentro ci sono i prodotti siciliani non funziona! Nella denominazione di fantasia si può scrivere quello che si vuole, il legislatore non impone dei limiti, l’ unico vincolo riguarda l’utilizzo non decettivo della ditta cioè la ditta laddove abbia attinenza con l’attività svolta dall’ imprenditore può essere una descrizione di fantasia qualsiasi, anche banale, l’importante è che non sia decettiva. Siamo al confine tra verità e leceità: la ditta decettiva secondo alcuni è una ditta carente del requisito della verità (cioè nella verità ci andrebbero sia il patronimico dell’ imprenditore sia l’uso non decettivo) mentre secondo altri il carattere non decettivo della ditta rientra nell’ elemento della liceità. E’ pacifico che la ditta non deve essere decettiva.Nel tema del marchio tale elemento è più forte rispetto alla ditta poiché la ditta contraddistingue l’attività, il marchio contraddistingue il prodotto, di conseguenza è più forte il rischio di decettività quando parliamo di marchio rispetto a quando parliamo di ditta. Guardando i precedenti, infatti, è possibile notare come anche la giurisprudenza sia meno rigorosa. ESEMPIO: se la ditta si chiama “salumi dell’ Abruzzo” e vengono venduti prevalentemente salumi dell’Abruzzo ma accanto ad essi c’è anche qualche prodotto campano o piemontese non si riconosce un uso decettivo della ditta.Nella ditta quindi permane l’ elemento della decettività del segno ma è meno rigoroso rispetto al marchio.LICEITA’: elemento alquanto banale e intuitivo: non è possibile inserire nella ditta e nella sezione della ditta relativa alla denominazione di fantasia segni illegittimi ad esempio non posso usare segni contrari all’ ordine pubblico, a norme imperative e al buon costume. Non posso usare un segno che offende la pubblica morale o che incita organizzazioni vietate. Non posso neanche usare una serie di segni per i quali esiste un divieto normativo ad esempio non possiamo appropriarci della bandiera Francese nella nostra ditta perché è lo stemma di uno stato straniero. Altro elemento della liceità della ditta è l’uso come ditta di un segno distintivo usato da altri ma non come ditta (tale fattispecie riguarda tutti i segni distintivi, anche insegna e marchio). Non posso ad esempio usare il marchio/insegna di un altro imprenditore come mia ditta poiché si tratta di un uso illegittimo del segno distintivo, non consentito. La ragione è che se fosse possibile l’uso di un segno distintivo altrui in modo diverso dall’uso fatto da quell’ imprenditore potrei trarre dei benefici e inoltre posso indurre in confusione il pubblico.

NOVITA’: “non posso usare la ditta di un altro” . Ciò sta a significare che il segno deve essere nuovo (cioè il segno non deve essere legittimamente usato da un altro imprenditore. Per parlare di novità dobbiamo soffermarci sul profilo merceologico e su quello territoriale. La novità del segno deve essere parametrata rispetto agli elementi merceologici di altri prodotti esistenti.

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ESEMPIO: se quel segno è usato in una ditta che vende mozzarelle e io lo voglio usare per una ditta che vende abbigliamento non c’è nessuna concorrenza ne attuale ne potenziale in quanto è evidente che un soggetto che produce mozzarelle non entrerà in futuro nell’ abbigliamento (in tal coso non c’è confusione tra i due segni). E’ possibile quindi usare come ditta il segno usato legittimamente da un altro imprenditore se non c’è concorrenza dal punto di vista merceologico.Rapporto di concorrenza dal punto di vista merceologico che deve essere più stretto quanto più parliamo di imprenditori tra i quali non c’è una particolare sostituibilità mentre può essere più largo nei casi in cui parliamo di imprenditori che svolgono attività tra loro maggiormente sostituibili.LIMITI: per i segni notori ci può essere qualche problema quando è presumibile che quel segno notorio entri sul mercato e si faccia riconoscere i quel determinato modo. Ci deve essere un rapporto territoriale anche qui non solo effettivo ma anche potenziale (ma che abbia comunque elementi di concretezza ESEMPIO se esercito la mia attività a Napoli perché ho un salumeria a Napoli che ha una determinata ditta non ci potrà mai essere concorrenza con una ditta che opera a Milano e che fa la salumeria e quindi io a Napoli posso tranquillamente adottare come ditta il nominativo usato a Milano come ditta). In tal coso dobbiamo solo preoccuparci della notorietà che quella particolare ditta abbia conseguito in quel determinato luogo perché anche se è vero che io a Napoli posso usare come ditta la denominazione di fantasia usata a Milano come ditta si deve parlare di una salumeria che abbia una notorietà meramente locale, limitata al quartiere, alla città. Se la notorietà della ditta va oltre il locale io non la posso usare anche se svolgiamo la nostra attività a Napoli. Diverso è se io la utilizzo per un settore di attività diverso. Oggi il profilo territoriale perde sempre più significato mentre quello merceologico continua ad avere rilievo. Per il marchio del discorso territoriale non se ne parla proprio ma per quanto riguarda insegna e ditta il profilo territoriale continua ad avere un certo significato. Tuttavia è un significato che a man a mano si perde perché le attività svolte da un imprenditore sono sempre meno legate ad un determinato territorio meramente locale ma la notorietà man mano va sempre più oltre il locale e diventa regionale o nazionale. E’ possibile avere due ditte uguali che svolgono la stessa attività in due città diverse perché non c’è concorrenza dal punto di vista territoriale (ma anche nella stessa città o quartiere: due ditte possono avere lo stesso nome perché svolgono attività diverse).Il problema della novità deve essere approfondito, c’è un altro elemento di cui ci dobbiamo occupare e cioè: quando andiamo a confrontare due ditte per dire questa ditta è nuova o questa ditta non è nuova perché c’è quest’altra ditta precedentemente sorta che contiene gli stessi elementi, quali elementi della ditta successiva dobbiamo andare a vedere il nome? o il nome di fantasia o un particolare del nome di fantasia? Nel confrontare la ditta successiva con quella precedente dobbiamo verificare se esiste l’ elemento della novità. Se bastasse un solo elemento di una ditta precedente per non far valere il requisito di novità allora nessuna ditta potrà essere più registrata perché quasi tutti gli elementi trovano già spazio in una ditta precedente. ESEMPIO: pensiamo al problema dei cognomi: se io volessi dire che in nessuna ditta ci deve essere l’ elemento”Esposito” di che parliamo?Di conseguenza quando parliamo di confronto tra la ditta successiva con quella precedente dobbiamo confrontare il cuore della ditta: cioè quella parola, quella frase, quella combinazione che costituisce l’ elemento distintivo. Quando voi andate a leggere una ditta non è tutta la ditta che costituisce l’ elemento distintivo: “antichi sapori di Francesco Esposito” ha come elemento distintivo “antichi sapori” cioè le due parole combinate insieme. Infatti “i sapori di una volta di Francesco Esposito” non sarà in conflitto con “antichi sapori di Francesco Esposito” poiché anche se c’è la parola “sapori” essa per una salumeria non è una parola particolarmente nuova ma è una parola banale che illustra cosa c’è dentro. E’ la combinazione dei segni che attribuisce una particolare valenza distintiva. Se avessimo usato “antichi sapori di Francesco Esposito “ per un negozio che vende scarpe allora li è più difficile che un concorrente possa usare “i sapori di una volta di Francesco Esposito” per vendere scarpe perché in tal modo è palese che si cerca di sfruttare la notorietà altrui (con un nome atipico). Anche nell’ individuazione del cuore della ditta e dell’ elemento di novità della stessa devo andare a vedere il cuore del segno rapportandolo anche all’ attività che si svolge, alla sua peculiarità rispetto all’ attività svolta. Se è banale è sufficiente una piccola differenza affichè il cuore della ditta non venga riprodotto, se invece è peculiare rispetto all’ attività svolta allora in tal caso una lieve differenza non basta ma è necessaria una differenza importante. Nel momento in cui individuiamo il cuore della ditta come elemento confondibile con altra ditta già esistente con la quale c’è quel rapporto di concorrenza territoriale e merceologico allora sorge l’obbligo per colui che abbia utilizzato la ditta successivamente di modificare il cuore della ditta e usare

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altro segno.Naturalmente il cuore della ditta (cioè l’elemento che le conferisce distinzione) potrebbe individuarsi anche nel nome e cognome dell’ imprenditore. In tal caso succede che anche il nome e il cognome vanno modificati: nella ditta successiva non si potrà mettere quel nome e cognome o lo dovremo mettere in maniera tale da non creare confusione con la ditta precedente. Cioè se la ditta precedente ha il cognome per esteso in quella successiva si potrà mettere la sigla. Io non potrò inserire nella ditta successiva il mio cognome se quel cognome costituisce l’elemento che costituisce il cuore della ditta e se è confondibile con quello di una ditta già legittimamente esistente. Se non è possibile inserire neanche la sigla poiché anche essa costituisce il cuore della ditta allora non dovrò scrivere il nome. Cioè l’elemento della verità è meno importante dell’ elemento della novità, proprio perché l’elemento della verità è un elemento storico della ditta e non perdurante della ditta. La verità è un elemento che deve esistere quando la ditta nasce ma che poi nella vita della ditta può non essere rispettato. Allora può accadere che fin dall’ origine la prevalenza della novità rispetto alla verità imponga il mancato rispetto della seconda rispetto alla prima. Cioè siccome la novità è più importante della verità, se per ragioni di novità devo rinunciare all’ indicazione del nome, del cognome, della sigla allora non le metterò anche se mi chiamo così. La ditta viene registrata: io mi reco presso l’ufficio del registro e indico la mia ditta. Posso anche non farlo, cioè la registrazione non è un elemento di validità della ditta (così come non è elemento di validità di nessun segno distintivo). Non è la registrazione che da validità al segno, la validità al segno è attribuita dall’ utilizzo che ne faccio e dalla notorietà che acquisisce, cioè è l’elemento distintivo del segno che costituisce il sorgere della ditta, non è la sua registrazione. Tuttavia la registrazione della ditta è un elemento che facilita le cose, nel senso che io registro la ditta e poi do notorietà alla stessa perché individuo come elemento sicuro che questa ditta da questa data è usata dal signor tizio. Può accadere che io uso di fatto una ditta ma non l’ho registrata, arriva poi un signore che prende questa ditta e la usa. Ora laddove la ditta usata precedentemente avesse una notorietà meramente locale e non nazionale ed era usata solo in quella città o regione, senza andare oltre tale ambito, in tal caso succede che la ditta successiva è registrata legittimamente. Colui che usava precedentemente le ditta in una determinata zona di fatto, senza averla prima registrata, potrà continuare ad usarla cioè potranno coesistere due persone che legittimamente usano la stessa ditta, con una differenza: chi l’ ha registrata la potrà usare a livello nazionale e potrà anche vietare ad altre persone di usarla in altri luoghi ma l’unica cosa che non può fare è vietare al signore precedente di continuare ad usarla nei limiti in cui la utilizzava prima della registrazione da parte dell’ imprenditore successivo. ESEMPIO: Se il signore precedente opera a Milano e dopo la registrazione del secondo soggetto vuole espandersi a Brescia non lo può fare, perché a Brescia dovrà cambiare ditta.Oggi è molto difficile che una persona non registri una ditta (ma può capitare) mentre in passato nella maggior parte dei casi non si registrava nulla.

TRASFERIMENTO DELLA DITTANoi abbiamo detto che la ditta contraddistingue un imprenditore prima ancora che un’impresa perché una ditta nasce soggettiva e poi diventa oggettiva e deve rispettare il requisito di verità (almeno storico). Tutti questi elementi ci fanno capire che la ditta può essere trasferita. Il legislatore consente il trasferimento della ditta però ad una condizione importante: la ditta può essere trasferita solo coevamente all’ impresa cioè se io voglio trasferire una ditta davo trasferire anche l’azienda. Qual è la logica del legislatore? Poiché la ditta connota l’attività io non posso trasferire la ditta e mantenere l’attività ma posso trasferire una ditta solo se trasferisco anche l’attività. In tal modo mantengo l’associazione tra ditta e azienda, cioè l’attività esercitata rimane quella che si collega a quella ditta. Se non è trasferita l’impresa non si trasferisce neanche la ditta.

a) posso trasferire una ditta solo se trasferisco anche l’azienda ma posso trasferire un’azienda e mantenere la ditta, cioè nessuno ci obbliga a trasferire anche la ditta quando trasferiamo l’impresa.

b) È sufficiente trasferire una ramo dell’ azienda per trasferire la ditta (non è necessario trasferire tutta l’azienda). Però dovrà essere un vero e proprio ramo, si deve fare riferimento ad un complesso di beni organizzati. Non è sufficiente che sul contratto ci sia scritto ramo d’azienda, è necessario che sia concretamente un ramo d’azienda per trasferire anche la ditta, altrimenti il trasferimento della ditta è illegittimo, quel contratto non è valido

Inoltre nel contratto deve essere specificamente scritto che si trasferisce anche la ditta, non può essere affidato ad un’interpretazione successiva del contratto di trasferimento perché la ditta

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necessita di una specifica indicazione del suo trasferimento. Se non è scritto nel contratto la ditta rimane in capo al vecchio proprietario. Tutto ciò riguarda i contratti stipulati tra vivi. Se il trasferimento avviene mortis causa non è che io posso andare a chiedere il consenso di trasferimento anche della ditta al morto in tal caso infatti insieme all’ azienda si trasferisce anche sempre la ditta (tranne se il de cuius nelle disposizioni testamentarie abbia specificato che la ditta si estinguerà con lui) E’ una disposizione legittima, si ha quando non si desidera che un attività venga continuata con il proprio nome. Non posso vietare che l’azienda vada ai miei eredi legittimi ma posso vietare che la ditta vada ai miei eredi legittimi.Molto importante è che io mi affretti ad andare al registro delle imprese per segnalare il trasferimento della ditta poiché se non mi affretto ad iscrivere quella ditta con il mio nome e cognome può sorgere un problema di responsabilità per i debiti sorti nelle diverse gestioni, su chi svolge l’azienda. E’ necessario dare quindi immediata pubblicità del trasferimento della ditta, forse è ancora più importante della nascita della ditta, soprattutto nei casi in cui la ditta contenga il patronimico. ESEMPIO “antichi sapori di Francesco Esposito” viene venduta a Mario Rossi e ciò non è iscritto nel registro delle imprese la gente può andare da Francesco Esposito a chiedere 100000 euro. Il problema di responsabilità quindi si supera solo con l’iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese.

Lezione diritto industriale 9/01/12

Oltre all'insegna vi darò qualche breve indicazione anche sull'emblema e sul dominio che non sono propriamente dei segni distintivi, ma prima di chiudere la panoramica sugli altri segni distintivi (che sono insegna, ditta e marchio) vi darò qualche breve supplemento perché costituisce spesso domanda d'esame, non in maniera diretta ma in maniera comparativa. L'insegna ha quale norma di riferimento l'articolo 2568 che è rubricato l'insegna, da qua notiamo una prima cosa: la norma sull’insegna è molto molto breve, si sostanzia di un'unica frase con la definizione dell'insegna e rinvia al 1° comma dell'art. 2564 in materia di ditta; già questo ci fa capire che l'insegna non ha una disciplina autonoma ma è legata "per relationem" alla ditta, tra l'altro questa disciplina non è pedissequamente uguale a quella della ditta, perché per esempio non fa rinvio al 2° comma del 2564 che prevede il divieto di cedere la ditta da sola. Inquadrato normativamente che cos'è l'insegna, mi sembra utile dare un quadro d'insieme, sistematico.Detto che la norma di riferimento è l'articolo 2568, vediamo cos'è l'insegna. L'insegna secondo la dottrina maggioritaria non è nient'altro che le scritte, le immagini che identificano una determinata attività commerciale nel senso comune. Che cos'è un'insegna? È verbalizzare una scritta luminosa che voi travate fuori un'attività commerciale. La difficoltà sta nel fatto che originariamente questa ripartizione ditta, insegna, marchio era molto forte e ciascuna assolveva una funzione specifica, oggi invece tendono a sovrapporsi vuoi perché alcuni utilizzano la ditta come marchio, vuoi perché spesso l'insegna come marchio, ma soprattutto perché originariamente l'insegna era il segno distintivo di una determinata bottega. Originariamente quando è stato creato il codice ed ancora prima, si individuava questo segno distintivo come quello che caratterizzava la bottega, quindi il fornaio tizio, opp la bottega del calzolaio caio erano esempi ancora calzanti nei manuali di diritto industriale degli anni Ottanta; ovviamente adesso c'è stato un'evoluzione dovuta alla globalizzazione, all'apertura dei mercati. Ridurre la portata normativa e la portata fattuale dell'insegna e la capacità e l'individuazione di una bottega è molto più ..., perché spesso non individua una bottega, ma determina un gruppo, una catena.Voi immaginate Jolly Hotel che adesso mi sembra essere NH, quel Jolly è un'insegna, ovviamente nulla vieta che la società abbia come ragione sociale, quindi come ditta, la nomenclatura jolly e nulla vieta che la catena jolly hotel abbia registrato come marchio jolly (anche se dopo che vedremo il marchio capiremo che non può averlo fatto perché in linea di massima il marchio deve avere come caratteristica la novità, originalità e capacità distintiva, e quindi non si può sostanziare di nomi di cose generiche; non posso timbrare la mia attività come pane, né come pesce, né come jolly che nell'immaginario comune rappresenta sia la carta da gioco, che una personalità eclettica). Jolly è sicuramente l'insegna, poi potrebbe essere ditta e in linea astratta potrebbe anche essere marchio (questo se all'esame lo dite, tanto di guadagnato). Accanto a questo voi direte che sebbene in linea astratta con l'esempio jolly hotel ci sia la sovrapposizione tra i segni distintivi, noi conoscendo le caratteristiche del marchio, difficilmente si può sostenere che il termine jolly abbia le caratteristiche di

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novità, originalità e capacità distintiva che deve avere il marchio. Sempre facendo una breve evoluzione dell'insegna, vedremo che oggi questa serve ad individuare sia la catena, sia gli esercizi in franchising; immaginate tutti i negozi calzedonia, piuttosto che tecnocasa, piuttosto che altri, e qua viene fuori il secondo problema perché quando vi trovate di fronte un esercizio commerciale targato tecnocasa o calzedonia, voi nel senso comune sapete che, e soltanto così si riesce a capire la portata dell’insegna, all'interno di quell'esercizio commerciale troverete degli standard qualitativi o un prodotto di un certo livello, qualità, caratteristiche che è evocato nella vostra mente dal leggere fuori al negozio "tecnocasa" piuttosto che calzedonia, original marines, si potrebbero fare mille esempi. La cosa che ci invita a riflettere è questa: a voi quando entrate in un negozio tecnocasa non vi viene in testa di chiedere se quel soggetto sta operando in franchising o con “la propria insegna”, quello che rileva per l’insegna è soltanto la parte attrattiva che ha verso il cliente, il ciente a quel punto non si chiede se la ragione sociale di quel soggetto è original marine srl piuttosto che affiliato original marines srl, opp un soggetto che opera in proprio l’attività commerciale, io posso benissimo esercitare l’attività di rivenditore diretto di original marines chiedendo poi l’affiliazione commerciale e non entrando nel circuito franchising. Questo per voi che siete utenti non è rilevante, questo discorso fa emergere come la natura e la portata dell’insegna è soltanto quella di attrarre il consumatore all’interno di un’attvità commerciale con la convinzione di trovare determinati prodotti, determinati standard qualitativi, e semmai con specifiche tecniche che sono proprio di quell’insegna. Come si acquista l’insegna? Come posso impadronirmi ell’insegna? Domani posso mettere come insegna del mio esercizio commerciale l’espressione tecnocasa, piuttosto che immobiliare.it? La risposta è negativa, nel senso comune perché voi operatori del diritto, seppure laureandi in economia vi renderete conto, sulla base delle conoscenze giuridiche che avete, non è possibile che un soggetto “sine ..” utilizzi l’insegna di un altro soggetto. Qual è il diritto sottostante, la parte giuridica? Poiché l’insegna non si registra, non c’è un ufficio o un albo insegne ma l’insegna si acquista soltanto con la cessione; soltanto utilizzandola io posso impadronirmi di un’insegna.Facendo un passo indietro: se dico che la ditta non la posso utilizzare se già in uso, perché faccio una ricerca e scopro che quella ragione sociale o ditta è già utilizzata da altri, con l’insegna non lo posso fare, perché non c’è un albo. Se io domani voglio mettere fuori alla mia attività lavorativa l’insegna pizza re in teoria potrei farlo, piuttosto che rosso pomodoro, posso farlo. Io che vivo a Voghera non so che esiste una catena rosso pomodoro, vado alla camera di commercio competente, faccio uno screening e vedo che per ipotesi non c’è nessuna ditta a nome rosso pomodoro a Voghera, nessun marchio. A quel punto potrei utilizzare in teoria l’insegna rosso pomodoro. Apro la mia attività commerciale e utilizzo l’insegna rosso pomodoro; già qua un primo tema: non basta l’indicazione nominativa per rendere invalidante un’insegna, è necessaria una “…pedissequa”, ma semplicemente una risoluzione in termini più o meno conformi di un’insegna generica, quindi immaginiamo che la … di voghera faccia delle pizze sotto casa, ha un locale e mette il nome rosso pomodoro; là si pone il tema di capire se l’insegna che ha utilizzato la … di voghera può essere considerata autonoma, e quindi nuova e lecita opp no. Andiamo a vedere quali sono i parametri, le linee di condotto che un soggetto deve utilizzare per determinare se è lecita o meno quell’insegna. Innanzitutto l’insegna per essere lecita deve essere nuova e deve avere capacità distintiva ma soprattutto deve evitare la confondibiltà con altre insegne. Se da un lato l’insegna ha tale parametri, vuol dire che non sono rinvenuti novità e capacità distintiva in misura uguale e quindi nulla questio, nel codice di proprietà intellettuale si vede che le caratteristiche dei segni distintivi devono essere novità e capacità distintiva; però se noi utilizzassimo soltanto questo come parametro di valutazione nella nostra indagine arriveremmo ad un paradosso, perché se un soggetto a Canicattì adesso ha aperto una pizzeria di 3 metri x 1 metri senza la benché minima norma sanitaria, igienica, civile, edile e la chiama Pizza da Cristoforo, un soggetto a Milano in un locale di 1500 metri quadri non potrebbe utilizzare l’insegna pizza da Cristoforo. Concordate sulla base di quello che vi ho detto no? Quindi se noi diciamo di avere la novità e la capacità distintiva, io apro la stessa attività commerciale in due punti opposti dell’Italia, però allo stesso modo utilizzo la stessa insegna in teoria dovreste rispondere che non lo posso fare. Concordate? Però giustamente l’utilizzo dei parametri che il legislatore ci ha dato non sono così stringenti, ma devono essere calati nella realtà concreta. Quindi da un lato la caratteristica dell’insegna deve essere la novità e la capacità distintiva, ma

