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ANGELA Un Romanzo di
Alessandro D’Alessandro
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cettina + rosina+costanzo pierluigi
vincenzo vincenza
eleyson
assuntina franco+(1)antonella+(2)myriam
+ paolo+flora elissa
delio anna+(1)nuto+(2)enrico emilio+roberta
alessandro
romina sirena+alberto figlio
andrea
ginetta (1)massimo manuel
+ (2)francesco dino (pupitto) desiderio
isabella gino
cerasani
angela
+ carla
alberto
andrea
+ giacomo [+ a 2 mesi]
antinea
pierino melania+mauro jacopo tiziano
+
silvana andrea+daniela federica carlo
giacomo
+ rita+ (1)cesare
margherita (2)roberto 2 figli
gisa silvia+paolo
+ fabrizio+(1)claudiana matteo e valerio
vittorio
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PREMESSA
N.B.: Fatti e personaggi, narratore compreso, di questo e degli altri romanzi della serie sono solo frutto
di fantasia: qualsiasi coincidenza con fatti o personaggi della vita reale è puramente casuale.
Questo romanzo è il terzo dei sette che saranno raccolti sotto l'unico titolo “INFORMATIVE
DALL'ARCHIVIO DI FAMIGLIA”; ciascuno di essi invece avrà come titolo il nome della persona di cui si racconta la vita. Si tratta di sette sorelle/fratelli, tutti nati in provincia dal 1923 al 1938 e tutti quindi variamente
segnati dal fascismo: le loro singole storie, tra loro intrecciate, dovrebbero consentire, nei piani dell'autore, di far
trasparire tra le righe quanto potente sia stata la fascistizzazione delle giovani generazioni ad opera del Duce e dei
suoi pifferai. “Il fascino del fascismo.” avrebbe potuto essere un titolo altrettanto adatto alla serie.
L'ordine di nascita dei personaggi è, come appare dalla genealogia posta in ex-ergo: Cettina, Assuntina, Ginetta, Angela, Pierino, Giacomo, Gisa; l'ordine di scrittura invece sarà Ginetta, Cettina, Pierino, Giacomo,
Angela, Assuntina, Gisa: il lettore curioso comprenderà da solo le ragioni del mancato rispetto dell'ordine di
nascita.
Infine non appaia troppo presuntuoso l'autore se fornisce al lettore una chiave per leggere più
agevolmente i sette romanzi. Ciascuno di essi è imperniato sulla figura e la personalità del personaggio che è nel titolo, però l'autore si è voluto divertire a selezionare, dell'enorme materiale a disposizione, ciò che riguarda
eminentemente lui o lei e tutto ciò ha inserito nel romanzo di lui o di lei; ma, trattandosi di fratelli e sorelle, è
chiaro che gli altri, come anche i genitori, i parenti e gli affini, appaiono in esso come comparse di secondo, terzo
e anche ennesimo piano, così come gli episodi che riguardano loro ma non il personaggio principale. Il lettore
deve avere perciò la pazienza di leggersi tutti e sette i romanzi o, se non gli va di leggerseli tutti, di tener presente che in quello o in quelli che legge molte cose e molti personaggi appena accennati in un certo luogo torneranno a
tutto tondo solo nel capitolo che li riguarda direttamente. Questo per i personaggi principali; quelli secondari
faranno comparsate più o meno in questo o quel romanzo o in più romanzi e perciò sono stati trattati dall'autore
come personaggi trasversali dei quali il lettore non deve tener conto se non nella misura in cui essi sono tali.
