KAIRÓS Dio mio, perché?
Anno V n. 6 Marzo 2003
Sommario Editoriale 2 La Parola 4 Dio mio, perché? Severino Pagani La Tradizione 10 Li amò sino alla fine Giuseppe Angelini La Preghiera 21 Salmo 54 Letture Spirituali 24 Adrienne von Speyr Luigina Mascheroni Krónos 34 Intercedere per la pace con creatività e tenacia Carlo Maria Martini Se cerchi un libro 38 Appuntamenti del mese 39
Kairós - Editoriale
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EDITORIALE
Si giunge a possedere una scientia crucis
solo quando si sperimenta fino in fondo la croce. Di questo ero convinta fin dal primo istante,
perciò ho detto di cuore: «ave crux, spes unica».
Edith Stein
L’anno liturgico nel suo svolgersi offre un tempo particolarmente fecondo e propizio per disporsi con più vivo desiderio e con una ritrovata energia in ascolto della Parola. È il tempo della Quaresima, il tempo della conversione del cuore, il tempo per “credere al vangelo”. La parola della croce diventa il luogo in cui Gesù si rivela, parla al cuore e alla intelligenza di chi lo cerca, di chi ha il coraggio di sostare sotto la croce stessa: «Stavano presso la croce di Gesù…». Essere discepoli del Signore, desiderare di entrare o di permanere in questo stato, richiede il coraggio, l’audacia di questa sosta. Lasciamoci guidare dalle parole di don Giovanni Moioli che così descriveva “l’equivalenza” tra essere discepolo e condividere la croce.
«Non si è discepoli se non si dice di no a se stessi: questo significa condividere la croce per dire di sì a Dio, al suo volere, alla concezione della vita come dono di se stessi, vivendo come Gesù Cristo, diventando come lui, decidendo che il modo di essere uomini che ci appare in lui è il modo giusto, non soltanto in generale, ma per ciascuno di noi.
Essere discepoli e condividere la croce sono due cose equivalenti; il dire di no a se stessi perché si dice di sì a Dio è una specie di croce, ci fa vivere in un certo modo, ma facendoci anche morire. Certo non è la morte fisica, ma uno ha l'impressione che muoia qualcosa o qualcuno dentro di lui, soprattutto in certi momenti, quando si è di fronte a una decisione importante.
L'essere discepoli ci fa dunque vivere in un modo che, portato alle estreme conseguenze, è quello che ci appare nel Crocifisso: sono le due dimensioni dell'abbandono fiducioso in Dio e della dedizione ai
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fratelli. Sono le due facce della carità: l'amore di Dio e l'amore del prossimo.
Si può anche accettare di essere discepoli, perché non ci pensiamo troppo bene e ci pare che non ci inquieti più di tanto. Ma quando si dice che c'è una equivalenza tra essere discepoli e condividere la croce, allora sorge la domanda: questo condividere la croce come un dire di no a se stessi è una proposta umana o disu-mana? Nasce in noi la meraviglia: non sarà una follia, uno scandalo? Non sarà questo semplicemente la negazione dell'umano? Non sarà qualcosa di disumano?
Sarò ancora libero sarò ancora me stesso, se la mia coscienza dev'essere misurata su Gesù Cristo e la mia libertà deve essere orientata a camminare dietro a lui?
E' come se ci fosse chiesto di convertire e di battezzare e di rievangelizzare l'incredulo che è dentro di noi che si esprime in infinite maniere e infinite direzioni e che, continuamente, di fronte alla esigenza di essere discepolo, sente che deve morire.
Occorre ricondurre tutto in noi stessi alla fede, cioè al senso delle cose e della vita che ci è apparso in Gesù Cristo e nella sua parola; tutto, anche il corpo, anche l'affettívità, anche lo sguardo, anche l'uso dell'intelligenza e della libertà.
Il problema non è di tirar via un pezzo di noi stessi, ma è di come noi siamo. Quando uno di noi accetta di mettersi dietro al Signore, allora comincia a diventare discepolo. Il credente che siamo noi, viene dietro molto più faticosamente rispetto a quel credente, che siamo ancora noi, che «dice» le cose della fede. Ci costa metterci dietro. Quel noi che deve morire è quello che preferirebbe star davanti e far da inciampo al Signore che cammina.
Prima ancora del dolore, il diventare credenti è la nostra prima croce.
Ma il modo credente di vivere è quello vincente, perché Gerusalemme è il luogo dell'offerta suprema, ma anche il luogo della risurrezione. Fidandoci del Signore, accettando di diventare discepoli, il qualcuno che muore in noi, permette a quel qualcuno, che siamo ancora noi, di essere vivo, di vivere non in una qualunque maniera, ma secondo il Signore». (cfr G. Moioli, La parola della croce, Glossa).
Possano queste parole essere un aiuto per divenire sempre più
“discepoli del Signore”. Buona Pasqua! Comunità La Parabola
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LA PAROLA
don Severino Pagani
DIO MIO , PERCHÉ? DAL VANGELO DI MATTEO (27, 45-55)
Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: "Elì, Elì, lemà sabactàni?", che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: "Costui chiama Elia". E subito uno di loro corse a prendere una spugna e, imbevutala di aceto, la fissò su una canna e così gli dava da bere. Gli altri dicevano: "Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!". E Gesù, emesso un alto grido, spirò. Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti. Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: "Davvero costui era Figlio di Dio!". C'erano anche là molte donne che stavano a osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra costoro Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedèo. Il grido della preghiera: 27,46
L'evangelista Matteo lascia che tutti gli altri parlino e scherni-scano, ma fa tacere Gesù fino all'ora nona, quando egli "gridò a gran voce", pronunciando il lamento per l'abbandono di Dio. C'è chi pensa che il grido di Gesù (27,46.50) sia stato un grido di disperazione. Gesù ha condiviso - si dice - la condizione dell'uomo disperato. Ma non è così. Il grido di Gesù non è stato l'urlo di un uomo che ha totalmente
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fallito la sua esistenza e vede crollare inesorabilmente le sue pretese messianiche. A escluderlo basta ricordare che l'intero racconto della passione ha sullo sfondo la figura del giusto sofferente, che è la figura dell'uomo abbandonato, ma non disperato. Nessun testo biblico che parla del giusto sofferente finisce nel vuoto della disperazione. In particolare il Salmo 22, qui pronunciato da Gesù nei suoi primi versetti, si conclude con parole di rinnovata fiducia. La profonda angoscia dell'uomo biblico si conclude sempre nella speranza, mai nella disperazione.
Non c'è dubbio che il grido di Gesù sia stato una preghiera: una preghiera gridata, ma sempre una preghiera, una preghiera di nuda e disadorna fede in Dio.