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dall’altro ci deve essere un rischio, un potential issue che è quello della confondibilità. Se io astrattamente m’invento una situazione in cui ci può essere confusione nel consumatore per l’utilizzo due insegne uguali o simili, allora devo andare a vedere chi è stato il primo soggetto che l’ha utilizzato e capire se il secondo soggetto ha utilizzato elementi di novità e capacità distintiva tale da non creare confusione nel consumatore. Con l’esempio che vi ho fatto prima, il primo campanello di allarme che io devo segnalare come operatore del diritto è se, aprire una pizzeria Pizza da Cristoforo che sta a Canicattì realmente la apro a Milano ci può essere confusione. La risposta logicamente è negativa. Perché ovviamente si utilizza un concetto che è quello dei mercati rilevanti, nozione propria dell’antitrust. Devo capire se il mercato rilevante dell’esercizio commerciale primo, può essere potenzialmente in conflitto con il mercato rilevante dell’esercizio commerciale 2. Se un soggetto che è il consumatore medio della pizzeria di Canicattì potenzialmente si può spostare con facilità a Milano e imboccare nella stessa pizzeria Pizza da Cristoforo allora ci può essere confondibilità. Se invece per struttura geografica, morfologica, per abitudini del consumatore medio, non è possibile creare confusione, allora il secondo soggetto può tranquillamente utilizzare l’insegna pizza da cristoforo a Milano. Ovviamente se io apro una pizza da cristoforo a Milano nel 2011 da 1000 … con una pubblicità su carta stampata e poi tra 1 anno si apre una pizzeria da cristoforo a Varese, che è a 80 km da milano, mi devo chiedere ma il soggetto che mediamente va a milano alla pizzeria, può essere anche uno che va a varese? Se la risposta è positiva allora può darsi che aprire una pizzeria con la stessa insegna a varese, può creare confusione, e allora faccio il secondo step: vedo se l’insegna utilizzata dal soggetto che apre la pizzeria a varese, ha sufficienti caratteri di novità e distinzione che potrebbe avere. Immaginate che pizza da cristofaro a milano sia un’insegna rossa grande a caratteri cubitali, e immaginate che l’insegna che utilizza il signore che apre la pizzeria a varese si chiami cristofaro e quindi utilizzi un nome proprio, l’insegna è blu ed è scritto in maniera ridotta Pizza e a caratteri cubitali cristofaro. L’utente medio di quella pizzeria ci va perché sa che c’è cristofaro lì dentro e non perché attratto dall’insegna pizza da cristofaro e quindi a quel punto si può arrivare a sostenere un eventuale giudizio che l’insegna utilizzata in un secondo momento da cristofaro di verese, sebbene in linea astratta, possa costituire un evento teso a creare confusione nel consumatore; in linea concreta per la conformazione cromatica dell’insegna, per il wording, gli strumenti utilizzati non sono tali da creare confusione e quindi l’insegna è lecita.Perché ho fatto l’esempio della pizza, perché ovviamente affinché ci possa essere una confusione è necessario che ci sia attinenza merceologica, questo non vale per le insegne, che poi sono sempre marchi, ma ora stiamo studiando la parte teorica, non vale per le insegne note. Se domani la Coca-Cola si mette a fare l’intimo piuttosto che le racchette da tennis e apre un negozio con l’insegna coca-cola e vende “racchette” nessuno potrà argomentare (senza l’autorizzazione della casa madre però) che gli sbocchi merceologici sono lontane perché non posso aprire un negozio a napoli a p.zza garibaldi che vende racchette coca-cola, perché nel senso comune, il semplice vedere come insegna coca cola fa pensare che, essendo la coca-cola un’azienda seria, anche le racchette lo sono, e questo dà vita ai fenomeni di parassitismo che l’ordinamento vuole evitare, cioè vuole evitare che un soggetto si appropri sine titulo in valore economico dato dall’immagine di un soggetto dal mercato senza la sua approvazione. Vi ho fatto l’esempio coca-cola per introdurre un ulteriore tema e cioè il rapporto tra insegna e marco e insegna e ditta. Perché? L’insegna si acquista con l’uso al contrario la perderò con il non uso: se il famoso tizio che ha aperto la pizzeria a milano pizza da cristofaro sta aperto 3 anni dopodiché chiude e di lì a 2 mesi si apre un’altra pizzeria da cristofaro a 3 km ovviamente è “appropriazione” dell’insegna perché è vero il non uso, ma è anche vero che le persone che andavano in quella pizzeria a quel civico a mangiare la pizza buona, se trovano a 3 km la stessa insegna aperta vuol dire che si è semplicemente spostato l’esercizio commerciale e quindi non lo potrà fare; se invece passa un tempo considerevole, non si può vietare a vita l’utilità di un’insegna e quindi da un alto l’insegna si acquista con l’uso, dall’altro si perde con il mancato uso. (anche qua in sede d’esame se dite mancato uso, vi chiamate la domanda dal professore che dirà: “basta che chiudo la serranda per un mese e domani il signore attiguo a me potrà aprirsi lo stesso negozio, stessa categoria merceologica con la mia insegna, non è violazione?” la risposta è negativa, perché il mancato uso si deve protrarre nel tempo per un determinato periodo) proprietà industriale è una materia che sembra astratta perché non ha parametri concreti, senza l’esempio dire “uso o non

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uso” non è qualcosa di concreto, dire il non uso comporta la cessazione del diritto di … , però anche qua bisogna capire che per ogni singola attività va fatto un discorso a sé, vanno guardati una serie di parametri, da quanto tempo è aperto, quanta clientela aveva, quanta vista attrattiva aveva, quanti competitors aveva in zona, tutti una serie di parametri, per es. se ho una pizzeria a roma in un quartiere popolare e ha il monopolio con un’insegna e là verosimilmente devono passare più anni per aprire una pizzeria con la stessa insegna; se invece parlo di Trastevere dove aprono e chiudono locali, come se fosse nulla e ci sono almeno 40 pizzettari (come li chiamano a roma) che io ne apro uno e dopo 3 mesi ne apro un altro con la stessa insegna, tutto sommato non è che ho portato via clientela, perché si fa il ragionamento che il consumatore medio si sposta per abitudini psicografici o comunque motorie e non perché vuole andare a mangiare la pizza da silvio. Discorso a parte se vado a mangiare il tiramisù da pompi a roma che è famosissimo, anche là il mercato rilevante non è la città, non è il quartiere dove si trova, tra l’altro un quartiere residenziale.Tutto questo non vale se il soggetto che ha un’insegna ha la liceità di registrarlo come marchio perché non posso utilizzare come insegna un segno distintivo che sia stato già preventivamente come marchio da un altro soggetto. La stessa cosa dicasi per la ditta: non posso utilizzare un’insegna, un segno distintivo che sia stato già registrato da un altro soggetto come ditta.La domanda che potrebbe farmi qualcuno è: ma allora chi è il pollo che usa l’insegna senza registrarla come marchio o come ditta? Perché si pone il tema se c’è la possibilità di eliderlo all’inizio creando la sovrapposizione tra insegna e marchio?La risposta è che: l’insegna non deve avere necessariamente in termini assoluti le caratteristiche dell’originalità, novità e capacità distintiva, mentre il marchio sì (essendo soggetto a registrazione, interrogo la camera di commercio, ci sono le 18 categorie merceologiche, scelgo la mia: 13 metalli preziosi). Voglio registrare il marchio Pippo Pelo, vado alla camera di commercio, pago €14,62 la marca da bollo e interrogo il sistema; chiedo: ma pippo pelo come marchio nella categoria n.13 è già presente? Se la risposta è sì allora non posso fare più nulla. Se è no, dico: ecco ho trovato il nome del mio marchio. Non lo posso fare perché pippo pelo è un nome utilizzato da qualche altro soggetto nella sfera comune della realtà napoletana, come speaker, vocalist, nelle radio, quindi io non posso chiamare la mia catena di gioielli pippo pelo, anche se non c’è nessuno che l’ha registrata pippo pelo, perché sostanzialmente è un nome comune. Se però io pippo pelo lo uso come negozio di preziosi a Courmayeur sapendo o presumendo che pippo pelo non ci è mai andato e sapendo che la radio per cui lavora pippo pelo non ha ripetitori sulle alpi quindi non se la possono materialmente seguire, io così non creo confusione perché il consumatore medio di Courmayeur di preziosi è uno locale o settentrionale. Quindi posso utilizzare pippo pelo come insegna per la mia boutique di preziosi a Courmayeur. Ecco un esempio concreto di perché esiste ancora qualche pollo che non fa una sovrapposizione perfetta tra insegna e marchio, perché evidentemente non ce ne sono i presupposti sia di fatto che di diritto. È chiaro di perché ci possa essere questa discrasia tra insegna e marchio? Quindi cos’è l’insegna? È un segno distintivo che attrae all’interno di un locale commerciale la clientela perché fa capire che all’interno di quel locale commerciale si trovano determinati prodotti ed è quella che normalmente troviamo fuori al locale commerciale, la tabella. Come si acquista? Si registra? No, ma si usa, per poterla utilizzare nessuno deve averlo fatto prima, deve avere le caratteristiche di novità e capacità distintiva ma questo non basta perché ci deve essere un potential issue, una potenziale criticità, un potenziale problema di confondibilità. Come lo faccio a scoprire? Mercato rilevante, settore merceologico e quant’altro. Se c’è la probabilità di confusione si va a vedere se il soggetto che ha utilizzato per secondo o per ultimo abbia rispettato le caratteristiche di novità e capacitò distintiva, se non le ha rispettate le deve cambiare. Come la si perde? Con un non uso, che però sia circostanziato al caso concreto, guardando la capacità di essere presente sul territorio, la capacità penetrativa e quant’altro. Infine dobbiamo vedere come secondo la maggioranza della dottrina non è possibile, sebbene non espressamente vietato dalla norma cedere l’insegna senza azienda, perché ovviamente se il proprietario cede solo l’insegna Tecnocasa facendo un contratto di cessione d’insegna ad una cordata cinese (immaginiamo che Tecnocasa non fosse anche un marchio), se tra qualche anno qualcuno di voi cercasse casa e si rivolge a Tecnocasa sapendo che è un’azienda seria, si può ritrovare ad avere rapporti con persone non serie e ciò comporterebbe una distrazione della clientela e un’alterazione del mercato. Poiché il legislatore quando parliamo di proprietà intellettuali ha l’obiettivo di tutelare il consumatore medio e non l’imprenditore, a differenza di ciò che accade nel diritto commerciale, si rende conto che

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in questa situazione lo stesso consumatore può subire un pregiudizio se è ceduta esclusivamente l’insegna senza l’azienda senza l’impresa e senza la società e quindi giunge alla conclusione che non si può cedere l’insegna singolarmente.

Lezione 12 Gennaio 2012 In virtù del disposto di cui agli artt.2564 e 2567 c.c, la ragione sociale e la denominazione

sociale devono possedere il requisito della novità, inteso nel senso che queste, al pari della ditta, non possono essere uguali o simili alla ditta usata da altro imprenditore individuale ovvero alla ragione o denominazione usata da altra società e tali da creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui questa è esercitata. (Trib.Bologna Sez. IV Sent. 28/10/2009)

Questo è un precedente di carattere molto generico che introduce al tema della ditta. Prima di tutto non facciamo confusione: è diverso il concetto di ditta, di ragione sociale e di denominazione sociale. La ragione e la denominazione sociale sono i “nomi” delle società cioè le società di persone e di capitali svolgono la loro attività sotto la ragione o la denominazione sociale Es. Fiat spa, Fratelli Amato snc. La ditta è una cosa diversa dalla ragione e dalla denominazione sociale, cioè è il nome commerciale dell’imprenditore e quell’insieme di segni, di parole, con la sigla o il nome e cognome dell’imprenditore con il quale l’imprenditore si propone sul mercato che quindi con il suo esercizio si oggettivizza e connota l’attività di impresa dell’imprenditore. Perché in questo precedente c’è questo riferimento alla ragione o alla denominazione sociale? Perché già il codice civile esplicitamente prevede che alla ragione e alla denominazione sociale si applica la disciplina della ditta. Poi altro è il problema se la ragione e la denominazione sociale per le società corrispondano alla ditta o se no. Le società non hanno un nome civile ma il nome glielo danno i soci nel momento in cui la costituiscono ed è appunto la ragione o la denominazione sociale, che è il corrispondente del nome civile dell’imprenditore individuale. Possiamo dire che “nelle società la ditta è uguale, corrisponde alla ragione e alla denominazione sociale o può esservi una ditta,una ragione e una denominazione sociale, cioè due segni differenti”. Ora premesso che ditta e denominazione sociale sono segni distintivi diversi, secondo alcuni sono elementi che si sovrappongono nel senso che per le società la ditta sarebbe uguale alla ragione e alla denominazione sociale, secondo altri anche per le società abbiamo due segni distintivi diversi, nel senso che la ragione e la denominazione sociale corrisponderebbero a quello che è il nome civile e accanto alla ragione e alla denominazione sociale sarebbero possibile aggiungere anche una ditta. Viceversa naturalmente per lì’imprenditore individuale: c’è un nome civile ed accanto ad esso si applica la disciplina della ditta. Premesso questo ora questo precedente introduce un elemento noto cioè il requisito (uno dei requisiti principali in materia di ditta) della novità , nel senso che la ditta usata da un imprenditore non deve essere uguale o simile alla ditta usata da altro imprenditore e tale da creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui questa è esercitata.

L’espressione “luogo in cui la ditta è esercitata” di cui all’art. 2564 comma 1 c.c. comprende anche il cosiddetto “mercato di sbocco” della ditta, che deve essere considerato in concreto, sia riferimento all’area di effettiva presenza, ossia di presenza costante e ripetuta, sia in riferimento alle potenzialità economiche espansive della ditta. (App.Torino 26/03/1999)

“Qui c’è il problema del profilo territoriale, cioè dobbiamo tener conto del fatto che la ditta ha la possibilità di essere utilizzata in maniera simile ma senza creare confusione nel caso in cui non ci sia concorrenza diretta sotto il profilo territoriale. Due esercizi commerciale possono utilizzare la stessa ditta purché non ci sia concorrenza tra di loro a livello territoriale”. L’Appello di Torino ci ricorda che quello che è importante sul piano territoriale è che non dobbiamo considerare soltanto il mercato attuale ma anche il mercato potenziale. Naturalmente il mercato potenziale è basato su elementi di effettività (nulla vieta a una persona che apre una salumeria a Fuorigrotta di diventare poi un imprenditore a livello del Gs, ma questo non è qualcosa prevedibile, viceversa è prevedibile che possa aprire un altro punto vendita in un'altra zona della stessa città). Quando parliamo di mercato potenziale si parla di una potenzialità che deve essere intesa con ragionevolezza, non in senso astratto, ma sul piano di quelle che sono le potenzialità concrete. Questo riferimento che viene fatto al mercato di sbocco è importante come uno degli elementi rilevanti, cioè l’espressione “luogo in cui la ditta è

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esercitata” comprende anche il mercato di sbocco, ma non solo il mercato di sbocco; cioè per determinati imprenditori dobbiamo considerare tutti gli elementi di mercato che riguardano la sua attività, quindi non solo lo sbocco ma anche il reperimento delle risorse, delle materie prime in particolare. Quindi è chiaro che la ditta riguarda sia l’elemento a valle sia l’elemento a monte, quindi ci potrebbe essere una rilevanza dal punto di vista del luogo in cui l’attività è esercitata anche dal punto di vista del rifornimento che l’imprenditore riceve. La ditta non riguarda solo il consumatore, cioè i clienti dell’imprenditore commerciale, ma riguarda il mercato nel quale l’imprenditore si colloca e a tutti gli operatori di quel mercato.

Al fine di stabilire l’esistenza della confondibilità potenziale per l’oggetto delle imprese e per il luogo in cui essere operano non è decisivo, ancorché costituisca un necessario presupposto dell’accertamento, il solo esame dell’attuale oggetto sociale e dell’attuale posizione delle imprese sul mercato, ma occorre arricchire tale esame con la considerazione della sfera di azione tecnica delle imprese interessate, e quindi delle attività complementari e similari che potenzialmente le imprese potrebbero coltivare in futuro e che sono da parte del pubblico naturalmente associabili ad una determinata ditta: il tutto al fine di valutare se da tutto ciò possa sortire il pericolo di confusione che l’art. 2564 c.c. intende evitare a quegli che abbia adottato per primo la ditta. (Cass.civ. Sez I 23/11/1993 N.11570)

È un’esplicazione di quello detto: quando ci riferiamo ad elementi di potenzialità (il piano di effettività è chiaro cioè dove quel determinato imprenditore opera). Il profilo che crea maggiori problematiche, non è tanto dove l’imprenditore opera oggi (questo si vede e si constata), il problema è la valutazione della potenzialità e va fatta secondo questi criteri che la Cassazione ci riferisce. Quindi si parla della possibile estensione (che potenzialmente l’impresa può fare), cioè delle attività non solo attuali ma anche complementari e simili che le imprese potrebbero svolgere in futuro. Prima ci siamo soffermati solo sul profilo potenziale territoriale, qui parliamo di una potenzialità anche merceologica riferita alle attività complementari e similari che potenzialmente le imprese potrebbero coltivare in futuro.

Va inibito, con provvedimento cautelare, l’utilizzo come ditta e come insegna dell’espressione “Per Bacco”, contrassegnante un caffè, adibito anche a rivendita di prodotti enogastronomici, in quanto confondibile con la medesima ditta ed insegna anteriore altrui, che contrassegnano, nella stessa città,una rinomata enoteca. (Trib.Torino Sez.spec.propr.industr. ed intell.Ord 08/01/2007)

Qui abbiamo un esempio concreto del problema che ci siamo posti prima in astratto, quale è il punto su cui si sofferma il tribunale di Torino? Abbiamo due locali che hanno lo stesso nome: uno è adibito a enoteca e l’altro è adibito a bar. Ma il bar non è confondibile con l’enoteca ma il caffè è adibito anche alla rivendita di prodotti enogastronomici! Ecco che qua c’è la confondibilità con l’enoteca; attesa l’analogia anche di una sola parte dei prodotti o dei servizi svolti dalle due attività ecco che sorge la confondibilità.

Non osta all’applicazione dell’art. 2564 co. 1 c.c. ,nel caso in cui la denominazione sociale è simile a quella già usata da altro imprenditore nello stesso ambito territoriale e nel medesimo settore merceologico, la circostanza che, sempre nel medesimo ambito territoriale, una pluralità di altri imprenditori usi nel proprio nome-ditta un termine uguale a quello usato dal primo imprenditore, allorchè si tratti di prodotti e/o attività differenti; in tal caso, infatti, non sussiste un rapporto di concorrenza tra imprenditori e quindi la possibilità stessa di ingenerare confusione nel mercato. (Trib. Torino Sez, spec. Propr.industr. ed intell. Ord. 04/04/2007)

Questa è un’esplicitazione di quello che abbiamo detto prima nel senso che non importa che lo stesso nome sia inserito in più ditte dello stesso luogo se svolgono attività diverse. Min 2235

L’anteriorità dell’uso di un’insegna derivata contenente il patronimico dell’alienante comporta il venir meno della facoltà di un imprenditore concorrente omonimo di usare il proprio nome anagrafico “nella” ditta (se non “come” ditta) e, quindi, come segmento parziale di un segno complesso, a meno che la differenziazione data da quest’ultimo sia

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dimostrato essere sufficiente ad evitarne la confondibilità. (Cass.civ.Sez I 08/07/2004 n 12568)

Qui abbiamo due problemi: il primo (quello più semplice) è che quel divieto opera anche su segni distintivi diversi, cioè io non posso usare come insegna il segno che altri usano come ditta o come marchio, e viceversa; il secondo riguarda il tema specifico che è molto delicato perché riguarda il nome anagrafico, ovvero se mi chiamo “Francesco Esposito” non posso usare nella mia ditta il mio nome anagrafico? No perché se un altro imprenditore ha già usato lo stesso nome nella sua ditta o nella sua insegna ecc e quell’elemento (e questo è importante!) è l’elemento centrale di quella ditta, quindi il cuore io non lo posso utilizzare oppure lo posso utilizzare in un modo differenziato in modo che è sufficiente ad evitarne la confondibilità, cioè lo devo differenziare in maniera tale da non renderlo più confondibile, per cui devo renderlo o un elemento secondario del segno o altrimenti differenziarlo in qualche modo.

L’inserimento di un nome altrui nella ditta, ovvero nella denominazione sociale, è consentito se non arreca pregiudizio, commerciale o morale, a chi ne è titolare. (Trib. Alba 08/02/2006).

In questo caso è chiaro che non costituirà l’elemento di verità della ditta. Per es. si chiamerà Francesco Esposito di Antonio Blandini dove il nome vero è il secondo e Francesco Esposito costituisce la denominazione di fantasia. Il problema è innanzitutto questo è possibile? Si! Posso usare il nome altrui nella mia ditta? Si ma purchè non arrechi pregiudizio. Poi altro è il problema dei nomi famosi che ha una tutela diversa (non posso chiamare la mia ditta con nomi famosi).

Nell’ambito delle ditta, il nome ed il patronimico devono essere utilizzati esclusivamente in funzione identificativa della titolarità dell’impresa e non come elementi distintivi della ditta stessa, a tutela dei quali vige il principio della priorità dell’uso. Ne consegue che, quando il patronimico costituisca il cuore della denominazione di altra ditta già operante nel medesimo settore commerciale, l’inclusione del nome e del patronimico nella ditta, richiesti dall’art. 2563, secondo comma, cod.civ, non possono svolgere una funzione caratterizzante, ma devono essere inseriti nel contesto di ulteriori indicazioni idonee a prevenire il rischio di confusione. A tal fine, non costituisce idoneo elemento distintivo la mera aggiunta, in diretta continuità lessicale con il patronimico, della categoria di prodotti commercializzati. (Nella fattispecie, la Corte, confermando la sentenza di secondo grado, ha ritenuto insufficiente al fine di escludere la confusione la mera indicazione, accanto al patronimico, della parola “gioielli”.) (Cass. Civ. Sez I 10/07/2009 n.16283)

È un precedente interessante che fa un caso concreto rispetto all’utilizzo di un nome generale “gioielli”, c’è una ditta che si chiama Esposito gioielli e un’altra con un cuore della ditta sempre “Esposito” ma magari con una parola diversa da gioielli ma simile. A questo punto che dice? Se il patronimico, cioè il nome e cognome del precedente imprenditore, nella ditta di un imprenditore è l’elemento che la caratterizza allora non basta che uso lo stesso patronimico e ci aggiungo solo il nome dell’attività svolta (scarpe, gioielli ecc) perché è evidente che si crea lo stesso la confusione perché non esisto un elemento di originalità e particolarità della ditta, il cuore della ditta sarà sempre quel patronimico che io non posso utilizzare perché già lo utilizza un altro, io lo posso inserire come elemento della ditta ma non come elemento che la caratterizza. Il patronimico non può svolgere una funzione caratterizzante ma devono essere inserite nel contesto di ulteriori indicazioni idonee a prevenire il rischio di confusione.