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Angela
Io sono morta e vivo coi morti. (Sofocle, Antigone)
Nel 1928, a ridosso della grande crisi che presto avrebbe travagliato l'America, il mio zio materno Angelo lasciò la madre
vedova, cioè mia nonna Francesca, col fratello più piccolo, zio Romolo, quel Romolo che abbiamo già visto alle prese con la
levatrice nel giorno del battesimo di Assuntina, per emigrare in America richiamato dal suo padrino. Era bello come e più di
Rodolfo Valentino, e aveva una voglia di abbandonare quella madre dispotica per ricongiungersi col padre morto. Ma fu
soprattutto la voglia di andare a cercare fortuna. Angelo era pieno di iniziativa e di buona volontà, sicuramente si sarebbe messo a
lavorare col suo compare di battesimo, già a suo tempo emigrato, e presto sarebbe stato in grado di aiutare anche la famiglia lasciata in Italia. Inizialmente sarebbero dovuti partire con lui anche mia
nonna, mia madre e lo zio Romolo, ma si levarono delle voci maligne per dire che nonna Francesca se ne andava in America per
andarsi a risposare con il compare Pietro il quale si stava interessando a posta dell'intera pratica di espatrio. Appena nonna
ebbe notizia di questa voce, chiamò il figlio e gli disse perentoriamente che doveva partire da solo. Zio Angelo ne fu più
che contento; non allo stesso modo zio Romolo che rimaneva da solo a combattere con le paturnie di mia nonna e che però per
liberarsene aveva già imboccato la via dell'adesione al fascismo, di cui rimase un sostenitore fino alla morte e in nome del quale per
un pelo non era partito, prima che per la seconda guerra mondiale, per la guerra di Spagna.
Angelo partì per l'America, trovò subito una fidanzata, la figlia, manco a dirlo, del compare Pietro, che avrebbe voluto fare tutta una manfrina, lui e mia nonna e la figlia con Angelo; ma il
destino ha più immaginazione di noi: il successo di Angelo fu immediato: giovane, bello, lavoratore infaticabile, mise subito
insieme i soldi per comprarsi una motocicletta che a quel tempo
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voleva dire essere all'avanguardia rispetto a tutti gli altri e un banale incidente gli provocò una caduta fatale. In quel frangente le
mie sorelle più grandi mi raccontavano che nonna e mamma si aggiravano per la casa gridando di dolore e di disperazione come in una tragedia greca, mentre loro, annichilite, rimanevano in balia
delle donne del vicinato che erano accorse per dare una mano. Mia nonna da allora fu aggredita da una sorta di
paralizzazione progressiva dell'intera persona. Non paralisi, perché non si può parlare di malattia; ma paralizzazione: piano piano
cominciò a muoversi sempre più lentamente fino ad arrivare negli ultimi anni all'impossibilità di reggersi sulle gambe. Robusta (da
robur, che in latino vuol dire “legno”) come la legna che andava a fare per sfamare i suoi tre figli, resistette alla morte per sette anni,
sette lunghi anni di lacrime amare, per me e per mia madre. Quando morì lo zio Angelo, mia madre, ahimè, era già
incinta della futura Angela e se è vero che esistono i cosiddetti neurotrasmettitori della madre al feto, allora è sicuro che Angela,
che era una creatura sana e vitale, già nel grembo di mia madre, ricevette terribili informazioni sul rifiuto della vita a cui mia madre si abbandonò non avendo alcuna difesa contro quel dolore
immenso. Non voleva più mangiare, e Angela chiedeva di essere sfamata; non aveva più sete, ed Angela chiedeva di essere
dissetata; non espletava, se non dopo lunghi periodi, le sue funzioni corporali, e Angela si sentiva oppressa da tutto
quell'ingombro fecale; sveniva spesso, e ad Angela, quasi asfissiata, mancavano notizie di lei, mentre il terrore si
impadroniva delle prime tre figlie; spesso nella notte urlava all'improvviso senza alcuna ragione e il liquido amniotico vibrava
in modo per Angela insopportabile. Insomma: mia madre non voleva più vivere. La sorte le toglieva uno dei due fratelli che lei si
era cresciuta come una madre, sostituendo nonna Francesca sempre fuori a lavorare: le toglieva dunque il primo figlio maschio, anche se adottivo. Per sua fortuna aveva quelle tre figlie
e un quarto bambino in grembo, ma non riusciva comunque a smaltire il dolore di quella perdita che le sembrava insopportabile.