Gesù gridò a gran voce: il verbo “gridare” utilizzato dall’evangelista è il verbo boan. II boan dell'uomo non è un grido inutile che si perde nel vuoto sordo e impassibile, bensì il richiamo ad un interlocutore che ci ascolta. L'uomo che ripone ogni fiducia in se stesso ammutolisce nel suo dolore. L'uomo invece che sa di essere di fronte a un interlocutore divino può aprirsi con lui nel suo tormento, mentre chi ignora questa apertura e questa preghiera viene inghiottito dalla solitudine. Anche l'uomo biblico conosce la desolazione di chi si sente abbandonato da Dio. Ma dal fondo di questa solitudine disperata e mortale sgorga il grido che esprime la totale remissione al Dio che gli sta di fronte. La preghiera che si fa domanda
Gesù è il giusto abbandonato nelle mani degli empi, e nella
sofferenza grida al Signore. Ma a differenza di molte preghiere anticotestamentarie, egli non invoca da Dio vendetta, né giustizia, ma la sua compagnia. Il grido di Gesù è rivolto unicamente a Dio e riguarda Dio. Sulla croce Gesù parla a Dio e a nessun altro. E a Dio non chiede aiuto, ma presenza.
Se la tradizione evangelica ha prediletto il Salmo 22, facendone il Salmo della croce, non è stato per caso. In altre preghiere il giusto prega in situazioni di difficoltà, nel pericolo di essere abbandonato, e invoca Dio perché non lo abbandoni. Nel Salino 22, invece, il giusto si sente già abbandonato. E perciò non invoca di non essere abbandonato, ma chiede perché è stato abbandonato: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Così la preghiera del giusto, più che invocazione di aiuto, esprime il desiderio della presenza. La preghiera di Gesù è la domanda del perché della sofferenza innocente, della verità sconfitta, dell'amore inutile. La domanda di Gesù è la
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domanda dell'uomo, la domanda radicale e decisiva. Condividendo questa radicale domanda dell'uomo, il Figlio di Dio ha mostrato tutta la sua solidarietà con l’uomo. Il grido della morte: 27,50
Come nel vangelo di Marco, anche nel racconto di Matteo Gesù muore con un alto grido: «Ma Gesù, avendo di nuovo gridato con voce forte, emise lo spirito» (27,50).
Matteo ha però operato sottili cambiamenti nell'asciutta descrizione di Marco. Per indicare il grido senza parole della morte, l'evangelista cambia il verbo: non più anabao (gridare), ma krazo (gridare senza articolare parola, gridare semplicemente di dolore, non per farsi udire da lontano). Dal punto di vista linguistico è il massimo di cui l'angoscia possa disporre. Il suo intento è di collegare il grido della morte al grido della preghiera. Per questo dice «gridò di nuovo» e utilizza un verbo che evoca il Salmo 22. L'ultimo grido di Gesù, per-ciò, non è stato solamente il grido della morte, il modo più umano di morire, ma il grido della preghiera che è il modo umano di pregare. Vorrei stare accanto a Gesù: a Gesù crocifisso. Vorrei ascoltare questo silenzio. Guardo una croce. È come se provassi il desiderio di osservare da lontano. Non ce la faccio subito ad avvicinarmi. Poi, per grazia, se il Signore vorrà, sarà Lui a chiamarmi in questa vicinanza dolorosa e purificante. Vorrei riconsegnare tutto di me: le mie bugie, le mie esagerazioni, la mia apparenza, la mia miseria, le mie povertà più nascoste; a lui consegno le mie umiliazioni. Davanti alla croce lascio parlare il Signore. Vede la mia vita: che cosa mi dirà? Davanti al crocifisso mi interrogherò sul mio rapporto colui, mio Signore e mio Dio. Crederò che proprio lì, sulla croce, posso vedere Dio. La persona di Gesù, la sua vita, il suo volto, il suo cuore, la sua personalità, le sue parole dette ai discepoli, i suoi miracoli, le sue commozioni, le sue decisioni e la sua morte sono il luogo in cui Dio ancora si rivela. Signore, insegnami la sapienza della croce. So che per imparare a morire devo liberarmi da ogni attaccamento e da ogni orgoglio. Mi lascerò difendere soltanto da te. Crederò alle intenzioni dei cuori. Porterò le fatiche e i peccati dei miei fratelli. Il loro peso sarà anche il mio e il mio sarà anche il loro. Imparerò a guardare la vita nella sua complessità. Diventerò un uomo o una donna di pazienza e di bontà, perseverante, tenace, con un cuore che non si lascia mai scoraggiare di fronte al bene. Con l’aiuto della tua santa grazia diventerò più libero, più puro, più povero.
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DAL VANGELO DI LUCA (23, 33-46)
Quando giunsero al luogo detto Cranio, là crocifissero lui e i due malfattori, uno a destra e l'altro a sinistra. Gesù diceva: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno". Dopo essersi poi divise le sue vesti, le tirarono a sorte. Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: "Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto". Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell'aceto, e dicevano: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso". C'era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei. Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!". Ma l'altro lo rimproverava: "Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male". E aggiunse: "Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". Gli rispose: "In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso". Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo. Gesù, gridando a gran voce, disse: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito". Detto questo spirò. «Padre, perdonali»: 23,34
Il Crocifisso di Luca non sta in silenzio, ma parla: alle folle, al Padre, al ladrone pentito. Eccetto che per il morire, Gesù è il soggetto soltanto di verbi di dire. La prima parola di Gesù è stata per le donne, invitandole a convertirsi. La seconda parola è per i suoi crocifissori: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno (23,34). Gesù non solo perdona, ma scusa. Non muore minacciando il giudizio di Dio, ma perdonando e scusando. Il perdono non è certo solo rivolto ai romani, bensì anche agli ebrei, a tutti. Questa misericordia di Gesù non sorprende il lettore. Tutta la passione secondo Luca è infatti attra-versata dalla misericordia: il gesto di Gesù che guarisce l'orecchio del servo del sommo sacerdote, lo sguardo a Pietro che lo rinnega, la parola del perdono ai crocifissori.
L'amore verso i nemici è una delle caratteristiche più tipiche dell'insegnamento di Gesù. La preghiera sulla croce esprime il dono totale di sé da parte di Gesù e il suo amore «sino alla fine» per tutti gli uomini. Davanti agli occhi egli ha soltanto e unicamente la loro salvezza.
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Gesù manifesta così la grandezza del suo cuore, la
comprensione verso la debolezza dell’umanità, l’invito a costruire un’anima universale, la dimensione magnanima della preghiera cristiana, l’anelito missionario della sua missione messianica, la necessità di verificare i nostri pensieri, sentimenti, risentimenti, giudizi.
«Gesù diceva»: il verbo all'imperfetto suggerisce una richiesta ripetuta, un'invocazione insistente. Gesù ha pronunciato la preghiera del perdono più di una volta.
Gesù non dà personalmente il suo perdono, ma lo chiede al Padre. Deve essere chiaro che il suo perdono rinvia a quello del Padre. La croce è lo splendore del perdono del Padre.