Se all’acquirente di un’azienda l’uso della ditta viene consentito solo temporaneamente, il diritto dell’alienante nondimeno si estingue se questi non esercita più attività di impresa e l’acquirente può appropriarsi a titolo originario del segno distintivo ormai dismesso (nel caso concreto, al trasferimento della ditta viene assimilata la conservazione, nella ragione o denominazione sociale, del nome di un socio che abbia alienato la propria partecipazione. (Trib. Alba 08/02/2006)

Qui abbiamo due problemi. Quello semplice è che a) la ditta si trasferisce unitamente all’azienda e b) in virtù di un’espressa volontà dell’alienante; quindi ci sono due elementi ovvero la necessità che la

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ditta si trasferisca insieme all’azienda o a un ramo di essa e la necessità che sia una volontà espressa dell’alienante, cioè non basta che si dica “trasferisco tutta l’azienda” ma è necessaria che ci sia la volontà espressa. Questo problema sorge quando invece faccio un fitto di azienda attraverso il quale io concedo l’uso della ditta ma in maniera temporanea perché quando finisce l’affitto mi riprendo l’azienda e mi riprendo anche la ditta. Quando, come in questo caso, c’è un uso temporaneo della ditta colui che per un periodo di tempo l’ha usata quando cessa il periodo di affitto non può più utilizzare quella ditta; così come nel momento in cui io vendo l’azienda senza la ditta (che è una situazione simile a questa) l’acquirente dell’azienda usa l’azienda ma non può usare la ditta perché essa appartiene a un altro imprenditore. Questo precedente introduce un argomento: naturalmente la mia impossibilità come acquirente o affittuario di continuare ad utilizzare quella ditta esiste finché esiste una ditta valida, cioè se l’altro imprenditore che ha conservato la proprietà del segno, non lo utilizza più, evidentemente quel segno cessa di avere valore e io lo acquisto, ma non più a titolo derivativo (perché lui me l’ha venduto e consentito l’utilizzo) ma lo acquisto a titolo originario perché non esiste più un valido segno sul mercato, io lo istituisco ed è come se fosse un segno nuovo. Se trasferisco la mia azienda temporaneamente (tipo l’affitto) questa diventa la ditta dell’affittuario? Si perché la utilizza l’affittuario ma è derivativo perché è solo temporaneo. In quale caso diventa a titolo originario? Allora se affitto la ditta insieme all’azienda ed un altro soggetto per quel periodo utilizza la mia ditta per un determinato periodo dopo il quale va restituita l’azienda e anche la ditta che non può essere utilizzata più (questo è il caso che fa questo precedente). Supponiamo che quando il soggetto restituisce la ditta insieme all’azienda, io cesso la mia attività di azienda, non la svolgo più, a questo punto (e solo a questo punto!) il soggetto continua ad utilizzare quella ditta ma non in virtù di un titolo derivativo, cioè non perché io l’ho ceduta, ma perché egli autonomamente si appropria di un segno distintivo che non è più posseduto da nessuno sul mercato, per cui lo potrebbe usare chiunque e chi lo fa per primo fra diversi soggetti lo usa; ecco non c’è un diritto di prelazione ma è chiaro che chi per un periodo di tempo l’ha avuta e l’ha esercitata è quello che la segue con più attenzione. Però se ci fosse un terzo che si frappone e si appropria di quel segno è evidente che questo terzo può usarlo. Il problema perché sorge? Supponiamo che fitto l’azienda e poi me la riprendo, il soggetto però illegittimamente continua ad utilizzare la ditta (è questo il problema); ora ci sarà un periodo di tempo nel quale l’utilizzo è illegittimo, se io però poi cesso l’azienda quello che è stato illegittimo per un certo periodo diventa legittimo nel momento in cui ho cessato l’attività, allora si dice in questo caso che è acquistato a titolo originario. Ecco perché non sorge in questi casi il problema del terzo che si frappone perché per il terzo non ci sarebbe la soluzione di continuità fra quando la utilizza illegittimamente e quando la utilizza legittimamente. Nel momento in cui il problema si pone bisogna valutare se in quel momento l’utilizzo è legittimo o no. Se faccio causa il giorno dopo che mi sono ripresa l’azienda e quello continua ad usare la ditta è chiaro che la sta usando illegittimamente.

Il diritto all’uso esclusivo della ditta non sussiste più quando, per la lunga inoperosità dell’esercizio commerciale che la contraddistingueva, la ditta originaria abbia perso il suo riferimento al soggetto che l’aveva adottata per primo, ed a maggior ragione quando l’impresa sia definitivamente cessata. (Cass.civ. Sez I 06/04/1995 n. 4036)

Il segno distintivo (la ditta) necessita, come per il marchio e l’insegna, per la sua validità di essere utilizzata. Per il marchio abbiamo dei termini molto stretti di validità in base all’utilizzo che se ne fa, per la ditta non c’è un termine preciso dipende da tante cose, però laddove sia trascorso un periodo di tempo ragionevole dal momento in cui quella ditta non l’ho utilizzata più allora quella ditta cessa.

Il contestuale trasferimento della ditta (ai sensi dell’art. 2565 secondo comma c.c) deve essere oggetto di una distinta manifestazione di volontà negoziale, ma tale manifestazione non richiede un’esplicita menzione della ditta nell’atto di trasferimento, potendo la volontà di estendere il trasferimento alla ditta ricavarsi dall’ interpretazione dell’atto, sulla base dei criteri interpretativi indicati dagli artt. 1362 e segg. c.c (Trib. Bologna Sez. spec.propr.industr.ed intell Sent. 14/11/2008)

Questo precedente dice una cosa diversa da quello che abbiamo detto cioè c’è la necessità della manifestazione ma questa può essere dedotta anche dagli atti. Questo è un tema molto discusso nel senso che i termini usati sono ambigui. Il problema è che quando trasferisco un’azienda devo voler trasferire anche la ditta perché se non c’è la mia volontà di trasferire anche la ditta, la ditta non si trasferisce. Se andiamo a vedere l’art. 2565 comma 2 stabilisce che nel trasferimento dell’azienda per

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atti tra vivi la ditta non passa all’acquirente senza il CONSENSO dell’alienante; quindi richiede come elemento necessario per il trasferimento della ditta il consenso dell’alienante. Ora il primo aspetto: se nel contratto di trasferimento dell’azienda si dice “è trasferito tutto quello che riguarda l’azienda, nulla è escluso ecc” si può intendere trasferita anche la ditta? No perché è necessario che dall’atto risulti la volontà dell’imprenditore di trasferire la ditta. Questo tribunale di Bologna entra in un tema ancora più delicato: fermo restando quanto detto perché lo dice esplicitamente il legislatore, ci deve essere proprio nell’atto una clausola, un articolo, una parola nella quale si dica che è “trasferita la ditta, è mia volontà trasferire la ditta ecc” o è possibile desumere dal contesto dell’atto (laddove sia possibile) la mia volontà di trasferire anche la ditta pure se non c’è la frase esplicita, per cui in quest’ultimo caso si deve ritenere trasferita anche la ditta oppure no? Rispetto a questo secondo aspetto il tribunale di Bologna dice Si! Cioè non si eccede nel rigore, non è richiesto che sia proprio scritto che si intende trasferita anche la ditta ma si richiede che dal contesto dell’atto si possa desumere. Da quello che si legge è che il trasferimento della ditta deve essere oggetto di una distinta manifestazione di volontà negoziale diversa e che si aggiunge a quella che riguarda l’azienda ma tale diversa manifestazione non richiede una specifica menzione della ditta nell’atto del trasferimento potendo ricavarsi dall’interpretazione dell’atto, cioè si dice che se l’atto però fa capire che si voleva trasferire anche la ditta (perché magari c’è un allegato nel quale è stata valutata la ditta tra gli elementi del patrimonio dell’imprenditore o questo si desume da altro elemento) ma manca la frasetta è trasferita lo stesso? Questo precedente dice Si, nel senso che non bisogna poi eccedere nel formalismo e se nella sostanza emerge la distinta manifestazione di volontà ma non c’è la frase va bene lo stesso. Secondo altri questo orientamento sostanzialistico non sarebbe corretto, cioè nell’atto ci vorrebbe l’esplicitazione perché in mancanza dell’espressa volontà la ditta non è trasferita. Fermo restante la necessità di una distinta manifestazione di volontà perché la chiede il codice, secondo alcuni è necessario che sia formalmente compiuta, secondo altri si può desumere anche in via interpretativa dal contesto dell’atto.

Il divieto al trasferimento della ditta separatamente dall’azienda previsto dall’art. 2565 c.c. presuppone la produttività quanto meno potenziale dell’azienda, per cui esso non è operante quando non sia- o non sia più- ravvisabile la presenza di una vera e propria organizzazione dei beni e servizi (nella specie si trattava di uno stabilimento industriale disattivato ed antiquato). (Cass.civ. Sez I 06/04/1995 n.4036)

Questo è un tema delicato: oltre al divieto al trasferimento della ditta separatamente dall’azienda, noi consideriamo questo divieto volto ad evitare finalità “fraudolente” rispetto al mercato, nel senso che il mercato conosce quella ditta come collegata ad una determinata attività d’impresa con la spersonalizzazione o oggettivizzazione che caratterizza la ditta (la ditta si scosta da quella specifica persona fisica dell’imprenditore) e si appoggia all’azienda (non più all’imprenditore come persona fisica), cioè quando io contratto con quella ditta immagino che dietro ci sia quell’azienda, quindi non si può separare la ditta dall’azienda perché si creerebbe un elemento di non verità sul mercato. Che dice questo precedente? Questo vincolo esiste (cioè il divieto esiste) nel momento in cui esiste un’azienda funzionante, quando poi l’azienda non c’è più perché è cessata l’attività (quindi ci sono solo dei beni disattivati e antiquati ma non c’è più l’azienda) io potrei trasferire la ditta senza l’azienda. Questa interpretazione non per tutti è corretta perché in realtà in questo caso non è tanto la ditta che io trasferisco, il terzo che acquista la ditta sembra che faccia un acquisto a titolo derivativo da me ma lo fa a titolo originario perché la ditta non esisteva più; cioè, se abbiamo detto che la ditta esiste fino al momento in cui esiste un’azienda, nel momento in cui non esiste più l’azienda (si è dissolta) si dissolve anche la ditta e un terzo può acquistarla ma a titolo originario non a titolo derivativo (perché io non ce l’ho più)! Allora questo precedente non è proprio corretto fino in fondo perché il problema non è tanto che non opera più il divieto di trasferimento della ditta, il divieto opera sempre ma in realtà “non opera” perché io non sono più il proprietario della ditta. È chiaro che tutti questi elementi servono ad eliminare un problema, nel senso che se io voglio usare una ditta per la quale è dubbia la riferibilità o meno di essa ad un imprenditore io me la posso comprare da questo imprenditore e questo acquisto io lo faccio per evitare che poi utilizzo una ditta, magari la pubblicizzo, investo su di essa poi si scopre che io non la posso usare quindi vengo colpito da un atto di uso illegittimo della ditta e subisco anche io il danno di aver investito su un certo nome commerciale che non posso utilizzare; allora per evitare dubbi me la compro. In realtà io non la sto comprando davvero perché io la potrei acquisire a titolo originario (senza pagare nulla a nessuno) perché la precedente attività è cessata, quindi questo

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precedente va letto in questo senso, non che io faccia un acquisto valido ma io compro qualcosa della quale potrei anche semplicemente appropriarmi. INSEGNA

Il conflitto tra insegne confondibili è risolto dal criterio della priorità dell’uso, avuto riguardo all’oggetto e al luogo di esercizio dell’impresa, atteso che per l’insegna non opera il criterio di priorità della registrazione, ai sensi dell’art. 2564, 2° comma c.c. (Trib. Catania 06/07/2004)

L’insegna non si registra e per individuare il proprietario bisogna vedere chi per prima l’ha utilizzata, per cui colui che utilizzerà l’insegna successivamente avrà l’obbligo di non utilizzarla altrimenti potrebbe creare confusione.

Il disposto dell’art. 2564 c.c., dettato per la ditta, è applicabile anche all’insegna in virtù del rinvio di cui all’art.2568 c.c. Pertanto, nel valutare la confondibilità fra insegne, si deve avere riguardo all’oggetto della impresa e al luogo in cui questa è esercitata, e si deve altresì porre a carico dell’imprenditore, che ha adottato un’insegna confondibile con quella del preutente, l’obbligo di apportarvi modifiche o integrazioni idonee a differenziarla. (App. Milano 23/01/1973).

Anche per l’insegna valgono le stesse cose della ditta, cioè il profilo merceologico e il profilo territoriale.

All’insegna che rechi il nome del cedente, la cui disciplina è assibilabile a quella della ditta, non è sufficiente la constatazione che nell’atto di cessione del ramo di azienda non vi sia la menzione della cessione del diritto ad usare l’insegna, potendo gli strumenti ermeneutici dettati dagli artt. 1362 e ss. C.c. far ritenere che, viceversa, le parti contraenti intesero consentire alla società cessionaria la prosecuzione dell’uso dell’insegna. (Trib. Bologna Sez. spec. Propr.industr.ed intell. Sent. 14/11/2008); Al pari della ditta, anche l’insegna segue l’azienda nei suoi trasferimenti soltanto quando ciò sia stato espressamente convenuto fra il precedente e il nuovo titolare dell’azienda. (Cass. Civ. 27/02/1985 n. 1715)

Il secondo dice che deve essere espressamente convenuto tra il precedente e il nuovo titolare che esso voglia trasferire anche l’insegna. Nella disciplina dell’insegna non è esplicitato che il trasferimento dell’insegna deve per forza accompagnarsi anche all’azienda; mentre per la ditta è esplicitato che la ditta si trasferisce solo insieme all’azienda e solo se c’è un’espressa manifestazione di volontà, nell’insegna tutta questa precisione manca. Allora il primo problema è: si applica quella disciplina, cioè posso trasferire l’insegna anche se non c’è un’esplicita manifestazione di volontà? La cassazione dice che non si può fare perché all’insegna si applica la stessa disciplina della ditta quindi, al pari della ditta, anche l’insegna segue l’azienda nei suoi trasferimenti ma soltanto se c’è la volontà espressa dell’alienante. Il tribunale di Bologna dice invece una cosa diversa: seppure nell’atto di trasferimento non vi sia la menzione del trasferimento dell’insegna, comunque si può ritener trasferita l’insegna in virtù di un’interpretazione del contratto. Questi due precedenti che sembrano in contrasto tra di loro, non lo sono necessariamente ma dipende come noi interpretiamo “espressamente convenuto” (l’abbiamo visto prima per la ditta), cioè se l’espressamente convenuto si deve ritenere come “c’è stata una manifestazione di volontà volta al trasferimento” anche se non è proprio detto cioè anche se manca la menzione della cessione del diritto ad usare l’insegna , ma dal contesto contrattuale comunque si desume che questo diritto esiste, allora a questo punto è una cosa possibile. Laddove, viceversa, dal contesto contrattuale questo elemento non si desume, allora la ditta si dovrà intendere non trasferita. Però non è necessaria che sia proprio la frase relativa al trasferimento della ditta, ma si può capire attraverso l’interpretazione dell’atto.

MARCHIO Abbiamo visto i profili storici della disciplina del marchio, ora andiamo a vedere gli elementi positivi di disciplina del marchio. Innanzitutto vediamo due elementi:

1) Quali sono i segni che possono costituire il marchio?

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2) In che modo particolare il marchio si ritiene valido rispetto agli altri segni distintivi? Quale è l’elemento in più che deve ricorrere nel marchio (e sul quale invece non ci siamo soffermati nella ditta e nell’insegna)?

Per quanto riguarda i segni che possono costituire il marchio il legislatore (ma anche la pratica commerciale) lascia ampia spazio alla libertà degli imprenditori dal punto di vista dell’individuazione dei segni ed elementi che possono costituire un marchio. Quando andremo a vedere il codice della proprietà industriale nel quale è inserita la disciplina del marchio vedremo che il riferimento è fatto:

non solo a parole ma anche numeri (il marchio fatto di numeri è ammissibile es. Chanel n.5) o anche colori (associazione di colori tale da rendere riconoscibile quel determinato segno) o da forma tridimensionale (il marchio di forma è quello che crea più problemi perché può

impattare con la disciplina delle invenzioni industriali e modelli per disegni ornamentali; per cui si deve vedere in che maniera la legittimità del marchio di forma si correla con la disciplina delle invenzioni industriali perché se io utilizzassi come marchio un elemento che invece deve essere brevettato come invenzione industriale chiaramente utilizzerei una disciplina a me più favorevole ma danneggerei il mercato; ecco perché ciò non è possibile farlo), o

da forma grafica diversa dai numeri o dai segni (disegno di qualunque specie, una foto o inventati)

il marchio più spingersi fino al suono (che può essere elemento costitutivo di un marchio o addirittura si è discussa la possibilità del marchio olfattivo o gustativo (cioè che un

particolare odore o senso olfattivo potessero costituire elemento di un marchio ma questi due elementi sono molto discussi circa la possibilità di riconoscerli come elementi del marchio)

Un primo elemento è sicuramente la loro possibilità di rappresentazione grafica, cioè il marchio deve poter essere rappresentabile graficamente, ciò che sicuramente esiste per tutti i marchi (marchi di forma e tridimensionali, suono ecc) ma tuttavia potrebbe esistere anche per il marchio olfattivo e gustativo perché la rappresentazione grafica sarebbe costituita dalla formula chimica che dà luogo a quel particolare odore e sapore. Arriviamo al secondo elemento che deve ricorrere nel marchio che è l’estraneità del segno al prodotto, elemento che è molto più labile nella ditta e nell’insegna e che invece è decisivo nel marchio, che vuol dire estraneità del segno al prodotto? Non è valido come marchio quel segno che si limita a descrivere che cosa è il prodotto o il servizio che con quel marchio si va a contraddistinguere cioè io non posso registrare come marchio per delle scarpe il termine scarpe, o per sciarpe la parola sciarpa ecc cioè non è possibile registrare come marchio un elemento che sia semplicemente descrittivo del prodotto. Perché? Per due motivi:il primo riguarda l’individuazione del prodotto ed è costituito dal fatto che il marchio è il segno distintivo del prodotto e deve essere idoneo a distinguere quel prodotto da ogni altro prodotto (se io per delle scarpe utilizzo come marchio la parola Scarpe, non distinguo quel prodotto dagli altri, non offro un elemento distintivo al mercato rispetto a quel prodotto);il secondo elemento è ancora più delicato e riguarda il fatto che se io potessi utilizzare come marchio il termine lessicale che semplicemente illustra il prodotto escluderei tutti gli altri imprenditori dalla possibilità di utilizzare quel segno, cioè se qualcuno riuscisse a registrare come marchio per delle scarpe la parola Scarpe evidentemente tutti gli altri produttori di scarpe non potrebbero dire “queste sono delle scarpe!” ma dovrebbero utilizzare un termine diverso da quella che invece è la parola comune che connota quel prodotto. Ecco che sia dal punto di vista individuale dell’imprenditore che utilizza quel segno, sia dal punto di vista generale del mercato di riferimento di quel prodotto, non è possibile utilizzare come segno il termine che costituisce la denominazione del prodotto e quindi vige il principio di estraneità del segno rispetto al prodotto. Questo in linea generale ma ci sono due elementi di dubbio:

1) non sempre è vero che è necessario l’estraneità del segno al prodotto, cioè talvolta nella pratica esistono dei marchi che hanno in sé l’illustrazione dello stesso prodotto (es. Calzaturificio di Varese che è la descrizione del prodotto ma vedremo perché questo è valido

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oppure Divani&Divani o Scarpe&Scarpe); ecco che esistono una serie di situazioni nelle quali questo principio dell’estraneità del prodotto al segno è un elemento che invece può essere superato e dobbiamo vedere perché;

2) distinzione, che facciamo rispetto all’estraneità del segno comparato al prodotto, tra marchio debole e marchio forte perché noi abbiamo molti marchi che riproducono elementi del prodotto associati ad altre parole in modo da renderli diversi dagli altri ma non tanto (per es. prodotti per pulire i vetri Vetril, Vetrix ecc cioè tutti hanno la matrice vetro con delle aggiunte), ecco che in questo caso la parola non illustra esattamente il prodotto ma richiama fortemente le sue caratteristiche. Dobbiamo quindi capire cosa cambia quando invece un prodotto per pulire il vetro ha un nome completamente diverso es. Pronto, in questo caso il segno è molto più estraneo rispetto al prodotto; quindi un altro elemento di valutazione del marchio sarà proprio la lontananza che il segno ha rispetto al prodotto. Quanto più lontano è il segno rispetto al prodotto, quanto più quel segno ha valore; quanto più vicino il segno è al prodotto, tanto meno quel segno ha valore.

Differenza tra emblema e marchio (relativo alla lezione precedente).La differenza è molto sottile, e chiaro che gli elementi dell’emblema sono anche registrati come marchio (emblema cavallino, marchio Ferrari).L’emblema non costituisce il vero è proprio marchio sono elementi che richiamano al prodotto. (concretamente le due cose non si distinguono, c’è solo una distinzione teorica).

È strettamente vietato dalla norma cedere l’insegna senza azienda, perché ovviamente se il proprietario cede solo l’insegna Tecnocasa facendo un contratto di cessione d’insegna ad una cordata cinese (immaginiamo che Tecnocasa non fosse anche un marchio), in questo modo in futuro se una persona in cerca di casa si rivolge a Tecnocasa sapendo che è un’azienda seria si può ritrovare ad avere rapporti con persone non serie e ciò comporterebbe una distrazione della clientela e un’alterazione del mercato. Poiché il legislatore quando parliamo di proprietà intellettuali ha l’obiettivo di tutelare il consumatore medio e non l’imprenditore, a differenza di ciò che accade nel diritto commerciale, si rende conto che in questa situazione lo stesso consumatore può subire un pregiudizio se viene ceduta esclusivamente l’insegna senza l’azienda senza l’impresa e senza la società e quindi giunge alla conclusione che non si può cedere l’insegna singolarmente.L’emblema è un segno figurativo che ha una forte forza attrattiva sul consumatore. Esempi di emblemi sono la stella della Mercedes o il cane a tre zampe dell’Agip. Esclusivamente considerati sia la stella che il cane a tre zampe non sono nè insegne né marchi, ma sono emblemi che sono stati inseriti in marchi con parte figurativa e parte letterale e successivamente registrati all’ufficio marchi italiano e mondiale. Anche l’emblema è tutelato per evitare che possa essere utilizzato come emblema o segno distintivo da un altro soggetto nello stesso settore merceologico o in un settore diverso. Infatti immaginiamo il marchio della mercedes, la stella a tre punte sotto il logo mercedes,quindi con una parte letterale e una parte figurativa, se fosse solo tutelato il marchio allora un altro soggetto potrebbe utilizzare la stella a tre punte della Mercedes in un altro modo o in un altro colore, ad esempio rosso fuoco, e scriverci sotto Alfa Romeo, Milan o il nome di un’altra azienda. Quindi l’elemento distintivo, come la stella a tre punte della Mercedes, se preso singolarmente e messo sotto, ad esempio, al nome Ferrari in teoria potrebbe non creare confusione con la Mercedes perché è una semplice stella con i colori sociali della Ferrari e quindi successivamente i consumatori si chiederebbero solamente perché la Ferrari ha sostituito il cavallino rampante, senza collegare quel segno alla Mercedes, in funzione dell’importanza del marchio Ferrari. Questo, però, potrebbe creare un problema alla Mercedes ed è proprio questo il motivo per cui si arriva a sostenere che anche l’emblema debba essere considerato un segno distintivo singolarmente considerato.

L’emblema è sicuramente tutelato in quanto elemento di un marchio figurativo e letterale quindi composto, ma non c’è una norma nel diritto formale che tutela direttamente l’emblema, quindi gli operatori andando a leggere all’interno del codice delle proprietà intellettuali hanno scoperto che si

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parla di tutela dei segni distintivi in modo generico, e anche se è presente un elenco dei vari segni distintivi come marchio, insegna, ditta, e dominio, l’emblema non compare, allora sostengono che questo elenco presente all’interno del codice di proprietà industriale è un elenco esemplificativo ma non esaustivo, ciò che rileva è la norma generale la quale ritiene soggetti a tutela tutti i segni distintivi. Quindi se un soggetto ritiene che l’emblema è un segno distintivo allora deve essere soggetto a tutela in virtù della norma generica presente nel codice.

