docente patrizia gioia - cisaducisadu2.let.uniroma1.it/archeo/orari/gioia1011/storia_2_2011.pdf ·...
TRANSCRIPT
MUSEOLOGIA e ARCHEOLOGIA Anno Accademico 2010/2011
Docente Patrizia [email protected]
LEZIONE 2:
• STORIA DEI MUSEI: DAL MONDO
GRECO AL ‘500
IL MONDO GRECO
Nell’antica Grecia le raccolte di oggetti preziosi avevano un carattere pubblico ed erano dedicate alle divinità nei templi e nei santuari. Esse erano custodite all’interno degli edifici sacri, oppure in spazi appositamente costruiti, chiamati "tesori" per il loro contenuto.
Gli oggetti erano offerti alla divinità da privati cittadini, da ambasciatori di città lontane e dagli atleti vincitori nelle gare sportive; erano doni per celebrare la potenza del dio e ottenerne la protezione, oppure ringraziamenti per i favori e le vittorie concesse, ma anche memorie storiche, trofei di guerra e meraviglie della natura, come ad esempio animali imbalsamati provenienti da luoghi lontani e uova di struzzo.
Complesso archeologico di Olimpia: veduta degli scavi e Tempio di Zeus.
Testa di pugile vittorioso, 330 a.C. ca., da Olimpia, Atene, Museo Nazionale. La testa possedeva in origine una corona d’alloro dorata, simbolo della vittoria.
La raccolta di offerte agli dei (thesauròs) è antichissima e dal Neolitico attraversa tutte le civiltà compresa quella cristiana.Grotte sacre, luoghi ed edifici destinati al culto contengono veri e propri tesori.Le collezioni votive servono a ricordare gli uomini agli dei.
Inizialmente tali raccolte avevano
una finalità puramente religiosa,
ma a partire dal V secolo a.C. gli
oggetti votivi (statue, gioielli,
tripodi, ecc.) assursero al rango di
opere d‟arte per il loro valore
estetico e la fama degli artisti che
li avevano creati.
Si pose di conseguenza maggiore
attenzione al problema
dell‟esposizione delle opere, per
consentirne la più completa
fruizione.
È esemplare il caso della statua di
Atena in avorio e oro, realizzata
nella seconda metà del V secolo
dallo scultore Fidia: la cella del
Partenone, il famoso tempio
dell‟Acropoli di Atene, venne
dotata di un colonnato a due piani
affinché la gigantesca scultura di 12
metri potesse essere ammirata da
ogni angolazione.
In epoca ellenistica, il re d‟Egitto
Tolomeo I Sotere (cioè Salvatore),
generale di Alessandro Magno,
fonda, nel 307 a.C. presso la
propria reggia, il Museion di
Alessandria, un centro dotato di:
•Giardino zoologico
•Giardino botanico
•Collezioni naturalistiche
•Biblioteca (con 500000 rotoli di
papiro)
•Osservatorio astronomico
Questo edificio ospitò poeti,
filosofi, astronomi, geografi,
medici, storici, artisti e i più
famosi matematici della civiltà
alessandrina.
Il lavoro degli studiosi del Museo era diviso in quattro dipartimenti:
•Letteratura
•Matematica
•Astronomia
•Medicina
Questa istituzione, un vero centro scientifico-letterario-artistico, un’accademia nel più alto senso del termine, rimase attiva, con alti e bassi per ben 8 secoli fino al V secolo d.C. quando l’edificio fu dato alle fiamme, insieme alla regina Ipazia, durante una rivolta dei Cristiani che intendevano distruggere l’emblema delle conoscenze greco-romano-ellenistiche considerate contrarie alla religione.
Il cuore della struttura era la biblioteca, un immenso insieme di volumi e documenti. L’accurata descrizione di Strabone riporta che consisteva in un ampio edificio delimitato da un porticato con colonne adatto alle passeggiate, comprendente ben 500.000 rotoli, molti dei quali depredati ai Persiani, che riunivano tutto il sapere dell’epoca, tanto che le opere venivano copiate da studiosi di passaggio nel porto. E proprio perché questa enorme raccolta di sapere venisse a tramandare la memoria delle conoscenze dell’epoca, l’istituzione venne chiamata Museion in onore delle nove Muse generate dalla madre Mnemosine, dea della memoria.
Sempre in età ellenistica (III - I sec. a.C.), con la nascita degli studi storici e del gusto antiquario, la passione per la raccolta di opere d’arte si diffuse anche tra i privati e nelle dimore dei cittadini più importanti si accumularono collezioni di dipinti e statue.
Il primo museo al mondo di scultura antica fu allestito a Pergamo intorno al 170 a.C. da Eumene II, re della città. Per ricostruire il panorama storico più completo della produzione scultorea antica, il sovrano aveva tentato di radunare esempi di tutto ciò che sino a quel momento era stato creato dagli artisti e, per completare la raccolta, aveva ordinato di eseguire copie delle sculture che non potevano essere acquistate.
In quel periodo anche la biblioteca di Pergamo divenne uno dei centri culturali del mondo antico, e con i suoi 200.000 libri era di fatto il secondo centro culturale al mondo, dopo la grande biblioteca di Alessandra d’Egitto. Fu proprio a causa di questa “rivalità” ed a una sorta di embargo dei fogli di papiro (l’unica carta dell’epoca) da parte dell’Egitto, che la civiltà di Pergamo sotto la guida illuminata di Eumene II, produsse una carta alternativa, proveniente dalla concia delle pelli, e che da allora prese il nome di Pergamena.
IL MONDO ROMANO
Giovanni Paolo Pannini, "Roma Antica" (1755)
IL PATRIMONIO PUBBLICO
Per la formazione delle prime raccolte d’arte pubbliche e private a Roma fu di fondamentale importanza la conquista della Magna Grecia, ovvero di quella parte dell’Italia meridionale da tempo colonizzata dai Greci, famosa per le sue ricchezze e la sua cultura. Nel III secolo a.C. da città come Siracusa, i comandanti romani portarono in patria una notevole quantità di quadri e sculture. Questo bottino di guerra, dopo essere stato condotto in trionfo dall’esercito per le vie di Roma, in parte veniva dedicato nei templi alle divinità, in parte trovava una stabile collocazione in luoghi pubblici a ricordo della vittoria conseguita e come ornamento della città, in parte, infine, andava ad arricchire le case dei condottieri.