Morire perdonando è un tratto essenziale del martire cristiano. Luca lo ricorderà anche negli Atti degli Apostoli, raccontando il martirio di Stefano (7,60): «Signore, non imputar loro questo peccato». Dire che nella passione e sulla croce Gesù è la figura del martire è esatto, ma debole. Gesù è il rivelatore. Come si è già suggerito, sulla croce Gesù è la figura dell'amore di Dio per l'uomo, non semplicemente dell'amore dell'uomo per Dio. «Gesù, ricordati di me»: 27,39-43
Luca prosegue raccontando una dopo l'altra le reazioni dei due malfattori «appesi» con lui. Le due figure sono radicalmente contrapposte. Il primo malfattore è probabilmente un indomabile zelota, che anche nella morte resta fedele alla sua scelta di ribellarsi al dominio straniero per instaurare il regno di Dio. Per lui un Messia che muore in croce e non salva se stesso, né quelli che hanno lottato per la sua causa, rappresenta una insanabile contraddizione. Merita soltanto ironia e disprezzo. Il verbo scelto dall'evangelista è «bestemmiare», che dice insieme lo scherno e l'irriverenza. Come sempre di fronte allo scherno, Gesù non dice parola. Interviene invece l'altro malfattore: diversamente dal primo, confessa senza attenuanti la propria colpa, riconosce l'innocenza di Gesù e a lui si affida. Accogliendolo prontamente, Gesù compie nella sua morte ciò che ha fatto lungo tutta la vita: accogliere i peccatori (15,2). E mostra, al tempo stesso, che la sua salvezza è diversa da quella sognata dai capi, dai soldati e dal malfattore ostinato.
Si noti la solennità della promessa di Gesù («in verità») e la sua sicurezza («ti dico»). Qui Gesù non prega, non chiede a Dio, ma garantisce. Il ladrone pentito si è affidato a lui prontamente («Gesù, ricordati di me»), e Gesù risponde con la sua persona, assicurandogli
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una vita di comunione con lui («sarai con me») e subito («oggi»). A una domanda che rimandava al futuro («quando sarai nel tuo Regno»), Gesù risponde con un rinvio al presente («oggi»).
Sbaglieremmo se nell'episodio dei due malfattori sotto-lineassimo soltanto la misericordia. In realtà è fortemente presente anche il giudizio, che è l'altra faccia della misericordia. Un peccatore guarda Gesù in croce e chiede perdono ed è accolto nel suo Regno. Un altro peccatore guarda lo stesso Gesù in croce e bestemmia. Perché uno sì e l'altro no? Nulla ci è detto, e nulla bisogna dire. È il mistero dell'amore di Dio e della libertà dell'uomo, che occorre sempre ricordare, ma che non si può scandagliare, se non ciascuno all'interno di se stesso. Di fronte alla croce, come a ogni altro gesto di Dio, gli esiti possibili sono due. E il lettore è invitato a confrontarsi con ambedue: con il primo per ricordare che la misericordia di Dio è sempre disponibile, e con il secondo per non dimenticare mai quel santo timore che rende umili e vigilanti. Nella mia adorazione davanti alla croce cercherò di conoscere l’amore. Cercherò di andare oltre la giustizia a motivo di una gratuita giustificazione, perché siamo stati resi santi da peccatori che eravamo. C’è una cattiva giustizia che si presenta come durezza di cuore, come incapacità di perseveranza, come desistenza di fronte ad una forma di amore più grande. Rispunta tutte le volte che dico: si è vero, ma… E dietro questo ma le responsabilità degli altri, il peso della storia, il peccato di molti rendono freddo l’amore. Ora, dinnanzi alla croce, capisco che saprò andare oltre la giustizia a motivo della giustificazione. Per imparare davvero ad amare dovrò passare ancora attraverso molte purificazioni. Saprò sostare soffrendo nella preghiera.
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mie
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Pie
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13
Allo
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Pie
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e
volte
».
E,
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ito,
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nse
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men
te.
(Lc
22
, 6
1-6
2)
Q
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do
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inci
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(2
2,
14
-15
) -
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ù
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«Ho
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». M
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, 5
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elle
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che
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cilm
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ietr
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he
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veg
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Set
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Kairós – La Preghiera
21
LA PREGHIERA
SALMO 54
SE SI POTESSE FUGGIRE…
Allora Gesù cominciò a provare tristezza e angoscia… …si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo:
«Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!»
( Mt 26, 37-39 ) Canto di un uomo tradito e umiliato, che ripete senza fine il suo interminabile lamento. A tre riprese egli descrive il suo tormento di uomo calunniato, rattristato nel vedere la corruzione della città santa, abbandonato dal suo migliore amico. Ah, se potesse evadere da questa miseria che l’assedia! Viene fatto di pensare alla preghiera di un Geremia perseguitato dai suoi avversari e a Gesù, l’uomo dei dolori, tradito da un amico. E’ la preghiera per i giorni nei quali ci si sente affranti dalle lotte della vita, dall’ostilità degli uomini e delle cose; si vorrebbe sfuggire alla tenaglia, rifugiarsi in un angolo, lontano da tutti, per non incontrare più nessuno. Ma soltanto la presenza di Dio può liberare il cuore prigioniero della propria sofferenza. Porgi l'orecchio, Dio, alla mia preghiera, non respingere la mia supplica; dammi ascolto e rispondimi, mi agito nel mio lamento e sono sconvolto al grido del nemico, al clamore dell'empio. Contro di me riversano sventura, mi perseguitano con furore. Dentro di me freme il mio cuore, piombano su di me terrori di morte. Timore e spavento mi invadono e lo sgomento mi opprime.
Kairós – La Preghiera
22
Dico: «Chi mi darà ali come di colomba, per volare e trovare riposo? Ecco, errando, fuggirei lontano, abiterei nel deserto. Riposerei in un luogo di riparo dalla furia del vento e dell'uragano». Disperdili, Signore, confondi le loro lingue: ho visto nella città violenza e contese. Giorno e notte si aggirano sulle sue mura, all'interno iniquità, travaglio e insidie e non cessano nelle sue piazze sopruso e inganno. Se mi avesse insultato un nemico, l'avrei sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio camminavamo in festa. Piombi su di loro la morte, scendano vivi negli inferi; perché il male è nelle loro case, e nel loro cuore. Io invoco Dio e il Signore mi salva. Di sera, al mattino, a mezzogiorno mi lamento e sospiro ed egli ascolta la mia voce; mi salva, mi dà pace da coloro che mi combattono: sono tanti i miei avversari. Dio mi ascolta e li umilia, egli che domina da sempre. Per essi non c'è conversione e non temono Dio. Ognuno ha steso la mano contro i suoi amici, ha violato la sua alleanza. Più untuosa del burro è la sua bocca, ma nel cuore ha la guerra;
Kairós – La Preghiera
23
più fluide dell'olio le sue parole, ma sono spade sguainate. Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno, mai permetterà che il giusto vacilli. Tu, Dio, li sprofonderai nella tomba gli uomini sanguinari e fraudolenti: essi non giungeranno alla metà dei loro giorni. Ma io, Signore, in te confido. Preghiamo Signore Dio, Padre nostro, che hai ascoltato la preghiera del tuo figlio Gesù e lo hai liberato dall’angoscia e dalla morte, sostieni la nostra debolezza nei momenti di paura e di tristezza e aiutaci a compiere sempre il tuo volere. Amen.
Kairós – Letture Spirituali
24
LETTURE SPIRITUALI
Luigina Mascheroni
ADRIENNE VON SPEYR (1902-1967)
Nasce in una agiata famiglia svizzera a la Chaux–de-Fonds il 20
settembre 1902, secondogenita di quattro figli. Sin da piccola appare profondamente convinta di essere alla ricerca di in Dio «diverso», differente da quello formalmente osservato nel clima protestante ed austero della sua famiglia, diverso da quello predicato dal suo professore di religione al liceo.