Nel codice, invece, è menzionato il dominio(dominio internet), il quale è stato al centro dei più grossi dibattiti degli ultimi anni perché al legislatore del ’42 era un fenomeno completamente sconosciuto e quindi si è dovuto correre ai ripari con una disciplina che non contrastasse con il codice del ’42 ma che allo stesso tempo tutelasse gli operatori commerciali….. Il dominio è l’indirizzo internet ed ha due funzioni, quella di indirizzo e quella di segno distintivo che sono due funzioni completamente diverse. L’indirizzo è composto da prefisso,nome e suffisso (www.nome.it.com.org), il segno distintivo è solo il corpo centrale dell’indirizzo, cioè il nome (www.lafeltrinelli.it il segno distintivo è “la feltrinelli”). Ciò ha creato dei problemi quando si è aperto il mercato dei domini poiché, considerando che costa 50 euro registrare un dominio, tutti i furbi si sono fiondati a registrare domini. In questo modo la maggior parte delle imprese italiane (per lo più a carattere familiare e che quindi non si affidano a professionisti quali consulenti finanziari o consulenti di marketing come in genere fa una multinazionale)che tardivamente hanno scoperto e capito l’importanza dell’utilizzo di internet sotto l’aspetto commerciale, nel momento in cui si sono adoperati per la registrazione del dominio con il nome dell’azienda, hanno trovato il dominio già registrato dai cosiddetti “furbi”. Quindi in tutti questi casi si è creato il problema giuridico di difficile soluzione di capire se ha ragione il furbo o l’onesto, poiché né nel codice di proprietà industriale nè nel codice civile non vi è alcuna norma che vieta ad un soggetto di registrare un nuovo dominio con il nome di un altro soggetto e allo stesso tempo non vi è alcuna limitazione a registrare successivamente lo stesso dominio con un suffisso diverso, cioè anzichè .it utilizzare .com. La giurisprudenza in questo caso ha operato seguendo un principio di integrità sociale piuttosto che un principio di diritto perché si è pensato maggiormente a tutelare ciò che sembrava giusto da ciò che sembrava legale. Allora la norma che la giurisprudenza ha fatto rientrare per dare una giustificazione alla penalizzazione del furbo è quella della concorrenza sleale. Si sono recuperate le norme del codice civile in materia di concorrenza sleale per confusione per arrivare a sostenere che il furbo registrando per primo come dominio il nome, ad esempio, di un’azienda che opera su un determinato mercato da diversi anni, potrebbe ingenerare una confusione nel consumatore e pertanto deve essere penalizzato. Questa è stata l’argomentazione giuridica che hanno utilizzato i giudici per affermare che la registrazione di un dominio che è in conflitto con un imprenditore o un’altra realtà commerciale deve essere dichiarato illegittimo.Dal 1997 in poi si sono create vere e proprie società di registrazione che registravano in malafede i siti sotto tutti i punti di vista possibili ed immaginabili.(.com; .it; .de; .org; etc.) con una spesa di circa mille euro, accaparrandosi tutte le possibili scelte in merito ad un indirizzo web. Queste società successivamente procedevano alla vendita sul mercato dei suddetti. Dal 2001 al 2005 si sono presi dei provvedimenti cautelari. Oggi tutto ciò non è più possibile perché è stata istituita l’International Authority, un’autorità che gestisce l’amministrazione dei domini e sostanzialmente dà a tutti la possibilità di registrarsi. Questa autorità internazionale non svolge attività di indagine ma registra i domini. Se il dominio che si va a registrare è in conflitto con un dominio precedentemente registrato vi sono problemi per il soggetto che ha registrato il dominio successivamente e non per l’Authority. Oggi per quanto riguarda la registrazione opera il principio della verità.

Il marchio è il segno distintivo per antonomasia che evoca nel senso comune dei consumatori un determinato prodotto. L’art. 7 del codice industriale asserisce che possono essere registrati come marchi alcuni segni purche' siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese. Da questo articolo capiamo che il marchio deve avere una sua particolarità per poter contraddistinguere il prodotto rispetto a quello dei concorrenti(es: prodotti simili).Il marchio deve riuscire a caratterizzare un prodotto all’interno della categoria merceologica. Parlando di marchio si fa riferimento al “bene tutelato” perché proprio in questi casi potremmo trovarci di fronte a casi di “confusione” dove il legislatore pone il problema della capacità distintiva del marchio. Accanto all’esigenza della capacità distintiva riscontriamo la tutela del marchio in quanto “valore intrinseco”.La funzione originaria del marchio era quella di andare ad individuare la provenienza o l’origine del prodotto. Prendendo ad esempio la “Fiat Punto” riscontriamo due tipologie di marchio: uno generico

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ed uno specifico. Il primo (Fiat) indica teoricamente la provenienza,l’origine del prodotto. Il secondo (Punto) indica il tipo di prodotto. Il marchio oltre ad avere una capacità distintiva ed evocativa ha anche funzione di ausilio. Oggi vi è la possibilità di cedere i marchi e la caratteristica di questi ultimi di evocare determinati prodotti tende ad essere attenuata, almeno in prima battuta, poichè sostanzialmente la legislazione è funzionale all’uso del marchio. Il parametro di riferimento del legislatore è quello secondo il quale il marchio non deve essere utilizzato mai in maniera ingannevole.

12/01/2012MARCHIO Abbiamo visto i profili storici della disciplina del marchio, ora andiamo a vedere gli elementi positivi di disciplina del marchio. Innanzitutto vediamo due elementi:

3) Quali sono i segni che possono costituire il marchio?4) In che modo particolare il marchio si ritiene valido rispetto agli altri segni distintivi? Quale è

l’elemento in più che deve ricorrere nel marchio (e sul quale invece non ci siamo soffermati nella ditta e nell’insegna)?

Per quanto riguarda i segni che possono costituire il marchio il legislatore (ma anche la pratica commerciale) lascia ampia spazio alla libertà degli imprenditori dal punto di vista dell’individuazione dei segni ed elementi che possono costituire un marchio. Quando andremo a vedere il codice della proprietà industriale nel quale è inserita la disciplina del marchio vedremo che il riferimento è fatto:

non solo a parole ma anche numeri (il marchio fatto di numeri è ammissibile es. Chanel n.5) o anche colori (associazione di colori tale da rendere riconoscibile quel determinato segno) o da forma tridimensionale (il marchio di forma è quello che crea più problemi perché può

impattare con la disciplina delle invenzioni industriali e modelli per disegni ornamentali; per cui si deve vedere in che maniera la legittimità del marchio di forma si correla con la disciplina delle invenzioni industriali perché se io utilizzassi come marchio un elemento che invece deve essere brevettato come invenzione industriale chiaramente utilizzerei una disciplina a me più favorevole ma danneggerei il mercato; ecco perché ciò non è possibile farlo), o

da forma grafica diversa dai numeri o dai segni (disegno di qualunque specie, una foto o inventati)

il marchio più spingersi fino al suono (che può essere elemento costitutivo di un marchio o addirittura si è discussa la possibilità del marchio olfattivo o gustativo (cioè che un

particolare odore o senso olfattivo potessero costituire elemento di un marchio ma questi due elementi sono molto discussi circa la possibilità di riconoscerli come elementi del marchio)

Un primo elemento è sicuramente la loro possibilità di rappresentazione grafica, cioè il marchio deve poter essere rappresentabile graficamente, ciò che sicuramente esiste per tutti i marchi (marchi di forma e tridimensionali, suono ecc) ma tuttavia potrebbe esistere anche per il marchio olfattivo e gustativo perché la rappresentazione grafica sarebbe costituita dalla formula chimica che dà luogo a quel particolare odore e sapore. Arriviamo al secondo elemento che deve ricorrere nel marchio che è l’estraneità del segno al prodotto, elemento che è molto più labile nella ditta e nell’insegna e che invece è decisivo nel marchio, che vuol dire estraneità del segno al prodotto? Non è valido come marchio quel segno che si limita a descrivere che cosa è il prodotto o il servizio che con quel marchio si va a contraddistinguere cioè io non posso registrare come marchio per delle scarpe il termine scarpe, o per sciarpe la parola sciarpa ecc cioè non è possibile registrare come marchio un elemento che sia semplicemente descrittivo del prodotto. Perché? Per due motivi:il primo riguarda l’individuazione del prodotto ed è costituito dal fatto che il marchio è il segno distintivo del prodotto e deve essere idoneo a distinguere quel prodotto da ogni altro prodotto (se io per delle scarpe utilizzo come marchio la parola Scarpe, non distinguo quel prodotto dagli altri, non offro un elemento distintivo al mercato rispetto a quel prodotto);

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il secondo elemento è ancora più delicato e riguarda il fatto che se io potessi utilizzare come marchio il termine lessicale che semplicemente illustra il prodotto escluderei tutti gli altri imprenditori dalla possibilità di utilizzare quel segno, cioè se qualcuno riuscisse a registrare come marchio per delle scarpe la parola Scarpe evidentemente tutti gli altri produttori di scarpe non potrebbero dire “queste sono delle scarpe!” ma dovrebbero utilizzare un termine diverso da quella che invece è la parola comune che connota quel prodotto. Ecco che sia dal punto di vista individuale dell’imprenditore che utilizza quel segno, sia dal punto di vista generale del mercato di riferimento di quel prodotto, non è possibile utilizzare come segno il termine che costituisce la denominazione del prodotto e quindi vige il principio di estraneità del segno rispetto al prodotto. Questo in linea generale ma ci sono due elementi di dubbio:

3) non sempre è vero che è necessario l’estraneità del segno al prodotto, cioè talvolta nella pratica esistono dei marchi che hanno in sé l’illustrazione dello stesso prodotto (es. Calzaturificio di Varese che è la descrizione del prodotto ma vedremo perché questo è valido oppure Divani&Divani o Scarpe&Scarpe); ecco che esistono una serie di situazioni nelle quali questo principio dell’estraneità del prodotto al segno è un elemento che invece può essere superato e dobbiamo vedere perché;

4) distinzione, che facciamo rispetto all’estraneità del segno comparato al prodotto, tra marchio debole e marchio forte perché noi abbiamo molti marchi che riproducono elementi del prodotto associati ad altre parole in modo da renderli diversi dagli altri ma non tanto (per es. prodotti per pulire i vetri Vetril, Vetrix ecc cioè tutti hanno la matrice vetro con delle aggiunte), ecco che in questo caso la parola non illustra esattamente il prodotto ma richiama fortemente le sue caratteristiche. Dobbiamo quindi capire cosa cambia quando invece un prodotto per pulire il vetro ha un nome completamente diverso es. Pronto, in questo caso il segno è molto più estraneo rispetto al prodotto; quindi un altro elemento di valutazione del marchio sarà proprio la lontananza che il segno ha rispetto al prodotto. Quanto più lontano è il segno rispetto al prodotto, quanto più quel segno ha valore; quanto più vicino il segno è al prodotto, tanto meno quel segno ha valore.

16/01/2012MARCHIOContinuiamo il discorso sul marchio partendo da quelli che sono i requisiti del marchio e analizzando poi tutti gli altri aspetti. Ci siamo soffermati sulla variabilità del contenuto del segno marchio ovvero il fatto che il segno non è detto che debba sostanziarsi di un segno vero e proprio ma il marchio come segno può essere anche costituito da suoni, cifre o addirittura abbiamo prospettato la possibilità di un marchio olfattivo o gustativo. Ora dobbiamo vedere ilMARCHIO DI FORMA La forma esterna del prodotto in taluni casi è elemento di riconoscimento del prodotto stesso. D’altra parte già quando abbiamo esaminato la concorrenza sleale per confusione abbiamo visto come l’imitazione servile della forma esteriore del prodotto costituisce una fattispecie confusoria,cioè io posso indurre in confusione il pubblico dei consumatori utilizzando una forma esteriore simile o comunque confondibile con quella di un altro imprenditore; in quella sede abbiamo detto che ciò è possibile,cioè l’imitazione servile e il rischio confusorio sono possibili quando la “forma imitata” è una forma particolare, non banale né utile ma è una forma idonea a riconoscere quel prodotto per cui serve nel pubblico dei consumatori a individuare quel determinato prodotto o servizio e distinguerlo da altri prodotti e servizi. Il marchio di forma costituisce un’estremizzazione di quella problematica cioè quella particolare forma tridimensionale viene brevettata come marchio e quindi alla stregua di un marchio viene tutelata. Naturalmente dobbiamo vedere quali sono i requisiti per la brevettabilità di un marchio di forma perché il marchio di forma presenta vari problemi. Decreto legislativo n. 30 del 2005 art.9 : questo è il decreto nel quale è confluita la legge dei marchi, quindi oggi la disciplina generali dei marchi la ritroviamo nel codice civile (in cui ritroviamo anche la ditta e l’insegna insieme a qualche previsione generale in materia di marchi) ma in maniera più particolare la ritroviamo nel codice della proprietà industriale, cioè il decreto legislativo 2005 n.30. Marchi di forma

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Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa i segni costituiti esclusivamente dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto, dalla forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico, o dalla forma che da' un valore sostanziale al prodotto.Sui marchi di forma questo decreto si sofferma in un apposito articolo in cui stabilisce due diverse fattispecie di esclusione dalla brevettabilità del marchio di forma:

1. Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa i segni costituiti esclusivamente dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto: quindi innanzitutto se la forma del prodotto è la forma ordinaria, necessaria relativa a quel prodotto non la posso registrare come marchio. Così come il termine generico scarpa o scrivania di per sé considerati non possono essere registrati come marchi perché altrimenti escluderei tutti gli altri dalla possibilità di utilizzare quei segni, allo stesso modo non posso registrare come marchio la forma esteriore del prodotto quando è una forma normale: se io registrassi come marchio di forma una penna normale escluderei agli altri produttori di penne di utilizzare quella forma per il loro prodotto e così per es. anche per le bottiglie o qualunque tipo di forma generica, quindi questo è inammissibile.

D’altra parte la disciplina del marchio si deve confrontare con la disciplina delle invenzioni industriali. Di questa disciplina non ci occupiamo ma abbiamo fatto cenno del fatto che le invenzioni industriali, una volta brevettate, attribuiscono al titolare il diritto all’uso esclusivo di quella invenzione limitato in termini di tempo, cioè un periodo normalmente ventennale nel quale colui che ha brevettato quella invenzione ha diritto ad usarla in maniera esclusiva; decorso il ventennio qualsiasi terzo che vuole utilizzare quella invenzione lo può fare gratuitamente. Se io registrassi invece come marchio una forma che costituisce un’invenzione allora mi avvantaggerei della disciplina del marchio che non prevede un termine di scadenza, cioè il marchio può essere anche perenne (ipoteticamente) ed ottiene lo stesso scopo delle invenzioni industriali cioè otterrei da una parte quell’elemento di privativa che è proprio della brevettazione, dall’altra scapperei dal limite temporale di utilizzo che invece è elemento che connota le invenzioni industriali. Ecco che allora il legislatore da una parte esclude le forme banali, cioè quelle che sono utili per il prodotto e dall’altra parte esclude per la brevettazione le innovazioni relative al prodotto stesso, infatti nell’art.9 leggiamo

2. (…) dalla forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico, o dalla forma che da' un valore sostanziale al prodotto: cioè quando la forma è idonea a conseguire un risultato tecnico che senza quella forma non si riusciva ad ottenere o quando la forma attribuisce comunque un valore aggiunto da un punto di vista tecnico al prodotto, allora quella forma non può essere brevettata come marchio. Quando invece la forma è diversa (non deve essere radicalmente diversa ma deve presentare degli elementi di peculiarità rispetto alle altre forme utili), non attribuisce di per sé un valore aggiunto al prodotto dal punto di vista tecnico, allora quella forma può essere brevettata come marchio.

Per fare un esempio di forme tridimensionale che sono brevettate come marchio possiamo richiamare la bottiglia della CocaCola (quella con le scalanature che è brevettata come marchio) che evidentemente non è la bottiglia in sé ad essere brevettata ma quell’elemento particolare delle scalanature che non danno valore aggiunto al prodotto ma la fa distinguere dalle altre forme, cioè è quell’elemento distintivo a costituire il marchio. Altro caso di forma tridimensionale è la VESPA: non l’acciaio che è oggetto di brevettazione perché è chiaro che questo non potrebbe essere oggetto di brevettazione, ma è quella forma particolare esterna di quel particolare scooter che è oggetto di brevettazione. REQUISITI DEL MARCHIO

1) RAPPRESENTABILITÀ GRAFICA

Un marchio deve essere rappresentabile graficamente. La rappresentabilità grafica del marchio NON è un elemento di validità del marchio ma è un requisito necessario ai fini della brevettazione del marchio. Possiamo avere un marchio valido benché non brevettabile proprio perché non è suscettibile di rappresentazione grafica. Il marchio al pari di ogni altro segno distintivo (così come la ditta,l’insegna o altri segni distintivi atipici eventuali ulteriori simboli impiegati dall’imprenditore, come ad esempio

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slogan o pannelli pubblicitari) ne acquisisco la proprietà, diventa un segno distintivo, con l’utilizzo che io ne faccio: utilizzo quel segno, il quale acquisisce una capacità distintiva di qualcosa sul mercato e quel segno acquista una validità ed io sono proprietario di quel segno. Naturalmente per il marchio, a differenza della ditta e dell’insegna, è prevista una disciplina molto più rigorosa anche in termini di registrazione/brevettazione, cioè la brevettazione consente al proprietario del marchio una tutela molto più efficace, effettiva ed immediata: non devo stare lì (come abbiamo visto per la concorrenza sleale) ad esaminare se il marchio ulteriore, rispetto ad un marchio già brevettato, sia confondibile o no, se induce in inganno o no ecc ma devo semplicemente vedere se due marchi sono simili e laddove ciò sia il secondo marchio è invalido perché c’è un abuso di marchio. Quindi la tutela offerta dalla disciplina dei marchi è molto più significativa dalla tutela offerta in generale per i segni distintivi, ma come contropartita il marchio deve essere brevettato. Allora per la brevettabilità deve portare all’Ufficio marchi e brevetti un documento nel quale sono indicate le caratteristiche di questo marchio, nel quale il marchio è rappresentato. Laddove ciò non sia possibile perché il marchio non sia rappresentabile graficamente, il marchio non sarà brevettabile; ciò non vuol dire che il marchio sarà invalido o inesistente o non ha valore ma semplicemente non è brevettato. Gli altri requisiti sono proprio REQUISITI DI VALIDITÀ DEL MARCHIO (e ritroviamo sostanzialmente gli stessi requisiti che abbiamo già visto per gli altri segni distintivi): NOVITÀ; LICEITÀ ; NON INGANNEVOLEZZA DEL SEGNO; ai quali si aggiunge un ulteriore requisito che non marchio ha una valenza specifica (non che negli altri segni non ci sia ma è meno rilevante, mentre nel marchio è assolutamente decisivo questo requisito) che è quello dell’ORIGINALITÀ. Prima di tutto vediamo come distinguiamo la NOVITÀ dalla ORIGINALITÀ :

quando parliamo di NOVITÀ facciamo riferimento a novità ESTRINSECA del segno, cioè la novità del segno sta a significare che non esiste già altro segno (brevettato o meno) legittimamente usato da altro imprenditore, con gli elementi di territorialità e di profilo merceologico esaminati;

l’ORGINALITÀ viene parametrata alla novità INTRINSECA del prodotto, quindi si parla di originalità o novità intrinseca del segno che sta a significare la cosiddetta estraneità del segno rispetto al prodotto, cioè l’originalità non si misura rispetto agli altri segni distintivi esistenti sul mercato ma si vede tra segno adottato e prodotto; quanto più il segno adottato si distanzia dal prodotto che contraddistingue, tanto più il marchio è originale. Quindi il problema della novità intrinseca o originalità si fonda proprio sulla lontananza del segno dal prodotto.

2) LICEITÀ

Il marchio è lecito quando è conforme a elementi di ordine pubblico, norme imperative e buon costume. Quindi elemento base della liceità è la conformità a questi tre baluardi del nostro ordinamento ma dobbiamo dettagliare gli elementi di liceità perché abbiamo degli elementi specifici che riguardano proprio il marchio, innanzitutto vediamo l’art. 14 del codice della proprietà industriale che, dopo aver individuato in linea di principio che non solo leciti i marchi non conformi alle norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, individua altri elementi di liceità. Art. 14. Liceita'1. Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa:a) i segni contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume;b) i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualita' dei prodotti o servizi;c) i segni il cui uso costituirebbe violazione di un altrui diritto di autore, di proprieta' industriale o altro diritto esclusivo di terzi.(…)È inserita nella liceità la non decettività del segno, cioè il marchio non deve essere tale da ingannare il pubblico sulla qualità dei prodotti o sulla loro provenienza (vd. 1. a) ): se in un marchio per es. di un prodotto di maglieria sintetica introduco elementi che richiamano la lana pregiata, evidentemente utilizzo un marchio decettivo perché il pubblico vedendo quel segno è portato a pensare una cosa non vera; se ad es. ad un marchio relativo a dei succhi d’arancia richiamo la Sicilia e invece le arance sono di Bolzano è evidente che do un elemento decettivo al pubblico perché io posso richiamare la Sicilia

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ma la produzione deve essere in Sicilia altrimenti danno un’indicazione decettiva. Sono altrettanto illegittimi i segni il cui uso costituirebbe violazione di un altrui diritto di autore di proprietà industriale o di altro diritto esclusivo di terzi. In questo discorso della liceità si inseriscono altri due elementi: il primo relativo ai ritratti di persone e l’altro relativo ai nomi e segni notori. NOMI DI PERSONE NON NOTE: possono essere tranquillamente registrati come marchi purchè quell’utilizzo non sia lesivo della vita di relazione o dell’immagine della persona benché non nota. Il nome e cognome di persone non note non ha di per sé una sua valenza attrattiva sul mercato per cui se ne può appropriare un terzo imprenditore che lo vuole registrare come marchio e lo può fare, quello che non può fare è utilizzarlo in maniera tale da ledere la dignità della persona che porta quel nome; se quel nome e cognome fosse utilizzato per la carta igienica o prodotti che servono per pulire le fognature evidentemente sarebbe utilizzato in maniera non dignitosa per il nome che quella persona porta, ma per qualsiasi altro prodotto o servizio lo può fare. Diverso è il RITRATTO DELLA PERSONA NON NOTA: relativamente all’immagine della persona non nota è necessario il consenso di questa persona (una cosa è il nome e un’altra la sua immagine). In questo caso è necessario il consenso della persona della cui immagine si tratta o dopo la loro morte il consenso del coniuge, dei figli oppure dei genitori o discendenti. Il discorso è diverso per i NOMI NOTORI: quando il nome appartiene ad una persona il cui nome è già noto al pubblico per ragioni di vario ordine (spettacolo, politica, sport ecc) e quindi ha una sua valenza attrattiva di per sé considerato, non per l’utilizzo che l’imprenditore ne fa (ma già di per sé è un elemento attrattivo e distintivo nel pubblico), in questo caso il nome può essere registrato solo con il CONSENSO della persona che porta quel nome. Questo vale anche se c’è un’omonimia perché è comunque un nome notorio che appartiene ad una persona nota dalla cui fama io indebitamente, come imprenditore, trarrei vantaggio; quindi i nomi di persone notorie non possono essere registrati se non dalla persona nota che porta quel nome ed è l’unico che ha il diritto a registrarlo oppure ciò può essere fatto col suo consenso. Non possono essere registrati come marchi gli stemmi, le bandiere di Paesi, denominazione anche di enti no profit, sigle (ACI, UNICEF) anche se di per sé non sono brevettati come marchi né sono utilizzati come ditta o come insegna ma comunque non possono essere brevettati come marchi da terzi.