Andrea Mantegna, Trionfi di Cesare, Hampton Court, Royal Collection, 1490-1500, tempera su tela, cm. 274 x 274.
A Roma, quindi, le opere d’arte trafugate come bottino di guerra, simbolo della potenza politico-militare e della capacità di espansione del popolo romano, costituivano in larga misura un patrimonio comune. Esse erano esposte singolarmente o a gruppi in edifici e spazi pubblici come piazze e giardini, spesso trasformati in veri e propri musei all’aperto, nei quali si cercavano soluzioni di allestimento sempre nuove e scenografiche. In generale si prediligevano i luoghi più monumentali e frequentati della città.
I luoghi pubblici, soprattutto quelli più
frequentati nella vita di ogni giorno, come le
piazze dei fori, erano letteralmente popolati da
una folla silenziosa di statue. Immagini onorarie
di cittadini benemeriti, di personaggi famosi
delle epoche precedenti, di membri della casa
regnante (naturalmente in età imperiale)
gremivano le aree dove si esercitavano tutte le
attività a dimensione pubblica delle città
antiche. Gli affari, le transazioni commerciali,
gli incontri e anche il semplice passeggio
avevano luogo in spazi animati da tutte queste
presenze immote, immerse nel viavai dei
cittadini in carne e ossa. Purtroppo, però, di
queste sculture è giunto fino a noi solo un
piccolo numero, a causa delle travagliate
vicende attraversate dai manufatti del passato.
Per la città di Roma siamo comunque abbastanza
bene informati grazie alle fonti scritte, che ci
fanno sapere come, già in età
mediorepubblicana (IV-III sec. a.C.), l‟erezione
di statue in luoghi pubblici fosse ormai divenuta
un fenomeno normale. La famosa testa nota
come “Bruto Capitolino” potrebbe,
verosimilmente, avere fatto parte di uno di
questi monumenti.
La situazione che, attraverso la documentazione letteraria, si può delineare per Roma è attestata per via archeologica anche in altri centri più o meno importanti. Così, infatti, grazie agli scavi si è potuto accertare come il foro di Pompei si fosse progressivamente affollato di statue, sebbene di esse siano state ritrovate soltanto le basi, perché queste sculture furono rimosse probabilmente durante i restauri successivi al grave terremoto del 62 d.C., precedente la terribile eruzione del Vesuvio del 79.
Dopo una serie di statue equestri dedicate ai magistrati più importanti della colonia sillana, dedotta a Pompei nell’80 a.C., i più significativi interventi furono effettuati in età augustea. Sul lato meridionale della piazza forense, in una zona occupata già in precedenza da sculture, fu elevato un monumento ad arco che forse reggeva una quadriga con la statua-ritratto di Augusto, al quale vennero poi accostati altri due grandi basamenti, forse destinati anch’essi a ricevere quadrighe; una grande statua equestre fu inoltre disposta sull’asse principale della piazza. Un’idea dell’effetto esercitato da questi monumenti, presso i quali circolavano gli abitanti di Pompei quando frequentavano il foro, è suggerita da un affresco, dipinto nell’atrio di un bel complesso residenziale risalente agli ultimi anni di vita della città, i Praedia di Iulia Felix.
Anche all’interno degli edifici pubblici non mancavano corpi inanimati, i quali tramandavano non solo le fattezze dei notabili cittadini che erano personalmente intervenuti nella monumentalizzazione dei centri urbani, finanziando la costruzione e la decorazione di impianti destinati alle esigenze civiche, ma anche, naturalmente, quelle dell’imperatore e dei suoi famigliari, come se in questo modo si fosse voluta sottintendere una loro virtuale partecipazione alle attività che vi venivano svolte. Così un ciclo statuario come quello che, in fasi successive, fu offerto alla dinastia giulio-claudia nella basilica di Veleia, nell’Appennino piacentino, oltre a costituire un atto di lealismo verso la casa imperiale da parte del dedicante, il Lucio Calpurnio Pisone, cognato di Cesare, che aggiunse la propria immagine al gruppo, finiva anche per simboleggiare l’ideale presenza dell’imperatore all’attività giudiziaria che si teneva nell’edificio, quasi a garantirne la validità e la conformità alle leggi.Il corpo riprodotto in scultura, come si vede, non era perciò finalizzato soltanto alla mera celebrazione delle individualità più illustri, sia a livello locale sia a quello più elevato del potere centrale (un po’ come avviene ancora ai nostri tempi con le statue poste su piedistalli nelle piazze), ma fungeva spesso da indispensabile completamento degli spazi nei quali si collocava, valorizzandone le funzioni.
Parma, Museo Archeologico Nazionale. Statue del ciclo giulio-claudio di Veleia
In ambito pubblico, il corpo esaltato e moltiplicato dall’arte trovava una sua importante destinazione anche in ambienti completamente diversi, ad esempio negli impianti termali. I complessi più grandi e sontuosi, come le enormi terme realizzate a Roma da Traiano sull’Esquilino, o quelle di Caracalla e di Diocleziano, erano infatti arricchiti da abbondanti decorazioni scultoree, all’interno delle sale, in certi casi vastissime, riservate alle attività balneari. Alcune delle più rinomate sculture giunte fino a noi dall’antichità facevano parte proprio delle raccolte contenute negli edifici termali: furono recuperati nelle aree occupate dai suddetti stabilimenti l’ “Ercole” e il “Toro Farnese”, oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
La familiarità che tutti avevano con le
immagini mitologiche incarnate da simili
figure scolpite è confermata dal fatto che
evidentemente nessuno, in luoghi deputati
al rilassamento e allo svago, doveva
turbarsi trovando vicino a sé scene anche
molto crude, con membra umane contorte
negli spasimi dell‟agonia. I corpi inanimati
delle sculture, negli ambienti termali, si
mescolavano perciò con naturalezza ai corpi
nudi dei bagnanti che vi camminavano
intorno, col risultato che potevano certo
servire anche come modelli ai quali ispirarsi
nella cura e nell‟allenamento del fisico,
almeno nel caso delle statue atletiche. Fra
queste va ricordato il celeberrimo
Apoxyomenos di Lisippo, del quale è giunta
a noi una sola copia ma il cui originale
sappiamo che era stato collocato da Agrippa
nelle terme da lui stesso edificate a Roma
nel Campo Marzio.