Questa sensibilità religiosa, che urta profondamente la madre, con la quale si instaurerà un rapporto critico e difficile, viene invece compresa a fondo dalla nonna, che sapeva raccontare storie, «anche storie del buon Dio. E quando raccontava del buon Dio si era sicuri: lei lo conosceva bene».
Anche la professione che il padre, noto oculista a Basilea, esercita in compagnia della figlia, la conduce in quegli anni giovanili alla scoperta del Dio «altro»: Egli è anche il padre dell’amore del prossimo, che incontra numerose volte in ospedale. Cresce così in Adrienne il desiderio di diventare medico: è il prossimo sofferente, il povero vulnerabile, il malato indifeso che rappresentano i suoi pazienti privilegiati, quando ormai nota dottoressa in città, vedrà riempire il suo ambulatorio di questa umanità dolente. A queste persone abbandonate, povere, addolorate, prive di sostentamento, di guida, di speranza, si dedicherà con passione, con generosità, organizzando raccolte in denaro tra i familiari e gli amici, ma anche cercando di leggere dentro il dramma di tante giovani vite disperate, di curare le tante malattie dello spirito, che paralizzano la speranza e deprimono il gusto della vita.
La malattia, il dolore non furono certo per lei, sin da giovane, solo un «oggetto» della sua premura spirituale. Poco più che quindicenne perse il padre per una improvvisa malattia e ciò causò, fra l’altro, un penoso cambiamento del tenore di vita di tutta la famiglia. I lavori di casa, soprattutto affidati ad Adrienne, obbligata dalla madre a frequentare, oltre al liceo, la scuola commerciale, finiscono per stroncare la sua salute: nel 1918 le viene diagnosticata una grave forma di tubercolosi, che si aggiunge alla povertà materiale:
Kairós – Letture Spirituali
25
«finalmente appresi – annota Adrienne – nel più profondo di me stessa cosa significa essere un mendicante».
A Leysin, dove viene mandata per curarsi, prova il gusto dell’amicizia e della solidarietà con le altre ragazze, discute con loro di problemi religiosi, organizza una serie di conferenze su vari temi, quali il rapporto tra obbedienza e libertà, il pensiero di Dostojewskij, il tema della verità religiosa.
Dopo la guarigione, la sua strada è seminata di difficoltà e di incomprensioni familiari, dovute alla sua irrevocabile decisione di diventare medico, che si scontrava con l’altrettanto irrevocabile rifiuto della madre e di uno zio, preoccupato per la salute precaria. Adrienne non demorde e dopo aver recuperato i tre di studio liceale e l’esame di maturità, frequenta la facoltà di medicina. Sono questi anni difficili e faticosi, raccontati con arguzia e serenità nei suoi diari, anni in cui sente crescere in sé lo stupore e il «miracolo» dell’amicizia con i colleghi e della solidarietà con i malati. Il Signore non è poi così lontano e diverso; anzi ora le sembra «molto più accompagnato»; ammira con rispetto l’ascesi silenziosa di molte suore in ospedale, percepisce che bisogna amare molto «per fare una sintesi di Dio e del mondo».
Alle soglie della laurea, nell’estate del 1917, incontra Emil Dürr,
professore universitario di storia, vedovo con due bambine, subito profondamente innamorato di questa giovane brillante ed intelligente. Dopo un periodo di riflessione e di titubanza: «Credevo molto fermamente di essere destinata alla verginità, ma non ne vedevo la forma; mi sembrava che un legame è assolutamente necessario; lo vedevo, anche nel matrimonio, come un legame a Dio, ma in quale modo?».
Accetta così con serenità e accondiscendenza di sposarsi con Emil, convinta che «si è creati per ciò che Dio vuole e non per ciò che io voglio. Questo intendo con la parola purezza».
Sono questi gli anni dedicati all’inizio dell’attività
professionale, prima in ospedale, poi dal 1931 in un ambulatorio privato a Basilea: qui svolse per decenni l’immenso compito sia professionale che spirituale dentro uno studio sempre sovraffollato, luogo di un servizio speso nel silenzio e nella modestia, nonostante che le incredibili doti taumaturgiche della dottoressa von Speyr riempissero la città, soprattutto dopo la conversione al cattolicesimo nel 1940.
In questi dieci anni di paziente, sofferta attesa dell’incontro con Dio, Adrienne matura la convinzione e l’aspirazione di una esistenza
Kairós – Letture Spirituali
26
sempre più unificata nell’illimitata appartenenza al Signore che deve venire, e nell’altrettanto illimitato impegno della sua professione in mezzo agli uomini: sono questi i primi consapevoli stadi di maturazione verso l’unità di vita nei consigli evangelici e di vita nella professione secolare, che rappresenta il caposaldo teologico della comunità di san Giovanni, da lei fondata in seguito con il teologo von Balthasar. E’ quell’unità «tra cielo e terra» che spesso le viene suggerita attraverso esperienze straordinarie (come preveggenze e visioni soprannaturali) e che appaiono misteriosamente scandite da altrettante esperienze dolorose.
Dopo sei anni di matrimonio, nel 1934 Emil Dürr muore improvvisamente ed Adrienne venne colta da una terribile angoscia, che la portò a pochi passi dal suicidio. Un amico cattolico l’aiutò a superare questo difficile momento, restituendola al suo lavoro e ai bambini di Emil.
Nel 1936, dopo un periodo di «intensissima riflessione» si risposa con il professor Werner Kaegi, quasi una risposta inconsapevole e obbediente ad una forma di vita, forse mai coscientemente scelta, eppure accettata e vissuta con impegno e generosità. Tutto questo non sembra limitarla affatto nel suo successivo, cosciente voto di verginità fatto all’interno della sua comunità di persone consacrate.
C’è qui un mistero di grazia che va difeso e contemplato, più che analizzato e spiegato attraverso una esegesi ossessiva dei carteggi e dei diari: grazie alla sua duplice quanto «ministeriale» esperienza dei due «stati di vita», Adrienne ci ha lasciato opere sulla verginità consacrata di alto valore ascetico, oltre che un volume Theologie der Geschlechter non ancora pubblicato, ma che può illuminare «il grande dono» della ministerialità coniugale.
Gli anni dal 1936 al 1940 sono soprattutto dedicati al tentativo di chiarire definitivamente la sua «posizione» religiosa, tuttavia i contatti sia con pastori protestanti che con sacerdoti cattolici la deludono. Era inoltre ancora ferita dal trauma della morte di Emil, soprattutto nel momento in cui, recitando il Pater Noster si sentiva come bloccata ad esprimere in piena libertà il «sia fatta la tua volontà». Adrienne sentiva di non riuscire ancora ad accettare quella morte e quella volontà, quasi che le fosse per sempre impedita la preghiera e con essa la possibilità di porsi in piena trasparenza con Dio.
