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Lusso: tra vizio e progresso
Seminario di Filosofia morale
28, 29 novembre, 1 dicembre 2011
Eugène Delacroix, La morte di Sardanapalo, olio su tela, 3,92 × 4,96 m, 1827, Parigi, Museo del Luovre.
Alessandro Chiessi
Individuo Lavoro Proprietà
Ricchezza Produzione/Acquisizione
Moneta
Collettività
Stato
Società
Lusso
Frugalità
Modello individuo, lavoro, moneta, proprietà
Quadro Storico di massima 1642: His Majesty’s Answer to the Nineteen Propositions of Both Houses of Parliament
Scontro tra Carlo I Stuart e Oliver Cromwell Conflitto tra presbiteriani, parlamentari e i levellers
1649 Carlo I, vinto da Cromwell, è processato e condannato per alto tradimento, nonché giustiziato
E’ proclamato il Commonwealth Cromwell si proclama, con un sotterfugio istituzionale, lord protettore del Commonwealth
Anthony van Dyck, Carlo I, olio su tela, 109,2 x 81,2 cm, particolare, 1630 (?), Londra.
Robert Walker, Oliver Cromwell, olio su tela, 125,7 x 101,6 cm, particolare, 1650 (?), Londra, National Portrait Gallery.
1658 Muore Cromwell 1660 Con una marcia su Londra può insediarsi sul trono Carlo II Stuart
1685 Sale al trono Giacomo II Stuart (cattolico) e fece una serie di politiche favore del cattolicesimo invise dagli inglesi
Peter Lely, Carlo II, olio su tela, 76,2 x 63,5 cm, particolare, 1660 (?), Londra.
Peter Lely, Giacomo II, olio su tela, particolare, 1665, Londra, Queen's Galleries -‐ Buckingham Palace.
1688 GLORIOSA RIVOLUZIONE: la corona di Inghilterra è data dai Tories e i Wighs a Guglielmo III d’Orange e a sua moglie Maria Stuart, figlia di Giacomo II.
Nasce il giacobitismo con la linea di successione di Giacomo III, figlio di Giacomo II, giustificata dalla formale abdicazione del re allora in carica.
Bill of Right sancisce l’equilibrio istituzionale tra re e parlamento
Scuola di Willem Wissing, Guglielmo III, olio su tela, 113 × 89 cm, particolare, 1680-‐1710 (?), Amsterdam, Rijksmuseum.
Quadro Storico a latere 1694 RIVOLUZIONE FINANZIARIA
Fondazione della Banca di Inghilterra: nascita del debito pubblico
Nasce il concetto di ricchezza finanziaria e di proprietà mobiliare Nasce la classe sociale dei moneyed men
Bernard de Mandeville (Rotterdam 1670 – Hackney 1733)
John Locke (Wrington 1632 – Oates 1704)
François-‐Marie Arouet – Voltaire –
(Parigi 1694 – Parigi 1778)
Godfrey Kneller, John Locke, olio su tela, 76 x 64 cm, particolare, 1697, S. Pietroburgo, Hermitage.
Fonte ignota Catherine Lusurie, François-‐Marie Arouet, detto Voltaire, olio su tela, 64 × 52 cm, particolare, 1718, Parigi, Versailles.
Da duemila anni si declama contro il lusso, in versi e in prosa, e lo si è sempre amato. Che cosa non si è detto dei primi romani? Quando quei briganti devastarono e saccheggiarono le messi dei vicini, quando per accrescere il loro misero villaggio distrussero i miseri villaggi dei volsci e dei sanniti, erano uomini disinteressati e virtuosi: non avevano ancora potuto rubare né oro, né argento, né gemme, perché nelle borgate che depredarono non ce n'era. I loro boschi e le loro paludi non producevano né pernici, né fagiani, e si loda la loro temperanza. Quando, da un paese all'altro, ebbero saccheggiato tutto, depredato tutto, dal fondo del golfo Adriatico all'Eufrate, ed ebbero la bella idea di godersi il frutto delle loro rapine per sette o otto secoli; quando coltivarono tutte le arti, gustarono tutti i piaceri, e li fecero gustare perfino ai vinti, allora cessarono, si dice, d'essere saggi e dabbene. Tutte queste declamazioni si riducono a provare che un ladro non deve mai né mangiare il pranzo che ha portato via a qualcuno né indossare l'abito che ha rubato, né ornarsi dell'anello che ha rapinato. Bisognava, si dice, buttar tutto nel fiume, per vivere da galantuomini; dite piuttosto che non si doveva rubare. Condannate i briganti quando depredano, ma non trattateli da insensati quando godono i frutti dei loro misfatti; in buona fede, quando molti marinai inglesi si arricchirono alla presa di Pondichéry e dell'Avana, ebbero torto a prendersi poi un po' di piacere a Londra in premio delle pene sopportate nel fondo dell'Asia e dell'America? Questi declamatori vorrebbero forse che si seppellissero le ricchezze ammassate con la fortuna delle armi, con l'agricoltura, con il commercio e con l'industria? Citano Sparta: perché non citano anche la repubblica di San Marino? Che bene fece Sparta alla Grecia? Ebbe mai dei Demostene, dei Sofocle, degli Apelle e dei Fidia? Il lusso di Atene creò grandi uomini di tutti i generi; Sparta ebbe solo qualche capitano, e ancora in minor numero che altre città. Ma alla buon'ora, che una repubblica così piccola come Sparta conservi la sua povertà. S'arriva alla morte tanto mancando di tutto, quanto godendo di ciò che può rendere gradevole la vita. Il selvaggio del Canada vive e arriva alla vecchiaia come il cittadino d'Inghilterra che ha cinquemila ghinee di rendita. Ma chi paragonerà mai il paese degli irochesi all'Inghilterra?
