diventare comunitÀ - menta e rosmarino...eppure c’è qualcosa di quel paese di cui anche og-gi...

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N essun pittore ha saputo cogliere l’essenza della cultura contadina nel ter- ritorio delle Prealpi come Innocente Salvini; è riuscito a farlo in una for- ma esteticamente inquieta che ne esalta la sostanza intimamente sacra. Aggiungerei il fatto, per me non irrilevante, di avere conosciuto il maestro e di avere frequentato il mulino di Cocquio nella prima metà degli anni Sessanta, in una situazione prossima alla famigliarità; e di averne un ricordo che oggi singo- larmente corrisponde ai miei interessi per la tradizione orale. Il mulino. Senza il mulino non si può capire Innocente, ancorché egli non sia sta- to mugnaio; ma lì egli nasce e cresce, in una famiglia che da lungo tempo eserci- ta la professione: la roggia, la ruota, la “macchina”, le persone, gli animali sono il Segue a pag. 4 H o sempre avuto simpatia per gli umili, per quelli che non temo- no di parlare il dialetto di fron- te al notaio e che quando intercalano in “lingua” lo fanno tenendo la tesa del cappello con due mani e la testa un tan- tino china. Ubaldo appartiene a questa categoria. Di professione fa il muratore ed è forte come un toro. Non l’ho mai visto ri- sparmiarsi sul lavoro e neppure dire di no ad una richiesta di aiuto. E il suo “ita- liano” è colto nonostante tutto. Ha il cuore di un poeta lui e la sensibilità di un “troubador” provenzale. Di me ha stima. Dice che la so lunga ma che gli studi non mi hanno rovinato, cosa che non mi impedisce quindi di aggregarmi a lui in qualche bisboccia serale. A lui e al Mario, altro raro esponente di questa “lower clas” che tanto stuzzica la mia fantasia. In effetti dove se non qui, su queste bassure, puoi vedere un asino vo- lare o un lago che si prosciuga da solo o una rana che parla? L’asino in questione è giovane, ha po- che settimane di vita e non supera cre- do il mezzo quintale. Riposa beata- mente in un rustico di Orino che l’U- baldo sta ristrutturando e di cui detiene le chiavi. Il lettore si chiederà cosa c’en- tra un asino con le nostre storie e per di più di Orino. C’entra. Se non altro per- chè la storia comincia al Circolo di Cal- dana e si sa, è sempre l’inizio che mar- chia le vicende a venire. Dunque dopo il terzo grappino l’asino diventa l’argo- mento principale della conversazione. “Dobbiamo portarlo a letto” dice l’U- baldo e la sua lingua sembra un tanti- no impastata. “Come a letto?”, ribatto, “Si, a letto”, Segue a pag. 3 UN FILO DA ANNODARE DIVENTARE COMUNITÀ DI AMERIGO GIORGETTI S o di entrare in un ginepraio, quando cerco di rispondere ad una do- manda insistente di Menta & Rosmarino: quale sarà, se ci sarà, il futuro del paese? Se ci sarà, il filo spezzato da annodare, aggrovigliato fra ambiente e storia, dovrà mettere in collegamento due realtà che si vorrebbero sullo stesso per- corso, ma anche separate fra loro da un vistoso nodo, da una rottura non ri- mediabile: l’antica comunità di villaggio e la futura comunità globale. La domanda da dieci milioni riguarda la possibilità di esistenza di una co- munità locale, al di fuori di quelle particolari condizioni che l’hanno resa possibile per più di un millennio. Sul numero di marzo 2002 del giornale ho letto con grande curiosità le ri- sposte ad una delle Dieci domande agli Amministratori: “del paese della tradi- zione, vale la pena di salvare qualcosa”? Non posso che condividere tutte e tre le risposte, che in fondo sottolinea- no tre diversi aspetti del problema, per niente in contrapposizione fra loro. Claudio Molinari ci dice senza tanti complimenti che “si stava peggio, quan- do si stava peggio”; non abbiamo nessuna difficoltà con lui a buttare via la mi- seria e la povertà. In effetti, bene come oggi non si è mai stati. Che si stava me- glio prima, lasciamolo pensare a qualche nostalgico o a qualche ragazzino che è nato l’altro ieri e che non gli hanno spiegato la storia. Quel paese che la no- stalgia ha addolcito di leggende era una realtà dura e spietata, soprattutto nei confronti dei deboli e dei diversi. Ma era dura e spietata con tutti. Erano i tempi in cui i vecchi non riuscivano a tirare la fine dell’inverno. In cui l’altis- sima mortalità infantile si accompagnava con il disprezzo dei più elementa- ri diritti dei bambini. Quando non c’era più niente da mangiare, erano loro i primi a morire di fame. L’ignoranza e la mancanza di igiene diffondevano malattie endemiche e miserie di ogni tipo. Senza poi contare il fatto che gran parte degli individui vivevano in uno stato di perenne sudditanza, sempre sotto l’occhio del padrone al momento dei raccolti e nell’intimità della fa- miglia. Certo, nel primo Novecento i contadini riuscirono a comprare un po’ Segue a pag. 2 M osè Bianchi -Cim itero di Caldana,cappella M öerlin. (Foto di Giancarlo Cassani) Q uando il freddo delle stagioni spingeva la gente dentro le case tenendo per mano i bambini, la nostra, era uno di quei casoni sparsi nel- la nebbia della pianura padana, un go- mitolo di storie, tutte uguali, mai noio- se, sempre con personaggi esilaranti che ci facevano morir dal ridere o terrifican- ti da farci tremare di paura. E ci stavamo tutti davanti alle stufe con gli occhi sgranati sui caminetti o addi- rittura dentro le stalle a sentire i raccon- ti degli anziani sulla guerra appena fini- ta, sulla fame, o sulle “tragedie” dei pri- mi incidenti stradali. Allora non si leg- gevano i giornali come ora, e la televi- sione era per pochi, i più ricchi come sempre. Io ero nato in campagna, quindi nien- te videogames, niente giocattoli, niente bagno in casa, per quei bisogni c’erano i vasi da notte, quelli bianchi smaltati con il manico bello largo per tenerlo be- ne e non cadere lungo le scale di legno. I pitali si tenevano sotto il letto in corri- spondenza dei piedi, niente acqua cor- rente ma enormi mastelli di legno den- tro cui ci si lavava con l’ausilio di gran- di spazzole sulla schiena percorsa dal giallo sapone giallo di Marsiglia. Le sto- rie, per nascere, avevano bisogno di si- lenzio, e in pianura lungo la saccisica, un’antica via romana, abbandonata al sole o nella solitudine della sizara la neb- bia che a vederla sui rami sembrava ne- ve tanto faceva freddo, il silenzio pro- prio non mancava. I casolari sembrava- no, di notte, con le debolissime luci dei focolari, solitari e impauriti cantori cie- chi, pronti alle prime luci dell’alba a dar di se stessi brava e testarda testimonianza. Segue a pag. 3 Profumo di gelsomino DI ROMANO OLDRINI IL SORRISO DEGLI ETRUSCHI DI DINO AZZALIN Per dare “gusto, sapore e profumo” alla vita del paese N. 4 - Aprile 2003 AUTOSCUOLA FERRARI GAVIRATE (VA) Via M aggioni, 19 Tel. 0332 743110 A UTOSCUOLA FERRARI GAVIRATE (VA) Via M aggioni, 19 Tel. 0332 743110 INNOCENTE SALVINI INNOCENTE SALVINI (Preghiere con il pennello) DI LUIGI STADERA1932 -Il m aestro Salvini con i bam bini della scuola elem entare di Caldana. GIORNALE.qxd 17/04/2003 20.24 Pagina 1

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Page 1: DIVENTARE COMUNITÀ - Menta e Rosmarino...Eppure c’è qualcosa di quel paese di cui anche og-gi non riusciamo a fare a meno nel paese di ben-godi in cui viviamo: la solidarietà

Nessun pittore ha saputo cogliere l’essenza della cultura contadina nel ter-ritorio delle Prealpi come Innocente Salvini; è riuscito a farlo in una for-ma esteticamente inquieta che ne esalta la sostanza intimamente sacra.

Aggiungerei il fatto, per me non irrilevante, di avere conosciuto il maestro e diavere frequentato il mulino di Cocquio nella prima metà degli anni Sessanta, inuna situazione prossima alla famigliarità; e di averne un ricordo che oggi singo-larmente corrisponde ai miei interessi per la tradizione orale.

Il mulino. Senza il mulino non si può capire Innocente, ancorché egli non sia sta-to mugnaio; ma lì egli nasce e cresce, in una famiglia che da lungo tempo eserci-ta la professione: la roggia, la ruota, la “macchina”, le persone, gli animali sono il

Segue a pag. 4

Ho sempre avuto simpatia per gliumili, per quelli che non temo-no di parlare il dialetto di fron-

te al notaio e che quando intercalano in“lingua” lo fanno tenendo la tesa delcappello con due mani e la testa un tan-tino china.

Ubaldo appartiene a questa categoria.Di professione fa il muratore ed è fortecome un toro. Non l’ho mai visto ri-sparmiarsi sul lavoro e neppure dire dino ad una richiesta di aiuto. E il suo “ita-liano” è colto nonostante tutto. Ha ilcuore di un poeta lui e la sensibilità diun “troubador” provenzale. Di me hastima. Dice che la so lunga ma che glistudi non mi hanno rovinato, cosa chenon mi impedisce quindi di aggregarmia lui in qualche bisboccia serale. A lui eal Mario, altro raro esponente di questa“lower clas” che tanto stuzzica la miafantasia. In effetti dove se non qui, su

queste bassure, puoi vedere un asino vo-lare o un lago che si prosciuga da solo ouna rana che parla?

L’asino in questione è giovane, ha po-che settimane di vita e non supera cre-do il mezzo quintale. Riposa beata-mente in un rustico di Orino che l’U-baldo sta ristrutturando e di cui detienele chiavi. Il lettore si chiederà cosa c’en-tra un asino con le nostre storie e per dipiù di Orino. C’entra. Se non altro per-chè la storia comincia al Circolo di Cal-dana e si sa, è sempre l’inizio che mar-chia le vicende a venire. Dunque dopoil terzo grappino l’asino diventa l’argo-mento principale della conversazione.“Dobbiamo portarlo a letto” dice l’U-baldo e la sua lingua sembra un tanti-no impastata.

“Come a letto?”, ribatto, “Si, a letto”,Segue a pag. 3

UN FILO DA ANNODARE

DIVENTARE COMUNITÀ— DI AMERIGO GIORGETTI —

So di entrare in un ginepraio, quando cerco di rispondere ad una do-manda insistente di Menta & Rosmarino: quale sarà, se ci sarà, il futurodel paese?

Se ci sarà, il filo spezzato da annodare, aggrovigliato fra ambiente e storia,dovrà mettere in collegamento due realtà che si vorrebbero sullo stesso per-corso, ma anche separate fra loro da un vistoso nodo, da una rottura non ri-mediabile: l’antica comunità di villaggio e la futura comunità globale.

La domanda da dieci milioni riguarda la possibilità di esistenza di una co-munità locale, al di fuori di quelle particolari condizioni che l’hanno resapossibile per più di un millennio.

Sul numero di marzo 2002 del giornale ho letto con grande curiosità le ri-sposte ad una delle Dieci domande agli Amministratori: “del paese della tradi-zione, vale la pena di salvare qualcosa”?

Non posso che condividere tutte e tre le risposte, che in fondo sottolinea-no tre diversi aspetti del problema, per niente in contrapposizione fra loro.

Claudio Molinari ci dice senza tanti complimenti che “si stava peggio, quan-do si stava peggio”; non abbiamo nessuna difficoltà con lui a buttare via la mi-seria e la povertà. In effetti, bene come oggi non si è mai stati. Che si stava me-glio prima, lasciamolo pensare a qualche nostalgico o a qualche ragazzino cheè nato l’altro ieri e che non gli hanno spiegato la storia. Quel paese che la no-stalgia ha addolcito di leggende era una realtà dura e spietata, soprattutto neiconfronti dei deboli e dei diversi. Ma era dura e spietata con tutti. Erano itempi in cui i vecchi non riuscivano a tirare la fine dell’inverno. In cui l’altis-sima mortalità infantile si accompagnava con il disprezzo dei più elementa-ri diritti dei bambini. Quando non c’era più niente da mangiare, erano loroi primi a morire di fame. L’ignoranza e la mancanza di igiene diffondevanomalattie endemiche e miserie di ogni tipo. Senza poi contare il fatto che granparte degli individui vivevano in uno stato di perenne sudditanza, sempresotto l’occhio del padrone al momento dei raccolti e nell’intimità della fa-miglia. Certo, nel primo Novecento i contadini riuscirono a comprare un po’

Segue a pag. 2

M osè Bianchi - Cim itero di Caldana, cappella M öerlin. (Foto di Giancarlo Cassani)

Quando il freddo delle stagionispingeva la gente dentro le casetenendo per mano i bambini, la

nostra, era uno di quei casoni sparsi nel-la nebbia della pianura padana, un go-mitolo di storie, tutte uguali, mai noio-se, sempre con personaggi esilaranti checi facevano morir dal ridere o terrifican-ti da farci tremare di paura.

E ci stavamo tutti davanti alle stufe congli occhi sgranati sui caminetti o addi-rittura dentro le stalle a sentire i raccon-ti degli anziani sulla guerra appena fini-ta, sulla fame, o sulle “tragedie” dei pri-mi incidenti stradali. Allora non si leg-gevano i giornali come ora, e la televi-sione era per pochi, i più ricchi comesempre.

Io ero nato in campagna, quindi nien-te videogames, niente giocattoli, nientebagno in casa, per quei bisogni c’erano

i vasi da notte, quelli bianchi smaltaticon il manico bello largo per tenerlo be-ne e non cadere lungo le scale di legno.I pitali si tenevano sotto il letto in corri-spondenza dei piedi, niente acqua cor-rente ma enormi mastelli di legno den-tro cui ci si lavava con l’ausilio di gran-di spazzole sulla schiena percorsa dalgiallo sapone giallo di Marsiglia. Le sto-rie, per nascere, avevano bisogno di si-lenzio, e in pianura lungo la saccisica,un’antica via romana, abbandonata alsole o nella solitudine della sizara la neb-bia che a vederla sui rami sembrava ne-ve tanto faceva freddo, il silenzio pro-prio non mancava. I casolari sembrava-no, di notte, con le debolissime luci deifocolari, solitari e impauriti cantori cie-chi, pronti alle prime luci dell’alba a dardi se stessi brava e testarda testimonianza.

Segue a pag. 3

Profumo di gelsomino— DI ROMANO OLDRINI —

IL SORRISO DEGLI ETRUSCHI— DI DINO AZZALIN —

Per dare “gusto, sapore e profumo” alla vita del paese

N. 4 - Aprile 2003

AUTOSCUOLAFERRARI

GAVIRATE (VA)Via M aggioni, 19Tel. 0332 743110

AUTOSCUOLAFERRARI

GAVIRATE (VA)Via M aggioni, 19Tel. 0332 743110

INNOCENTE SALVINIINNOCENTE SALVINI(Preghiere con il pennello)

— DI LUIGI STADERA—

1932 - Il m aestro Salvini con i bam bini della scuola elem entare di Caldana.

GIORNALE.qxd 17/04/2003 20.24 Pagina 1

Page 2: DIVENTARE COMUNITÀ - Menta e Rosmarino...Eppure c’è qualcosa di quel paese di cui anche og-gi non riusciamo a fare a meno nel paese di ben-godi in cui viviamo: la solidarietà

2 N. 4 - Aprile 2003

Segue: Diventare comunità

di terra e a liberarsi da ataviche prepotenze; ma le lo-ro condizioni materiali non cambiarono di molto ri-spetto a prima. Le inchieste parlamentari del neona-to stato italiano gettano una luce sinistra sulle con-dizioni di vita delle generazioni che ci hanno prece-duto, fra stenti, denutrizione, malattie, ignoranza.

E’ fin troppo evidente che non è questo il paese acui vogliamo riallacciarci.

Eppure c’è qualcosa di quel paese di cui anche og-gi non riusciamo a fare a meno nel paese di ben-godi in cui viviamo: la solidarietà.

Il Molinari suggerisce quindi il recuperoe la valorizzazione della tradizione locale,che si esprime nel valore della solidarietàche lega le diverse generazioni. In partico-lare, a suo e nostro giudizio, è necessarioacquisire un nuovo senso del valore dellecose, attraverso il superamento dell’atteg-giamento consumistico.

La solidarietà è un valore, che non passadi moda o che si può usare e gettare: è ilmettere in comune beni e bisogni. E quidobbiamo parlare chiaro, perché la parolasolidarietà gira nei discorsi di tutti i giorniin significati perversi. Quando uno è tantoricco che ha roba da buttare, avrebbe la fa-coltà di lasciare cadere qualche avanzo delpasto a gente che non è mai riuscita a sfa-marsi. Questa non è mica solidarietà. Si èconiato perfino il “federalismo solidale”,per cui ognuno pensa alle sue tasche e con-temporaneamente a quelle degli altri. Co-sì almeno non scoppiano le contraddizio-ni insite nello squilibrio socio economicoa livello nazionale.

Essere solidali non è fare la carità, ma pa-gare le spese “in solido”, come scrivevanogli antichi notai, se abbiamo un debito; e seabbiamo un credito, intascare insieme.

Insomma, solidarietà è lo stesso di con-divisione, scelta quanto mai difficile e inat-tuale, ma l’unica che possa ricostruire unacomunità, sulla base dell’antico e semprenuovo principio dell’uguaglianza.

Vorrei aggiungere che la solidarietà pog-gia su un altro valore assai poco di moda:la povertà. Quando si era tutti poveri eramolto facile aiutarsi, mentre ora che nonlo siamo più è quasi impossibile. I nostrivecchi lasciavano sempre aperta la porta dicasa, non solo perché non avevano nienteda farsi rubare, ma anche perché un piattodi minestra era sempre a disposizione per tutti.

La povertà è la libertà nell’uso dei propri beni, an-che se il termine suona in negativo, come penuriadi mezzi. Povertà è l’atteggiamento di chi nelle suescelte non si lascia condizionare da ragioni esclusi-vamente economiche, e dunque è in grado di sce-gliere anche il bene di chi gli sta attorno. Viene quia proposito la necessità di cambiare un stile di vita,oggi fondato sulla miseria dello sperpero, e nonsulla ricchezza della povertà. Si butta tutto in pat-tumiera: pane, medicine, vestiti, coperte, senza nem-meno pensare che la maggior parte dell’umanità neè priva. Questa è una colpa di cui presto o tardi do-vremo rendere conto.

La povertà è la scelta dei santi e la necessità diquasi tutti gli altri.

Come si fa a dar torto a Mario Ballarin quandodice che la realtà di oggi è completamente diversada quella del paese di una volta? A noi piacerebbevivere in una comunità, mentre siamo costretti a vi-vere in una società. Una comunità è un gruppo incui tutti si conoscono e provano profondi senti-menti reciproci, magari anche di avversione; in cuile leggi sono rispettate perché non sono scritte; incui ciò che accade ad una persona è come se acca-desse a tutte. In una società se qualcuno muore perstrada, se ne accorgono quando incomincia a puz-zare; il tuo inquilino lo conosci solo perché ha unatarghetta sulla porta; ciò che conta è il tuo portafo-gli, crepino tutti gli altri.

La contrapposizione fra società e comunità è sta-ta teorizzata alla fine dell’Ottocento da un grandesociologo tedesco, Ferdinad Tönnies, che scriveva:“La teoria della società muove dalla costruzione diuna cerchia di uomini che, come nella comunità,vivono e abitano pacificamente l’uno accanto al-l’altro, ma che sono non già essenzialmente legati,

bensì essenzialmente separati, nonostante tutti i le-gami, mentre là rimangono legati, nonostante tut-te le separazioni”. Questa definizione bene si ap-plica a quella comunità vicinale che era il paese diuna volta, dove la diversità era avvolta da una fittarete di legami indissolubili.

Questa comunità paesana è un passato non piùpresente, dato che è stata sostituita da una societàfondata sui diritti individuali delle rivoluzioni bor-ghesi, ma ciò non significa che non esista più alcu-na forma comunitaria: la comunità è un presente,non solo un paradiso perduto, anche se oggi ha per-

so la sua rilevanza pubblica e istituzionale.La famiglia è una comunità ancora esistente, no-

nostante i brutti momenti che sta passando. La fa-miglia non può ridursi ad una microsocietà, rego-lata da una precisa normativa giuridica (diritti e do-veri, relazione di coppia, obbligo verso i figli, etc.),essendo nella sua sostanza una convivenza che coin-volge gli strati più profondi degli affetti e della vo-lontà. Il diritto di famiglia si limita invece ad affer-mare in negativo ciò che attiene agli aspetti este-riori di tale convivenza: come l’obbligo della tute-la dei figli, la parità dei due coniugi, la proceduraper la separazione e il divorzio; non può entrare nelmerito dell’essenza comunitaria della famiglia, unvincolo indissolubile di amore e solidarietà, chepermane fra un uomo euna donna, per esten-dersi fino a stringere a séle generazioni passate efuture.

Forma una comunità,sia pure provvisoria nelsuo statuto, il gruppo diamici che si mette intor-no al fuoco (come scriveBallarin) e incomincia araccontare la storia, quel-la in cui tutti si trovano.Basti dire che sono statiragazzi insieme pocotempo prima, che hannovissuto insieme le piùimportanti esperienzedella vita, durante unabattuta di caccia o in untorneo di pallone o inqualche bravata incon-

fessabile. Questo forte legame, a sentire Cicerone,potrebbe spezzarsi solo per due motivi: donne e po-litica. Ma non è detto che si spezzi. I traguardi piùimportanti della scienza, dell’arte e della politicasono stati tagliati dall’amicizia.

Ora questi amici sono lì intorno al fuoco, e ma-gari scaldano una sana bottiglia di vino rosso in at-tesa che termini la cottura dei selvatici in padella.Sono tutti diversi come condizione sociale o pro-fessione, eppure sono un “noi” e parlano semprealla prima persona plurale. E’ chiaro che la mattinadopo ognuno ritorna al suo posto nella società,

ognuno estraneo all’altro, ma profonda-mente convinto che le cose che contanoveramente nella vita sono quelle che sipossiedono in comune, come quelle chefondano la vera amicizia.Nella società in cui viviamo c’è un biso-gno spesso disperato di comunità. Nonpuò esistere società senza comunità, no-nostante i progressi della tecnica e dell’e-conomia, che vanno verso l’autosufficien-za del singolo individuo.Moltissimi intellettuali considerano il bi-sogno di comunità una specie di nostal-gia reazionaria del passato, un arcaico re-siduo duro a morire dell’umanità avviataverso la piena realizzazione della felicitàpossibile.Le cose stanno purtroppo diversamente,poiché la rottura più o meno completa deivincoli comunitari ha svelato l’ingiustiziae la disumanità del mondo fondato sullasoddisfazione di bisogni individuali, incui si aggrava di anno in anno il dislivel-lo fra i poveri e i ricchi, in cui l’afferma-zione teorica dei diritti è accompagnata daun permanente violazione degli stessi, an-che all’interno della società opulenta.La comunità non è dunque un passato,ma un impegno per il futuro. Ecco perchéè indispensabile che ci prendiamo curadella piccola grande storia che ha comeoggetto la nostra comunità paesana, dive-nuta ai nostri occhi contemporanei, darealtà reietta e emarginata, modello edesempio per la costruzione di un mondopiù nuovo.Mario Cazzani è di questo stesso parere,di “salvare tutto ciò che è legato alla nostrastoria e cultura”, con l’avvertenza, che misembra ovvia, che il recupero non può ri-

dursi ad un’operazione di facciata, come quella ditradurre in dialetto i cartelli stradali. Tutti gli uo-mini seri e onesti non l’hanno mai pensato. Vi im-maginate se in un futuro non molto remoto pre-tendessero il loro dialetto sui cartelli anche i filip-pini, i maghrebini, i curdi e gli albanesi?

Una comunità non può che essere cementata dauna comune memoria o meglio dalla memoria diessere stata comunità. La costruzione della memo-ria è il progetto più importante che deve essere rea-lizzato da tutti coloro che cercano nel passato i va-lori su cui costruire una comunità nuova, che ri-sponda alle sfide del mondo globalizzato, metten-do al primo posto la solidarietà e non la soddisfa-zione dei bisogni individuali.