Probabilmente la gestazione per Angela fu un inferno. La complessione resistente e collaudata di mia madre, meno che
venticinquenne, conferivano al feto un'enorme vitalità, ma, al tempo stesso, il dolore che la madre subiva in quel frangente le
trasmetteva un rifiuto della vita che mia sorella probabilmente introiettò in modo inconscio e definitivo.
Un rifiuto della vita che però era coniugato con un grande desiderio di vivere come è stato in tutti noi; dunque una
contraddizione in cui quell'esserino crebbe per un paio d'anni fino
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a quando i miei furono colpiti dal secondo grave lutto della loro vita: il primo figlio maschio, vero, non adottivo, che ho già
raccontato in altra informativa. Prima che arrivasse il primo Giacomo Angela faceva disperare tutti per i suoi capricci improvvisi e inspiegabili. Appena le davano qualcosa da mangiare,
di qualsiasi cosa si trattasse, lei diceva sempre nel suo petel quasi incomprensibile: “sempe sta minesra”, “sempe sta pattacciutta”,
“sempe le saucicce”. La pastasciutta le piaceva in modo particolare; quindi si prendeva il suo piattino, si rincantucciava in
un angolo, piangeva per una mezz'ora sempre borbottando perché era sempre pastasciutta e alla fine, quando la gatta di casa le si
avvicinava e lei tirando su il boccone con la forchetta faceva pendere per la bestiola un po' di fili di pasta che la gatta arraffava
prontamente con la sua zampetta, allora si decideva a mangiare quello che restava sulla forchetta stessa. Finiva di mangiare e
cominciava a piangere. Si svegliava, scendeva dal letto e cominciava a piangere. Aveva sonno, doveva andare a dormire, e
piangeva. Insomma, un tormento per tutta la famiglia. Le sorelle più grandi cercavano di interpretare quei pianti ma era una riffa senza premi. Angela piangeva per reclamare contro tutte le
privazioni che aveva subito nel grembo materno. Più grandicella, se cercavi di spiegarle la contraddittorietà di quei suoi
comportamenti lei diceva di sì con la testa, ma poi dopo un po' ricominciava a piangere. Si raccontava in famiglia che una notte
che non faceva dormire nessuno, il mio povero padre, spazientito, saltò su dal letto per abbracciarla, ma il gesto troppo fulmineo
aveva fatto temere a mia madre che volesse gettarla dalla finestra, per cui lo inseguì disperata per fermarlo. Mio padre con la
maturità aveva acquisito di buono un grande senso dell'humour. Rise di cuore di quello spavento e riuscì in qualche modo a
trasmettere ad Angela il suo improvviso buonumore per cui Angela prese sonno e loro due, dico, lui e mia madre, molto probabilmente festeggiarono. Anche oggi che ha superato gli
ottanta e che la vita l'ha battuta con grandi dolori Angela improvvisamente si calma, se riesci a farla ridere, e ride di cuore.
Sembra voler dire che quando c'e da piangere si piange, ma quando c'è da ridere si deve ridere, tanto a piangere c'è sempre
tempo e sennò la vita diventa un inutile massacro. Tutta la famiglia piano piano si accorse che l'impunita
testardaggine di quella bambina doveva avere delle cause profonde e così fra una visita medica e un'altra si riuscì a capire che era nata
con una grave malformazione all'orecchio destro per cui sentiva al cinquanta per cento e non in modo stereofonico. Ci si convinse
tutti che la testardaggine di Angela aveva una causa precisa:
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semplicemente non sentiva tutto quello che i miei genitori e le sorelle più grandi cercavano di farle capire.
E' così che Angela, nata dopo altre tre e prima di altri tre, quindi al centro della prole Alessandri, escluso me che nacqui sette anni dopo Gisa, è rimasta centrale nella nostra famiglia e, come la
radice di due separa due serie infinite di numeri, così lei separa due misere serie di fratelli (tre prima e tre dopo).