Che la repubblica di Ragusa e il cantone di Zug facciano pure leggi suntuarie: hanno ragione, il povero non deve spendere al di là delle sue forze; ma ho letto da qualche parte Sappiate innanzitutto che il lusso arricchisce un grande stato, pur se perde uno piccolo (Voltaire, La défense du Mondain, vv. 53-‐4). Se per lusso intendete l'eccesso, si sa che l'eccesso è pernicioso in tutto: nell'astinenza come nella ghiottoneria, nell'economia come nella liberalità. Non so come accada che nei miei villaggi, dove la terra è ingrata, le imposte grevi, e il divieto d'esportare il grano che si è seminato addirittura intollerabile, non si trovi tuttavia un colono che non abbia il suo bravo vestito di panno e non sia ben calzato e ben nutrito. Se quel colono ara i campi col suo abito buono, con la biancheria candida, con i capelli arricciati e incipriati, ecco certamente il lusso più eccessivo, più impertinente; ma un borghese di Parigi o di Londra che si presenti a teatro vestito come quel contadino, ecco è la taccagneria più grossolana e ridicola. Est modus in rebus, sunt certi denique fines quos ultra citraque nequit consistere rectum (Or. Satire, I, 1, 106-‐107). Quando furono inventate le forbici, che non risalgono certo alla più remota antichità, che cosa non si disse contro i primi che si spuntarono le unghie e si tagliarono una parte dei capelli che gli cadevano sul naso? Furono indubbiamente trattati da damerini e da prodighi, che comperavano a caro prezzo uno strumento di vanità per guastare l'opera del Creatore. Quale enorme peccato accorciare le unghie che Iddio ci fa nascere sulla punta delle dita! Era un oltraggio alla divinità. Fu molto peggio quando s'inventarono le camicie e i calzini. Tutti sanno con quale furore i vecchi consiglieri, che non ne avevano mai portati, gridarono contro i giovani magistrati che caddero in preda a quel lusso funesto. (Voltaire, Dizionario filosofico (1764), trad. it. di R. Lo Re e L. Sosio, Milano, Rizzoli, 1996, § Lusso, pp. 220-‐222)
L’ALVEARE SCONTENTO OVVERO I FURFANTI RESI ONESTI Un vasto alveare ricco di api, che viveva nel lusso e nell'agio, e tuttavia era tanto famoso per leggi e armi, quanto fecondo di grandi e precoci sciami, era considerato la grande culla delle scienze e dell'industria. Le api non ebbero mai governo migliore, più volubilità o meno appagamento: non erano schiave della tirannide, ne governate dalla rozza democrazia; ma da re, che non potevano fare torti, perché il loro potere era limitato dalle leggi. Grandi moltitudini affollavano il fecondo alveare, ma proprio queste moltitudini lo facevano prosperare, milioni che si sforzavano di soddisfare ognuno la concupiscenza e la vanità degli altri; mentre altri milioni si dedicavano a consumare i loro manufatti. (B) Costoro erano chiamati furfanti, ma a parte il nome, i seri e industriosi erano uguali a loro. Tutti i commerci e le cariche avevano qualche trucco, nessuna professione era senza inganno. I loro re erano serviti, ma disonestamente, imbrogliati dai loro stessi ministri. Molti che lavoravano per il proprio benessere, derubavano la stessa corona che difendevano: le pensioni erano basse, ma il tenore di vita alto,
tuttavia si vantavano della loro onestà. Ogni volta che distorcevano il diritto, chiamavano il loro espediente ingannevole una gratifica; La stessa giustizia, famosa per l'equità, non aveva perduto la sensibilità a causa della cecità; la mano sinistra, che avrebbe dovuto reggere la bilancia, spesso l'aveva lasciata cadere, corrotta dall'oro; e sebbene apparisse imparziale, quando la pena era corporale, ed esigesse un procedimento regolare, per gli omicidi, e tutti i crimini violenti; e alcuni, messi alla gogna per truffa, venissero impiccati con la corda fatta da loro stessi; tuttavia, si pensava che la spada che essa recava, fosse rivolta soltanto contro i disperati e i poveri, che, spinti dalla necessità, venivano appesi all'albero infame, non per delitti che meritassero quel destino, ma per rassicurare il ricco e il grande. Così ogni parte era piena di vizio, ma il tutto era un paradiso. Questa era l'arte politica, che reggeva un insieme di cui ogni parte si lamentava. Essa, come l'armonia nella musica, faceva accordare nel complesso le dissonanze. (H) Le parti direttamente opposte si aiutavano a vicenda, come per dispetto; la temperanza e la sobrietà servivano l'ubriachezza e la ghiottoneria.