Menta e RosmarinoREG. N. 819 DEL 1 OTTOBRE 2001 PRESSO IL TRIBUNALE DI VARESE

Direttore Responsabile: Alberto Palazzi Vice Direttore: Giuseppe Cassarà

Comitato operativo e redazionale: Silvana Becher, Liliana Broglio (Tesoriere), Alessandro Brunella, Nuccia Cassarà,

Pietro Cavalieri, Luca Caveada, Luciana Ciglia, Alessandro De Buck, Stefano Del Vitto,Marco De Maddalena, Miriam Menna, Amerigo Giorgetti, Don Santino Laudi,

Federica Lucchini, Giovanna Meloni (Segretaria), Enrico Minazzi, Ubaldo Minenza,Luciana Ossola, Roberto Ravanelli, Roberto Vegezzi, Giovanna Valvassori.

Hanno collaborato a questo numero:Dino Azzalin, Gian Franco Bastari, Bruno Bertagna, Francesco Biasoli, Stefano Bortoli,

Lina Buzzi, Carlo Cavalli, Gregorio Cerini, Carolina Crugnola, Chiara Gatti,Mauro Marchesotti, Romano Oldrini, Aurelio Pollicini, Gianni Pozzi,

Marina Raineri, Luigi Stadera.

Prezioso l’apporto di Valeria Palazzi e Annibale Valvassori per l’elaborazione dei testi.

Impaginazione e stampa: Arti Grafiche Aricocchi - CaravateSTAMPATO SU CARTA DI ALTA QUALITÀ ECOLOGICA, TUTTA RICICLATA - TIRATURA N. 2200 COPIE

Innocente Salvini - “Il fratello Giuseppe” - Disegno su carta, 1934.

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Segue: Profumo di gelsomino

conferma il Mario e il suo tono sembra inappellabile,“è ancora giovane e di notte comincia a fare frescoli-no”. Non ho la forza di ribattere. Tre grappe per unocome me sono un colpo al cuore. Via allora verso Ori-no sulla mia scassata Fìat 1100 103. L’asino è quieto,sta riposando e non sembra preoccupato dal nostroaffaccendarsi. “Ecco Mario, prendi questa corda.” E lafissa l’Ubaldo attorno ai lombi della bestia, giro dopogiro come un salame, e si mette a tirare e Mario dietroche lo spinge.

L’asino recalcitra, stronfia, ma poi obbedisce pa-ziente su per la scala verso la “stanza da letto", versoil terapeutico riposo. “Cristo Mario, hanno rubato illetto!”

E si guarda attorno l’Ubaldo, stropiccia gli occhi, maproprio il letto non c’è.

Mario inizia a smoccolare, contro il governo, con-tro i ladri, contro questi barboni che non hanno pietàneppure per un povero asinello lattonzolo e chiede ame “che ho studiato, che conosco le leggi” di interve-nire, di fare qualcosa.

“Qui l’unica cosa da fare, ragazzi, è riportarlo giù,questi scricchiolii proprio non mi piacciono.”Ma chimai ha detto che scendere è più facile che salire? Nien-te da fare. L’asino si impunta e neppure la forza diUbaldo lo smuove. Che fare? Se nè la forza, la logica,l'intelligenza insomma bastano? Diamine! Nessunapaura, se si bazzica (come si bazzica) la “fantasia deipoveri”, la “pazzia degli eccentrici”. Ancora l’Ubaldoprende in mano la situazione. “Tu scendi Romano,aspetta giù sotto, lo scarrucoliamo dalla fìnestra”.

E in quattro e quattr’otto impianta una sommariacarrucola e comincia a spingere la bestia imbragataverso la finestra. E Mario dietro a dare corda, a gover-nare la spinta mentre io sotto, con lo sguardo alla lu-na, io che lo vedo spuntare, dapprima il muso, poi leorecchie e via via tutto il resto, fino alla fava, ben sal-

da questa e diritta (la prima volta? l’imbragaturache stringe?), diritta fino allo scroscio, al regalo zam-pillante di sapido impasto di urinoso sentore.

Ecco fatto “chiosa l’Ubaldo ad operazione con-clusa. L’asino riposa ora soddisfatto sulla sua let-tiera a piano terra. E la fava è quieta, morbida, benprotetta dal calore degli inguini.

Solo io ho qualcosa da recriminare oltre alla se-te, ed è un pizzicante sentore acido, un alitare uri-noso che riempie l’abitacolo della FIAT e questi ca-pelli, così impastati, così cilapposi, possibile solol’urina?”

A Cerro, andiamo a Cerro, quell’acqua “è fresca edè pure miracolosa!”. L’auspicio è corale e l'acqua èdavvero fresca secondo le aspettative; e anche sal-vifica se non fosse per l’osteria ancora aperta e perl’ennesimo giro di grappini. Stavolta la botta è de-finitiva. Anche se devo guidare, riportare i due com-pari a Gavirate e sperare di non essere visto, io ra-gazzo di buona famiglia, io a zonzo con due “bra-vacci”, due “balordi” simili. Ma ancora I’Ubaldo:“Se non vuoi essere visto” e mi concede un “ti ca-pisco!”, l’unica cosa è spegnere tutti i lampioni”.

E detto e fatto tira fuori non so da dove un Floberte via a impallinare le lampadine, lui che è alla sestagrappa e che non ne sbaglia una. Mentre Mario, almio fianco, fa da navigatore:

“Alt! Accostati, eccone un altro, spara!”. Arrivatisul Viale Verbano l’acqua del Cerro comincia final-mente a funzionare, il tasso alcolico si diluisce, lenebbie cominciano a diradarsi. Solo una cosa miresiste, al basso ventre questa, ed è una feroce, lapi-dea, voglia di mingere ma l’odore di urina comin-cia miracolosamente a convertirsi in profumo digelsomino.

3N. 4 - Aprile 2003

Segue: Il sorriso degli Etruschi

Le storie erano più o menoascoltabili a seconda del tim-bro di voce del “contastorie” ilquale a volte improvvisava fa-volosi e impareggiabili scena-ri che nessuno osava metterein dubbio per l’aura mitica eimpraticabile che aleggiava nelviso fantastico dei loro miste-riosi e lontani protagonisti.

I nostri visi erano quelli deibambini d’ogni parte del mon-do, la stessa sensibilità, la stes-sa voglia di vivere altre vitenell’ascolto delle cose di sem-pre, ripetute come le fiabe dioggi che racconto a mio figliomille volte, per finire nelle me-ravigliose bolle dei suoi sogni.E come se non ce le ricordassimo noi bambini di allora, ci piaceva riascoltarle, per raccontarle a nostravolta altre mille volte. Di quei racconti come una sorta di magia che non si ripete o non si scrive, non ri-mane traccia, così come gli Etruschi non hanno lasciato niente di scritto ma hanno impresso della lorointelligenza e sensibilità anche le pietre, così come la memoria dei bambini diventa oggi racconto degliadulti, che si fa tenendo un sorriso stampato sulle labbra, lo stesso sorriso di allora, come quello degliEtruschi.

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4 N. 4 - Aprile 2003

Segue: Innocente Salvini

mondo della sua infanzia, dove si concentrano tutte le cose e tutti i messaggi chene possono scaturire. A parte la suggestione che il luogo in cui sorge il mulinocontinua ad ispirare.

Sono questi i soggetti della pittura di Salvini, animati da uno spirito che l’am-biente stesso gli rivela; a cominciare dalla famiglia, portatrice di una religione del-

le cose che affonda le radici in un passato lontano; che è si profondamente cristiana,ma non di un cristianesimo da catechismo, se mai evangelico: viene in mente laparabola dei talenti e la decisione coraggiosa di non seppellire quello pittoricodel figlio, ma di farlo fruttificare. E poi la funzione molitoria, che è uno snodo es-senziale della civiltà contadina: quando la terra ha compiuto il ciclo produttivo,le granaglie affluiscono al mulino, che le macina per nutrirne l’uomo. Qui “il pa-ne quotidiano” non è soltanto una preghiera, ma un evento concreto che si ripe-te da sempre.

Eppure il mulino è molto di più, è il “cuore” del mondo agricolo, il luogo dovetutti si incontrano e si confrontano, ricomponendo l’ordito e la trama del tessutosociale, dal dominus al clericus agli homines: è il "microcosmo nel quale si riflet-te il macrocosmo del mondo” (Testori).

E dunque Salvini è tutt’altro che un isolato, come si è detto; vive al centro di ununiverso che gli parla e che egli dipinge.

Punti fermi. La critica (quando finalmente “scopre” l’artista) non manca di av-vertire la dimensione “contadina” del suo lavoro e di segnalarne le implicazioni;

così come sottolinea l'apparente dicotomia fra la materia e lo stile, che è di respi-ro internazionale, nell’ambito del nascente espressionismo.

Un giorno Innocente mi portò, quasi di nascosto, in un locale chiuso a chiavedella torretta sovrastante l’ingresso del mulino: c’erano le prime tele, la “prova” del-la sua intuizione precoce degli sviluppi della pittura europea. Un altro punto con-cordemente rilevato è la relazione luce-colore. Se all’inizio il cromatismo di Sal-vini crea sconcerto (forse fraintendendo quella sua uscita: “il colore è per me co-me un delirio”), alla fine è palese che con i colori egli cattura la luce. Anche quiho un ricordo personale, di una volta che eravamo in cortile ed egli disse: “Ecco,era proprio qui (la sorella) e il sole batteva sulle sue mani: era un incendio, altroche il rosso del mio dipinto!”. Si era come trasfigurato, rivivendo quella sensazio-ne: quel “delirio”, appunto. Testori ha insistito sull’afflato religioso delle creazio-ni di Salvini: e non si può non essere d’accordo; egli stesso era sinceramente de-voto, ma senza nulla di bigotto, e dietro la sua modestia, tutta cristiana, era per-fettamente consapevole dell’importanza della sua opera, della “lettura” che an-dava facendo del lascito dei padri, della “invenzione di verità” che ne ritraeva. Quista la religione di Innocente, una sacralità nata, prima di ogni chiesa, nel rappor-to con la terra, dalla quale siamo venuti e alla quale ritorniamo, ma che nel frat-tempo ci dà di che vivere, organizzando nel suo seno la nostra esistenza (potreb-be essere una didascalia per il dipinto “la colazione”).

Oralità e coralità. Io farei un passo più in là e direi che la pittura di Salvini è unapittura orale e dialettale; non soltanto perché la lingua della tradizione è il dialet-to, ma perché mi sembra di intravedere nessi più profondi. Intanto, quando av-verte la necessità di comunicare e di rappresentare, l’uomo ricorre alla parola e aldisegno; la scrittura viene molto più tardi e i suoi segni registrano semplicemen-te il suono delle parole. Poi, come l’arte di Innocente, la cultura orale fiorisce inun luogo circoscritto e ne approfondisce le caratteristiche, scoprendo simboli evalori assoluti. Su un altro piano, lo stile di Salvini va ben oltre i confini locali, co-sì come il vernacolo di una piccola etnia s'intreccia con le lingue dei popoli dimezzo mondo.

Penso ancora alla retorica, all’enfasi della parola parlata, necessarie per ricorda-re, ma soprattutto per rendere con evidenza le cose e quello che sta sotto le cose eper convincerne gli altri: come non attribuire un ruolo analogo all’uso del coloreda parte di Salvini?

Farei un’ultima considerazione. La sua pittura si colloca in un luogo e in un tem-po determinati, ma in effetti riassume modelli e sentimenti di antichissima data.Nè più e nè meno della tradizione orale, che è il sedimento di una storia millenaria,evocata (per riprendere un’immagine di Gavino Ledda) da un suono remoto, quel-lo della lingua materna. E’ il dialetto che accomuna i parlanti, fondando una co-ralità in cui propriamente consiste la tradizione. L’arte di Salvini ha questo carat-tere corale, nel senso che il mondo contadino vi si riconosce e vi ritrova la sacra-lità delle origini: come se i suoi quadri fossero preghiere popolari (orali e dialet-tali).

Ma forse tutto questo per Innocente non aveva nulla di problematico, era il suomodo naturale di essere; tant’è vero che due giorni prima di morire, presagendola fine, disse a una nipote: “Peccato, è bello vivere e dipingere”.

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5N. 4 - Aprile 2003

Di Gianni Rodari (1920-1980), Giovanni al-l'anagrafe, noto scrittore per l’infanzia mol-to si scrive e si è scritto. A Gavirate, dove ha

vissuto molti anni, gli è stata anche intitolata unapiazza e la cittadina gli ha dedicato alcune manife-stazioni e commemorazioni.

“Gianni Rodari nacque il 23 ottobre 1920 a Omegna,centro sulle sponde del Lago d’Orta, in provincia di No-vara, da genitori lombardi, originari della Valcuvia, nel Va-resotto” così si legge in una pubblicazione di qual-che anno fa. (L. Caimi - F. Lucchini, Gianni Rodari aGavirate: gli anni giovanili, Gavirate 1995). Quell’ori-gine valcuviana è da ricercarsi nella madre di Gemo-nio e nel padre Giuseppe. Suo padre Giuseppe era ap-punto di Caldana di Cocquio, ed era a sua volta figliodi Giovanni e della gemoniese Visconti Carolina.

Giuseppe Rodari, nato a Trevisago nel 1878, cometanti giovani di quel tempo aveva lasciato la sua ter-ra per cercare lavoro, dapprima ad Intra poi a Piedi-mulera in Piemonte, riuscendo poi a mettersi in pro-prio, con un forno da panificazione, ad Omegna, sulLago d’Orta.

Qui, dopo aver messo famiglia ed avuto anche unfiglio (Mario), rimane vedovo e, come in uso in queitempi, probabilmente grazie ad un “sensale” localesi risposa in seconde nozze, all’età di 41 anni, por-tando all’altare il 24 aprile 1919, Aricocchi Madda-lena. Il matrimonio, celebrato da don Cesare Moja,avviene nella chiesa parrocchiale di S. Rocco in Ge-monio, parrocchia della sposa, come si usava allora;testimoni Carlo Bodini di professione fonditore e Va-lassina Antonio di professione muratore, entrambigemoniesi come testimoniano del resto i cognomi.Maddalena era una conoscenza di famiglia visto cheuna sorella di Giuseppe, a nome Maria (natanel1883) aveva sposato il gemoniese Carlo Bodini(1873-1939), testimone a queste nozze.

La madre del nostro Gianni Rodari (ed anche del-l’altro figlio Cesare) nasce dunque a Gemonio il 7febbraio 1882 (al matrimonio ha dunque ben più ditrent’anni) da Maria Martinoja e da Abbondio Ari-cocchi; quest’ultimo di professione era “segantino”,come si scrive nell’anagrafe parrocchiale, faceva cioèdi professione il tagliaboschi. Famiglia, quella degliAricocchi, che arriva in Valcuvia ed alto varesotto nelsettecento dal Trentino, per esercitare appunto il me-stiere di taglialegna e tagliaboschi.

Della madre, che morirà a Roma dove lo aveva se-guito nel 1968, scrive nel 1953:

“A sette anni mia madre andò a lavorare in una cartiera,non lontano da Gemonio, dov’è nata e dove la conosconocome la figlia della «Mariin de Rosa». A dieci anni andòa lavorare in una filanda della Valcuvia. A quei tempi lebambine facevano anche i turni di notte. Se lavoravano digiorno, di notte dormivano in filanda sui pagliericci. Tor-navano a casa il sabato sera, cantando per la strada le li-tanie della Madonna...

A tredici anni mia madre andò a servire in casa di si-gnori. Servì in molte famiglie, in Italia e in Francia, perpiù di vent’anni. Intanto mio padre era ancor un garzo-ne panettiere, a Intra, a Piedimulera in Piemonte: poi simise su un forno a legna per conto suo, si sposò e rimasevedovo; e sposò mia madre, che aveva allora trentotto an-ni.

Di politica mio padre non s’intendeva. Ma un suo fra-tello era scappato in Svizzera dopo i moti del novantotto:era un socialista, e allora si dava la caccia ai socialisti.Mio padre non era un socialista, ma aveva lavorato ab-bastanza sotto i padroni: così non fu fascista...”.

(Articolo di G. Rodari in “L’Ordine Nuovo”, n. 22del 1 giugno 1953, riproposto in “Letteratura e popo-lo” a cura di P. Macchione, Varese , 1984).

Del padre invece, morto sul finire degli anni ven-ti, riporto alcune frasi, in veste di componimentopoetico, pubblicate nel suo diario “Giochi nell’Urss,appunti di viaggio”, pubblicato postumo per i tipi di Ei-naudi nel 1984.

“Oggi ho rivisto mio padre.Sulla porta del CaucasoHo visto d’improvvisoMio padre bambino,lontano da casa, diviso dai suoi,operaio di otto anni in un forno tra le dure montagne dell’Ossola.

Io l’ho riconosciuto nei bimbi sorridentiche mi offrivano danzando il panedella festa d’autunno,mi ha chiamato per nome dalla cupola doratadi quel grande, bellissimo pane:così sogna il pane chi ha famee solo in sogno ne sente il profumo.

Era contento, mio padre, e cantavacon le acute voci infantilicome non l’ho mai udito cantarequando era in vita.Nel mio cuore batteva forte il suo.

…”

Versi che scrive il 27 settembre 1979 a Piatigorsk(località tra il Mar nero ed il Mar Caspio, verso l’Ar-menia e l’Azerbaigian, molto lontano da Mosca do-ve era arrivato sul finire di Agosto) e che così de-scrive: “Primo giorno a Piatigorsk con un sole romano,un cielo italiano, alberi come i nostri. … Piatigorsk èuna Montecatini invecchiata, povera di commerci e di-vertimenti. La sera, un deserto. Molto verde, molto si-lenzio. Però ha 140.000 abitanti e occupa un’estensio-ne vastissima.“

E, lì in quel luogo, trova anche un ricordo moltolocale e che sorprende visto che dalla Valcuvia e dalLago maggiore era lontano da molti anni. Scriveinfatti riferendosi al monte Beshtau nel parco na-turale sul monte Masciuk: “Somiglia al monte Nudopresso Laveno. Mentre ricordo il monte Nudo, mi indi-cano una più bassa montagna a destra e mi dicono chesi chiama «Monte del Ferro»: e sopra Laveno, accantoal monte Nudo, c’è… il «Sasso del Ferro». Strane coin-cidenze!”.

Ricordi di famiglia che Rodari inserisce nei suoiscritti e che non mi pare, soprattutto quel ricordodel padre, siano stati “colti” nelle pur dettagliatebiografie locali pubblicate in epoca anche recente.A me son parsi molto significativi e degni di se-gnalazione.

I genitori di Gianni Rodari.

Gianni Rodari.

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Le radici caldanesi di Gianni Rodari— DI GIANNI POZZI —

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All’inizio furono paesaggi. Piccoli scorci a pen-

nellate larghe di luoghi conosciuti; angoli diprovincia aperti sul lago, paesaggi della Val-

cuvia e del varesotto. Storie di paese trasposte sulla te-la con il fare naturalista, erede della più pura tradi-

zione lombarda, e con i colori caldi della terra o quel-li cupi della cenere. Poco dopo vennero le prime spe-rimentazioni nel campo della ceramica e gli approc-ci, riguardosi, alla pratica di un’arte antica come quel-

la dell’incisione. Correvano allora gli anni Cinquan-ta, gli “anni della fabbrica”, dell’apprendistato pa-ziente nei laboratori della Ceramica di Laveno, dovepassavano artisti già affermati, occasione di incontro

e scambio d’opinioni o dibattiti sul metodo. Periodiintensi dedicati allo studio, all’approfondimento, al-le riflessioni sulle forme e i volumi, o sui segreti, tut-ti da testare, per estrarre dalla terra armonie di segni

e ricavare dalla lastra raffinatissime poesie d’intrecci.

Col tempo le idee si fecero, poi, più chiare, lo stile

più personale, il mestiere più certo. Lasciandosi alle

spalle i dubbi di una formazione vissuta in bilico fra

tradizione e fascino dell’inedito, Albino Reggiori haimboccato così la strada del realismo esistenziale, an-

ticamera di una più profonda e soggettiva analisi del-

la crisi del Sessantotto. Ecco allora sulle sue tele, fra

i solchi dello zinco e le porosità dell’argilla, prende-

re forma un mondo di personaggi-simbolo di undramma sociale conosciuto da vicino, sofferto in pri-

ma persona da uno che c’era passato, doppiamente,

con la sensibilità dell’artista e l’esperienza del lavo-

ratore. “Un periodo della mia vita al quale guardocon nostalgia” dice Reggiori, oggi, dallo studio della

sua casa di Mombello. Respirare, allora, l’aria inquieta

di un’epoca al bivio aveva contribuito a fornirgli gli

spunti per opere in cui il contenuto sociale dialoga-va già con la sintassi complessa di un’espressione

nuova, legata al valore del segno, al labirintico gioco

di linee che creavano sulla superficie le forme ritma-

te di architetture in divenire. Di quelle, cioè, che, dilì a poco, avrebbero assunto le forme conturbanti

delle sue cattedrali, costruzioni enigmatiche divise

fra realtà e immaginazione, fra esercizio del “mestie-

re” e divertissement. Teorie di archi, rosoni e guglie di-

vennero il filo rosso di un’indagine inesausta con-dotta in parallelo fra pittura, grafica e ceramica. Un

filo d’Arianna srotolato fra bianco e nero, colori e

smalti; perduto fra dedali d’arabeschi e preziosissi-

me cesellature. Magie di trine a rilievo memori, for-se, degli insegnamenti di Ambrogio Nicolini; l’orafo

milanese che nel ’57 sbarcò a Laveno, chiamato dal-

la Scuola di Ceramica, dove incontrò un Reggiori an-

cora timido e introverso che, affascinato dalla mae-stria del noto bulinista, trovò nei suoi consigli la chia-

ve per elaborare, nel calore della fucina, un linguag-

gio proprio, fatto di terre, inchiostri e foglie d’oro.

Gioielli di pietra dove sabbie e cartigli preziosi rac-contano vicende arcane e costruiscono geometrie in-

stabili di edifici visionari che popolano ancora le sto-

rie fragilissime di Albino Reggiori. Storie estratte dal

fuoco, levigate dal tempo; urne piene di misteri, for-

me sacre corruttibili e piccoli reperti segnati dagli an-ni. “Con quel suo volto d’eterno ragazzo, gli occhi

vivi e tondi, la voce pacata e i gesti pieni di misura pa-

re una di quelle figure d’artisti del rinascimento mol-

to fattivi nelle loro botteghe d’arte, intenti sempre ascaldar crogiuoli, stringere torchi, stampare, dise-

gnare, dipingere e formare” scriveva, di lui, Luciano

Ferriani, il maestro cocquiese che tanta stima nutri-

va per l’amico. Per le sue prime tavole dedicate allecolline della zona, al cielo delle prealpi e ai “larghi

specchi lacustri” dei quali capitava parlassero a lun-

go, fra le anticaglie del suo negozio, sulla statale di Ba-

rasso, o fra i cavalletti del suo atelier di Caldana. Unastima che aumentò, negli anni, con le conquiste diReggiori nel campo della ceramica, con la nascita del-le cattedrali e il fascino di quelle opere straordinarie

che proprio Ferriari amava definire “navi di pietra an-corate al tempo nei porti bui del medioevo e giuntea noi con le loro facciate scavate di ombre e di ritmi”.Opere create dall’alchimia occulta di un “maestro di

fuochi di grande talento”.

Chiara Gatti

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“Le se tira adre inquand el tronase ghè fo ul soo le po nii bonasel taca a piov le và a do gambe se l’è bel?cun tre gamb le fà de puntel…”Se l’è l’umbrela?El diseva sempur inscì ul scior Mentinsec me ne paia e cul nas a rampind’indua ne gota le dundava sempur viae lu el diseva: – varda me l’è bela!por ul mè nas senz’umbrela. –

- Vialt pensila me vurii – el diseva –pensila in driz o cul cuu in su, mami sum prevident me fo mia tiraa ingir dul temp. Mi sum sempur prunt,alerta, par mi, bel o brut temp, l’èsempur isctes… ghè mia me l’umbrelapar sctaa sot a pensaa, truaa rampit,scciarii l’ìntelet, e poo mia bagnaaul capel.