Angela aveva appena conquistato la sua quarta posizione quando arrivò Giacomo primo a scompaginare la famiglia. La
presenza di quel bambino appena nato indusse in lei un dolore di cui non si rendeva ben conto e una paura irrazionale che si
coniugarono in modo inscindibile: così Angela capì che per lei non c'era più niente da fare.
Nella vita qualsiasi cosa fai è tutto inutile: se riesci a mangiare qualcosa è già tanto: come diceva nonna Francesca,
“quello che ti tiri con i denti ti porti nella tomba!”. Angela come le altre, ad eccezione forse di Assuntina, non conobbe le gioie del
sesso; non capì mai che il godimento di un uomo era anche il godimento della donna che godeva con lui. Concepì il sesso sempre come una specie di servizio obbligatorio. A quei tempi i
figli maschi lasciavano la famiglia per andare a fare il soldato e le figlie femmine la lasciavano per andare a fare il servizio sessuale
ad un uomo. Vittima di una sola affabulazione, quella dei noiosi aneddoti familiari che io qui vengo raccontando, ma una volta
sola, senza mai ripetermi se non per sbaglio, lei ride di cuore ogni volta che lo stesso episodio nella stessa maniera viene raccontato
per l'ennesima volta. Non concepisce narrazioni che vadano al di là dell'aneddotica familiare, non concepisce riflessioni che non
siano quelle del commento dei comportamenti devianti dei familiari che non bisogna seguire.
Qual è per Angela l'unico fine della vita? Ammucchiare e ammucchiare: soldi o roba, non importa, perché entrambe queste cose ti proteggono dai mali del mondo e della vita.
Una personalità che io con spirito fraterno definisco essenziale, ma quando mi fa arrabbiare uso termini molto ma
molto diversi. Poi però quando rifletto sulle sue assurde prese di posizione mi dico che in fondo tutti i torti non li ha. Angela si è
guardata bene dall'accedere a un minimo di deduzione dialogica; macché! Angela ti dice sì con la testa, poi ti risponde a quello che
gli hai detto con quello che gli hai detto ma inserito in quello che pensa lei, senza accorgersi della contraddizione; poi elimina quello
che hai detto tu e torna ad affermare quello che lei aveva detto in prima battuta.
Com'è possibile tutto questo? mi sono detto le prime volte
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che lo osservavo e l'unica risposta era questa: per il suo posto disgraziato nella sequenza delle nascite in famiglia e per tutta la
negatività che quel destino infame rovesciava su di lei Angela si era piano piano convinta inconsciamente che tutto è inutile e che basta sapere poche cose, quelle che si ritengono essenziali, perché
con quelle si deve tirare avanti senza cercare Maria per Roma, altrimenti perdi solo tempo, ammesso che non ti accada anche di
peggio. Poi cominciò “er tormento de la scola”, come dice il Belli.
Angela capiva tutto, ma non tratteneva niente perché niente le sembrava necessario. Le narrazioni? Chiacchiere! La grammatica?
E che è? La scrittura? A che serve? La lingua? Che bisogno c'è di studiarla? La parola? Solo dopo i cinquant'anni, ma forse solo per
ammazzare la noia, si è dedicata, come un po' tutti noi, all'enigmistica. Non è escluso che così si possa migliorare il
proprio italiano! Illusione diffusa nella mia famiglia, tranne che in Cettina, Ginetta e Pierino i quali avevano una sola certezza: fare
soldi; e una sola grave ignoranza: non sapere che farsene. La scuola per Angela fu un tormento. Mia madre, che era arrivata alla quarta elementare, quando le figlie arrivavano anche
loro là per lei bastava; mio padre, come devo aver già detto, sosteneva che le figlie femmine non dovevano studiare perché non
gli serviva a niente e anzi poteva compromettere il buon andamento della famiglia nei rapporti col marito. Non ho mai
saputo, per quanto abbia indagato e cercato fra le carte, se Angela riuscì o no ad arrivare alla licenza elementare. Tutto dice di no.