Presa da questi tormenti interiori e da problemi di salute,
finalmente, nell’autunno del 1940, avvenne l’incontro decisivo con il teologo gesuita Hans Urs von Balthasar, giunto a Basilea come cappellano degli studenti universitari. Durante il primo incontro, preparato da una amico comune, Adrienne prese il coraggio e gli
Kairós – Letture Spirituali
27
spiegò che voleva diventare cattolica. «Subito parlammo della preghiera – ricorda il teologo – e appena le mostrai che con “sia fatta la tua volontà” non proponiamo a Dio la nostra opera, ma la nostra disponibilità ad essere assunti dalla sua opera e sempre impegnati in essa, fu come se avessi premuto inavvertitamente un interruttore che di colpo accende nella sala tutte le luci».
Finalmente Adrienne sembra aver trovato il «cuore del mondo», aver incontrato il senso e il fine della sua lunga ricerca, che diventa ora l’inizio di una straordinaria esperienza di vita.
«Dio cerca sempre persone che nel momento decisivo non hanno nessuna paura», dirà pochi giorni dopo il battesimo celebrato nella festa di Tutti i Santi del 1940. «Dio aspetta il nostro sì», avvolgendo il nostro assenso con il suo stupore e la sua meraviglia. Sin dai primi giorni Maria le dice che «la strada è ancora lunga. Apprendre, souffrir, progresser».
Apprendre, che vuol dire conoscere per amare. Souffrir, perché solo il patire può aprire la via della passione del
Figlio, può voler dire abbracciare tutta l’umanità per condividere il peso della violenza e del male.
Progresser, progredire, andare oltre. Bisognava, come amava dire, tentare, provare a pronunciare un assenso sempre più consapevole e totale, tenendo conto della sua non-finitezza, della sua imprevedibilità resa feconda dal Dio incommensurabile e pieno. Il senso dell’autentica vita contemplativa, come tentativo di aprirsi al mondo stando dalla parte di Dio e della sua Parola, diventa per Adrienne sempre più chiaro, perché incalcolabilmente fruttuoso dentro la vita attiva, spesa per i bisogni del mondo. Contemplazione e azione si fondono in quegli anni, saldate da una ferma disciplina di preghiera, quasi un velo mariano steso sulla sua vita intessuta, come tante, di ritmi quotidiani e di gesti silenziosi: l’attenzione ai bambini e alla famiglia, il lavoro in ambulatorio, la cura dei poveri, e poi l’approfondimento teologico maturato nell’intesa sempre più feconda con von Balthasar, che l’apre anche all’amicizia con Romano Guardini, Hugo Rahner, Henry de Lubac.
Il primo frutto della sua carismatica è rivolto all’esterno, ad altri,
con i quali è assolutamente urgente condividere il gusto della pura obbedienza a Dio e il dono della carità ai fratelli. Adrienne sente tutto il peso del compito particolare a lei affidato e si sforzerà di viverlo come servizio assegnatole da Dio per la Chiesa universale, senza indulgenza verso se stessi, senza autocompiacimento, l’anima deve farsi «anfora del mistero di Dio», vaso riempito della sua carità.
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Nasce così nel marzo 1941 l’idea di fondare una nuova comunità di giovani ragazze non inserite all’interno dei tradizionali ordini religiosi, ma chiamate ad una maturazione più consapevole dei consigli evangelici, per inserirsi nel mondo con nuove energie: l’8 dicembre 1944 avvenne l’incontro di fondazione della Comunità di San Giovanni, nella quale era fondamentale l’aspirazione ad una «clausura del cuore», ad una vita intensa di preghiera, che oltre agli incontri comunitari, lasciasse spazio all’orazione personale. La comunità iniziò dunque il suo cammino illuminato da quello di Adrienne, che ogni giorno, dopo le visite ambulatoriali, verso le tre di pomeriggio, arrivava all’appartamento, sede della comunità, e oltre ai colloqui personali teneva una sorta di lectio divina sul Vangelo di Marco. Il carisma della comunità andava via via delineandosi: «scegliere persone che servano la Chiesa, ma non da suore, bensì da persone che vivono nel mondo, esercitando una professione, sono brave nel loro lavoro e vivono la loro vita alla luce della meditazione giornaliera del Vangelo».
Adrienne, sino al 1940, non aveva letto nessun libro di teologia, né
lo farà in seguito, se non sporadicamente, sotto la guida di von Balthasar: lesse infatti le Lettere di Sant’Ignazio, le regole di san Benedetto e san Francesco di Assisi, C.Foucauld, un po’ di Newmann, san Giovanni della Croce e La storia di un’anima di santa Teresa del Bambino Gesù, che volle tradurre in tedesco.
Dopo la conversione l’interesse centrale è infatti rivolto alla Sacra Scrittura: solo dentro la Parola e facendosi «serva» di essa era convinta di comprendere il mistero e il dono della sua missione ecclesiale. Più che ai suoi speciali carismi (stigmatizzazione, visioni, guarigioni, ecc.) il dono profetico di Adrienne è consegnato ad una massa imponente dei commenti che attraversano l’Antico e il Nuovo Testamento, le Lettere paoline sino all’imponente commento dell’Apocalisse. Già pochi mesi dopo la conversione, ebbe le sue prime «visioni» che si ripetono anno dopo anno, rivelando nuovi e sorprendenti contesti teologici.
Quanto al suo metodo, Adrienne non specula, riferisce. Non elabora in una scrittura personale la concretezza della sua contemplazione biblica, ma lascia che sia un altro a trascrivere ciò che detta. Questa inedita forma di comunicazione segue ogni giorno il suo ritmo quotidiano; intrattenendosi con i familiari, preparandosi una tazza di the, di ritorno dall’ambulatorio, ad una tratto si ferma assorta a riflettere su un versetto biblico; poi per una mezz’ora detta «ciò che vede» a von Balthasar. Chiamato a restare l’unico interlocutore diretto dei commentari dettati, il teologo gesuita, mai dubbioso della
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veridicità di ciò che ascolta trascriverà in quasi trent’anni di intensa comunione con Adrienne più di sedicimila pagine, preparandole per la stampa, assieme ai carteggi, alle pagine autobiografiche e ai volumi postumi.
Anche il dettare sembra rispondere appieno alla sua interiore esigenza dell’anonimato, là dove il dire il «sempre di più» dell’infinità della Parola viene direttamente consegnato all’altro, affidato perché venga accolto e custodito. Una modalità, questa, dell’essere a disposizione, come i profeti dell’Antico Testamento che si facevano «orecchio » di Dio, Adrienne pronuncia il suo sì facendosi trasparente trasmissione di ciò che le veniva mostrato da Dio.
Contemplazione e azione sono le linee che definiscono la
spiritualità di questa mistica: «(…) Gesù si raccoglie vicino a Maria e a Marta; contemplando l’amore del Padre, realizza il miracolo della vita restituendo Lazzaro alle due sorelle e al mondo. Segnale della sua futura vittoria sulla violenza della morte, il Signore prepara il compimento della sua missione, realizzando in sé, in nome del Padre, la duplice attitudine della contemplazione e dell’azione, indicando alle tante Marte, alle tante Marie sparse sulla storia, l’unica e assoluta vocazione all’amore. (…)»
Come dall’aspetto della pianta – nota ancora la von Speyr - si può dedurre indirettamente lo stato di salute delle sue radici, così dalla vita del credente nel mondo i può risalire sino al fondamento della sua fede. La radice è invisibile: è il mistero dell’unione dell’uomo con Dio, che viene alimentata da quella sfera della contemplazione e della preghiera che resta inaccessibile agli altri. Ma in ciò che è esteriormente visibile, nel momento cioè di attuazione di un progetto, in una prova di amore, in una azione diretta ad una fratello, è possibile intravedere la luce di un mistero di grazia che resta inaccessibile.