Ma anche nei grandi monumenti celebrativi, espressamente innalzati da Roma per la glorificazione del proprio potere e delle proprie vittorie sui popoli nemici, la figura umana occupava sempre un posto fondamentale, anche se in modi differenti. Poteva trattarsi, infatti, dell’immagine colossale del vincitore, come la statua di Augusto sulla sommità del Trophée desAlpes a La Turbie, oppure dei rilievi realizzati per decorare monumenti di diversa tipologia, come le colonne coclidi di Traiano e di Marco Aurelio a Roma, dove una moltitudine di figure esalta ancora oggi le imprese degli eserciti romani, riproducendo non solo gli scontri bellici, ma anche gli altri episodi che caratterizzarono l’andamento delle campagne di guerra qui immortalate.
In seguito alla trasformazione della Grecia in provincia controllata da Roma (146 a.C.), l’afflusso di opere d’arte greche crebbe notevolmente, e, con esso, il desiderio dei privati cittadini di possedere questi oggetti raffinati e capaci di infondere prestigio al loro proprietario.
Alle pareti dell’atrium, la sala principale della casa patrizia, fin dall’antichità si esponevano i ritratti degli antenati per celebrare l’importanza della famiglia. Larario
Taverna di Vetutius Placidus a Pompei
IL PATRIMONIO PRIVATO
Gli scenari finora rievocati sfruttavano
l‟immagine umana in una dimensione
pubblica, fruibile da tutti i cittadini
indifferentemente. Ma anche all‟interno
delle case private erano impiegate in
abbondanza raffigurazioni di vario tipo. I
più lussuosi impianti domestici, infatti,
erano analogamente abitati da una folla
muta di figure che tenevano compagnia
ai proprietari e a tutti coloro che
frequentavano la casa, cioè gli amici, i
visitatori e i clientes. Non mancavano
interi cicli scultorei che popolavano le
dimore, un po‟ alla maniera di ciò che si
è visto per gli spazi pubblici. L‟esempio
più sontuoso in questo senso è offerto
dalla Villa dei Papiri di Ercolano, dove,
nel corso del ‟700, è stato riportato alla
luce un cospicuo complesso di sculture,
oggi custodite al Museo Archeologico
Nazionale di Napoli.
In questo ampio corredo figurativo, in origine disseminato negli spazi più importanti della villa (soprattutto nei due peristili e negli ambienti a essi adiacenti), si possono riconoscere differenti nuclei tematici, i quali, con varie sfumature e suggestioni culturali, possono essere sostanzialmente ricondotti alla contrapposizione tra humanitas e feritas, un’antitesi cara alla cultura tardorepubblicana (ma non sono mancate interpretazioni differenti). Così i busti e le erme di poeti, oratori e filosofi rimandano direttamente ai paradigmi culturali cui gli esponenti delle classi elevate volevano ispirarsi, mentre i ritratti dei dinasti ellenistici, in un simile contesto, possono essere spiegati, oltre che come modelli più o meno confessati per i politici del periodo, anche come incarnazione della necessità, per i governanti, di agire secondo linee di comportamento guidate dall’intelletto. Le numerose figure appartenenti alla sfera dionisiaca, come i Sileni con otri e pantere, e a maggior ragione il noto gruppo che raffigura il bestiale accoppiamento tra Pan e una capra, si configurano invece come simboli della selvatichezza della natura non disciplinata dalla civilitas, in voluta contrapposizione con i personaggi, appena ricordati, che erano chiamati a rappresentare i valori superiori della cultura greco-romana.
Busto di Seleuco I Nicatore, Napoli, Museo Archeologico Nazionale
Napoli, Museo Archeologico Nazionale.Statua di Sileno con pantera
I luoghi privilegiati per la conservazione e l’esposizione delle collezioni private furono però le ville suburbane: nei giardini, sotto i portici e sui bordi dei ninfei, lontano da sguardi indiscreti, le sculture e i dipinti creavano uno sfondo ideale per gli otia dei proprietari, ovvero per il riposo e lo studio. Il fenomeno del collezionismo privato suscitò anche aspre critiche. Tra gli uomini politici romani, ad esempio, Marco Agrippa (63 a.C.-12 a.C.), uno dei più influenti collaboratori dell’imperatore Augusto, condannò l’esilio nelle ville suburbane di tante opere, sottratte alla fruizione di molti per il piacere di pochi. Pur senza giungere a conseguenze sul piano pratico, si affermava in questo modo per la prima volta il principio della pubblica utilità del patrimonio artistico.
Ricostruzione grafica e pianta di una VILLA ROMANA
pars rustica
pars
urbana
VILLA cd. AD DUAS LAUROS A CENTOCELLE (Roma)
POMPEI, Casa del Bracciale d’Oro. Affresco con giardino (paradeisos).
L’EROS DICENTOCELLE
Che i corredi scultorei disposti all’interno delle dimore private seguissero spesso programmi pianificati con cura, anche in rapporto alla funzione degli spazi dove venivano collocati, è testimoniato, ad esempio, dall’epistolario di Cicerone. Anche i giardini, che completavano le case e le ville più ricche, erano cosparsi di statue, di norma appartenenti alla cerchia delle divinità più vicine al mondo naturale e alla passionalità umana, cioè Bacco e Venere. Tra le sculture più largamente impiegate in questo ambito, particolare fortuna ebbe l’Afrodite di Doidalsas, artista bitinio del III sec. a.C.; si tratta di un’opera nota da numerose repliche, che ripetono in marmo le forme dell’originale bronzeo. L’immagine della dea, accovacciata nell’atto di bagnarsi, ben si prestava a essere collocata tra le piante di un giardino, magari vicino a una fontana.