L'unica notizia che ho è che la signorina Mimina, maestra anche delle altre, si lamentava spesso dell'indolenza di quella bambina
che per di più stava sempre con la testa tra le nuvole. Né adesso ho più margini per scoprirlo perché troppo tempo è passato e a lei non
si può proprio chiedere. Nonostante tutte queste privazioni la sua indole vivace e solare si esprimeva nell'azione più che nella riflessine. Era, a dieci
anni, amica di Maria e di Zara, sue coetanee, figlie di Arturo, il fascistone che aveva avuto il grammofono distrutto da un ex-
partigiano perché gli stava facendo suonare “faccetta nera” a tutto volume, e sorelle di Nazzareno, l'amico di Giacomo; e tutti quindi
cugini della famiglia Venditti di cui ho già parlato. Di loro ad Angela piaceva la supponenza che faceva credere loro di essere le
meglio del paese e che quindi le portava a prendersi gioco di tutti e di tutte, spesso con dispetti poco intelligenti e risolti in azioni
anche meno intelligenti. Si trattava degli scherzi a parole e a fatti che spesso piacciono alle ragazzine e che esse fanno volentieri
sopratutto per farsi correre appresso. Così sfottevano una povera
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demente che si chiamava Cecca fino a quando quella poveretta non perdeva la pazienza e le prendeva a sassate e per colpirle
meglio correva loro appresso. Passavano in questo modo le giornate sprecando tempo e raccontandosi l'un l'altra bravate che spesso neanche avevano fatto o che volutamente esageravano solo
per ridere. In Toscana si dice delle ragazze, quando ridono senza un apparente motivo, che “ridono con gli angeli”. Così era per
quelle tre povere ragazze che erano costrette a cercare il divertimento in sciocchi scherzi da bambine perché altro, ahimè,
non c'era. Un divertimento maggiore lo incontravano quando nella
piazza della stazione dove si radunavano e dove ormai c'ero anch'io ma molto piccolo si organizzavano i girotondi. I girotondi
che oggi hanno assunto un significato quasi esclusivamente politico allora erano cerchi di ragazzi e ragazze che giravano su se
stessi (i cerchi, dico) cantando belle canzoncine, somiglianti più a filastrocche che a canzoni vere e proprie. Per me il ricordo di quei
giochi è soprattutto questo: meravigliose serate in cui i giovani si corteggiavano, gli adolescenti imparavano a farlo e noi piccoli s i scopriva pian piano la vita.
Poi arrivò la guerra. Per il trio fu come dire che arrivò la pacchia. Poca scuola, poco studio, poco controllo, una vita
trascorsa fra scorribande qua e là per il paese alla ricerca di qualcuno da sfottere.
Arrivò anche una certa ristrettezza economica e cosi Angela che non aveva ancora fatto la comunione, non si è mai capito
perché (aveva ormai quasi tredici anni), a un certo punto se ne rese conto e ne chiese conto a mia madre. Mia madre, povera donna,
cadde dalle nvole. Tra il lutto del bambino, quello del fratello, la depressione di mia nonna, insomma si era dimenticata della
comunione di Angela e ora, con l'arrivo della guerra, la famiglia non si poteva più permettere di fare feste. I due, attenti a quei due, pensarono bene di risolverla a modo loro. Mio padre che fu
sempre amico di tutti i religiosi che gli capitavano a tiro, a cominciare da quel Don Aldo che aveva incontrato al fronte e che
secondo me lo aveva plagiato, si mise d'accordo col parroco della chiesetta più periferica di Bolano e insieme concordarono che
Angela, la comunione, l'avrebbe fatta da sola e a mezzanotte, come una cospiratrice. I miei fratelli raccontano divertiti quella
notte di tregenda facendo spesso riferimento al capitolo dei Promessi Sposi in cui si parla del famoso matrimonio a sorpresa,
però finito male. La comunione di Angela invece andò tutta bene, ma i particolari sono esilaranti. Mio padre dovette dire varie bugie
al parroco della parrocchia di appartenenza per ottenere il
