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Dossier “Permanenze e innovazioni nei miti di metamorfosi tra letteratura e arte visiva” Dossier realizzato dalle classi IV C e IV D del Liceo Classico L. Costacon la coordinazione della professoressa Valentina Zocco.

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Page 1: Dossier - Liceo Classico Lorenzo Costa · Dossier “Permanenze e innovazioni nei miti di metamorfosi tra letteratura e arte visiva” Dossier realizzato dalle classi IV C e IV D

Dossier

“Permanenze e innovazioni nei miti di metamorfosi tra letteratura e arte

visiva”

Dossier realizzato dalle classi IV C e IV D del “Liceo Classico L.

Costa” con la coordinazione della professoressa Valentina Zocco.

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Indice

1. Premessa

2. Miti di metamorfosi

3. Metamorfosi: continuità e innovazione

4. Ovidio e “Le Metamorfosi” 5. Io e Giove

6. Dipinto: “Giove e Io”

7. Pan e Siringa

8. “Metamorfosi di Siringa”: testo greco

9. Dipinto: “La ninfa Siringa inseguita da Pan”

10. Callisto

11. Giove e Callisto

12. Confronto mito ovidiano e greco di Callisto

13. Dipinto: “Giove e Callisto” 14. Eliadi

15. Dipinto: “La metamorfosi in pioppi delle

Eliadi” 16. Europa

17. Dipinto: “Il ratto di Europa” 18. Narciso

19. Alcune interpretazione del mito di Narciso

20. Dipinto: ”Narciso alla fonte”

21. Eco

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22. Dipinto: “Eco e Narciso” 23. Piramo e Tisbe

24. Aracne

25. Aracne da tessitrice a…: versione greca del mito

26. Mito di Aracne: confronto tra il testo di

Ovidio e il testo greco

27. Dipinto: “Aracne e Minerva” 28. Tereo, Procne e Filomela

29. Apollo e Dafne

30. Dipinto: “Apollo e Dafne” di Tiepolo

31. Dipinto: “Apollo e Dafne” di A. Del Pollaiolo

32. Apollo e Giacinto

33. Apollo e Giacinto

34. Dipinto: “La morte di Giacinto” di B. West 35. Apollo e Leucotoe

36. Dipinto: “Apollo e Leucotoe” 37. Ciparisso

38. Dipinto: “Ciparisso” 39. Pigmalione

40. Dipinto: “Pigmalione e Galatea”

41. Mirra

42. Mirra

43. Adone: la nascita

44. Dipinto: “La nascita di Adone” 45. Morte di Adone

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46. Dipinto: “Venere e Adone” 47. Dipinto: “La morte di Adone” 48. Orfeo e Euridice

49. Orfeo e le Menadi

50. Dipinto: “Orfeo e Euridice” 51. Dipinto: “Orfeo”di Gustave Courtois

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1. Premessa

Durante l’anno scolastico noi alunni delle classi 4^C e 4^D

abbiamo avuto modo di essere introdotti allo studio e all’analisi

dei miti di metamorfosi nell’antichità fino alla modernità,

spaziando da brani tratti dal testo “Le metamorfosi” di Ovidio,

celebre poeta latino, a brani greci, a dipinti rappresentanti

appunto scene di mutazioni metamorfiche ispirati al poema di

Ovidio e rivisitate da artisti moderni.

All’interno del seguente dossier si potranno trovare perciò analisi

del testo, confronti tra varianti mitiche greche e latine e

descrizioni di dipinti accomunati dalla tematica di sfondo della

metamorfosi.

Mettendo a confronto i vari elementi (dipinti-brani)

sottolineeremo ciò che potranno riscontrare i lettori ovvero la

presenza di una delle caratteristiche tipiche del mito: la

permanenza e quindi l’atemporalità dei messaggi insiti nel

racconto mitico.

Saremo poi anche in grado di enfatizzare e confrontare gli

elementi che, aggiuntisi nel tempo, hanno determinato le

innovazioni ai messaggi degli autori antichi e moderni.

Pistelli Tommaso, IV D

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2. Miti di metamorfosi

La parola mito deriva dal greco μύ ο che significa

prevalentemente «narrazione, racconto orale». Il mito tratta

quindi in particolare gli argomenti relativi agli dei e le loro

imprese. Le caratteristiche del mito sono: l'oralità, che era una

caratteristica fondamentale perché quando esso è nato non

esisteva la scrittura, perciò il mito era tramandato da

generazione in generazione; la sacralità, perché il mito era legato

a riti, pratiche sacre giustificate dal racconto stesso; la

polivalenza, dato che il mito può avere vari significati simbolici;

la plasticità, perché esso in virtù dei simboli di cui si sostanzia

può essere interpretato e rielaborato in base alle esigenze

dell'epoca e dell’autore che lo rivisita; l'aspetto educativo e

conoscitivo per il tentativo di spiegare attraverso una narrazione

dai tratti fantastici le origini dell'universo, la creazione del

mondo, la nascita degli dei e la loro rivelazione; l'atemporalità,

perché appunto il mito si conserva ancora oggi nonostante che il

carattere sacrale-religioso dell'antichità sia stato sicuramente

ridimensionato.

I racconti mitici si dividono in varie tipologie: per esempio i miti

cosmogonici e antropogonici. I miti cosmogonici cercano di

spiegare l'origine del ó μο invece quelli antropogonici cercano

di spiegare l'origine dell'uomo. In questo dossier vengono trattati

i miti di metamorfosi.

La parola metamorfosi deriva dal greco με αμó φω

«trasformazione», che a sua volta deriva da με αμο φóω che

significa «trasformo». In generale si intende la trasformazione di

un essere in un altro di natura diversa. Ci sono vari tipi di

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metamorfosi: di tipo discendente se viene considerata come una

punizione, ascendente se viene considerata come una

ricompensa ed eziologica se cerca di spiegare un fenomeno, un

rito o l’esistenza di un elemento naturale.

Il poeta che ci ha lasciato un repertorio molto ampio di miti di tal

genere è Ovidio, poeta latino vissuto al tempo di Augusto che

scrisse tante opere tra le quali anche "Le Metamorfosi", un

poema in esametri in 15 libri che narra soprattutto miti di tipo

eziologico che terminano appunto con la trasformazione dei

personaggi in animali, stelle, rocce.

Simonelli Davide, IV C

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3. Metamorfosi: continuità e innovazione

La metamorfosi all’interno dell’opera “Le Metamorfosi” di Ovidio

è la tematica principale. La parola metamorfosi è una parola

composta che deriva dal greco με ά e μο φή con il significato di

«cambiamento di forma, trasformazione». Questo è il tema

preponderante all’interno dell’opera, in quanto tutti i personaggi,

protagonisti dei miti, subiscono trasformazioni che possono

renderli esseri migliori, quindi la metamorfosi è vista come un

dono, un premio (metamorfosi ascendente), ed è solitamente in

elementi naturali come dei fiori o delle stelle, oppure può fungere

da punizione e quindi far diventare gli uomini animali o rocce.

La metamorfosi è dovuta sempre ad un influsso divino, in

quanto sono gli dei a decidere del destino dei mortali.

La metamorfosi, nella maggior parte dei casi dell’opera di Ovidio,

è legata alla tematica dell’amore, in particolare a quella

dell’amore impossibile e dell’amore visto come fuga ed

inseguimento e come la fiamma che arde il cuore dei mortali e

degli immortali. In Ovidio, infatti, gli dei sono soggiogati dalla

forza dell’amore tanto quanto lo sono gli uomini e come questi

ultimi non possono sfuggirvi. L’amore è un elemento che mostra

la continua validità del mito in quanto è un concetto inalienabile

che viene vissuto da tutti gli uomini al giorno d’oggi così come

nell’epoca greca e latina o, più in generale, in tutti i periodi

passati. L’amore è infatti una forza che si estende e si manifesta

perennemente e rende i miti di metamorfosi validi sempre.

La metamorfosi inoltre nel miti di Ovidio va a spiegare la

formazione di un determinato elemento o fenomeno naturale:

questo aspetto porta il concetto a sé stante di metamorfosi ad

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essere continuo nel tempo in quanto spiega la presenza di

fenomeni ed elementi naturali presenti tutt’ora sulla terra

proprio come nel passato (valore eziologico della metamorfosi).

Infine, i miti di metamorfosi di Ovidio contengono in sé quel

valore paideutico tipico piuttosto del mito greco, da cui il poeta

latino attinge, valido prevalentemente per la società antica, ma

che si può facilmente adattare anche a quella moderna. La

metamorfosi può infatti essere punitiva o esaltativa: nel primo

caso, tramite la metamorfosi, gli uomini, i lettori dell’opera

comprendono quali siano i comportamenti da non seguire onde

evitare la punizione divina, nel secondo invece, i lettori

capiscono i comportamenti positivi degni della ricompensa degli

dei. Questi elementi, nonostante la trasformazione delle epoche

da quella greca a quella odierna, possono essere colti come

elementi di continuità in quanto mostrano comportamenti

sempre negativi (l’arroganza, la tracotanza,…) e modelli

comportamentali sempre positivi (l’amore per gli altri, rispetto

dei limiti..) che appunto hanno una validità atemporale.

In conclusione, la metamorfosi è elemento di continuità e

innovazione in quanto si estende nel tempo senza limite e porta

con sé aspetti della vita antica e moderna allo stesso modo,

mostrando l’aspetto di continuità e innovazione del mito stesso,

che ha una dimensione atemporale e quindi una validità

imperitura.

Arena Benedetta, IV D

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4. Ovidio e ”Le Metamorfosi”

Ovidio è un autore latino vissuto durante l’epoca di Augusto.

Scrisse un’opera in versi intitolata “Le Metamorfosi” formata da

15 libri nella quale sono narrati miti che hanno in comune una

fine che prevede il protagonista trasformarsi in un oggetto o

animale, quindi in qualcosa di natura diversa.

Ovidio in questi poemi è il narratore principale ma usa anche

altre voci narranti di secondo grado; usa la tecnica alessandrina

che prevede l’incastro di racconti mitici e non una narrazione

continua.

Il poeta, distaccandosi dalla civiltà greca arcaica, con i suoi miti

vuole esibire le sue abilità, la bravura nelle descrizioni e non

vuole esprimere un giudizio o un’interpretazione del mondo.

Vuole quindi intrattenere il lettore.

A questo punto si può parlare di virtuosismo poetico e in effetti

le sue descrizioni sono eccellenti. Infatti nei suoi miti durante la

metamorfosi descrive le trasformazioni puntualmente con ritmo

quasi reale.

Ovidio nei suoi miti attribuisce inoltre agli dei sentimenti e

sensazioni umane e quindi li umanizza.

Alcuni critici considerano l’arte di Ovidio un ‘miracolo laico’,

perché descrive prodigi non in termini miracolistici e religiosi ma

con una certa razionalizzazione tanto da rendere il ‘mirum’ quasi

familiare e accettabile anche ad un lettore incredulo. Anche in

questo risiede la straordinaria arte dell’autore.

Ferraro Matteo IV C

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5. Io e Giove

Il mito, tratto dall’opera “Le Metamorfosi” di Ovidio, narra le

vicende di Io, figlia di Inaco.

Un giorno Io attira l’attenzione del re degli dei, Giove, che decide

di unirsi alla ragazza. Questo desta le ire della moglie di Giove,

Giunone; il dio allora trasforma Io in una giovenca, per

nascondere alla moglie la vera identità della ragazza. Giunone

però vuole in dono la giovenca e Giove decide di donargliela. Per

evitare che il marito gliela sottragga, affida la giovenca ad Argo

dai cento occhi, con il compito di vegliare su di lei. Un giorno

durante la sua prigionia Io si reca sulla riva del fiume Inaco,

dove incontra il padre; lì cerca di svelargli la sua identità e il

padre si addolora per l’accaduto. Giove poi manda Ermes a

liberare Io e ad uccidere Argo.

Dopo averlo ucciso, Giunone infuriata fa fuggire Io che si rifugia

sulle rive del Nilo, e prega l’aiuto di Giove, riacquista

nuovamente le sue fattezze umane e genera Epafo

Dal punto di vista dell’analisi, nella prima sequenza troviamo il

primo campo semantico del mito, ossia quello della tristezza («il

pianto, piangendo, infelicissimo»); è presente un’analessi «ma

l’aveva vista». Le parole «bosco profondo, bosco, nascondiglio

segreto, nascose, nebbia» fanno parte del campo semantico del

segreto, dell’oscurità, e la nebbia in particolare è un espediente

che Giove usa per catturare la ragazza. Queste parole inoltre

vengono utilizzate da Ovidio per suscitare nel lettore una

visualizzazione delle immagini. Troviamo inoltre il campo

semantico della fuga («fuggirmi, fuggiva») e vari epiteti riferiti alla

figura di Giove «scettro del cielo, fulmini». Nella seconda

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sequenza troviamo il campo semantico del tradimento («amori

furtivi, colto sul fatto, tradisce»); inoltre è presente la tematica

della metamorfosi, legata alla prima trasformazione di Io e ad

essa è riferito il campo semantico dell’amore («amata, amore»).

Nella terza sequenza troviamo il campo semantico del timore

«timore, temendo» legato a Giunone per il possibile tradimento

del marito.

In questa sequenza poi troviamo la tematica della bestialità

contrapposta a quella dell’umanità, e della crisi d’identità della

ragazza trasformata in giovenca («muggiti, voce»); a lei è legato il

campo semantico della tristezza («lacrime, infelice, lutto») riferito

a Inaco, triste per la sfortunata sorte della figlia.

La quarta sequenza è caratterizzata da un dialogo tra Ermes,

mandato da Giove, e Argo, il custode della ragazza. Inoltre è

presente il campo semantico del sonno («addormentare, sonno,

sopore») riferito ad Argo che si addormenta al suono delle canne

suonato da Ermes.

Da qui inizia il canto di Ermes che racconta la storia di Pan e

Siringa, con la tecnica del racconto ad incastro.

Nella quinta sequenza abbiamo un’apostrofe del poeta riguardo

ad Argo, ucciso da Ermes; qui è presente una metamorfosi

eziologica, perché spiega la forma del pavone, che nel mito di

Ovidio non è altro che l’uccello di Giunone ornato degli occhi di

Argo ormai morto. Qui abbiamo la tematica della metamorfosi,

legata alla seconda trasformazione di Io, che viene riportata alle

fattezze originali; quindi possiamo parlare di una metamorfosi

temporanea.

De Mite Valentina IV C

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6. Dipinto:“Giove e Io”

Giove e Io”

Il dipinto “Giove e Io” del 1531 di Antonio Allegri detto il

“Correggio”, rappresenta Giove trasformatosi in nube per avere

un rapporto con la ninfa Io e sfuggire all’ira di Giunone.

Ovidio racconta che la ninfa fugge dal dio e che per non essere

scoperto dalla moglie si nasconde nella nebbia. Giunone capisce

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che lo strano repentino mutare di tempo è ricollegabile ad un

espediente del marito e Giove decide di trasformare Io in una

giovenca che donerà alla moglie per non insospettirla, la quale a

sua volta la affiderà ad Argo mostro dai cento occhi che verrà poi

ucciso da Ermes. Liberata la giovenca, Giove decide di

ritrasformarla in essere umano e dalla loro unione si narra poi

che sia nato Epafo.

Osservando il quadro, in primo piano si vede la ninfa che

sembra essere consenziente ad avere un rapporto con il dio,

infatti viene dipinta con il capo reclinato come se stesse per

baciarlo.

Spazio più ampio viene lasciato alla nube nella quale si

intravede il viso del dio che si confonde con lo sfondo che

sembra voler indicare il cambiamento improvviso di tempo

voluto proprio dallo stesso Giove per nascondersi con la ragazza.

Nello spazio occupato dalla nuvola si intravedono delle foglie per

rappresentare il luogo dove si svolge la vicenda, cioè il bosco e la

natura.

La ragazza invece viene raffigurata di spalle con il viso rivolto

verso il dio e nuda con la veste bianca lasciata cadere accanto a

lei.

Sul lato più basso del quadro si osserva un cervo che si

abbevera a un piccolo fiume che scorre proprio vicino alla

ragazza e che sembra non accorgersi di ciò che sta succedendo

alle sue spalle.

Il vaso dipinto vicino al cervo allude forse al fiume, padre della

ninfa oppure rimanda all’antichità classica.

Infine i colori usati dal pittore sono molto scuri, questo per dare

un senso di oscurità dovuto alla grande nube che simboleggia il

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tradimento del dio e che con i colori scuri comunica l’idea della

“fuga” dalla moglie.

Questo quadro rappresenta solo una sequenza del mito

raccontato da Ovidio e non l’intera vicenda.

Tuttavia il quadro non rappresenta il mito come viene raccontato

da Ovidio che ci descrive la ragazza impaurita che fugge dal dio

nel bosco,infatti si notano alcune differenza: nel quadro, la

ragazza viene raffigurata come consenziente ad avere un

rapporto con Giove.

Possiamo comprendere questa differenza perché l’intento del

pittore era quello di rappresentare non la tragedia della

metamorfosi ma i tradimenti che Giove spesso si concedeva.

Todaro Valentina IV D

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7. Pan e Siringa

Il brano è tratto da “Le Metamorfosi” di Ovidio, autore latino

vissuto ai tempi di Augusto. Ovidio usa spesso la tecnica

alessandrina del racconto ad incastro,che gli permette di evitare

la successione elencativa delle vicende, incastrandone una o più

all’interno di un’altra, come avviene in questo brano, dove Ovidio

inserisce il mito di Pan e Siringa all’interno del mito di Io nel

momento in cui Ermes cerca di sconfiggere Argo per liberare la

fanciulla trasformata in giovenca e decide di addormentarlo

raccontando il mito di Pan. Si prova perciò quasi una vertigine

perché le voci narranti si alternano e cambiano spesso. Ovidio

ha collegato queste due vicende per affinità (l’amore non

corrisposto, lo spazio boschivo, la condizione tragica della

fanciulla).

Il mito racconta che Pan, figlio di Ermes si innamorò di

Siringa,ninfa seguace di Diana. La naiade, per sfuggire a Pan

scappò nei pressi di una palude dove, vedendosi raggiunta,

invocò le Naiadi, che la mutarono in canne palustri. Pan, nel

momento in cui pensava di aver raggiunto la ninfa, si trovò

davanti a un fascio di canne che mosse dal vento mandavano un

suono delicato simile a un lamento. Allora Pan, utilizzò le canne

per costruire uno strumento musicale: la siringa.

La prima sequenza, di tipo narrativo, racconta come Siringa si

era presa gioco della caccia dei satiri e degli dei e vestita come

Diana voleva ingannare e passare per la figlia di Latona,

tentativo mal riuscito poiché non possedeva l’arco d’oro.

Il primo campo semantico è proprio quello relativo alla caccia

(caccia, Diana, arco, corno) e assume due connotazioni diverse:

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una fa riferimento alla caccia amorosa che satiri e dei mettono in

atto nei confronti di Siringa e che elude regolarmente; l’altra alla

caccia che mette in atto la naiade volendo eguagliare Diana. È

vero che rispetto alla dea le mancava l’arco d’oro ma riusciva

ugualmente ad ingannare tutti.

Il secondo campo semantico è quello della natura (boschi, fertili

campi) e si intreccia con il primo nella misura in cui si allude in

particolare alle selve e ai boschi in cui si muove la caccia.

Il narratore è Ovidio,la focalizzazione è zero, però nel momento

in cui Ovidio vuole mettere in evidenza il punto di vista di Pan,la

focalizzazione è interna e multipla, lo spazio è aperto e reale e

l’epoca come in ogni mito non è specificata.

La seconda sequenza, sia mimetica sia diegetica, racconta come

Pan si innamori di Siringa e di come lei tenti di fuggire non

ricambiando quest’amore. Il primo campo semantico è relativo

alla mancanza di colloquio fra Pan e Siringa, nonostante il

desiderio di Pan. Ovidio infatti, al posto delle parole che Pan

vorrebbe dirle, mette le virgolette e una linea orizzontale e

aggiunge poi «restava di dirle».

Il secondo campo semantico è quello della fuga (fuggì, fuga) che

evidenzia come la dea non voglia assolutamente corrispondere

l’amore di Pan in ossequio alla dea della caccia.

La terza sequenza, narrativa e descrittiva, racconta di come

Siringa, trovandosi davanti ad un fiume che le impediva la fuga,

supplicò le sorelle dell’acqua poiché la trasformassero. Pan,

credendo di aver raggiunto la ragazza, invece del suo corpo

strinse delle canne palustri e notò che il vento, mosso dentro le

canne, dava un suono delicato come un lamento. Allora, Pan,

incantato da questo lamento, esattamente com’era incantato

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dalla ninfa, decide di unire insieme le canne, formando cosi un

nuovo strumento musicale, la siringa, con il quale solo avrebbe

potuto avere quel colloquio che non era riuscito ad instaurare

con la fanciulla prima della metamorfosi.