3) NOVITÀ

Parliamo di novità in senso estrinseco. L’art. 12 del codice della proprietà industriale vieta la registrazione come marchio (non possono essere brevettati come marchi) dei segni che alla data del deposito della domanda (tutto si fonda non sulla data in cui viene concesso il brevetto ma sulla base della data in cui viene depositata la domanda perché fra la data di deposito della domanda e data di rilascio del brevetto può intercorrere un lasso di tempo anche non breve, evidentemente tutti i dati soprattutto in termini di novità, a cui il problema della registrazione rimanda, si fonda alla data del deposito della domanda) “…siano identici o simili ad un segno gia' noto come marchio o segno distintivo di prodotti o servizi fabbricati, messi in commercio o prestati da altri per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell'identita' o somiglianza tra i segni e dell'identita' o affinita' fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che puo' consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni...”Quindi il problema non è solo la novità del segno che possa indurre in confusione circa il prodotto o il servizio in quanto tale, ma anche l’analogia tra i segni che possa indurre ad una mera ASSOCIAZIONE tra i prodotti, cioè il pubblico può capire che si tratta di due prodotti diversi ma magari pensa che quel prodotto è simile all’altro. Per cui non è solo il marchio identico che determina un rischio di identificazione dei prodotti, ma anche la mera associazione tra i prodotti. Il termine usato dal legislatore non è “marchio già brevettato” ma “segno già noto”, quindi il punto non è nella brevettazione ma è nell’utilizzo. Il problema del marchio è molto delicato perché nella tradizionale normalità dei casi (così come gli altri segni distintivi) il marchio prima veniva utilizzato, acquisiva una notorietà distintiva e poi veniva brevettato, questo è lo step logico dei segni distintivi che sono tali nel momento in cui acquistano capacità distintiva, non nel momento in cui viene brevettato. Questa consecuzione logica tradizionale oggi viene ribaltata dal punto di vista temporale cioè prima si brevetta un segno (assodato che non ci sono altri segni simili) e poi inizio ad investire su quel segno per fargli acquistare capacità distintiva perché il rischio è che se non lo brevetto magari lo brevetta un altro. Il problema è infatti la prova: se

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io non brevetto il segno e un altro lo brevetta al mio posto, io dovrò fargli causa perché quel segno era già noto ed utilizzato da me e dovrò dimostrare tutto ciò! Se invece prima lo brevetto e poi lo rendo noto la posizione è diversa. Possiamo avere due situazioni: il segno non brevettato precedentemente (laddove si sia voluto prima utilizzare e non prima brevettare) aveva una notorietà nazionale e possiamo avere una situazione in cui esso aveva una notorietà locale. Mentre il segno che ha acquisito una notorietà NAZIONALE non può essere brevettato da nessuno, il segno che ha acquisito una notorietà LOCALE può essere brevettato anche da un’altra persona diversa da quella che ha contribuito a rendere quel segno notorio perché non è tale in ambito nazionale ma in ambito locale. Allora in questo caso cosa si prevede? L’uso precedente del segno quando abbia notorietà puramente locale non toglie la novità quindi io posso brevettare un segno che non aveva acquisito notorietà o che aveva una notorietà meramente locale. Il legislatore prevede una tutela anche del PREUTENTE stabilendo che il preutente può continuare ad utilizzare quel segno (quindi abbiamo una situazione nella quale due persone sono legittimate ad usare lo stesso segno) però il preutente, che aveva utilizzato il segno senza che ad esso fosse attribuito una notorietà o laddove essa era puramente locale, può continuarlo ad utilizzare nei limiti in cui lo utilizzava prima. Se il segno non aveva una sua notorietà o ce l’aveva a livello locale, il problema non è tanto che chi ha brevettato dopo fa concorrenza a chi lo utilizzava prima ma è chi lo utilizzava prima che, laddove quel segno diventa importante, può approfittare della notorietà altrui ed è qui che il legislatore interviene stabilendo che lo si può utilizzare nei limiti in cui lo si utilizzava prima. Questa situazione determina un po’ di confusione ma d’altra parte se voglio evitare rischi devo stare attento a brevettare un segno che non abbia nemmeno una notorietà locale per evitare rischi di questo genere. Se io non voglio che il mio segno ha notorietà puramente locale e non venga brevettato da altri lo devo brevettare, altrimenti la legge marchi consente ad altri di farlo. Non è consentito nemmeno l’uso alternativo del segno cioè l’elemento della novità non si basa solo su marchi già usati o già registrati da altri ma si basa anche su marchi che siano identici o simili a ditte,denominazioni sociali, ragioni sociali, insegne o altri segni distintivi usati da altri, cioè io non potrei brevettare come marchio un segno che un terzo usa come ditta. Anche l’uso alternativo del segno risponde agli stessi criteri. Nella legge marchi abbiamo poi vari problema sul tema dei termini, chi ha depositato prima, come si fa a capire il deposito (ma non ci soffermiamo). Per quanto riguarda sempre la novità abbiamo anche un cenno sul MARCHIO NOTORIO che è un marchio che subisce una tutela maggiore del marchio non notorio in quanto esso è dotato di particolare capacità distintiva (è il “marchio famoso”). Il marchio brevettato o comunque già noto a livello nazionale non può essere brevettato per prodotti e servizi identici, simili o affini. Per il marchio notorio la tutela è maggiore (poi lo vediamo).

4)ORIGINALITÀ

Elemento dell’originalità o NOVITÀ INTRINSECA o distanza del segno rispetto al prodotto. Questo elemento viene individuato nel codice della proprietà industriale come elemento relativo alla capacità distintiva (infatti troviamo l’art 13 che si chiama “Capacità distintiva”). L’art 13 individua addirittura l’impossibilità di registrare come marchio

i segni che consistono esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio,

i segni costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche dei prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l'epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio considerato.

Cioè da una parte non possono essere registrati come marchi i segni che sono già noti sul mercato al fine di contraddistinguere la generalità dei prodotti, d’altra parte non possono essere registrati come marchi i segni che costituiscono denominazioni generiche, i segni che servono a distinguere la qualità, la provenienza geografica ecc. In questo senso noi parliamo di originalità, capacità distintiva o novità intrinseca del prodotto. In questo ambito distinguiamo MARCHI DEBOLI : è quel marchio che, pur non essendo esattamente identico al segno che contraddistingue la denominazione del prodotto, la qualità, la provenienza ecc, è un marchio che

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richiama questi elementi e non si allontana molto dall’essenza del prodotto stesso. Per es. rispetto al limoncello esistono tantissimi marchi deboli relativi al limoncello come Limoncè, Limoncino, Limonetto ecc. Questi marchi sono descrittivi e che si limitano ad avere in sé il nome del prodotto ordinario con dei piccoli elementi che servono a distinguere il marchio rispetto agli altri. (Lo stesso lo troviamo per prodotti per le pulizie come Vetril,Vetrix, Pulivetri ecc). Questi tipi di marchi li ritroviamo in vari settori perché evidentemente in quei settori tecnologici è preferibile far capire subito al mercato di cosa si tratta piuttosto che utilizzare un segno che ha una forte capacità distintiva. MARCHI FORTI: è il marchio che si differenzia in maniera notevole dal prodotto e non ha nessuna attinenza col prodotto e quanto più lontano è rispetto al prodotto, cioè quanto più è estraneo il segno rispetto al prodotto, tanto più il marchio è forte. I marchi forti per es. si trovano nel settore della moda dove i marchi sono costituiti dal nome e dal cognome dello stilista per cui sono molto lontani rispetto al prodotto es. Dolce Gabbana è molto lontano dal prodotto, quindi questi sono marchi che già nascono come marchi forti. Cosi come marchi forti sono quei marchi che proprio non hanno alcuna attinenza col prodotto come la Apple, sia la Apple come nome che la mela in quanto tale; apple è un nome comune che se lo utilizzassi per contraddistinguere le mele non sarebbe un marchio valido, se lo utilizzo per contraddistinguere un pc è un marchio valido perché è molto estraneo rispetto al prodotto, cioè è un marchio forte che nasce forte. Abbiamo fatto l’esempio di marchi deboli che sarebbero da considerarsi invalidi e che invece sono tranquillamente utilizzati sul mercato, cioè Divani&Divani, Scarpe&Scarpe ecc. Come è possibile che ciò avvenga? Avviene per il fenomeno di cosiddetto SECONDARY MEANING. Innanzitutto possiamo avere una situazione nella quale un marchio nasca invalido e diventa valido: il marchio Divani&Divani è un marchio che nasce con forti dubbi di validità perché si limita a riprendere il nome del prodotto semplicemente introducendo, quale elemento di differenziazione, la duplicazione cioè la duplicazione che viene fatta del nome; se fosse stato solo Divani sicuramente sarebbe nato con forti vizi di legittimità; la duplicazione del nome è molto poco per dire che il marchio sia valido ed è molto discutibile che questo marchio sia valido. Tuttavia la legge marchi prevede che SE io attribuisco notorietà al segno, cioè con la pubblicità che faccio, col marketing, con le altre attività che pongo in essere sono in grado di conferire notorietà e capacità distintiva ad un segno che originariamente non l’aveva, quel segno diventa un segno valido. Il segno che nasce originariamente invalido ma che con l’utilizzo che io ne faccio diventa valido, ovviamente nel silenzio degli altri perché se per es. una casa produttrice di divani avesse fatto causa immediatamente a Divani&Divani perché non aveva una capacità distintiva perché riproduce il nome del prodotto forse il mero fatto della ripetizione del nome non sarebbe stato sufficiente! Nel momento in cui nessuno gli ha fatto causa, Divani&Divani ha fatto un investimento molto grosso di pubblicità e quel segno oggi è sicuramente un segno valido. Se io questa causa a Divani&Divani, per dire che quel segno non è valido, la facessi oggi la perderei. Il fenomeno del SECONDARY MEANING è un fenomeno che ha anche un’altra caratteristica, cioè è un fenomeno che consente anche di far diventare forte un marchio che originariamente era debole. Ancora una volta questo elemento si verifica nel momento in cui con l’utilizzo che faccio del segno, con la pubblicità che faccio, con gli investimenti che faccio, quel segno, che originariamente non aveva una sua forte capacità distintiva ma era debole, diventa forte. Dobbiamo dare due precisazioni:

1)naturalmente, fermo restando la validità dei segni che nascono invalidi perché utilizzano la denominazione generica del prodotto ma che poi diventano validi con l’utilizzo che io ne faccio, non posso impedire agli altri produttori di utilizzare quel termine se/che contraddistingue la denominazione generica del prodotto, cioè benché sia valido il segno Divani&Divani come marchio tutti gli altri divani si possono continuare a chiamare Divani&Divani. NON posso impedire ad altri di utilizzare marchi che anche essi richiamano il prodotto in maniera analogo, cioè dopo Divani&Divani c’è Poltrone&Sofà e cosi via perché è evidente che, fermo restando la validità del mio segno e che nessuno può chiamarsi Divani&Divani, se uno vuole registrare come marchio un nome che contiene “Divani” benché abbia la matrice della parola “divani” lo può fare e non gli può essere impedito perché quella è una denominazione generica del prodotto2)perché è importante individuare se il marchio è un marchio debole o un marchio forte? Perché per il marchio debole è sufficiente una lieve modifica per dire che il marchio successivo è nuovo (non parliamo di originalità ma di vera e propria novità), cioè viene registrato come segno Limoncè ed io voglio registrare come segno Limoncino

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lo posso fare? Si perché quella matrice del prodotto che è contenuta nel segno Limoncè è una matrice che rende il marchio debole allora basterà una lieve differenziazione di quel segno per costituire un marchio valido proprio perché io in quel segno descrivo il prodotto. Invece nel momento in cui ho un marchio forte ad es. Dolce&Gabbana anche se io faccio una differenziazione di quel nome è chiaro che comunque introduco un marchio non valido perché il marchio forte (al di là della sua notorietà che ha una tutela ancora diversa), proprio per la sua estraneità al prodotto, per poter essere confrontato con un altro segno l’altro segno deve essere molto diverso, non basta come nel marchio debole una lieve modifica a rendere valido il marchio successivo ma è necessaria una modifica radicale che non allude in alcun modo al marchio precedente. Quest’ultimo elemento è caratteristico proprio dell’estraneità del marchio rispetto al prodotto,quando il marchio è forte. Quale è la ragione? La significativa lontananza del segno rispetto al prodotto che c’è nel marchio forte determina che in un primo momento il pubblico non riesce ad associare a quel segno il prodotto. Quando io utilizzo Limoncè tutti capiscono che dentro c’è il limoncello, laddove io uso Dolce&Gabbana inizialmente non capisco quale è il prodotto perché non c’è un’immediata riconoscibilità, poi con la pubblicità, con il marketing e l’utilizzo che faccio di quel segno esso diventa conosciuto e nel momento in cui è conosciuto è un marchio forte perché è un marchio lontano rispetto al prodotto.

Ci dobbiamo soffermare su un’altra problematica che è collegata a tutte queste cose: abbiamo parlato della necessità che il marchio sia utilizzato, cioè abbiamo detto che tutti i segni distintivi sono validi nel momento in cui utilizzati dall’imprenditore acquistano capacità distintiva, abbiamo notato come (parlando della novità) il legislatore si sofferma, non tanto sulla brevettazione, quanto sull’utilizzo e sulla notorietà del segno, d’altra parte però abbiamo detto che la domanda di brevettazione è il momento al quale far risalire i paragoni in tema di novità del segno. Quindi dobbiamo trarre delle conclusioni e capire se elemento decisivo della novità è la BREVETTAZIONE o è l’UTILIZZO??? Questo problema sorge proprio alla luce delle cose dette cioè è vero che l’utilizzo conta più della brevettazione e che è grazie all’utilizzo che il marchio diventa notorio e diventa un segno valido perché, così come la ditta e l’insegna, il marchio che non acquista un minimo di notorietà sul mercato o quanto meno non viene proprio utilizzato sul mercato è un segno distintivo che non ha valore, cioè io non posso registrare come marchio un determinato segno e non utilizzarlo mai! Perché? Non perché levo qualcosa a qualcuno (specie quando è un marchio originale, cioè forte, in realtà ci sono altri moltissimi segni che possono essere utilizzati per cui non è un fatto gravissimo che io tolgo dal mercato quel determinato segno) ma non ha proprio senso la protezione perché non esiste un marchio! Il marchio esiste nel momento in cui viene utilizzato ed acquista capacità distintiva, fino a quel momento il marchio non esiste. Il legislatore, però, soprattutto oggi ma anche in passato, deve tener conto di un altro problema: si acquisisce la notorietà del segno con l’uso e con la pubblicità, il marketing e tutti gli altri elementi che mi consentono di far appunto acquisire la notorietà al segno, ciò vuol dire grossi investimenti e nessuno è disposto a fare investimenti senza essere certo del diritto di privativa di quel segno! Magari faccio l’investimento, poi arriva un terzo che in qualche modo riesce a registralo ed io ho una perdita netta. Alla luce di tutto questo il legislatore contempera queste due esigenze e stabilisce che:ha diritto alla registrazione del marchio, ai sensi dell’art 19Art. 19. Diritto alla registrazione1. Può ottenere una registrazione per marchio d'impresa chi lo utilizzi o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso: 2. Non può ottenere una registrazione per marchio di impresa chi abbia fatto la domanda in mala fede.3. Anche le amministrazioni dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni possono ottenere registrazioni di marchio.Quindi elemento decisivo per poter ottenere la brevettazione è il fatto che o già il marchio sia già utilizzato da chi vuole brevettarlo o chi vuole brevettare quel segno si proponga di utilizzarlo, non è necessario che si proponga di utilizzarlo lui stesso ma può anche proporsi di farlo utilizzare ad altri, concederlo in licenza o venderlo ad altri, l’importante è che quel segno (da me o da altri con la mia

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autorizzazione) venga utilizzatoL’art. 19 non dice che succede se io poi, rispetto a questa dichiarazione/proposizione che io faccio nel momento in cui registro la domanda, non la rispetto. Se lo utilizzavo non c’è problema, che succede se invece quel marchio non lo utilizzavo e dichiaro nella domanda che il marchio è nuovo, non l’ho mai utilizzato, mi propongo di utilizzarlo e poi non lo uso? Naturalmente questo elemento avrà delle conseguenze sulla validità del marchio nel senso che il mancato utilizzo del marchio in determinati termini è uno dei casi di decadenza dal diritto di proprietà del marchio, cioè il marchio è un segno che per sua natura deve essere utilizzato, nel momento in cui non è utilizzato entro un determinato periodo di tempo, decade per il non uso.

MARCHI NOTORIIl marchio notorio è quel marchio che non è solo forte, anzi diciamo che prescinde dall’essere forte o debole, ma è un marchio che ha acquisito una tale notorietà sul mercato da avere una capacità attrattiva che va oltre gli stessi prodotti e servizi che contraddistingue. Quando il marchio è notorio, cioè ha acquisito questa così grande forza sul mercato, allora vige un ulteriore limitazione per gli altri: non solo vigono le stesse regole del marchio forte (per il marchio notorio non basta una lieve differenziazione ma è necessaria una RADICALE differenziazione per poter utilizzare il marchio), ma il marchio notorio gode anche di un’altra tutela ovvero non può essere registrato neanche per prodotti o servizi del tutto diversi, non c’è un problema di mera affinità o identità o similitudine dei prodotti o servizi per i quali è registrato da altri, ma non può essere registrato per nessun prodotto e per nessun servizio. Per es. Ferrari che è un marchio sicuramente famoso/notorio ma c’è il Ferrari spumante e altri prodotti che non appartengono alla casa produttrice di auto. Ma la particolare notorietà del marchio può essere qualcosa che nasce nel tempo, cioè originariamente il marchio è solo forte o è solo valido per quel prodotto/servizio poi nel corso del tempo quel marchio diventa notorio; evidentemente chi aveva brevettato il marchio prima lo continua legittimamente utilizzare ma solo per quei prodotti e per quei servizi per il quale lo aveva registrato. Se io avessi registrato 30anni fa un marchio “Diego Armando Maradona” lo potevo fare perché non era noto e magari lo avevo brevettato per i telefoni, poi Maradona è diventato noto ma io per quel pezzetto per il quale ho fatto la brevettazione posso continuare ad utilizzarlo perché la notorietà è avvenuta dopo e non è che la notorietà leva valore al marchio precedente ma la notorietà impedisce la registrazione di nuovi marchi anche in settori diversi o per prodotti diversi perché altrimenti potrei usare quel segno per avere un richiamo.

Continuiamo oggi con il marchio , noi avevamo chiuso l'ultima lezione con l'individuazione dei requisiti del marchio e indicando cos'è la novità ,l'originalità e la liceità. Ora vediamo , dopo un brevissimo cenno sulla tematica della brevettazione , i casi di cessazione dal diritto del marchio perché così come il diritto del marchio si acquista mediante l'uso e mediante quel valore distintivo che l'uso attribuisce al segno, si può successivamente perdere. Sono quindi due gli elementi che fanno sorgere il diritto al marchio ossia l'uso e la capacità distintiva che grazie all'uso l'imprenditore fa sorgere per un particolare segno. Detto questo vediamo che chi ha creato questo segno e chi come abbiamo detto nella scorsa lezione lo intenda utilizzare , lo si proponga di utilizzare direttamente o indirettamente o addirittura l'ha gi utilizzato in precedenza è il soggetto che ha diritto alla brevettazione ai sensi dell'art. 19. L'utilizzo deve riguardare la sua impresa, imprese controllate o collegate o che facciano parte del suo gruppo o terzi che ne facciano uso col suo consenso. Questo è molto importante perché abbiamo studiato con la ditta e l'insegna la rigorosa connessione che deve esserci tra segno e azienda , nel senso che la ditta non può trasferirsi se non con l'azienda e intima coesione tra bene e segno ..questa intima coesione non c'è col marchio, quindi è + facile che un terzo possa usare il marchio con il consenso del titolare. Quali sono i diritti che attribuisce la brevettazione? la brevettazione che fa nascere il diritto , ma offe una maggiore, + efficiente tutela al proprietario del segno , ma la proprietà del titolo nasce con quello che abbiamo detto prima e non con la brevettazione e vediamo l'art.20 del c. di proprietà industriale quali diritti ci indica :

I diritti del titolare del marchio d'impresa registrato consistono nella facolta' di fare uso esclusivo del marchio. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell'attività economica:

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a) un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;

b) un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell'identita' o somiglianza fra i segni e dell'identita' o affinita' fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che puo' consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;

c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l'uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

questo che vuole dire , interpretiamo l'art.21nell'art. 21 noi individuiamo due fattispecie differenti , il marchio orinario e il marchio notorio che gode di particolare rilevanzaper il marchio ordinaria il diritto esclusivo riguarda non soltanto prodotti o servizi identici ma anche affini , naturalmente quando parliamo di prodotti o servizi affini deve ricorrere una situazione, cioè deve poter condurre alla confusione , se non vi è confondibilità il titolare del marchio ordinario non può attivarsi in alcun modo. Laddove il prodotto o servizio sia esattamente lo stesso (abbiglimaneto -abbigliamento ) è chiaro che la brevettazione del marchio attribuisce una posizione più vantaggiosa al titolare nel senso che non deve dimostrare la possibilità della confusione ma solo dare conto dell'identità o somiglianza dei segni, cioè anche se un segno simile a quello usato al concorrente è fatto in modo da non indurre in confusione il pubblico (cioè io magari uso lo stesso coccodrillino della lacoste ma ci scrivo questa non è una lacoste)ora nel momento in cui pur se non vi è confondibilità non ha alcuna rilevanza xkè il semplice diritto concesso dal brevetto determina la possibilità di vietare al concorrente l'uso del segno e qui è una rilevanza differente rispetto alla concorrenza sleale,quando abbiamo parlato di concorrenza sleale abbiamo detto che l'uso di segni identici o affini a quelli usati da un concorrente è vietato quando induce a confusione e rientra nell'ipotesi confusoria qui la confusione non assume rilevanza ,quando c'è identità del segno o del prodotto che ci sia o meno confusione non ci interessa ,c'è identità del segno e c'è il diritto del titolare di vietare l'utilizzo di quel segno , quando invece parliamo di prodotti o servizi affini la tutela è meno forte nel senso che non basta che io dimostro la confondibilità del segno ma devo dimostrare che la confondibilità del segno induce anche alla confondibilità del prodotto , ossia una situazione analoga a quella della confusione , quando non c'è identità nel prodotto o nel servizio ma solo un' affinità devo fornire quest'ulteriore dimostrazione l'elemento in più che non troviamo nella concorrenza sleale o lo troviamo solo in via interpretativa riguarda l'associazione ,cioè non rivela solo la confusione pura e semplice ma anche l'associazione qual è la differenza? nella confusione io induco il mercato a ritenere che il prodotto venga dalla stessa persona , che il marchio si riferisce allo stesso produttore , che la linea dei prodotti sia analoga , il rischio di associazione è diverso ..cioè io mercato per l'utilizzo che il secondo imprenditore fa del segno in un settore affine non penso che ci sia un'identità tra i due ma associo il secondo al primo quindi in qulche modo collego i due prodotti ,il secondo frutta elementi del primo pur distanziandosi .. anche la mera associazione che è diversa dalla confusione è un elemento significativo nella prospettiva del diritto esclusivo di colui che ha brevettato il segno ; questo è quello che riguarda i marchi ordinari.Quando un marchio gode di particolare rinomanza il discorso è diverso , il marchio che gode di rinomanza ha una funzione attrattiva in sè , non solo per i suoi prodotti e quelli affini , ma è attrattivo di per sè (l'esempio che facevamo la volta scorsa ,nomi di persone famose oppure fiat o nomi di stilisti) sono marchi che sono in grado di avere una funzione attrattiva ,fiat non solo per le macchina ma anche per le scarpe occhiali e così via , lo stesso per altri marchi notori e per questo il marchio notorio gode di una tutela maggiore ,è tutelato dall'uso non autorizzato che altri ne facciano anche per prodotti o servizi totalmente diversi , che non hanno alcuna attinenza, quando naturalmente dall'utilizzo che ne faccio sfrutto la rinomanza che l'altrui marchio possiede ecco che in questo caso sorge una maggiore tutela dovuta ad una maggiore rinomanza del segno , d'altra parte il marchio che gode di rinomanza gode di un ulteriore tutela che è costituita dalla possibilità di registrazione dei marchi cosiddetti difensivi ,ora noi abbiamo detto che il titolare del marchio è tutelato in caso di utilizzo di marchio identico o cmq confondibile , che il titolare deve essere però in possesso di un marchio che deve utilizzarlo direttamente o indirettamente , con questi due pilastri ci siamo confrontati . Il marchio difensivo rispetto a questi due elementi introduce un'altra qualificazione nel