«La vita cristiana comprende così sempre entrambi gli aspetti dell’azione e della contemplazione, uno visibile e l’altro sottratto agli sguardi; ma entrambi, soggetti a un certo scambio, si mostrano autentici perché nascono dall’unità del Signore, ritornano ad essa, lo fanno conoscere».
Nonostante le differenti modalità incarnate dall’opera di Marta e dall’adorazione di Maria, i due stati di vita reclamano, per Adrienne, «un certo scambio», un’alternanza feconda dentro la vita del credente. Invocando un’attitudine spirituale profonda, tipica della Madre di Gesù, che teneva lo sguardo rivolto via da sé, si è chiamati a realizzare la misura del «come» dell’amore vivendo dentro l’azione, immersi nella contemplazione.
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In questo dinamismo interiore, sostenuto dai doni dello Spirito,
Adreinne coglie l’essenza della vita mistica, che è intessuta giorno dopo giorno dei tanti gesti quotidiani che seminano ascolto e pazienza, attenzione e servizio, accoglimento e adorazione. In una miscela di amore e di dolore il contemplativo attivo o, che è lo stesso, l’attivo contemplativo raccoglie attorno a sé la povertà del mondo per restituirla, fecondata di amore, alla contemplazione del Padre.
E ritrovare così nell’unità di cielo e di terra, l’aspirazione nostalgica e infinita ad una vita di santità.
Le sue condizioni di salute, che si aggravano nei primi anni
Cinquanta, la costringono a rinunciare, con sua grande sofferenza, alle visite ambulatoriali. Nel 1964 perse la vista, le rimaneva un po’ del suo lavoro a maglia e la corrispondenza con numerose persone, soprattutto religiose, in Germania e in Francia, che da anni mantenevano uno stretto contatto con lei. Amava dire in quei mesi di terribile agonia: Que c’est beau du mourir!, perché la riteneva la condizione assolutamente privilegiata di avere solo Dio davanti a sé. Morì il 17 settembre 1967.
LE PREGHIERE DELLA TERRA
Preghiera del mattino Padre dei cieli, tu hai distinto il giorno dalla notte perché entrambi
si trasformassero in un monito e in una gioia per noi: il monito a ricordarci di te, la gioia di servirti in tutto. Perciò anche il giorno che spunta ora deve appartenere a te, deve divenire un giorno della tua chiesa, un giorno dei tuoi figli. E’ ancora fresco come un puro mattino, tutto in lui ancora attende di essere plasmato. Sappiamo che esso ti appartiene perché tu lo hai creato. Sappiamo che, in obbedienza a te, dovremmo farne un giorno privilegiato: uno spazio in cui in ogni istante e in ogni luogo tu possa abitare, uno spazio riempito da te, in cui tu possa anche esigere da noi che eseguiamo il compito che ci hai indicato. Rendici puri, donaci buoni sentimenti, fa’ che compiamo con gioia ciò che il nostra servizio chiede.
Tu hai distinto il giorno dalla notte, tuttavia fa’ che noi non distinguiamo fra ciò che compiamo volentieri e ciò che ci appare faticoso. Aiutaci piuttosto ad accettare con animo grato e sereno, come ricevendolo dalle tue mani, tutto ciò che questo giorno ci riserva;
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aiutaci a parteciparvi interiormente e a farne ciò che tu hai previsto secondo il tuo progetto. Fa’ che la nostra capacità di ascolto sia aperta e chiara, così come chiaro e trasparente a te è il giorno. E se il giorno porta con sé qualcosa di oscuro e torbido, lo sappiamo: sono le oscurità della nostra natura incerta e della nostra ignoranza, cui ogni decisione riesce difficile.
Tu non hai solo diviso, ma da sempre hai anche deciso: fa’ che anche noi affrontiamo con fermezza il nostro compito e che prendiamo la decisione che tu attendi da noi. Per amore hai diviso il giorno dalla notte: fa’ che viviamo del tuo amore, che esso sia operante in noi, che noi ti offriamo, insieme col Figlio tuo, ogni azione della nostra giornata, così che sia compiuta nel suo Spirito. Amen.
ALL’INIZIO DELLA MESSA Signore, ci siamo ritrovati insieme nella tua casa. Fa’ che non
siano solo dei segni esteriori ad indicarci che siamo nel luogo in cui tu abiti. Facci sentire piuttosto il tuo Spirito, te ne preghiamo, in modo che ci inginocchiamo davanti a te con il cuore già cambiato, pronti ad accogliere tutto ciò che vorrai mostrarci, pronti anche ad abbandonare tutto ciò che non è compatibile con te. E come, appena entrati nel luogo in cui tu sei, abbiamo chiuso le porte alle nostre spalle, fa’ che dimentichiamo ciò che appartiene solo a questo mondo, ciò che potrebbe distogliere il nostro pensiero da te, tutto ciò insomma che non appartiene al tuo amore ed è incapace di servirlo. Tu vedi bene che siamo deboli e imperfetti: con quanta fatica ci siamo risoluti a venire oggi da te, quanta importanza diamo a ogni ostacolo, pronti ad avviarci per vie diverse dalle tue. Estirpa dunque a noi, Signore, questo cuore incapace d’amore. Serba in noi puri pensieri, fa’ che diveniamo consapevoli nello Spirito che siamo presso di te, che aspettiamo te, che tu ci prometti e doni non solo la tua presenza accanto a noi, ma la tua dimora in noi. (…) Che durante quest’ora non pensiamo a tutte le cose possibili che non hanno nulla a che fare con te, bensì preghiamo per ciò a cui ci richiami: con uno spirito aperto poiché tu ci apri al tuo spirito, con un cuore umile poiché in un cuore così tu vuoi abitare, con un’anima amante, poichè tu sei l’Amore. Benedici, rivela, donaci l’amore. Amen.
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PREGHIERA NEL TEMPO
Padre, tu ci hai affidato il tempo che passa come un dono della tua
grazia e della tua presenza. Tu vivi nel tempo eterno, allo stesso modo noi, finchè siamo in vita, dobbiamo restare nel tempo che si consuma. Tuttavia non siamo abbandonati, ma unti a te in un’alleanza, preparata e offerta fin dalla creazione, rinnovata e arricchita di nuovo spessore e nuova efficacia con l’Avvento del Figlio tuo. E se gli anni si dissolvono, essi sono solo una fila continua di giorni che scivolano su di noi, e noi li attraversiamo: lungo tutto questo tempo, il nostro scopo è solo di cercare ciò che tu ci mostri, sperimentare il tuo amore, rimanere racchiusi in te così come il tempo è tutto racchiuso nella tua eternità. Sappiamo che siamo nelle tue mani, che tu disponi tutto e pretendi una cosa sola: l’impegno ad amarti più che possiamo, non singolarmente te, ma te con il Figlio e lo Spirito nell’unità che tu rappresenti dall’origine dell’eternità. Il nostro amore può essere solo risposta e amore di risposta, perché tu, eterno amore trinitario, ci ami sempre pr primo.Non permettere che questa nostra risposta venga mai meno; rendila piuttosto così forte che in essa tu possa sempre percepire il riflesso della tua luce. Amen.