L’unico campo semantico riscontrato in questa sequenza è

quello della metamorfosi (trasformassero, canne, suono tenue,

dolcezza del suono): la siringa diventa così il mezzo del colloquio

con il quale Pan sarà legato per sempre alla naiade amata. Per

fare ciò Pan mette insieme con la cera canne disuguali e cosi

mantiene vivo il nome della ragazza.

Questo è un mito eziologico perché cerca di spiegare l’origine del

flauto.

Laviosa Elena IV D

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8. Metamorfosi di Siringa: testo greco

Traduzione

La siringa non era uno strumento musicale ma una bella

vergine, che conduceva capre al pascolo nelle foreste, danzava

con le ninfe, cantava come adesso. Pan poi si invaghiva di

questa, ma la vergine derideva il suo amore. Pan dunque la

inseguiva; la fanciulla poi, chiamata Siringa, sfuggendogli si

nasconde tra canne, ma sparisce nella palude. Poi Pan

percuotendo le canne per l'ira, poiché non trovava la fanciulla,

ideava lo strumento, avendo legato con la cera canne diseguali,

come anche loro avevano amore diseguale. Così Siringa si

trasformava in strumento musicale.

Tematiche

All'interno della versione si riscontrano il campo semantico della

natura («capre, pascolo, foreste, canne, palude») che potrebbe

rimandare alla natura agreste e in parte animale di Pan; in

particolare il bosco era il luogo tipico in cui il dio era solito

consumare le sue violenze. Si riscontra poi il campo semantico

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dell'amore di Pan («invaghiva, amore»), non corrisposto da

Siringa; è possibile individuare inoltre anche il campo semantico

della verginità («bella vergine, Ninfe, vergine») che rispecchia la

natura e gli ideali della ninfa Siringa. Si riscontra poi il campo

semantico della musica («strumento musicale, cantava,

strumento») legato a ciò in cui la fanciulla si trasformerà. Infine

individuiamo il campo semantico della fuga («inseguiva,

sfuggendogli, nascondeva, spariva»), la causa della

trasformazione di Siringa.

Piarulli Emanuele, IV D

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9. Dipinto:“La ninfa Siringa inseguita da Pan”

di Brueghel dei Velluti e Pieter Paul Rubens

Il dipinto intitolato “La ninfa Siringa inseguita da Pan”, realizzato

nel 1620 da Brueghel dei Velluti e Pieter Paul Rubens, è

conservato

nella

pinacoteca di

Brera.

Dal titolo si

può evincere

che l’opera

raffigura una

scena del

famoso mito

di Pan e

Siringa, tratto

dall’opera “Le Metamorfosi” del celebre poeta latino Ovidio.

Nella parte destra del quadro notiamo la presenza di due

individui e uno all’inseguimento dell’altro: dall’aspetto bestiale

dell’inseguitore, per metà umano e per metà caprino, realizziamo

che si tratta di Pan, quindi possiamo dedurre che la fanciulla

inseguita sia la ninfa Siringa. Più volte nei racconti mitologici si

narra del dio agreste intento in inseguimenti di fanciulle: a

causa del suo aspetto infatti la volontà di appagare il proprio

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desiderio amoroso veniva spesso respinta, cosa che lo induceva

a ricorrere ad atti violenti e selvaggi.

Nell’espressione di Pan si legge tutta la volgare attrazione per la

sfortunata ninfa, la quale invece, rassegnata, rallenta la corsa e

con sguardo supplichevole e mani rivolte verso il cielo, prega le

sorelle affinché la trasformino per poter sfuggire alla violenza

carnale del satiro. I corpi dei due sono seminudi e nel caso di

Siringa hanno tratti delicati e morbidi, nel caso di Pan tratti

grezzi e bestiali; i pochi panni che li coprono sono scomposti,

gonfiati dal vento e danno l’idea della dinamicità della fuga che,

come ho già detto, nel caso della ninfa sta per arrestarsi.

Per quanto riguarda il paesaggio, ci troviamo presso un fiume, il

«placido e sabbioso Ladone» [cit. Ovidio] padre della fanciulla,

che impedisce il proseguimento della fuga di Siringa,

costringendola così a invocare l’aiuto delle sorelle che poi la

trasformeranno in una canna. Qui notiamo la presenza di volatili

tipici dei corsi fluviali (probabilmente anatre, papere) che

fuggono spaventati dalla violenta corsa dei due: essi non sono

menzionati da Ovidio nella sua opera. Nel dipinto inoltre c’è

molta vegetazione e questo, unito alla presenza di animali,

potrebbe essere un riferimento alla natura agreste, boschiva e in

parte bestiale di Pan. Sullo sfondo, oltre la vegetazione, si scorge

un angolo di cielo rossastro e arancione, probabilmente all’alba o

al tramonto. I colori principali sono caldi (rosso, giallo,

arancione, marrone.. ), elemento che potrebbe essere un

riferimento al calore della passione di Pan per Siringa.

Dal momento che l’esigenza del pittore è quella di isolare una

scena di tutto il mito, non è, a mio parere, la metamorfosi il

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tema sul quale dei Velluti e Rubens vogliono far soffermare

maggiormente l’attenzione, in quanto la ninfa ha ancora le

sembianze umane e solitamente, nei dipinti che raffigurano le

metamorfosi, i soggetti delle trasformazioni non sono totalmente

umani, ma hanno alcune parti, se non tutto il corpo,

trasformati. Ritengo piuttosto che lo scopo dei pittori fosse quello

di rappresentare o uno dei tanti tentativi d’approccio amoroso di

Pan o la tematica della passione e dell’amore violento nei miti.

Come ho già detto, l’opera è stata realizzata nel 1620, periodo in

cui si sviluppò la corrente artistica del Barocco, che è irregolare

antitesi con l’arte classica, disarmonica e esagerata e di cui

proprio Pieter Paul Rubens è uno dei massimi esponenti per

quanto riguarda la pittura.

Può sorprendere che gli autori abbiano scelto da rappresentare

proprio un mito: i miti infatti sono tipici della civiltà classica,

caratterizzata invece da un’arte quasi perfetta, pura, geometrica,

con dei canoni da rispettare (es. canone di Policleto) che quindi

non si addice allo stile Barocco.

Piarulli Emanuele, IV D

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10. Callisto

Il mito proposto è tratto da "Le metamorfosi", raccolta scritta dal

poeta latino Ovidio, vissuto durante l'epoca dell'imperatore

Augusto.

Nella prima sequenza del brano troviamo il dio Giove che mentre

fa scorrere fiumi, crescere erba, alberi e boschi si accorge di una

fanciulla che stava cacciando con un arco. Questa stanca si

dirige verso un bosco e si sdraia al suolo per riposare. Si

possono riscontrare in questa sequenza il campo semantico della

natura ("fiumi", "terra", "erba", "fronde", "alberi", "sole", "selva",

"suolo erboso") che è tipico di questi miti e ci è utile per capire

che lo spazio in cui si svolge la vicenda è aperto.

Un altro campo semantico è quello della caccia testimoniato

dalle parole "arco", "asta levigata" e "faretra" che può rimandare

alla natura selvaggia e ancora agli spazi aperti.

Il tempo della vicenda è indeterminato in quanto non vi sono

elementi che ci possono far capire l'epoca in cui sono svolti i

fatti.

Nella seconda sequenza che va dal verso 422 al verso 433

troviamo Giove che si traveste in modo da avere l'aspetto di

Diana per potersi avvicinare alla fanciulla di nome Callisto la

quale loda la dea Diana ritenendola al di sopra di Giove. In

questa sequenza Giove violenta la fanciulla che non riesce a

fuggire perché troppo debole. La sequenza si apre con un

soliloquio da parte di Giove.

Si possono ancora riscontrare le parole "erba" e "boschi" che

vanno a comporre il campo semantico della natura riscontrabile

per tutto il mito.

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Al verso 431 si può trovare una litote ("baci non casti"). In

questa sequenza troviamo il tema dell'offesa e dell'inganno:

offesa in quanto Callisto, non sapendo che chi aveva di fronte

era in realtà Giove, lo offende, e inganno poiché Giove inganna la

fanciulla travestendosi da Diana per poterla avvicinare.

Nella terza sequenza si riscontra la presenza di una ribellione,

ormai inutile, da parte di Callisto, la quale non vuole essere

violentata dal dio che ormai si è rivelato. Si riscontra il campo

semantico della ribellione testimoniata dalla parole "fuggire",

"ribellare", e "andarsene" che rimandano ad un amore visto come

una disperata fuga perché non ricambiato, come nel mito di

"Apollo e Dafne" e in quello di "Io".

Ancora una volta si può individuare il campo semantico della

natura ("cielo", "selva", "alberi", "ramo") e quello della caccia

("faretra" e "frecce").

La quarta sequenza si apre con l'arrivo di Diana, questa volta la

dea vera, presentata tramite una perifrasi ("Dictinna"). La

fanciulla diffidente fugge e ancora una volta ritroviamo il campo

semantico della fuga ricollegato al tema della sequenza. Inoltre

"inganno", "colpa", "pudore" vanno a costituire il campo

semantico della colpa.

La colpa è attribuita alla fanciulla Callisto in quanto non si è

mantenuta vergine. In parte non è una vera e propria colpa visto

che lei non sapeva che egli fosse il dio Giove.

Nella quinta sequenza si narra del momento in cui Diana, le

ninfe e Callisto si immergono nude nell'acqua di un fiume. In

questa sequenza Diana e le ninfe si accorgono della colpa

commessa dalla fanciulla, cioè aver perso la verginità e di

conseguenza essere rimasta incinta.

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Il campo semantico della natura ricorre ancora in questa

sequenza facendoci intuire che lo spazio in cui si svolge la

vicenda è aperto ("bosco", "sabbie", "fiume", "onde"; acqua").

Inoltre è presente un epiteto, "Parassia", che indica la fanciulla

Callisto. In questa sequenza sono messi in evidenza il disagio e

la vergogna provati dalla fanciulla, che infatti esita ad entrare in

acqua per non essere sorpresa dalla dea che la caccia via.

La sesta sequenza ci introduce la figura di Giunone tramite una

perifrasi ("la sposa del dio tonante") la quale, infuriata, ha

intenzione di punire Callisto, non tanto per essersi unita a Giove

quanto per aver dato alla luce Arcade, figlio suo e di Giove. La

sequenza è narrativa, ma vi è la presenza di un soliloquio in cui

Giunone insulta Callisto e la incolpa d'adulterio.

A questo punto avviene la metamorfosi della fanciulla in un'orsa

dall'aspetto selvaggio e bestiale: in questo caso essa è

discendente perché punizione e perché trasformazione in

animale. Le parole usate per descrivere la trasformazione ci

fanno capire il registro alto dell'autore, infatti qui, e in tutto il

brano, fa uso di figure retoriche e aggettivi di uso non comune.

Nella settima sequenza viene descritta e narrata la vita di

Callisto una volta trasformata in orsa. Vengono evidenziati il duo

smarrimento per il vivere nel bosco e la paura dell'essere

catturata dai cacciatori, di cui lei un tempo faceva parte perché

amava cacciare. La narrazione viene accelerata dall'autore,

infatti capiamo che vi è stato un salto temporale nella narrazione

dalla frase "Aveva quindici anni", riferito al figlio della fanciulla,

ora orsa.

Nell'ottava sequenza viene narrato l'incontro tra Arcade ("nipote

di Licaone") con l'orsa sua madre. Callisto, che sembra

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riconoscere il figlio, vi si avvicina, ma egli, terrorizzato sta per

trafiggerla. Giove la salva e sentendosi in colpa di averla fatta

diventare un essere tanto bestiale la trasforma in stella insieme

al figlio Arcade e insieme vanno a comporre la costellazione

dell'Orsa Maggiore in cielo.

Questo mito è di tipo eziologico e si riscontra sia una

metamorfosi discendente (da uomo ad animale) sia ascendente

(da animale a stella). Lo scopo del mito è quindi quello di

spiegare l'esistenza della costellazione dell'Orsa Maggiore tramite

una spiegazione erudita.

Il tema è, come in tutti i miti appartenenti alla raccolta di "Le

metamorfosi", appunto quello della trasformazione. Un altro

tema riscontrato anche in altri miti analizzati è quello dell'amore

visto come un inseguimento. Si può individuare il tema del

tradimento di Giove nei confronti della moglie Giunone e infine

quello del destino avverso a cui i mortali sono spesso sottoposti,

in quanto Callisto non era consapevole del fatto che si stava

unendo al dio e che quindi non voleva commettere

volontariamente tale adulterio.

Bertani Elena, IV D

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11. Giove e Callisto

Il mito è tratto dall’opera “Le metamorfosi” di Ovidio, grande

autore latino vissuto nell’età augustea. Questo mito è eziologico

poiché spiega la formazione dell’astro dell’Orsa Maggiore.

La storia racconta di come Giove, dopo aver visto la ninfa

Callisto distesa in un prato, se ne innamora e, travestendosi da

Diana, le si avvicina e consuma un tradimento. Segue poi l’ira di

Giunone che trasforma la ragazza in un’orsa. Giove, allora,

sentendosi in colpa compie una seconda metamorfosi sulla

ragazza facendola diventare una stella, l’Orsa Maggiore appunto.

Nella narrazione riscontriamo alcune caratteristiche che

accomunano tutte le sequenze. La focalizzazione è zero, ma in

alcune parti diventa interna poiché la vicenda prende il punto di

vista del personaggio. Il narratore è onnisciente e dal campo

semantico della natura possiamo dedurre che gli spazi siano

aperti, mentre come da caratteristica del mito, il tempo è

indefinito. Il racconto è una fabula poiché è rispettato l’ordine

cronologico degli avvenimenti.

La prima sequenza narra di come, dopo aver notato la fanciulla e

dopo essersi travestito da Diana, Giove consumi l’adulterio

contro il volere della povera ed impotente ninfa. Questa è una

sequenza narrativa poiché contribuisce all’evolversi della

vicenda, la narrazione è diegetica poiché non sono presenti

discorsi diretti.

Riscontriamo diversi campi semantici, quello della natura che,

come detto in precedenza, ci fa capire che i luoghi sono aperti,

quello della caccia che ci aiuta a capire il travestimento di Giove.

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κ presente inoltre la tematica dell’amore, insieme a quella del

travestimento, dell’inganno e del tradimento.

Con l’espressione “fuoco d’amore” abbiamo un linguaggio

connotativo e metaforico. Abbiamo anche una litote

nell’espressione “baci non casti” che è una figura retorica che

attenua un concetto negandolo. Abbiamo anche un soliloquio di

Giove il quale pensa che la moglie non verrà a sapere del

tradimento e che, anche se lo verrà a sapere, se la caverà con

una lite. Tutti questi accorgimenti stilistici rientrano nella

funzione di lingua poetica.

La seconda sequenza, anch’essa narrativa, narra della vergogna

che prova la fanciulla per non essere più vergine, tanto che dalla

dea Diana viene considerata addirittura “contaminata”. Il

momento in cui la fanciulla andandosene si sta per dimenticare

arco, frecce e faretra, ci fa capire quanto fosse sconvolta

dall’accaduto. Anche qui la narrazione è diegetica e possiamo

riscontrare la tematica della paura, nel momento in cui la

ragazza vede tornare Diana verso di lei, pensando che fosse

ancora Giove sotto travestimento. In questa sequenza, oltre al

campo semantico della natura già riscontrato in precedenza,

troviamo anche quella della colpa e dell’inganno.

Nella terza sequenza si narra di come Giunone, denominata con

la perifrasi “sposa del dio tonante”, accecata dalla rabbia,

trasformi la ninfa in un’orsa: questa è una metamorfosi

discendente, poiché la fanciulla viene trasformata da un essere

superiore ad uno inferiore, e viene quindi vista come una

punizione. Si riscontra quindi la tematica della colpa a cui segue

punizione. Dopo la metamorfosi troviamo il climax, quando la

fanciulla trasformata in orsa, risulta incapace di comunicare con

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la parola. Troviamo anche diverse esclamazioni del narratore,

che interviene con l’intento di coinvolgere i lettori. La narrazione

è prevalentemente diegetica, ma troviamo anche una parte in cui

diventa mimetica e anche qui riscontriamo il campo semantico

della colpa.

Nella quarta sequenza abbiamo la seconda metamorfosi di

Callisto, questa volta ascendente, poiché viene trasformata da

orsa a stella per l’eternità. La narrazione è diegetica e con il

riferimento a Licaone Ovidio allude ad altri miti greci.

Nella quinta ed ultima sequenza si narra della collera di Giunone

quando vede la sua rivale splendere in cielo. Quindi riscontriamo

le tematiche della collera e della gelosia. La sequenza è

prevalentemente mimetica, poiché troviamo un lungo discorso

diretto di Giunone con gli dei del mare, cosa che ci fa capire

quanto fosse adirata. In alcuni punti si ha addirittura la

sensazione che Ovidio prenda in giro Giunone dato che la

umanizza. Riscontriamo infine il campo semantico dell’offesa.

Ricci Riccardo, IV D

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12. Confronto mito ovidiano e greco di Callisto

Interessante potrebbe essere confrontare i due miti da noi

analizzati in classe che trattano entrambi della nascita dell’Orsa

Maggiore. Il primo, piuttosto sommario, è scritto da un autore

greco pseudo-Apollodoro; il secondo invece, più lungo e ricco di

dettagliate descrizioni, è scritto dal celebre autore latino Ovidio.

La trama principale è la medesima: Zeus/Giove, re degli dei,

scorge casualmente Callistò,una splendida ninfa compagna di

Diana, nella versione latina, Artemide in quella greca, e se ne

innamora perdutamente; nonostante che la giovane sia contraria

decide di unirsi a lei in un bosco, scatenando in questo modo

l’ira di sua moglie Era,regina degli dei. Callistò viene quindi

trasformata in orsa e, nella conclusione di entrambe le versioni,

per evitare una tragedia, viene posta nel cielo, dove per sempre

rimarrà.

Molte sono le analogie fra il testo greco e quello latino,

altrettante le differenze. Sin dall’inizio è possibile constatare

alcune disuguaglianze fra i due brani: quello di Ovidio, ad

esempio, inizia con una lunga descrizione della ninfa Callistò

della quale Giove si innamora con un solo sguardo; il re degli dei

decide in breve tempo che vale la pena commettere un adulterio

con una ragazza di cotanta bellezza, così prende le vesti di

Diana, dea compagna e protettrice di Callistò e così facendo

riesce a ingannare e a violentare la giovane all’interno del bosco,

nel quale ella si stava riposando.

Il testo greco inizia invece con una brevissima presentazione

della fanciulla protagonista del mito, e passa subito a narrare il

tradimento di Zeus; anche qui la fanciulla non è consenziente

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all’unione, ma in questa versione è il re degli dei che, timoroso

che la moglie possa scoprire la sua infedeltà, decide di

trasformare la giovane, con la quale si è appena unito, in

un’orsa, ma invano: infatti Era, sua moglie, non cade

nell’inganno. Era allora si vendica persuadendo Artemide a

colpire un’orsa, senza rivelarle che quella è Callistò trasformata.

Nel mito dell’autore latino i fatti si svolgono diversamente: poco

dopo essere stata violentata da Giove in veste di Diana, Callistò

non viene trasformata in orsa, bensì incontra la “vera” dea della

caccia alla quale, in seguito a qualche esitazione, si riunisce. La

ninfa è rimasta incinta del dio, il tempo trascorre e la cosa è

sempre più evidente, ma Diana non se ne accorge. Solo una

sera, dopo che la ragazza viene spogliata per immergersi

nell’acqua limpida di un lago, la sua colpa è visibile agli occhi di

tutti e viene quindi cacciata da Diana stessa. E’ questo il

momento che Era, la quale aveva scoperto già da tempo ciò che

era avvenuto, trova perfetto per punire l’adulterio della ninfa,

che aveva da poco partorito un figlio, Arcade, segno evidente del

tradimento. Così Callistò viene trasformata in orsa, viene privata

del suo aspetto e della parola e di umano le rimane solo il

pensiero. Gli anni trascorrono e un giorno, mentre la donna

cammina nel bosco mutata in orsa, incontra suo figlio, ormai

quindicenne, che è andato a cacciare; la madre sembra

riconoscerlo e si avvicina a lui, mentre Arcade, impaurito, sta

per ucciderla; ma Zeus, che assiste a tutta la scena, non vuole

permettere che l’amante muoia in questo modo, quindi colloca

nel cielo sia lei sia il figlio trasformandoli in costellazioni. Segue

dunque un lungo dialogo di Era che si rivolge ad alcuni dei: ella

è infuriata e offesa poiché la sua rivale in amore, invece di essere

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punita come si meriterebbe,viene posta in cielo, ricevendo un

onore che non si merita.