(I) La radice del male, l'avarizia, vizio dannato, meschino, pernicioso, era schiava della prodigalità, (K) il nobile peccato; (L) mentre il lusso dava lavoro ad un milione di poveri, (N) Perfino l'invidia e la vanità, servivano l'industria. La loro follia favorita, la volubilità nel nutrirsi, nell'arredamento e nel vestire, questo vizio strano e ridicolo, era divenuta la ruota che faceva muovere il commercio. Le loro leggi e i loro abiti erano ugualmente soggetti a cambiamenti, perché ciò che in un momento era ben fatto, dopo mezzo anno diventava un delitto. Ma mentre cambiavano cosi le loro leggi, continuando a cercare e correggere difetti, con l'incostanza ponevano rimedio a manchevolezze che la prudenza non avrebbe potuto prevedere. Così il vizio nutriva l'ingegnosità, che insieme con il tempo e con l'industria aveva portato le comodità della vita, (O) i suoi reali piaceri, agi e conforti, (P) ad una tale altezza, che i più poveri vivevano meglio di come vivessero prima i ricchi; e nulla si sarebbe potuto aggiungere.
Appena vi era qualcosa di malfatto, o di contrario agli interessi pubblici, tutte le canaglie gridavano sfrontatamente: «Dei Benedetti, se solo vi fosse un po' di onestà!» Mercurio sorrideva dell'impudenza, e gli altri dei chiamavano mancanza di buon senso prendersela sempre con ciò che amavano. Ma Giove, mosso da indignazione, alla fine giurò pieno d'ira di liberare lo schiamazzante alveare dalla frode; e lo fece. […] L'età frivola e volubile è passata, e gli abiti, come le mode, durano a lungo. I tessitori, che tessevano ricca seta e argento, e tutti i mestieri subordinati, sono andati via. Regnano pace completa e abbondanza, e ogni cosa e a buon prezzo, anche se ordinaria. La natura gentile, non più forzata dal giardiniere, offre tutti i frutti secondo il suo corso. Ma non si possono avere primizie, quando la fatica per ottenerle non viene pagata. Man mano che orgoglio e lusso diminuiscono, abbandonano gradualmente i mari. Non più mercanti, ora, ma Compagnie, chiudono intere manifatture. Tutte le arti e i mestieri sono trascurati; (V) l'appagamento, la rovina dell'industria, fa loro ammirare quanto offre il paese, e non cercano né desiderano di più.