Pal Mentin, om guz e fin, l’umbrelal’eva ne surela. Me ne mie la menavain lecc e le ghe fava de capel e tecc.El gheva chela granda e chela penina,chela par naa al marcà, a mesa e un para negher… el se sa mai… par naaai funerai.Chela par naa al ces l’eva e pusee cunsciadacun dent un quai bocc par lasaapasaa l’aria infetada.Par naa a scposa, se l’èva invidà, ghe nevavuna cul manic scpacà, l’èva par regurdasche e sò miee, in un brut mument, ghe l’èva rotatra cupin e sentiment. Chela puse nova, l’èva

ul regal pal scpos, cun tacà un belgalin ros, poo in dul discors el ghe diseva… – fin che ul galin el rescta tacà,vor dii che ghè seren in ca, – ma se un bel di el fa tempural tiraa sul’ùmbrela e naa fo di bal l’eva nurmal.Luu senza umbrela el nava mia fora deca, sot a l’umbrela el fava tut cos,el rumeva, el nava par nos, el nava parfungg, el sapava i cucumer el dervival’umbrela sel dava i numer.Luu sot a l’umbrela el marudava me unveniscpur su e paia e se ghe dureva i caii pee in du l’umbrela lei meteva a moi.Ne volta par n’umbrelascia de caredool’ha fai ne pasiun, n’amor sctravacà arepetun, de fac nii scgunfi ul didun a furia degiraa a cercala, poo tacada su a un murunl’ha truada. L’eva de seda e me se sa i cavaler di foi de murun tiren fo ul fir.Ca sua l’eva ne ca d’umbrel. Inquandel lavava su e matin cun l’umbrela de tuti urari el vuiava l’urinari. Poo el saraval’umbrela sora al lecc e segund sel favacald o frecc el catava fo l’umbrela parl’acasiun e la meteva, prunta, in dulcantun. Cun l’umbrela de tut i facc elfava ul cafelacc e a l’ora dul paseginel meteva al brasc l’umbrelin, ma se ul temp el cambiava gheva prunta l’umbrela che ghe nava.Al dopu mesdì el tirava fo l’umbrela deseda, bela, lustra me vuna che sediseda se la meteva al brasc par faaduu pas, ma se, niva su un niurun…

dervises tera!… el cureva a ca acambiala par mia bagnala.A e sira, tut i so umbrel el meteva infila. E par naa in lecc e rumii in pasel catava fo n’umbrela de bumbas.Luu l’eva fai iscì, se vurii fac?… l’evaun bun’om, ma par luu n’umbrela, granda o penina l’eva ne pasiun one ruina.Pensii che ne volta ni su un vent chefava pagura, l’umbrela le se scverzadaa ne gran bufada, luu l’ha tegnuda, mapoo l’ha tirà un tupic e l’ha mulada, e porcadiscdeta!… l’ha truà pu nanca ne bacheta.Pudii mia cred… trii di de lutu l’ha faime se gavesen pesctad i cai.Ne volta un giurnaliscta el ga fain’interviscta, parche vureven tucc savelparchè el gheva ul maa di umbrel.– Ho bun fioo! – el ghe dis ul scior Mentin sempercun l’umbrela verta setà gio sul cadreghin.– Mi l’umbrela e duperi par pensaa, l’èn’antena, mi ghe parli insema, l’è queta,l’è da mai fasctidi e l’è mia n’impendiziparchè le ga mia de vizi.Poo l’è sempur a discpusiziun e mia parparlaa maa, ades che l’è chi a sentii,ma tucc la lasen in un cantun fin cheul temp l’è bun, poo sel piov tucc etiren fo... e mi no, mi ghe l’ho sempuradre e se l’è mia asee vuna en tiriadre trè.Ghè gent c’ha pensà balusà par an e an in netina o setà gio sul scagn, mi sot al’umbrela fo di gran ragiunamentcunti i danee e sumeni ul furment.L’umbrela l’è roba de sciori, tefan bela cera, ghel disi mi!... te riverisen.Ghe dan nanca n’umbreleta a vugn chel’è a buleta... el lasen fo a l’acqua,a sctinca dul soo el fan marudaamen punciaroo. El varda mi, brut epenin, ma inquand dervisi ul me umbrelinme varden tucc, me vugn che pacia pan e vin .L’umbrela l’è ne gran roba me car luu, l’ène roba de valor, el vet bè che ei robensempur, e le mia me dil truai... e inquandle se perd?... che rabbia se ciapa, capita derar de perd e sapa, che se le se perdesse discmeteria de sudaa, ma perd l’umbrelase po inca negaa.Mi sum prevident go l’umbrela par tuti mument, l’ha mai pruà a truas par sctradae ciapaa ne scguazada? quanti acident !rinfregioo, cusctipaziun, maa de os ede gos, mi dervisi ul mè umbrelin e rivia ca succ men cinquatrin.Ma mo ghe no gia cuntà su trop, ma sel’è bun de cunvincc tucc a naa in gircun l’umbrela mi ghe regali e puseebela, chela cui duu balit che bala viainscì cui tusan el fa legria.– Chel senta... – el ghe diseva algiurnaliscta ul por Mentin –Luu el po mia regurdas, l’è immo alprim per, ma ne volta tacad al manigdi umbrel gheva do balel, me duu

Segue a pag. 9

L’om brellino bianco.

L’um brela

7N. 4 - Aprile 2003

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Da che parte stava la ragione? Dalla parte della Comunità di Cocquio oda quella della Comunità di Gavirate? O forse nessuno aveva ragio-ne? Quando ci sono di mezzo i confini tutto è più complicato, so-

prattutto quando si tratta di bestie al pascolo.I confini permettono le relazioni e quindi anche i litigi più astiosi. E’ sempre stato così, ma nessuno più se ne ricorderebbe oggi, se una di que-

ste liti non fosse finita sulla scrivania del Magistrato Camerale di Milano nel1772 e lì non fosse rimasta per più di un lustro senza sbloccarsi.

Ce la ritroviamo tale e quale, senza conoscere la sentenza definitiva, in unaCartella Cattastri - Confini dell’Archivio di Stato di Milano (ASMi, Censo parte Antica

N.1007 - Comuni - Cocquio), che documenta, se non altro, i tentativi promossi dalleautorità milanesi per mettere d’accordo due comunità in guerra fra loro.

E’ chiaro che lo storico si solleva da ogni responsabilità giudiziaria: è acquapassata che non macina più. Mentre nel secolo scorso ci sarà stato ancora qual-che vecchio disposto a litigarci ancora, ai nostri tempi la cosa non fa più né cal-do né freddo, ma sono proprio simili questioni quelle di cui uno storico si ap-passiona.

Era successo che il 22febbraio 1772 la Comu-nità di Gavirate era riu-scita ad ottenere un Edit-to in cui si fissavano se-vere penali per i confi-nanti di Cocquio, quan-do il loro bestiame aves-se oltrepassato sullamontagna i confini ver-so i pascoli comuni diGavirate. Ne era natauna causa promossa alSenato da parte di alcuni“particolari” di Cocquio,per limitare le penalidell’Editto, contro le pre-tese di Gavirate.

Il Magistrato Camera-le aveva incaricato nel1775 Gabriele Buzzi, ilpretore di Gavirate, di fa-re opera di pacificazionefra le parti, senza alcunrisultato. Si sperava daparte degli individui diCocquio che l’interventodel feudatario PompeoLitta Visconti Arese, comune ai contendenti, potesse mettere fine alla questio-ne. Ma nel maggio del 1778 ancora era in alto mare.

La lettera del pretore di Gavirate, scritta in un bel latino curiale, e quella delnotaio milanese Antonio Maria Bossi, legale del comune di Cocquio, conten-gono importanti notazioni di costume che meritano qualche accenno.

La prima considerazione che si impone, per non ridurre l’episodio a banalecuriosità, è che il bosco e il pascolo, che rappresentano la parte più cospicuadel territorio comunale esteso sulla costa montana, sono luoghi intensamen-te abitati dai paesani, soprattutto nel periodo dell’anno che va da novembre(dopo la vendemmia) a maggio (prima della fienagione).

Gli usi comuni di pascolo e di legnatico sono l’attività prevalente di un’a-gricoltura che “va in ferie” nella brutta stagione.

La legna della montagna scalda tre volte, come ancora si dice. Quando il tem-

po è freddo e umido al basso, il paesano povero prende la sua vacchetta o lesue due o tre pecore e sale per le comode strade che portano a mezza monta-gna. Nel bosco ci sono ampie radure nelle quali il bestiame può comodamentepascolare; lui invece passa il tempo a rastrellare foglie per fare strame o a legaredelle fascine, di dimensione adatta per portarle a casa sulle spalle o trascinar-le lungo il levigato sentiero.

In tutto questo periodo la vita della comunità si svolge prevalentemente nelbosco-pascolo, dove tutti conoscono tutti, dove l’aria è buona e il sole riscal-da per quel che può. Il problema è che quella poca merenda che si porta da ca-sa non è mai abbastanza per calmare i morsi della fame, accresciuti da un cli-ma tanto salubre.

Il bosco è luogo di streghe, per fare paura ai bambini che non vogliono cu-rare le pecore, e, ultimamente, vi sorgono piccole cappelle rurali con vari san-ti e madonne.

Al calar del sole, quando il freddo e la stanchezza incominciano a farsi sen-tire, si ritorna al piano, dove si mangia roba in brodo caldo e ci si addormen-

ta come i sassi fino almattino dopo.Nel bosco i confini sonosempre molto opinabili,soprattutto come quellifra Cocquio e Gavirate,tracciati arbitrariamentee artificialmente chissàda chi.Il pretore Buzzi non puòignorare una cosa del ge-nere e la spiega chiara-mente al magistrato diMilano: le bestie cocquie-si (notare il lapsus, comese anche le bestie appar-tenessero al paese, o segli stessi Cocquiesi fos-sero bestie) possono fa-cilmente sfuggire sotto ipascoli e i boschi dellaComunità di Gavirate,che confinano immedia-tamente con quelli diCocquio.Tanto più che i confinisono totalmente liberi eaperti all’accesso del be-stiame per circa due mi-

glia in longitudine e quindi impossibili a bloccare le incursioni delle bestie interritorio di Gavirate, in mancanza di recinzioni e di fossati.

Come affermano gli individui di Cocquio, la maggior parte delle catture del-le bestie avvengono in occasione dell’andata o del ritorno dalla fonte chiama-ta Paraviggia, che, nonostante si trovi nel Comune di Gavirate, è soggetta al di-ritto dei Cocquiesi di abbeverare le loro bestie.

La denuncia di sconfinamento e “l’attrappamento” delle bestie venivano ef-fettuate ad opera del campiere di Gavirate.

Oggi non si sa più che mestiere faccia il campiere, una specie di guardia terri-toriale del comune, che ha il compito di segnalare all’autorità tutte le infrazionidi un codice non scritto di comportamento, che prevedono multe salate per itrasgressori. Il campiere è un vigile rurale, che, un po’ come il vigile urbano,

Segue a pag. 9

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Page 9: DIVENTARE COMUNITÀ - Menta e Rosmarino...Eppure c’è qualcosa di quel paese di cui anche og-gi non riusciamo a fare a meno nel paese di ben-godi in cui viviamo: la solidarietà

Segue: Storia di bestie e di confini

dà un sacco di multe per divieto di posteggio o per passaggio vietato, quandoil semaforo è rosso.Quando, ad esempio, dopo una certa data un pastore lascia uscire le pecore ole mucche dal sentiero nei campi circostanti, arriva immancabilmente il cam-piere, che sporge denuncia al comune, con relative multe. In più scatta il prov-vedimento di attrappamento, che consiste nel sequestro del bestiame in ap-posite stalle, dette “osterie”, per il quale lo sfortunato allevatore deve pagare uncerta cifra giornaliera di riscatto, come quando si deve recuperare la nostra au-tomobile prelevata dal carro attrezzi.

Il termine “attrappare”, nel senso di “legare” è il residuo della parola longo-barda “trappa”, che significa appunto “laccio”. Si tratta di un uso del dirittolongobardo, arrivato, almeno nelle parole, fino alle epoche più recenti.

Mentre gli estimati (i possidenti terrieri) di Gavirate volevano farla finita conquesta storia, i personalisti (i nullatenenti) dello stesso paese non mollavano:ai facoltosi estimati non interessava sostenere le posizioni insostenibili dei lo-ro miserabili compaesani, tanto più che volevano fare una bella figura anchenei confronti dei nobili milanesi che si erano messi di mezzo per la faticosa me-diazione. Per i personalisti era invece una questione della massima importan-za, sia perché toccava sul vivo i loro interessi economici, sia soprattutto il lo-ro orgoglio campanilistico ferito dalla reazione dei Cocquiesi.

Il progresso della scienza amministrativa andava contro di loro, poiché il go-verno austriaco, e gli altri che si succedettero, li estromisero di fatto dai consi-gli comunali, e inoltre decisero senza molte opposizioni la privatizzazione digran parte delle terre comuni.

Ma vediamo cosa scriveva il notaio Bossi di Milano, per conto dei suoi assi-stiti di Cocquio.

Intanto ci fa sapere che gli individui di Cocquio sono abitanti nella parte su-periore del nomato Comune, cioè Carnisio, Caldana, e Cerro.

Inoltre per ben due volte il Podestà di Gavirate aveva convocato le parti perraggiungere un accordo, al quale non si era arrivati per motivi eminentemen-te politici:

Non tralasciò l’incombenzato Signor Podestà in due da lui tenuti con==gressi di proporre per una reciproca quiete diversi proget==ti, […] ma sebbene all’accettazione di qualsissia di questi indifferen==temente pronti siansi prestati li deputati dell’Estimo di Gavi==rate, altrettanto contrarj nell’adesione de medemi si protes==tarono diversi Personalista, come ben’il sa il predetto Signor Podestà,ad essere ripugnanti, solleticati dal deputato del Personale,e da qualch’altro malcontento Estimato del detto Comune.

La goccia che fece traboccare il vaso cadde nell’agosto del 1775, a sentire la

gustosa testimonianza del Bossi:riuscito inutile ogni proposto temperamento, n’avvenne, che sen==dovi nel giorno sette del corrente Agosto sotto la cura del Pastorene Territoriali Monti di Cocco numero tre bestie bovine diLodovico Ossola del luogo del Cerro altro de Supplicanti Jndividuia pascolare, siccome queste spinte dal sommo caldo, e dall’insolentepizzicamento delle Mosche, si diedero tutte e tre alla fugadebordando ne limitrofi vicanali aperti Boschi di Gavirate, cosìquantunque inseguite dal Pastore per arrestarle, senza chequeste ponessero bocca a terra, dall’asserito Camparo di Gavi==rate associato d’altri Gaviratensi le vennero rappresagliate.

Le bestie furono dunque condotte all’Osteria e tutte le penalità per il recu-pero furono pagate dal proprietario Lodovico Ossola del Cerro.

...fu costrettoil Supplicante Jndividuo Ossola corrisponder alla Curia per l’intentodel fidejussiorio rilascio £ 7.10., sborsar’al Camparo altre £ 21.in ragione di £ 7. per caduna bestia, ed all’Oste depositario altre£ 4.10., e così in tutto £ 33.

Per riavere le sue tre mucche, l’Ossola aveva dovuto pagare la Curia, l’oste eil camparo. Non era un po’ troppo?

I conti erano presto fatti, ma ora era arrivato il momento di dire basta.La cifra totale che tutti i supplicanti avevano dovuto sborsare in quegli anni

ammontava a qualcosa come 446 lire e 20 denari, una somma enorme, se sipensa che la congrua annuale del prete di S. Andrea doveva essere di 400 lire;corrispondente ad una cifra molto lontanamente simile a vari milioni di oggi.Tanto più che doveva risarcire dei danni del tutto inesistenti.

Il podestà di Gavirate doveva dunque riconvocare i Reggenti della comunitàe ingiungere una mediazione, anche contro il parere renitente dei comunisti.

In caso contrario, era necessario sospendere le sanzioni nei confronti del-l’Ossola e ordinare la fine delle rappresaglie da parte della Comunità di Gavi-rate.

Nel 1778 la lite era ancora incancrenita, ma il fascicolo non ci dà altre infor-mazioni.

Forse avrà avuto successo il conte Pompeo Litta Visconti Arese, o forse l’e-sercito invasore dei Francesi di lì a qualche anno, oppure la lite sarà termina-ta in mancanza dei diretti interessati.

La storia non si fa con i “forse”.Amerigo Giorgetti

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Buona Pasqua

Segue: L’umbrela

uvit de scurbat bei negher e de sedalusctra. Balaven via che l’eva unpiasee videi, faven rincres e i donsclungaven ul manin par videe se evensctagn e rideven de gusct me tucaaun bun-bun. Se i balet even mol elis ul so padrun l’eva gris, e se adac ne teca i balet salten via...se pudeva saraa su butega... adiu legria!

Mi g’ho n’umbrela par tut i ucasiun,d’umbria e de cantun, cui so do baletme duu belee e i don perden e visctadimà a videe.Le g’ha puntal e manig d’os e inquandpasi in mez ai gent fo ne figura depresident.Sclanzi avanti l’os, fo dundaa i balet, e tucc disen, “varda ul Mentin chebel’umet“.Ghe de dii che i balet in tacà a un curdun che sel se slunga un poo tropfina a tucaa gio in tera i do balethan finì de faa guera.

Poo ghè i umbrel de culeziun, cui manigcun su falchit e leun. Umbrel rari

che incoo a truai l’è ne n’ugia in di pai.Mi meti mia gio tant giubilee, mi ghe n’hoasee che faghen ul so misctee.Chel che cunta l’è mia ves senza,inquand bei luscter e succ in sctradae l’è asee un scguaz pa ne lavada.

L’om, l’umbrela, l’ha mia inventada, cun l’oml’è nasuda. E prima l’è sctaia ne man,poo ne foia de zuca, poo par faa e supa

l’ha inventà e marmita e l’ha visct chea girala cul cuu in su le fava d’elmete le riparava dul temp brut e i legnàdi don.Pensaven tucc d’avee inventà ulcapel, ma a furia de sclargala unbel di han di... “ma chescta l’è n’umbrela!“e l’è sctai tut un ciapa – ciapa par fa lapusee bela, de cutun o de seda, cuibalet e i galit, faia a funcc o a cadin,e in fin... bruta o bela l’eva sempur n’umbrela.E vurii che mi sctaghi in dre? ul Mentinne cumpra tre.

L’è ne roba de not, ma par via dul’umbrela ul scior Mentin l’han cugnusùtucc su scte santa tera...... e par mia fac intort l’han suteràcun l’umbrela inquand l’è mort...I so eredi tut i umbrel han vendùe cui sctec d’umbrel ul munument g’hanfai su.Al capisant se legg immò ades :

“L’è mort san me nossenza maa de venter e de gosmarà d’umbrela l’è scampàe mai ne gota l’ha bagnàse vurii saludal a pasaa viadervii l’umbrela... e così sia”.Giam battista Podestà - Esem plare unico. (Collezione Sangalli)

GIORNALE.qxd 17/04/2003 20.28 Pagina 10

Page 10: DIVENTARE COMUNITÀ - Menta e Rosmarino...Eppure c’è qualcosa di quel paese di cui anche og-gi non riusciamo a fare a meno nel paese di ben-godi in cui viviamo: la solidarietà

Chi arriva da Gavirate a Cocquio Trevisago, piegando a sinistra, sale dol-cemente fino a trovarsi d’un tratto costretto ad immettersi in un tor-nante a gomito, prova del nove di tutti gli apprendisti guidatori, per poi

proseguire per quella contrada detta “la Costa”. Da lì ha inizio “la Caldana“ cherappresenta la parte alta del comune di Cocquio. La strada si snoda in ampiecurve costeggiate a manca da un pendio più o meno boscoso e a destra daspiazzi erbosi. Che si stia per giungere in paese lo si capisce quando appare sul-la destra il cimitero e sulla sinistra il campanile della chiesa parrocchiale; qui,si scopre subito che questo è un paese originale: intorno alla chiesa, infatti, c’èda una parte un campo sportivo e dall’altro l’ampio parco di villa Morlin: perentrare in paese bisogna imboccare la stradina che si apre sulla destra, a fian-co del cimitero vecchio, oppure bisogna proseguire oltre l’ampia curva per ave-re una visione più completa dell’abitato.

La parte vecchia, il centro storico come si dice, si trova a destra; la parte piùrecente, quella delle ville per intenderci, a sinistra della strada provinciale. Cen-tro del paese è la piazza, detta del Noce; ma, per comprendere il senso di taledenominazione, è bene tornare indietro con la memoria e, come nelle fiabe co-minciare…C’era una volta, in un tempo molto lontano, al posto della piazza, un terreno col-tivato a vigneti con qualche albero da frutta: peri, meli, un vecchio fico e qual-che albero di noce. Caldana era tutta edificata nella parte alta e quel terreno erain parte percorso dalla strada che proveniva da Orino. Quando nel 1899 si co-struì il palazzo della Società Operaia, quel terreno agricolo divenne zona di ac-cesso al palazzo stesso, perciò si decise di pavimentarlo con un selciato e di ri-muovere le piante. Furono mantenuti però due alberi di noce, uno dei quali eraal centro del piazzale. Forse fu allora che il Noce della piazza si popolò di dia-voletti; i geni ciarlieri e burloni degli alberi abbattuti si rifugiarono fra i suoi ra-mi e, nelle notti d’estate, specialmente quando c’era nuvolo, assumevano sem-bianze umane e portavano scompiglio tra la gente del paese per vendicarsi deltorto subito. I vecchi temevano i loro malefici e li chiamavano “ciapit”, “demo-ni”, “abolik”. Il noce per oltre un secolo vegliò sul paesello, testimone silenzio-so di ogni avvenimento poiché i Caldanesi si ritrovavano ai suoi piedi sia nellevicende quotidiane, sia nei momenti più significativi della vita del paese; ma, sisa, neppure chi sembra invincibile sfugge alle leggi della natura ed un giorno ilcaro vecchio noce cadde sotto il peso dei suoi lunghi anni, lasciando intorno ungrande vuoto. Da allora i Caldanesi aspettano che come per incanto un altro no-ce torni a dispensare frutti ed ombra, ad essere simbolo e punto di riferimento;aspettano che la fiaba, come si conviene, abbia finalmente il suo lieto fine.

La denominazione ufficiale della piazza è tuttavia, Piazza della Società Ope-raia e non potrebbe essere altrimenti data la validità ed il significato di taleistituzione per l’idea di solidarietà che la animò e la costituì alle sue origini che

risalgono al 18 gennaio 1878. Il palazzo fu però inaugurato nel 1899 con l’aiu-to economico dell’ing. Carlo Malgarini, mentre il salone Teatro fu aggiuntosuccessivamente nel 1909. Sulla piazza si affaccia un altro edificio: la Coope-rativa di Consumo.

Fondata il 14 febbraio del 1914, la Cooperativa di Consumo costituisce sindalle sue origini un punto di incontro fondamentale nella vita sociale dei Cal-danesi.

Dapprima in un piccolo locale ove oggi vi è il Ristorante Campo dei Fiori,poi in un locale un centinaio di metri più avanti, infine dal 1924 in piazza, nel-l’attuale sede.

Chiudo questo breve spaccato sul paese ricordando che la Chiesa Parroc-chiale fu fatta edificare nel 1240 da Giacomo Besozzi. Allora era una piccolacappella e divenne sede di Parrocchia solo nel 1649. Nel 1630, intanto, veni-va edificata la Chiesa di S. Anna, centrale rispetto al paese e più comoda da rag-giungere. Nel 1781 fu costruito quello che ora è denominato Cimitero Vecchio(prima i defunti erano sepolti di fronte alla Chiesa Parrocchiale), mentre il Ci-mitero attuale viene inaugurato nel 1923.

Giuseppe Cassarà

CALDANA

Giungo da lontano in questo paese e sento che mi ci fermerò tutta la vita. Dietro di me ho lasciato gli anni della gioventù consu-mati nei disinganni, nei falsi amori, nei lunghi viaggi e nelle vicende della guerra. Giungo povero come un emigrante che invanoha cercato fortuna nei campi lontani della vita. Ritorno alla terra dove le generazioni della mia famiglia si sono succedute fecon-

dandola del loro lavoro. Al Camposanto, che è all’inizio del paese, mi fermo e saluto oltre i cancelli la lunga schiera di quelli che han-no preparato sin dalla notte dei tempi la mia vita. Qua abbandono ambizioni e sofferenze; qua attendo che si purifichi il mio spiri-to[…]. A Caldana, umile e insignificante punto del globo terrestre, trovo le cose belle che invano ho cercato ovunque: la pace, il silen-zio, la dolcezza di vivere, la bontà e la devozione ai ricordi della propria stirpe. Le verdi montagne, le grandi selve, i sentieri, le vecchiecase di sassi, il lago vicino e i selvatici sono gli elementi che concorrono a farmi ritrovare questi beni. Altri cerchi lontano, nelle vie delmondo e dell'avventura, la propria felicità. Non ho invidia.