Anche nel testo greco, poco prima che possa avvenire una

tragedia, interviene Zeus che pone la ragazza in cielo, dandole il

nome di Orsa Maggiore, ed è così che questo mito si conclude.

I testi hanno tematiche in comune, come quella dell’amore,

della metamorfosi, della natura selvaggia e del tradimento, ma

nel testo di Ovidio sono presenti anche tematiche quali la

bestialità, l’inganno, la colpa e il destino che vince tutti, persino

gli dei. Inoltre, il testo latino è maggiormente complesso e ricco

di dettagli, in quanto l’autore desidera principalmente stupire il

lettore; il testo greco, invece, è più semplice poiché si cerca di

dare una spiegazione divina ad un “fatto naturale” e l’autore non

vuole in alcun modo stupire colui che legge.

Alessi Giada, IV D

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13. Dipinto: "Giove e Callisto"

"Giove e Callisto" è un quadro di P. Rubens che risale al 1600

circa. Questo dipinto rappresenta una scena del mito di Ovidio

che fa parte dell'opera "Le Metamorfosi" e che narra dell'inganno

del dio Giove per conquistare la giovane Callisto. Più

precisamente rappresenta il momento in cui il dio, invaghitosi

della ninfa, cerca di sedurla prendendo momentaneamente le

sembianze della dea Diana.

Innanzitutto nel dipinto possiamo notare in primo piano le due

figure principali del mito, Giove e Callisto.

La giovane fanciulla è stesa senza vesti su un telo rosso a gambe

incrociate e con i capelli raccolti. Viene vista di profilo e si può

notare la mano che si posa sulla faretra mentre con l'altra tiene

un drappo bianco.

Ha uno sguardo intimorito mentre l'altro personaggio le tocca

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dolcemente il mento.

Giove che per una metamorfosi temporanea ha preso le

sembianze di Diana, viene quindi rappresentato come una

donna che,al contrario della ninfa, indossa una veste grigia.

Si trova inginocchiato davanti alla fanciulla, la guarda

dolcemente, accarezzandole il mento con una mano mentre con

l'altra la tocca il collo.

In secondo piano notiamo la figura dell'aquila, più distante e a

destra del quadro, che ha tra le zampe una saetta. Questi due

elementi sono simboli che rappresentano Giove, mentre la

faretra con le frecce, alludono al mondo della caccia a cui era

dedita Callisto.

Nel testo troviamo l'aquila, ma possiamo riscontrare la

descrizione dell'arco e la faretra vicino alla giovane.

Del resto, nell'area visiva il pittore ha bisogno di usare oggetti o

elementi simbolici che siano attribuiti a dei o personaggi per

permettere di identificarli.

Il luogo in cui è ambientato il quadro è lo stesso del brano: un

bosco, uno spazio aperto e segreto, tipico del tradimento.

Possiamo riscontrare delle differenze anche da come viene

ritratto il cielo, infatti nel brano dice che il sole era alto e aveva

passato metà del suo corso, mentre nel dipinto il cielo è scuro e

nuvoloso e si schiarisce all'orizzonte.

I colori sono generalmente scuri e vengono usati colori come il

verde, il nero e il rosso per delineare il territorio, circostante ai

due personaggi principali. Questa scelta potrebbe farci capire la

sventura della fanciulla.

Millepiedi Sofia, IV D

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14. Eliadi

La parte finale del mito di Fetonte racconta che Giove, dopo che

dovette “fermare un fuoco con un terribile fuoco”, non avendo a

disposizione né nubi né pioggia, colpì uccidendolo anche

Fetonte, protagonista del mito,cocchiere del carro del Sole, suo

padre.

La voce narrante è esterna e onnisciente e la focalizzazione è

zero con un intervento dell'autore. Lo spazio in cui si svolgono i

fatti è aperto, come in tutti i miti di Ovidio, dato che la maggior

parte delle metamorfosi è collegata alla natura. Il tempo della

storia non corrisponde al tempo del racconto, infatti è

accelerato.

Il corpo di Fetonte, ucciso dal fulmine di Giove, viene accolto

dalle ninfe Naiadi e da Eridano.

In questa prima sequenza narrativa è presente il campo

semantico del fuoco, caratterizzato dalle parole “fuoco”,

“incendi”, “ fiamma”, infatti il corpo di Fetonte è straziato e

fumante. L'elemento del fuoco assume un significato simbolico,

in quanto rappresenta il potere e la superiorità di Giove. Si può

inoltre notare l'ambiguità del fuoco: esso illumina e scalda, ma

può anche essere causa di morte.

Accolto dalle Naiadi, il corpo di Fetonte viene sepolto nella loro

terra. Siamo nella seconda sequenza dove entra in gioco la

tematica della sepoltura, rito di grande importanza per gli

antichi. È presente un'apposizione: “Fetonte, auriga del carro

paterno”, che caratterizza il registro poetico ed elevato di Ovidio.

La sepoltura è accompagnata dal campo semantico del lutto e

della disperazione (“seppellirono”,“lapide”, “lutto”, “disgrazia”,

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“angoscia”, “sepolte”, “lacrime”, “triste lamento” ), disperazione

provata da Climene, madre del protagonista, che vaga in cerca

del sepolcro del figlio, finché, una volta trovato, scoppia in un

triste e lamentoso pianto, seguita dalle Eliadi, ninfe e sorelle di

Fetonte.

Come in tutti i miti greci è presente la tematica della tragedia,

caratterizzata appunto dal triste lamento.

Nella terza sequenza le donne sono ormai da lungo tempo curve

sul sepolcro a piangere Fetonte, quando si trasformano,

improvvisamente, in piante. Ancora una volta vediamo il

linguaggio elevato dell'autore che descrive nei minimi dettagli la

metamorfosi.

La metamorfosi è la tematica principale di questa sequenza

descrittiva. Il campo semantico che prevale è quello dell'albero e

della staticità, caratterizzato dalle parole “irrigidita”, “corteccia”,

“chiuse“, “radici”, infatti le ninfe vengono trasformate in alberi,

mentre la madre cerca inutilmente di staccarle dal tronco che le

sta circondando. In questa sequenza è presente un parallelismo:

“l'una soffre di avere le gambe chiuse in un tronco, l'altra che le

sue braccia diventino lunghi rami”.

La spiegazione della metamorfosi si può dedurre dall’intervento

di Ovidio: “ versano lacrime, inutile dono per i morti” e “si

batterono il petto per chi non poteva più sentirle” ; infatti, essa

avviene senza l'intervento di un dio o di qualche elemento

sovrannaturale, ma semplicemente, dato che le donne non si

sono fatte una ragione della morte di Fetonte, si sono lasciate

trasportare dalla disperazione e hanno finito col “mettere le

radici”, come ci fa capire il campo semantico della staticità citato

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in precedenza, ossia si sono trasformate in piante passando da

uno stato di movimento ad uno stato di staticità permanente.

La madre, nel frattempo, è descritta come una figura impotente:

essa non ha subito la metamorfosi, ma non può far niente

perché le figlie non la subiscano, e tenta, inutilmente, di

staccarle dal tronco facendo loro del male.

Climene è invocata dalle Eliadi in un grido straziato, “mamma”,

che accentua ancora di più la situazione tragica,e a cui segue un

nuovo intervento di Ovidio che si immedesima nella madre: “Ma

come può una madre, altro che correre qua e là dove la porta il

suo slancio, e dare baci finché è possibile?”. Qui è presente la

tematica dell'amore della madre per le figlie e, soprattutto, la

tematica della disperazione, della tragedia e dell’impotenza

dell’uomo contro un evento sovrannaturale, come la

metamorfosi, che culmina in questo punto del racconto.

Nella quarta sequenza, narrativa e descrittiva, le ragazze sono

del tutto trasformate in salici, ma soltanto il loro aspetto è

cambiato: dentro al tronco le ninfe sono ancora umane e

sentono il dolore soffrendo e piangendo. Le loro lacrime

scendendo dal tronco si trasformano in ambra asciugate dal

sole.

Il mito è dunque eziologico perché vuole spiegare la nascita del

salice piangente e dell'ambra.

D’Imporzano Federico, IV C

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15. Dipinto: “La metamorfosi in pioppi delle

Eliadi” di Santi di Tito (XIV secolo)

Il quadro ritrae sullo sfondo un paesaggio rurale: a sinistra

un’altura che scende rapidamente, andando invece verso destra,

guardando più lontano, si notano a destra delle montagne molto

chiare rispetto alla campagna. All’orizzonte il cielo è più chiaro

in prossimità della campagna e salendo invece è interamente

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coperto di nubi. In primo piano sono dipinte insieme agli altri

personaggi le quattro sorelle di Fetonte, completamente nude,

fisicamente uguali, di carnagione chiara, con i capelli di color

arancione-rossi. Tutte hanno un’espressione addolorata e le

mani coprono il volto come se volessero nascondere il viso agli

altri o è un’allusione alla disperazione delle donne. Una di esse è

girata di spalle con le braccia alzate, in fase di ramificazione.

Ai loro piedi si trovano tre bambini anch’essi di carnagione

chiara, con delle vesti di color rosso che non coprono

completamente il corpo. Quello più a sinistra è chinato dove

forse è sepolto Fetonte e raccoglie l’ambra e la dà alle donne

latine, come descritto dal mito.

In basso un piccolo cigno osserva la scena; è Cigno, cugino del

defunto Fetonte, che guarda la metamorfosi delle sue sorelle.

Accanto a lui vi è un uomo di corporatura robusta che ha una

folta barba bianca e capelli riccioli, anch’essi bianchi, con lo

sguardo rivolto verso l’alto, con un’espressione seria. Con la

mano destra tiene un’anfora, piena d’acqua di color marrone e

bianco, posta in orizzontale, da cui esce con un discreto flusso il

liquido. L’anfora potrebbe alludere al fatto che quel vecchio sia

Eridano, il fiume. L’anfora è però anche simbolo del mondo

antico e classico e il simbolo del viaggio, quel viaggio intrapreso

dalla madre di Fetonte per trovare il sepolcro del figlio. La madre

non è rappresentata nel quadro. Un’altra differenza del quadro

rispetto alla versione di Ovidio è nella raccolta dell’ambra:

secondo Ovidio l’ambra viene raccolta dopo la metamorfosi delle

ninfe, ferite perché la madre ha cercato di staccarle dal tronco

che le teneva prigioniere, mentre nel quadro l’artista ritrae i

bambini che raccolgono l’ambra mentre le donne sono ancora

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all’inizio della loro metamorfosi, e le donne non presentano

alcun tipo di ferite.

Tornando alla descrizione, in alto a sinistra notiamo due uomini,

una donna e un altro bambino. I due uomini sono piegati a terra

con le mani che indicano la sabbia; hanno poche vesti addosso e

quello più in alto ha una fascia sulla testa. Per quanto riguarda

la donna, è più vestita degli altri personaggi e probabilmente

appartiene all’epoca del pittore. In mano tiene un lenzuolo e il

suo sguardo è indirizzato verso il basso a guardare un bambino

sotto di lei con le mani protese verso il lenzuolo come se volesse

prenderlo.

A sinistra in alto si possono notare ancora altre persone tra cui

una donna con vesti rinascimentali.

In conclusione, la vicenda ovidiana nel quadro è inserita in una

scena in cui troviamo vari elementi di diverse epoche, forse a

sottolineare la perennità e la trasmissione dei miti classici.

Fregoso Bernardo, IV C

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16. Europa

Nella prima sequenza del mito di Europa Giove, il re degli dei,

assume l’aspetto di un toro perché innamorato della fanciulla

Europa e raggiunge il luogo dove la figlia del re era solita giocare

insieme alle vergini di Tiro. Il toro simbolo dell’autorità e del

potere, bellissimo nel suo aspetto è bianco come la neve candida,

ha il collo muscoloso, ha piccole corna che sembrano fatte a

mano e il suo sguardo non è minaccioso.

In questa sequenza si riscontrano numerosi significati simbolici:

la metamorfosi è temporanea ed è un espediente usato da Giove

per conquistare Europa. Si possono riscontrare inoltre diversi

campi semantici come quello relativo alla bellezza (candido,

bellissimo,candido fianco) che cerca di mettere in risalto

l’autorità.

Nella seconda sequenza Europa osserva lo splendido aspetto del

toro, ma, pur essendo in un primo momento impaurita, dopo

abbellisce le sue corna con fiori e ha anche il coraggio di sedersi

sulla sua groppa, così il dio si allontana dalla spiaggia e la porta

in mezzo al mare; la fanciulla si tiene con una mano a un corno

e con l’altra alla groppa, mentre le sue vesti si gonfiano al vento.

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Europa nella seconda sequenza si lascia rapire da Giove e l’idea

del rapimento indicherebbe il distacco tra il mondo Orientale e

quello Occidentale, ma allude anche al continuo scambio di idee,

conoscenze tra l’Asia e l’Europa. Il mare invece potrebbe essere

simbolo di movimento e dell’aggregazione tra culture; la donna è

una figura ambivalente perché è rapita e ingannata dal toro ma

è colei che domina il seduttore.

Nella seconda sequenza si possono riscontrare oltre al campo

semantico relativo all’amore (innamorato) che è presente in tutto

il poema anche quello riguardante la paura di Europa

(timore,tremando, paura) che è spaventata dal rapimento del

toro, ma allo stesso tempo si fa rapire.

Ovidio utilizza inoltre un registro elevato per la presenza di

perifrasi (v.845,858,868) e si può notare il virtuosismo poetico

utilizzato dall’autore perché notevole è la sua capacità

descrittiva.

La voce narrante è esterna onnisciente e la focalizzazione è zero.

Simonelli Davide, IV C

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17. Dipinto: “Il Ratto d’Europa”

Il piatto smaltato “Ratto d’Europa” è dipinto con un soggetto

mitologico raffigurante il rapimento di Europa da parte di Zeus.

La scena raffigurata è in movimento ed ha un andamento da

sinistra versa destra. Sullo sfondo è dipinta una città in cui è

possibile riconoscere Creta. In secondo piano sulla sinistra c’è la

mandria di buoi di Agenore sulla spiaggia. In primo piano

vediamo invece le fanciulle di Tiro agitate dall’episodio a cui

stanno assistendo: una fanciulla è rapita da un toro dal folto

manto bianco.

L’episodio ci riporta, dunque, al mito di Europa, figlia di

Agenore, re dei Fenici. Abitualmente Europa si recava sulla riva

del mare per divertirsi e per raccogliere fiori con le sue ancelle di

Tiro e poco lontano da loro pascolavano gli armenti del re. Ad un

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tratto si videro accerchiate da un branco di tori. Fra questi si

distinse un toro dal mantello bianco abbagliante, dall’aspetto

docile e mansueto che si poteva riconoscere dalle piccole corna

simili a gemme lucenti: era Zeus stesso, che si era innamorato di

Europa e si era deciso di conquistarla, presentandosi sotto

quell’aspetto. Europa, attratta da quell’animale bellissimo,

timida all’inizio, avvicinò i suoi fiori a quel muso candido: il toro,

gemendo di piacere, si rovesciò sull’erba e offrì le sue piccole

corna alle ghirlande. La principessa Europa ad un certo punto

gli si sedette sulla groppa. Il branco si spostò così dal letto

asciutto del fiume verso la spiaggia. Il toro si avvicinò all’acqua.

La bestia bianca investì così le onde con Europa in groppa.

L’autore del dipinto coglie il momento in cui Europa si volta

indietro: con la mano destra si tiene ad un corno del toro, con

l’altra si appoggia alla bestia, mentre l’aria mossa le fa tremare le

vesti. Per questo motivo la fanciulla rapita è rappresentata nel

piatto con un tono più malinconico che spaventato. Il rapimento

dunque non è rappresentato con una scena drammatica proprio

perché voluto da Europa.

Il piatto smaltato fu dipinto, si presume, nel 1560 circa, ad

Urbino, nella bottega dei Fontana e ha quindi le caratteristiche

artistiche e pittoriche della pittura rinascimentale.

Rossi Michele IV C

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18. Narciso

Il mito è tratto da “Le Metamorfosi”, la celebre raccolta di Ovidio.

Narciso è figlio del dio fluviale Cefiso e della ninfa Liriope; alla

sua nascita Tiresia, un indovino, aveva ambiguamente predetto

che il fanciullo non sarebbe vissuto a lungo se avesse visto la

sua immagine. Divenuto giovane Narciso fece innamorare

moltissime ragazze a causa della sua bellezza ma senza

ricambiarne il loro amore. Queste chiesero alla dea della

vendetta Nemesi di punirlo, facendolo soffrire allo stesso modo

per le pene d’amore che aveva provocato. Così, la dea lo punì

facendo in modo che si innamorasse del riflesso della sua

immagine. Narciso però, non riuscendo ad afferrare la sua

immagine, morì per il dolore; anche nelle acque dello Stige negli

Inferi continuò a contemplarsi. Morendo, Narciso si trasformò in

un fiore, che porta il suo nome.

La focalizzazione è di tipo zero in tutto il mito e la voce narrante

è esterna ed onnisciente.

La prima sequenza è di tipo descrittivo perché descrive

l’ambiente in cui si svolge la vicenda. E’ un luogo piacevole

caratterizzato da una fonte di acqua limpida e pura e da un

prato verde. In letteratura è usato il termine “locus amoenus”

per individuare questo tipo di spazio stilizzato e gradevole. Non

abbiamo indicazioni di tempo, a conferma dell’atemporalità del

mito.

La seconda sequenza è mista poiché narrativa e descrittiva allo

stesso tempo. In questa sequenza infatti viene presentato il

protagonista, stanco per la caccia che è intento a colmare la sua

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sete nell’acqua, ma che sarà colpito da un’altra sete, un

desiderio d’amore: Narciso.

La parola caccia è di un certo rilievo in alcuni miti di Ovidio e

rimanda appunto all’attività in cui sembra abile il ragazzo.

Narciso sporgendosi per bere dunque vede nell’acqua la figura di

un bellissimo fanciullo e se ne innamora.

In realtà l’immagine da cui era rimasto affascinato era il riflesso

di lui che si stava avvicinando alla fonte. Il riflesso è infatti una

parola-chiave del mito che si ricollega all’inganno provocato dalla

sorgente. La “sete d’amore” riporta al campo semantico

dell’innamoramento come individuato dalla parola «innamora».

Si può parlare infatti di “doppia sete” poiché l’ultima parola di

questa espressione è usata sia con un linguaggio denotativo, sia

connotativo: rispettivamente il bisogno di bere e quello d’amore.

La sequenza termina con una contrapposizione tra realtà ed

illusione riportata dalle parole «corpo crede ciò che è solo

ombra».

Parole come «riflessa» e «immagine» possono far parte di un altro

campo semantico ossia quello della vista. Come abbiamo già

constatato in altri testi essa veicola la passione dell’amore, altra

tematica la quale unisce tutti i miti della raccolta.

L’ultimo campo semantico della seconda sequenza è quello della

bellezza. («capelli degni di Bacco, guance lisce, il collo d’avorio,

bellezza…»)

La similitudine, «come una statua scolpita in marmo di Paro»,

presente al verso 14 è prova del registro elevato e quindi dello

stile poetico del brano.

Anche in questa sequenza lo spazio aperto e il tempo è

imprecisato, come in tutte le successive sequenze.

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Si prosegue con la terza sequenza che è di genere riflessivo-

descrittivo perché Narciso parla dell’amore che prova per sé

stesso. Queste ultime due parole rappresentano la chiave di

interpretazione della sequenza ma anche dell’intero testo.

Infatti Narciso suscita il fuoco d’amore e nello stesso tempo ne è

bruciato, essendo contemporaneamente amante e oggetto amato.

L’uso grammaticale dell’attivo e del passivo accenna alla tragicità

del momento.

Si riscontra poi una similitudine, ulteriore dimostrazione del

registro elevato del poeta.

Troviamo la prima anafora («quante volte… quante volte..») ed

una serie di campi semantici che possono essere divide nell’area

correlata dell’amore, quindi la fiamma d’amore e lo sguardo, e

l’area correlata all’illusione dell’immagine riflessa.

Infatti troviamo la tematica dell’inganno di cui vittima è lo stesso

Narciso.

Le parole di quest’ultimo campo semantico sono «finzione,

illusione, inganno, immagine, fantasma, riflessa, illudi».

Si può riscontrare un’apostrofe al verso 30 sotto forma di

interrogativa, con cui la voce narrante si rivolge direttamente a

Narciso chiedendogli il perché del suo illudersi e dicendogli di

non farsi ingannare dall’immagine riflessa. Questa tecnica è

usata per rendere meglio la tragicità del momento.

Si nota alla fine della sequenza al verso 29 e 30, la ripetizione

dei pronomi “te, tu” per sottolineare il ripiegamento su di sé.

La quarta sequenza è dialogata. In essa vi è un lungo soliloquio

dove Narciso parlando tra sé chiama come testimoni gli elementi

della natura. Tramite domande retoriche verso le selve dice che

nessuno ha mai sofferto più di lui, preso da tanto dolore.