[…] Morale Smettetela dunque con i lamenti: soltanto gli sciocchi cercano (X) di rendere onesto un grande alveare. (Y) Godere le comodità del mondo, essere famosi in guerra, e, anzi, vivere nell'agio senza grandi vizi, e un'inutile UTOPIA nella nostra testa. Frode, lusso e orgoglio devono vivere, finché ne riceviamo i benefIci: la fame è una piaga spaventosa, senza dubbio, ma chi digerisce e prospera senza di essa? Non dobbiamo il vino alla vice secca, misera e contorta? Fin quando i suoi germogli erano trascurati, soffocava le altre piante, e non dava che legna, ma ci allietò con il suo nobile frutto, non appena fu potata e legata. Così il vizio diviene benefico, quando è sfrondato e contenuto dalla giustizia. Anzi, se un popolo vuole essere grande, esso è necessario allo stato, quanto la fame per farli mangiare. La semplice virtù non può fare vivere le nazioni nello splendore; chi vuole fare tornare l’età dell'oro, deve tenersi pronto per le ghiande come per l'onestà. (Bernard Mandeville, La favola delle api (1705), a cura di T. Magri, Roma-‐Bari, Laterza, 1996, § L’alveare scontento, pp. 9-‐20)
(L) Se è lusso (come a rigore dovrebbe essere) tutto ciò che non è immediatamente necessario alla sussistenza dell'uomo come creatura vivente, allora al mondo non si trova altro che lusso, perfino fra i selvaggi nudi […]. Tutti diranno che questa defi-‐nizione è troppo rigorosa, e anch'io lo credo: ma se ci scostiamo di un pollice dalla sua severità, temo che non sapremo dove fermarci […]. Con quanto fin qui detto ho voluto soltanto mostrare che, una volta che smettiamo di chiamare lusso ogni cosa che non sia assolutamente necessaria a tenere in vita un uomo, nulla è più un lusso. Infatti, se i bisogni degli uomini sono innumerevoli, ciò che deve soddisfarli non ha limiti; quello che è detto superfluo da un certo ceto e considerato indispensabile da chi è di condizione superiore; e il mondo o le capacità dell'uomo non possono produrre nulla di così singolare e bizzarro, che un graziosissimo sovrano, se gli piace o lo distrae, non possa considerarlo fra le cose necessarie alla vita: intendendo non la vita di tutti, ma quella della sua sacra persona. E’ un'idea comune che il lusso sia rovinoso per la ricchezza dell'intero corpo politico, come lo è per quella di ogni singola persona che se ne rende colpevole, e che la frugalità nazionale arricchisca un paese nello stesso modo in cui quella meno gene-‐rale accresce la proprietà delle famiglie private […]. Un'altra accusa al lusso è di incoraggiare l'avarizia e le rapine; e che dove questi vizi regnano, le cariche di maggiore responsabilità sono comprate e vendute; gli ufficiali, grandi e piccoli, che dovrebbero servire il pubblico, sono corrotti, e il paese è sempre in pericolo di essere venduto ai migliori offerenti; infine, il lusso è accusato di rendere il popolo debole ed effeminato, per cui la nazione diventa facile preda dei primi invasori. Queste sono certamente cose terribili: ma ciò che si addebita al lusso spetta invece alla cattiva amministrazione e alle colpe di una cattiva politica […]. Ma soprattutto, essi tengono attentamente d'occhio la bilancia commerciale complessiva, e non lasciano mai che il totale delle merci estere importate in un anno superi in valore il totale dei prodotti e dei manufatti esportati nello stesso periodo. Si noti che ora sto parlando dell'interesse delle nazioni che non producono oro o argento; altrimenti non vi sarebbe tanto da insistere su questo principio.
Se quanto ho appena detto viene messo in pratica, e non si consente che le importazioni superino le esportazioni, nessuna nazione può essere impoverita dal lusso straniero; e anzi lo può accrescere quanto vuole, purché riesca ad aumentare in proporzione il fondo di merci proprie con cui deve acquistarlo. Il commercio è la condizione più importante, ma non l'unica, della grandezza di una nazione; oltre ad esso, ci sono delle altre cose di cui avere cura. Il meum e tuum devono essere garantiti, i delitti puniti, e tutte le altre leggi, che riguardano l'amministrazione della giustizia, saggiamente ordinate e rigorosamente messe in esecuzione. Del pari, gli affari esteri devono essere condotti con prudenza, e il ministero di ogni nazione deve disporre di un buon servizio di spie e di informatori all'estero, ed essere a conoscenza degli atti pubblici di tutti i paesi che per vicinanza, forza o interessi possono essere di vantaggio o di danno, per poter prendere di conseguenza le misure necessarie, ostacolando alcuni e favorendo altri, secondo che la politica o l'equilibrio delle forze richiedano. La moltitudine deve essere tenuta in soggezione, la coscienza di nessuno forzata, e al clero non si deve concedere negli affari di stato una parte maggiore di quella lasciatagli dal nostro Salvatore nel suo testamento. Queste sono le arti che conducono alla grandezza terrena […]. Da quando ho fatto un po' di esperienza del mondo, le conseguenze del lusso per una nazione non mi sembrano più così temibili. Finché gli uomini avranno gli stessi appetiti, gli stessi vizi rimarranno. In tutte le grandi società ad alcuni piacerà andare a donne e ad altri bere […]. Riconosco che la maggioranza del consiglio comunale della città darebbe soldati piuttosto scadenti; e credo sinceramente che se la nostra cavalleria fosse formata di assessori, così come essi per lo più sono, lo scoppio di un paio di petardi basterebbe a metterla in fuga. Ma cosa hanno a che fare con la guerra gli assessori, il consiglio comunale, e anzi tutta la gente ricca, se non pagare le tasse? Le durezze e le fatiche della guerra, quelle che si sostengono personalmente, ricadono su quelli che sostengono il peso di ogni cosa, la parte più umile e misera della nazione, la genie che serve e che lavora. Per quanto immensi siano l'abbondanza e il lusso di una nazione, infatti, qualcuno deve lavorare, le case e le navi devono essere costruite, le mercanzie devono essere trasportate e la terra coltivata.