Io getto il mio cuore nelle selve e mi fermo a Caldana lieto d’entrare a far parte del ritmo semplice delle cose naturali.

(da Il mio cuore è nelle selve di Luciano Ferriani, a cura di Alberto Palazzi)

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20 Aprile 2003Menu della S. Pasqua

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E’ un’umanità animata; un grande affresco di persone, ognuna con le

proprie peculiarità, che ha contribuito a rendere la Caldana degli an-

ni ’50 - ’60 un paese molto vivo. Un caleidoscopio di personaggi par-

ticolari, con caratteristiche un po’ uniche, curiose e soprattutto ambienti che

oggi conservano ben poco delle loro atmosfere. I ricordi di Michele Presbite-

ro, segretario generale dell'autorità di Bacino del Po, che opera in stretta col-

laborazione con il ministro Mattioli, emergono con l’entusiasmo di chi è in-

namorato di un luogo. E in questo luogo spesso ritorna, nonostante sia re-

sponsabile, a Parma, di programmazione territoriale su un bacino che com-

prende 8 Regioni, in tutto 16 milioni di abitanti. Il ritorno equivale all’im-

mersione in un paese amato, di cui lui percepisce i più profondi palpiti. E

quando apre lo scrigno dei ricordi delle vacanze estive, essi sono lì, immedia-

ti, palpitanti. Sembra di vederla la Caldana molto più popolata, molto più pie-

na di vita di quegli anni. La scenografia è rappresentata dai cortili, dai negozi

del macellaio, del panettiere, dell’ortolano, del merciaio, del carradore. E dal-

le tante stalle dove ancora si lavorava prima dell’avvento della fabbrica. E’ un

affabulatore che sa cogliere ogni dettaglio e lo sa comporre assieme agli altri

con grande armonia. Così “scaturiscono” figure caratteristiche, che sono scol-

pite nella sua memoria, come la Chiarina, “che aveva riposto tutti i suoi affetti e

i suoi sentimenti sugli animali, di cui amava circondarsi. E l’effetto di questo suo

amore lo si sentiva quando seguiva il programma televisivo “Lascia o raddoppia?”. Sì,

proprio così. Giungeva al Circolo, già gremito di persone che attendevano con ansia

l’inizio del quiz, incollate al video, strette come sardine. Prendeva un sedia di legno,

si sedeva e immediatamente gli spettatori formavano un cerchio attorno a lei, ben di-

stanziati, nonostante il poco posto a disposizione. Aveva come appiccicato addosso un

caratteristico puzzo di stalla…..”

“Aveva subito tante ingiustizie la Chiarina, ma era buona e quando morì lasciò tut-

ti i suoi beni ai bimbi dell’Asilo che rappresentavano per lei l’unica speranza in un mon-

do migliore...”. Nella galleria dei ricordi compare il Negus, così chiamato dal

colore della carnagione scura, la Micia, una figura di donna buonissima, cor-

pulenta, sdentata, che sorrideva tutte le volte che lui bambino passava di lì. E

la Lavinia “che lavorava come cuoca all’asilo e che aveva sempre pronto per me il

minestrone in tazza, dal profumo mai più sentito”. Poi una figura che fino pochi

decenni fa ha conservato il modo di vestire tipico dell’epoca rurale. Era il Car-

lo Bogn, l’ultimo di quelli veri.

Sono tante le immagini ancora presenti nella memoria: quella del lavatoio

che aveva, nella parte del risciacquo, un’acqua limpidissima, e poi l’oscurità al-

l’interno della merceria in Via Crosa...

Tutte aiutano a comporre un mosaico vivo che è bello richiamare con la poe-

sia del ricordo.

Federica Lucchini

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Cocquio dai giornali di un tempo

L’Ottobre Caldanese, più conosciuto come “Castagnata”, è diventatoun’importante realtà nel contesto della piccola frazione.

In provincia, e anche al di fuori, il nome di Caldana viene spesso as-sociato a questa manifestazione.

La Società Operaia di Caldana è l’ente organizzatore e Attilio Poli,suo Presidente, ne è l’ideatore e il promotore.

A lui poniamo alcune domande.

1) A quando risale la prima “Castagnata”?L’idea di organizzare una castagnata è nata nel 1978 e si è sviluppata man ma-

no negli anni successivi. Siamo partiti utilizzando la comune attrezzatura dacucina: due semplici pentole per caldarroste, gestite manualmente, che ci con-sentivano di cuocere 5 kg di castagne alla volta, ad una macchina con due rul-li elettrici ideata e realizzata da Antonio Rampazzo che ci ha permesso di pas-sare a 30 kg. In seguito, visto il successo della manifestazione, il nostro “Ar-chimede” Gianni Picconi, ha inventato la “betoniera spaziale” una macchinagigantesca che ingoia 100 kg di castagne e le restituisce arrostite alla perfezio-ne, diventando lei stessa motivo di attrazione per i visitatori. Un bello svilup-po, non le pare!

2) Quale segreto sta alla base del successo?Il segreto del successo è da ricercare in una strategia di marketing, atta a sod-

disfare le esigenze dei partecipanti alle manifestazioni. Con il passare degli an-ni acquisendo esperienza abbiamo sviluppato l’area mercato, diversificato lemostre e gli hobbisti, migliorato il servizio gastronomico e ricercato spazi peril posteggio istituendo un servizio navetta gratuito.

3) Sicuramente dalla “Castagnata” scaturiscono dei guadagni, come li avetespesi?

I guadagni che abbiamo acquisito dalle manifestazioni sono serviti sino adoggi per gestire la società, per la manutenzione ordinaria delle strutture e pergli interventi straordinari quali la pavimentazione e il riscaldamento nelle duesale, la sistemazione con piastrelle del locale cucina, il rifacimento del tettodel salone teatro, l’impianto elettrico per mostre e nuovi servizi igienici. Per ot-tenere questi risultati abbiamo investito risorse, in tempo e denaro, miglio-rando gradualmente la qualità.

4) Quali sono i programmi per il futuro?Con i prossimi introiti ci si propone, oltre che la normale gestione della so-

cietà e le spese per la manutenzione ordinaria, di estinguere il mutuo di 52000euro in 10 anni e di completare il progetto di ristrutturazione; tuttavia, noiCaldanesi abbiamo un “sogno”da realizzare: vedere rifiorire il salone teatroda oltre 50 anni inattivo. Questo dal 2002 è diventato il nostro obiettivo pri-mario. Infatti, a seguito del progetto, si è iniziata la ristrutturazione con rifa-cimento degli impianti dell’acqua, della luce, del riscaldamento, del pavimento,del palco e degli spogliatoi con i servizi igienici.

5) I rapporti con le Amministrazioni sono sempre stati collaborativi?Direi che sono sempre stati discreti e atti a trovare il “modus vivendi” delle

cose.

6) In tutto quello che fate sono d’accordo i Caldanesi?Non penso che tutti i Caldanesi siano d’accordo; come in tutte le cose, ci so-

no quelli che condividono, ma ci sono anche i contrari e gli indifferenti. Co-munque è importante che quello che viene realizzato, sia fatto cercando dicreare meno “disagi possibili” agli abitanti.

7) Menta e Rosmarino si batte per un certo tipo di paese. Oltre ad un’indub-bia pubblicità, cosa ha dato e cosa può dare al paese la “Castagnata”?

La castagnata è un’opportunità per vivacizzare il paese e per contribuire almantenimento dei locali che ospitano l’ufficio postale e l’ambulatorio medi-co e per lasciare in eredità alle future generazioni di Caldanesi un salone tea-tro rimodernato che sicuramente ci sarà invidiato dai paesi limitrofi.

A questo punto, ci congediamo dal signor Poli con l’augurio di poter assistereun giorno ad uno spettacolo teatrale o ad un evento culturale che faccia di Cal-dana un punto di riferimento, magari meno festaiolo, ma sicuramente più sti-molante per tutti.

a cura di Giuseppe Cassarà

… più scorrono gli anni e più mi diviene essenziale la semplice con-templazione, dalla loggia o dalla terrazza del Grillo, del “mio” panora-ma. Fedelmente ad esso ritorno e mi risponde con le luci rosate dell’al-ba sul lago o col denso azzurro del tramonto: ma anche la semplice stra-da per quel semplice e amabile paesello che è la Caldana è qualcosa dipiù, oramai, di un’affettuosa consuetudine.

Fausta Cialiente

Castagnata anni ’80. (Foto Ubaldo M inenza)

Da “La Prealpina” del 18 gennaio 1903

La Società Operaia festeggia oggi il XXV anniversario di fondazione. Amezzogiorno in punto la Banda locale si reca dal Presidente della Società,ing. Malgarini, e insieme a lui percorre le vie del paese, raggiunge la casadel Parroco che offre a tutti un generoso bicchiere di vino bianco ed infinel’abitazione del signor Fiorentini di Gavirate, padrino della bandiera.Al termine del banchetto, che vede la partecipazione di numerosi invitati,ha luogo l’estrazione dei premi della Lotteria a beneficio della Società.La festa termina fra le danze che proseguono fino all’alba.

A CURA DI LUCIANA BROGLIO

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Page 13: DIVENTARE COMUNITÀ - Menta e Rosmarino...Eppure c’è qualcosa di quel paese di cui anche og-gi non riusciamo a fare a meno nel paese di ben-godi in cui viviamo: la solidarietà

Il dono degliIl dono degliannianni

L’atteggiamento dell’uomo di fronte al tra-scorrere degli anni e all’avvicinarsi della vec-chiaia, solitamente volge in tre diverse dire-

zioni: o la persona tenta di sfuggirvi mettendo inatto stratagemmi vari, dall’abbigliamento alle ri-sorse della cosmetica per “sembrare” giovane; op-pure si lascia andare alla tristezza e si arrende com-pletamente al passare del tempo. Invece, e questaè la vera saggezza, accetta ragionevolmente la suaetà cercando di viverla nel modo più equilibratopossibile, rendendosi utile alla propria famiglia edagli altri, e soprattutto senza lasciarsi cadere in nes-suno dei due eccessi cui abbiamo accennato.

E’ un fatto che nella società attuale, la popola-zione anziana stia progressivamente aumentandoin rapporto a quella giovanile, ma l’approccio conquesta età della vita continua ad essere difficile econtraddittorio.

Spesso, nella cultura moderna, l’invecchiare èvisto come qualcosa di profondamente negativo,come una fase della vita in cui tutto è mancanza,perdita, diminuzione.....

In parte questo è inevitabilmente vero, perchégli organismi viventi, sia che appartengano al re-gno vegetale o animale, sono destinati ad una pro-gressiva decadenza, preludio della fine di ogni at-tività vitale.

Negli uomini, poi, questa fase presenta aspettiancora più vistosi rispetto agli altri esseri viventi,sia perché la lunghezza della vita è maggiore maanche per il fatto che la nostra società non è fattaa misura di anziano.

Essa pone come valori positivi la bellezza, la for-za, l’efficienza che sono patrimonio della giovi-nezza.

Quindi, il degrado fisico è ancora più evidentee sottolineato dall’allontanamento progressivo daquelli che sono considerati valori positivi, sban-dierati in ogni occasione davanti ai nostri occhidalla televisione e dalle riviste patinate.

La vecchiaia, però, se vissuta in modo sereno edequilibrato, può portare con sé alcuni valori chenon vanno sottovalutati.

Per vivere bene la vecchiaia è importante accet-tarla non nel rimpianto dei privilegi e dei vantag-gi perduti con il passare degli anni, ma come unafase da vivere in pienezza e da valorizzare comemerita.

In effetti, per assolvere determinati compiti nonsono necessarie né la forza, né l’agilità fisica, né laprestanza, ma piuttosto la lungimiranza, la pa-zienza, il discernimento e queste sono caratteristi-che tipiche dell’età matura.

Addirittura, alcuni grandi del passato sia lonta-no che recente hanno dato il meglio di sé nella fa-se più avanzata della vita.

Ricordiamo alcuni di questi personaggi: Miche-langelo che si vide occupato dalla sua ultima ope-ra, la “Pietà Rondanini” rimasta incompiuta, finoagli ultimi giorni della sua vita, conclusa all’età di89 anni; Galileo Galilei che completò il suo “Dia-logo sui massimi sistemi” a 66 anni; Pablo Picas-so che dipinse l’ultimo dei suoi autoritratti (il Vec-chio Seduto) a 90 anni.

E’ determinante non abbandonarsi all’invec-chiamento. Bisogna considerare che, in ogni fasedella vita, molte sono le “carte” a nostra disposi-zione. E’ necessario farne uso con intelligenza elungimiranza, sia nelle piccole che nelle grandi co-se.

Il Papa, in una sua lettera agli anziani scrive: “Nelpassato si nutriva un grande rispetto per gli anzia-ni. Ed oggi? Se ci soffermiamo ad analizzare la si-tuazione attuale, constatiamo che presso alcunipopoli la vecchiaia è stimata e valorizzata; pressoaltri, invece, lo è molto meno a causa di una men-talità che pone al primo posto l’utilità immediatae la produttività dell’uomo”

La Bibbia è ricca di suggestive storie di anziani,

uomini e donne e ci parla della loro longevità co-me di un dono o di una promessa di Dio a chi gliè fedele.

In particolare, nel Siracide vengono richiamate,come caratteristiche dell’età avanzata, la sapienza,la saggezza, il carisma del consiglio, l’esperienzamaturata.

La nostra società ha due forme di risposta a quel-lo che viene definito il “problema” dell’anziano.

Innanzitutto la famiglia può costituire una ri-sposta validissima, ma solo se si recupererannoconcretamente i valori degli affetti famigliari, delvalore in ogni persona, della solidarietà e del do-no.

I nonni, sono una presenza importante nel-l’ambito del nucleo famigliare e possono rappre-sentare per i nipoti un aggancio con il passato, dicui possono essere validi cronisti, avendo vissutol’evoluzione della tecnologia e della storia di que-sto secolo.

Le nonne più anziane hanno ricamato il loro

corredo alla luce della “lucerna” alimentata a pe-trolio; hanno cotto la polenta nel paiolo di ramesul fuoco del camino e ora usano con disinvoltu-ra evolutissime cucine e il forno a microonde.

Hanno lavato la biancheria su lastre di pietra deilavatoi, ed ora utilizzano senza sforzo le lavatricipiù avanzate.

Possiamo dedurre che forse nessuna generazio-ne, nella lunga storia dell’uomo, abbia dovuto mo-dificare il proprio modo di vivere per adeguarsi al-l’evoluzione tecnologica come è capitato alle per-sone nate nel primo quindicennio di questo seco-lo e che sono ancora tra noi.

“La nostra vita, cari fratelli e sorelle, è stata iscrit-ta dalla Provvidenza in questo ventesimo secolo,che ha ricevuto una complessa eredità dal passatoed è stato testimone di numerosi e straordinarieventi. Come altri tempi della storia, esso ha regi-strato luci ed ombre. Non tutto è stato oscuro. Mol-ti aspetti positivi hanno bilanciato il negativo o so-no emersi da esso come una benefica reazione del-la coscienza collettiva”.

I nonni poi, possono essere per i nipoti veri“maestri di vita”.

Sono depositari di un ricco bagaglio di normedi comportamento morale e civico che cercano ditrasmettere alle nuove generazioni, purtroppo avolte senza risultato....

La prima conclusione che possiamo trarre daqueste riflessioni quindi può essere questa: cer-chiamo di tenere i nostri anziani in famiglia, anchequando diventano sempre meno autosufficienti ediventano sempre più “problema” e sempre me-no “risorsa”.

A volte però questa scelta diventa difficile, per ilbene della famiglia e dello stesso anziano.

Il problema poi diventa ancora più drammatico

e irrisolvibile nel caso dei molti anziani soli.L’alternativa inevitabile, in questi casi, è il rico-

vero in struttura protetta.Nel nostro territorio ne esiste un buon numero

e quasi tutte ben attrezzate e rispondenti ai cano-ni prescritti dalla Legislazione vigente.

Purtroppo i posti letto non sono ancora suffi-cienti e spesso ci sono lunghe attese per poter ac-cedere alle strutture.

L’importante, per la famiglia o per i volontari chesi occupano di questi anziani, è che essi non sianolasciati soli ad affrontare questo passaggio, spessodrammatico della loro vita.

E’determinante mantenere la continuità, se nondell’ambiente di vita, almeno degli affetti e dei le-gami famigliari.

Ultimamente, nelle Case di Riposo della zona sisono attivati i “Comitati” formati dai parenti deidegenti, che hanno la facoltà di partecipare ad al-cuni momenti decisionali nell’ambito della vitadegli Istituti, ma soprattutto hanno la possibilità diaccedere alle strutture durante tutta la giornata peressere vicini agli anziani e collaborare, dove è pos-sibile e costruttivo, con il personale per migliora-re la qualità della vita dei degenti.

E’ importante che tutte le Strutture si adeguino,in ottemperanza alla normativa vigente, a questanuova evoluzione dei rapporti tra istituzione e fa-miglia e, per contro, che i famigliari rispondanocon generosità e coerenza a queste nuove propo-ste. Il tutto nella consapevolezza che questa col-laborazione, se gestita in spirito costruttivo e dicomprensione reciproca, tornerà a vantaggio so-prattutto dell’anziano degente.

Ultimamente si sta affermando anche un nuo-vo tipo di struttura, che è quello dei “mini allog-gi” per anziani, con i servizi centralizzati e che ga-rantiscono una buona autonomia ai singoli e al-le coppie danno la possibilità di continuare la lo-ro vita insieme.

Considerando il fatto che il processo di invec-chiamento sta portando ad una profonda altera-zione della struttura demografica, soprattutto nel-le nostre regioni settentrionali, è importante chegli Enti (Comuni, Regioni) attuino una politicaadeguata a questa nuova realtà che si sta deli-neando, in risposta ad entrambe le soluzioni che

si sono ipotizzate.Da un lato potenziare l’assistenza domiciliare,

rendendola più “competitiva” dal punto di vistaeconomico, incrementare la presenza delle infer-miere a domicilio, garantire, come è stato fatto ne-gli anni recenti, il sostegno economico, in modo dafavorire la permanenza degli anziani in famiglia.

Promuovere e valorizzare la presenza di Asso-ciazioni con volontari specializzati nell’assistenzadegli anziani a domicilio.

Poi studiare soluzioni che permettano ad ognicomunità, anche piccola, di avere una sua struttu-ra adeguata, perché gli anziani non siano costrettia lasciare, oltre alla loro famiglia, anche la loro co-munità di origine.

Infine, come già sta facendo la Regione Lom-bardia, stanziare fondi che permettano alle orga-nizzazioni Religiose o laiche di potenziare la strut-ture “alternative” alla residenzialità permanentedegli anziani, come i “mini alloggi” di cui si dice-va sopra, oppure i centri diurni integrati o le casefamiglia, dove gli anziani possono soggiornare du-rante la giornata e tornare la sera presso la propriaabitazione.

Quindi possiamo concludere che, per ottenerebuoni risultati nell’obiettivo di rendere più serena lavita della persone anziane e, più in generale dei sog-getti deboli della società, è necessario il massimo im-pegno e la collaborazione concreta e mirata tra Isti-tuzioni e cittadini, tra giovani e anziani, tra dipen-denti del settore pubblico e volontari del sociale.

Infatti “solo valorizzando l’interdipendenza e lasolidarietà che legano tra loro le generazioni, si po-trà migliorare la qualità della vita di tutti, perchéogni persona è bisognosa dell’altra e si arricchiscedei doni e dei carismi di ciascuno”.

Lina Buzzi

foto: E.F. Scopinich.

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Page 14: DIVENTARE COMUNITÀ - Menta e Rosmarino...Eppure c’è qualcosa di quel paese di cui anche og-gi non riusciamo a fare a meno nel paese di ben-godi in cui viviamo: la solidarietà

O porco mio gentilO porco mio gentil, porco dabbene,fra tutti gli animali superlativo,desiderato a’ desinari e cene,tu contenti, saziando, ogni uomo vivocolle tue membra valorose e belle:tu non hai in te niente di cattivo.

ANTON FRANCESCO GRAZZINI DETTO IL LASCA

Il maiale a tavola

La tavola dei nostri nonni era decisamente povera, ma quando se ne presen-tava l’opportunità sapeva anche impreziosirsi.

Principe di queste trasformazioni era proprio lui, il maiale, un personaggio chenella storia culinaria delle nostre genti vanta benemerenze insigni. Si devono al-la sua generosità piatti appetitosissimi quali la rustisciada cunt i lumbèr (sanguedi maiale, cipolle e lombo di maiale) oppure codigh, luganighit e purè o meglioancora la cazöra cunt ‘re pulenta.

Piatti un po’ pesantucci, ad onor del vero. Ipercalorici direbbe oggi il dietolo-go. Ma allora non c’era il dietologo e non c’erano problemi... Anzi, “grasso erabello”. Era sinonimo di ricco e di florido. Che bella grassa si esclamava al passaggio

di una donna prosperosa. Per secoli l’ideale della bellezza femminile ha coinci-so con linee curve e pingui. Donne che, quando si immergevano nel bugiùn perlavarsi, alluvionavano il pavimento.

Ed i piatti della nostra cucina sfruttavano volentieri queste opportunità offer-te dalla moda.

Una feta de lard trovava posto in quasi tutti le pietanze. C’era poi un piatto chequanto a grassi non aveva rivali. Anche solo a parlarne bisognerebbe mettersi untovagliolo perché si corre il rischio di ungersi. Si tratta dei gratùn (grasso anima-le, lardo, pelli di prosciutto cotto e avanzi di pancetta). Dopo lenta cottura siestraevano i gratùn, dei pezzettini rosei dal sapore inconfondibile. Questi veni-vano mangiati ancora caldi ed erano tanto gustosi che, prima di metterli in boc-ca, venivano baciati con religiosa libidine.

Si tratta di un piatto inventato dall’antica ed ora debellata miseria della nostragente e che oggi è scomparso dalle nostre mense.

L’uccisione del maiale

Quando stavano per finire le scorte alimentari della bella stagione, si incomin-ciava a pensare al purscell che avrebbe rappresentato il magazzino alimentare

per i mesi del freddo e della neve.Lo si uccideva qualche settimana prima di Natale. “A luna crescente..”, dicevano

i vecchi.Così raccontava il Franco: “La giornata dell’uccisione del purscell iniziava alla mat-

tina bunora, si accendeva il fuoco, poi si mettevano su i pariö pieni d’acqua e poi si aspet-tava il purscelat”.

“Chi era il purscelat?”“Veniva su da Beverina…”Era il Giuan de Beverina, detto anche il Beverina.“Mentre si aspettava che l’acqua la ciapass ur bui”, è sempre il Franco che racconta,

“che venisse calda per pelare il maiale morto, il purscelat tirava fuori tutti i suoi arnesi efissava ad una trave i tiranti ed i ganci dove poi attaccava su ur purscell”

“E poi si apriva la gabbia?”“Specia! – interrompe il Franco – prima si taccava una corda alla gamba posteriore

del purscell così quando usciva dal sctabiel, ed era al posto giusto, si tirava la corda in mo-do che il purscell perdesse l’equilibrio. A quel punto saltava fuori il purscelat che lo spin-geva e lo faceva cadere sul lato destro. Gli metteva un ginocchio sul collo, gli alzava lagamba anteriore sinistra e… zac!

L’eva roba d’un segund, ur purscell el faseva nanca temp a inacorges”Se il colpo era ben tirato l’agonia non era lunga. Poi c’era anche chi, prima, pre-

feriva tirargli una mazzata fra le orecchia, praticamente una delicatezza, una spe-cie di anestesia.

“Ma ho sentito dire che quando uccidevano il maiale a Caldana, si sentivano le urladella bestia fino al Cerro?”

“Poo vess…”Quando il maiale aveva terminato la sua sofferenza tutti uscivano a guardarlo.

La tensione diminuiva e la soddisfazione era generale. Perfino il maiale, ora diste-so su un tavolo, pareva soddisfatto della sua morte sacrificale e ghiotta.

Iniziava a questo punto un rito che faceva dimenticare la tragedia appena con-clusa. Diventava una festa, la festa dei poveri, che aveva avuto qualcosa di feroce,ma che si apprestava ora ad assumere un carattere festoso.

A forza di braccia, avvalendosi di un rudimentale tritacarne, il maiale veniva ma-cinato. In altri posti con la coscia si facevano i prosciutti, ma da noi veniva maci-nato e insaccato quasi tutto. Il prosciutto aveva bisogno di una stagionatura che lanostra aria non era in grado di garantire.