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Si continua a notare il campo semantico dell’amore, ma

lentamente se ne inserisce un altro legato al dolore, sentimento

che aumenta in questi versi, insieme alla tragicità.

Nella quinta sequenza troviamo la seconda parte del soliloquio

dove è utilizzato il “tu impersonale”, altra caratteristica del

linguaggio poetico usato.

Narciso, elogiando la sua bellezza, chiede al fanciullo

dell’immagine riflessa il motivo per cui si stia prendendo gioco di

lui in questo modo.

Qui si riscontra il picco più alto di questa tragicità: Narciso si

rende conto che l’immagine che vede riflessa nell’acqua non è

altro che lui stesso. Ricordiamo che questo momento culminante

della scena è chiamato Spannung, termine narratologico per

definire il picco massimo di tensione.

Quest’ultimo copia in tutto e per tutto i suoi movimenti. Ecco

che il fanciullo subito comprende il motivo e qui si ritrova ancora

il campo semantico della fiamma d’amore al verso 55 che

costituisce un richiamo al verso 20.

Al verso 60 troviamo una similitudine che ancora una volta ci

rimanda al fuoco e alla passione di Narciso.

Nella sesta sequenza troviamo un richiamo al mito di Eco, la

ninfa innamorata di Narciso che si lasciò morire, rimanendo di

lei sola la voce. E’ anche qui che si riscontra la tecnica ad

incastro usata da Ovidio.

Troviamo al verso 74 un chiasmo, ossia una figura retorica che

consiste nel disporre gli elementi appartenenti a due sintagmi

secondo una struttura incrociata, cioè la “chi” greca.

Questa sequenza è di tipo narrativo. Narciso di lascia morire

sull’erba ed è punito con una sorta di pena per contrappasso

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anche negli Inferi: egli infatti continuerà per sempre a

contemplarsi nelle acque dello Stige.

Narciso scompare nel rogo delle Ninfe ed al suo posto nasce un

fiore giallo nel mezzo e con tutti gli altri petali bianchi. Ecco

infatti che si trasforma in Narciso e si tratta di una metamorfosi

discendente ed eziologica.

Parole come «ammira, scorgi, vedo, specchiandosi, vista…»,

distribuite in tutto il mito, appartengono alla tematica della vista

di cui oggetto fondamentale è lo specchio.

Lo specchio per gli antichi era lo strumento che veicolava le

passioni e in quanto superficie riflettente era anche pericoloso

dal momento che poteva ammaliare e quindi assoggettare

psicologicamente.

In questo caso Narciso diventa vittima di un amore che mai

potrà essere ricambiato.

Baudinelli Giorgia e Franceschini Davide, IV C

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19. Alcune interpretazioni del mito di Narciso

Col mito di Narciso Ovidio sottolinea il suo profondo interesse

per l’aspetto psicologico dell’uomo servendosi di elementi che

danno spazio a diverse interpretazioni e letture.

L’interpretazione medioevale/moralistica risente dell’influenza

del pensiero cristiano poiché tutto ciò che richiama all’esteriorità

e al corpo, destinato a morire, è considerato negativamente,

mentre la cura dell’anima immortale è fonte di salvezza per

l’uomo. Oltre a questo aspetto c’è anche il forte valore simbolico

del paragone tra il fiore in cui viene trasformato Narciso,

bellissimo, profumato, colorato, destinato a morire in poco

tempo e la vita degli uomini belli e ricchi la cui bellezza e

ricchezza può presto svanire.

Nel mondo antico invece il mito di certo sottolineava l’elemento

dello specchio, del riflesso e della visualità che in generale

avevano un grande valore simbolico: l’acqua dello stagno diventa

uno specchio per Narciso, fonte di tutti i suoi guai illuso da un

amore impossibile.

Per gli antichi infatti la superficie dello specchio aveva effetti

negativi sull’uomo perché ritenuto ammaliatore, seduttore e in

grado di trasmettere passioni.

Nel verso 11 del mito di Narciso «corpo crede ciò che solo è

ombra» è racchiusa l’idea del doppio della superficie riflettente

che contrappone la realtà ad una realtà apparente, ingannevole.

Questo mito è stato anche fonte di studio per la psicoanalisi

poiché mette in evidenza il comportamento di un giovane che

non si riconosce ed è alla ricerca della propria identità e nel

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momento in cui la trova scoppia la tragedia: «Io, sono io! L’ho

capito, l’immagine mia non mi inganna più».

L’aspetto dell’amore impossibile, il tema della morte, del doppio e

la complessità della psiche umana hanno caratterizzato la

cultura occidentale per la quale Narciso paga a caro prezzo il

rifiuto dell’amore delle ninfe, innamorandosi della propria

immagine che lo rende egocentrico e isolato dal mondo,

confondendo apparenza e realtà e lo rende consapevole di non

aver rispettato la legge della reciprocità. È dunque un

adolescente che ricerca la propria identità mettendola in

relazione con l’alterità e anche dopo la morte nell’Ade non smette

di specchiarsi, continuando nell’errore.

Ancora oggi il termine “narcisista” viene utilizzato per

identificare una persona vanesia e innamorata di sé che talora

può arrivare a presentare aspetti patologici per un eccessivo

ripiegamento su di sé.

Marchi Carolina, IV C

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20. Dipinto: “Narciso alla fonte” (Caravaggio)

In questo quadro del Caravaggio ispirato dal mito di Narciso

risalta subito agli occhi il ginocchio proteso in avanti di Narciso

che, messo in evidenza anche dalla luce proveniente da sinistra,

sembra dare un senso di lento movimento verso lo specchio

d’acqua.

Caravaggio in questo dipinto vuole far risaltare Narciso in

quanto sembra uscire dalle tenebre, rappresentate dallo sfondo

buio, e andava verso il fascio di luce. Il giovane, appoggiato

vicino allo specchio d’acqua guarda, meravigliato, il suo riflesso.

Osservando meglio proprio il riflesso di Narciso possiamo

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percepire un senso di contrapposizione: l’immagine è scura

mentre Narciso, come già detto in precedenza, è colpito da un

fascio di luce; il bianco candido dei vestiti contro l’azzurro nel

riflesso; la contrapposizione tra animato e inanimato. Queste

due realtà sono divise da una strettissima striscia di terra che

rappresenta un ostacolo insormontabile.

Dall’abbigliamento di Narciso possiamo capire un’altra

caratteristica molto importante del mito: l’atemporalità. Infatti

gli abiti sono tipicamente secenteschi, del periodo in cui visse

Caravaggio, anziché essere relativi agli antichi greci proprio per

dimostrare che il mito è senza tempo.

Un altro particolare non va tralasciato: la mano destra di Narciso

è appoggiata sulla terra, ma la mano sinistra sta per essere

completamente immersa nell’acqua e, anche dalla posizione

dinamica di Narciso, possiamo capire che vorrebbe “afferrare” il

giovane che vede nell’acqua e quindi, anche osservando

l’espressione sorpresa sul suo volto, possiamo intuire che il

giovane sta per capire che quel fanciullo che vede nell’acqua non

è nient’altro che il suo riflesso.

Alberto Sibilla, IV^C

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21. Eco

Il mito raccontato da Ovidio si apre con la descrizione di Eco,

che è resa con due figure retoriche, la prima è una perifrasi “la

ninfa della parola” e un parallelismo “che non può tacere se le

parlano e non può parlare per prima”.

In questa prima sequenza, che secondo me è mista, narrativa e

descrittiva, si può individuare un campo semantico dominante,

quello della voce e della comunicazione; le parole che rientrano

in questo campo semantico sono: “parola, tacere, parlare,

parlano, risonante,voce, parole, discorsi, lingua”. In questa parte

si parla di Eco e si spiega la ragione per cui si trova nella

situazione di non poter comunicare in modo normale, dato che

aveva ingannato Giunone intrattenendola con discorsi futili,

mentre le altre ninfe, sue amiche, scappavano dal giaciglio dove

si erano appena unite con Giove.

Nella seconda sequenza inizia la descrizione dell’amore di Eco

per Narciso: la possiamo notare molto chiaramente anche dal

campo semantico dell’amore e della passione (innamorò,

desiderio, dolci parole, amore). Questo campo semantico, come

di consueto in alcuni testi di Ovidio, è collegato a quello della

fuga, in questo caso di Narciso via da Eco, e le parole sono “

fuggivano, segui, fugge e fuggendo”.

L’immagine dell’amore è resa con l’associazione al fuoco, che

brucia come l’amore di Eco. Al verso 373 si inserisce fra il campo

semantico del fuoco una similitudine, “come lo zolfo spalmato in

cima alle fiaccole”; le figure retoriche presenti fanno parte di un

registro elevato che utilizza Ovidio per rendere al meglio il suo

stile erudito e poetico.

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Eco è innamorata follemente di Narciso, ma il suo amore non è

corrisposto e la tragicità del mito sta nella mancanza di

comunicazione e nell’impossibilità di interazione da parte di Eco,

che così facendo non può esprimere i suoi sentimenti a Narciso.

Lui infatti sente la sua voce e le chiede di unirsi a lui, ma la

ninfa non può far altro che ripetere le sue ultime parole senza

riuscire a stabilire una conversazione con lui.

Narciso, da parte sua, non capendo la stranezza della situazione,

si spaventa e, quando Eco esce dal suo nascondiglio per

raggiungerlo, la respinge.

Subentra a questo punto la tematica e il campo semantico

relativo alla tristezza/infelicità (“pena, angosce, infelice”) che è

dovuto alla disperazione di Eco per la sua delusione amorosa

causata dall’amore non corrisposto per Narciso.

La pena e la sofferenza subite da Eco danno luogo alla

metamorfosi: la sua pelle sfiorisce e la sua linfa vitale si disperde

nell’aria, di lei rimangono solo le ossa e la voce, ma si dice che

anche le ossa scompaiano e diventino pietra, mentre la voce

persiste e sui monti tutti la sentono.

La sua metamorfosi è discendente perchè assume uno stato

inferiore quello precedente, infatti la sua voce si trasforma da

normale a eco, inoltre è eziologia perché vuole spiegare l’origine

di questo fenomeno naturale.

In questo mito possiamo constatare una forte associazione tra

l’eco, che è il simbolo e il segno caratteristico di Eco, e lo

specchio, elemento fondamentale che troviamo nel mito di

Narciso e quindi collegato al personaggio stesso. I due elementi

sono ricollegabili tramite la riflessività visiva e quella vocale:

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infatti uno specchio ci riporta la nostra immagine e l’eco la

nostra voce.

E’ per questo motivo che il poeta unisce, tramite la tecnica ad

incastro, i due miti.

La tecnica alessandrina dell’incastro usata da Ovidio insieme

alle figure retoriche riscontrate nel brano fanno parte di un

linguaggio poetico ricercato e di cui il poeta si serve per mostrare

al lettore il proprio virtuosismo poetico e la propria abilità

nell’usare la lingua.

Lo spazio della narrazione è aperto, infatti abbiamo l’elemento

della selva che può alludere alla segretezza di incontri amorosi

ed è inoltre un nascondiglio per Eco quando viene rifiutata da

Narciso.

Il tempo è imprecisato, dato che non sono presenti indizi

temporali che segnano il passare del tempo. La focalizzazione è

zero e la voce narrante è esterna e onnisciente.

Guerra Francesca, IV C

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22. Dipinto: “Eco e Narciso” di John William

Waterhouse

“Eco e Narciso” è un dipinto eseguito da John Waterhouse nel

1903, ispirato al mito di Narciso del poeta latino Ovidio.

Il pittore raffigura la scena in cui Narciso cerca invano di toccare

la sua immagine riflessa nell'acqua. Il fanciullo è sdraiato sulla

sponda del ruscello e osserva il suo riflesso.

La sua mano destra è alzata e sembra che stia per immergerla,

sempre con lo scopo di accarezzare il giovane attraente che vede.

L'aspetto di Narciso è simile a quello descritto dal poeta latino: i

capelli neri sono fluidi e cinti da una corona d'alloro, la

carnagione è pallida e le gote sono rosse.

Accanto a lui si trovano una faretra nella quale sono riposte

alcune frecce e un cappello che non sembra appartenere

all'epoca antica.

Sulla sinistra si trova la ninfa Eco, che osserva la scena

sconsolata. La giovane donna è ritratta con forme non molto

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prosperose, i suoi capelli rossi sono fermati con un fiore rosso e

con le mani si appoggia ad un tronco.

L'abbigliamento dei due personaggi è antico: le vesti che coprono

solo in parte il corpo sono tipiche delle opere che rappresentano

il periodo classico e che rispecchiano la tradizione greca. La

nudità parziale sottolinea che i personaggi appartengono ad un

mito classico. La veste di Narciso è di un rosso acceso che risalta

molto dallo sfondo forse perché il pittore ha voluto alludere

all'amore passionale del fanciullo.

Il paesaggio circostante è florido e rigoglioso. L'artista ha

utilizzato numerose tonalità di verde per creare uno spazio che

riproduce in modo stilizzato il locus amoenus di cui

individuiamo: il boschetto, il torrente, il prato e la fonte d'acqua.

Tutto è così perfetto e tranquillo da sembrare irreale.

È nell'acqua che si riflette il giovane: la sua immagine riflessa

appare ai piedi delle rocce sulle quali è appoggiato Narciso e da

questa possiamo vedere meglio l'espressione del volto del ragazzo

incuriosito e quasi triste. Tra le fronde degli alberi appare ogni

tanto il cielo e le radure sullo sfondo sono illuminate dal sole.

Un dettaglio in particolare differenzia il quadro dall'opera

classica: Eco è rappresentata con sembianze umane poiché il

pittore ha intrecciato a suo modo i due miti e sarebbe stato

difficile per qualsiasi artista rappresentare Eco trasformata in

pura voce.

Tosi Gian Maria, IV C

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23. Piramo e Tisbe

Nel mito che stiamo per analizzare Ovidio narra la storia di un

amore di due giovani, Piramo e Tisbe, ostacolato però dai loro

padri. I due innamorati vivevano in due case contigue, separate

da un muro nel quale era presente una fessura dalla quale i

giovani potevano sussurrarsi parole senza essere colti dai

genitori. Un giorno si diedero appuntamento per la notte stessa

al sepolcro di Nino; Tisbe uscita di casa per prima fu sorpresa da

una leonessa con la bocca insanguinata e la fanciulla,

spaventata, fuggendo perse il velo insanguinato dalla belva.

Piramo, uscito più tardi, trovò il velo insanguinato dell’amata e

credendola morta si recò al luogo stabilito e per la disperazione

si uccise. Ormai sul punto di morte Piramo fu trovato da Tisbe

che, invocando preghiere ai genitori, si uccise con lo stesso

pugnale usato dall’amato.

La prima sequenza (53-64) è mista poiché Ovidio, oltre a

descrivere i due protagonisti, narra del loro amore ostacolato.

Già dalla prima sequenza compare il campo semantico

dell’amore (amore, matrimonio, innamorati), presente in tutto il

mito. Alla riga 64 Ovidio con le parole <<fuoco ribolle>> vuole

ricollegarsi al modo in cui nell’antichità il fuoco ardente

simboleggiava la passione dell’amore.

Nella seconda sequenza che è mimetica, Ovidio fa parlare i due

innamorati attraverso il muro caratterizzato da una fessura.

Nelle righe 69 e 71 c’è una contrapposizione fra “di qua” e “di là”

che simboleggia le parti del muro. Inoltre, la parola muro è

ambigua poiché da una parte separa i due innamorati dall’altra

attraverso la fessura li tiene uniti attraverso la voce. I due campi

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semantici contenuti nella sequenza sono quelli della voce e

dell’amore. In quello dell’amore le parole sono:<<amanti, amore,

dolcezza, baciarci, amate, baci>>, in quella della voce sono:

<<voce, sussurrata, soffio, dicevano, parole, orecchie>>. Infine al

verso 68 troviamo un intervento diretto dell’autore.

La terza sequenza è mista, descrittivo-narrativa, infatti Ovidio

narra che i due giovani si danno appuntamento in un luogo

descritto con la tecnica del locus amoenus caratterizzato da un

albero ricco di frutti conditi e una fonte fresca. Quando Tisbe

però uscì di casa è sorpresa da una leonessa. I campi semantici

che compaiono sono quello dell’uscita (uscire, usciti, lasciare,

esce) attraverso il quale Ovidio fa incontrare i due amati, un

altro campo semantico è quello dell’albero (albero, frutti candidi,

gelso, bosco) che poi sarà l’elemento che nel testo ricollegherà

alla metamorfosi. Il successivo campo semantico è quello

dell’acqua (acque, acque emerse, sete, fonte) che va a ricollegarsi

con il secondo elemento descrittivo nel locus amoenus. L’ultimo

campo semantico è quello della belva (bocca, muso, leonessa

feroce, leonessa) riferito al leone che fa fuggire Tisbe. Possiamo

cogliere alcuni riferimenti nelle parole <<impaurita, fuggi, fuga

>> che potrebbero suggerirci un campo semantico della fuga

tipico dei miti di Ovidio. Anche da <<sangue, insanguinata>>

possiamo avere un riferimento alla belva che insanguina il velo

della fanciulla.

La quarta sequenza è mimetica poiché Piramo si lamenta di aver

ucciso la sua amata facendola uscire di notte in luoghi oscuri.

Infatti Piramo uscito di casa, dopo aver trovato il velo

insanguinato di Tisbe, credendola morta, si reca nel luogo

stabilito dove si suicida. Alla riga 122-124 troviamo una

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similitudine, nella quale Ovidio paragona il sangue che fuoriesce

dal corpo di Piramo come lo spruzzo dell’acqua di un tubo forato.

Il velo ha un ruolo importante poiché fa credere a Piramo la falsa

morte dell’amata. Il campo semantico prevalente è quello della

morte (<<ho ucciso, straziate, sbranate o morsi, morte, pugnale,

morendo, ferita ardente>>) che si riferisce all’uccisione di

Piramo. Accostato ad esso troviamo il campo semantico del

sangue nel quale viene ripetuta frequentemente la parola

<<sangue>>. Infine ritroviamo quello dell’albero (albero, frutti,

radice). Riscontriamo un riferimento alla morte nella parola

<<pianse>> che introduce il campo semantico dell’infelicità.

La quinta sequenza (128-154) è mista descrittivo-mimetica e la

voce narrante racconta che la fanciulla trova l’amato morente e

disperata, gli parla ed infine i uccide con lo stesso pugnale

dell’amato. Al verso 132 le parole <<incerta sul colore dei

frutti>> ci introduce la metamorfosi che sta colpendo l’albero .Al

verso 135-136 abbiamo una piccola similitudine che paragona i

brividi della fanciulla, provocati dalla visione del velo

insanguinato, alle onde del mare, mosse da una lieve brezza. I

campi semantici prevalenti sono quelli della morte (ferite,

sciagura, morte, ucciso, ferirmi, morte) che si intreccia con

quello dell’amore (amore, capo amato, baci, carissima, tuo

amore) per accentuare l’amore provato dalla fanciulla che

seguirà l’amato anche dopo la morte. Rincontriamo poi alcuni

accenni ai vari campi semantici dell’albero (frutti, albero), del

pericolo (pericolo, scampato), dell’infelicità (lacrime, pianto,

infelice, infelicissimo), con il quale Ovidio descrive la

grandissimo tristezza della fanciulla per la morte dell’amato.

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La seta sequenza (154-167) è mimetica ed è centrata sulla

preghiera della fanciulla verso i padri per non essere sepolti in

tombe separate e quindi di non ostacolare il loro amore anche

dopo la morte. Inoltre chiede all’albero di mantenere un segno di

questa strage e infatti alla fine di questa vicenda si ha una

metamorfosi di tipo eziologico, poiché essa spiega che i frutti del

gelso, quando diventano maturi si scuriscono, poiché vengono

“macchiati” dal sangue dei due innamorati. Il campo semantico

prevalente è quello della morte (sepolti, stessa tomba, strage,

lutto, pugnale) che si intreccia con quello dell’albero (albero,

rami, frutti scuri, frutto) poiché l’albero è il luogo del suicidio.

Una delle tematiche principali è quella dell’amore e della morte. I

campi semantici sono quello dell’amore, quello della voce, unico

mezzo con cui i due amanti potevano comunicare, quello

dell’uscita per il desiderio di vedersi dei due amanti, quello

dell’infelicità causato dall’amore impossibile. Quest’ultimo

campo semantico si collega alla tematica della morte, legata al

campo semantico del sangue della belva e della fuga. L’ultima

tematica è quella metamorfosi con il campo semantico

dell’albero.

Hummel Mervin, Pellegri Alessia, IV C

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24. Aracne

Il mito di Aracne è tratto da “Le Metamorfosi” di Ovidio, raccolta

di miti aventi come tema principale la metamorfosi

prevalentemente eziologica e composta da quindici libri. Ovidio

per raccogliere i miti si avvale della tecnica della narrazione ad

incastro che permette di combinare tra loro miti di varie

tradizioni.