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senso che il marchio difensivo è un marchio che viene registrato dichiarando che non verrà utilizzato . uno dice come è possibile che un marchio viene registrato dichiarando che non verrà utilizzato? questa è proprio la tutela che si vuole dare ai marchi che godono di rinomanza , quando godono di rinomanza vero è che in giudizio posso dire che valenti è diverso da valentino , ma c'è bisogno di un giudizio il quale accerti la confondibilità del segno , ci sarà il giudice tizio che dirà che valente è confondibile con valentino , il giudice caio dirà che è diverso , insomma ci esponiamo ai possibili diversi orientamenti giurisprudenziali dei vari paesi , xkè la registrazione del marchio in virtù di convenzioni internazionali è una registrazione che può avere efficacia innanzitutto in tutta l'UE ma anche nei paesi che hanno aderito a tali convenzioni quindi chiaramente se già la giurisprudenza del tribunale di napoli è diversa da quella di roma capirete come sia diversa dalla giurisppruenza di marsigilia quindi non si può dipendere dagli orientamenti giurisprudenziali quando parliamo di marchi notori che di per sè costituiscono il valore o uno dei valori più importanti di un impresa , voi togliete all'impresa valentino il marchio Valentino il suo valore crolla anche se le pezze restano quelle. proprio per fornire una tutela più efficace al marchio che gode di rinomanza si consente solo in quel caso la registrazione di marchi difensivi anche perché il marchio difensivo ha un costo , io cmq devo pagare un prezzo ,pagare tanti marchi difensivi è un operazione che si può permettere chi ha un marchio il cui valore è davvero importante , ad esempio Valentino può registrare la v piccola grande valenti e così via e li registro tutti , per i marchi notori esistono decine e decine di marchi difensivi registrati , questi marchi contrastano il principio generale per cui il marchio deve essere utilizzato e la loro funzione è proprio difensiva , tutelare il titolare del marchio il quale semplicemente dimostrando che il marchio utilizzato è simile o confondibile anche a quello difensivo potrà evitarne l'utilizzo quindi c'è una tutela ancora maggiore. Detto questo vediamo che altro elemento del marchio è naturalmente l'impossibilità di toglierlo , se da una parte l'imprenditore che possiede quel marchio e produce un prodotto o sevizio ha diritto a contraddistinguerlo col suo marchio e ha diritto esclusivo di utilizzarlo , una volta che abbia deciso di apporre il marchio a quel prodotto o sevizio , laddove l'attribuzione ad un altro soggetto di quel prodotto o sevizio non determini la parte finale della catena produttiva ma sia a monte della catena produttiva , pensate nel caso più semplice al fabbricante di un determinato prodotto che lo vende al commerciante , ecco ci potrebbe essere un interesse del commerciante a porre un proprio marchio , in questo caso colui che mette in commercio il marchio può apporre un proprio marchio ma senza eliminare quello del fabbricante , sul prodotto ci saranno due marchi quello del dettagliante e del produttore (di fabbrica e di commercio) naturalmente fermo restando gli accordi che possono esserci tra dettagliante e produttore , ad esempio il dettagliante sulla base degli accordi può non poter mettere il marchio così come può accadere che va apposto solo il marchio del dettagliante (es. Carrefour ,GS) in mancanza di un accordo tra i due porranno essere apposti entrambi i marchi .detto questo vediamo la durata del brevetto , xkè ha una durata , quando chiedo di accedere al diritto di brevetto innanzitutto pago un prezzo relativamente alla brevettazione che faccio del segno , questo prezzo lo pago all'ufficio brevetti nel momento che faccio la domanda e chiedo di accedere ai benefici della brevettazione. La brevettazione ai sensi dell'art. 15 e 16 ha una valenza di 10 anni ,quindi nel momento in cui brevetto un segno , il brevetto vale per 10 anni , tuttavia il brevetto per marchi può essere continuativamente rinnovato di 10 anni in 10 anni , ogni qualvolta sta per arrivare a scadenza il segno, il titolare può rinnovarlo . Nn esistono termini di scadenza del brevetto per marchio , di 10 anni in 10 anni mi reco all'ufficio brevetti per rinnovarlo lo posso fare anche indefinitamente , non c'è un termine oltre il quale non posso fare più proprio perché a differenza di altri brevetti come i brevetti per invenzione industriale non c'è un pubblico interesse a che quel determinato marchio diventi di dominio pubblico , qual è l'interesse del mercato a che un marchio di diventa un bene pubblico? per l'invenzione industriale c'è , xkè l'invenzione può essere utilizzata gratuitamente dalla collettività e può essere perfezionata dagli altri imprenditori concorrenti , in quel caso il brevetto ha la funzione di incentivare gli imprenditori ad innovare.Lo stimolo è costituito dal fatto che per un tempo ,seppur limitato, io posso godere dei benefici in via esclusiva , per il marchio il discorso è diverso ..perché è chiaro che l'invenzione del segno è oggi anche quella frutto di una ricerca se io oggi dovessi inventare un marchio e voglio lanciare un nuovo prodotto è chiaro che non mi invento il marchio svegliandomi la mattina ma lo stesso nome sarà frutto di una ricerca di mercato ,marketing ma in linea di principio non nasce con un costo che sostiene l'imprenditore per la sua creazione ,il costo che sostiene l'imprenditore è la pubblicità e le operazioni che pone in essere per distinguere quel segno dagli altri segni e alla fine di tutto questo il mercato non ha interessa ad appropriarsene xkè può creare un altro segno per distinguere qualsiasi altro prodotto . tutto questo è vero quando il marchio viene utilizzato e mantiene la sua funzione distintiva.

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analizziamo adesso i casi di cessazione dal diritto del marchioinnanzitutto il caso di nullità originaria del segno, cioè il marchio pur venendo brevettato può essere affetto da nullità e qui dobbiamo fare una premessa , l'ufficio non è che svolge un'analisi approfondita sulla validità del segno , il fatto che il marchio venga brevettato non vale come decisione di validità del segno , semplicemente l'ufficio verifica che non ci siano segni analoghi per prodotti identici o affini (io voglio registrare il marchio giuffrè ,l'ufficio verifica che con quella parola non ci sia già un segno analogo registrato ma non scende nella valutazione di validità), possono aversi quindi casi di non validità del marchio dall'origine , quindi di nullità .Quali sono i casi di nullità ? il marchio è nullo quando mancano tutti i requisiti di cui abbiamo già parlatoè nullo quando non è nuovo non è originale e non è lecito nei sensi di cui abbiamo parlato nella lezione precedenteal contempo abbiamo già parlato della possibile convalidazione del segno , è chiaro che se io immediatamente ,cioè nel momento in cui registro un segno non valido, io , interessato xkè ovviamente come tutte le azioni di nullità anche qui l'azione di nullità può essere instaurata da chiunque abbia interesse ,se non ho interesse a far valere la nullità la mia istanza verrà rigettata , il discorso diventa + complicato quando il marchio è contrario a norme imperative all'ordine pubblico e al buon costume perché qui l'interesse potrebbe ritenersi comune , potrebbe esserci l'associazione islamica che si oppone alla registrazione di un marchio che offende l'islam, ecco che quindi i soggetti interessati a far valere la nullità di un segno possono essere i più svariati a seconda delle fattispecie. Se io voglio far valere la nullità devo agire subito perché può esserci la convalida del marchio , cioè un marchio che nasce nullo ma poi diventa valido , cioè ad esempio il marchio privo di capacità distintiva xkè privo di originalità vien brevettato e successivamente all'utilizzo che l'imprenditore ne fa quella capacità distintiva che all'inizio non aveva l'acquista ,quel marchio diventa valido , quindi nel momento in cui per effetto di questo fenomeno di convalidazione il titolare del segno ha attribuito una valenza distintiva a quel segno , l'azione di nullità la perdo non la posso fare + perchè non è vero che quel segno non ha capacità distintiva , xkè l'ha acquisita. La stessa cosa vale per la novità , l'art 20 per esempio proprio sul tema della, voi ricorderete che posso registrare un marchio già utilizzato da altri laddove questo marchio non abbia notorietà o abbia notorietà solo locale , se è stato registrato o non è stato registrato ma ha acquisito rilevanza non solo locale non posso brevettarlo , se lo faccio ? se lo faccio anche in questo caso può emergere un profilo di convalidazione che è diverso , mentre nel caso di cui abbiamo parlato nella lezione precedente in tema di novità abbiamo detto che è nuovo il marchio brevettato quando il marchio già esistente non aveva notorietà o l'aveva solo puramente locale abbiamo detto quali sono le conseguenze , in quel caso però non siamo in presenza di un marchio che nasce nullo ma nasce valido perkè non c'è un marchio registrato e l'uso di fatto che veniva esplicitato prima della brevettazione che altri hanno operato aveva attribuito a quel segno una notorietà puramente locale o nessuna notrietà , laddove invece il marchio era registrato oppure aveva notorietà non solo locale e io lo brevetto quel marchio è nullo , ma laddove io utilizzo per 5 anni e il titolare del dritto di preuso non contesti questo mio diritto (xkè in quel caso non c'è + un interesse che può essere pubblico , l'interesse è privato ..io sono titolare del marchio xkè l'ho brevettato o p erchè lo utilizzavo e l'avevo fatto diventare notorio e un altro lo brevetta , chi è il soggetto interessato a far valere la nullità di quel marchio ? io) , ma se per inerzia ,per disinteresse , per incuria o per le ragioni più varie per 5 anni tollero l'utilizzo altrui non posso più far valere la nullità del marchio. Art 28 : Il titolare di un marchio d'impresa anteriore brevettato e il titolare di un diritto di preuso che importi notorietà non puramente locale, i quali abbiano, durante cinque anni consecutivi, tollerato, essendone a conoscenza, l'uso di un marchio posteriore registrato uguale o simile, non possono domandare la dichiarazione di nullita' del marchio posteriore né opporsi all'uso dello stesso per i prodotti o servizi in relazione ai quali il detto marchio e' stato usato sulla base del proprio marchio anteriore o del proprio preuso, salvo il caso in cui il marchio posteriore sia stato domandato in mala fede. Il titolare del marchio posteriore non può opporsi all'uso di quello anteriore o alla continuazione del preuso.cioè è chiaro che se io brevetto un marchio già legittimamente usato da altri a livello nazionale o addirittura già brevettato il secondo utilizza il marchio per 5 anni quel marchio nullo viene convalidato , e così come il primo non può più contestare al secondo la validità del segno così pure il secondo deve tollerare l'utilizzo che il primo faccia del segno e noterete che tra le due posizioni è cmq + tutelata quella dell'originario titolare del marchio , chi l'ha utilizzata dopo può continuare ad usare il marchio per i prodotti o servizi per i quali per i 5 anni consecutivi l'ha utilizzato senza essere disturbato nel suo

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utilizzo. Noterete che l'utilizzo successivo del marchio è reso ammissibile ,cioè esiste la convalidazione quando l'utilizzo segue un brevetto seppur nullo ,cioè se viceversa io sono titolare di un marchio registrato e c'è un altro signore che utilizza il segno senza registrarlo per 5 anni e io non lo contesto lui non acquista il diritto al segno , continua a fare un illecito , cioè il terzo deve anche brevettarlo , ovviamente però questo è il caso che io continuo ad usare il segno e il terzo usa lo stesso segno , diverso è il caso in cui io non continuo ad usarlo o molti altri imprenditori cominciano ad usare quel segnoVediamo in questi casi cosa succede in questi casi , fin qui abbiamo parlato di nullità originaria e di convalidazione successiva , marchio che nullo diventa valido con l'utilizzoabbiamo invece i casi della decadenza del marchio , casi di decadenza del marchio riguardano le ipotesi del mancato utilizzo del segno e le ipotesi della volgarizzazione del marchio , naturalmente è anche ipotesi di decadenza la nullità sopravvenuta del segno .abbiamo quindi 3 ipotesi : non uso, volgarizzazione e nullità sopravvenutaquanto all'ultima io mi riferisco ala sopravvenuta venir meno della liceità , un segno può nascere lecito e diventare successivamente illecito , probabilmente se io 30 anni fa avessi registrato un segno in cui dicevo male parole su una religione diversa dal cristianesimo non mi avrebbero detto niente ma sarebbe stato lecito , oggi sicuro no ..gli elementi di liceità e illiceità possono cambiare nel tempo , così come può accadere che ci siano segni che pur avendo un'allusività che dà luogo a indicazioni contrarie a norme imperative ordine pubblico buon costume ciò non di meno per l'utilizzo che sono state fatte e per la notorietà che ha quel marchio che ha perso la connotazione provocatoria che aveva al'inizio ma ormai contraddistingue un segno comune non ha più quella valenza , lì però parliamo di una situazione di nullità originaria o di marchio che non è mai diventato nulla seppur aveva una valenza illecita. noi abbiamo visto che la liceità è parametrata anche ad esempio al divieto di utilizzare come marchi il nome di una persona famosa , ma qui il problema di illicietà sopravvenuta non si pone xkè se 30 anni avessi brevettato il marchio diego armando maradona io posso continuare ad utilizzare quel marchio per i prodotti e servizi per i quali avevo brevettato , quando parlo di illiceità sopravvenuta mi riferisco solo alla contrarietà sopravvenuta a norme imperative all'ordine pubblico e al buon costume. La decadenza per non uso , naturalmente il marchio abbiamo detto può essere brevettato nel momento in cui io lo utilizzo quindi alla data del brevetto già lo utilizzavo o laddove alla data del brevetto io non lo utilizzavo e mi prometto di utilizzarlo direttamente o indirettamente (ossia concendendolo ad altro) , questo utilizzo promesso deve avvenire nei 5 anni dal deposito della domanda del brevetto , se non lo faccio originariamente oppure lo utilizzo e poi per 5 anni consecutivi io non utilizzo più il segno , quel segno decade ; naturalmente la decadenza deve essere accertata , cioè se io non uso per 5 anni il segno, deve esserci un cristiano che abbia interesse a far valere la decadenza e interessato ad acquistare quel diritto di brevetto , xkè che potrà fare un terzo ? nel momento in cui per 5 anni consecutivi non ho utilizzato un segno mi può fare un'azione non solo per far valere la mia decadenza ma per dirmi "ora lo sto utilizzando io e son o io diventato proprietario" normalmente la contestazione che viene formulata non è tanto la tua decadenza ma normalmente avviene un'altra cosa io utilizzo un segno , tu dici è mio , e io replico no è mio xkè tu l'avevi brevettato non lo hai utilizzato per 5 anni e sei decaduto e quindi io l'ho acquistato a titolo originario.. abbiamo visto per la ditta e l'insegna un problema analogo ,cioè quando in virtù di una licenza io utilizzavo quel segno , lo continuo ad utilizzare xkè tu non utilizzi più ma in quel caso non è che lo continuo ad utilizzare in virtù di quel contratto ma xkè il mio diritto da diritto derivativo diventa un diritto acquisito a titolo originale , cioè quel segno stava a terra l'ho trovato e io lo utilizzo , questo è il discorso ..cioè laddove per 5 anni consecutivi il titolare non usa quel segno chiunque può iniziare ad utilizzarlo validamente , se il titolare ti fa una contestazione tu puoi dire che l'ha perduto xkè pr 5 anni non utilizzatoLa terza ipotesi è semplice da capire ma dà più problemi nella pratica xkè dà luogo a maggiori contestazioni e controversie : la volgarizzazione del marchio.Parliamo di volgarizzazione nel momento in cui il marchio perde la capacità distintivaAbbiamo detto che la decadenza del segno si verifica nei casi in cui mancano requisiti : uso(l'uso era promesso o esistente ma non viene più usato) , liceità (quando originariamente c'era poi lo perde) e originalità (quando nasce originario e perde nel tempo questa originalità ) ora la volgarizzazione del segno non è la perdita dell'originalità in senso relativo , cioè può capitare che un marchio nel corso della sua vita passi da marchio forte o debole ,possono esserci momenti altalenanti rispetto alla valenza del segno , una cosa però in tutta questa altalena il segno resta sempre valido ed efficace , il tema problematico sorge quando il segno perde completamente la capacità distintiva ,cioè il caso della

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volgarizzazione del marchio , il marchio si intende volgarizzato quando diventa la denominazione generica di quel prodotto , questo fenomeno avviene soprattutto quando con il marchio viene contraddistinto un prodotto completamente nuovo (es. Bic , Celophane) xkè c'è una fortissima associazione tra il marchio e il prodotto xkè è un prodotto nuovo , cioè probabilmente il nome del cellophane ha un nome chimico forse difficile e tutti la chiamano cellophan ..allora è chiaro che il rischio di volgarizzazione è molto forte quando viene inventato un nuovo prodotto e a quel nuovo prodotto viene dato un marchio , in quel caso abbiamo una coesistenza di diritti di proprietà industriali : brevetto per invenzione industriale e brevetto per marchio , il primo garantisce che per 20 anni nessuno può usare quell'invenzione.. il problema è quando decorsi quei 20 anni tutti utilizzano quell'invenzione e nel gergo comune quella parola diventa la denominazione generica del prodotto . Un caso che è stato portato all'attenzione della giurisprudenza è il caso Hag , come denominazione generica del caffè decaffeinato , in quel caso è vero che Hag non ha inventato il caffè decaffeinato anzi esistono 40 marche di caffè decaffeinato però effettivamente nel pubblico c'è la tendenza ad associare il caffè decaffeinato al nome Hugh e ad esempio proprio su questa associazione c'è stata una controversia , l'hag ha vinto xkè per il giudice che ha vinto la causa non c'era una volgarizzazione del marchio ma un illecito dei baristi che dovrebbero dire che il decaffeinato è X e non Hag. Quali sono le ipotesi di volgarizzazione? La definizione è la situazione in cui il marchio all'origine connotato dal requisito di originalità ,per l'utilizzo che il mercato fa di quel segno considerandolo alla stregua di denominazione generica del prodotto perde il requisito di originalità .. altra situazione in cui si verifica la volgarizzazione è quando quella situazione di utilizzo indebito del marchio avvenga non solo da un imprenditore ma da tanti imprenditori , cioè io ho brevettato quel segno poi ad un certo punto la generalità degli imprenditori comincia ad usare quel segno , a quel punto il marchio perde la valenza distintiva e si volgarizza , qui non bisogna guardare il problema in termini di liceità o illiceità del comportamento degli altri imprenditori ma dobbiamo guardarlo nella sua obiettività , cioè non a caso i marchi notori ogni tanto fanno causa ad un negozietto che vende le borse confondibili , lo fa per dimostrare che si è attivato per far valere l'originalità del marchio ,perche se tollerasse sempre tutto gli si potrebbe contestare la mancata reazione ad un ipotesi di volgarizzazione e dunque al volgarizzazione del segno , spesso camminando per strada vediamo nelle vetrine prodotti nei quali è usato in modo palesemente confondibile un marchio legittimamente brevettato da altri o utilizzando nomi famosi , e se così è louis vuitton dovrebbe fare causa solo a napoli a 1000 negozi ..ogni tanto però le cause vengono fatte , le controverse vengono avviate perché si prende un simbolo e per dire "io tutelo il mio segno" , nel momento in cui l'imprenditore perde proprio completamente il controllo sul piano della contraffazione del marchio e io non faccio o non riesco a fare niente allora lì il marchio si volgarizza. La volgarizzazione è sicuramente un pericolo che è sempre dietro l'angolo quando il nome diventa iperfamoso iperesposto , e l'esposizione che dà il pericolo di volgarizzazione.Da notare è la differenza tra illiceità sopravvenuta non uso e volgarizzazione.Nel caso di illiceità sopravvenuta nessuno può utilizzare più quel segno , xkè la decadenza non dipende da un mio comportamento , nel caso di volgarizzazione quel segno è diventato il nome genico del prodotto ,in quel caso il segno lo possono utilizzare tutti , io perdo l'uso esclusivo ..ciò non toglie però la possibilità che dopo un certo tempo il mercato si disinteressa di quella denominazione e quel segno torni ad essere vero e proprio marchio , ma è un operazione difficile e complicata.Quanto al non uso , al non uso di uno può corrispondere l'acquisizione della piena titolarità da parte di un altro , quel segno non si perde per il mercato ma si perde per colui che non lo usa , e al non uso di uso può corrispondere l'acquisizione del diritto all'uso esclusivo del segno da part di un altro. I tre casi sono 3 cause di decadenza del marchio ma hanno conseguenze diverse .Anche il caso di volgarizzazione è un caso in cui qualcuno deve contestarla , anche qui come nel non uso o nullità sopravvenuta ci vorrà un interessato che contesta ... nel momento in cui l'imprenditore contesta la contraffazione del segno ad un altro imprenditore che utilizza un segno simile o confondibile il quale gli dice" io non sto contraffacendo nulla il tuo segno semplicemente si è volgarizzato" a quel punto è il giudice che valuta se c'è stata volgarizzazione o meno.