E poi la fame non consentiva troppe dilazioni.Veniva utilizzato proprio tutto: le parti deteriori, quelle che non potevano prestarsi

a conservazione, venivano utilizzate subito (una bèla rustisciada), le altre venivanoinsaccate. Sicuramente non si buttava nulla. Del resto, come dicono a Parma, ilmaiale è come la musica di Verdi, non c’è niente da buttare. Perfino le ossa si te-nevano buone. Venivano messe a conservare sot a saa e poi venivano utilizzate, peresempio, de faa bui cui patati.

Quello dell’insaccamento era un lavoro che durava fino a notte e vi partecipavatutta la famiglia.

Al pomeriggio i bambini non andavano a scuola e l’assenza era giustificata.Per un verso, durante la fase di lavorazione c’era anche da divertirsi perché il pur-

scelat aveva sempre voglia di scherzare. Ma la mamma regiora non era sempred’accordo. Senza farsi sentire dava i suoi consigli: “Dagh a traa a chel lì! Sì! El te im-bambiss cui so ball e pöo, apena el po’, el te fa saltaa un quai toch de purscell!”

Poi il maiale veniva lasciato a stagionare per qualche tempo.Segue a pag. 15

Segue: O porco mio gentil

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— N O T I Z I E S T O R I C H E —Oggi per essere qualcuno bisogna avere un retroterra culturale. Chi non ce l’haè perduto.

Ebbene: il porco ce l’ha. Viene da lontano, viene dalla mitologia. Addirittu-ra dall’Olimpo.

Siccome Venere si era innamorata del bellissimo Adone, rubandolo a De-metra, questa sfogò la sua gelosia facendo uccidere il porco, animale a lei sa-cro.

Le poche notizie che si hanno dei tempi lontani ci dicono che dalle nostreparti, almeno fino al 1600, buoi e mucche non erano allevati come fonte dicibo, ma erano considerati essenzialmente animali da lavoro.

Sfruttati per il latte (da cui si otteneva burro e formaggi), venivano uccisi emangiati soltanto quando erano vecchi.

Da noi, alle esigenze della tavola, provvedeva invece, bontà sua, direttamenteil maiale.

L’uomo si è nutrito di carne di maiale fin da tempi remoti. Naturalmentequando riusciva a catturarlo e ad ucciderlo nei boschi, dove viveva libero, ac-canto alla maiala (la lögia), femmina dai facili costumi.

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Era facile trovare salami e pezzi di lardo appesi anche al soffitto della camerada letto.

Si sarebbe incominciato a mangiarlo a partire dalla festa della Muscerina, unafesta popolare che si festeggiava con una cena la sera dell’ultimo giovedì di gen-naio e che serviva per ingraziarsi moscerini e zanzare (così, durante l’estate, nonavrebbero punto).

Era una cena vivificatrice che dava speranza e conforto: le viscere dei nostrinonnetti, visitate da un ospite di tanto riguardo e incoraggiate da generose liba-gioni di vino nuovo, potevano prendersi una soddisfazione davvero inusuale.

“T’è sbruià la Muscerina?” (hai celebrato la Muscerina?)“Sigura!”“E ur purscell m’el va?”“Benone! L’è bèla che prunt! El diis dimà de vess mangià…”

Ur Giuan purscelatt

Ci racconta la signora Jole Antonini Ballinari che verso marzo arrivava il pur-scelatt con una specie di biga piena di maialetti. Le donne facevano a gara per

avere il più bello, con un bel castel, si diceva, largo di spalle e lucido nelle setole,non trascurando una fugace occhiata al codino che il maialino sano e promet-tente doveva avere robusto e ben arricciato. Famoso era un venditore di Voldo-mino detto Giuan purscelatt che aveva maialetti di prima qualità. Questi preten-deva sempre che le donne ne prendessero due o anche tre. Le donne dicevano dinon avere soldi per comperarne più di uno, ma lui, con slancio di generosità, nescaricava almeno due assicurando che per pagarli ci sarebbe stato tempo. Sa-rebbe passato a prendere i soldi dopo un paio di mesi.

Il Giuan purscelatt ripassava a distanza di due mesi: i soldi per saldare il contonon c’erano e si riprendeva i maialini già cresciuti.

Li avrebbe poi venduti ad altri allevatori che li volevano più grossi.

Ed infine eccoci ad una delle tante sacre celebrazioni di questo animale puro esacrificale:

La tajadèla

Per il Giovanni, da quando è in pensione, le giornate sono lunghe da passare.Se sta in casa è un continuo pizigas con la Lisetta. Cerca anche di darsi da fare,

tiene su due galline, un po’ di conigli, mette giù qualche fila di patate. Ma non ba-sta: alle 9 di mattina non ha già più niente da fare.

E allora tira su e va fino al Circolo. Sta lì quasi tutto il giorno e va sempre a fini-re allo stesso modo, che ora di sera torna a casa pizz e la Lisetta le voosa.

Quella sera non era nemmeno andato a casa a mangiare, la Lisetta aveva fatto lapastina (“che a luu ghe piaas fagh dent ur pan”), ma aveva dovuto darla alle galline.

Fa ritorno a casa verso le undici. La Lisetta è già a letto, ma sente il suo passo gre-ve girare per la casa:

“Trà fö chi scarp che te me menet in gir tèra de tut i cantun!”“Le cumiiincia!”, replica nervosamente il Giovanni.Si siede e toglie le scarpe. Anche perché sono scarponcini nuovi che ha appena

comperato dal Fortunin e gli fanno un po’ male.Dalla stanza accanto si sente ancora la Lisetta che grida alcune cose; il Giovanni

non le presta però ascolto. Tra una frase e l’altra sente però confusamente nominare “sciavatt sot a r’utuma-

na, calzett che spuza..”, le solite cose. “Eh tass, ne bona volta!”, commenta il Giovanni.Poi, dopo un po’, non si sente più nulla. Forse la Lisetta si è addormentata. “Oh, che silenzio!”Il Giovanni siede al tavolo e accende una sigaretta.Poi, fra sé e sé: “Me rebùia i busech…”. Del resto quella sera non aveva nemmeno

cenato.“Quasi, quasi fò une tajadèla!”. Una tagliata di maiale è quello che ci vuole.Non si sente un rumore, non c’è in giro anima viva. Per sentirsi ancora più sicu-

ro va alla porta e da due giri di chiave (“di volt che la se diseda!”).E’ una regola: come quando si prega, così anche quando si fa una tajadèla non

bisogna essere disturbati.Apre la credenza, tira fuori quattro bei salamini, un pezzo di pancetta e poi pren-

de da una cassa il sacchetto del pane. La cosa incomincia a sorridergli.Porta tutto sul tavolo, prende da sotto il lavandino il bottiglione del vino, si met-

te comodo e incomincia ad affettare con molta calma.“La prima feta al gat!”, esclama. Il gatto che conosce le abitudini del suo padro-

ne è lì sul tavolo e già pregusta quella delizia serale. Il Giovanni si deve purtroppoalzare perché si accorge che mancano i sottaceti e la tajadèla non sarebbe tale sen-za la loro fondamentale presenza.

Dove avrà messo adesso i sottaceti che non sono al solit post!.“Ah, ghi evi chi davanti ai öcc e i vedevi nanca!”.Li prende, li mette sul tavolo, gli infila dentro la forchetta e li mangia diretta-

mente dal vasetto.Li mangia tutti, senza ovviamente lasciarsi mancare salame e pancetta.Ormai la soddisfazione gli si dipinge in volto. Strappa con i denti il tappo del bot-

tiglione e gli da una bèla canada, anche se di bere vino non ha neanche più tantavoglia perché oggi ne ha già bevuto abbastanza.

E’ riuscito a trovare anche gli stuzzicadenti che la Lisetta di solito nasconde (“par-chè in boca ghe fan ischivi”) e ora la soddisfazione è al grado massimo.

Mette i piedi sul tavolo e accende una sigaretta.“L’eva un poo che fasevi mia une bèla tajadèla”, esclama soddisfatto. Fra le serene liturgie serali la tajadèla è senz’altro una delle più celebrate dagli uo-

mini del paese.I praticanti più devoti amano poi attribuirgli virtù addirittura terapeutiche.Dicono che da sola è in grado di cancellare i nervosismi di una giornata storta,

dicono che manda a letto contenti e concilia una bella dormita. Quale altra medicina può vantare effetti altrettanto benefici?“Mancherìa dimà un poo de cafè, incà dur padelin..”, commenta ancora il Gio-

vanni, “ma ormai la Liseta l’ha sarà su ur Liquigas e pöo cumincia a nim adoss un pöode sögn…!”.

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Page 16: DIVENTARE COMUNITÀ - Menta e Rosmarino...Eppure c’è qualcosa di quel paese di cui anche og-gi non riusciamo a fare a meno nel paese di ben-godi in cui viviamo: la solidarietà

I have a dream todayI have a dream that one day...... little black boys and black girlswill be able to join hands with littlewhite boys and white girls andwalk together as sisters and brothers.

MARTIN LUTHER KING

Come in sognoVivere a Caldana in sintoniacon il presente

Era la sera di mercoledì 22 gennaio. Ero salito aCaldana per partecipare alla celebrazione ecu-menica che si teneva nella chiesa evangelica di

Caldana durante la settimana di preghiera per l’unitàdei cristiani. Nel saluto introduttivo venne citato ilcoro, composto sia dai cantori della comunità evan-gelica che da quelli della vicina chiesa cattolica, comeesempio di ecumenismo vivo.

All’unità delle voci che intonavano i canti sacri, fe-cero seguito le voci dei presenti che si univano nellarecita delle preghiere comuni, alternate alle letturedelle sacre scritture, fatte a turno da celebranti lute-rani, anglicani, cattolici. Quel clima ben disposto de-gli uni verso gli altri mi ricordò l’aria che si respira aLiverpool, dove la gente usa l’appellativo di sistercathedrals per le cattedre dei due episcopati locali.

Mi ritrovai a pensare che il richiamo di tutte le cam-pane vuole ricordare che non di solo pane vivrà l’uo-mo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio, e chei cristiani di tutte le confessioni dovrebbero rispon-dere resta con noi, Signore, perchè si fa sera. Allora l’in-vito a guardare ciò che unisce diventa un messaggiodi speranza per il futuro.

Questo messaggio mi destò un desiderio di risali-re a Caldana per un momento di riflessione. A que-ste contrade ero già salito fin da quando abitavo aS.Andrea: venivo per odorare il profumo dell’erba ecogliere qualche fiore di campo; venivo a cercarel’ombra dei boschi verso Cerro. In seguito vennerole volte in cui attraversavo la zona per andare a par-lare con il geometra Broglio che mi stava costruendola casa a Gavirate. Più recentemente, in occasione de-gli ottobri caldanesi che attraggono gran folla di vi-sitatori, oppure per qualche incontro ristretto con i re-dattori di “Menta e Rosmarino“. Diverse ragioni; mafossero esse lo svago, l’interesse, il folclore o la cultura,mai avevo visto il luogo con la giusta disposizioneper entrare in sintonia con il suo incanto.

Ripercorro ora la zona, nella luminosità di un gior-no qualsiasi di febbraio 2003.

Cammino, e i passi sono guidati più dalla rifles-sione che dallo sguardo. Trovo qui, in poco più di unfazzoletto, la geometria essenziale della chiesa evan-gelica di San Giovanni, la chiesa parrocchiale di San-ta Maria Assunta di Carnisio, aperta a sinistra suglispazi dell’oratorio e riparata a destra dagli alberi delparco e, prospiciente ad entrambe, sull’altro lato del-la strada, si estende il giardino di croci che benedi-cono il riposo dei silenziosi che hanno penato e gioi-to prima di noi e già hanno raggiunto la pace. Que-sto triangolo di spiritualità che con occhi nuovi vedo

oggi sul colle di Caldana può rappresentare una con-creta speranza per il futuro che è già cominciato! E’come aver inspirato dell’aria viva capace di ossigena-re lo spirito come i polmoni. Raggiunta questa leg-gerezza, anche agli occhi si rivela la magia del luogo.Di quassù lo sguardo spazia su un panorama dall’o-rografia varia e maestosa; la conca verde fa da letto,a sinistra, al lago di Varese e si estende verso destra fi-no al Verbano che appena si intravede tra la vegeta-zione e oltre al quale si digradano i rilievi dell’altoVergante dominati dal massiccio del monte Rosa scin-tillante di nevi.

Ma non solo questo ho visto: più avanti, oltre il se-maforo si apre la strada del Cerro dove, ricordo, nel-la primavera le sponde ombreggiate si punteggiano diprofumatissimi mughetti; dal lato opposto, nella di-rezione del ritorno verso Gavirate, sorge l’agriturismoi cui recinti sono popolati da uno zoo di animali do-mestici. A sapere quel che si vuole, qui c’è da appa-gare tutti i gusti!

Capisco che il messaggio sta in questo: saper vivereil presente. Mi siedo su un sasso per estraniarmi dal-lo scorrere del tempo ed i pensieri diventano medi-tazione sul rapporto con il presente. Per un attimosubentra una certa esitazione: affrontare dinamica-mente le novità del presente sembra essere più con-geniale ai giovani.

Con una generazione di più sulle spalle si rischia diessere condizionati da una visione delle cose in-fluenzata dalle esperienze di vita. Ma mi scuoto su-bito, avere un bagaglio di esperienze da ricordare è unausilio per vedere le situazioni nuove con un sup-porto di saggezza, non deve essere una tentazione dichiudersi a riccio di fronte al presente ed accovac-ciarsi attorno ai ricordi del passato: in questo modosi relega la memoria ad uno stucchevole piagnisteo dirimpianti. Mi dico: usa l’esperienza per dare una va-lutazione di ciò che è o appare maturo oggi o chepensi sia sul punto di maturare. Ciò che era maturoieri, oggi è bacato o rinsecchito: è bello ricordarlo mail più delle volte è inutile rimpiangerlo. Un esempio.Quando ero bambino, nel mio paese c’erano tre au-tomobili ed erano del medico condotto, di un auto-noleggiatore che si poteva chiamare alla bisogna e diun avvocato benestante. Le strade erano per noi bam-bini un luogo sicuro di gioco. Situazione, oggi, nonsolo impensabile per la scelta dello spazio ricreativo,ma addirittura al limite dell’invivibile per l’igiene re-spiratoria. Lo sappiamo tutti, le automobili sonotroppe e sono tra le prime cause di inquinamento.Però chi si sognerebbe di proporre la loro elimina-zione? Se abbiamo un po’ di buon senso, possiamoprivilegiare altri mezzi di trasporto, per esempio, usa-re di più la bicicletta per i brevi spostamenti, ma nonè proponibile rinunciare del tutto all’auto privata. In-somma, bisogna saper cogliere il positivo che è nelpresente e trarne profitto, finalizzandone l’uso al mi-glioramento della qualità di vita.

Sì mi sono convinto: ricordare, certo, è bello perchéla memoria è una ricchezza inestimabile, ma ciò nonsignifica affatto che vecchio è meglio e, conseguen-temente, moderno è peggio. Bisogna avere il coraggiodi vivere la realtà di oggi, con lo spirito di valorizza-re l’oggi per realizzarsi nel paese come è oggi. Con leidee finalmente chiare in testa, balzo in piedi.

Ho fatto un sogno oggi. Ho fatto un sogno cheun giorno...

avrò qui una casa, nel mezzo di questa comunità,e quassù poter vivere, la

mano nella mano, con la serenità della natura econ l’operosità degli abitanti,

in totale fraternità tra uomo e ambiente.

Trattandosi di un sogno, naturalmente, non ho bi-sogno di sottostare alle difficoltà che rendono com-plicata ogni iniziativa. Nei sogni non esiste burocra-zia. Innanzi tutto, mi posso scegliere il terreno chepreferisco, senza dovermi preoccupare di quanto puòcostare. Ho individuato un pianoro tra la strada e ilpendio che scende verso il tornante che porta a Coc-quio, proprio al limite della boscaglia, e delimitatodalla strada che scende ripida verso S.Andrea. Eccopronto il progetto che collima con i miei desideri:grande vetrata, ampio terrazzo perchè nessun raggiodi sole mi sia negato dall’est all’ovest; una fresca can-tina e vani spaziosi e luminosi. Nessun intoppo divincoli edilizi. Quando si ha la mia età non si puòperdere tempo per dilazioni e ritardi procedurali; que-sto il regista del mio sogno lo sa e quindi anche l’e-dificazione è immediata. Eccomi finalmente, in unbatter di ciglia, nella mia nuova casa. Eccomi subitoimpegnato a godermela.

Mi sogno di guardare fuori dalla vetrata, verso sude verso ovest e di godere del continuo spettacolo chemi è offerto. Vedo la veletta verde del Mottarone cheveste di modestia i bianchi ghiacciai del Rosa, lucci-canti al sole del meriggio; vedo, quando viene sera, itramonti meravigliosi che trasformano il cielo in gran-de tavolozza policroma, in cui brilla l’oro infuocatoche si staglia dietro il profilo delle creste ormai ap-piattite in uno scenario di ombre scure, e poi via viasfumano i rossi delle nubi più basse, i toni violacei edil blu fattosi già cupo sulla sinistra per ospitare il pri-mo tremore di una stella. Questo stesso panorama,me lo vedo poi, in giorni meno limpidi, con strati difoschia qua e là più densa, da cui emergono, come inuna stampa cinese, le cime più alte dei colli dispostein una successione prospettica la cui profondità ri-sulta accentuata dal biancore ovattato delle valli.

E leggermente più in basso la magia delle acquecullate dal verde della vegetazione punteggiata dalbianco delle case. Nei giorni limpidi il lago di Vare-se è azzurro come un gioiello, ma la inarrestabile fan-tasia della natura lo fa volgere al verde quando la su-perficie si increspa leggermente al soffio del vento.Nell’ora in cui il sole giunge in opposizione all’oriz-zonte, lo specchio delle acque si popola di un firma-mento di scintille che sfavillano in un tremolio sen-za sosta. E’ uno spettacolo che si rinnova ad ogniistante come se fosse uscito dal pennello di ClaudeMonet che riuscì a mostrare come uno scenario uni-co ha luci diverse ad ogni ora del giorno e colori di-versi ogni giorno dell’anno.

L’incanto del luogo non deve far tralasciare le in-combenze della vita.

Me lo ricorda un cicaleccio di voci infantili. Infatti,dopo una trentina d’anni, mi ritrovo dei bimbi per ca-sa: sono i miei tre nipoti che un paio di giorni per set-timana si intrattengono con i nonni. Niente di meglio

Segue a pag. 17Segue: Come in sogno

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Veduta panoram ica da Bonè (Foto Bruno Bertagna)

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che fare una passeggiata in contrada Bonè, verso l’a-griturismo, mostrando loro, oltre il recinto, le oche,le anatre e poi verso il maneggio a vedere i cavalli ead accarezzare le caprette tibetane. Una bella lezionedi fattoria come quando io andavo nella cascina de-gli zii. E quando il ripasso di zoologia è soddisfa-cente, i prati non mancano, per un ripasso anche dibotanica delle piccole dimensioni. Meglio inveceaspettare l’autunno per studiare gli alberi, perché rac-cogliere le foglie che cadono dai rami aggiunge unfascino tangibile al riconoscimento delle varie pian-te e ce le fa sentire più famigliari.

Questi piccoli ospiti sono la ragione per cui la ca-sa del sogno risulta troppo grande per una coppia so-la. Infatti, siamo in due, ma ogni tanto capita che ciritroviamo in nove, o magari in dieci. Ecco perchè bi-sogna anche pensare alle spese. Io posso profittare,per bel tempo, di fare una camminata e allora com-binando l’utile al dilettevole, ritorno con il fabbiso-gno quotidiano; ma questo va bene solo per i picco-li acquisti. Profittiamo invece del centro commercia-le di S.Andrea quando serve una grande spesa, op-pure per i rifornimenti settimanali. Non sarebbe uti-le ignorare questa moderna struttura che ci offre unconcentramento di esercizi commerciali, seppure inun contesto senza anima. L’anima cerchiamo di met-tercela noi, soprattutto nei contatti umani. Per que-sta esigenza basta uscire di casa e andare a trovare lagente. Qualcuno già conosco, ma non sarà difficile fa-re qualche nuovo incontro; a Caldana c’è la SocietàOperaia e sarebbe bello coltivare nuove amicizie perriempire i momenti di tempo libero.

Naturalmente, una vita che scorre in questo modosulle ali di un sogno, correrebbe il rischio di richiu-dersi troppo in un’orbita ristretta e questo non po-trebbe funzionare ai giorni nostri. Per fortuna le op-portunità di apertura non mancano. Proprio fuoricasa mi si offre l’invito a collegarmi con il mondo.Devo semplicemente imboccare il camminamentopedonale che costeggia il terreno ricreativo dell’ora-torio e di lì scendere alla stazione di S.Andrea. Poi è

semplice; il treno delle ferrovie Nord mi porta versola metropoli, dove il passante ferroviario apre tutte lepossibilità della rete dei trasporti cittadini, naziona-li ed internazionali.

Abitazione da sogno, paese accogliente, il mondoa portata di mano.

E’ proprio un sogno!

Per dare concretezza a questa storia, potrei dire cheun sogno più o meno analogo si trovò già a fluttua-re sulle melodia che accompagna una favola bella:

I sogni sono desideri...... e il sogno realtà diverràLa cenerentola che tale desiderio riuscì a realizza-

re in Caldana è Fausta Cialente che nel suo peregri-nare attivo e creativo si accasò proprio in contradaBonè nel volgere degli anni 50, come si legge nel suoscritto Dalla terrazza del Grillo. Per la Cialente poi, larealizzazione non si fermò qui, alla villa Il Grillo, lafavola ebbe un seguito: una imprevedibile realtà tra-sfigurò l’avvilimento dei momenti umili e oscuri nel-

la magia della festosa ribalta in cui il suo metaforicoballo col principe fu l’assegnazione, nel 1976, del-l’ambito premio Strega. Ma si sa, lei era una scrittri-ce di talento.

Per noi, gente comune, è meglio stare coi piedi perterra e per chi è un modesto sognatore come me, con-tinuare a frequentare queste contrade per sentirme-ne paesano onorario. Senza contare poi che coloroche già abitano le contrade Costa, Bonè e Carnisionon hanno bisogno né di sognarsi un acquisto im-possibile, né di sgusciare indenni tra una selva di vin-coli edilizi; le loro radici già succhiano la maternalinfa di Caldana. Basta per loro calzare gli occhialigiusti: quegli occhiali che mostrano il buono che larealtà ci offre ed indicano il cammino più agevoleper poterlo cogliere.

Aurelio Pollicini

17N. 4 - Aprile 2003

@Menta e Rosmarino è su Internet all’indirizzo

www.mentaerosmarino.it

Nel sito, attualmente in allestimento, troverete anche una bacheca on-line dove sarà possi-bile pubblicare documenti di pubblico interesse.

Lo spazio è concesso gratuitamente a tutte le Associazioni, alle Parrocchie, agli Enti, ai PartitiPolitici, alle Scuole ed anche ai privati che intendano divulgare informazioni di interesse per laComunità. (opinioni, comunicazioni, anniversari, lauree, ringraziamenti etc..etc..). I documenti potranno essere inviati all’indirizzo e-mail [email protected] consegnati in busta chiusa presso

• Circolo Cooperativa di S.Andrea• Circolo Cooperativa di Caldana• Rivendita giornali di Cocquio• Alessandro Brunella• Giuseppe Cassarà [email protected]• Alberto Palazzi [email protected]

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Quasi sempre, nel momento in cui spingevola porta della casa di mia nonna Anna, l’o-rologio a muro posto sulla parete del cor-

ridoio in mezzo a due quadretti di santi, fischietta-va cucù, con un uccellino di legno, petulante e sus-siegoso che avrei volentieri strozzato.

“Nell’orologio sono sistemate due scatolette a com-pressione chiamate soffietti che soffiano infatti aria indue fischietti. Sono i fischietti a fare cucù, quando è l’o-ra”.

La nonna mi informava quasi quotidianamentesulla dinamica di quella pendola che pretendeva didarmi il benvenuto, ma io ero certo che fosse quel-la specie di passero antipatico ad espellere i cucù ecome me probabilmente la pensavano i due santi,Sant'Antonio e San Carlo, che da ogni trillo pare-vano trarre turbamento, con un impercettibile cion-dolo delle aureole, intensificando le preghiere af-finché in quella casa, pervasa da un sublime aromadi caffè, trionfasse, alla fine, anche il silenzio.