Questi diversi lavori richiedono in ogni grande nazione una grande moltitudine di uomini, fra cui vi saranno sempre abbastanza oziosi e spostati da formare un esercito; e quelli che sono abbastanza robusti per tagliare una siepe e scavare un fosso, per arare e per trebbiare, o, almeno, non troppo snervati per poter fare i fabbri, i carpentieri, i falegnami, i tessitori, i facchini o i carrettieri, saranno sempre abbastanza forti e induriti da diventare in una campagna o due dei buoni soldati; e se sarà mantenuta una rigida disciplina, difficilmente godranno di tanta abbondanza e di tante cose superflue da esserne danneggiati. (Bernard Mandeville, La favola delle api (1714), a cura di T. Magri, Roma-‐Bari, Laterza, 1996, § Nota L, pp. 70-‐77) Identità keynesiana (Prodotto Interno Lordo) PIL = Consumi finali + Spese stato + Investimenti + (Esportazioni -‐ Importazioni)
25. Sia che si consideri la ragione naturale, che ci dice che gli uomini, una volta nati, hanno un diritto alla loro conservazione, e conseguentemente a mangiare e bere, e ad altre simili cose cui la natura provvede per la loro sussistenza; sia che si consideri la rivelazione, che ci offre un resoconto delle concessioni che Dio fece del mondo a Adamo, a Noè e ai suoi figli, è chiaro che Dio, come dice re David (Salmo CXV, 16): «ha dato la terra ai figli degli uomini», l’ha data in comune all’umanità. Se si presuppone ciò, sembra ad alcuni una difficoltà davvero grande spiegare come si possa mai giungere ad avere la proprietà di qualsiasi cosa. […] Tenterò, tuttavia, di mostrare come gli uomini possano venire ad avere una proprietà in diverse parti di quello che Dio diede in comune all’umanità, e ciò senza un esplicito patto di tutti i membri della comunità. 26. […] La terra e tutto ciò che si trova in essa sono dati agli uomini per il loro sostentamento e benessere. E sebbene tutti i frutti che la terra naturalmente produce, e le bestie che nutre, appartengano all’umanità in comune, dal momento che sono prodotti spontaneamente dalla natura, e nessuno ne ha originariamente un dominio privato a esclusione del resto dell’umanità, in quanto essi si trovano così nel loro stato naturale; tuttavia essendo per l’uso degli uomini, deve esserci di necessità un mezzo per appropriarsi di essi in un modo o nell’altro prima che possano essere di alcuna utilità, o di qualche beneficio a un qualsiasi singolo uomo […] 27. Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, tuttavia ogni uomo ha una proprietà sulla sua propria: su questa nessuno ha diritto se non lui stesso. La fatica del suo corpo e il lavoro delle sue mani, si può dire, sono propriamente suoi. Qualsiasi cosa, dunque, egli rimuova dallo stato in cui la natura l’ha fornita e lasciata, qualsiasi cosa alla quale abbia mescolato il suo lavoro, e alla quale abbia aggiunto qualcosa di proprio, perciò stesso diviene sua proprietà. Essendo rimossa da lui dalla condizione comune in cui la natura l’ha collocata, essa acquista con questo lavoro qualcosa che la esclude dalla proprietà comune degli altri uomini. Poiché infatti il lavoro è proprietà indiscussa del lavoratore, nessuno se non lui stesso può avere diritto su ciò a cui si è unito il suo lavoro, almeno finché ne rimane abbastanza e di abbastanza buono per altri.