Questo mito si trova all’inizio del VI libro e racconta la storia di

Aracne, una fanciulla abile nel tessere che sfidò Minerva e da

questa fu punita. Il brano può essere diviso in cinque sequenze:

nella prima sequenza è spiegato il motivo per il quale la dea

Minerva decise di colpire Aracne, dopo aver sentito che non

voleva esserle inferiore nell’arte della lavorazione della lana. La

sequenza presenta il punto di vista di Atena tramite il soliloquio

ed è perciò mimetica. Inoltre è presente l’epiteto “dea tritonia”

riferito a Minerva che dimostra l’uso di un registro poetico e

colto ricorrente anche nelle successive sequenze. Nella sequenza

si riscontra il campo semantico della lode e della fama «lodare,

lodata» e quello dell’arte tessile «arte, lavorare la lana».

La seconda sequenza è descrittiva e presenta il personaggio di

Aracne, conosciuta per la sua grande abilità nel tessere. Ritorna

il campo semantico dell’arte tessile «arte, lana, gomitoli,

lavorazione, ricamasse, fuso, etc.…» e quello della lode e della

fama «famosa, gran nome». Sono presenti due figure retoriche:

una similitudine «…i bioccoli morbidi come nuvole…» riferita alla

lana, e un parallelismo dal verso 19 fino al verso 23 (sia che…);

sono presenti anche alcuni nomi di località i quali sottolineano

l’erudita cultura di Ovidio. Tutti questi elementi rimandano al

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registro elevato. Inoltre, poiché i nomi delle località rimandano

alla Grecia, lo spazio è reale e aperto. Per quanto riguarda il

tempo invece non si hanno precise indicazioni e quindi è

indeterminato anche perché la dimensione del mito è

atemporale.

La terza sequenza è mista e prevalentemente mimetica poiché

Minerva travestendosi da anziana si rivolge ad Aracne

chiedendole di scusarsi e ammettere la sua inferiorità rispetto ad

essa. La dea Minerva è presentata con l’epiteto di Pallade che

rimanda al registro colto dell’autore e compare un nuovo campo

semantico: quello della vecchiaia «vecchia, bastone, membra

inferme, età avanzata, esperienza, etc.», inoltre ricompaiono i

campi semantici della lode e della fama «fama, ambisci, etc..» e

quello dell’arte tessile «lana, fili, arte, etc..» collegati alla tematica

del testo, cioè quella di eccellere nell’arte tessile, infatti Aracne si

ritiene superiore alla dea e la sfida per dimostrarlo.

Anche la quarta sequenza è mista, in quanto narrativa e

descrittiva e si apre con la rivelazione del travestimento della dea

che mostrandosi ad Aracne accetta la sfida. Nella sequenza è

presente un’ampia similitudine «..e un rossore improvviso le

marca suo malgrado il volto, e svanisce poi, come l’aria diventa

purpurea quando compare l’aurora, e dopo poco dal sorgere del

sole brilla.» riferita al rossore sul volto di Aracne causato dal suo

imbarazzo provato nel vedere la dea, qui chiamata con la

perifrasi «la figlia di Giove». In questa sequenza ricompaiono i

campi semantici della vecchiaia «aspetto senile…» e quello

dell’arte tessile «tela, fili, trama, etc.». Si può anche trovare la

parola chiave «stolta bramosia di vittoria» che rimanda alla

tematica della tracotanza degli uomini nei confronti degli dei che

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si riscontra anche nella terza sequenza con l’espressione

«giudizio in me stessa» che mostra l’arroganza di Aracne verso

Minerva.

Nella quinta e ultima sequenza la vicenda si conclude con la

metamorfosi di Aracne punita dalla dea. Questa sequenza è

mista perché compare il discorso diretto e la descrizione della

metamorfosi. Anche qui torna il campo semantico dell’arte

tessile «tela, intessuta, fili, etc..» e quello del corpo «capelli,

orecchie, naso, corpo, etc..» che rimanda alla tematica della

metamorfosi. Questa è discendente poiché è dovuta alla

punizione di Minerva nei confronti di Aracne ed è eziologica

perché spiega il motivo per cui i ragni tessono la ragnatela. La

metamorfosi viene messa in analogia con quanto Aracne stava

facendo prima di essa: Aracne infatti stava tentando di

impiccarsi ed è proprio dalla sua posizione, con il cappio legato

al collo, che si ricava l’analogia con la figura del ragno infatti

questo diventerà il filo da cui lei penzolerà nella sua nuova

forma e che lei tesserà continuamente, come era solita fare nella

sua condizione umana.

Arena, Morelli e Taddei, IV D

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25. Aracne da tessitrice a…: versione greca

del mito

Commento

La versione “Aracne, da tessitrice a…” narra di una giovane di

nome Aracne molto abile nell’arte della tessitura. Aracne, però,

per la sua eccessiva sicurezza, si mostra arrogante nei confronti

della dea Atena, affermando di esserle superiore nell’arte del

tessere. Quindi Atena, sentendo le sue parole, si trasforma in

un’anziana signora e cerca di convincerla a ritirare ciò che ha

detto, dandole così la possibilità di essere perdonata. Aracne,

però, rimane delle sue idee, perciò Atena si mostra e le due si

sfidano. Atena prevale nel duello e quindi punisce Aracne per la

sua arroganza trasformandola in un ragno.

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Traduzione

Aracne, ragazza di Colofone, era abile nella tessitura. Con la sua

mirabile abilità, ricamava con l’ago splendide tele. Perciò

l’orgoglio raggiungeva l’animo della fanciulla e la portava a dire:

«Persino Atena, dea delle arti, è inferiore alla mia arte». La dea,

adirata, si trasformava in una vecchia e diceva: «O ragazza, sei

straordinaria ed illustre, ma troppo arrogante, temi dunque l’ira

degli dei». Poi Aracne rispondeva: «O stolta, ti privavi della

saggezza a causa dell’età». Allora Atena si manifestava di nuovo

nella forma di dea e invitava la fanciulla ad una gara. La dea

ricamava sulla veste delle immagini di uomini che per

l’arroganza erano stati puniti, invece Aracne, volendo oltraggiare

la dea, ricamava fanciulle amate dagli dei: allora Atena si

adirava terribilmente e diceva: «Se però sei così contenta di

tessere, tessi dunque per sempre». E trasformava la fanciulla in

ragno.

Arena Benedetta, Morelli Beatrice, IV D

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26. Mito di Aracne: confronto tra il testo di

Ovidio e il testo greco

Testo di Ovidio

Il testo ovidiano, che tratta il mito di Aracne, narra di una

fanciulla, Aracne, abile tessitrice, che non voleva cedere la sua

arte alla dea Atena. La dea si adira nel venire a sapere di tale

ingratitudine della ragazza. Per convincere Aracne di fare ciò che

detta la legge divina, Pallade si traveste da vecchia consigliando

alla giovane di non sfidare l’ira degli dei. Invece l’insolente

ragazza rifiuta il consiglio insultando la dea, travestita da

anziana signora, e sfida Atena in una gara di tessitura, l’arte

comune a tutti e due i personaggi del mito. Alla fine della sfida la

dea rompe la tela di Aracne e Atena colpisce la giovane sulla

fronte più volte, inducendo quest’ultima ad arrendersi e ad

arrivare al punto di suicidarsi. La dea glielo impedisce, ma la

trasforma in un ragno per punire la tracotanza della ragazza.

Così Aracne è costretta a tessere per tutta la sua vita.

Testo greco

Il testo greco riguarda lo stesso mito di Aracne, ragazza molto

abile nella tessitura. La sua insolenza però la spinge a

pronunciare parole irrispettose nei confronti della dea. Atena

perciò si trasforma in una vecchia e le consiglia di non

oltraggiare la legge divina, sfidando così l’ira degli dei. La giovane

però non vuole ascoltarla, dicendole che non sapeva quello che

lei stava dicendo, dando la colpa all’età che era troppo avanzata.

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Subito dopo Atena riprende il proprio aspetto e chiama la

fanciulla ad una gara di tessitura. La dea rappresenta nella sua

tela immagini di uomini puniti per la loro insolenza nei confronti

degli dei, invece Aracne rappresenta immagini di donne amate

dagli dei. La dea si adira vedendo tutto ciò, così trasforma la

ragazza in un ragno.

Il confronto

Tra i due testi si possono riscontrare molte analogie. Il testo

ovidiano però sottolinea di più il discorso diretto tra Atena e

Aracne, contrapponendo due concetti principali, ossia la

sottomissione degli uomini agli dei e la tracotanza verso

quest’ultimi. In questa versione del mito si possono trovare tre

parole chiave che determinano le tematiche principali: ‘’arte’’;

‘’disprezzino’’; ‘’fama’’. Conseguentemente si possono individuare

tre principali campi semantici che sono riconducibili alle

tematiche primarie del brano. I tre campi semantici sono: il

campo semantico dell’arte della tessitura (‘’lana’’; ‘’tela’’;

‘’ricamasse’’; ‘’filo’’; ecc.), della sfida (‘’gareggi’’; ‘’vinta’’; ‘’sfida’’;

ecc.) e della fama (‘’lodare’’; ‘’lodata’’; ‘’famosa’’).

Nel testo greco, invece, viene sottolineata maggiormente la

descrizione delle immagini sulle tele durante la sfida, che

rimanda ad un concetto di netta divisione tra uomini e dei. In

questo brano si possono riscontrare le seguenti parole chiave:

‘’tessitura’’; ‘’si trasformava’’; ‘’arroganza’’; ‘’si adirava’’. Tali

parole rimandano ai rispettivi campi semantici.

Ariodante Serena, IV D

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27. Dipinto: “Aracne e Minerva”

Il quadro è stato dipinto dal pittore Luca Giordano e raffigura la

scena della metamorfosi di Aracne, legata al mito di Aracne e

Atena tratto da “Le metamorfosi” del poeta latino Ovidio.

In primo piano si vedono due figure femminili che si possono

identificare rispettivamente con Atena e Aracne, in quanto

alcune caratteristiche ne evidenziano l’identità. Si può intuire

che, al centro del dipinto, è raffigurata Atena con il capo

circondato da una luce splendente che allude al divino. Un

simbolo riferito alla dea è la civetta, posta nella parte inferiore a

sinistra del dipinto, poiché animale sacro alla dea. Dalla

posizione del corpo di Atena si osserva la superiorità della dea

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rispetto alla fanciulla, poiché ella è dipinta elevata da una nube

e con un dito puntato verso la ragazza in segno di ammonimento

e punizione.

Alla destra della divinità è raffigurata Aracne: lo si può capire

dalle dita delle mani da cui partono i filamenti di una ragnatela,

simboleggianti la metamorfosi in ragno della fanciulla. Aracne è

dipinta dietro un telaio che, insieme al cesto contenente la lana

in basso a sinistra, rappresenta l’abilità tessile in cui la dea e la

fanciulla si sono sfidate.

In secondo piano si trova raffigurato un uomo, presumibilmente

uno spettatore della gara avvenuta precedentemente. Lo fondo

del quadro è oscurato da una nuvola che impedisce di vedere il

paesaggio.

A confronto con il mito corrispondente si notano nel quadro

disuguaglianze: per esempio una è la presenza della civetta, che

nel mito non è stato necessario introdurre essendo un testo

scritto che si avvale piuttosto di epiteti, ma che nel quadro

risulta significativo attributo della divinità; un’altra è la colonna

sotto la nube, che potrebbe alludere alla classicità del mito, e

infine la figura dello spettatore.

In conclusione si può dunque affermare che il messaggio

trasmesso da entrambi gli artisti è quello della punizione della

superbia e della consapevolezza dei propri limiti umani.

Brozzo Tommaso e Taddei Virginia IV D

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28. Tereo, Procne e Filomela

Il mito ‘’Tereo, Procne e Filomela’’ è un mito di metamorfosi

tratto dalla raccolta di Ovidio ‘’Le Metamorfosi’’. La tematica

centrale del mito è la vendetta che viene attuata da Procne e

Filomela nei confronti di Tereo che, mentre aveva preso in moglie

Procne, la tradiva con Filomela che non contraccambiava. Infatti

Filomela viene rapita da Tereo e viene portata in una stalla dove

viene paragonata con una similitudine ad un agnello sfuggito ad

un lupo e a una colomba palpitante. Filomela dunque

preannuncia la sua vendetta e Tereo, irato le taglia la lingua.

Filomela però non si arrende e manda un messaggio alla regina

che la libera. Dunque torna da Procne e qui entra in gioco la

tematica del perdono, infatti Procne perdona la sorella e vuole

vendicarsi. Da questo momento i personaggi sono posseduti da

un desiderio di vendetta che li spinge a commettere atti

imperdonabili allo scopo di riconquistare l’ onore e il pudore che

le sorelle avevano perso. Le due sorelle dunque uccidono il figlio

di Procne e Tereo e, spinte dalla collera, lo ‘’cucinano’’ e lo fanno

mangiare al padre. Qui si vede subito che la vendetta è di tipo

psicologico e che Iti, il figlio, non viene preso in considerazione.

Anche Tereo viene posseduto dalla rabbia, infatti la metamorfosi

avviene su di lui che si trasforma in un uccello attraverso una

metamorfosi discendente.

Saione Andrea, IV C

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29. Apollo e Dafne

Il mito di “Apollo e Dafne” si apre con una sequenza mista,

narrativa e prevalentemente dialogata, che introduce la storia

presentando due personaggi, Apollo e Cupido. L'autore narra

della lite che nasce tra i due a proposito della capacità dell'uso

dell'arco e delle frecce, che ognuno pensa di avere in maggior

grado.

Le parole crudele, trionfo, ferire, nemici rimandano ad uno dei

campi semantici prevalenti nel mito, quello del combattimento e

della lotta; i termini come “amore” e “Cupido” si collegano invece

al campo semantico dell'amore.

In questa sequenza si può notare anche come Ovidio voglia

marcare ancora di più l'opposizione, il contrasto che c'è fra

Apollo e Cupido con l'uso di forme pronominali o aggettivi e

pronomi possessivi («me...tuo...te...tua...mia»).

Passando alla seconda sequenza, che si sviluppa in parte

secondo la struttura narrativa, in parte secondo quella

descrittiva e dove è presente a tratti anche il dialogo, appare un

terzo personaggio: la ninfa Dafne. Nella descrizione di questa

protagonista Ovidio introduce un altro campo semantico, ossia

quello della caccia e della natura selvaggia, che definisce la ninfa

come la cacciatrice gli animali come prede («cacciare...chioma

spettinata...monti selvaggi»). Sempre presenti sono i campi

dell'amore, del combattimento e della lotta e quello della fuga

che si svilupperà, soprattutto, nella parte centrale del testo. In

questa sequenza, infine, per descrivere gli effetti opposti delle

frecce che Cupido scaglia contro Apollo e Dafne, lo scrittore usa

un parallelismo («l'una metteva in fuga l'amore, l'altra lo

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provocava. La seconda...mentre la prima...»), una delle tante

prove del registro linguistico elevato e dello stile poetico che il

poeta usa nel mito.

La terza sequenza, descrittiva e dialogata, si apre con una

apostrofe che Ovidio fa rivolgendosi alla ninfa. Qui il campo

semantico della vista-ammirazione («vedere...guarda...ammira»)

stimolato da quello della bellezza («occhi scintillanti...piccola

bocca...dita...mani...braccia...belle») fa scaturire quello del fuoco

e della passione, reso dalla similitudine che paragona il fuoco

ardente alla passione e all'amore che Febo prova per Dafne. In

questa sequenza, però, il campo semantico prevalente è quello

della fuga (che si contrappone a quello dell'inseguimento);

numerosi sono i termini con questo significato:

«fugge...inseguo...seguirti...corsa...fuga...inseguimento».

Si può infine notare un uso frequente del pronome personale “Io”

usato da Apollo con cui lo scrittore Ovidio vuole sottolineare il

notevole contributo che il dio ha dato allo sviluppo delle

conoscenze umane (autopresentazione).

La quarta sequenza, descrittiva, narrativa e con una piccola

parte dialogata, pur trattando lo stesso campo semantico,

presenta tuttavia un ribaltamento rispetto all'immagine della

seconda sequenza: infatti Dafne, precedentemente descritta

come cacciatrice, ora si trova ad essere preda di Apollo. Questo

concetto viene rimarcato da una similitudine in forma di

digressione [«Come un cane Gallico, non può appena vede...una

lepre...(ecco, il cane sembra già esserle sopra...)»]: dominante,

quindi, è il campo della fuga-inseguimento. Si può capire quindi

la ragione dell'ampio spazio dato da Ovidio a questa immagine: il

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messaggio che ne ricaviamo è la precarietà del destino umano,

che in poco tempo e senza colpe può essere del tutto ribaltato.

L'ultima sequenza, descrittiva e narrativa, presenta la

metamorfosi di Dafne, descritta dettagliatamente, tanto da

sembrare quasi reale grazie all’abilità dell'autore nel rendere i

particolari della trasformazione. In questa parte del testo occupa

grande spazio il campo semantico della pianta-albero, funzionale

alla tradizione mitologica: l'alloro, infatti, diventerà uno dei

simboli di Apollo. Ovidio accentua l'amore e la passione che il

dio prova nei confronti di Dafne, anche se già trasformata, con

pronomi e aggettivi possessivi, creando un senso di

appartenenza («la mia consorte...il mio albero...la mia

chioma...tu»).

Si può concludere l'analisi rilevando che la voce narrante è

esterna come, prevalentemente, la focalizzazione (eccettuata la

prima descrizione di Apollo interna a lui stesso).

Lo spazio che fa da sfondo alla vicenda è aperto legato alla

natura selvaggia, spazio proprio della libertà e della dea Diana; i

tre personaggi principali possono essere definiti “tipi” in quanto,

pur nelle loro trasformazioni, mantengono le loro caratteristiche.

Piva Giuditta, IV C

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30. Dipinto: “Apollo e Dafne” di Tiepolo

Il dipinto di Tiepolo ritrae un paesaggio rurale dove sullo sfondo

il cielo è interamente ricoperto di nuvole; in basso a sinistra si

possono notare alcune case. Ancora sullo sfondo sono presenti

degli alberi color verde scuro che andando verso destra salgono

su un’altura; sull’altura uno degli alberi si innalza sugli altri con

un tronco molto sottile e lungo che poi va a ramificarsi fino alle

fronde dello stesso colore degli altri alberi. In primo piano, al

centro del quadro, c’è Dafne, più in alto degli altri personaggi, di

carnagione molto chiara; le sue braccia sono protese verso l’alto,

ma quello alla destra dell’osservatore è piegato in prossimità del

gomito; invece la mano dell’altro è in fase di trasformazione,

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infatti si possono notare le prime foglie che ricoprono quasi

interamente le dita. Il suo sguardo è quasi triste ed è rivolto

verso la mano in ramificazione. I suoi capelli sono di color oro e

arrivano quasi fino alla fine del collo della fanciulla. Il torace,

come le gambe, è completamente nudo. Subito sotto il seno c’è

un laccio che tiene legata alla fanciulla una veste che le ricopre

la schiena e sul davanti la parte che va dallo stomaco all’inizio

delle gambe. La veste ha varie sfumature: infatti dietro la

schiena è arancione e in prossimità delle gambe di color rosso.

Alla sinistra della ninfa si trova Apollo: si può capire che è lui

dalla corona di alloro sulla testa e la faretra che ha in

prossimità del bacino. Il dio è appoggiato su una gamba sola,

come se stesse correndo, infatti nel mito di Ovidio Apollo insegue

la ninfa, che non ricambia il suo amore. Tornando alla

descrizione, Apollo ha una carnagione colorita, anche lui è quasi

nudo, ha una veste di color rosso che vola nell’aria. Il suo

sguardo è rivolto verso Dafne, forse verso la mano in

trasformazione. Ai piedi sono allacciati dei calzari color ocra. La

mano destra, sempre verso la parte dell’osservatore, è protesa in

avanti, sembrerebbe per tenere la veste di Dafne, mentre l’altra

mano tiene l’arco.

Alla destra di Dafne, all’altezza delle gambe, c’è un fanciullo

completamente nudo, che con la mano sinistra tiene la veste

della ninfa. I suoi capelli sono castano scuro e il suo sguardo è

rivolto verso il basso.

In basso al centro, sdraiato a terra, c’è un uomo anziano, con la

schiena nuda e i capelli e la barba bianchi. E’ appoggiato sulla

sinistra a un’anfora di colore verde e con l’altra tiene un remo

lungo, di cui non si vede la fine, di color marrone chiaro, che si

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va appiattendo a destra. Si può dedurre che l’uomo sia il fiume

Peneo, padre di Dafne. Egli è raffigurato nel quadro ed è

presente durante lo svolgimento della vicenda perché, secondo il

mito, Dafne cercando di fuggire da Apollo invoca l’aiuto della

madre Terra e del padre Peneo: saranno loro infatti a

trasformarla in alloro.