23/01/2012

TRASFERIMENTO E LICENZA DEL MARCHIO

Per quanto riguarda il trasferimento del marchio, per quest’ultimo, oggi, vigono regole diverse rispetto

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a quelle viste con riferimento alla ditta e all’insegna. La ditta e l’insegna sono trasferibili soltanto insieme all’azienda o ramo d’azienda o quanto meno deve esserci un nucleo aziendale che viene trasferito insieme al segno distintivo. Infatti all’art. 2565 c.c. la legge dispone che “La ditta non può essere trasferita separatamente dall’azienda”; e con riferimento all’insegna, che è stata equiparata esplicitamente dal legislatore alla ditta, benché non vi sia un esplicito richiamo all’art. 2565 c.c., si ritiene prevalentemente che la cessione dell’insegna non sia libera. In realtà se andassimo ad esaminare storicamente la disciplina del marchio e quindi vedere qual’era la disciplina vigente nella Legge marchi originaria, vedremmo che in quella disciplina originaria il marchio seguiva la stessa disciplina della ditta e dell’insegna. Come sappiamo il marchio è anzitutto un segno distintivo, e come tale deve essere idoneo a consentire al pubblico dei consumatori di distinguere i prodotti o servizi di un imprenditore da quelli (simili) di un altro imprenditore; si attribuisce dunque al marchio funzione distintiva. Il pubblico infatti associa il marchio ad una determinata impresa e in particolare a determinate caratteristiche qualitative e quantitative di quel determinato prodotto o servizio. Ne deriva che l’eventualità che il marchio stesso si stacchi dall’impresa originaria per inserirsi in un’impresa diversa dà luogo ad una situazione critica, nella quale il rischio di inganno del pubblico si rende particolarmente attuale. E’ questa la ragione per cui fino al 1992 la legge prevedeva che il marchio non potesse essere trasferito se non con l’azienda, o con il ramo particolare di essa rilevante ai fini della qualificazione del prodotto contraddistinto. Il marchio nel mondo del commercio ha assunto una rilevanza sempre maggiore, di gran lunga superiore alla ditta e all’insegna, rispetto alla quale il nostro Stato doveva adeguarsi. Ecco che allora con un intervento del 90/91, adesso confluito nel codice della Proprietà Industriale (art.23), si taglia quel necessario legame che esiste tra marchio e azienda, ed il nostro ordinamento prevede che quel trasferimento possa riguardare anche il marchio isolatamente considerato. Il marchio, dunque, a norma degli artt. 2578 c.c. e 23 c.p.i. può essere liberamente trasferito non essendoci alcun riferimento alla necessità che insieme al marchio sia trasferita l’azienda e le norme appena citate aggiungono che il marchio può anche essere concesso in licenza. Tuttavia la situazione di rischio di inganno che con il trasferimento e la concessione della licenza si determina, ha indotto il legislatore a circondarli di particolari cautele a salvaguardia dell’interesse del consumatore. Trasferimento del marchio vuol dire attribuzione ad un terzo del diritto di proprietà esclusiva sul segno.Concessione in licenza del marchio, invece, vuol dire attribuzione ad un terzo (Licenziatario) del diritto di utilizzazione del segno , fermo restando la titolarità del marchio in capo al Licenziante con la conseguenza che alla scadenza del contratto, quale essa sia, il Licenziatario dovrà cessare l’utilizzo di quel segno.In entrambi i casi si determina un distacco fra il marchio e l’impresa cui era originariamente pertinente. Con riguardo al trasferimento, ove si tratti di un marchio registrato per una pluralità di prodotti o servizi, esso potrà essere trasferito per la totalità o per una parte di essi. Nel secondo caso si parlerà di un trasferimento parziale del marchio, e la titolarità di esso si sdoppierà, rimanendo in capo al cedente quella parte del marchio che riguarda i prodotti per i quali non è stato ceduto. Naturalmente trasferimento è parola neutra, nel senso che il trasferimento del marchio può avvenire in virtù di un contratto qualsiasi: ad esempio possiamo avere un marchio che viene trasferito in virtù di un contratto di vendita e quindi dietro corrispettivo oppure un marchio che viene attribuito a titolo gratuito ad un terzo in virtù di un contratto di donazione. Dunque trasferimento del marchio è parola neutra che viene adoperata qualunque sia il contratto base in virtù del quale quel trasferimento viene operato.Naturalmente, quanto al contratto di licenza, quest’ultimo può prevedere diverse articolazioni. Innanzitutto possiamo avere un contratto di licenza con il quale si attribuisce ad un terzo il diritto di utilizzare il marchio in via esclusiva. La legge prevede inoltre che anch’esso possa riguardare la totalità o una parte dei prodotti o servizi per i quali il marchio è registrato (licenza parziale) ed in questo caso vale un discorso analogo a quello che abbiamo esposto a proposito del trasferimento. La legge prevede poi che il marchio possa essere oggetto anche di licenza non esclusiva, e possa riguardare anche soltanto una parte del territorio dello Stato. A questo riguardo va sottolineata la differenza fra la licenza parziale e la licenza non esclusiva. La licenza parziale, infatti, è una licenza esclusiva in relazione ai prodotti ai quali è riferita ed una pluralità di licenze parziali rappresenta perciò una pluralità di licenze ciascuna tuttavia esclusiva per certi prodotti. Licenza non esclusiva, per contro, si avrà soltanto quando sia concessa ad una pluralità di soggetti una licenza di marchio in relazione agli stessi prodotti, ovvero quando il concedente dia licenza del marchio ad un terzo per determinati

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prodotti e conservi per sé il diritto di adoperarlo per gli stessi prodotti. Naturalmente tutte queste fattispecie introducono problematiche diverse; Vediamo adesso come il Codice della Proprietà Industriale disciplina queste problematiche relative al trasferimento e alla licenza del marchio.Ovviamente più problematica è la fattispecie della licenza; In relazione al caso di licenza non esclusiva sopra descritta che rappresenta il problema più grosso (pluralità di soggetti che contestualmente pongono sul mercato prodotti contrassegnati dallo stesso marchio), si porrà il problema di evitare che il pubblico trovi sullo stesso mercato (o su mercati regionali diversi, in caso di licenza territorialmente limitata, ma tuttavia appartenenti al medesimo mercato nazionale) prodotti all’apparenza identici, e per contro qualitativamente difformi, con conseguente inganno. E’ questa la ragione per la quale il legislatore ha ritenuto necessario subordinare la liceità delle licenze non esclusive alla condizione che il Licenziatario “si obblighi espressamente ad usare il marchio per contraddistinguere prodotti o servizi eguali a quelli corrispondenti messi in commercio o prestati nel territorio dello Stato con lo stesso marchio dal titolare o da altri Licenziatari” (art. 23 2°comma c.p.i.). Con il termine eguali il Legislatore non fa riferimento ad un’eguaglianza assoluta bensì ad un’eguaglianza sostanziale, nel senso che non basta che prodotti provenienti da imprenditori diversi e contrassegnati dallo stesso marchio siano semplicemente simili, ma devono essere eguali, avere contenutisticamente gli stessi elementi, nella forma avere le stesse connotazioni, in modo tale che le differenza tra prodotti e servizi provenienti da imprenditori diversi non incidano sull’eguaglianza, eguaglianza in senso sostanziale e non in senso letterale. Il concetto di eguaglianza viene introdotto dunque solo con riferimento al caso di licenza non esclusiva, perché è solo in quel caso che possiamo trovare prodotti contrassegnati con lo stesso marchio contemporaneamente presenti sul mercato. Nel caso invece di licenza esclusiva cosi come nel caso di trasferimento questo problema non sorge; non ci sarà un problema di differenza tra prodotti contrassegnati dallo stesso marchio comprati a Napoli piuttosto che a Milano, in quanto questi prodotti saranno riconducibili ad uno stesso imprenditore (rispettivamente Licenziatario in via esclusiva di quel marchio e proprietario di quel marchio anche se diverso dal proprietario originario). In tutti i casi diversi dalla licenza non esclusiva il legislatore richiede però che “in ogni caso, dal trasferimento e dalla licenza del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell'apprezzamento del pubblico” (art. 23 4°comma c.p.i.). Possiamo notare come la disciplina sia diversa a seconda dei casi e come dunque il legislatore riponga minore attenzione al problema della licenza esclusiva e del trasferimento rispetto a quello della licenza non esclusiva. Nel caso di licenza non esclusiva è richiesta l’eguaglianza dei prodotti mentre in tutti i casi diversi è richiesta invece la non ingannevolezza nei caratteri essenziali.Il problema della licenza è ancora più complicato di quello del trasferimento, sia essa esclusiva o non esclusiva, in quanto in caso di contratto di licenza il problema in più è che alla data di scadenza del contratto qualunque essa sia, il proprietario del marchio riprenderà il suo diritto esclusivo ad utilizzare quel segno mentre il titolare della licenza dovrà cessarne l’utilizzo. Naturalmente il mancato rispetto da parte del Licenziatario delle disposizioni di legge comporta delle conseguenze. Il legislatore ha voluto che fosse prestata particolare attenzione a questa problematica ed ha ritenuto necessario inserire una specifica previsione; L’art. 23 3° comma c.p.i. infatti, enumera una serie di possibili violazioni del contratto di licenza, e prevede espressamente che “ il titolare del marchio d'impresa può far valere il diritto all'uso esclusivo del marchio stesso contro il licenziatario che violi le disposizioni del contratto di licenza relativamente alla durata; al modo di utilizzazione del marchio, alla natura dei prodotti o servizi per i quali la licenza e' concessa, al territorio in cui il marchio può essere usato o alla qualità dei prodotti fabbricati e dei servizi prestati dal licenziatario”.In tutti questi casi dunque il proprietario del marchio può far valere il suo diritto esclusivo; il che vuol dire che il Licenziatario dovrà cessare l’utilizzo del segno. In realtà è bene chiarire che la generalità dei contratti in materia di licenza di marchi sono tra i contratti più complessi che vengono elaborati nella pratica anche dal punto di vista quantitativo ed è chiaro che il proprietario del marchio si tutela rispetto a queste violazioni già ai sensi di contratto; violazioni dunque che si configurano come causa di risoluzione del contratto stesso per inadempimento anche senza una specifica norma di legge.Nonostante ciò il legislatore ha voluto precisare questi fattori per due motivi:

1. Rendere più efficiente il diritto del proprietario: in una situazione in cui può essere attribuita la licenza a più produttori oppure nel caso in cui si possano verificare contestazioni sulla

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titolarità del diritto all’uso del segno, il legislatore vuole che relativamente a queste contestazioni non si attenda una decisione del tribunale, ma nel momento in cui semplicemente emerge una differenza tra i prodotti, un uso ingannevole, o semplicemente cessa la durata, il proprietario del segno potrà far valere questo diritto immediatamente e avrà diritto anche ad un provvedimento cautelare che il giorno dopo inibisca all’altro l’utilizzo del segno, rendendo cosi più efficiente il diritto del proprietario.

2. Diritto-dovere del proprietario di far cessare l’uso del segno: per il proprietario del segno far valere questi diritti non è solo una facoltà ma il legislatore in qualche modo obbliga il proprietario a far valere i propri diritti; Egli ha il diritto di far cessare l’uso da parte del Licenziatario laddove ad esempio utilizzi il marchio oltre la durata o laddove usi il marchio in maniera ingannevole. Si tratta quindi di un diritto, ma anche di un obbligo del proprietario del marchio; ovviamente si parla di un obbligo nella misura in cui non vuole che dal un suo silenzio/atteggiamento derivino delle conseguenze. Infatti se ad esempio il Licenziatario continua ad utilizzare il marchio dopo la scadenza del contratto e per un periodo di tempo significativo di almeno 5 anni, cioè il Licenziatario del marchio si comporta come proprietario del segno e continua ad utilizzarlo pur in assenza di contratto e il proprietario subisce questo utilizzo, si potrà realizzare la situazione in cui il Licenziatario acquista il diritto del marchio; se ad esempio si diffonde l’utilizzo del segno tra Licenziatari che non hanno più il diritto di utilizzare il marchio (cioè tra coloro che non sono Licenziatari), si potrà ipotizzare una volgarizzazione del marchio; o ancora, se il marchio viene utilizzato dai Licenziatari in maniera ingannevole si potrà ipotizzare una decadenza dal diritto del marchio per illiceità del segno. Dunque, qualora il proprietario del segno, naturalmente consapevole delle violazioni, le subisca senza avvalersi di un suo diritto, non soltanto non coinvolge in un giudizio i Licenziatari i quali continueranno nei loro comportamenti illeciti, ma rischia in prima persona, in quanto se questo comportamento passivo prosegue per un periodo di tempo più o meno lungo allora si produrranno queste conseguenze. È proprio questa la ragione per cui non si tratta di mero diritto, ma di un diritto/dovere se vuole mantenere la posizione di proprietario del segno.

Pare doveroso chiarire infine che il legislatore introduce questi elementi a titolo normativo perché sono elementi che riguardano il mercato e dunque a tutela di quest’ultimo; se l’utilizzo del marchio viene fatto in modo ingannevole il problema non è solo del proprietario o del licenziatario, ma riguarda anche il mercato; se il marchio viene utilizzato oltre la scadenza il problema è anche del mercato oltre che delle parti.

Profili generali sulle problematiche antitrust

Il problema delle intese anticoncorrenziali tra imprese è noto oramai da secoli al mondo economico del quale gli studiosi del mercato si occupano da lungo tempo. Il diritto antitrust si propone di creare un complesso di norme che impedisca al sistema economico di passare da un assetto concorrenziale ad assetti monopolistici; si propone, per quei mercati di che abbiano un assetto oligopolistico o monopolistico, di far si che il comportamento degli operatori economici sia quanto più vicino possibile al comportamento di soggetti che si muovano in una situazione di concorrenza, vietando loro i comportamenti tipici del monopolista o dell’oligopolista, in quanto particolarmente lesivi dell’interesse degli altri operatori economici e dei consumatori. Naturalmente ciò non vieta (anzi spesso accade) il sorgere di intese lecite tra imprenditori così come sicuramente lecita è la situazione in cui un’impresa mediante il suo comportamento di marketing, di qualità di prodotti, di invenzioni industriali e quant’altro riesce ad acquistare una posizione dominante sul mercato. È sicuramente lecito l’acquisto di una posizione dominante sul mercato tant’è vero che rappresenta l’aspirazione di qualsiasi impresa.Il problema sorge però quando queste intese e la posizione dominante raggiunta, producono degli effetti negativi sul libero gioco della concorrenza perché evidentemente in queste situazioni

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si produce un vantaggio per colui o coloro i quali operano contro il normale gioco della concorrenza, ma si produce al contempo uno svantaggio, nel breve termine o nel medio-lungo termine, per l’intero mercato. Chiaramente in questo caso siamo in presenza di una situazione nella quale il mercato da solo non riesce a regolamentarsi; infatti non è pensabile che rispetto alle problematiche antitrust il mercato si regolamenti da solo perché agli imprenditori una situazione antitrust conviene rispetto ad una in cui non vi è un’ intesa tra imprenditori. È chiaro comprendere che incidere sul gioco concorrenziale è economicamente più conveniente per gli imprenditori perchè se da un lato non consente al singolo di raggiungere una posizione dominante, dall’altro consente a tutti coloro che fanno parte di quell’intesa anticoncorrenziale di ottenere sovraprofitti rispetto a quello che accadrebbe normalmente.La prima apparizione del diritto antitrust si colloca negli U.S.A., a fine ottocento (il varo dello Sherman Act risale al 1890); gli Stati Uniti dunque sono stati il primo paese nel quale si è posta l’esigenza di una regolamentazione antitrust. Con lo Sherman Act si è avuta la prima disciplina più o meno organica delle problematiche antitrust. I sistemi europei invece si sono dotati di normative antitrust solo dopo la fine della seconda guerra mondiale.

In Italia, la nascita di un diritto antitrust risale al 1990; prima di allora la problematica antitrust aveva rilevanza solo quando la violazione era di significato comunitario e non aveva rilevanza quando la violazione era di significato meramente interno in quanto appunto non esisteva una disciplina antitrust. Conseguenza naturale era che in presenza di una violazione del normale gioco concorrenziale l’unico efficace strumento di contestazione a disposizione degli imprenditori era quello della concorrenza sleale.Ecco che allora che nel 1990, esattamente cento anni dopo lo Sherman Act, in Italia viene introdotta la legge 287/1990 cioè la disciplina antitrust (quest’ultima oggetto di qualche modifica cosi come accaduto per la disciplina comunitaria).Un aspetto importante del quale è necessario occuparci riguarda i rapporti tra diritto antitrust italiano e diritto antitrust europeo perché oggi sono vigenti entrambe le discipline; è necessario quindi comprendere quando una violazione antitrust è sottoposta all’attenzione del giudice comunitario e quando invece è sottoposta all’attenzione del giudice italiano. Qui abbiamo due parametri:

1. Quello del profilo territoriale interessato dalla violazione, che rappresenta il parametro giuridicamente di maggior significato; Evidentemente una violazione è di livello comunitario quando da un punto di vista territoriale riguarda almeno due paesi dell’Unione Europea. Quindi se una violazione antitrust riguarda anche solo due zone di due paesi dell’Unione Europea (es. nord Italia e sud della Francia) la violazione è di livello comunitario. Competente ad occuparsi di queste violazioni è la Commissione e la disciplina è contenuta nel trattato e nei regolamenti attuativi. Viceversa, se la violazione riguarda solo il territorio italiano o anche solo una parte di esso, la stessa dovrebbe avere una rilevanza esclusivamente italiana e quindi assoggettata esclusivamente alle valutazioni ed alle decisioni dell’autorità antitrust italiana. Abbiamo usato il termine dovrebbe perché in realtà non è proprio cosi; molto spesso succede che l’autorità europea entra in fattispecie che in linea astratta riterremmo di diritto interno. Ad ogni modo, in linea di principio bisogna dire che il profilo che conta è il profilo territoriale.

2. Quello quantitativo; quando una violazione è quantitativamente rilevante sulla base del fatturato dell’impresa (se il fatturato è di livello comunitario) allora sarà di competenza comunitaria anche se lo spazio è quello italiano.

Alla luce di quanto detto è facile capire che esistono molte situazioni in cui è problematico capire se una possibile infrazione (perché finchè non c’è una decisione bisogna parlare di infrazione potenziale) sia di competenza del giudice antitrust italiano, cioè l’autorità garante della concorrenza e del mercato, o viceversa sia di competenza della commissione europea. A riguardo l’art. 1 della Legge 287/90 prevede delle conseguenze specifiche. In sostanza in queste problematiche la prevalenza è data sempre alla Commissione rispetto all’autorità italiana nel senso che possiamo trovarci di fronte a due situazioni: una prima situazione è quella in cui contemporaneamente vengono aperti dei procedimenti sia in sede

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comunitaria sia in sede italiana. In questo caso il giudice italiano deve immediatamente sospendere la sua attività e trasmettere tutta la documentazione al giudice comunitario. Sarà poi quest’ultimo a stabilire se l’infrazione è di sua competenza o di competenza nazionale. Laddove il giudice comunitario (Commissione) riterrà che l’infrazione è di livello nazionale chiuderà il suo procedimento e si riaprirà quello nazionale. Laddove invece il giudice comunitario dovesse ritenersi competente allora cesserà il procedimento italiano.Stessa cosa avviene nella seconda situazione e cioè nel momento in cui è invece semplicemente pendente un procedimento antitrust in Italia e l’Autorità antitrust italiana, nell’esame della fattispecie, evidenzia la possibilità che quella fattispecie sia invece di competenza della Commissione. Anche in questo caso l’Autorità italiana deve sospendere il procedimento e trasmettere gli atti alla Commissione affinchè quest’ultima assuma le sue decisioni. Occorre dunque concludere dicendo che per evitare possibili situazioni di conflitto, il legislatore ha preferito dare sempre prevalenza all’Autorità comunitaria in modo tale da risolvere eventuali contenziosi in maniera immediata.

Abbiamo individuato in generale le problematiche di carattere generale relative alla disciplina, ed abbiamo individuato il rapporto che esiste tra le autorità, nel senso che in Italia la disciplina anti-trust è sottoposta all'attenzione dell'autorità garante della concorrenza e del mercato e viceversa a livello comunitario la competenza in materia è della commissione. Abbiamo visto come si relazionano i due organi quando ci sono perplessità applicative, quando cioè non è chiaro se l'azione sia di competenza di una autorità o dell'altra autorità.Adesso ci occupiamo dell'esame dei comportamenti oggetto di attenzione dell'autorità anti- trust, ed a questo proposito dobbiamo fare una premessa, che la disciplina anti-trust è nuova per il nostro ordinamento cioè sono venti anni che viene applicata quindi non c'è un'esperienza del legislatore italiano in materia anti-trust, né si è formata alcuna giurisprudenza prima degli anni '90; d'altra parte la disciplina italiana costituisce esattamente la trasposizione della trattativa comunitaria, cioè se si comparano le norme della disciplina anti-trust sono le stesse. Il legislatore ha precisato nell'art.1 ultimo comma della legge anti-trust che le norme italiane vanno interpretate alla luce dei principi comunitari; ora nella prospettiva dell'integrazione tra ordinamento italiano e quello della unione europea questo collegamento risulta doveroso perché qualunque norma del nostro ordinamento deve interpretarsi alla luce dell'ordinamento comunitario; nella disciplina anti-trust questo problema ha una valenza più forte, non è solo un problema di disciplina ma è un problema di applicazione specifica poiché esistono delle problematiche che dal diritto italiano non sono considerate o lo sono diversamente rispetto a quanto avviene in sede comunitaria, quindi questo richiamo sta a significare che l'interpretazione non solo di carattere generale ma anche di dettaglio va fatta alla luce delle leggi europee.Vediamo i tre macro settori oggetto di attenzione:• intese• abuso di posizione dominante• concentrazioni

entrambe le fattispecie vengono considerate solo nel momento in cui determinino o possano determinare un'alterazione del gioco concorrenziale anomala rispetto a quanto avviene nel normale funzionamento del mercato, ed è in questo che assume rilevanza la disciplina, poiché le intese tra imprese così come le concentrazioni sono comportamenti assolutamente legittimi, non sono illeciti, essi sono disciplinati dall'ordinamento europeo e italiano,trovando anche delle agevolazioni, è l'elemento dell'abuso, quando si rinviene, in una di queste fattispecie tale da alterare il gioco concorrenziale a determinare l'illecito.