PER LA PERSEVERANZA Signore, nostro Dio, fa’ che i tuoi figli perseverino nell’amore per
te. Tu sai bene come siamo: commossi dalla tua bontà quando ci giunge inattesa, colpiti dalla tua severità quando si rivela esigente. Nelle esperienze felici o difficili pensiamo a te perché vediamo ciò che viene da te; ma la monotonia del quotidiano ci rende tiepidi, ti dimentichiamo, ti teniamo lontano dai nostri pensieri e dalle nostre azioni; è come se ti considerassimo necessario solo nei giorni eccezionali, come se volessimo disporre di te per le nostre esigenze. Ti preghiamo di mutare questa situazione e di convertirci, finchè siamo in tempo. Disponi di noi: scuoti la nostra apatia, trasformala in fuoco o in gelo o in entrambi insieme, ma permetti al tuo Spirito di soffiare in noi. Distruggi tutto ciò che non è tuo, non lasciare in noi nessun pensiero di cui tu non sia il centro, per trascinarci così nell’amore eterno. Non pretendiamo che questo amore sia pieno di dolori o pieno di gioie, ma solo che sia sempre tuo.
Signore, dacci la grazia di offrirti sempre ciò che tu hai dato: solo così noi, servi inutili, non rimarremo senza frutto.
Benedici il tuo amore in noi, perché porti i frutti che tu vuoi. Amen.
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PER MARIA A CRISTO Signore, prima di farti uomo e affrontare il dolore, hai invitato tua madre a farti da madre, ad affrontare con te i tuoi sacrifici ma anche a dividere con te le sue gioie. La grazia che tu le hai conferito, per cui ella è divenuta tua madre, è così grande e inesauribile che in essa c’è spazio per tutti coloro che ti cercano, per tutti che desiderano offrirti un sacrificio nella fede. Il sacrificio di una vita al tuo servizio, forse anche il sacrificio della dedizione a questo servizio o di umiliazioni e dolori imprevisti. Tu hai amato tua madre e le hai donato un amore così puro per te: perciò ti preghiamo, Signore, accoglici ogni giorno in questa grazia e riservaci un posto nella relazione fra te e tua madre. Ci sia permesso così di offrirti a nostra volta ogni suo sacrificio, di provare con te ogni sua gioia, di fare sempre e precisamente ciò che la madre attende da noi, con te, con il Padre e lo Spirito e con tutti gli angeli e i santi. Donaci la gioia e la grazia del servizio, oggi e in eterno. Amen. OFFERTA DI CIÒ CHE NON SI POSSIEDE
Signore, ti ho dato così spesso ciò che possedevo completamente;
lascia che ti offra ora tutto ciò che non ho, che mi fu sempre negato, a cui aspiravo sapendo che mi era irraggiungibile: la pace, il riposo, la sicurezza. (…) L’inutile affanno della mia inquietudine non mi affligge più: la pace è in te, tu l’hai presa in consegna, anche da me; tu puoi distribuirla di nuovo senza perdita. (…) Sii lodato, in te si trova ciò che cerchiamo; e ciò che credevamo di donarti di nostra iniziativa era in te già dall’inizio. Ti ringraziamo perché, nonostante questo, tu lo accetti anche da noi. Signore, non limitarti a prender ciò che non abbiamo, ma conservalo.
Solo il Signore è il fondamento: forse ci consente la raccolta di alcune spighe della semente da lui seminata; noi gli portiamo in dono ciò che era già suo. Un fuoco vivo non cessa di bruciare, finchè tutto è consumato e ridotto in cenere. Nessuno dà importanza alla cenere: dispersa in terra, inerte e invisibile com’è, essa non è feconda, ma può ancora essere macerata fino a sparire servendo a uno scopo che essa ignora. Signore, bruciaci fino a incenerirci, distruggici secondo il tuo volere. Anche se io dovessi ancora dire cosa voglio non ascoltarmi; anche contro ogni apparenza, credi che sono sempre solo tua e non conosco nessun’altra volontà che la tua. Amen. Bibliografia: A. von Speyr, Esperienza di preghiera, 1990, Jaca Book, Milano P. Ricci Sindoni, Adrienne von Speyr Storia di un’esistenza teologica, 1996, SEI, Torino
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Carlo Maria Martini
INTERCEDERE PER LA PACE CON
CREATIVITÀ E TENACIA
Gerusalemme, Quaresima 2003 Sono passati sei mesi da quando ho terminato il mio ministero attivo come Arcivescovo e in molti mi domandano, anche solo implicitamente, le ragioni del silenzio «sabbatico» tenuto in questo periodo, invitandomi a romperlo in qualche occasione particolare. Vorrei anzitutto precisare che non si tratta di un silenzio che si potrebbe un po’ definire come «dispettoso» (cioè di chi si tira fuori dai problemi con senso di superiorità o di sufficienza), né del silenzio detto «ossequioso», quello cioè di chi ha paura di disturbare autorità politiche o ecclesiastiche: si tratta di un silenzio che vorrei definire «rispettoso», che tiene conto cioè della mia nuova situazione di vita, del mio agire in parte a Roma e in parte a Gerusalemme e degli equilibri delicati che tutto ciò comporta. Ma vorrei definirlo al meglio un silenzio «sabbatico», ricordando quelle parole che noi sacerdoti anziani citiamo ancora della Bibbia «sabbato quidam siluerunt secundum mandatum» (Lc 23,56) dove la Bibbia della C.E.I. traduce «Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento»: che è poi quel medesimo antico comandamento che impone, per la santità stessa dell’uomo e i n ordine al servizio dell’Altissimo, l'alternarsi di lavoro e riposo, e quindi anche di Parola e di pause di silenzio. Ma vi sono pure occasioni e situazioni che invitano a fare eccezione a questa regola, per ragioni gravi. E terribilmente grave è certamente la situazione delle attuali minacce alla pace e delle violazioni della pace, messe più in rilievo da grandi e corali desideri di pace. Ci si deve certamente rallegrare di questa grande, spontanea, diffusa, praticamente unanime volontà di pace. Vi è in essa un riflesso del desiderio, di quella pace che è dono di Dio, della pace offerta a Betlemme agli uomini che Dio ama.
Questa volontà e questa ansia di pace, che totalmente condividiamo, ci spingono però a ricordare tre cose.
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La prima è che la pace ha un costo. Mi diceva un amico qualche
tempo fa, parlando della sua esperienza come straniero in una società travagliata da conflitti: questa società, nelle sue espressioni migliori, vuole sinceramente la pace, ma non sa decidersi a pagarne il prezzo. Va infatti ricordato che persino quel fiore raro e prezioso del Vangelo che talora viene chiamato (con una semplificazione terminologica) «non violenza», ha un prezzo preciso: «a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello» (Mt 5,40). Ciò significa che bisogna essere disposti a pagare un prezzo e a rinunciare anche a qualcosa a cui si avrebbe diritto. Non basta dunque invocare la pace: bisogna essere disposti a sacrificare anche qualcosa di prorio per questo grande bene, e non solo a livello personale ma pure a livello di gruppo, di popolo, di nazione.