A differenza della narrazione mitica nel quadro è presente il

fanciullo, alla sinistra di Dafne, figura, peraltro, non identificata.

Facendo sempre riferimento al mito ovidiano possiamo rimanere

sorpresi dalla presenza della corona di alloro sul cranio di

Apollo, infatti, la narrazione riporta che Apollo si cinge il capo di

una corona di alloro solo dopo la trasformazione di Dafne,

mentre nel quadro è già presente anche se la trasformazione

della ninfa è solo all’inizio.

Fregoso Bernardo, IV C

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31. Dipinto: “Apollo e Dafne” di A. Del

Pollaiolo

Il dipinto “Apollo e Dafne” di Antonio Del Pollaiolo è conservato

alla National Gallery di Londra ed è databile intorno al 1470-

1480.

In primo piano è presente uno dei due protagonisti : Dafne, le

cui braccia sono l’elemento che più colpisce ad una prima

visione del quadro, poiché esse sono formate da due corti rami

dalle cui sommità si sviluppano due grandi fronde, che,

rappresentate con un colore verde talmente scuro da tendere al

nero, occupano la parte centrale dell’opera. All’interno, le fronde

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sembrano un’uniforme macchia scura, mentre a mano a mano

che si va verso l’esterno i contorni delle foglie compaiono nitidi e

ben delineati. Le foglie sono sottili e allungate e solo due

ramoscelli completamente ricoperti da esse ed appartenenti alle

due differenti fronde si uniscono nella parte centrale della

sommità dell’opera.

Dafne, posta al centro del quadro, è rappresentata come una

donna dai lunghi e selvaggi capelli biondi, che sembrano

ricordare delle piante mosse probabilmente dal vento, simbolo

della metamorfosi in atto; il suo volto è rivolto verso la sinistra

del quadro e il suo sguardo è invece verso il basso, verso quello

che presumibilmente è il dio Apollo.

Le vesti della fanciulla sono di un verde intenso e molto scuro,

quasi ad alludere alla pianta; esse sono inoltre rigonfiate,

elemento che conferisce una certa dinamicità alla sua figura, in

opposizione alla staticità conferitale dalle braccia, ormai rami di

una pianta. A conferirle ulteriore dinamicità contribuisce la

posizione della gamba destra, uscente dal vestito, che è piegata

in avanti, quasi come se ella stesse compiendo un movimento.

Il secondo piano è formato esclusivamente da una figura

maschile riconducibile alla figura del dio Apollo non solo per il

titolo stesso del dipinto, ma anche per gli abiti che indossa (essi

sono infatti tipicamente riconducibili a vesti da guerra) e per

l’azione che sta compiendo: egli cinge il corpo di Dafne

osservandola con estremo dolore. Quindi, nonostante che

manchino degli elementi riconoscitivi come quelli presenti nel

dipinto “Apollo e Dafne” di G. Tiepolo (la corona d’alloro, l’arco e

le frecce e la luce, simbolo di divinità), si riesce ad intuire che la

figura maschile è proprio il dio Apollo.

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Egli appare come una figura dinamica, la cui dinamicità è data

dalla posizione corporea: piega, infatti le gambe esattamente

come Dafne, quasi fosse il movimento di una corsa, e cinge con

le braccia Dafne. Il suo sguardo, come chiaramente anche il suo

volto, è rivolto verso la fanciulla e la sua espressione lascia

intravedere l’amore che egli prova per lei.

Apollo è rappresentato con vestiti che mostrano la sua natura

guerriera, infatti indossa un vestigio marrone, simile ad

un’armatura e un velo dorato che gli cinge la spalla e i cui capi

sono rivolti verso la parte sinistra del dipinto.

Le braccia sono caratterizzate dalla presenza di un colore rosso

acceso, quasi rosso fuoco che va a scemare e a confondersi con

le braccia stesse. Egli infine indossa delle calzature simili ai

sandali usati dai soldati nelle battaglie, il cui colore riprende

quello dei capelli di Dafne, sia dei suoi stessi capelli, sia del velo

che gli cinge il braccio.

Sullo sfondo infine è presente un paesaggio talmente scuro da

non essere facilmente riconoscibile, ma che con un’accurata

osservazione si scopre essere un bosco, simbolo di rifugio,

riconoscibile dai contorni di foglie e cespugli. Dietro a questo

primo paesaggio si notano chiaramente un lungo fiume di un

azzurro così debole da dare una reale idea di trasparenza e

diversi alberi presenti sulle sue rive.

Il cielo è di un azzurro pallido, fatta eccezione per alcuni tratti in

cui questo colore si mescola dolcemente con i colori caldi

dell’azzurro e dell’ocra.

Il dipinto è realizzato tramite la tecnica del chiaro-scuro,

particolarmente indicata per dare l’idea della dinamicità e con

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colori ad olio che risultano ottimali per la perfetta e semplice

coesione di colori caldi e freddi.

Il dipinto rappresenta il mito di Apollo e Dafne, in particolare

coglie con estrema precisione il momento della metamorfosi di

Dafne, e mostra con eccezionale cura del dettaglio non solo la

scena in sé, ma anche le espressioni dei personaggi che sono

spinti da amore e disperazione, nel caso di Apollo, e da forte

distacco, nel caso di Dafne.

Il messaggio del dipinto, infatti, analogo a quello del mito stesso,

è quello di trasmettere un tema sempre attuale: quello

dell’amore, forza alla quale neppure gli dei possono sfuggire,

proprio come succede ad Apollo, ed in particolare quello

dell’amore non corrisposto. L’amore, inoltre, tanto nel mito

quanto nel dipinto, viene visto come una fuga ed un

inseguimento: le vesti di Apollo e Dafne e le loro stesse posizioni

corporee, infatti, mostrano che entrambi sono reduci da una

corsa, in cui secondo il mito Apollo, mosso da un ardente amore,

stava inseguendo Dafne, che, mossa solamente dal desiderio di

salvezza, fuggiva.

Il tema dell’amore visto come una fuga ed un inseguimento e

dell’amore non corrisposto, percepibile anche attraverso

l’espressione di distacco emotivo di Dafne, non solo fanno sì che

il dipinto sia una fedele rappresentazione di ciò che viene

descritto nel mito, ma fanno sì che il mito stesso riesca a

mantenere una continua validità e sia perciò sempre attuale e

plastico, due dimensioni indispensabili dello stesso.

Arena Benedetta, IV D

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32. Apollo e Giacinto

Il mito è tratto da “Le Metamorfosi” di Ovidio, poeta latino

vissuto nell’età di Augusto, che ha scritto l’opera “Le

Metamorfosi” raccogliendo miti greci e latini ed unendoli tramite

la narrazione alessandrina, che prevede non la successione

logica dei miti, bensì l’incastro di essi l’uno dentro l’altro. Lo

scopo per cui Ovidio scrive questi miti non è educativo o

religioso, bensì è quello di stupire, meravigliare i lettori tramite il

virtuosismo poetico, ossia la straordinaria capacità immaginifica

dello scrittore che riesce a far sì che davanti agli occhi del lettore

prendano vita le metamorfosi da lui descritte. Il tema principale

di ciascun mito è infatti la metamorfosi, ossia il cambiamento di

forma a cui i lettori sono sottoposti o perché colpevoli di essersi

spinti oltre i confini umani (metamorfosi discendente), o per una

ricompensa datagli dagli dei per le loro azioni (metamorfosi

ascendente) oppure per spiegare l’origine di un fenomeno

naturale (metamorfosi eziologica). In questo stesso mito la

metamorfosi è di tipo ascendente, poiché viene vista come una

ricompensa data dal dio al fanciullo e attuata come gesto

d’amore, ed eziologico, perché spiega la nascita di un elemento

naturale.

Il mito narra, infatti, di un giovane di nome Giacinto, chiamato

anche con la perifrasi «figlio di Amicla», che un giorno partecipa

alla gara del lancio del disco con il dio Apollo. Apollo, nominato

anche Febo, dà inizio alla gara e lancia il disco molto lontano,

dando non solo dimostrazione di grande bravura, ma anche di

grande forza. In seguito al lancio, il giovane Giacinto si avvicina

al luogo dov’è caduto il disco, a causa della sua imprudenza, e

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quest’ultimo rimbalza colpendolo in volto e portandolo alla

morte. Apollo cerca invano di aiutarlo, ma, accortosi della sua

morte, non può fare altro che accertarla, così decide di rendere

onore al giovane, consacrandolo come elemento prediletto che

avrà scritto sui suoi petali il suo lamento: lo trasforma così in un

fiore e quello stesso fiore sarà quello celebrato durante le feste in

onore di Giacinto.

Il mito può essere diviso in tre sequenze: la prima sequenza (v.

162 – v. 173) spiega, secondo il punto di vista del narratore, che

cosa sarebbe accaduto se la morte di Giacinto non fosse

avvenuta e come si è comportato il dio Apollo senza di lui. La

sequenza è quindi di tipo descrittivo-riflessivo. In questa prima

sequenza è la presenza di un narratore che non è solamente

esterno ed onnisciente, ma che rilascia anche commenti che

dimostrano sia la totale conoscenza della storia, sia la sua

straordinaria capacità poetica e il suo registro colto, dato dalla

perifrasi (v. 167) «mio padre» riferito a Giove, il padre degli

uomini, «il dio» (v. 169), dall’uso di alcuni elementi simbolici

«cetra e frecce» (v. 170), in quanto questi sono tutti elementi che

mostrano la figura di Apollo, dio della guerra e della musica, e

dall’uso di alcune inversioni di parole, come (v. 167) «te più di

tutti amò mio padre». Inoltre il registro colto in questa prima

sequenza è testimoniato anche dalla presenza di metafore come

«la fiamma d’amore».

In questa prima sequenza si può riscontrare il campo semantico

dell’amore, che si troverà anche nelle successive e che è

testimoniato anche dalle parole «amò» e «amore».

La seconda sequenza ha inizio con un’indicazione temporale,

ovvero un’indicazione relativa al momento della giornata in cui si

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svolge l’episodio: a mezzogiorno; in realtà però, l’indicazione non

esprime a pieno il periodo in cui si sviluppa l’episodio, poiché il

mito ha dimensione atemporale, ed è quindi impossibile dare

una precisa indicazione sull’epoca in cui è avvenuto. La

sequenza è di tipo narrativo perché racconta la vicenda

riguardante la gara del lancio del disco fino alla morte di

Giacinto, e si può trovare inoltre alla fine dell’episodio una

descrizione che può fare intuire che la sequenza è anche

descrittiva. Nella sequenza sono presenti anche alcune figure

retoriche, che testimoniano il registro colto usato dall’autore: si

possono trovare infatti l’appellativo di «Febo» usato per indicare

Apollo, un parallelismo (v.186-187-188) «e ora», «ora», che indica

successione temporale, e un paragone (v.190 – 195). Infatti in

questi versi viene descritta la morte di Giacinto, che viene

paragonata alla morte dei fiori che reclinano il capo, non si

sostengono più e cadono a terra. In questa sequenza inoltre sono

presenti il campo semantico della pianta «erbe, giardino, viole,

papaveri, gigli, appassiscono, corolle, terra», e alcune parole

chiave che ritorneranno nelle successive sequenze, ovvero «arte»

e «gioco».

La terza sequenza, infine, narra del comportamento di Apollo in

seguito alla morte di Giacinto e della metamorfosi di

quest’ultimo. La sequenza inizia con il discorso diretto e perciò è

da considerarsi mista in quanto sia narrativa sia descrittiva sia

mimetica. Nel discorso di Febo compaiono inoltre alcune parole

che potrebbero formare il campo semantico del dolore e della

colpa, testimoniato dalle parole «dolore, morte, colpa, causa,

ferita». Inoltre ricompare il campo semantico dell’amore,

testimoniato dalla parola «amore» e compare anche il campo

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semantico dell’onore, con le parole «onore», «orgogliosa». In

questa sequenza la metamorfosi viene descritta tramite la

straordinaria capacità immaginifica dell’autore che descrive la

mutazione di Giacinto da uomo steso a terra nel suo sangue, a

fiore splendente, che, come il suo sangue, è di colore purpureo.

Segnati sui suoi petali sono i lamenti di Apollo, tremendamente

addolorato per la sua morte. Un altro campo semantico che

ricompare è quello della pianta, testimoniato dalle parole «erba,

fiore, petali». Ricompare anche la parola chiave «giocare», riferita

alla tematica del gioco. Infine, in quest’ultima sequenza compare

l’indicazione spaziale su dove si è svolto l’episodio: Sparta.

La voce narrante è esterna e la focalizzazione è zero, anche se

nella descrizione di Giacinto si può cogliere tutto il dolore di

Apollo. Le tematiche sono quelle del gioco, dell’arte e dell’amore.

La metamorfosi è eziologica e ascendente, perché spiega la

nascita del Giacinto dovuta alla volontà di Apollo di rendergli

omaggio, anche perché lo stesso si sente causa della sua morte.

Arena Benedetta, IV D

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33. Apollo e Giacinto

Il mito è tratto dal decimo dei quindici libri di cui è composta

l’opera “Le Metamorfosi”. E’ possibile dividerlo in quattro

sequenze: nella prima, mista, diegetica, il narratore si riferisce a

Giacinto, affermando che è eterno, in quanto risorge ogni

primavera e che Apollo non amò mai altri come lui. Come si può

evincere, il tema centrale di questa prima sequenza che

costituisce una breve introduzione del brano è l’amore, come

d’altronde il campo semantico principale (« amore, fiamma

d’amore »); questo perché, nonostante che il tema unificante sia

la metamorfosi, l’argomento principale è l’amore, una forza

potente alla quale, come possiamo vedere, soggiacciono anche gli

dei. Il narratore è onnisciente e la focalizzazione zero. Il registro

utilizzato da Ovidio è elevato e proprio all’inizio del mito troviamo

una perifrasi («figlio di Amicla») che fa riferimento a Giacinto. La

funzione della lingua è poetica, come d’altra parte in tutto il

brano. La dimensione è atemporale per quanto riguarda il

periodo storico, caratteristica tipica del mito, e lo spazio è

aperto, caratteristiche che si mantengono costanti in tutto il

brano.

La seconda sequenza, diegetica, si apre con un’indicazione

temporale (vv. 174–175) che ci fa capire in che parte della

giornata siamo, cioè mezzogiorno, mantenendo il periodo storico

sempre ignoto. E’ prettamente narrativa e racconta di Apollo e

Giacinto che gareggiano con il disco finché Giacinto non viene

colpito violentemente in volto dal disco stesso rimbalzato dal

terreno duro. Il campo semantico principale è quello del

gioco/gara («librò, scagliò, gioco, disco, arte»), lo stesso elemento

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che sarà poi il motivo della metamorfosi di Giacinto ad opera di

Apollo. Focalizzazione e voce narrante rimangono invariate.

Troviamo poi un epiteto («Febo») e un’apostrofe a fine sequenza

(«Il tuo volto, Giacinto») coerenti con il registro elevato di Ovidio.

In questa sequenza si ha un’analessi con la quale si fa uno

scarto temporale per raccontare dall’inizio la vicenda di Apollo e

Giacinto.

La terza sequenza, perlopiù mimetica e mista, racconta della

reazione del dio Febo nel momento in cui il bel ragazzo viene

colpito in viso dal disco; Apollo si sente colpevole di averlo ucciso

e proprio la colpevolezza è il campo semantico («accusa,

responsabile, causa, colpa») e la tematica principale della

sequenza. Riscontriamo poi di nuovo la tematica dell’amore.

Inoltre c’è il campo semantico della metamorfosi («mutato,

trasformato») che continua nella sequenza seguente. Per spiegare

lo stato del corpo senza vita di Giacinto, si nota la presenza di

un’ampia similitudine (vv. 190 –195), che paragona il fanciullo a

un fiore spezzato, la stessa cosa in cui poi verrà trasformato. Si

riscontra inoltre un ampio soliloquio di Apollo.

La quarta ed ultima sequenza, narrativa, diegetica, inizia con la

metamorfosi di Giacinto in fiore. La metamorfosi in questo caso è

eziologia poiché spiega l’origine del fiore, il Giacinto e come mai

vengano celebrate a Sparta le feste Giacinzie. La metamorfosi

avviene per analogia: il colore purpureo deriva infatti dal sangue.

Il campo semantico principale è quello della tristezza («AHI,

tristi, lamento»), quella di Apollo per aver perduto l’amato.

Narratore e focalizzazione rimangono le stesse.

Piarulli Emanuele, IV D

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34. Dipinto: “La morte di Giacinto” di B. West

“La morte di Giacinto” è un quadro di Benjamin West, datato

1771, ispirato al mito raccolto nell'opera “ Le Metamorfosi” di

Ovidio.

Nel quadro sono ben evidenti i due personaggi principali: Apollo

e Giacinto.

Apollo è dipinto mentre sorregge Giacinto morente e gli

accarezza la testa; il dio è riconoscibile anche se non porta i suoi

tipici attributi (cetra e faretra), perché ha il capo circondato da

una luce, come un'aureola, simbolo del divino. Questo indossa

una stola di un rosso molto intenso che gli copre a malapena il

corpo; queste vesti non sono simbolo di un'epoca specifica e

stanno ad indicare l'atemporalità di questa storia.

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Giacinto è dipinto con la testa riversa sulla spalla di Apollo che

lo sorregge, ha gli occhi chiusi e le braccia abbandonate lungo i

fianchi.Anche lui non indossa quasi niente, se non una veste

bianca, sorretta da un nastro, che ricade sulla parte inferiore del

corpo. Le vesti non sono mosse dal vento come quelle di Apollo,

perché le une stanno a sottolineare la staticità della morte e, al

contrario, le altre il movimento di un corpo vivo.

Una differenza con quanto descritto da Ovidio ne “Le

Metamorfosi” è l'assenza del sangue su Giacinto e sulla terra,

elemento che nel mito prende parte alla metamorfosi, dando il

colore rosso al fiore. Sul terreno appunto sono presenti il disco,

che, lanciato da Apollo, ha colpito il fanciullo uccidendolo, e dei

fiori, che rappresentano l'imminente trasformazione che qui però

non viene rappresentata, ma che vi alludono.

Nell'angolo in alto a sinistra sono presenti due amorini, che

assistono alla scena e sono compartecipi del dolore di Apollo

rattristandosi davanti a questa tragica scena.

Morelli Beatrice, IV D

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35. Apollo e Leucotoe

Il mito è tratto dal libro IV de “Le Metamorfosi” di Ovidio, poeta

latino vissuto al tempo di Augusto, che per questa opera usa la

tecnica alessandrina dell’incastro, evitando la successione

monotona dei miti da raccontare; facendo scaturire miti da altri

e usando voci narranti diverse crea un effetto di vertigine nel

lettore. Lo scopo di Ovidio, quindi, non è tanto religioso, storico o

educativo, ma è quello di pura erudizione, creando nel lettore il

“mirum”, ossia la meraviglia.

Il mito di Leucotoe può essere diviso in tre macrosequenze:

la prima narra di Apollo che, innamorato perdutamente di

Leucotoe, si scorda di tutte le altre donne che vorrebbero il suo

amore, come Clizia. Per quanto riguarda i campi semantici, sono

due quelli che possiamo individuare: quello dell’amore,

riconoscibile dalla continua ripetizione della parola stessa, che

rimanda quindi alla tematica dell’amore, presente in tutta

l’opera, un amore inteso come forza a cui gli dei non possono

sfuggire; quello della bellezza, riconducibile alle parole “bellezza”,

“bella”, un campo semantico che giustifica l’amore di Apollo

verso Leucotoe.

Per quanto riguarda lo stile dell’autore, abbiamo una perifrasi

“figlio di Iperione”, che fa intuire il registro alto e formale usato

da Ovidio, che in questa sequenza interviene parlando

direttamente ad Apollo con una apostrofe nella frase: “Tu che

scaldi tutte le terre…”.

La voce narrante è esterna onnisciente, come del resto in tutto il

brano; i personaggi qui incontrati sono Apollo, Leucotoe e Clizia,

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introdotti dall’autore, e le dimensioni spaziale e temporale non

sono specificate.

La seconda macrosequenza narra di Apollo che, dopo aver preso

le sembianze della madre di Leucotoe, entra nell’abitazione di

questa e, eludendo le altre serve, possiede Leucotoe; Clizia, però,

guidata dall’ira, dalla collera e dall’invidia, denuncia al padre di

Leucotoe l’atto della figlia: così Orcamo decide di seppellire la

figlia in una fossa profonda.

In questa sequenza si possono riscontrare altri campi semantici,

oltre a quelli analizzati prima: quello della paura e del timore,

sottolineato dalle parole “paura”, “indugio”, “timore”, che

rappresenta lo stato d’animo di Leucotoe, comunque timorosa

nei confronti della natura reale del dio; quello della divinità,

sottolineato dalle parole “dio”, “sole”, che giustificano la natura

di Apollo.