Già il caffè della mia nonna, l’amico di famiglia,un prodotto per tutte le stagioni, amato, vezzeggia-to e forse concupito, il cacaffè lungo, come dicevalei, o il caffè ristretto, una cannonata che si com-pattava sul palato, il cafferetto, quello corretto conuna certa grappa alla ruta tenuta sotto chiave, ilcaffèrotto, quell'altro appena sfiorato da qualchegoccia di latte e via ancora, a ruota libera, sulle mon-tagne russe delle varianti e degli aromi, giù a capo-fitto nelle miscele do Brasil, del Madagascar, di Hai-ti o della Costa D’Avorio sino alla Robusta della sier-ra Leone per rimbalzare, nel trionfo dei gusti, su unmaterasso di Coffea Arabica.

“Il caffè favorisce il risveglio delle facoltà mentali, ra-gazzo mio, e tu nei hai bisogno forse più di me, a giudi-care da certe tue espressioni un po’ stupidine” mi dice-va con affetto la nonna, e me ne versava un goccio

in una tazzina bianca tutta screpolata e con il ma-nico sbrecciato, forse dalle percussioni del famige-rato cucù.

Era un’offerta sparagnina ed inelegante, quasiclandestina, che compensava le voci di controindi-cazioni per un ragazzino di 10 anni, comunque as-sistito da una forte vocazione al sonno, tanto da far-si chiamare il prete delle pecorelle smarrite, masmarrite nella precocità del torpore.

Mentre la nonna mi elencava tutti i caffè di Mila-no, a partire dal Caffè Duomo, chiamato ancheCaffè delle Mummie, poiché si esigeva il silenziopiù assoluto, per arrivare al Caffè della Peppina, ovesi ritrovavano i mazziniani della Giovane Italia, iopescavo da una grande scatola di latta color argen-to i suoi biscottoni fatti con le formine degli ani-mali.

Sgranocchiavo le gobbe del cammello, il cornodel rinoceronte ed il fondoschiena dell'ippopota-mo mentre rimettevo nella scatola il bisonte inomaggio ai pellerosse confinati nelle riserve e ri-dotti alla fame dal cacciatore bianco.

Sorseggiando caffè, parlava girando il manico diun macinacaffè di legno lucido e rossastro, con ilcassettino che raccoglieva la polvere dei chicchi, pro-fumati come un prato a primavera, aperto e rin-chiuso da mani pazienti, per controllare il livellodella miscela.

“Devi sapere che Bach, il grande musicista, ne hai giàsentito parlare, vero ?...”

e si fermava, aspettando un assenso che non sa-rebbe mai giunto, trovando la mia espressione piùstupidina del solito.

“Devi sapere, anche se non sai, che Bach, il grandemusicista di cui tu non hai mai sentito parlare, scrisse,attorno al 1730, la Cantata del caffè, che narra di unpadre snaturato che vieta di bere il caffè alla figlia Li-setta, povera Lisetta..”.

La curva dell’attenzione calava come un filo apiombo liberato da un mastro muratore ed il miosguardo correva ai muri della cucina, dove la non-na aveva appeso scaffali in abbondanza, con sopraschierate batterie di cucina di ferro smaltato, caffet-tiere di ottone nichelato e caffettiere a filtro dellafine 800: un campionario che oggi farebbe la felicitàdi un antiquario, restituendo a me, se lo avessi, sen-sazioni particolari, vicine alla liturgia di una “A taz-zulella e caffè”.

Nella mia gioventù ci sono stati tanti bar, ed unodei più cari era il Bar di Via Giambellino, cantato daGiorgio Gaber; ma il bar di mia nonna Anna, quel-lo, non me lo porterà via mai nessuno dal profu-mo della memoria zuccherata al punto giusto.

Nel 1961 si potevano trovare delle cartoline do-vute alla lodevole iniziativa del Comitato ItalianoCaffè nella cui compagine avrei visto volentieri lanonna come Presidentessa Onoraria.

Lei ne aveva appese una decina ad un’anta dellaenorme credenza bianca: erano tutte uguali, ma nonimportava, e gridavano al mondo che le virtù delcaffè erano insostituibili.

Proprio per questo la nonna continuava a farme-

ne bere, a piccole implacabili dosi, sostenendo chequella bevanda era una vera panacea per ogni ma-le. “Sai, vero, ragazzo mio, cosa è una panacea?” michiedeva, in modo retorico, non lasciando lo spazioad una risposta che sarebbe comunque rimasta, co-me un marmo, fredda ed inanimata nelle mie in-tenzioni.

“Beh, una panacea è una medicina. Ed il caffè, èdimostrato, guarisce l’emicrania, che tu forse cono-scerai come mal di testa, la gotta, ed in molti casigotta ci cova, l’eccesso di bile, il calo dell’appetito,e tu grazie al cielo non ne soffri, basta chiederlo aimiei biscotti, e la sonnolenza”.

Intanto mi ero appisolato, appoggiando il caposul tavolone della sua cucina.

Suppongo che in quei casi lei scuotesse il capo,per poi accarezzarmi protettiva e rassegnata.

Il canto del cucù mi riportava nel mondo dei ru-mori ed io, frastornato, udivo una specie di sibilo in-sistito.

Era la caffettiera dell’omino coi baffi che spande-va il profumo più gradevole del mondo.

”Pensa che il caffè ha il poter di far scomparire la feb-bre, con poche tazzine” continuava lei, accompa-gnandomi alla porta.

Prima di farmi uscire, mi propinava un cara-mellone alla menta balsamica, per dissolvere quel-l’odore di bevanda adulta e trasgressiva dalla miabocca.

Nel succhiare la caramella provavo sempre un sen-so di brivido ed era come se il naso mi si staccassedalla faccia per volare, come un tappo di spuman-te, verso il cielo, mentre nella gola divampava unfuoco che era caldo e freddo nello stesso tempo, eproprio per questo, grazie al cielo, fuoco non era.

Cominciavo a pompare aria all’eccesso e respira-vo così bene da chiedermi come potesse bastarmiuna respirazione normale nei momenti della miaesistenza che erano fortunatamente molti, in cuinon gustavo caramelle.

Quando giungevo a casa mia mamma correva adaprire le finestre, oppressa dalle zaffate della men-ta che precipitavano dalla mia lingua, che s’allun-gava a dismisura, come una stella filante, molto fi-lante.

Durante la cena restavo sotto osservazione ed al-la fine del pasto il papà suggeriva di darmi un goc-cetto di caffè, per ridarmi tono.

Quando mi coricavo sul mio caro confortevoleletto, le braccia di Morfeo mi avvinghiavano e milavoravano come una maionese.

Il caffè confabulava con il sonno e non c’era cer-to bisogno di contar pecore.

Anche le pecore dormivano, mentre il pastore eraprobabilmente andato al bar.

Carlo Cavalli

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Devo dire che mi ha sempre incuriosito cercare di capire perché siano stati da-ti determinati nomi alle località in cui viviamo.

Per esempio, perché sia stato dato tale nome, Caldana, che porta a pensare auna località assolata, al paese in cui abito, che tra i pregi che offre, certo non for-nisce un clima particolarmente mite e soleggiato, è sempre stato per me fonte dimistero. Del resto anche il dizionario, avvalora le mie perplessità, riportando, ariguardo del significato della parola Caldana, le seguenti definizioni: improvvi-sa vampata di calore al viso; ora calda del giorno,afa, calura; vano riscaldato, neiforni tradizionali, sopra la volta del forno, dove si mette il pane a lievitare.

Oppure vi sarà, probabilmente, capitato di recarvi in qualche ufficio statale,non della nostra zona, e di vedere lo sconcerto dell’impiegata all’atto di dover scri-vere il nome del nostro comune; sconcerto manifestato da frasi del tipo di “Masi scrive con la ‘cq’?” o ,ancora, “Scusi come ha detto!?” e via discorrendo.

Pertanto per indagare sull’origine di tali nomi non ci resta che affidarci alla to-ponomastica, avvalendosi del lavoro che già alcuni appassionati di storia e cul-tura locale hanno svolto nel tempo, così da poter valutare se sono davvero “stra-ni” o “poco indicati” per definire i paesi, nei quali risiediamo.

Certo le definizioni seguenti non vogliono avere la pretesa di fornire assiomi,al contrario si tratta di spiegazioni verosimili, dovute alla commistione di even-ti storici, realmente accaduti, e alla ricostruzione ed interpolazione di tali ele-menti.

Del resto, come riportato nell’antefatto de “Il signore degli anelli” scritto daTolkien, “Con il passare degli anni la storia diviene leggenda e la leggenda divienemito: così alcune cose che non avrebbero dovuto essere dimenticate andaronoperdute”.

Ad ogni modo, partendo da tale premessa, dal libro “Il borgo, la chiesa, l’or-gano” pubblicato nel 1997 in occasione del XX° anniversario dell’ingresso nel-la parrocchia di Cocquio di Don Angelo Maffioli, mi sembra interessante estrar-re il seguente passaggio.

“Il nostro paese, Cocquio, (come altri della nostra zona) ha origini antichissi-me ed interessanti… L’origine del paese sembra risalire al primo secolo a.C. edè legata al periodo in cui Giulio Cesare si stava dirigendo alla volta della Gallia,l’odierna Francia, per conquistarla. Le armate erano al comando del vice di Giu-lio Cesare, Tito Labieno. Sempre in quel periodo fu fondata la cittadina di Lave-no che prese, appunto, il nome del generale citato. Laveno, essendo natural-mente in posizione fortificata ed amena ospitò gli accampamenti principali,mentre in località vicine si stabilirono presidi minori… Altri campi militari c’e-rano anche a Cocquio. Il nome del paese sembra derivare dal fatto che a Cocquiovi fossero i “MASTRI COQUENTES”, cioè, appunto, i cuochi che avevano il com-pito di preparare il rancio per i soldati. La legna che essi usavano era prevalen-temente di Cerro (donde il nome dell’omonima frazione) di cui erano ricchi iboschi(n.d.r.: di quercia, dal latino cerrus,i), mentre le altre due frazioni di Cal-dana e Carnisio deriverebbero i loro nomi rispettivamente da CALDAIE (o se-condo alcuni, da un etimo oscuro che significa FULIGINE) e da CARNEM HE-SUM che significa “mangiar carne”. Dunque il nome Cocquio deriverebbe dai

CUOCHI di romana memoria. Il paese diventò, in seguito, feudo dei conti Co-co, dove la parola CONTI sta per COMITES cioè all’origine, “compagni d’arme”e poi “Signori militari del luogo”…”

In altra fonte si trova, invece, spiegazione dell’origine del termine Trevisago.“Questo paese (n.d.r.: Cocquio-Trevisago) è nato dalla fusione amministrati-

va di due nuclei estremamente differenti per cultura e tradizioni: del più anticodi essi appare sicura l’origine romana, anche se non documentata in modo cer-to: il nome Trevisago è infatti il risultato della volgarizzazione dell’espressionelatina “tres via agere” e ricorda il ruolo di crocevia che aveva questa località, dacui si dipartivano tre strade di notevole importanza: in direzione del lago Mag-giore e di Laveno l’una, verso Milano l’altra, verso le montagne del Ticino sviz-zero la terza… L’area territoriale che attualmente è compresa nel comune di Coc-quio-Trevisago, nell’ambito della strategia difensiva del Ducato di Milano, ven-ne suddivisa in due fasce contigue ma profondamente diverse per funzioni as-segnate e per strutture: a nord-ovest, a mezza costa, sulle pendici della montagna,l’abitato di Cocquio era la residenza del signore, vassalo del duca di Milano, e ilcentro amministrativo; in pianura, qualche chilometro ad occidente, Trevisagoospitava, invece, una cospicua guarnigione e si trovava al centro di una serie distrutture militari connesse ai compiti difensivi assegnati alla zona, rintracciabiliancora oggi nella toponomastica locale: nella frazione di Caldana sorgevano lecucine (“caudana”), in quella di Carnisio i magazzini delle scorte di carne sottosale, in quella di Cerro si accumulava il legname necessario.”

Come si può notare le due fonti si trovano a divergere, almeno parzialmente,non solo sulla provenienza dei vocaboli ma anche sul periodo storico in cuiavrebbero avuto conio.

D’altro canto, dal libro su Marchirolo, scritto da Borri Virginia, si ricava anchel’impossibilità della discendenza del vocabolo Trevisago da “Tres via agere” inquanto che nel tardo impero non era ancora stata costruita la strada di collega-mento con Varese e Milano, la cui costruzione è, invece, probabilmente, da farrisalire all’età alto-medievale, come documentano le due illustrazioni riportate.Mi sembra, per questa ragione, utile, o perlomeno, piacevole riportare un’altrainterpretazione, riguardo alla possibile origine del termine Trevisago, ripresa tragli scritti di Alberto Palazzi.

“Già ai tempi dei Romani vi erano infatti tre torri di avvistamento: una in quel-la che oggi è la frazione Torre(risale secondo alcuni al 100 a.c.), una a Carnisiodove esiste oggi il Belvedere della villa Mörlin-Visconti e la terza dove esiste orala chiesetta di Cerro. “Tres visus”, tre punti di avvistamento, da cui, forse, il no-me di Trevisago.”

Credo con questo di avere fornito una carrellata su alcune delle più suggesti-ve interpretazioni che negli anni si sono sviluppate riguardo all’origine di alcu-ni dei nomi delle località del nostro comune, con la speranza di avere soddi-sfatto la vostra curiosità e di avervi stimolato a “scegliere” la vostra versione pre-ferita tra quelle fornite… E, comunque, se nessuna vi ha soddisfatto, sentitevi li-beri di cercare una vostra spiegazione…

Stefano Bortoli

Cocquio? Come si scrive? Con la c o con la q?

Rete viaria principale fra Lario e Verbano nel tardo im pero. Rete viaria principale fra Lario e Verbano in età alto-m edioevale.

TRES VIA AGERE:non era possibilepoichè questa stradaprim a non esisteva.

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C’era una volta un Impero, quello raccontatodai Balilla e dalle Piccole italiane delle ScuoleElementari di Caldana, fatto di legionari, eroi-

che imprese, orgoglio nazionale, un Negus cattivo etanta fiducia nel futuro. Ma non c’era solo l’Impero,c’erano anche ricorrenze civili disseminate in tuttol’anno per ricordare ai piccoli italiani i loro doveriverso una Patria tanto generosa quanto possessiva,come solo una madre mediterranea sa esserlo. E siparla anche di Mediterraneo in questi scritti, del Ma-re Nostrum, delle glorie romane che risorgeranno,dell'autarchia, della battaglia del grano, e di quant’al-tro ha reso il fascismo, fascismo. Naturalmente ciònon ci sorprende, piuttosto potremmo dire che lagrande storia risulta più simpatica in questa coloriturafatta dai bimbi di Caldana.

Cominciamo col vedere com’era ricordato il “24maggio” dal Balilla Vittorino Fidanza nell’anno ter-zo dell’Impero, sedicesimo dell’era fascista.

Tema: “Il 24 Maggio”.“Questa data ricorda a noi Italiani quando il Re ha di-

chiarato guerra all’Austria facendosi interprete del pensie-ro degli Italiani che volevano riprendere le due belle cittàdi Trento e di Trieste che erano sotto il giogo Austriaco. Nel-la grande guerra i nostri valorosi soldati fecero prodigi di va-lore e riuscirono a riunire alla Patria le terre che manca-vano. Molti furono i morti e tanti sacrifici. Io anche per que-sto sono orgolioso d’essere un Italiano perché quando avròl’età sarò un bravo soldato della mia bella Italia”.

E a proposito di austriaci aveva già detto qualcosail piccolo Gasparini Giovanni, alla sua amica Elsa:

Tema: “Scrivi una lettera ad una tua compagna”“Cara compagna Elsa, non lanciare i sassi contro i tre-

ni in corsa. Non fare agli altri quello che non vorresti fos-se fatto a te.[..] Tu dici che quel sasso che lanciò il Balil-

la fu lancio di viltà? No, non è vero perché quel sasso il Ba-lilla lo lanciò contro i soldati Austriaci e fu un lancio eroi-co. Cara compagna, tu però non lanciare mai i sassi con-tro ai treni in corsa perché se ci fosse su il tuo babbo e loferissero? Non saresti contenta….”.

Ritorna ancora l’Austria, trattata in ben altro mo-do nelle parole del Balilla Bortoli Beniamino di clas-

se quarta, anno scolastico 1937-38. “L’Asse Roma-Ber-lino ha dimostrato al mondo l’unione franca e compattafra due potenti popoli: Italia e Germania. La Germaniaconfina ora con l’Italia Imperiale, perché l’Austria si è uni-ta alla sua Madre Patria: la Germania”. Ma leggiamosullo stesso argomento cosa scrive, nel maggio 1938,la Piccola Italiana Ossola Giuseppina, di terza ele-mentare:

“L’asse Roma-Berlino vuol dire un’alleanza un’amici-zia, potente di due Nazioni, di due Popoli amici guidatida Due grandiosi Condottieri Hitler, il Capo della Na-zione Germanica, e il nostro amatissimo Duce, Condottierodell’Italia nostra.

Hitler trattò il grande patto di alleanza con l’Italia per-ché vide e conobbe che da Lei, dalla sua Capitale che èRoma, parte la luce di civiltà, e di giustizia, che è il farodi luce del mondo.

Questi due Condottieri si sono scambiati le visite nelleloro Nazioni. Il nostro Duce andò in Germania, l’annoscorso, e Hitler venne in Italia quest’anno il giorno 2 mag-gio. L’Italia ci fece grandi feste ad Hitler, come pure Luigliele fece al nostro Duce. Ed ora Italia e Germania gui-date da questi due grandiosi Condottieri, illuminati daDio, vivono nella pace. Ma però il Duce ha detto che lapace deve essere armata, per un caso di necessità della na-zione. Bisogna pregare il Signore che conservi a lungo nel-la vita il nostro amatissimo Duce, per il bene della NazioneImperiale”.

Che cosa fosse questa Nazione Imperiale, chi l’aves-se creata, che aspettative alimentasse, ce lo spiega an-cora Ossola Giuseppina con questo bellissimo com-ponimento

Tema: “La Sicilia è centro geografico e sentinella mari-nara dell’Impero fondato dal Duce, che il popolo Italianoha creato col suo sangue, feconderà col suo lavoro e di-fenderà con le sue armi”.

Svolgimento: “La Sicilia è una grande isola, è la piùgrande del Mediterraneo ed ha la forma di un triangolo.Ai tempi dei Romani la Sicilia era il Granaio di Roma, maanche adesso Benito Mussolini la fa rifiorire e torna adessere il granaio di Roma. Dalla Sicilia vengono esporta-ti all’estero aranci, mandarini, limoni, perché laggiù famolto caldo.

Oltre a questo la Sicilia si trova nel punto principale perla difesa delle nostre Colonie, ed è la sentinella avanzatadel nostro Impero. L’anno scorso ha fatto le manovre ed an-che il Duce vi andò. Tre anni fa l’Italia dovette andare inEtiopia perché aveva bisogno di un posto al sole. E il Con-dottiero, lo disse a noi, nella storica adunata del giorno 2ottobre del 1935. La Guerra incominciò subito il 3 otto-bre e durò sette mesi. Del nostro paese uno si ferì a Mai-Ceu e meritò la medaglia d’argento. L’Italia è povera di Co-lonie, ma invece l’Inghilterra che ne aveva già che era ric-ca di Colonie, non voleva lasciare andare in Etiopia l’Ita-lia a conquistarsi il suo Impero. E a capo di 52 nazioni cimise le Sanzioni.

Ma l’Italia non tremò. Il Popolo Italiano con il suo Du-ce ha vinto. Anche noi Piccole Italiane e Balilla abbiamoascoltato il discorso che fece il Duce il 2 ottobre. Quella se-ra quando abbiamo sentito il discorso, nel nostro cuoresentivamo l’orgoglio e una volontà risoluta di fare l’Italiagrande e potente. Non si tremò per il convegno di Gine-vra, dove, riunite le 52 Nazioni, volevano affamarci, noiuniti e forti abbiamo risposto “Menefrego”. Ed ora comequel giorno continuiamo a fare grande l’Italia”.

Tognola Camilla scrive invece nel suo tema che “...lastorica adunata del 2 ottobre voluta dal Duce, ed anch’iovi partecipai con orgoglio. Me lo ricorderò sempre. Erava-mo in Salone per ascoltare la parola del Duce, quando ar-rivò l’ordine di scendere a Cocquio. Scendemmo laggiù,non trovammo i nostri compagni inquadrati, ma fatto ilnostro dovere risalimmo che era notte.”

Più avanti scrive poi che “...in Eritrea combatteronoanche i miei compaesani e tra questi il mio fratello che siè meritato la Medaglia D’Argento al Valor Militare. Ed iosono orgogliosa”. Segue a pag. 21

La scuola del DuceScuola Elementare di Caldana — DI MARINA RAINERI —

Caldana - Scuole Elem entari.

Bella scrittura

Tutti i nodi furono tagliati dalla nostra spada lu-cente e la vittoria africana resta nella storia dellaPatria, integra e pura, come i Legionari caduti e su-perstiti la sognavano e la volevano. L’Italia ha fi-nalmente il suo Impero. Benito Mussolini

20 N. 4 - Aprile 2003

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Segue: La scuola del Duce

Grande entusiasmo e curiosità suscitarono i prodot-ti dell’Impero.

De Maddalena Maria scrive che “....Noi Italiani ab-biamo conquistato solo in sette mesi di guerra il nostroImpero. E’ cinque volte il suolo della Madre Patria Italia.E incomincia già a fruttificare...[..].Si coltiva il tabaccoche gli italiani ne consumano molto in fumo. Il caffè inEtiopia nasce anche sulle sponde delle strade. E da noi èmolto caro. Veramente a me non piace. La palma oleife-ra da l’olio che è molto bisognoso. La banana, a me nonpiace molto perchè è troppo dolce. E’ un frutto nutrientis-simo. Noi bambini di questo Impero ne godremo molto.Fra pochi anni fruttificherà molto e avremo il necessa-rio...”

Ruspini Enrico si appassiona alla coltivazione deltabacco e sostiene che “le fabbriche italiane dispongo-no di un moderno attrezzamento e consentono una con-fezione perfetta e superiore come qualità ai prodotti este-ri...”

Erano tutti “Plagiati e contenti1”? Molto probabil-mente si, ma si sa che i bambini, se vogliono, dico-no agli adulti quanto questi si aspettano di sentirsi di-re e che gli adulti, almeno molti, sanno anche op-portunamente dissimulare.

da imparare a memoria

INNO DEL BALILLA

Fischia il sasso, il nome squillaDel ragazzo di PortoriaE l’intrepido BalillaSta gigante nella storia…Era bronzo quel mortaioChe nel fango sprofondòMa il ragazzo fu d’acciaioE la madre liberò!

Fiero l’occhio, svelto il passo,chiaro il grido del valore:ai nemici in fronte il sasso,agli amici, tutto il cor!

Su lupetti, aquilotti!Come i sardi tamburini,come i siculi picciotti,bruni eroi garibaldini!Vibra l’anima nel pettoSitibonda di virtù;freme, Italia, il gagliardettoe nei fremiti sei Tu!

Fiero l’occhio, svelto il passo,chiaro il grido del valore:ai nemici in fronte il sasso,agli amici, tutto il cor!

Siamo nembi di semente,siamo fiamme di coraggio:per noi canta la sorgente;per noi brilla e ride maggio:ma se un giorno, la battagliaAlpi e mare incendierà,noi saremo la mitragliadella santa Libertà!

Fiero l’occhio, svelto il passo,chiaro il grido del valore:ai nemici in fronte il sasso,agli amici, tutto il cor!

Manganello, manganelloche rischiari ogni cervellomai la falce ed il martello su di te trionferà.

Dove è nato Garibaldidove è morto CorridoniDisertori né ribaldinon saranno mai padroni

Manganello, manganelloche rischiari ogni cervelloogni eroe dal suo avellol’opra tua benedirà..

(dettato scolastico)

da imparare a memoria

GIOVINEZZA

Salve, o Popolo d’Eroi,salve, o Patria immortale,son rinati i figli tuoicon la fede nell’ideale.

Il valor dei tuoi guerrierila virtù dei pionieri,la vision dell’Alighierioggi brilla in tutti i cuor.

Giovinezza, giovinezzaprimavera di bellezza,della vita nell’asprezzail tuo canto esulta e va!

Dell’Italia nei confinison rifatti gli Italiani,li ha rifatti Mussoliniper la guerra di domani.

Per la gioia del lavoroper la pace e per l’alloroper la gogna di coloroche la Patria rinnegar.