Nei contesti privati un posto importantissimo era occupato anche dalla decorazione pittorica delle pareti, dove occhieggiavano figure di ogni genere. Vi erano infatti i protagonisti dei pinakes, i quadri che si fingevano inseriti nelle composizioni parietali e che generalmente rappresentavano scene desunte dalla mitologia greca. Ma vi erano anche figure introdotte all’interno dei sistemi ornamentali nelle maniere più svariate: personaggi fluttuanti, da soli o a coppie, al centro di campi uniformi di colore; minuscole cariatidi che sostenevano i fusti a volte esilissimi delle architetture dipinte; corpi talora di fantasia che entravano in punti diversi delle composizioni pittoriche, magari combinandosi con altri elementi vegetali a plasmare bizzarre metamorfosi, lontanissime dalla realtà. La decorazione di certe stanze domestiche, restituita dagli scavi di Pompei, ricrea in alcuni casi delle vere e proprie pinacoteche, come le pareti dei due triclini della Casa dei Vettii, dipinte in un IV stile particolarmente sfarzoso (soprattutto quelle del triclinio p) nel corso degli ultimi decenni vissuti dalla città.
Pompei, Casa dei Vettii. Particolare del triclinio p
In età romana il termine museum assunse il significato più tecnico di una grotta in cui statue e mosaici erano disposti per ottenere studiati effetti decorativi, come nel caso della grotta dell’imperatore Tiberio (42 a.C. -37 d.C.) a Sperlonga.Il legame ideale tra le Muse e il museo, inteso come luogo in cui lo studioso si ritirava per leggere, meditare e contemplare gli oggetti in esso conservati e disposti ordinatamente, non venne meno nei secoli successivi, nonostante l’avvento del Cristianesimo e la caduta delle antiche divinità. Gli studioli trecenteschi e quattrocenteschi, infatti, continuarono a essere designati dai colti umanisti italiani con l’espressione di "musarum studia", ovvero studi delle Muse, e per volere dei principi amanti delle arti furono spesso decorati con cicli pittorici ispirati a queste antiche divinità greche.
Grotta di Tiberio, I secolo a.C.- I secolo d.C, Sperlonga
IL MEDIOEVO
La grande organizzazione dell’Impero Romano si dissolve col Medioevo e con essa il collezionismo privato subisce una battuta d’arresto.
In questo periodo la chiesa assume l’importante funzione della divulgazione della cultura.
Nelle cattedrali soprattutto, oltre alle preziose suppellettili del culto, si raccoglievano i doni ex voto dei fedeli, spesso materiali preziosi (antichi manoscritti, reliquie, gioielli, statue) che venivano esposti al pubblico durante le festività.
Nei cosiddetti secoli bui dunque la tendenza a collezionare oggetti continua, nonostante il Cristianesimo esortasse l’uomo a non possedere cose superflue. Queste cose “superflue”, che sono poi i soliti oggetti belli e/o strani, sono pertanto destinati alle chiese e ai monasteri tanto che è stato detto che “i preti e i monaci nel medioevo hanno salvato la curiosità così come hanno salvato l’agricoltura, la scienza, la letteratura e le arti”. Come nei templi antichi, sia come significato propiziatorio sia come testimonianza di ricchezza e potenza, chiese ed abbazie raccolsero dei veri tesori mediante i soliti modi di acquisizione o come doni di potenti o come risultati di saccheggi.
Il tesoro di S. Pietro inizia con la donazione di Costantino (III secolo)
il tesoro di Monza parte col dono di Teodolinda (VI secolo)
il tesoro di S. Marco a Venezia si ingrandisce col saccheggio di Costantinopoli del 1204.
Analogamente si formano i tesori di famose abbazie, come Montecassino e Pomposa.
I TESORI
L’Abate Suger de Saint-Denis (1081-1151), consigliere dei re di Francia, redasse l’inventario dei preziosi dell’Abbazia di St. Denis presso Parigi; alcuni degli oggetti descritti oggi sono esposti nel Museo del Louvre
Nonostante le temporanee esposizioni, questi tesori, pur avendo le caratteristiche di vere raccolte museali, non avevano una destinazione pubblica.
Il collezionismo medievale presenta due novità rispetto al periodo precedente, entrambe legate alla religione cristiana.
La prima è data dalle reliquie, vere o falsificate, di santi o addirittura della vita di Cristo, reliquie spesso decorate e conservate perciò nelle camere del tesoro o sotto gli altari.
La seconda novità è collegata a quel vasto movimento noto col nome di Crociate che mise in contatto i popoli dell’occidente con la realtà del vicino oriente, realtà fatta non solo di possibili reliquie della Terrasanta, ma anche di animali diversi e quindi strani. Da qui l’esposizione nelle chiese di coccodrilli, più o meno ben imbalsamati, uova di struzzo che possono essere considerati come i primi esempi dei mirabilia, oggetti che destano stupore e che presto saranno affiancati da altro materiale curioso, ad esempio divennero famose le pietre ceraunie, cioè colpite dal fulmine. Tutto ciò era definito monstrum, da cui il nostro mostro, che significava però che era da mostrare perché interessante, tale da destare stupore, meraviglia.La riapertura dei traffici, sviluppata con le Crociate con le sue reliquie e le curiosità esotiche, stimolò l’interesse per il collezionismo che lentamente andò sviluppandosi anche al di fuori delle chiese, presso potenti ma anche privati.
Tra le collezioni private furono famose le collezioni enciclopediche dell’imperatore Federico II (1184-1250).
Un collezionismo imperniato su curiosità e rarità che potevano destare meraviglia e che poteva dare al possessore prestigio, un vero “status symbol”, se non costituire addirittura un tesoro.
L‟UMANESIMO
Il Collezionismo, nelle sue
manifestazioni più alte, di
oggetti artistici e storici,
ritrovò visibilità in età
umanistica. Ciò sia in ambito
privato che in ambito pubblico.
Se si ebbero le prime collezioni
private organizzate
razionalmente e non giustificate
da funzionalità liturgiche, o da
esigenze di immagine, o da
volontà di tesaurizzazione e di
speculazione, si ebbero anche i
primi fenomeni di
conservazione di documenti,
artistici e storici in spazi
pubblici.
L‟interesse del nuovo
collezionismo, attento
nuovamente all‟uomo, sembra
aver avuto carattere soprattutto
storico. Interessava, più che
l‟oggetto esteticamente valido, il
documento utile alla conoscenza
del passato e del mondo classico
al quale sempre si faceva
riferimento.