In questa macrosequenza avviene un travestimento temporaneo,

che consiste in Apollo travestito nella madre di Leucotoe,

Eurinome, un travestimento usato come espediente per attuare

le intenzioni del dio. Nella sequenza, alla frase: “Io sono quello

che misura il lungo anno”, il dio Apollo si presenta da sé a

Leucotoe, e così la focalizzazione è interna ad Apollo e la

sequenza è mista, perché mimetica e diegetica. Si possono

riscontrare epiteti e perifrasi (“Sole, “Io sono quello che misura il

lungo anno”).

Nella terza ed ultima macrosequenza, Febo cerca in tutte le

maniere di salvare Leucotoe dalla morte, ma senza successo.

Decide allora di farla “rinascere” come pianta di incenso, e

soprattutto di non rivolgere più lo sguardo e la parola a Clizia,

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che, disperata per l’amore non ricambiato dal dio, smette di

mangiare e bere, trasformandosi in un fiore che segue tutti gli

spostamenti del Sole: il girasole.

Quest’ultima macrosequenza è il momento culminante del mito,

con ben due metamorfosi eziologiche, che ci spiegano l’origine

della pianta d’incenso e del girasole.

La metamorfosi di Clizia è descritta in modo molto abile

dall’autore, che ci “proietta” delle immagini colorate e reali di

questa trasformazione, e da qui si deduce l’elemento erudito.

Il campo semantico nuovo che viene introdotto è quello della

morte, visibile nel testo dalle parole “giacevi”, “ucciso”,

“esangue”, che aggiunge tragicità al mito per una morte

innocente, più che altro provocata dalle azioni di Apollo. E’

presente la parola-chiave “trasformata”, che è una parola

ricorrente nell’opera. Anche in questa ultima sequenza sono

presenti perifrasi come “guidatore dei cavalli alati”, che fanno

notare come Ovidio non lasci mai il suo registro alto in tutto il

mito: infatti per Ovidio si può parlare di “virtuosismo poetico”,

proprio per questa continua ricerca della parola giusta ma

soprattutto dotta, per descrivere il mondo de “Le metamorfosi” in

modo unico.

Per finire, anche in questa sequenza la voce narrante torna per

rivolgersi non ad un personaggio, ma al lettore, per far finire gli

eventi narrati che, senza il suo intervento, rimarrebbero in

sospeso.

Tommaseo Giordano, IV D

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36. Dipinto: “Apollo e Leucotoe”

Antoine Boizot Apollo and Leucothea , 1737

Il quadro è di Antoine Boirot; è stato dipinto nel 1771 e si

intitola “Apollo e Leucotoe”.

Nel quadro vengono rappresentate tre figure: due principali,

poste in primo piano, raffiguranti un uomo ed una donna, e una

terza figura ,quella di un amorino, posto a lato per indicare la

sua minore importanza.

Prendendo spunto dal titolo si può intuire che le due figure

principali rappresentano il dio Apollo e la ninfa Leucotoe. La

figura maschile è dipinta quasi nuda, coperta solo da un drappo,

e dietro il suo volto si espande una luce dorata; questi due

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elementi sottolineano l’appartenenza della figura alla sfera delle

divinità, in particolar modo i raggi posti dietro il suo volto

alludono all’immagine del sole, di cui Apollo è divinità secondo

una certa interpretazione. Anche lo scettro e la corona posti ai

piedi del dio ne possono enfatizzare la superiorità nei confronti

della donna e degli uomini, oppure essi potrebbero simboleggiare

le origini regali di Leucotoe,figlia del re degli Achemenidi.

La figura femminile invece è ritratta quasi svestita ma, in questo

caso, per sottolineare la futura unione e non per enfatizzare la

sua divinità. Il volto della donna mostra un’espressione che fa

trasparire la sua accondiscendenza; Leucotoe ha ancora nelle

mani gli strumenti per la tessitura: questo particolare ci può

aiutare a stabilire in che periodo avverrebbe la scena ritratta da

Boirot,ovvero i momenti tra la presentazione di Apollo a Leucotoe

e la successiva violenza nei confronti della ninfa.

La presenza dell’amorino, suonatore di lira, può simboleggiare

un’altra caratteristica di Apollo,anche divinità della musica.

Inoltre il suo viso sorridente ci può aiutare a capire che nella

scena ritratta non vi è violenza.

Una differenza che si può notare tra il dipinto e il testo è che, se

Ovidio nella propria opera enfatizza i fatti successivi all’unione

tra Apollo e Leucotoe, nel quadro viene ripresa invece la scena

precedente alla violenza.

Pistelli Tommaso, IV D

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37. Ciparisso

Il mito di Ciparisso, tratto dal X libro de “Le Metamorfosi” di

Ovidio, racconta che un giovane cacciatore di nome Ciparisso,

amato da Febo Apollo un giorno durante la caccia senza rendersi

conto trafisse con la sua lancia un cervo sacro alle ninfe della

campagna di Cartea.

Il giovane accorgendosi del suo errore decise allora di morire.

Allora Apollo lo trasformò in un cipresso, albero che simboleggia

la tristezza, il dolore e il lutto eterno poiché il giovane Ciparisso

come ultima cosa desiderò piangere in eterno.

La prima sequenza (vv.106-125) è mista perché è sia descrittiva

sia narrativa dato che presenta la descrizione del cervo e delle

attività abituali del giovane Ciparisso vissute assieme al cervo

sacro alle ninfe della campagna di Cartea.

Ciparisso era un giovane cacciatore dell’isola di Ceo, il più bello

dei giovani dell’ isola, amato dal figlio di Latona, il quale si

affezionò ad un cervo particolarmente mansueto poiché era

sacro alle ninfe dei campi Cartei.

Il cervo era solito non solo passare molto tempo con Ciparisso

pascolando ma anche essere cavalcato dal giovane.

In questa sequenza è presente il campo semantico dell’amore

(gradito) da parte di Ciparisso e quello della sicurezza (senza

timore, senza la naturale paura) da parte del cervo che non teme

di essere accarezzato anche da gente ignota.

Sono presenti molte tecniche narrative e espedienti stilistici che

sono prova dello stile elevato di Ovidio, quali: l’apostrofe:” Ma

più che ad altri era gradito a te, Ciparisso, il più bello della gente

di Ceo. Tu guidavi il cervo a pascoli inusitati, alle acque delle

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fonti limpide; tu gli intrecciavi fiori variopinti alle corna, o,

standogli in groppa, lo cavalcavi con gioia qua e là mettendo alla

morbida bocca freni purpurei”; il locus amoenus, quadretto

topico nel quale sono stilizzati elementi della natura, infatti nel

testo si può trovare al verso 122 la descrizione di un bosco e di

fonti limpide; e vari epiteti ossia aggettivi esornativi per

facilitare il riconoscimento del personaggio a cui si rivolge: “

grande cervo, il più bello della gente di Ceo”.

La seconda sequenza (vv.126-132) è narrativa perché presenta la

narrazione della vicenda.

Un giorno, durante una battuta di caccia, Ciparisso credendo il

cervo selvaggio lo trafisse per sbaglio con il suo giavellotto e lo

uccise.

Nella seguente sequenza sono presenti: il campo semantico della

caccia (giavellotto), che ci fornisce un’abitudine del protagonista,

quello della vista (vedendolo), che è intrecciato assieme a quello

della morte (morire) e quello della sofferenza (crudele ferita,

soffrire) perché Ciparisso tramite la vista vede il suo cervo che

muore per colpa sua, tanto che si lascia morire.

La terza ed ultima sequenza (vv.133-142) è mista perché si

riscontra sia la sequenza narrativa sia quella descrittiva.

Resosi conto dell’errore Ciparisso, afflitto ed inconsolabile

nonostante i ripetuti tentativi di Apollo, chiese agli dei di poter

essere a lutto eternamente e venne così trasformato in un

albero, chiamato appunto cipresso dal suo nome, che Apollo

decretò fosse da allora in poi di conforto ai defunti.

Nella sequenza sono presenti il campo semantico della sofferenza

(piangere per tutto il tempo, pianto immenso) e quello della

metamorfosi (cominciarono a colorarsi, divennero).

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In questo mito la metamorfosi è ascendente, perché Apollo salva

il suo amato Ciparisso dalla morte, e eziologica, perché spiega

che il cipresso è simbolo di dolore e tristezza tanto che è legato al

lutto.

Le tematiche presenti nel mito di Ciparisso sono l’amore in varie

sfumature: di Apollo per il giovane, di questo ultimo per il cervo;

la tematica della colpa a cui segue in questo caso

l’autopunizione e la tematica del destino a cui né l’uomo né gli

dei non possono sottrarsi.

Come in tutti i miti di Ovidio è presente la tematica della

metamorfosi, tematica unificante della sua opera.

Mouhsen Ghizlane, IV C

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38. Dipinto: “Ciparisso” (J. Vignali)

Il quadro “Ciparisso” del pittore Jacopo Vignali (1623-1625)

rappresenta il giovane Ciparisso disperato per avere ucciso

accidentalmente il cervo sacro alle ninfe.

Al centro del dipinto è posto il giovane che, con gli occhi gonfi e

rossi di lacrime, abbraccia e tiene con tenerezza la zampa del

cervo esamine, colpito nel collo dalla freccia.

Le corna dell’animale spuntano dietro il capo del cacciatore

quasi ne facessero parte; questo elemento sottolinea il

coinvolgimento del ragazzo con l’animale.

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La sua disperazione è sottolineata anche dalle vesti strappate e

dall’abbandono della faretra.

La vegetazione sullo sfondo e il cervo sono volutamente dipinti

con tonalità molto scure, per mettere in evidenza Ciparisso

illuminato da una luce innaturale che riflette solo lui: è solo

nella sua disperazione.

In basso sulla destra si può notare la faretra, che indica cha

Ciparisso è una cacciatore.

Al collo dell’animale è legato un collare riccamente decorato e sul

suo capo è posto un diadema: questi sono i simboli, riscontrabili

anche in Ovidio, che sottolineano l’appartenenza del cervo alle

ninfe.

La differenza più rilevante con il testo di Ovidio è la mancanza

del dio Apollo nella scena, il quale asseconda la richiesta di

Ciparisso di piangere per tutta la vita la morte del cervo,

trasformandolo in un cipresso.

Le vesti strappate potrebbero rappresentare lo “strappo”

all’interno della vita del giovane cacciatore per sempre segnata

da questo evento drammatico; tutto ciò è accentuato dal forte

contrasto della veste rossa ancora intatta con quella bianca

ormai a brandelli che potrebbe rappresentare la sua anima.

Marchi Carolina, IV C

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39. Pigmalione

Il mito narra l’amore di Pigmalione che non avendo compagna si

innamora della propria opera, ovvero la statua di una ragazza

bellissima scolpita in avorio. Il mito si conclude con la

metamorfosi ascendente della statua che ogni volta che

Pigmalione la sfiorava e la baciava si scaldava fino a trasformarsi

in una ragazza viva.

La metamorfosi inoltre è voluta dalla dea Venere che, venuto il

giorno della sua festa, comprese l’amore e le preghiere di

Pigmalione e fece sì che anche la statua potesse diventare vera.

La prima sequenza (vv. 243-269) è narrativa perché narra di

come Pigmalione si innamora della sua bellissima opera e ne

riporta le caratteristiche principali.

In questa sequenza si può riconoscere la tematica principale di

questo mito ma anche di tutta l’opera, ovvero la tematica

dell’amore. L’amore e l’innamoramento costituiscono anche uno

dei campi semantici con le parole “innamoro”, “si consuma

d’amore”, “la bacia”. Un altro importante campo semantico è

quello della bellezza. Le parole “arte mirabile”, “candido” e la

frase “tutto le sta bene , ma nuda non è meno bella” (v. 266) ne

fanno parte.

A proposito della bellezza abbiamo studiato che spesso fa parte

dei campi semantici di questi miti perché attraverso il

bell’aspetto e la bellezza nasce l’innamoramento. Ancora un altro

campo semantico che vale la pena citare, perché forse è uno dei

più importanti, è quello dell’illusione.

Pigmalione infatti si illude che la statua possa ricambiare il suo

amore.

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Nel brano sono riportate le parole e le frasi “crederesti che sia

viva”, “ragazza vera”, “carne o avorio”, “neanche allora si

persuade” e “crede” ripetuto più volte. L’ultimo campo semantico

che si può individuare è quello della donna e della figura

femminile. “Donna” , “indole femminile” , “moglie”, “compagna”,

“ragazza vera” sono infatti le parole che si ripetono nel testo.

Al verso 256 notiamo un particolare uso della grammatica dove

il soggetto compie e subisce l’azione (bacia ed è baciato).

In questa prima sequenza la focalizzazione è zero e la voce

narrante esterna.

La seconda sequenza comincia con il verso 270 e si conclude con

la fine di questo breve mito al verso 298.

Questa sequenza inizia con la preghiera da parte di Pigmalione

rivolta a Venere il giorno della sua festa, prosegue con il narrare

della comprensione di Venere che decide di esaudire le preghiere

ricevute dal pover’uomo e concede la metamorfosi ascendente

della statua in ragazza. Si conclude con lo stupore di Pigmalione

e le nozze dei due che finalmente possono ricambiare a vicenda il

proprio amore. La tematica più importante è la medesima di

tutto il mito e anche le parole “baciarla”, “l’innamorato”, “baci”,

“oggetto del suo desiderio”, “amante” vanno a riconfermare il

campo semantico dell’amore e la tematica.

In questa seconda sequenza non riscontriamo più il campo

semantico dell’illusione che viene sostituito da quello dello

stupore e quello della stessa metamorfosi: “mentre stupisce e

gode” e “temendo l’inganno” risaltano lo stupore mentre “era

davvero un corpo”, “finalmente vera” e “l’avorio si ammorbidisce”

confermano la metamorfosi.

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La voce narrante e la focalizzazione rimangono rispettivamente

esterna e zero ad eccezione di alcuni punti in cui è interna a

Pigmalione. In questa sequenza è specificato il luogo che è

aperto e il tempo, ci troviamo infatti nell’isola di Cipro il giorno

della festa di Venere.

Il personaggio principale è indubbiamente Pigmalione che in

questo mito ha caratteristica di essere piuttosto un tipo che un

individuo. Pigmalione infatti mantiene i suoi pensieri e le proprie

caratteristiche all’interno di tutto l’episodio.

Meneghini Beatrice, IV C

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40. Dipinto: “Pigmalione e Galatea”

Il quadro “Pigmalione e Galatea”, dipinto da Laurent Pecheux, ha

come personaggi in primo piano un uomo inginocchiato e la

statua di una donna senza vestiti, posizionata su un piedistallo.

Il luogo dove viene rappresentata la vicenda è uno spazio piccolo

e buio. L’uomo è Pigmalione, che dopo aver odiato per molto

tempo le donne, e essendo rimasto scapolo per propria volontà,

realizza una statua, raffigurante una donna perfetta che non

può nascere in natura dalla natura, Galatea, di cui si innamora.

Infatti dietro un busto, posto a lato desto della statua, si

intravede l’amorino Eros, figlio di Venere, la quale darà vita alla

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fanciulla come ringraziamento di un sacrificio fattole da

Pigmalione in onore della sua festa. Il piccolo amorino dietro la

statua è simbolo dell’amore che Pigmalione prova nei confronti

di Galatea, dal quale nascerà poi il loro figlio Pafo.

Distinguiamo la figura di Eros grazie all’arco e alle frecce che ha

in mano, oggetti che lo caratterizzano.

A sinistra del quadro c’è una persona, vestita di verde, che

appartiene ad un’epoca moderna e che spunta da dietro una

tenda e indica con un dito la statua.

Nello sfondo troviamo: la statua di un uomo sdraiata a terra, il

busto di una donna rappresentante probabilmente una divinità

femminile, alcune tende, bianche e verdi, che fanno da divisori, e

vari oggetti dell’artigianato dello scultore ai piedi della statua.

Pigmalione è posto a sinistra del quadro, di fronte alla statua di

Galatea, è vestito di una tunica rossa sovrastante una tunica

bianca, ha un paio di sandali ai piedi e un martello in mano,

oggetto che ci fa capire che Pigmalione è uno scultore.

Galatea, invece, è nuda ed ha i capelli raccolti; la posizione delle

braccia fa capire il tentativo della ragazza di nascondere le parti

intime del corpo.

La nudità della ragazza è legata allo stile scultorio dei Greci per

evidenziare la bellezza esteriore e fisica di uomini e divinità.

Il momento raffigurato è quello nel quale Pigmalione ha appena

finito di scolpire la statua di Galatea.

Modernità e classicità convivono nell’opera.

Perndrecaj Mara, IV D

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41. Mirra

Il brano proposto è tratto da " Le Metamorfosi di Ovidio" .

E' narrata la storia di Mirra e dell'amore che nutre nei confronti

di suo padre Cinira, figlio di Pafo. Essa vieni infatti colpita

dall’amore che Cupido nega di aver provocato.

Mirra è confusa e pregando gli dei è prossima ad uccidersi: non

è in grado di trovare un altro uomo che sia suo padre, di cui è

fortemente innamorata. Quando infatti Cinira le domanda chi

desiderasse per marito Mirra risponde di volere un uomo simile

a lui. Perdendo totalmente il senno, Mirra durante la notte si

lega ad un laccio per uccidersi, ma la nutrice sopraggiunge e la

ferma, pregandola di confidarle la causa del suo dolore. La

nutrice non comprende ancora, pur avendo il sospetto che si

tratti di un amore.

Nella prima sequenza la voce narrante si rivolge al pubblico

parlando dell'origine di Mirra: il mito è intrecciato a quello di

Orfeo, che diventa qui voce narrante di secondo grado come

vuole la tecnica ovidiana dell’uso di varie voci quasi per

disorientare il lettore e avvolgerlo.

E' presente una prolessi, in quanto la voce narrante si rivolge

agli ascoltatori dicendo loro di essere in procinto di raccontare

fatti terribili.

La seconda sequenza è prevalentemente riflessiva, le riflessioni

sono introdotte con un monologo.

Si riscontra un'apostrofe, poiché la voce narrante si rivolge alla

fanciulla dicendole che confonde i legami di parentela.

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La sequenza successiva è mista: narrativa e dialogata. Si

riscontra il campo semantico del pianto (gli occhi si velano di

gocce tiepide, piangere,le asciuga le guance).

Nella quarta sequenza, narrativa, si riscontra la tematica

dell’amore legato al fuoco della passione che per i Greci passava

attraverso la vista facendo innamorare. Il campo semantico è

quello della morte (morte,laccio,addio,cappio).

La quinta sequenza è descrittiva, il campo semantico è ancora

una volta quello della morte (morte, laccio) e quello della

disperazione (grida, batte il petto, strappa la veste, fa a pezzi,

piangere, spiaciuta)

La sesta sequenza è mista, presenta infatti una parte narrativa e

una dialogata. In questa sequenza sono riportate le parole della

vecchia ed è presente un soliloquio. Infine, il campo semantico è

quello della confidenza (confidarle, promette, segreto).

Ricci Margherita, IV C

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42. Mirra

Mirra è disperata per il suo infelice amore e tenta di uccidersi; la

nutrice prova a consolarla e viene a sapere dell’attrazione

provata dalla ragazza verso il padre, nonostante questo la

nutrice promette di aiutarla. Infatti riesce a farli unire

permettendo al padre di togliere la verginità alla propria figlia

durante una notte buia, dopo la quale si incontrano ancora

innumerevoli volte finché il padre, una sera, deciso a conoscere

l’identità della sua amante fa luce per guardarle il viso. La figlia

scoperta fugge e prega gli dei di essere bandita sia dal mondo dei

vivi che dei morti e viene trasformata in un albero che al posto

delle lacrime della fanciulla versa Mirra. Ella era incinta e dalla

dura corteccia partorisce uno splendido figlio.

Il mito di Mirra si conclude con una metamorfosi eziologica

discendente poiché spiega da dove proviene la mirra ed è una

punizione per il delitto da lei commesso.

Nel testo sono presenti le tematiche dell’amore infelice, della

metamorfosi e del divieto (dato che l’unione di una figlia con il

padre era considerata delittuosa). L’amore è infelice perché

impossibile da realizzare a meno che il padre non sia a

conoscenza dei fatti come accade durante le notti quando si

incontrano con le luci spente. Mirra soffre rovinosamente per

amore e sa di compiere un delitto entrando nel letto del padre,

ma il suo sentimento è talmente forte da infrangere il “divieto”.

Dopo una lunga fuga chiede di essere mutata per non

contaminare né il mondo dei vivi né quello dei morti.

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Tutti i campi semantici presenti nel testo come quello del pianto,

dell’amore, dell’infelicità, della fuga riguardano Mirra e servono

ad enfatizzare la principale tematica dell’amore infelice.