Giovinezza, giovinezzaprimavera di bellezza,della vita nell’asprezzail tuo canto esulta e va!

I poeti e gli artigianiI signori e i contadini,con orgoglio d’Italianigiuran fede a Mussolini.

Giovinezza, giovinezzaprimavera di bellezza,della vita nell’asprezzail tuo canto esulta e va!

Per Benito Mussolini Eia eia alalà.

Bella scrittura

Parole di Mussolini“Coloro che io preferisco son quelli che lavoranoduro, secco, sodo, e preferibilmente in silenzio”.

“Te se regordet inquand vegneve dent re maestra Armida: se scatavain su ‘r attentti e guai chi fiadava.

In temp dul Fascio, pöo, la ghe faseva recitaaVincere, vincere, vinceremoin cielo, in terra, in marele nostre labbra giuranoo vincere o morire.”

(da Storielle d’altri tempi di A. Palazzi)

1. - “Plagiati e contenti” è il titolo di un interessante volume di NorisDe Rocco pubblicato da Mursia nel 1994.

Scuole Elem entari di Caldana, 1928.

21N. 4 - Aprile 2003

Il materiale documentario è stato for-nito dalla Famiglia Diego Anessi.

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Al Direttore di Menta e Rosmarino

A suo tempo le posi una domanda per capire il per-ché della differenza del costo del metano esistentefra il Comune di Cocquio ed i Comuni limitrofi. Lasua risposta è stata per me abbastanza chiara.

Ora le chiedo: l’Amministrazione Comunale comesi è difesa?

La Società distributrice del metano a Cocquio s’èfatta sentire spiegando il perché della differenza?

Detto questo, se mi è possibile, vorrei porle due do-mande. E mi risponda come ha fatto l’altra volta ecioè senza i “se” e senza i “ma”.

I° domanda: l’abbattimento delle piante sul terre-no Parco Clivio e la costruzione di un mastodonticoagglomerato di stands con teloni per ballo, cucine ebagni è regolare in base alle norme comunali?

E’ regolare che alcune strutture non siano state ri-mosse nonostante un’ordinanza in tal senso?

II° domanda: in merito all’intenzione dell’Ammi-nistrazione di realizzare un nuovo Parco delle feste aCaldana, magari in concorrenza con quello in co-struzione in Via Marconi, ne sa qualcosa?

Cesare Crugnola

Rubrica dei lettori

Lettere al DirettoreQuesta rubrica raccoglie le considerazioni dei lettori.

Ospitiamo volentieri i lettori che intendono for-nire un loro contributo purchè questo non sia vol-gare, offensivo o propagandistico.

In tal senso auspichiamo una generosa collabora-zione.

Gli scritti dovranno pervenire entro il 15 luglio 2003presso:

Circolo Cooperativa di S. AndreaCircolo Cooperativa di CaldanaRivendita giornali di Cocquio

oppure all’indirizzo e-mail:[email protected]

22 N. 4 - Aprile 2003

LE TRADIZIONI NON TRAMONTANO MAIEgregio direttore, è bello poter constatare che, malgrado l’arida e frenetica vita cittadina, ci sia ancoraqualcuno che dia importanza ai valori che contano veramente.

Così come precedentemente accaduto al padre dello sposo, anche Daniela Vezzanied Andrea Dadetti, hanno coronato il loro sogno, unendosi in matrimonio l’11 gennaio 2003, alle ore 17.00, nella suggestiva cornice innevata dell’antico borgo del Cerro.La cerimonia si è svolta nella piccola chiesa di romantico aspetto, officiata da Don Santino, che con

semplici parole, ha saputo rendere ancora più toccante questo particolare momento.La serata si è conclusa in un’ atmosfera amichevole, allegra e frizzante… come l’ambiente del Cerro.AUGURI AGLI SPOSI !

Laura Codevilla

Caro Cesarino, “senza i se e senza i ma”, proprio cosìmi piacerebbe risponderle, con quella schiettezza con cuilei ha sempre espresso la sua opinione.

Circa la prima questione da lei posta non abbiamo ri-cevuto alcuna comunicazione.

In relazione alle sue due domande ed in particolare al-la prima le dirò che il Piano Regolatore del Comune diCocquio prevede per l’area denominata “Parco Clivio”una destinazione urbanistica particolare: “Zona a verdepubblico naturale ed attrezzato”.

Più nel particolare significa che l’area può essere utiliz-zata come “Parco oppure come area attrezzata per la ri-creazione” (art. 29, comma 4 del N.T.A.). Di norma adutilizzare questo tipo di aree è “l’Amministrazione Co-munale [..] mediante intervento diretto, previa approva-zione di apposito progetto esecutivo da parte del ConsiglioComunale” (art. 29 N.T.A.).

E’ però concessa anche l’utilizzazione da parte di privati(ed è il caso della Società Operaia di Caldana). Se adutilizzarla sono appunto dei privati la concessione (e an-che la realizzazione di eventuali opere) è subordinataperò “alla stipula di una convenzione [..] che garantiscala destinazione vincolante di zona, l’utilizzazione pubbli-ca e sociale delle opere stesse, nonché le modalità di con-trollo della Pubblica Amministrazione nella gestione diquanto realizzato e le sanzioni per le inosservanze”. (art.29 N.T.A.). In altre parole la legge dice: di norma è il

Comune a gestire queste aree, ma può gestirle anche unprivato, il quale, però, su quell’area non può farci quelloche vuole. Il privato deve impegnarsi per iscritto a salva-guardare, mediante una convenzione, la destinazione del-l’area che nel caso “Parco Clivio” deve essere area “ver-de”, “pubblica” e “al servizio della comunità” (per la pre-cisione “al servizio della residenza”).

L’anno scorso la Società Operaia di Caldana ha bene-ficiato dell’utilizzo dell’area in virtù di un permesso co-munale (della durata di quattro anni), ma senza che fos-se stipulata alcuna convenzione in tal senso.

Lei mi domanda: “E’ regolare tutto ciò in base alle nor-me comunali?”.

Da quello che si evince dalle Norme Tecniche Attuatti-ve associate al P.R.G. del Comune di Cocquio parrebbedi no. Ma a questo punto, caro Cesarino, se vuole anda-re fino in fondo, se vuole avere una risposta più comple-ta, dovrebbe rivolgere la domanda agli Amministratori.

Loro saranno tenuti a chiarirle in quali ambiti legisla-tivi si sono mossi.

Lei mi pone poi una seconda domanda circa le inten-zioni da parte dell’Amministrazione di realizzare un nuo-vo Parco delle feste a Caldana. A tal proposito posso inve-ce essere più preciso: l’Amministrazione ha più volte ma-nifestato pubblicamente l’intenzione di realizzare un nuo-vo Parco a Caldana.

(a.p.)

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DAVI’ PAOLOagente generale

Via IV Novem bre, 35 - Tel. 0332.744439 - GavirateSub/agenzia di Laveno: tel. 0332/668089

Segue a pag. 23

GIORNALE.qxd 17/04/2003 20.34 Pagina 23

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Nel precedente numero la lo-calità da indovinare era Coc-

quio.Il concorso è stato vinto dalle si-gnore Begnamini Marta e BosoniElisabetta.La zona ha ora completamentemutato fisionomia, come si puòosservare da una recente imma-gine.

Circolo Cooperativa di S. AndreaCircolo Cooperativa di CaldanaRivendita giornali di Cocquio

oppure all’indirizzo e-mail:[email protected]

A CURA DI BRUNO BERTAGNAIndovina la fotoSegue: Lettere al direttore

L’anima delle cose

Tra ricerche storiche, storielle d’altri tempi e ipotesi di rivitalizzazione dei paesi,ho l’impressione che tutto alla fine proceda purtroppo nel modo migliore perchi a questi luoghi è interessato solo strumentalmente, per ragioni di guadagno

e di uso spregiudicato, furbesco e incolto del territorio.Salva restando questa impostazione di fondo, chiara e forte, penso che molto ci sia

da fare, sul piano culturale, per ridare alla gente un senso comune di appartenenza.Quanto scrivo, anche nel dissenso, vuole essere un contributo al dibattito che que-sto giornale auspica.

Io non credo che a paesi come Cerro e Caldana possano essere applicate le stesseletture che valgono per altri piccoli centri alpini e appenninici, ormai abbandonatiperché privi del minimo indispensabile per sopravvivere. Qui, al contrario, siamo as-sediati da catene ininterrotte di servizi, supermercati, centri commerciali; e il lavoro,se, come capita del resto normalmente ovunque, non è più sotto casa, lo si raggiun-ge in macchina o in treno senza eccessivi problemi. Questi paesi non sono i soli adavere subito importanti cambiamenti strutturali e sociali a seguito dell’industrializ-zazione e del consumismo da essa prodotto. Si tratta di un fenomeno molto gene-rale, addirittura mondiale, cioè globalizzato, che può essere affrontato solo con unavisione culturale completa e coraggiosa. Perciò proverò a trattare di cultura e globa-lizzazione facendo parlare, col coraggio necessario a chi parla fuori dal coro, l’intui-zione affettiva e l’elaborazione simbolica.

Quando ero bambino, verso la fine della guerra ho vissuto come sfollato in unagrande casa fuori Bergamo, dove ho visto nascere il vitello, fare il salame, cuocere lapolenta nel camino, volare le grosse Saturnie del Pero nelle sere d’estate. Per due an-ni, che sono stati un’epoca. Poi siamo tornati a Genova e gli spazi di libertà si sonoridotti: i palazzi, le strade, la scuola. Eppure qualche scampolo di natura e di cam-pagna sopravviveva ai bordi della città: bastava volerlo e cercarlo, come ho semprecontinuato a fare crescendo. Perché? Per amore. Per ragioni di cuore. Perché la miaanima andava in quella direzione, nonostante tutto. In seguito, a Milano, mi sonolaureato e lì ho lavorato per molti anni. Ma in estate ero sempre in Grecia, là dove imisteri del mito e degli archetipi si impregnano degli odori dei cibi semplici di ca-sa e vestono le forme di un vissuto quotidiano atemporale.

Un annuncio sul giornale e sono capitato a Cerro. Ho visto la casa in vendita e l’horiconosciuta. Non la zona. Non la gente. Non le tradizioni locali. L’anima della ca-sa ho riconosciuto, perché le case hanno un’anima. E tu devi sapere qual è la tua, quel-la che cerchi come luogo della tua esistenza, perché sai scegliere e sai cosa vuoi. Al-lora quella diventa la tua casa, anche se altre, in luoghi diversi e lontani, avrebberopotuto esserlo: dico altre, certamente non tutte.

Palazzi mi chiedeva una volta coma vorrei che fosse Cerro, ora e magari fra trent’anni.A me intanto piacerebbe molto che le case, le strade e le piazzette non perdessero

l’anima, come purtroppo è già in parte avvenuto, con interventi impropri di chirur-gia strutturale ed estetica che vorrebbero farle diventare altro da quello che essen-zialmente sono state e simbolicamente ancora rappresentano. E poi vorrei, adessoma anche fra trent’anni, che ci abitasse gente sincera. Intendo dire gente che, comeme anche se diversa da me, in una casa cerca l’anima di ciò in cui crede. Gente chesa cosa vuole e che sa scegliere. Già, perché la minaccia più formidabile, sulla qualepoi si innesta tutto il possibile degrado, viene proprio da chi, più o meno consape-vole, non si accontenta, vorrebbe altre case diverse, altre anime diverse; e invece dicercarle altrove, dove già esistono in seriale abbondanza globalizzata, si affida adoperazioni chirurgiche che non accontenteranno mai veramente nessuno.

In altre parole, ora e fra trent’anni, vorrei vedere Cerro abitata da gente, come si di-ce, persuasa, cioè serenamente contenta di ciò che ha, di ciò che è il paese nella suaessenza, perché ha ciò che responsabilmente ha scelto. Naturalmente perché ciò ac-cada ci vuole cultura. Cultura matura e consapevole rispetto ai falsi miraggi dell’on-nipotenza infantile, cioè dell’avere tutto senza rinunciare a niente. E questa condi-zione di infelicità e alienazione, è bene ricordarlo ancora, è una condizione genera-le, appunto globalizzata, riscontrabile purtroppo ovunque. Questo è ciò che ci ren-de veramente tutti uguali e tutti ugualmente spaesati, magari senza saperlo.

E allora, caro Palazzi, non si tratta solo di cercare tranquillità e aria buona, cometu dici riferendoti ai nuovi venuti, ma di sapere quel che si vuole, come sarebbe au-spicabile anche per gli abitanti di storica memoria. Di essere adulti in un mondo

Segue a pag. 24

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La Redazione di Menta e Rosmarinoaugura a tutte le famiglie di

Cocquio Trevisago Buona Pasqua.

23N. 4 - Aprile 2003

Ed ora ecco la fotografia che vi invitiamo ad indovina-re in questo numero: è tratta da una cartolina anni ’20.

Fra i lettori che individueranno la località dove è stata scattata la foto-grafia verrà sorteggiato un fortunato vincitore cui sarà fatta omaggio

una preziosa acquaforte di Agostino Zaliani.Le risposte dovranno essere fornite in busta chiusa intestata a “Menta e Ro-smarino”, rubrica Indovina la foto e consegnate entro il 15 maggio 2003presso:

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Page 24: DIVENTARE COMUNITÀ - Menta e Rosmarino...Eppure c’è qualcosa di quel paese di cui anche og-gi non riusciamo a fare a meno nel paese di ben-godi in cui viviamo: la solidarietà

Caro Direttore, le scrivo per congratularmidella riuscita del periodico “Menta e Ro-

smarino” che, pur ricevendo in modo discon-tinuo e a volte improbabile, leggo sempre conuna certa trepidazione.

E sì, perché deve sapere, che non essendo re-sidente a Caldana, ci vengo a trascorrere ap-pena posso le vacanze e allora, un po’ grazie adamici gentili e un po’ per le continue richie-ste a uffici, edicole e vicini, mi rifornisco deinumeri arretrati dei giornali locali: Corre Vo-ce e Menta e Rosmarino. Mentre il primo,però, come proprietaria di casa, mi aspettereidi riceverlo direttamente dall’Amministrazio-ne Comunale alla quale verso considerevolicontributi, il secondo, Menta e Rosmarino, neiconfronti del quale non vanto alcun diritto, aNatale me lo sono visto addirittura recapitarea Milano.

Che regalo inatteso e gradito!! Tra l’altro mi ha messo ancor di più la voglia

di essere a Caldana a trascorrere le vacanze chesarebbero giunte da lì a poco.

Tante volte ho lasciato agli uffici comunali ilmio nominativo perché mi facessero perveni-re, in qualche modo, Corre Voce (non fossealtro per essere informata su date riguardantila vita pratica di un paese: scadenze, giornateecologiche (c’è poi questo gran bisogno da voicon tutto quel verde ?), ma i tentativi sono an-dati tutti falliti. A Voi, invece, una sola voltaho scritto chiedendo come fare per ricevere,anche in abbonamento, il vostro periodico edeccolo qua, bello e pronto, come regalo di Na-tale.

E allora cosa dire? Grazie, grazie e ancoragrazie per Menta e Rosmarino che darà sì “gu-sto, sapore e profumo alla vita del paese” ma,in questo caso io aggiungerei, “anche a chi delpaese non è”.

Congratulazioni a Lei e a tutto lo staff reda-zionale.

Emma Muccio

Segue: Lettere al direttore - L’anima delle cose

fatto troppo spesso di bambini viziati e distratti dal con-sumismo e dalla globalizzazione, che insegnano a vole-

re tutto e quindi a non scegliere mai. Così, alla fine,non si ha niente e si diventa davvero tutti uguali nel-

la scontentezza. Il mondo globalizzato, che va molto al di là deiconfini di Cerro e Caldana, alimenta un altro fal-so teorema, forse il più nefasto, perché appa-rentemente riconducibile al buon senso comu-ne: il principio di utilità e concretezza, secondoil quale ogni cosa, ogni azione, ogni progetto,deve essere valutato in rapporto alla sua con-creta utilità. Anni di produzione industriale e diconsumo ci hanno da tempo abituati a ritene-re concretamente utile ciò che produce denaroe ricchezza immediata. Così concretezza, utilità

e denaro sono diventati praticamente la stessacosa, che informa il principio di realtà. Ma que-

sto principio materiale non spiega l’amore per unfiglio, per un cane raccolto dalla strada ed anche

quello per una casa. Ci sono tensioni che non pos-sono essere definite utili, non servono, sono e basta.

Per figli e cani, la cosa è risaputa. Per le case meno. Ancheperché esiste pur sempre un mercato immobiliare e qualche

architetto molto sbrigativo che definirebbe ancora la casa comeuna “macchina per abitare”. Lasciamo perdere la casa come status

symbol, che pure resta una definizione condivisa da molti, perché serve ad imporre un’immagine sociale vincente.Che serve sempre.

Giorgetti ha scritto: ”quando entriamo in un museo di cultura materiale e vediamo in esposizione tutti gli og-getti che si usavano un tempo, proviamo un senso di imbarazzo, se non di disgusto, perché ci sembra di stare inuna camera mortuaria”. Già, forse perché quegli oggetti non servono più, sono morti e basta? Il rapporto tra pas-sato e presente non può esprimersi soltanto in termini di perdita o di improbabile resuscitazione. Senza imma-ginazione e capacità di elaborazione simbolica, c’è solo morte in un museo, sia esso una raccolta di oggetti, unnucleo antico, una casa, un prato.

Ma quando un oggetto, così come una casa e un gruppo di case, ha concluso il suo ciclo storico di utilità ma-teriale, se non lo si butta, che farne? Se si prova imbarazzo o ribrezzo forse è perché non se ne riconosce la fun-zione immaginativa e simbolica che può continuare a svolgere nel tempo. Così un vecchio attrezzo, se lo si saascoltare, parla e racconta l’autosufficienza, il piacere della diversità e dell’imperfezione, il senso del bello unitoall’utile, il valore del risparmio, il gusto della consapevole padronanza del mezzo… Potrei continuare a lungo,sconfinando nella favola, nel sogno, nello stimolo creativo.

Allora a mio avviso non è così importante che una casa abbia perduto i suoi primi abitanti e costruttori se chioggi la vive continua a dialogare con lei per quello che essa è e può rappresentare sul piano ideale. Sapere ri-spettare e conservare le tracce del passato è importante, intelligente e giusto. Ma senza immaginazione, senzauna capacità di elaborazione affettiva e simbolica, tutto si riduce ad un angusto principio di realtà materiale, ealla morte dell’anima.

Le nuove comunità che vorrei vedersi formare in questi paesi, così come altrove, mi auguro possano fondarsisulla consapevolezza dell’emergenza epocale che stiamo attraversando, tra sprechi di pochi e miserie di molti; co-munità solidali col resto del mondo prima ancora che al loro interno, animate da quel principio di moderazio-ne che così bene ha descritto recentemente Umberto Galimberti: moderazione come limite morale ad uno spre-co rapinoso, egoista e suicida.

Le comunità contadine di un tempo praticavano la moderazione per necessità. Ora è il momento di elevarla alegge morale su cui fondare una cultura comune.

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La casa di Cerro.

24 N. 4 - Aprile 2003

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Ghevum ‘ne piaza che l’eva un fioor

Ghevum ‘ne piaza che l’eva un fioor,mò a furia de dagh l’ha perdu incà r’unoorOh Togn, eh ghii propri resùnhann lasà chi un siit chel par pu de nissùn.

Alora, damm a traa, duman vò giò in Cumune ghe canti su ciar i me resun!Ghevum ‘ne piaza che l’eva un fioor,voren rimetela a post. Sì, ma inquand….? Le sa ‘r Signoor!

Scioor Sindich, samm propri mia cuntentI lasà lì ne piaza che l’è propri un malamentSe disii mai, Togn, podi mia sentii, oh porca vaca,che colpa ghe n’ho mi s’han metù giò un noos de mèza taca!

Ma incà re piaza la va caezada, ghe vöer un pavimentquaicoss de bel, so mi, duu bulugnit francà cur ciment!Fii quaicoss, chel che vurii, metii giò almeno ‘ne piantinaindoa pudèe naa sott a faa ‘ne cantadina.

Caro ur me Togn, mi sum mia tant vun che resta indrèVurii ‘ne piante? Ven meti incà tre.Ve meti incà i bulugnit francà cur cimentanca se a vardaa i finanz sarìa mia ur mument.

De piant n’è ‘see vuna par fagh cuntentsenza nanca bisogn che le gabia un gran purtamentparchè, senza tanti stori, bèla o bruta che sia,l’è semper mei veghen giò vuna che veghen mia.

Oh Togn, i propri fai ben a nii giò in de mi,adess u capì: pudii naa a cà cuntent che farò inscì.Par utegn quaicoss bisogn mia met giò tanti stuàbisogn nii giò in dur Sindich e i ropp vegnen sistemà.

Putost adess, a dila in tra de nunch dur mistee,ur Togn in dur Sindich l’è nai, ma dimà cur pensee.Alora, a chi dur Cumun, sarìa mia mei dagh de bun ‘ne mòssa,che paar certi alter ropp ghe l’han bè la còssa,chi invece g’ho propri in ment che se bruntolum miagam inscì de speciala la piaza o incà dimà un noos de soravia!

A.P.

Menta e uscmerinDI GREGORIO CERINI

Che bel bambin! Che bel bambin!tuta pucia e erburinmuresina mel per d’un berind’amor ridenta in sul cusin.

Che bel bambin! Che bel bambin!un poo ciapin un poo angiulinte do i me occ par un basine ne sctrengiuda me bel puresin.

Che bel bambin!che bel scigulin!tuta menta e uscmerinte see ne richeza!

te see ne beleza!vori fat ne careza.Che bel bambin!prufum de menta e uscmerinte scpeci sctesira in sul cusin.

Faa nagot se ul temp l’è pasàchel che cunta l’è mia naa in scpazecàe se propi lel vor ul desctincanterò sempur… che bel bambin!…

(Sarebbe bello metterla in musica.C’è qualcuno che se la sente?)

La Redazione

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LA SNIALa Snia l’era un stabilimentche dava de laurà a tanta gent,omen, donn, tusann,perchè alora se nava in fabricaa quatordes ann.

Se laurava a turni,se faseven tre ripres,ma ul turno pusè bell’èra chel dai do ai des,inverno o està,quand a la sira se nava a càgherum semper voia de cantà.

Serum una bela compagnia,se radunaum in piaza de la staziun,ciapaum la strada per vegnì a cà,che, chi sa ul perchè,alora ghera anca ul marciapè,con tutt i piant de tili,

La forza d’un surìisDa temp ormai la gent o le rìid par nagòttopüür tropp facilment le piang a diròtt.L’è vera che gh’emm mia tanti resùun de rìid, ma se puderia almèen tentàa de surìid, parchè un surìis el g’ha ‘na forza davèra cunvincènte oltretutt al dunatòor el custa mèen de niènt.E se anca tanti volt el dura dimà un mumènt ul so ricord el pò vèss assèe par cuntentàa tanta gent.El pò vèss la ciàav par dervii ‘na porta saràda, el pò vèss ul ristòor d’una bruta giurnàda.A ‘n quai omm el pò parèe l'apariziùun dula Madòna, se a surìid in certi ucasiùun l’è ‘na bèla dona.Pensìi a quanti prublemi se puderìen risolv adèss se la gent le impàrass a surìid pussèe de spèss.Quanti bei mument se pòden ricurdàa in un surlis: te sàret i ócc e te pàar de vèss già in paradìis.E se te tròvet un quai vün che purtropp el surìid mai, fàghel ti un surìis, parchè de sicüür l’è ‘n omm pièn de guai, l’è vün che g'ha bisògn de tanta cumprensiùun e ‘n tò surìis el pò dagh un mumènt de cunsulaziùun.

Mauro Marchesotti

e quand gaveven ul fiormandaven un bun udor.Oh, quanto bel cantà,e serum anca cuntent,perchè savevum che i nost canzunpiaseven a la gent.

Po, pian pian,i tusann in vegnù grand,man man ul temp el pasava,la cumpagnia la se disfava.

Chi de chi, o chi de lì,s’è cumincià a cercà marì,quand quasi tuc sin cumpagnà,s’è senti pu nanca a cantà,e... via viaghè scomparì anca la Snia.

Carolina Crugnola

M aestranze, im piegati e operai della Snia.

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La Fondazione Istituto Sacra Famiglia èentrata a pieno titolo nella storia dellacomunità di Cocquio negli ultimi 80

anni; all’inizio in modo quasi nascosto quan-do era adibita a casa di vacanza e, con il pas-sare degli anni, si è fatta conoscere meglio at-traverso l’ampliamento delle strutture con ilconseguente aumento del numero degli ospiti.