INTESE:che vuol dire intesa: sono i contratti e gli accordi tra imprese, possono essere considerati come intese anche le deliberazioni di strutture associative tra imprese come le delibere di consorzi, società costituite tra più imprese, ecc..; accanto agli accordi e deliberazioni entrano anche le pratiche concordate cioè il comportamento di fatto che un osservatore esterno riesce a rilevare relativamente al comportamento di più imprese che si comportano in una maniera diversa da quella che sarebbe normale aspettarsi da queste imprese in virtù del normale gioco concorrenziale, e che lascia dedurre

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l'esistenza di una pratica non risalente all'autonoma volontà della singola impresa ma che fa desumere l'esistenza di una pratica che risulta concordata tra le varie imprese. In realtà nel nostro ordinamento o c'è l'accordo o non c'è l'accordo, cioè il quasi accordo non esiste, però nel mondo anti-trust richiedere la necessità di un accordo è qualcosa di molto difficile nel senso che se l'intesa fosse vietata solo quando si scopre l'esistenza di un contratto allora le imprese facilmente potrebbero esonerarsi dalla disciplina anti-trust dimostrando che non c'è nessun accordo né contratto, evidentemente proprio la particolarità della materia, cioè il fatto che le imprese vogliano dar vita ad un comportamento anti concorrenziale, non è che sono molto interessate ai motivi contrattuali dell'accordo cioè non è che aspettano di poter far valere l'inadempimento, il risarcimento, il preciso adempimento ed altri aspetti che rilevano in un normale funzionamento contrattuale, le imprese seguono quella pratica perché conviene a tutti e nel momento in cui un'impresa che ha aderito ad una pratica concordata se ne tira fuori la sua sanzione è prevalentemente reputazionale rispetto alle altre imprese, cioè se io so che un imprenditore non è affidabile semplicemente non lo considero più io altro imprenditore che seguo quella pratica, non mi interessa molto chiedere il risarcimento del danno perché non è in quello che assume rilevanza il rapporto, ed ecco allora che il legislatore comunitario introduce questo concetto della pratica comunitaria cioè non devo arrivare a dimostrare l'esistenza di un accordo per poter dire che è stata stipulata un'intesa, ma è sufficiente esaminare e verificare l'esistenza di una pratica che si può definire concordata alla luce del comportamento esterno tra le parti. Detto questo abbiamo qualificato l'intesa, ma non abbiamo qualificato l'impresa, qual è il concetto di impresa ai fini dell'intesa o di qualunque altro aspetto anti-trust? Naturalmente anche qui voi ricorderete dal diritto commerciale tutte le qualificazioni che si sono fatte dell'impresa: privata, pubblica, piccole, non piccole, individuali, societarie, agricola, commerciale,ecc.. che sono tutte rilevanti al fine di determinare l'applicazione di una certa disciplina; dal punto di vista della disciplina anti-trust queste differenze non assumono alcuna rilevanza, cioè rilevano ai fini anti-trust tutte le imprese, quale che sia la loro veste giuridica, se ad esempio un'associazione o una fondazione svolge un'attività che oggettivamente è qualificabile come attività d'impresa questo soggetto è sottoposto alla disciplina anti-trust, non è che perché le sue finalità siano non lucrative, ad esempio non rientra nella disciplina anti- trust, è uguale non c'è nessuna differenza perchè dal punto di vista del mercato quali che siano le mie finalità non importa, addirittura è lo stesso concetto d'impresa ad essere messo in discussione perché troppo restrittivo, nell'ordinamento comunitario (soprattutto nei paesi di common law) la disciplina anti-trust non si limita alle imprese come noi le conosciamo ma si estende anche ad altri soggetti ad esempio ai professionisti, la differenza è che da noi il professionista non è un imprenditore, allora se così è in quei paesi senza dubbio si applica la discplina anti-trust anche ai professionisti.Questo stesso concetto viene applicato in sede comunitaria e applicato dall’antitrust interno cioè se con la concorrenza sleale abbiamo affermato con sicurezza che non si applica ai professionisti ,per la disciplina antitrust si applica ai professionisti ,nei quotidiani di tipo economico spesso c’è la questione del tema dell’antitrust che entra negli ordini professionali, in questo periodo il tema è stato affrontato con norme in tema di liberalizzazioni,l’antitrust spesso è intervenuta non solo con provvedimenti ma anche relazioni, interventi pubblici su alcuni aspetti in tema di ordini professionaliQuesto è possibile alla luce di quel principio generale precedente enunciato che la disciplina antitrust italiana non va interpretata soltanto con riferimento alla prospettiva dell’ordinamento italiano x’ se cosi fosse li si parla di imprese le imprese sono quelle di cui stabilito dal diritto commerciale ma la disciplina antitrust secondo i dettami comunitario ecco che allora rientrano anche i professionisti per fare un esempio.Ora queste intese: accordi , pratiche concordate e deliberazioni, sono lecite; sono vietate le intese così qualificate laddove abbiano x oggetto o x effetto l’ alterazione del gioco concorrenziali, non importa che il loro oggetto specifico sia l’alterazione del gioco, cioè è chiaro ed evidente che sia vietata un’intesa in cui si dica di ripartire tra 3 grandi imprenditore il mercato: uno si occupa del nord Italia uno del centro e l’altro del sud chiara intesa antitrust quindi è chiaro che non ti faccio concorrenziale in quel mercato e tu nel mio, cosi come ha un chiara matrice antitrust l’ intesa sui prezzi tutte le imprese che aderiscono a questa intesa ed eroga i propri servizi chiedono un corrispettivo variabile ad es tra i 10 e i 12 euro ,possiamo avere delle intese che abbiano ad oggetto tutt’altro, ad es lo svolgimento di attività di ricerca che pero l’effetto di tali intese ha una conseguenza ai fini antitrust.Ai fini della considerazione antitrust Nn importa che l’intesa abbia effettivamente alterato il gioco concorrenziale è la mera potenzialità dell’ intesa a produrre quella alterazione a determinare la sua illiceità al fine del comportamento antitrust.E’ chiaro che l’autorità antitrust non si può occupare di qualsiasi intesa quest’ultima deve aver

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determinato una alterazione del gioco concorrenziale nel mercato nazionale o in una parte rilevante di esso , l’intesa che vi fosse tra i panettieri di via chintia a vendere il pane tutti a 2 euro al kg e non a 1.50 è un’intesa che non interessa all’autorità garante per la concorrenza e x il mercato perché il settore interessato è irrilevante, deve trattarsi di un’ intesa che ha rilevanza quanto meno su una parte significativa del mercato.Quando parliamo di parte significativa del mercato non necessariamente dobbiamo pensare ad un intera area territoriale come il sud Italia o di una regione anche nell’ambito la violazione anti nell’ambito di comune puo assumere rilevanza che dipendente dal mercato interessato , dalla rilevanza della violazione in quel comune deve avere un minimo di rilevanza ad esempio la violazione che sia in una sola strada ,una piccola zona, in un piccolo paese di montagna nn assume rilevanza ai fini antitrust l’autorità non avrebbe la capacita di occuparsi di tutte le violazioniCosi come non assume rilevanza di fatto che l’intesa abbia provocato una alterazione è la mera potenzialità di quell’intesa a determinare l’ alterazione, a produrre un intesa illecita cioè le intese che abbiano per oggetto o per effetto la prospettiva di alterare il gioco concorrenziale la potenzialità di alterare il gioco concorrenziale se poi in concreto qst gioco concorrenziale non sia stato alterato non ha importanza ma importanza ha la potenzialità dell’intesa a produrre questa alterazione.Il legislatore in materia antitrust non individua come tassativi dei comportamenti specifici nei quali la violazione si produce non lo fa x’ evidentemente la fantasia degli imprenditori è tale da superare qualsiasi definizione cioè è vietata qualsiasi intesa che abbia per effetto o per oggetto che provochino l’alterazione del gioco concorrenziale poi il legislatore offre degli esempi di intese vietate ma con la considerazione che sono degli esempi cioè i capi introdotti nell’art. 2 e 3 della legge antitrust sono esempi della disciplina antitrust, non soltanto in quegli esempi enunciati ma è chiaro che nel 95 o 99% dei casi quelle norme individuano un po tutte le intese che possono avere rilevanza difficile ipotizzarne altre che vadano oltre quell’elenco però devo dire che quei casi quella casistica è meramente esemplificativaVediamo quali sono quei casi esemplificativo entriamo nello specifico x’ anche se sono esemplificative e non tassative ci danno un idea di quali sono le intese vietate Intesa sui prezzi di acquisto e di vendita ,su questo aspetto vi sottolineo una considerazione non è

vietata l’intesa con la quale si stabilisce un prezzo troppo alto o troppo basso a danno dei produttori dei consumatori non è questo il punto, è illecita l’intesa sui prezzi, se per assurdo le intese affidassero ad un pool di economisti l’individuazione del prezzo più corretto dal punto di vista del mercato chiedendo qual è il prezzo più corretto dei telefonini blackberry a 150 euro e vendessero i blackberry a 150 euro sarebbe un’ intesa vietata cioè il punto nelle intese ( è chiaro che normalmente l'intesa non individua mai un prezzo corretto, individua sempre un prezzo che va a favore degli imprenditori) tuttavia non è questo il punto, il dibattito non si fonda sull'adeguatezza o correttezza del prezzo, è semplicemente la circostanza che ci sia un'intesa su prezzi a determinare un'intesa illecita perchè comunque l’intesa cambia o può cambiare il normale funzionamento del mercato.

Vietate sono le intese che producono una ripartizione dei mercati, vietate le intese che introducono barriere all’entrate e alle uscite, che riducono o regolamentano la ricerca ,che disciplinano il progresso scientifico e tecnologico , vietate sono quelle intese che collegano la stipula di un contratto alla stipula di un altro accordo

ad esempio x l’assicurazione dello scooter bisognava tempo fa fare la rc infortuni,una intesa illecita tra compagnie assicurative,

Queste intese sono vietate e il legislatore introduce una frase un pò singolare le intese sono anche nulle ad ogni effetto naturalmente il legislatore ha introdotto la sanzione della nullità in primo luogo x’ l’intesa potrebbe non avere solo per oggetto il gioco concorrenziale ma se l’intesa ha x effetto il gioco concorrenziale ed è nullo l’intero effetto e non solo quella parte, allo stesso modo il legislatore ha introdotto una possibilità di deroga al divieto di intesa con art 4 della legge antitrust.

Lezione giovedì 26/01/2012 PARTE 3

In alcuni casi molto particolari l’intesa può essere necessaria per poter sviluppare un mercato, per poter consentire e agevolare la ricerca scientifica, la ricerca tecnologica e dei progressi in favore dei consumatori… e allora che succede? dove si verificano queste situazioni le imprese che vogliono stipulare un’ intesa prima di eseguirla devono dare comunicazione all’ autorità antitrust e devono dire

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“ cara autorità antitrust io intendo stipulare un’intesa che abbia queste caratteristiche per queste motivazioni” cioè noi per un certo periodo di tempo non ci faremo concorrenza sul prezzo perché stiamo cercando insieme una soluzione per questo problema tecnico e questa intesa ci permette di concentrarci su questo aspetto.Ci sono delle caratteristiche che le intese devono avere per poter ottenere l’ autorizzazione:

a) l’intesa deve avere una durata limitata nel tempob) non deve eliminare totalmente il gioco concorrenziale: cioè che totalmente inibisca le

imprese ad entrare sul mercato, a quelle che ci sono di uscirne, che riguardi in assoluto i prezzi e così via. Deve essere un’intesa che qualche alterazione la produca ma che non deve eliminare totalmente il gioco concorrenziale.

c) Deve essere limitata anche qualitativamente in relazione alle finalità che si prefigge di raggiungere. Se io voglio stipulare un’intesa in deroga per fare una ricerca per rendere più magro il prosciutto crudo non posso farla anche sul prosciutto cotto ma deve essere relativa specificamente al settore, all’oggetto di ricerca, apertura del mercato ecc.

Laddove abbia tutte queste caratteristiche l’autorità può collaborare con le imprese, nel senso che può dire “io ti autorizzo l’intesa se modifichi, aggiungi questa previsione, se fai quest’ ulteriore deroga”. (RICHIESTA -> COLLABORAZIONE –> INTESA)L’ autorità vigila sul fatto che l’intesa poi sia rispettata nel senso che non si ecceda rispetto a tutte le precedenti considerazioni che abbiamo fatto. Laddove si verifichi un eccesso di utilizzo dell’ intesa da parte delle imprese l’autorità in qualunque momento può revocare l’autorizzazione in deroga.

ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTECosì come per quanto riguarda le intese abbiamo detto che legittima è l’intesa e illegittima è solo l’intesa che abbia come oggetto/ effetto l’alterazione del gioco concorrenziale, la stessa argomentazione la riproduciamo per quanto riguarda l’ abuso di posizione dominante, cioè anche in tal caso legittima è la posizione dominante illegittimo è l’ abuso di posizione dominante. Quando un’impresa si trova in posizione dominante?E’ un problema delicato… alcuni testi dicono che “ sei in posizione dominante se hai più del 75% del mercato, meno del 70%, più del 25%...”.E’ chiaro che in realtà numeri non se ne possono dare perché ogni mercato ha le sue peculiarità. Ad esempio nel mercato delle grandi società di revisione anche un’aliquota del 70% non è un’aliquota di posizione dominante del mercato perché si tratta di poche imprese che hanno grosse fette di mercato. Viceversa ci sono mercati in cui anche il 10% del mercato sotto il controllo di un’unica impresa la pone in posizione dominante perché magari tutti gli altri esponenti del mercato sono talmente piccoli, piccolissimi, frazionati che devono necessariamente seguire l’impresa leader.Quindi possiamo dire che un’ impresa ha una posizione dominante su un mercato quando è leader di quel mercato, al di la della %, la % non si può quantificare, cambia da mercato a mercato, da momento a momento. L’impresa leader è quella che è in grado di orientare quel mercato, cioè se quell’ impresa fissa il prezzo dei suoi prodotti a 1000euro le altre imprese si devono un po’ adeguare se l’impresa ha un certo comportamento le altre la devono un po’ seguire…Io non posso chiedere all’impresa in posizione dominante di non avvalersi di questa posizione dominante o di cedere quote di mercato, sarebbe ridicolo e non sarebbe neanche conforme al gioco concorrenziale perché se un’impresa è arrivata lecitamente ad avere una posizione dominante è giusto che la conservi, se è in grado di conservarla, però non possiamo noi stabilire quali devono essere i comportamenti che questa impresa debba assumere. Quello che il legislatore comunitario prima e quello italiano poi hanno fatto è stabilire quali sono i comportamenti illeciti di tali imprese che determinano un abuso di posizione dominante.Se andate a leggere l’art.2 (divieto di intesa) e l’art 3 (abuso di posizione dominante) e leggete i casi esemplificati nelle 2 norme sono molto simili ma ci sono delle differenze EX: l’abuso di posizione dominante sui prezzi, è chiaro che l’impresa dominante fa i prezzi (non è che io posso dire che perché tu sei in posizione dominante ora il prezzo te lo fa l’economista tizio o l’autorità antitrust altrimenti tali soggetti entrerebbero nelle scelte, che devono restare libere, dell’impresa in posizione dominante). Se l’impresa in posizione dominante decide di voler applicare un mark up più alto o viceversa più basso è una scelta dell’impresa in posizione dominante. Tuttavia di questa posizione dominante l’impresa non può abusare nel senso che se il panettiere di via Cinthia decide di vendere il pane a 5 euro al kilo lo può fare e se trova le persone che se lo comprano buon per lui ma se le persone gli dicono io lo vado a comprare più giù a 1.20 al kilo allora andranno a comprarlo li.

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Quando l’impresa in posizione dominante determina un prezzo, nella sua libertà contrattuale, lo dovrà fare in modo che non sia eccessivamente gravoso. La sua libertà trova un limite… l’impresa in posizione dominante potrebbe facilmente vendere sotto costo per 2-3-4 mesi, elimina tutti dal mercato e poi impone i prezzi che vuole lei. Questo non lo può fare. Questo è abuso di posizione dominante. Se viceversa l’impresa in posizione dominante decide di applicare un mark up un po’ più alto o un po’ più basso lo può fare. E’ sull’ eccessiva gravosità del prezzo che si gioca il momento dell’ illecito.Vedete che differenza c’è tra questa situazione e quella relativa all’ intesa. L’intesa su qualunque prezzo è illecita, anche sul prezzo giusto. Andiamo ora a vedere le fattispecie relative alla non limitazione della produzione, barriere all’ingresso/uscita, ricerca scientifica ecc.. tutto questo per un’ impresa in posizione dominante è vero nei limiti in cui segue questi comportamenti a danno dei consumatori. Anche qui abbiamo un’aggiunta rispetto all’ intesa perché ad esempio un’impresa di autoveicoli in posizione dominante vuole produrre 1000 autoveicoli saranno fatti suoi, dopo di che se l’impresa dovesse perseguire comportamenti atipici potrà accadere che un’altra impresa entri in quel mercato. Se un’impresa vuole vendere 5mln di autoveicoli perché è in grado di produrli, anche se il mercato non è in grado di assorbirli, perché non lo dovrebbe poter fare.. avrà poi degli autoveicoli che gli rimarranno sullo stomaco, ma questo non è un problema che riguarda il mercato.Se un’impresa in posizione dominante non vuole fare ricerca scientifica/tecnologica non la farà, ci sarà un altro imprenditore che magari farà tale ricerca scientifica/tecnologica, gli riuscirà bene e acquisterà quote di mercato. In tutte queste situazioni l’impresa in posizione dominante fa quello che vuole… è quando abusa di questa posizione che si determina l’illecito.Che succede quando viene stipulata un’intesa vietata o l’impresa abusa della propria posizione dominante? Al di la della nullità dell’ intesa vietata la conseguenza è ovviamente pecuniaria nel senso che l’ autorità antitrust, verificata l’esistenza di un’intesa vietata, verificato che si è prodotto l’abuso di posizione dominante, applica una sanzione che si sostanzia in una % sul fatturato e che sarà tanto più elevata a seconda della gravità della violazione, della durata della violazione e delle conseguenze della violazione.Se un’intesa che è stata stipulata ma poi non ha avuto effetto sul mercato anche se potenzialmente poteva averne, la sanzione sarà più piccola, se l’intesa si è protratta per molti anni, ha avuto un effetto devastante sul mercato e così via allora la sanzione sarà molto più elevata.La sanzione sul fatturato riguarda cifre importanti.E’ chiaro che tra intese e abuso di posizzione dominante è più probabile la effettività del pregiudizio nella posizione dominante rispetto alle intese in termini di peso di probabilità.Accanto alla sanzione amministrativa, una volta emersa l’intesa o l’abuso di posizione dominante, ci possono essere anche sanzioni civilistiche, come accadde ad esempio quando è stata scoperta l’intesa delle compagnie assicurative sui premi delle polizze dove per anni(e ancora oggi) sono pendenti le cause dei singoli soggetti che avevano stipulato le polizze nei confronti delle compagnie assicurative per ottenere il risarcimento dei danni, perché chiaramente l’intesa vietata o l’abuso di posizione dominante provoca un danno o può provocare un danno ad un numero indeterminato di persone i quali possono far valere i propri diritti.L’ultima fattispecie è quella delle concentrazioni. Anche la concentrazione di per sé è un comportamento lecito, infatti nel trattato dell’unione europea dal punto di vista antitrust sono oggetto di esame solo le intese e l’abuso di posizione dominante ma non le concentrazioni. Sulle concentrazioni il legislatore dell’unione europea è intervenuto dopo con un regolamento, quindi non è una norma inserita nel trattato ma inserita in un regolamento. La differenza tra la concentrazione e le intese e l’abuso di posizione dominante sta nel fatto che in realtà con la concetrazione si va a fare un lavoro di tipo preventivo, cioè quando l’autorità interviene sull’intesa o sull’abuso di poszione dominante interviene su un tentativo di alterazione del gioco concorrenziale o su un’alterazione avvenuta, mentre nella concentrazione (che come abbiamo detto in via generale è perfettamente lecito perchè porta ad un’aggregazione tra due imprese che prima erano separate) l’autorità antitrust si preoccupa della situazione in cui a seguito della concentrazione l’impresa post-concentrazione potrebbe determinare un’alterazione del gioco concorrenziale.Le concentrazioni considerate sono tutte quelle tra imprese, ad esempio le fusioni, le scissioni, ma solo dal punto di vista di chi riceve l’apporto perché chiaramente la scissione di per sé è una deconcentrazione, quindi è un elemento positivo dal punto di vista antitrust, diventa negativo quando con la scissione si determina l’attribuzione di un pezzo di patrimonio ad un’impresa già esistente che in tal modo si concentra oppure quando dal controllo congiunto si arriva ad un controllo esclusivo

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altrimenti la scissione è irrilevante ai fini antitrust. Naturalmente è concentrazione l’acquisto di una partecipazione di controllo, l’acquisto di un’azienda qualunque titolo giuridico ed è concentrazione anche la creazione di un’impresa congiunta da parte di due o più imprese.Tutte queste ipotesi sono ipotesi di concentrazione. La concentrazione non è vietata però se due o più imprese vogliono procedere ad una concentrazione, prima di eseguire la concentrazione devono darne comunicazione all’autorità antitrust. Ad esempio se vi è la vendita di un pacchetto azionario di controllo nel contratto di vendita si prevede una condizione sospensiva del mancato divieto dell’autorità antitrust, in modo che se l’autorità vieta l’operazione allora l’operazione stessa perde di efficacia. Quindi non si deve dare esecuzione all’operazione prima di aver capito qual’è la definitiva posizione dell’autorità antitrust. Non tutte le concentrazioni devono essere comunicate all’autorità Antitrust ma solo alcune di esse, cioè quelle in cui la somma del fatturato delle imprese che partecipano alla concentrazione o il fatturato delle singole imprese che vi partecipano supera i massimali stabiliti dall’autorità antitrust. Per le intese e per l’abuso di posizione dominante non sono stabiliti dei limiti di fatturato perché queste due danno luogo già ad un’alterazione del gioco concorrenziale, mentre le concentrazioni danno luogo ad una potenziale possibilità di alterazione del gioco concorrenziale e quindi non si può costringere l’autorità antitrust ad occuparsi di tutte le concentrazioni che si svolgono in Italia ma solo di quelle di una certa rilevanza. Quindi le imprese che vogliono dare luogo ad una concentrazione devono fare questa comunicazione, l’autorità comunica questa circostanza al ministero dello sviluppo e al contempo chiede tutti gli ulteriori documenti che ritiene necessari. A questo punto l’Autorità può seguire due percorsi, o dichiara il non luogo a provvedere e quindi la concentrazione immediatamente si può fare, o viceversa apre la procedura, quindi vuol dire che c’è qualche elemento di perplessità e deve entrare nel merito di questa concentrazione. Nel secondo caso comincia una fase di pieno colloquio con le imprese e quindi l’autorità può formulare dei quesiti alle imprse, può formulare delle richieste di chiarimento,anche le imprese possono esporre tutto quello che ritengono opportuno ed il procedimento può avere tre esiti diversi: 1) non si ravvisano elementi ostativi alla concentrazione; 2) l’autorità vieta la concentrazione (molto raro che si pronunci in questo modo); 3) provvedimento creativo dell’autorità, cioè l’autorità stabilisce che l’autorizzazione viene concessa solo se si danno corso ai provvedimenti imposti dall’autorità stessa. Ad esempio se due banche si vogliono fondere, l’autorità può stabilire che la concentrazione avviene solo se vengono resi 10 sportelli. Un esempio di concentrazione effettivamente avvenuta a determinate condizioni è l’acquisto di Autogrill da parte di Autostrade, infatti questa concentrazione è stata concessa a condizione che i posti di ristoro presenti sulle autostrade di proprietà di Autogrill non superasse la percentuale allora esistente. Quindi questi provvedimenti creativi sono provvedimenti attraverso cui l’autorità pretende dalle imprese degli impegni che sono dei vincoli alla crescita di queste imprese o delle riduzioni delle dimensioni attuali di queste imprese.Questo è un elemento che incide sulla ricchezza di queste imprese e quindi le imprese stesse alla luce dell’indicazione vincolante dell’autorità antitrust possono stabilire di non dar più corso all’operazione se l’operazione diventa sconveniente oppure danno corso all’operazione però rispettando le indicazioni dell’antitrust perché in caso contrario si applica la sanzione.Se le imprese danno corso alla concentrazione senza informare l’autorità antitrust oppure la attuano senza aspettare il parere dell’autorità si assumono un bel rischio poichè quando l’autorità si occuperà di quella concentrazione, se non ravvisa elementi non ci saranno problemi, ma se dovesse ravvisare elementi ostativi alla concentrazione perché determina la potenzialità di un’alterazione del gioco concorrenziale l’autorità potrebbe non solo emanare dei provvedimenti creativi che in questo caso dovranno per forza essere attuati (dato che non si può scegliere a questo punto di attuare la concentrazione o meno poiché è già stata messa in atto) ma addirittura nei casi più gravi, cioè quelli in cui l’autorità avrebbe vietato la concentrazione, l’autorità stessa può imporre la deconcentrazione con tutti i costi che ne conseguono. In aggiunta a ciò ci saranno sanzioni di carattere gestionale e sanzioni amministrative per la mancata comunicazione della concentrazione. Chi decide su queste sanzioni è un’autorità amministrativa indipendente cioè l’Autorità garante per la concorrenza e per il mercato i cui organi sono nominati d’intesa tra i presidenti della camera e del senato. Naturalmente sia il presidente dell’autorità antitrust sia i componenti devono avere delle caratteristiche sia di professionalità sia di indipendenza e non possono essere riconfermati nell’incarico e durante lo svolgimento dell’incarico non possono svolgere nessun altra attività professionale. Questi hanno anche autonomia amministrativa ma nei limiti dei fondi che gli vengono erogati dallo stato.

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