28. Chi si nutre con le ghiande raccolte sotto una quercia, o le mele colte dagli alberi nel bosco, certamente se ne appropria. Nessuno può negare che quel cibo sia suo. Mi chiedo, dunque: quando quei frutti hanno cominciato a essere suoi? Quando li ha digeriti? O quando li ha mangiati? O quando li ha bolliti? O quando li ha portati a casa? O quando li ha raccolti? E’ chiaro che, se il fatto di averli raccolti per primo non li ha resi suoi, nient’altro poteva renderli suoi. Il lavoro ha creato una distinzione tra quei frutti e le cose comuni; ha aggiunto qualcosa ad essi che è più di quello che la natura, madre comune di ogni cosa, ha fatto, e per questo essi divengono sua proprietà privata […]. 32. Tuttavia, poiché la principale questione concernente la proprietà oggi riguarda non i frutti della terra, e gli animali che vivono in essa, ma la terra stessa, come cosa che tutte le comprende e porta con sé; penso sia chiaro che anche la proprietà della terra si acquisisce allo stesso modo. Quanta terra un uomo lavora, semina, migliora, coltiva e può usarne i prodotti, tanta è di sua proprietà. Con il suo lavoro, egli l’ha, per così dire, recintata dalla terra comune. Non invaliderà il suo titolo a essa dire che chiunque altro ha un uguale titolo e quindi egli non può appropriarsela, non può recintarla, senza il consenso di tutti i membri della comunità, di tutta l’umanità. Dio, quando diede il mondo in comune a tutta l’umanità, ordinò all’uomo anche di lavorare, e lo stesso esigeva da lui la sua condizione di penuria. Dio e la ragione gli ordinarono di coltivare la terra, cioè di migliorarla a beneficio della vita, e quindi di estendere su di essa qualcosa di proprio, il suo lavoro. Colui che in obbedienza a questo comando di Dio, coltiva, lavora e semina una parte della terra, con ciò aggiunge a essa qualcosa di sua proprietà, su cui un altro non ha alcun titolo, e che non potrebbe togliergli senza violare un suo diritto.
36. Il limite della proprietà è stato ben fissato dalla natura in relazione al lavoro degli uomini e a ciò che è utile per vivere. Il lavoro di un uomo non potrebbe sottomettere tutto o appropriarsene, né l'uso che egli può farne potrebbe consumarne più di una piccola parte; così che è impossibile per un uomo violare il diritto di un altro o acquisire per sé una proprietà a danno del vicino, al quale (dopo che il primo è entrato in possesso della sua parte) rimane ancora spazio per un possedimento altrettanto utile e ampio di prima. Questo limite ha costretto i possedimenti di ogni uomo entro dimensioni molto modeste, e tali che chiunque potesse acquisire una proprietà senza danneggiare altri nelle prime età del mondo, quando gli uomini correvano più il pericolo di perdersi, allontanandosi dai compagni, nei vasti territori selvaggi della terra che di trovarsi in difficoltà per carenza di spazi coltivabili […]. Oso affermare che la stessa legge della proprietà, per cui ogni uomo dovrebbe avere tanto quanto può usare, sarebbe ancora valida nel mondo, senza svantaggio per alcuno, dal momento che v’è terra sufficiente per il doppio della popolazione, se l’invenzione della moneta e il tacito accordo degli uomini a riconoscerle un valore, non avesse introdotto (per consenso) possessi più ampi e un diritto ad […]. 37. Questo è certo: all’inizio, prima che il desiderio di avere più di quanto gli uomini avessero bisogno avesse alterato il valore intrinseco delle cose, che dipende solo dalla loro utilità per la vita dell’uomo; o avessero accettato che un piccolo pezzo di metallo giallo, che si sarebbe conservato senza deteriorarsi o andare perduto, dovesse valere un grosso pezzo di carne o un intero mucchio di grano, sebbene gli uomini avessero il diritto di appropriarsi per mezzo del loro lavoro, ognuno per sé, di tanto quanto la natura offrisse di cui egli potesse far uso, tuttavia ciò non poteva essere molto, né poteva essere dannoso per altri, dato che la stessa abbondanza era disponibile per coloro che fossero stati altrettanto industriosi. Al che lasciatemi aggiungere che chi si appropria della terra per se stesso con il proprio lavoro non diminuisce, ma aumenta la scorta di beni comuni dell’umanità. Le provviste che servono a sostegno della vita umana, prodotte da un acro di terra recintato e coltivato, sono (a dir poco) dieci volte di più di quelle fornite da un acro di terra, di uguale ricchezza, che rimanga incolta e comune [...].
39. Così, […] supponendo che il mondo sia stato dato, come fu dato, ai figli degli uomini in comune, si vede come il lavoro possa aver dato loro titoli distinti a diverse parti di esso per il loro uso privato; e su ciò non può esserci dubbio in quanto al diritto, né motivo di discussione. 43. […] E’ il lavoro dunque che dà gran parte del suo valore alla terra, senza di esso a stento varrebbe qualcosa. E’ al lavoro che dobbiamo la maggior parte di tutti i prodotti utili. E’ dovuto al lavoro tutto il valore in più che la paglia, la crusca e il pane, ricavati da un acro di terra coltivata a grano, hanno rispetto al prodotto di un acro di terra altrettanto fertile lasciata incolta. Non è chiaramente solo la fatica di chi ara, il lavoro di chi miete e trebbia e il sudore del fornaio che si deve contare nel pane che si mangia. Deve essere messa sul conto del lavoro, e considerata un suo prodotto, la fatica di chi ha messo il giogo ai buoi, di chi ha scavato e lavorato il ferro e la pietra, di chi ha abbattuto gli alberi e modellato il legno impiegato per costruire l’aratro, il mulino, il forno e tutti gli altri utensili, che sono in gran numero, necessari per quel frumento dal momento in cui viene seminato a quello in cui viene trasformato in pane. La natura e la terra forniscono solo materiali in se stessi quasi privi di valore […]. 44. Da tutto ciò è evidente che, sebbene le cose della natura siano date in comune, l’uomo, per il fatto di essere padrone di sé e proprietario della sua persona, delle sue azioni o del suo lavoro, aveva in se stesso il primo fondamento della proprietà; e che ciò che formava la maggior parte di quanto egli applicava a sostegno e conforto della vita, quando l’invenzione e la crescita delle conoscenze ebbero migliorato quanto era utile alla vita, era perfettamente suo, e non apparteneva in comune ad altri.