Il passaggio graduale a residenza per disa-bili, provenienti dalla Sede e dal territorio diVarese, ha segnato l’avvio definitivo di unanuova epoca che l’ha elevata ad ambiente dilavoro per persone della zona.

Sono trascorsi circa 40 anni da allora e sisono verificati molti cambiamenti all’inter-no della Sacra Famiglia; siamo in procintodi realizzare ulteriori modifiche decisive peril futuro della casa a beneficio del Comune diCocquio e dei Comuni limitrofi.

Per avere un quadro completo dell’Istituto,al fine di comprendere la realtà, gli obiettiviistituzionali, la sua posizione e i rapporti congli Enti del territorio, le prospettive future nelsettore dei servizi, occorre procedere per ar-gomenti.

La storia della Sacra Famiglia

L’Istituto Sacra Famiglia nasce a Cesa-no Boscone il 1 giugno 1896 con il

nome di Ospizio Sacra Famiglia, quan-do il Parroco del paese, Don DomenicoPogliani, accoglie in casa sua cinque per-sone bisognose della campagna milane-se. La storia racconta di un veloce am-pliamento delle strutture edilizie e dellacapacità ricettiva della Casa durante la di-rezione del fondatore, al quale, ormaivecchio e malato, dal 1919 succede DonLuigi Moneta con l’energia e la chiarezzadi idee per continuare l’opera di Don Do-menico che, alla sua morte avvenuta nel1921, accoglieva già 600 persone.

La forza propulsiva e la capacità realiz-zativa di Mons. Moneta sono addiritturaproverbiali: tra il 1921 e il 1955 (annodella sua scomparsa) crea 18 nuovi re-parti nella sede centrale, apriva le filialidi Intra e Premeno, le case di Cocquio eAndora.

Per la Filiale di Cocquio l’opera diMons. Moneta segna la sua nascita av-venuta ufficialmente il 18 luglio 1926.

Mons. Moneta ha acquistato la VillaUmanitaria (l’attuale edificio più antico)dalla Società Umanitaria - FondazioneP.M. Loria di Milano con un commentoparticolare e riportato nel Bollettino delluglio-settembre 1928 “... che i poveripossano possedere una villa appare, a pri-ma vista, un paradosso! ...“ L’obiettivoche Mons. Moneta da tempo sognava eraquello di offrire agli ospiti di Cesano unacasa di vacanza; un “lusso” che dovevaservire ad alleviare la sofferenza dei po-veri costretti a vivere nel clima insalubredella campagna milanese. Nel 1926 lacasa di Cocquio apre le porte a circa 100persone che da maggio a ottobre poteva-no, a turno, godere di un clima miglioresul lago di Varese a ridosso delle Prealpicon la vista delle Alpi.

Nel 1930 Mons. Moneta volle tenereaperta la casa tutto l’anno e per questodotò la villa di un impianto di riscalda-mento, cosi che il numero degli ospiti,che potevano approfittare degli effetti be-nefici del clima, era ancor più numeroso.In quegli anni nasce a Cocquio la Co-munità delle Ancelle della Divina Prov-videnza. Correva l’anno 1928.

Questi “parafulmini della casa”, comeli definì l’allora Cardinale Eugenio Tosi,erano una famiglia di religiose formateda ricoverate che si dedicavano all’operadi carità all’interno della casa, chi con lapreghiera, chi come maestra di lavoro,

chi come infermiera nei reparti.In quegli anni Mons. Moneta veniva

spesso a Cocquio per rilassarsi dalla fati-ca della gestione di Cesano ed aveva al-lacciato rapporti intensi con la Parroc-chia, tanto che era stato chiamato dal Par-roco a ricoprire la carica di assistente delcircolo femminile.

Nel 1936 la Casa di Cocquio si ampliòcon l’acquisto della Casa Sant’Ambrogioe San Carlo (ex Villa Donini, attuale Ma-

donnina) per accogliere i sacerdoti an-ziani della diocesi di Milano che necessi-tavano di trascorrere qualche settimanadi vacanza per “..poter riposare le stanchemembra in luogo di quiete..” e “... acco-gliere sacerdoti costretti, dall’età e dagliacciacchi a lasciare la vita parrocchiale”.

Ma già dal 1944 questa casa non ospi-tava più i sacerdoti che erano stati accol-ti nella casa degli Oblati di corso Magentaa Milano.

Se una porta si chiudeva un’altra si apri-va; infatti la destinazione d’uso della Ma-donnina cambiò e ospitò “bambine nor-mali gracili, bisognose di aria buona, nonaffette da forme infettive, che avevano bi-sogno di una scuola elementare e di av-viamento professionale”.

Alla fine della seconda guerra mondialele case aperte a Cocquio erano due: la Vil-la e la Madonnina.

Negli anni a seguire le due case hannoospitato vari gruppi: piccoli cronici, bam-bini bisognosi di scuole differenziali, mi-nori orfani, illegittimi e abbandonati coninsufficienza mentale lieve - media.

Si trattava sempre di persone che pro-venivano dalla sede di Cesano. Nel 1955Mons. Moneta moriva lasciando le redinia Mons. Piero Rampi. Come si può facil-mente costatare, durante la gestione Mo-neta, la casa di Cocquio aveva funziona-to a favore dei ricoverati di Cesano e nonaveva ancora aperto le porte alle necessitàdel territorio; ma i tempi erano ormai ma-turi per un cambiamento epocale.

La nuova gestione di Mons. Rampi siera posta inizialmente sulla scia del pre-decessore. Nel 1965 infatti il Consiglio diAmministrazione decise di costruire unanuova struttura a Cocquio per ospitare lescuole speciali femminili. Nel 1968 fuinaugurata la Casa Nuova (cosi denomi-nata anche oggi) capace di ospitare uncentinaio di bambine trasferite da Cesa-no con un programma finalizzato all’as-solvimento dell’obbligo scolastico ad at-tivare quanto necessario per il reinseri-mento in famiglia e nel contesto socialedi provenienza. La Madonnina era statanel frattempo utilizzata come aziendaagricola.

Dalla metà degli anni ‘60 dunque le trestrutture (Villa - Casa Nuova - Madonni-na) iniziarono ad essere utilizzate pergruppi di persone in forma residenzialestabile. Da casa di vacanza o di sollievoper malattie fisiche dopo circa 40 anni lafiliale di Cocquio si trasformava in unaentità autonoma rispetto a Cesano. Il ter-ritorio, finora spettatore del ricambiocontinuo di persone che andavano e ve-nivano dalla sede, che non aveva potuto

benefíciare della casa in termini di postidi lavoro o di ricovero, cominciava a bus-sare alle porte dell’Istituto chiedendoospitalità per i bisognosi.

Agli inizi degli anni ‘70 si verificò unprogressivo inserimento di soggetti chefrequentavano le scuole elementari spe-ciali nell’ambito delle normali strutturescolastiche pubbliche; contemporanea-mente aumentavano le richieste di inse-rimento in Istituto di soggetti gravi gra-vissimi neuropsichici.

Da allora la filiale assunse progressiva-mente la forma di residenza per personedisabili di ambo i sessi sempre più gravi.

Chiusero le scuole e la Madonnina; l’at-tività di assistenza si concentrò nelle duestrutture esistenti.

Sempre in quegli anni l’Istituto assu-meva delle decisioni molto importantiper il suo futuro: cessavano tutte le attivitàdi scuola e di formazione professionale,molti ospiti autonomi furono dimessi

nel mondo del lavoro o in famiglia perfar posto alle persone più gravi con defi-cit sensoriali e psichici. Le persone disa-bili gravi trovano in Istituto il loro am-biente privilegiato di cura e assistenza.

Cocquio si pone a pieno titolo su que-sta strada ed in pochi anni si trasforma inuna residenza sanitaria riabilitativa do-ve gli interventi sono contrassegnati daelevata professionalità degli operatori atutti i livelli.

Dagli anni ‘80 la situazione degli ospi-ti si stabilizza; nella Villa sono ospitatepersone più autosufficienti e autonome,nella Casa Nuova persone con gravi di-sabilità.

Viene aperto anche un servizio a de-genza diurna per disabili provenienti dalterritorio che frequentano da lunedì a ve-nerdì durante il giorno. Al mattino arri-vano in Istituto e alla sera ritornano infamiglia. Attualmente la Villa ospita 60uomini adulti con handicap medio-gra-ve e grave suddivisi in tre gruppi di con-vivenza secondo il criterio delle autono-mie e la Casa Nuova ospita 70 personeadulte di ambo i sessi suddivisi in cinquesezioni due delle quali di sole donne, conhandicap gravi e gravissimi.

Tutte le persone sono affette da ritardomentale a cui si aggiungono ulteriori di-sturbi neurologici e psichici: epilessia, psi-cosi, non autosufficienza motoria, ecc.

Alcuni presentano anche una gravecompromissione generale internistica:difficoltà nella masticazione e nella de-glutizione di cibi e liquidi, difficoltà re-spiratoria.

In questi anni le porte dell’Istituto so-no state aperte in modo particolare allerichieste giunte dal territorio di Varese; lepersone del Centro Diurno sono infattitutte della zona e più,della metà a de-genza piena provengono dalla provinciadi Varese.

La capacità ricettiva della Casa è di 130degenti a tempo pieno e 27 a tempodiurno. La forza lavoro presente in Sa-cra Famiglia comprende circa 130 di-pendenti e 10 consulenti: tutti del Co-mune di Cocquio e dei Comuni limitro-fi. L’Istituto offre altresì un servizio am-bulatoriale di visite e trattamenti di ria-bilitazione motoria rivolta ai cittadini pri-vati inviati dall’ASL locale ed un serviziodi neurologia con elettroencelografia ri-volto agli interni ed agli esterni bisogno-si di tale servizio.

La situazione attuale è stabilizzata e l’I-stituto non è in grado di offrire altri ser-vizi a causa di difficoltà inerenti le strut-ture edilizie.

Situazione strutturale

La Sacra Famiglia di Cocquio ha dueedifici funzionanti, la Villa e la Casa

Nuova, ed un terzo, la Madonnina, di-smesso da molti anni e abbandonato. Ledue strutture , utilizzate per il servizio agliospiti, non sono in regola con le norme

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Pagina politica

L'ISTITUTO SACRA FAMIGLIA DI COCQUIO

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Cocquio - Villa Della Porta.

Cocquio - La Casa di Riposo per Sacerdoti.

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Segue: Istituto Sacra Famiglia

edilizie emanate dalla Regione Lombar-dia in tema di servizi alla persona disa-bile; necessitano di una profonda revi-sione.

Negli ultimi anni l’Istituto ha posto alcentro dell’attenzione il problema,ini-ziando con l’Amministrazíone comuna-le un percorso di collaborazione per rag-giungere l’obiettivo di mettere a regime lestrutture.

L’idea iniziale era quella di ristruttura-re completamente l’edificio Villa,più ur-gente e carente, per poi occuparsi dellaCasa Nuova, anch’essa bisognosa di in-terventi importanti.

Il progetto ha subito alcune variazionia causa di difficoltà insorte nel frattempoa livello di regolamenti e normative Re-gionali più severe e riduttive a seguito del-le quali la ristrutturazione della Villa di-venta molto onerosa nei costi e restrittivanel numero dei posti letto da utilizzare.

I contatti con le autorità comunali e inumerosi colloqui intercorsi tra le dueamministrazioni hanno condotto ad unasoluzione del problema nel rispetto deicontenuti del piano regolatore vigente:la costruzione di una nuova struttura ela ristrutturazione della Casa Nuova se-condo le norme edilizie in materia di re-sidenze socio assistenziali per disabíli.

La realizzazione del progetto compor-terà un onere finanziario consistente per

la Sacra Famiglia, ma è indispensabileper mantenere l’attività e proiettare nelfuturo la Filiale.

A questo proposito si precisa che la vo-lontà dell’Ente è quella di mantenere ilvolume di attività attuale con la possibi-lità di diversificare alcuni servizi: ad esem-pio, mini alloggi per anziani dei comunedi Cocquio, nucleo per disabili fisici og-gi molto richiesti, nucleo di disabili psi-chici.

A questi si aggiunge la volontà di am-pliare il servizio di fisioterapia con unpoliambulatorio specialistico per la Me-dicina dell’Handicap.

La ricaduta sul piano lavorativo diquesta volontà è il mantenimento del-l’attuale numero di dipendenti; semmaici potrà essere un incremento per i nuo-vi servizi.

Posizione sul territorio

Nel territorio varesino la Sacra Fami-glia è riconosciuta come residenza

e come centro diurno per disabili gravi -gravissimi.

Il servizio di riabilitazione motoria èaltrettanto conosciuto e apprezzato daicittadini inviati dall’ASL per le cure.

Da alcuni anni si sta lavorando per ri-cercare una maggiore integrazione con ilterritorio; si stanno aprendo le porte adiniziative in collaborazione con il co-mune e le scuole di Cocquio, con l’ASL e

la Provincia.L’esperienza e la professionalità del la-

voro con persone disabili conseguite inmolti anni di attività sono state messe adisposizione di chi ne ha fatto richiesta.Si sta collaborando con gli ospedali peri servizi sanitari agli ospiti, con l’univer-sità per i tirocini di studenti di varie di-scipline, con CFP della zona per tirocini,con l’ANFFAS e l'ASL per interventi for-mativi.

Sul versante del volontariato si sta cer-cando di ampliare il numero delle per-sone disponibili a svolgere attività coi di-sabili.

Il volontariato è una risorsa importan-te per l’ospite; per questo viene effettua-to un percorso di formazione interna peraiutare le persone a comprendere la realtàin cui operano.

Prospettive future

La situazione attuale del sistema deiservizi alla persona nella nostra Re-

gione è alquanto varia e a volte confusa.Stanno avanzando alcune nuove esi-

genze che necessitano di strutture ade-guate. Nel campo della disabilità le ri-chieste più frequenti riguardano perso-ne sempre più gravi o in età avanzata per-ché vengono a mancare i riferimenti fa-miliari. Per i disabili più lievi si auspica-no case famiglia o case alloggio per evi-tare l’istituzionalizzazione e restare così

nel contesto sociale.La richiesta di strutture per disabili fi-

sici, conseguenti ad incidenti di lavoro osulla strada, è aumentato; sempre più fre-quenti sono i casi di persone che hannosubito traumi e comi con forti carenzesul piano delle autonomie.

Altra urgenza è rappresentata da per-sone con disturbo mentale e disturbo psi-chico per le quali esistono pochi servizisul territorio in grado di ospitarle e col-mare il bisogno.

L’Istituto non è insensibile a conside-rare le varie esigenze e nel futuro, con lestrutture idonee, si potranno diversifica-re maggiormente i servizi.

Gli scenari futuri sono molti e rappre-sentano una opportunità per l’Ente di met-tere a disposizione il bagaglio di esperien-ze e professionalità al servizio del bisogno.

Dopo 80 anni di storia trascorsa convarie fasi e momenti anche difficili a se-conda del momento, l’Istituto ha sem-pre tenuto fede agli impegni di serviziodettati dal fondatore ed è sempre prontoa sfidare il futuro.

La consapevolezza di aver acquisitouna cultura ed una capacità di risponde-re al bisogno delle persone disabili è ilmiglior auspicio per il raggiungimentodi obiettivi e risultati più ambiti.

Dott. Gian Franco BastariDIRETTORE DELLA FILIALE DI COCQUIO

Sacra Famiglia:una risorsa davalorizzareOltre all’indubbio servizio offerto ai disabili, ci

sono almeno tre buoni motivi per i quali mipare importante parlare del futuro della Sacra

Famiglia a Cocquio, tre buoni motivi che sicuramentestanno a cuore ai cittadini di Cocquio:

• La Sacra Famiglia è una risorsa in termini di com-petenze, servizi sanitari e riabilitativi, è una risorsa al-tamente qualificata e quindi un patrimonio da poten-ziare e valorizzare soprattutto alla luce del riassetto (pe-raltro molto confuso) che la Regione Lombardia stapianificando per il nostro territorio.

• La Sacra Famiglia rappresenta la prima industria delnostro Comune, garantisce il lavoro a circa 150 dipen-denti, il futuro dell’Istituto è il futuro di molte famiglie.

• La Sacra Famiglia, in particolare l’area più vecchiachiamata “Villa”, rappresenta dal punto di vista urba-nistico il cuore del centro storico di Cocquio, è impor-tante pensare e progettare un intelligente e funzionalerecupero di quest’area.

***L’Istituto ha espresso la propria volontà aziendale di

intervenire per adeguare la struttura alle esigenze degliospiti e per adeguarsi alle nuove normative sanitarie di-chiarandosi pronta ad un imponente investimento eco-nomico.

Le ragioni che inducono la Sacra Famiglia al cambia-mento, sono molteplici: in fatto di sanità e assistenza so-no tempi duri per tutti, anche per fondazioni come que-sta che vedono ridursi le quote e gli ospiti a causa di unperverso meccanismo. Un meccanismo che rende mer-ce di scambio anche la salute e che paradossalmentemette in difficoltà proprio quelle persone che invecedovrebbe assistere e tutelare.

Per l’Istituto cambiare e riproporsi è oggi indispensa-bile e per il nostro Comune è d’obbligo sostenere e age-volare il progetto di cambiamento integrandolo e pen-sandolo come risorsa e opportunità per i cittadini.

Le future scelte della fondazione potrebbero rappre-sentare il cambiamento più imponente e profondo delnostro Comune nell’ultimo decennio e potrebbero, dasole, qualificare il mandato dell’attuale amministra-zione. Si gioca una partita importante che direttamen-te o indirettamente ci toccherà tutti da vicino.

***La questione è di tale rilevanza da essere stata ogget-

to di un’interrogazione consigliare da parte delle mi-noranze; ci si aspettava nella risposta la delineazione diun pensiero complessivo e ragionato che attraversassee risolvesse i tre punti sopraccitati. Di fatto, l’ammini-strazione ha dichiarato di non avere progetti e pensierie d’essere ancora in una fase esplorativa circa le inten-zioni dell’Istituto.

E’ evidente come la fondazione rappresenti il puntodi partenza, ma è altrettanto evidente che chi ammini-stra debba necessariamente ipotizzare e proporre solu-zioni e ipotesi percorribili.

***L’Istituto Sacra Famiglia, durante la passata ammini-

strazione, aveva già presentato un piano d’intervento,che prevedeva tra l’altro la costituzione di una Casa diriposo per anziani. Un aspetto interessante era costi-tuito anche dal recupero della “Villa”.

Per ragioni che ancora non ho chiare, quel piano è

stato rivisto e modificato e mi pare di poter dire chemolte delle variazioni siano state richieste proprio da-gli attuali amministratori, gli stessi che in consiglio co-munale avevano dichiarato di non aver progetti.

L’attuale piano d’intervento, prevede una più impo-nente costruzione di edifici, molti dei quali di tipo re-sidenziale e quindi a carattere speculativo e la venditaa privati di tutta la parte “antica”.

L’operazione di vendita di parte delle proprietà è ne-cessaria alla fondazione per liberare risorse economi-che, ma è altrettanto vero che il recupero di quell’areaè un’operazione delicata e che siamo ancora in attesa delfamoso Piano dei Nuclei Antichi.

Dall’esterno appare un discorso piuttosto frammen-tario e confuso, personalmente, quando conosco po-co, ho poca fiducia.

Aldilà delle personali risposte e informazioni ricevu-te, mi sembrerebbe auspicabile un pubblico confrontosul tema e la massima trasparenza nella presentazionedel progetto.

Detto ciò rimane il fatto che i progetti di potenzia-mento e ristrutturazione dell’Istituto debbano essere si-curamente sostenuti, ma soprattutto monitorati, valo-rizzati e integrati con le esigenze sociali del territorio.

***Personalmente auspico che la Sacra Famiglia possa in fu-

turo prossimo coprire e sanare una serie di lacune e man-canze sanitarie del nostro Comune e di quelli limitrofi.

In primo luogo auspico che possa giocare risorse afavore degli anziani del Comune di Cocquio, che rap-presentano un problema sempre più importante, sen-za dimenticare che esistono carenze strutturali e di ser-vizio per l’assistenza all’età pediatrica, carenze eviden-ti nei vari settori della riabilitazione e nell’offerta di ser-vizi medici specialistici e qualificati.

Queste carenze superano i confini di Cocquio e coin-volgono i comuni vicini (alcuni di questi stanno già svi-luppando servizi rivolti all’assistenza degli anziani).

Potenzialità e risorse devono essere pensate in rete eintegrate tra loro in modo sapiente al fine di restituireservizi qualificati agli utenti.

Questa gestione integrata della sanità e dei servizi è og-gi affidata alla Comunità Montana attraverso un neo-nato “Tavolo Tecnico” che dovrebbe vedere la parteci-pazione dei vari comuni della zona, ma gli esordi nonsono dei migliori. Bisticci politici e disaccordi di variogenere rendono particolarmente faticosa l’operazione.

***Alla Sacra Famiglia ho trovato disponibilità al confron-

to e volontà totale di aprirsi e collaborare con il territorio,buone premesse per una proficua collaborazione.

Giovanna Meloni

Cocquio - La Casa di Riposo per Sacerdoti, interno.

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Page 28: DIVENTARE COMUNITÀ - Menta e Rosmarino...Eppure c’è qualcosa di quel paese di cui anche og-gi non riusciamo a fare a meno nel paese di ben-godi in cui viviamo: la solidarietà

I sorenòmI nostri avi per meglio identificare unapersona, peraltro già registrata all’anagrafe,ricorrevano sovente, con scherzosa ironia,al soprannome, prendendo lo spunto dacaratteristiche fisiche e morali, abitudini,mestieri e luoghi di provenienza dell’individuo stesso.Il nostro dialetto poi, così ricco di vocabolie di espressioni colorite riguardanti la dura vitacontadina di quel tempo, favorì questo costumenei secoli scorsi.

I noster vècc gh’even re maniade cercàa i difett in ogni òmme poeu cun scherzosa ironiametich sù ur sorenòmSe r’omm in questiunl’eva gobb o zòpp,facil l’eva re cunclusiun,già ciar even i ròpp.Se ur nòm d’ure persona, l’eva agetivà cun cura, el nava ben su qualunque corpuredura,se invece l’eva metù denanz an mestèe o nà lucalità,ur’òmm el gh’eva la sò dòpie identità.Per batezaa tutt i alter gentse tegneva cunt di manì, abitudin e vizi,sàa e pèver par cundiment,ironich e catìiv l’eva ur giudizi.In paes ur sorenòm gh’è l’even quasi tucc,ch’i gh’è l’eva mia even dimà i sciori e i sante pertant in restà fora d’ur muccpar rispett de sti man pesant.Sant’Andrea, Caldana e Cooch han furmàCooch Trevisag cumun,tri paes, tre identità:Paltee, Caldanitt, Burdun.

Pertanto chiedo scusa, non voglio offenderealcuno, se per dovere di cronaca ricordoqualche soprannome.

I Paltee de S. AndreaGhizz, Pindoor, Libunatt, Murin, Gambeta, Giulai,Carchet, Busmin, Pinsass, Gino Milan, Luganighin,Cirlap, Mezomm, Ghirei, Ciom, Palin, Bigin, Masitt,Muretit, Mergunina, Capet, Pacias, Ureta, Furzelina,Zuchet, Cam, Machèna, Vescuv, Pignata, Padèla.

I Caldanit de Caldana (e Scèr)Scaret, Pinocchio, Baroza, Barel, Tregiacch, Metò, Bar-barossa, Bechèe, Zegu, Biig, Tam-tam, Saunèla, Cin,Giobècch, Giuann dur Lot, Ciapèla, Negus, Barona,Palin, Salam, Luch, Micio, Bugianin, Gambeta, Pe-der Laciatt, Peteball, Gamberit, Picèla, Cusnit, Tude-sca, Scigulit, Baldit.

I Burdun de CoochGianin Bagatt, Natalinfarèe, Quaiott, Chin-chinò, Giuan dur Bunee,Campèee, Bocadora, Bi-dosca, Carlin di fioor,Steven dur toor, Bufalo-ra, Zar, Tagett, Bombulin,Met-met, Respesù, Cata-bachit, Belagina, Barde-lett, Pan de com, Togliat-ti, Cimildo sfilzun, Pim-puritu, Ross, Zecagn, Cich dur Bogn, Bigherel,Busin, Peleta, Ginduneta,Biel, Scerin.

Francesco Biasoli

28 N. 4 - Aprile 2003

GROTTO G.AGENZIA

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