Il rapporto con l‟antico era quindi
essenziale, nella nascita
dell‟esigenza di ricercare,
raccogliere, ordinare, quanto si
era salvato dal naufragio della
classicità. Lo sviluppo del
collezionismo fu quindi parallelo
alla rinascita delle biblioteche,
della lettura filologica dei testi,
della nascita della ricerca storica
moderna, del ritorno progressivo
al naturalismo nell‟espressione
artistica.
Si spiega così anche l‟immediata propensione
al collezionismo della moneta antica
nell‟Europa umanistica. Il monumento moneta,
oltre ad assicurare una eccezionale stabilità
dell‟immagine, che è ufficiale e prodotta in
multiplo, forniva precisi dati fisionomici su
personaggi indicati, al di là di ogni dubbio,
dalla leggenda. Quindi nella moneta
l‟umanista era certo di conoscere, senza
intermediari e senza sforzi ricostruttivi, i volti
del mondo classico. Egli poteva utilizzare la
moneta per dare un nome a figure in altre
classi di materiali che pure vengono
collezionate, come i ritratti (procedimento
ancora oggi privilegiato dagli archeologi), o
riconoscere e divenire familiare con le figure
imperiali citate nelle migliaia di epigrafi che
poco per volta gli permettevano di ricostruire
un mondo al quale anelava ricollegarsi.
Non solo: la moneta proponeva in sé tutti gli
elementi necessari per un allineamento in
coerenti serie cronologiche, desumendo i dati
da una tradizione letteraria che pure veniva
contestualmente recuperata, chiosata,
ripubblicata.
Esemplare ed anticipatrice appare per tutto
ciò, la vicenda di Francesco Petrarca. Il
poeta (1304-1374) poté collegarsi ad un
mercato dell‟arte e di cimeli storici già
fiorente nel Veneto al suo tempo, anche
grazie a quanto veniva, a vario titolo, portato
dall‟oriente a Venezia. Ebbe così la
possibilità di formare una sua collezione di
monete, affiancandosi già ad un nucleo di
collezionisti, dei quali talvolta conosciamo
nomi e vicende, a Verona, a Treviso, a
Venezia, con interessi antiquari talvolta
anche più ampi. Per il Petrarca le immagini
degli imperatori sulle monete sono da
collegare alla sua opera De viris illustris: la
collezione era funzionale quindi a supportare
un discorso celebrativo, didattico, per
esaltare la virtù e spronare all‟emulazione
dell‟antico. Con questa intenzione di sprone
alla virtù egli donò anche alcune monete, nel
1355, all‟Imperatore Carlo IV.
Le immagini tratte dalle monete e
dai medaglioni antichi, con tutto
il patrimonio figurativo classico
superstite, agirono per un
lunghissimo periodo come
modelli, studiati e interpretati
dal Pisanello al Mantegna, a Piero
della Francesca, fino all‟arte
“accademica”, alle soglie dei
giorni nostri.
Pisanello
Mantegna
Piero della Francesca
L‟umanista, dal cui lavoro
prendeva avvio la moderna
cultura occidentale, rimaneva
però, soprattutto alle origini,
figlio del medioevo. Il
principio del riuso sembra
infatti ancora
sostanzialmente valido anche
in età umanistica, anche se è
da intendere in senso “alto”. Il
documento antico, qualsiasi
documento, veniva utilizzato
per quanto raccontava e
insegnava, e raramente veniva
conservato per se stesso.
Mancava ancora, anche se si
percepisce la formazione di
una sensibilità nuova, la
valutazione dell‟oggetto da
conservare di per sé, al di
fuori della funzionalità che
assumeva nel processo di
ricostruzione dell‟antico.
studio
abbandono o riuso
Così, come già avvenne alla corte
dell‟Imperatore Federico II (1194-
1250), appariva vivissimo l‟interesse
per le manifestazioni artistiche
classiche, che venivano studiate e che
erano premessa ineliminabile della
produzione artistica del tempo, tanto
da rendere talvolta alcuni prodotti
nuovi indistinguibili da quelli antichi.
Ma, se l‟oggetto antico veniva
analizzato tecnicamente e
stilisticamente,
tanto da servire da modello per la
nuova immagine, non per questo se ne
giustificava la conservazione e
l‟integrità, se non in termini di riuso e
rilavorazione. Sembrano mancare, in
questa fase, quasi sempre ancora i
presupposti sistematici per
organizzare la “collezione”.
Policleto
Michelangelo
TRA UMANESIMO E RINASCIMENTO:
LO STUDIOLO
Studiolo di Federico da Montefeltro, Palazzo Ducale, Urbino
Studiolo di Isabella d'Este, Museo del Palazzo
ducale, Corte Vecchia, Mantova
Nel Trecento si assiste al
nascere dei cosiddetti
studioli, piccole stanze
appartate nel palazzo dove i
sovrani, i nobili o i ricchi
borghesi, si ritiravano, nei
momenti liberi, non solo per
meditare, ma anche per
ammirare oggetti interessanti
collezionati nel corso degli
anni.
Erano studio-oratorio-
laboratorio così che Comenio
nel 1654 ebbe a dare questa
definizione: “Museum est
locus ubi studiosus, secretus
ab hominibus, solus sedet,
studiis deditus, dum lectitat
libros”.
Questi piccoli ambienti appartati, dove
il padrone di casa raccoglieva, spesso in
maniera caotica, oggetti rari come
simbolo di prestigio culturale erano
molto amati.
Ricordiamo quello di Lionello d’Este nel
Palazzo di Belfiore a Ferrara, quello di
Federico di Montefeltro nel Palazzo
Ducale ad Urbino, quello di Isabella
d’Este nel Palazzo Ducale di Mantova e
quello di Alfonso d’Este, fratello di
Isabella, nel castello di Ferrara quello
sicuramente più famoso è quello di
Francesco I de’ Medici in Palazzo
Vecchio a Firenze, ambiente
strettamente privato ricavato tra la sua
camera e l‟immenso salone dei
Cinquecento, che diverrà poco più tardi
il nucleo del Museo degli Uffizi.
Francesco I de’ Medici
Isabella d’Este
Dal trecento in poi divengono rilevanti anche le collezioni
degli studiosi:
Oliviero Forzetta, vissuto a cavalo del „300 a Treviso
(manoscritti classici, medaglie, bronzi, sculture in marmo)
Cardinale Pietro Barbo (poi Papa Paolo II) in Veneto
Niccolò Niccoli a Firenze Quest‟ultimo possedeva una
ricchissima biblioteca che lasciò per testamento destinata
al servizio pubblico: trasportata da Cosimo dei Medici nel
Convento di San Marco, fu la prima del mondo a concedere
libri in prestito.