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permesso di trasferire la comunicanda ad altra parrocchia; la madrina fu convocata con la scusa che in quella chiesa si sarebbe
tenuta una interessante seduta spiritica; il parroco impose a tutti il silenzio perpetuo su quella infrazione. Sarebbero dovuti arrivare di notte senza luci e, giunti al portone della canonica, avrebbero
dovuto bussare con tre colpi netti e decisi. Angela non capì nulla di tutto quello che accadde; era infuriata perché per l'ennesima
volta doveva indossare un vestito che aveva già visto indossare dalle sue sorelle più grandi. In seguito quella comunione divenne
il racconto più esilarante della nostra saga familiare. Angela che in un impeto d'ira si era strappata di dosso l'abito che poi le mie
sorelle dovettero in fretta e pazientemente ricucire, abito che durante la cerimonia frettolosa e nervosa a un certo punto cedette a
causa di una spilla da balia chiusa male da mia madre, non si rese conto neanche un po' dello scherzo che quei due, mio padre e mia
madre, le avevano giocato. Il prete officiante molto giovane che, quando lo andarono a chiamare, non si riusciva a svegliare, non si
sa il perché, ma mio padre faceva delle pesanti allusioni su quel suo amico religioso che di religioso aveva ben poco soprattutto riguardo al voto di castità. Ginetta che come al solito rovinò la
festa rifiutandosi di partecipare a una cerimonia celebrata alla chetichella e che se ne andò a dormire mentre il resto della
famiglia, rientrata dopo la cerimonia, gozzovigliava, si fa per dire, in piena notte. In realtà in pochi mangiarono dando così agio a mio
padre di divorare tutto per dimostrare la sua soddisfazione per la riuscita della festa. Solo Angela di fronte al pezzo di torta
rimediata che mia madre la invitava almeno ad assaggiare piangeva lacrime amare dicendo che lei non aveva fame e che non
si fidava di quell'intruglio preparato da Cettina. Tutti, pur divertendosi come matti, avevano delle doglianze da fare, ma i
miei erano categorici: c'è la guerra e non si può sprecare niente; una vera e propria festa non si può fare. Giravano per Bolano, da soli o in pattuglia, bellissimi
giovanotti che le tre ragazze guardavano incantate: erano i tedeschi prima alleati e poi invasori. Una volta decisero, le tre
sciagurate, di andare a fare un giro per il paese e portarono con sé fratellini e sorelline piccole. Nel tornare si attardarono e giunte a
metà strada, proprio all'altezza del comando tedesco furono colte dal coprifuoco. La pattuglia di guardia intimò loro l'alt e loro tre si
rifugiarono di corsa in una casa vicina. Nazzareno e Gisa, ancora bambini piccoli, rimasero soli in mezzo alla strada piangendo
disperati per quell'improvviso abbandono. Il soldato tedesco per fortuna capì la situazione, si rimise il fucile in spalla e dopo averli
abbracciati entrambi li depositò tutti e due nella casa in cui quelle
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tre incoscienti si erano rifugiate. Far dispetti per essere rincorse, questo era il loro
passatempo preferito. In seguito raccontavano divertite quest'episodio col tono di chi ne ha fatta una davvero divertente. La loro vita fu così. Zara non si sposò e ancora oggi vive con la
famiglia di Nazzareno nella villa del padre fascistone accudita da una badante rumena che qualche volta la schiaffeggia pure; Maria
restò vedova a cinquant'anni e trascorse il resto dei suoi giorni a litigare, per questioni di eredità, o con i tre figli o con i due fratelli
rimasti a Bolano; Angela? Angela adesso vediamo. Dal giorno del coprifuoco la paura che ormai credeva di
aver debellato ritornò più forte di prima come paura della guerra. Sentiva la gente che ne raccontava di tutti i colori sulle malefatte
dell'una e dell'altra parte; vedeva il paese percorso da soldati che non si erano mai visti prima; avvertiva nell'ansia delle persone