46. La maggior parte delle cose realmente utili alla vita dell’uomo, e tali che le necessità della sussistenza le fece ricercare ai primi abitanti della terra, così come le fa cercare ora agli americani, sono cose di breve durata, tali che, se non consumate con l’uso, si deteriorano e vanno a male. L’oro, l’argento e i diamanti sono cose alle quali l’immaginazione e la convenzione hanno attribuito più valore che non la loro reale utilità e necessità per la sussistenza. Ora, sulle cose buone che la natura aveva dato in comune, ognuno aveva un diritto (come si è detto) che si estendeva a quanto egli era in grado di usare; e una proprietà su tutto ciò su cui poteva influire con il suo lavoro: era suo tutto ciò a cui la sua industria poteva estendersi, per alterarne la condizione rispetto a quella in cui la natura lo aveva posto. Colui che raccoglieva un centinaio di staia di ghiande o di mele ne aveva con ciò acquisito la proprietà: divenivano beni suoi appena raccolti. Doveva solo stare attento a consumarli prima che si deteriorassero, altrimenti significava che aveva preso più di quanto gli spettasse e violato la proprietà altrui. […] Se ne cedeva parte ad altri, in modo che non andasse a male inutilmente in suo possesso, anche così ne faceva uso. Se barattava prugne, che sarebbero marcite in una settimana, con noci che sarebbero rimaste buone per il consumo un anno intero, non recava offesa a nessuno. […] Se, ancora, avesse scambiato le sue noci con un pezzo di metallo, affascinato dal suo colore, le sue pecore per delle conchiglie, o della lana per un cristallo lucente o un diamante, e tenuto questi beni per sé tutta la vita, non avrebbe violato il diritto altrui. Egli poteva accumulare tante di queste cose durevoli quante ne voleva, dal momento che la violazione dei limiti della giusta proprietà non era determinata dall’estensione dei possessi, ma dal non lasciarne deperire nessuno inutilizzato. 47. E giunse così l’uso della moneta, una cosa duratura che gli uomini potevano conservare senza che si deteriorasse, e che, per mutuo consenso, potevano scambiare con i mezzi di sostentamento veramente indispensabili per vivere, ma deperibili.
48. Come diversi gradi di industriosità davano agli uomini possessi di diverse proporzioni, così l’invenzione della moneta diede loro l’opportunità di accrescerli ed estenderli. […] Dove non c’è qualcosa insieme durevole e scarso, e di valore tale da essere accumulato, là gli uomini non saranno portati ad allargare i loro possessi di terra, quand’anche si trattasse di terra ricca e facile a prendersi come nessun’altra. Mi chiedo infatti che valore darebbe un uomo a diecimila o a centomila acri di terra eccellente, già coltivata e ben fornita di bestiame nel cuore dell’entroterra d’America, dove non ha speranza di commerciare con altre parti del mondo e di ricavare denaro dalla vendita dei suoi prodotti? Non varrebbe la pena recintare e lo si vedrebbe ben presto lasciare di nuovo al comune stato selvaggio della natura tutto ciò che eccede quanto gli è necessario per la vita che lui e la sua famiglia devono condurre lì. 49. […] Trovate qualcosa che abbia l’utilità e il valore della moneta tra i suoi vicini, e vedrete quello stesso uomo cominciare subito ad ampliare i suoi possessi. 50. Dal momento che l’oro e l’argento, essendo poco utili alla vita dell’uomo in proporzione al cibo, al vestiario e al sostentamento, derivano il loro valore solo dal consenso degli uomini, e di questo valore il lavoro costituisce, in gran parte, la misura, è chiaro che gli uomini hanno acconsentito a un possesso sproporzionato e diseguale della terra, quando, con un consenso tacito e volontario, hanno trovato un modo con cui un uomo poteva onestamente possedere più terra di quella di cui egli stesso poteva usare il prodotto, ricevendo in cambio del sovrappiù oro e argento che potevano essere accumulati senza danno per nessuno, dal momento che questi metalli non si guastano o si degradano nelle mani del possessore. Questa suddivisione delle cose nella disuguaglianza di possessi privati, gli uomini l’hanno resa praticabile al di fuori dei confini della società, e senza un contratto, solo attribuendo un valore all’oro e all’argento e accordandosi tacitamente sull’uso della moneta. Nei governi, infatti, le leggi che regolano il diritto di proprietà e il possesso della terra sono determinate da leggi positive. (John Locke, II trattato sul governo (1690), a cura di L. Pareyson, Torino, Utet, 19602, cap. V)