Poggio Bracciolini a Firenze (in marmo cui era dedicata una
sala della sua villa: la Valdoriniana)
Cosimo, Piero e Lorenzo dei Medici a Firenze; in
particolare Lorenzo riunì la parte esclusivamente artistica
delle sue collezioni nel giardino di via Larga e negli edifici
adiacenti, perché potesse essere utilizzata a scopo di studio
dai giovani artisti.
Poggio Bracciolini
Papa Paolo II
Famose sono rimaste alcune importanti collezioni private in
Europa.
Rilevanti quelle della nobiltà francese come quella di Giovanni,
Duca di Berry (1340-1416) figlio del re Giovanni il Buono. Al suo
amore per i libri dobbiamo la realizzazione delle Très Riches
Heures, famoso libro di preghiera miniato dai fratelli Limbourg
ora conservato presso il Museo Condé di Chantilly. Si tratta di
uno dei più importanti tesori artistici della Francia, poiché
rappresenta uno dei culmini dell'arte della miniatura
tardogotica. I libri d'ore erano libri per la devozione privata,
contenenti preghiere adatte alle ore liturgiche del giorno (da cui
il nome) ma anche a giorni della settimana, mesi o stagioni.
Nella stessa collezione la “Gemma Augustea”.risalente al 10-20
d.C., un cammeo di 15x23 cm, in onice su sfondo bianco e bruno.
Tra i suoi tesori: una collezione di monete romane, preziosi solitari e perle pregiate,
lavori di oreficeria, orologi meccanici. Accanto a questi oggetti, molti esempi dei
cosiddetti curiosa: quattro denti di narvalo che Papa Giovanni XXII gli aveva donato
perchè si riteneva che consentissero di scoprire i veleni, uova di struzzo, mascelle di
serpente, aculei di porcospino, zanne di cinghiale, denti di balena, pelli di orsi polari,
“ossa di giganti” forse appartenenti ad un mammut della Francia preistorica, pesci e
conchiglie persino alcune reliquie: la camicia di Nostra Signora di Chartres, il calice
usato da Gesù alle nozze di Cana, l‟anello di fidanzamento di San Giuseppe, ossa degli
innocenti trucidati da Erode
Très Riches Heures
Gemma Augustea
FRA IL TARDO QUATTROCENTO E LA FINE DEL SEICENTO
Dal tardo Quattrocento dominano in campo museale le cosiddette Wunderkammer (camere delle meraviglie) accanto alle Schatzkammer(camere del tesoro). Anche se queste ultime erano riservate ai potenti, regnanti o famiglie molto facoltose, le prime potevano essere costituite anche da studiosi e appassionati.
Le Schatzkammer, inizialmente limitate solo a pietre e metalli preziosi, gradualmente passarono ad ospitare opere d’arte, come statue e quadri, soprattutto ad opera di sovrani illuminati come i Medici, i Gonzaga, gli Este, i Savoia e le corti di Spagna, Francia e Inghilterra, gettando le basi per i futuri grandi musei artistici.
Le camere delle meraviglie (Wunderkammer ) avevano come filo conduttore appunto la curiosità indipendente dal tipo di oggetti raccolti, naturalia ma anche artificialia purché fossero mirabilia. Potevano essere esemplari di storia naturale, strumenti, invenzioni meccaniche, carte geografiche, monete, cammei, armi, riproduzioni di animali fantastici (basilisco, unicorno, chimere e simili). Una congerie di oggetti, stipati in scaffali, attaccati alle pareti e al soffitto, disposti talvolta caoticamente più spesso in maniera abbastanza ordinata e simmetrica con lo scopo precipuo di stupire il visitatore. Questo senso di meraviglia lo si poteva avere non solo in queste sale private, ma anche in luoghi pubblici come le chiese che talvolta mostravano, accanto alle immagini sacre e alle reliquie, coccodrilli imbalsamati o grandi ossa fossili.
Questi oggetti atti a suscitare
stupore aumentarono a
dismisura a partire dal primo
Cinquecento a seguito dei
grandi viaggi oceanici. America
e, più tardi Oceania, fornivano
esemplari di animali e piante
spesso diversi da quelli
europei, per una diversa
evoluzione determinata dalla
separazione geografica, e si
riprodusse quindi, ma in
maniera molto più marcata, lo
stesso fenomeno avvenuto
secoli prima con le Crociate
per l‟Africa e l‟Asia, esemplari
naturali nuovi, diversi e quindi
strani, nel senso etimologico
del termine, e tali da suscitare
stupore e meraviglia.
Alcune di queste Wunderkammer divennero presto famose, come quella
allestita nel castello di Ambras, presso Innsbruck nel 1563 dal duca del
Tirolo Ferdinando e ancor oggi, almeno in parte, conservata.
E’ in questo periodo che si comincia a prospettare una divisione tra:
raccolta di tipo naturalistico e raccolta di oggetti d’arte.
Molte raccolte importanti per gli aspetti
naturalistici, sono quelle formate da
studiosi in città italiane. Nel 1566 dal
farmacista-botanico Francesco Calzolari a
Verona, nel 1568 dal medico – naturalista
Ulisse Aldrovandi a Bologna dove insegnava
nello Studio, nel 1589 da Michele Mercati
con la “Metallotheca “ a Roma, nel 1590 da
Ferrante Imperato farmacista a Napoli, nel
1651 dal fisico tedesco Atanasio Kircher
gesuita a Roma, nel 1666 dal medico
Manfredo Settala a Milano. Un risultato che
si ottenne mediante raccolte sul terreno,
soprattutto le piante, con gli scambi con
studiosi o con gli acquisti da mercanti nei
porti di Genova, Livorno, Napoli o Venezia.