Inglese Dario, IV C

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43. Adone: la nascita

Da Mirra nasce Adone che è un ragazzo bellissimo, apprezzato

perfino da Venere. Un giorno il ragazzo colpisce, senza volere con

una freccia che sporgeva dalla faretra la dea, che è conquistata

dalla sua bellezza. Venere passa molto tempo con Adone e lo

invita a cacciare animali docili e indifesi e non quelli che si

possono difendere, per non rischiare di essere ucciso.

Poi Cinira narra a Adone il prodigio che colpì Ippomene.

Questo testo può essere diviso in due sequenze.

Nella prima c’è una descrizione del protagonista, del quale viene

da subito sottolineata la bellezza, e del ferimento accidentale di

questo verso la dea Venere. Il registro è elevato e si riscontrano

alcuni epiteti come: «Cnido pescosa; Amatunte gravida di

metalli». Si possono individuare anche due tematiche principali

come quella della bellezza, che è formata da parole come

“bellissimo; bello; bellezza”, e quello della caccia (freccia; ferita).

Nella seconda sequenza il narratore elabora una sequenza

mimetica dove Cinira dà moniti sulla caccia ad Adone,

mettendolo in guardia contro gli animali più pericolosi.

In questa sequenza si riscontrano epiteti come: «Cespugli

spinosi; cervo dalle altre corde; forti cinghiali; lupi predoni; orsi

armati di artigli; setolosi cinghiali». Inoltre si riscontrano le due

tematiche principali cioè quella della bellezza, individuata da

parole come bellezza commosso e quella della fuga, individuata

da parole come «vaga; inseguendo; scappano; fuggono».

Bondi Lorenzo, IV C

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44. Dipinto: “La nascita di Adone”

Il quadro di Marcantonio Franceschini rappresenta la

trasformazione di Mirra in un albero, perciò è una metamorfosi

discendente ed eziologica poiché spiega la nascita della mirra.

In basso a sinistra sono presenti due Amorini intenti a

raccogliere le lacrime di Mirra.

Al centro del quadro si trovano due Naiadi che tengono in

braccio Adone.

Dietro di loro a sinistra sono presenti altre due Naiadi che

osservano stupite la rottura della corteccia di Mirra che ha

potuto così partorire il bambino.

Mirra, pur essendo la protagonista, non si trova in posizione

centrale; è trasformata in albero, ma presenta ancora tratti

umani come gli occhi da cui piange, il naso, la bocca e il seno.

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Nel quadro si riscontrano alcune differenze con il mito di Ovidio:

sono presenti due uomini estranei alla vicenda; nascosti dai

cespugli i loro sguardi non sono rivolti né a Mirra né al bambino;

le due donne sulla destra invece sembrano spettatrici della

vicenda.

Nel quadro, che ricrea l'atmosfera del mito, ambientato in uno

spazio boschivo, tutti i personaggi sono vicini, a coppie, ad

eccezione di Mirra e Adone inesorabilmente divisi dall'immobilità

della madre.

Bandini Filippo, IV C

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45. Morte di Adone

Ovidio nel mito narra dell’ira di Cinira nei confronti di

Ippomene, che non le era stato riconoscente, e della morte

di Adone in uno scontro con un cinghiale.

La prima sequenza racconta della furia di Cinira a causa di

Ippomene tanto che lo trasforma insieme ad Atalanta in

leone. Vi sono appunto due campi semantici: dell’ira («ira,

offesa, desiderio, colpevoli, affogare»)e della metamorfosi

(«criniere, artigli, zampe, petto, coda, ruggiti, zanne»). Vi

sono inoltre molti aggettivi eruditi «nobile Echione, acqua

stigia, zanne domate, madre turrita». C’è anche una

focalizzazione interna a Cinira (689-696). Venere fa questa

digressione per convincere Adone ad evitare di cacciare

fiere selvagge.

La seconda sequenza (vv. 705-716) narra dello scontro di

Adone con un cinghiale e della morte dell’uomo. Di

conseguenza il campo semantico è quello dello scontro

(«battaglia, fuga, tracce, trafisse, colpo, lancia, sangue,

abbatté»). Vi sono nuovamente degli epiteti come «truce

cinghiale, sabbia fulva, luogo sicuro». Inoltre, si può notare

il «ma» (congiunzione avversativa) che indica il

cambiamento dello svolgimento della narrazione e mette in

contrapposizione il colpo di Adone con la lancia al cinghiale

e il colpo del cinghiale con le zanne ad Adone.

Nella terza sequenza è descritta la metamorfosi di Adone in

anemone dopo la sua morte mediante i poteri di Citerea.

Infatti il principale campo semantico è della metamorfosi

(«immagine, muterà, trasformo, mutare, nettare profumato,

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fiore»). Vi sono due similitudini «come nel fango fulvo si

formano le bolle lucenti; come il melograno che cela sotto la

sua buccia duttile dei suoi grani». Queste scelte stilistiche

testimoniano un registro elevato poetico. Si riscontrano di

nuovo svariati aggettivi eruditi come «uccelli bianchi, fango

fulvo, corpo esanime, menta fragrante, nettare profumato,

bolle lucenti».

La focalizzazione del brano è quasi sempre zero ad

eccezione della focalizzazione interna a Venere e la voce

narrante è onnisciente. Le parole chiave sono «ira, leoni,

battaglia, trasformare, fiore». L’«ira» è presente in molte

parti del testo ed è la causa della prima metamorfosi. I

«leoni» rappresentano proprio la prima metamorfosi. La

«battaglia» è simbolo di onore e di vittoria di Adone, però

finisce con la sua morte. «Trasformare» è la parola che

indica la metamorfosi (dal greco “metamorfów”

“trasformo”). Il «fiore» rappresenta la seconda metamorfosi.

La prima metamorfosi del mito è ascendente a d differenza

della seconda che è discendente.

Il tempo è indeterminato come sempre nel mito, lo spazio è

chiuso nella prima parte del brano poiché si svolge in una

grotta, in seguito è aperto perché si svolge nel bosco ed il

testo si conclude con un tragico finale.

Spano Davide, IV C

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46. Dipinto: “Venere e Adone”

Il quadro ‘’Venere e Adone’’ è dipinto da Tiziano.

In primo piano vediamo Adone che tiene con una mano i cani da

caccia e con l’altra la faretra mentre Venere ,vestita con solo un

velo bianco che gli copre il braccio sinistro e la gamba destra,

abbraccia e stringe Adone per attirarlo a sé.

Appoggiato ad un albero vicino alla figura di Adone si trova un

arco con le frecce,oggetto con il quale accidentalmente Adone

aveva colpito Venere che poi si innamora di lui.

In ultimo piano si trova la figura dell’amorino che dorme con

arco e frecce sotto ad un albero ed è simbolo dell’amore.

Il paesaggio in cui è ambientato il quadro è un bosco con alberi e

vegetazione, luogo in cui Adone va a cacciare e anche luogo della

sua nascita.

Il cielo è nuvoloso e si vede sbucare da una nuvola una luce che

illumina un albero in ultimo piano; il cielo è il luogo di Venere, la

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quale per l’amore nei confronti di Adone trascura il suo ruolo in

esso.

I colori sono cupi, prevale il colore rosso e il marrone, le figure di

Venere e di Adone invece sono illuminate e si vedono

chiaramente essendo i protagonisti.

Inchincoli Rachele, IV D

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47. Dipinto: “La morte di Adone”

Il dipinto proposto è di Sebastiano del Piombo il quale

presenta una reinterpretazione del mito “La morte di

Adone” che fa parte de “Le Metamorfosi” di Ovidio.

Osservando il quadro si nota in primo piano la presenza di

sei figure umane prive di vesti. Esse si trovano in un bosco

e accanto a quest’ultime è rappresentato un uomo sdraiato

a terra. In lontananza si vede una città che si affaccia su

un fiume, appartenente all’epoca del pittore. Una delle

figure in primo piano è Venere che si tiene il piede destro

mentre Cupido, una delle altre figure rappresentate, le

indica Adone, il ragazzo in secondo piano morto a causa

dell’attacco di un cinghiale. Cupido potrebbe alludere

simbolicamente all’amore di Venere nei confronti di Adone.

A destra di Venere si vedono tre figure femminili seminude

e una figura maschile. Una delle donne rivolta verso Venere

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le indica il personaggio maschile al margine del quadro,

un’altra invece rivolta verso il personaggio maschile gli

indica la dea. La scena forse allude alla diffusione della

notizia.

Osservando il paesaggio si nota la presenza di fiori che

possono rimandare alla primavera, inoltre la presenza di

colori scuri potrebbe rappresentare la tristezza per la morte

di Adone. La dea infatti ha lo sguardo triste e rivolto verso il

basso addolorata per la morte del ragazzo, il quale verrà poi

trasformato in un fiore da lei stessa.

Vezzoni Sara, IV D

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48. Orfeo e Euridice

I protagonisti del mito sono Orfeo ed Euridice che si amano

ma la loro storia d’amore presto è interrotta perché la bella

fanciulla muore morsa da una vipera. Orfeo dunque,

disperato, giunge nell’ Ade per cercare di convincere

Persefone, la moglie del dio dell’Oltretomba, a restituirgli la

sua amata.

Grazie anche al triste suono della lira, Persefone è mossa a

compassione e decide di acconsentire alla richiesta di Orfeo

dicendogli però di non voltarsi mai verso l’amata durante il

tragitto.

Orfeo non segue l’ordine della divinità e, dopo aver fatto

una parte del percorso, si gira verso Euridice. La bella però,

allo sguardo dell’amato, torna indietro verso l’Ade come

aria fluttuante. Per sette giorni Orfeo piange pregando

Caronte di traghettarlo dall’altra parte, ma la sua occasione

era terminata.

Nella prima sequenza Euridice muore morsa da un

serpente ed Orfeo decide di scendere verso l’Ade per

riaverla indietro.

Solitamente l’autore utilizza quasi sempre gli stessi

elementi narratologici: la focalizzazione per lo più è zero, la

dimensione è atemporale e, a livello di spazio, tutto si

svolge in Grecia.

Nella prima parte della sequenza lo spazio è, come di solito

nei miti, aperto, costituito da boschi e radure ma, quando

Orfeo decide di intraprendere il viaggio, gli ambienti

diventano a mano a mano più chiusi e lugubri.

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Troviamo il campo semantico più importante in Ovidio, cioè

quello dell’amore che introduce la tematica omonima.

Troviamo poi il campo semantico della morte evidenziato

dalla parola “morì”. I due concetti infatti sono intrecciati,

come spesso avviene in letteratura.

Nella seconda sequenza (vv. 16-39) troviamo il toccante

discorso di Orfeo che cerca di convincere Persefone a

rimandargli Euridice nel mondo terreno.

In questo discorso si notano due importanti

contrapposizioni: la prima tra la luce e l’ombra, luce che

rappresenta il mondo esterno con i suoi ruscelli e i prati

verdeggianti, e l’ombra, l’oscurità rappresentata dall’Ade

con le sue pene e i suoi mostri. L’oscurità, oltre che

dall’Ade, può essere anche identificata semplicemente con

la morte e questo riconduce alla seconda contrapposizione,

quella tra la vita e la morte. Orfeo, cercando Euridice, varca

i confini dell’Oltretomba pur vivendo, per chiedere vita per

ciò che già è morto.

Un’altra tematica è quella del destino spesso ingiusto:

Orfeo, infatti, asserisce, parlando con i due signori dell’Ade,

che la morte della sua sposa è ingiusta poiché non viene da

un giusto numero di anni di vita.

Nella terza sequenza troviamo la tematica della

commozione, poiché tutti coloro che ascoltano il triste

canto rimangono commossi, a partire da Sisifo fino alle

Eumenidi e, a seguire, Euridice viene condotta fuori.

Questa tematica è riscontrata anche dal campo semantico

della commozione, individuato dalle parole “piangevano,

s’inumidirono, lacrime”.

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Rilevante è in questo contesto la tematica dell’arte della

musica che si riscontra nell’abilità di Orfeo a suonare la

lira, abilità che gli permette di salvare la sua sposa.

Abbiamo al verso 44 la figura retorica dell’apostrofe, figura

retorica in cui l’autore del testo si rivolge direttamente ad

un personaggio (“e tu sedesti sul sasso, Sisifo”).

Nella quarta e ultima sequenza (vv. 48-83) abbiamo la triste

conclusione del racconto. Dopo la raccomandazione, non

rispettata, di Persefone fatta ad Orfeo di non voltarsi mai

verso la sposa per guardarla durante il tragitto, Euridice

risprofonda nell’Ade. Di nuovo si notano parole quali

“amore e amata” appartenenti al campo semantico

dell’amore e la tematica della colpa, la colpa che prova

Orfeo nei confronti dell’amata per averla inviata di nuovo

involontariamente nell’Oltretomba.

Troviamo due similitudini (vv. 64-71) che testimoniano il

linguaggio elevato che utilizzava il poeta, ricco di figure

retoriche. Tutto ciò è testimoniato anche da una seconda

apostrofe “e te infelice Letea” (v. 69).

Abbiamo poi una parola chiave cioè “pietà”, una pietà che

non è concessa due volte ad Orfeo. Anche nel mondo di

oggi bisogna sapersi giocare bene le proprie possibilità

perché potremmo non averne due.

Si chiude il brano in contrapposizione a come si era aperto.

Tutto si era aperto con il folle amore di Orfeo verso Euridice

e tutto si chiude con Orfeo che, disperato, rifiuta ogni tipo

di amore.

Arvati Marco, IV D

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49. Orfeo e Le Menadi

Il mito tratto da “Le Metamorfosi“ di Ovidio racconta la storia di

Orfeo che durante una sua esibizione viene aggredito e ucciso da

alcune donne, le Menadi, perché non rispetta i riti di Dioniso

non essendosi più voluto sposare dopo la morte di Euridice.

La prima sequenza, di tipo narrativo, incomincia con le Menadi

che si adirano con Orfeo perché con il canto della cetra trascina

a sé tutte le fiere e le belve. In un primo momento se la prendono

con Orfeo scagliandogli un’asta in bocca in modo che non possa

più cantare, cosa che non raggiunge l’obiettivo; allora come detto

al v. 22 gli tolgono «la gloria del pubblico» e si accaniscono sulle

fiere che lo stavano seguendo, e poi nuovamente su Orfeo

scagliandogli zolle e rami.

I campi semantici sono quelli della natura selvaggia e della

musica. Il tempo della sequenza è indeterminato come di solito

nel mito.

La seconda sequenza narrativa racconta dell’uccisone di Orfeo

da parte delle Menadi (a cui si riferisce l’aggettivo sacrileghe) e

del rimpianto delle fiere e della natura per lui. Il corpo di Orfeo è

dilaniato: le sue membra sono sparse qua e là. Ritroviamo i

campi semantici dell’abilità (attrezzi, sarchielli, rastrelli), la

tematica del destino (fato) e altri campi semantici quali quello

della natura selvaggia, della violenza e della musica. La cetra

però prodigiosamente suona da sola e la lingua mormora.

La terza ed ultima sequenza racconta la discesa dell’ombra di

Orfeo nell’Ade, dove incontra ed abbraccia Euridice. In questa

sequenza ritroviamo la tematica dell’amore fra Orfeo ed Euridice,

con cui si era aperta tutta la vicenda.

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Nel frattempo Bacco decide di punire le Menadi, che vengono

trasformate in alberi, probabilmente viti. I campi semantici sono

quello della metamorfosi e della natura (radici, rami).

La metamorfosi è discendente poiché è una punizione.

Barbanente Guglielmo, IV D

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50. Dipinto: “Orfeo e Euridice”

“Orfeo” di Gustave Moreau

Nel quadro “Orfeo” di Gustave Moreau, in primo piano troviamo

una donna che tiene una testa appoggiata su una cetra tra le

mani.

Probabilmente la donna è la bella Euridice, novella sposa di

Orfeo, mentre la testa appartiene appunto ad Orfeo.

Euridice ha una veste dai diversi colori oltre ai capelli raccolti e

la sua espressione è ricca di pietà, compassione e dolore nei

confronti del suo sposo.

Di Orfeo invece possiamo notare solo la testa, perché in

precedenza era stato massacrato dalle Menadi.

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Egli ha i capelli gettati all’indietro e la sua espressione non

lascia trapelare alcuna emozione, esattamente come una

persona esanime.

Questa scena si potrebbe svolgere in uno scenario infernale dato

che entrambi i personaggi nel mito risultano morti e nell’Ade.

Sul terreno sono presenti alcuni cespugli e dell’erba bassa;

inoltre sullo sfondo si può scorgere una rupe e dietro a questa si

possono intravedere alcune colline e montagne.

Sulla cima della rupe si vede un uomo che suona.

Prima delle colline e delle montagne si può notare anche un

bosco.

Per ciò che riguarda il cielo, esso ha un colore che si avvicina al

giallo vicino al suolo e che diventa più scuro a mano a mano che

l’altezza aumenta, proprio perché l’atmosfera non risulta reale.

In primissimo piano infine si scorgono due piccole tartarughe

che si incontrano: ciò potrebbe rappresentare un parallelismo

con Orfeo ed Euridice che si incontrano negli Inferi dopo essere

rimasti separati per lungo tempo.

Forse la raffigurazione di questo incontro allude all’idea che

l’amore, rappresentato da Euridice, e la poesia, rappresentata da

Orfeo, si riuniscono.

Del Pistoia Stefano, IV C

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51. Dipinto: “Orfeo” di Gustave Courtois

Il quadro intitolato “Orfeo” di Courtois (1875) è la

rappresentazione dell’omonimo mito raccolto nell’undicesimo

libro delle “Metamorfosi” di Ovidio; il mito racconta la storia di

Orfeo, un poeta che, straziato dalla morte della moglie, era sceso

nell’Ade per chiedere al dio dei morti e a Persefone di poter

riportare la moglie nel mondo umano.

Quelli, toccati dalla richiesta accompagnata dalle note della lira

di Orfeo, riconsegnano la moglie al poeta a patto che quello non

la guardi durante tutto il tragitto di ritorno, ma quello si volta e

la donna sprofonda nuovamente nel mondo dei morti.

Orfeo allora addolorato dalle due morti della moglie decide di

non accettare più l’amore di nessuno, per questo una folla di

donne innamorate di lui che erano state rifiutate, gli si avventa

contro uccidendolo.

Nel quadro abbiamo la rappresentazione di Orfeo morto, il viso

dell’uomo è appoggiato sulla spiaggia bianchissima e

punteggiata da conchiglie arancioni e foglie secche, sullo sfondo

c’è il mare, che dà sulle sfumature più chiare del verde acqua e

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che si perde all’orizzonte confondendosi con il cielo nuvoloso e

chiaro anch’esso.

Sulla spiaggia troviamo adagiata a fianco della testa di Orfeo la

lira, il simbolo del poeta, bianca anche quella e che quasi

confonde i suoi contorni con la sabbia.

Nel dipinto il colore dominante è il bianco, che ci dà un’idea di

pace e luce, nonostante che ci sia in primo piano la testa di

Orfeo morto: quindi il colore bianco può essere un simbolo della

pace della morte o della felicità ritrovata da Orfeo nella morte in

quanto unico mezzo per poter ricongiungersi all’amata moglie.

I colori chiari del disegno mettono in risalto la barba e i capelli

neri dell’uomo. Il viso di Orfeo è ben caratterizzato, in testa ha

una corona di foglie, con la quale erano ornati i capi dei poeti

antichi, però le foglie sono secche, raffigurando così l’immagine

di una gloria perduta. I capelli e la barba sono come già detto

prima, neri, riferimento alle origini mediterranee di Orfeo.

L’espressione sul viso non è né triste, né spaventata, né felice:

l’artista ha dipinto sul volto del poeta un’espressione tranquilla e

impassibile; gli occhi e le labbra sono chiusi, come se stesse

dormendo e sono quindi un altro indizio per la pace di Orfeo.

Il capo di Orfeo sembra sprofondare nella sabbia, simbolo

anch’essa del cambiamento e del continuo mutamento del

mondo, metamorfismo che si ricollega al tema centrale dell’opera

di Ovidio.

In conclusione, dato che Orfeo è simbolo della poesia, forse nel

quadro il pittore allude all’attività poetica e dell’arte che dopo un

naufragio lascia relitti e tracce per una rinascita (le conchiglie).

Borraccino Sara , IV C

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Gli elaborati sono stati prodotti

dagli alunni delle classi IV C e Iv D

Lavoro di Redazione:

Ideazione, progettazione, correzione: prof.ssa

Valentina Zocco

Hanno collaborato alla raccolta e

all’organizzazione del materiale dei compagni: Marchi, Baudinelli, Piarulli, Guerra,

d’imporzano, pistelli, arena, morelli, Bandini, Bertani, Brozzo.

Impaginazione: prof.ssa Valentina zocco