Una seconda cosa che menzionerei è che la pace non è mai un edificio solido, costruito compatto una volta per tutte, ma somiglia piuttosto ad una tenda, a un castello di sabbia, da custodire e da ricostruire sempre con infinita pazienza («settanta volte sette» direbbe, Gesù, cfr Mt 18,22). In altre parole, non è sufficiente rifarsi soltanto a considerazioni etico-politiche (chi ha ragione, chi ha torto, chi è l'aggressore, chi è l'aggredito, l'uso della legittima difesa, l'eventuale possibilità di una guerra giusta ecc.). Occorre avere il coraggio di proclamazioni profetiche, che tengano conto della precarietà e peccaminosità della situazione umana storica.
Infatti la prima e perenne difficoltà nella costruzione della pace nella città degli uomini risiede in un dato antropologico che la Bibbia ricorda fin dalle prime pagine e cioè che «l'istinto del cuore umano è incline al male fin dalla adolescenza» (Gen 8, 21). Ogni volontà costruttiva della pace si scontra con la ineludibile aggressività umana, col desiderio insito in tanti di noi, persone e gruppi, di possedere ciò che è dell'altro, di avere più dell'altro, meglio dell'altro, togliendolo, se non c'è altro mezzo, anche con la forza. Tutto ciò costituisce una dimensione tragica dell'esistenza che non è lecito ignorare, fare come se non esistesse. In questo senso la sola e astratta sollecitazione di atteggiamenti belli ma carichi di utopia, senza inserirli nel contesto reale della struttura, dei bisogni e delle miserie umane, minaccia alla fine la causa stessa della pace.
Non per niente una delle tradizioni bibliche più antiche dice che la prima città fu fondata da Caino, allo scopo certamente anche di contenere e arginare quelle aggressioni scatenate che alla fine avrebbero potuto uccidere lo stesso Caino (cfr Gen 4, 17).
Il conflitto, l'uso della forza. la possibilità dello scatenarsi della violenza, sono dati di cui si deve tener conto nel programmare la vicenda umana, ciò che è compito soprattutto dei politici. È perciò
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inevitabile, per la pace di questo mondo, ideale sommo e sempre da perseguire con indomito coraggio, ritessere continuamente le fila di una concordia che non si illuda di sradicare dei tutto l'aggressività, ma che si proponga il compito, più modesto ma insieme più realistico, di moderarla fino al punto da preferire talora anche un compromesso, in cui ciascuno debba concedere qualcosa a cui avrebbe teoricamente diritto, in vista del superamento di una litigiosità violenta e senza fine. Si tratta cioè di superare il solo punto di vista etico-polifico per accedere a quel profetico «porgi l'altra guancia» (cfr Mt 5, 39) che non crediamo sia così utopico come sembrerebbe e prima vista.
La difficoltà perenne di una politica della pace (che sarà sempre una pace fragile e minacciata) sarà infatti proprio nella determinazione del punto di equilibrio tra le ragioni delle parti in causa e le possibilità pratiche di gestirle senza conflitto violento, in una sana dialettica che conduca tutti i contendenti alla rinuncia di qualcosa di proprio in vista della ricerca del maggior bene comune concretamente realizzabile qui e ora.
La terza verità da ricordare è che, per tutti i motivi detti sopra, una pace seria e duratura, là dove persistono ragioni gravi di conflitto, ha sempre un po' dei «miracoloso», dell'improbabile, del «dono dall'alto» («Vi do la mi . a pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi», Gv 14, 27) e perciò chi crede in Dio la deve chiedere nella preghiera con tutte le forze e anche chi non crede la deve invocare dal fondo della propria coscienza pronto a sacrificarsi con tutto se stesso. Occorre cercare la pace possibile e intercedere per essa con quella instancabilità con cui pregava Gesù nell'orto degli Ulivi «ripetendo le stesse parole» (Mt 26, 44), con quella costanza, perseveranza, creatività e tenacia di cui ci dà esempio Papa Giovanni Paolo Il.
Come afferma il Concilio Vaticano II, la pace (che è molto di più che non l'essenza di guerra o la presenza di un fragile armistizio) è il dono che va invocato e ricercato con l'aiuto di tutti: «La pace terrena che nasce dall'amore del prossimo, è immagine ed effetto della pace di Cristo, che promana da Dio Padre» (Gaudium et spes, n. 77).
Di qui si può anche intendere il senso vero e profondo dei fa-moso e sapiente detto biblico «opus iustitiae pax» (cfr Is 32, 7): «effetto della giustizia sarà la pace». Sì, la pace non può che essere frutto della giustizia, ma la pace di questo mondo non sarà soltanto il risultato di una giustizia mondana perfetta, che non si avrebbe mai nelle attuali aggrovigliate condizioni storiche, ma frutto di quella giustizia che è al momento ottenibile anche a prezzo di sacrifici e rinunce di singoli e di gruppi in vista di un bene comune più alto e condiviso. La pace perciò alla fine è opera di una giustizia che
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partecipa della giustizia divina, di una giustizia cioè che è anche perdonante, misericordiosa, riabilitante, capace di dimenticare i torti subiti. Card. CARLO MARIA MARTINI (articolo pubblicato su L’Osservatore Romano del 12.03.03)
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SE CERCHI UN LIBRO LE ALI E LA BREZZA Thévenot Xavier Qiqajon € 13,00 Come si può vivere, e vivere bene, aderendo nel contempo alla dinamica dell’Evangelo? Come si può agire senza cedere al diffuso utilitarismo mentre ci si apre alla gratuità del Dio di Gesù Cristo? Tali sono le sfide che il mondo di oggi lancia ai cristiani attraverso le domande che pone o con situazioni inedite. Queste pagine offrono al lettore un sapiente aiuto per comprendere che lo Spirito – anima di ogni autentica vita morale – non spinge a fuggire il mondo ma invita ogni uomo ad assumere pienamente la propria condizione di “essere fatto di terra” e a correre in avanti verso una vita piena, conforme al desiderio di Dio. PAROLE DI RISURREZIONE Paolo VI, C. M. Martini, R. Cantalamessa, B. Maggioni, S. Fausti, G. Basadonna, M. Orsetti, Anonima Ancora € 8,50 Nove meditazioni sul mistero della Risurrezione scritte da autorevoli maestri per sollecitare i cristiani a riscoprire il mistero di Pasqua come centro della propria fede. IL TEMPO DELLA CONVERSIONE DEL CUORE Card. Dionigi Tettamanzi Piemme € 7.75 Un invito alla conversione del cuore, a distogliere i nostri affetti dagli idoli vani e abbandonarci all'amore di Dio. Le figure di Giona e di Zaccheo, la loro singolare esperienza dell'incontro con Dio, sono i modelli di cammino quaresimale che il Cardinale Dionigi Tettamanzi propone in queste vibranti pagine.