Importanti furono gli scambi di lettere con
allegati cataloghi che testimoniavano la
ricchezza delle collezioni attivando cambi di
oggetti. Ai suddetti studiosi (morti tutti alla
veneranda – soprattutto all‟epoca – età di
oltre ottant‟anni) non solo la museologia ma
le scienze naturali devono molto per aver
contribuito ad iniziare uno studio
sistematico di animali e piante proprio
dall‟esame dei reperti conservati nei loro
musei. Museo Kircheriano
Fra queste camere delle meraviglie un posto di
assoluto rilievo era quella dell‟Aldrovandi a Bologna
(1568) con 14.000 pezzi e 16 volumi di erbari, così
che il suo proprietario poteva giustamente
affermare di possedere “un microcosmo [nel quale]
con uno sguardo si vede l‟Asia, l‟Africa, l‟Europa e
il Nuovo Mondo”. Una collezione riunita grazie a
doni non solo di studiosi ma di molti potenti
(cardinali, vescovi, nobili), fra i quali spiccavano i
Medici ben noti come mecenati anche fuori di
Toscana a sottolineare una supremazia culturale
fiorentina.
Ulisse Aldovrandi
Dall’iniziale distribuzione caotica degli oggetti, si arrivò per gradi alla elencazione di questi in cataloghi disposti in ordine alfabetico, poi a tentativi di ordinare i materiali mediante classificazioni via via più logiche riunendo gli oggetti naturali secondo loro aspetto e il loro comportamento. Il tutto seguendo il percorso che dal disordine passa alla catalogazione e poi alla classificazione per giungere poi ad una sperimentazione per la conoscenza.
Contestualmente alla formazione di collezioni private, in ambito umanistico e rinascimentale, ma con primi interessi accesi anche nelle corti più illuminate del tempo, si hanno le prime indicazioni sulla definizione di un collezionismo pubblico, che nasce fondamentalmente dal medesimo presupposto: la necessità di conoscere e documentare il proprio passato da parte delle comunità, con la conservazione e l’ostensione dei documenti superstiti. Ciò naturalmente implicava una forte selezione e tendeva a porre l’accento sui significati storici (veri o presunti) degli oggetti, sulla loro carica simbolica, con forme di sacralizzazione laica. Anche in questo caso il riferimento era sempre all’antichità classica, che veniva posta a modello per il presente e per il futuro.
LE PRIME COLLEZIONI PUBBLICHE
Esemplare appare il caso di Brescia, tesa a riconoscersi erede di Brixia romana: sulla facciata del Monte di Pietà, nell’attuale Piazza della Loggia, furono murate per volere della città, nel 1485, le più significative epigrafi romane scoperte nel territorio, per essere lette e dare dimostrazione dell’antichità e della nobiltà di città. Si tratta di uno dei primi musei epigrafici d’Europa.
Un altro esempio, di “sacralizzazione laica” addirittura precedente, è a Roma, con i Musei Capitolini. Ad essi venne destinato nel 1471 il Palazzo dei Conservatori, sul Campidoglio, dove nel 1143 era stata posta l’autorità civile cittadina, per accogliere il primo nucleo dei Musei Capitolini. Se la costruzione del Palazzo e la sua destinazione fu voluta da un papa, Sisto IV, che volle il Museo aperto al pubblico una volta all’anno, la collezione aveva carattere laico, non ecclesiastico, con l’unica funzione della celebrazione della storia millenaria di Roma: vero e proprio “museo della città”. Significativamente alla statua di Carlo d’Angiò (1246-1285), sul trono con due leoni, di Arnolfo di Cambio, che ben indicava il rapporto privilegiato della città con il potere imperiale rinato, proprio Sisto IV aggiunse, donandola al Museo, nel 1471, il simbolo laico di Roma, la Lupa in bronzo, che conosciamo come “Capitolina”, oggi esposta accanto ai più impressionanti simboli del passato della città: i bronzi cosiddetti Capitolini, con la testa colossale di Costantino (con la mano e il globo), lo Spinario, il Camillo.
Il Museo si sviluppò successivamente con doni e acquisti: la Collezione Albanigiunse nel 1733, la Collezione Sacchetti nel 1749, fino alle acquisizioni recenti per gli scavi della Soprintendenza Archeologica Comunale per Roma, ma rimane motivata, sin dalla lontana fase di formazione, dalle necessità documentarie celebrative della città antica.Significativamente nel 1538 Papa Paolo III volle che la statua equestre di Marco Aurelio, altro simbolo non religioso di Roma, venisse trasferita da piazza di San Giovanni in Laterano alla Piazza del Campidoglio. Oggi il monumento è conservato all’interno del Museo.
Il Museo quindi, nelle sue prime manifestazioni rinascimentali, si proponeva come collezione simbolica dei documenti della comunità. Come tale, indipendentemente dall’evoluzione che ebbe successivamente ogni istituto, richiedeva una pesante selezione dei materiali da raccogliere, conservare ed esporre, perché fossero in grado di proporre il discorso di ricostruzione storica e di celebrazione nei termini più efficaci e impressionanti possibile. Talvolta ciò escludeva la valutazione estetica del “monumento”, considerato valido e da conservare solo per il racconto che poteva trasmettere (come per le epigrafi di Brescia), o per la carica sacrale e simbolica di cui era portatore (come i materiali Capitolini).
Non sembra, in queste prime manifestazioni, ancora presente l’interesse per la documentazione che oggi definiamo di “cultura materiale”, mentre invece si moltiplicavano le collezioni riferite a classi di materiali in qualsiasi modo prestigiosi (delle monete già si è detto, ma la lista può essere infinita, con le gemme, i vetri, gli argenti, i gioielli, i libri e le rilegature, ecc.).
Il rinascimento continuava ad utilizzare l’oggetto antico in termini funzionali, senza talvolta curarne la conservazione. Totale era il disinteresse per il frammento, l’oggetto di fattura modesta o di difficile interpretazione (tutto ciò che non era bello veniva gettato o distrutto, ad eccezione di quando suscitava meraviglia). Si avevano forme di selezione basate sulla qualità estetica, con forme di riuso in termini sia didattici che di mutamento di funzione (quasi costante quella decorativa). Gli artisti del Rinascimento dalla statua anticaimparavano i principi della scultura e con il suo tramite accedevano al concetto di bellezzaclassica. Costante, in caso di conservazione, era il restauro di integrazione, sempre peròfinalizzato al riutilizzo, spesso in contesti incongrui, spesso con soluzioni di fantasia, permancata conoscenza delle tipologie originali o per adattare il prodotto alle nuove funzioni.Ma molto spesso, quando la statua o il frammento erano stati studiati ed analizzatidall’artista, venivano avviati alla calchera.