Tutti gli animali non domati sono per istinto attenti soltanto a soddisfare se stessi, e seguono naturalmente le loro inclinazioni, senza considerare il bene o il danno che deriverà ad altri dalla loro soddisfazione. Per questa ragione, nello stato selvaggio di natura, le creature più adatte a vivere insieme pacificamente in gran numero sono quelle che manifestano meno intelligenza e hanno meno appetiti da soddisfare. Ne consegue che, senza il freno del governo, nessuna specie di animali è meno capace dell'uomo di vivere a lungo insieme in moltitudini: tuttavia le sue qualità, non starò a dire se buone o cattive, sono tali che nessun'altra creatura, a parte l'uomo, può essere resa socievole. Tuttavia, essendo un animale straordinariamente egoista e ostinato oltre che astuto, per quanto lo si possa sottomettere con una forza superiore, non è possibile con la sola forza renderlo docile e fargli compiere i progressi di cui è capace. Perciò i legislatori e gli altri saggi che si sono dedicati ad istituire la società, si sono soprattutto sforzati di far credere a quanti dovevano governare che per ognuno era più vantaggioso dominare i propri appetiti anziché indulgervi, ed era molto meglio curare l'interesse pubblico, anziché quello che sembrava essere l'interesse privato. Poiché questo è sempre stato un compito molto difficile, non si è fatto risparmio di ingegno o di eloquenza per farvi fronte, e i moralisti e i filosofi di tutti i tempi hanno impiegato ogni loro capacità per provare la verità di un'asserzione così utile. Coloro che hanno intrapreso a civilizzare l'umanità non lo ignoravano: ma non potendo dare tante ricompense reali, da soddisfare tutti per ogni singola azione, furono costretti ad inventarne una immaginaria, che servisse in ogni occasione come equivalente generale per la pena della rinuncia, e che, senza costare nulla a loro stessi o ad altri, fosse una ricompensa del tutto accettabile per chi la riceveva. […] conclusero giustamente che l'adulazione era l'argomento più forte che si potesse usare nei confronti di creature umane. […] iniziarono ad insegnare loro i concetti di onore e di vergogna, presentando l'una come il peggiore di tutti i mali e l'altro come il bene più alto cui mortale potesse aspirare. Ciò fatto, mostrarono come fosse sconveniente per la dignità di creature tanto sublimi prestarsi con troppa sollecitudine alla soddisfazione degli appetiti che avevano in comune con le bestie, senza curarsi delle qualità superiori che davano loro la preminenza su tutti gli esseri visibili.
[…] Inoltre, per introdurre fra gli uomini l'emulazione, essi divisero l'intera specie in due classi molto diverse fra di loro. Una consisteva di persone abbiette e di animo vile, sempre a caccia di godimenti immediati, del tutto incapaci di rinuncia, prive di considerazione per il bene degli altri e senza uno scopo più alto del loro vantaggio privato. Costoro erano schiavi della sensualità, cedevano senza resistenza ad ogni desiderio volgare e non usavano le loro facoltà razionali altro che per accrescere il piacere dei sensi. […] consentirono [legislatori e politici] con gli altri di chiamare vizio tutto ciò che l'uomo facesse per soddisfare un suo appetito, senza considerazione per il pubblico, se vi fosse la minima possibilità che tale azione risultasse dannosa per un membro della società, o anche che rendesse chi la compiva meno utile agli altri; e di dare il nome di VIRTU’ ad ogni atto, con cui l'uomo, andando contro l'impulso della natura, ricercasse il vantaggio degli altri, o la vittoria sulle sue passioni, per un'ambizione razionale di essere buono. […] e quanto più indaghiamo sulla natura umana, tanto più ci convinciamo che le virtù morali sono la prole politica che l'adulazione ha fatto generare all'orgoglio. (Bernard Mandeville, La favola delle api (1714), a cura di T. Magri, Roma-‐Bari, Laterza, 1996, § Ricerca sull’origine della virtù morale, pp. 26-‐30)