Necropoli Romana di Bologna : La calcina, fornace per la
produzione di calce
Roma, Museo della Crypta Balbi. Illustrazione composita dell’attività della calcara medievale che è stata identificata nell’area dell’esedra della Crypta Balbi, dedicata alla trasformazione in calce dei frammenti marmorei provenienti dall’area del Teatro e Crypta di Balbo e dalla vicina Porticus Minucia Frumentaria
Fondamentale appare la scelta di Michelangelo che rinunciò al restauro di integrazione (cheavrebbe significato riutilizzo) del cd. Torso del Belvedere, statua mutila ellenistica acquistata da papa Clemente VII (1523-1534): il grande scultore, creatore del “non finito”,dava così la prima indicazione corretta e moderna per la conservazione, la lettura el’esposizione delle opere d’arte antica. Prima (e anche dopo) di lui esse erano integrate, spesso per unriutilizzo decorativo. Il messaggio michelangiolesco era chiaro: i materiali andavano conservati di per sé, con interventi solo conservativi e limitando al massimo quelli ricostruttivi, aprendo un dibattito tuttora aperto.
UN CASO ESEMPLARE DI GRANDE MUSEO ECCLESIASTICOI MUSEI VATICANI
Il 14.1.1506, la scoperta del gruppo marmoreo del Laocoonte, copia romana di un originale ellenistico, segnò a Roma l’inizio della formazione delle collezioni vaticane, Si era ancora in un clima fortemente umanistico-rinascimentale, con una forte laicizzazione dell’autorità papale.
Il papato aveva vissuto un vivissimo interesse umanistico, fino a formulazioni esoteriche ed antiquarie nelle decorazione degli appartamenti, come con il papa Alessandro VI Borgia (1492 - 1503).
La conoscenza del mondo classico – anche in ambiente papale – veniva considerato strumento ineliminabile per la costruzione del mondo moderno, soprattutto per l’arte. Il recupero di tecniche, iconografie, percorsi narrativi, parallelo a quello letterario, presupponeva operazioni di ricerca e recupero di materiali antichi ed era utile anche per la creazione di opere d’arte funzionali al mondo ecclesiastico. Esemplare fu la decorazione michelangiolesca della CAPPELLA SISTINA, nella quale si manifestava una matura ed approfondita ricezione dell’universo dei modelli classici.
Nonostante non si avesse ancora una vera sensibilità verso la conservazione, che è premessa ineliminabile del collezionismo, e quindi del Museo, e nonostante, come già è stato detto, tali modelli, soprattutto statue, ma anche affreschi, gemme incise, ecc. venissero utilizzati in termini pratici, come modelli da studiare che successivamente potevano anche essere distrutti, eppure venne organizzata una raccolta all’interno del Vaticano, primo nucleo degli attuali Musei Vaticani.
Subito dopo il Concilio di Trento si ebbe poi una reazione moralistica: Pio V allontanò le statue dal Vaticano nel 1566.
Concilio di Trento Pio V
Poco prima, nel 1564, erano state “moralizzate”, con panni svolazzanti (furono detti “le brache”, tolte solo col restauro degli anni ‘90), le figure nude del Giudizio Universale nella Cappella Sistina al Vaticano, che rischiò anche di venir distrutto, come avrebbe voluto papa Paolo IV Carafa (1555-1559). Si dovrà attendere a lungo prima della rifondazione del Museo in Vaticano: solo nel 1703 il Museo, con Clemente XI, trovava ospitalità nel CORTILE OTTAGONO. Ma, come istituzione ufficiale, ebbe vita breve, anche se continuarono le acquisizioni.
Fu solo con il Cardinale Lambertini, papa Benedetto XIV, bolognese, che il Museo rinacque: nel 1757 veniva riordinato, all’interno del Vaticano, e riaperto, con la cura di Bartolomeo Cavaceppi e Francesco Vettori.Ma il Museo rinasceva grazie ad una soluzione di compromesso che rifinalizzava le opere destinate all’esposizione, superando l’ostracismo ai prodotti della cultura classica precristiana, in precedenza rifiutata in nome dell’ortodossia. Ai materiali veniva, talvolta faticosamente, attribuito un significato in qualche modo cristiano e una funzione accademica per gli artisti.Ciò permetteva di recuperare un primordiale concetto di Museo, nel quale anche la sistemazione tendeva ad essere importante, ma con un utilizzo di mezzi e apparati decorativi talvolta difficilmente accettabili in una interpretazione cristiana rigorosa.
PANNINI GIOVANNI PAOLO : LA GALLERIA DEL CARDINALE SILVIO VALENTI GONZAGA”Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Arts, tela di oltre due metri e mezzo per due, che Pannini terminò nel 1749, su incarico del cardinale mantovano Silvio Valenti Gonzaga , Segretario di stato di Benedetto XIV Lambertini. Quando, nel 1948, la tela venne acquisita dal Museo Hartford, gli studiosi pensavano rappresentasse una galleria immaginaria, tratti in inganno dalla presenza di quadri come il ritratto di Giulio II o Leone X. Ma poi fu capito che solo la galleria era immaginaria , ma i quadri erano veramente appartenuti al cardinale e ben 144 sono leggibili
Alla fine del Cinquecento quindi il termine “Museo” è ormai in uso per indicare un luogo destinato a conservare opere d'arte. Come abbiamo visto, l’Italia del Rinascimento, dove il collezionismo assunse le forme più aggiornate, è il contesto che maggiormente interessa le origini del museo soprattutto per l'aspetto della raccolta di pezzi antichi: essi non solo adornavano le sale dei palazzi delle corti italiane o venivano raccolti in raffinati «studioli», ma spesso erano disposti in giardini o cortili, offrendosi così naturalmente, per il valore stesso di modello loro attribuito, all'ammirazione e allo studio da parte di artisti e viaggiatori.
Bramante: Cortile del Belvedere
MUSEOLOGIA e ARCHEOLOGIA Anno Accademico 2010/2011
Docente Patrizia [email protected]
LEZIONE 2:
• STORIA DEI MUSEI: DAL MONDO
GRECO AL ‘500