adulte della famiglia preoccupazioni per oscure possibili svolte del destino. Gisa era piccolina e non si rendeva conto, i due fratelli
erano degli incoscienti; gli altri erano adulti e sembrava sapessero sempre come regolarsi; solo lei non riusciva a trovare pace; quegli anni, quelli della sua pubertà e della sua prima adolescenza, furono
anni vessati da un'ansia indominabile: che potesse morire qualcuno, che qualcuno potesse non tornare più, che lei stessa
potesse incappare in qualche brutto incidente; insomma imparò a preoccuparsi senza poter mai dare seguito concreto a quelle
preoccupazioni, cioè fare qualche cosa per neutralizzarle. Angela insomma imparò a convivere con l'ansia ma anche con il
sentimento di frustrazione che quest'ansia suscitava in lei, perduta tra le ombre di una notte che durò ben cinque anni, la notte della
sua adolescenza. Lei fingeva di essere allegra e scherzosa ma dentro covava
una paura rassegnata, una specie di stato di ebrezza che non ti fa capire niente e che nello stesso tempo ti dà la certezza di capire tutto. Il restare paralizzata di fronte al fluire degli eventi
dell'esistenza divenne la cifra costante della sua condotta. Angela, per non sbagliarsi, non faceva niente... e non faceva niente con
convinzione e con determinazione e se il destino la costringeva a prendere una decisione indugiava per partito preso fino a quando o
il rischio implicito nella scelta non si fosse definitivamente allontanato o il bene implicito nella scelta giusta non si fosse a sua
volta irreversibilmente dileguato. Pierino amò la vita senza forse e senza ma e la vita gli si
negò sul più bello; Giacomo e Angela non la compresero mai, la vita, né la amarono, e la vita li lasciò lì a marcire entrambi nelle
malattie immaginarie dietro alle quali perdevano i loro giorni.
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Come Giacomo infatti anche Angela non ha fatto, per tutta la vita fino ad oggi, che misurarsi la pressione; farsi analisi su analisi,
anche in più, segnandosele da sola, rispetto a quelle prescritte dal medico; studiarsi senza averne le competenze richieste i referti delle analisi stesse. Non era passato molto tempo dall'episodio del
coprifuoco quando Angela incontrò Sandro in casa delle amiche. Quelle due sceme sembrava che non pensassero ad altro che a quel
cugino bello e simpatico: sempre a parlare di lui, sempre a raccontare le sue bravate, il suo coraggio, la sua avvenenza. E che
sarà mai? Pensava Angela, abituata a ridurre qualsiasi cosa al grado zero della sua esistenza appiattita dalla paura e
dall'apparente indifferenza verso tutto ciò che sembrava deviare da quel grado zero. Ma gli innamoramenti dell'adolescenza non
perdonano nessuno, specialmente non perdonano le donne. Erano entrambi ancora ragazzini, timidi e impacciati, pendevano sulle
loro teste vaghi ammonimenti delle madri o dei padri a fare o non fare questo o quello, sentivano in presenza dell'altro sesso un'ansia
non avvertita né dominata; insomma i due futuri innamorati si trovarono per caso entrambi in casa del fascistone insieme a Zara e a Maria ma non si rivolsero la parola. Ma proprio quel loro restare
muti dichiarò apertamente il loro reciproco interesse. Ad Angela bastò cogliere, senza darsene a vedere, uno sguardo ammirato di
lui per capire che aveva fatto breccia nel cuore di quel ragazzo effettivamente bello come dicevano le sue cugine. Lui, colto di
sorpresa da quella ragazzina non bellissima, ma carina e sommamente seducente, abbandonò subito quel suo atteggiamento
di galletto altero pronto a montare qualsiasi gallina si trovasse a portata di mano, anche se i galletti non hanno le mani. Lei lasciò la
compagnia e tornò a casa ignara di che cosa le era effettivamente accaduto e lui tornò a casa con la coda tra le gambe, anche se i
ragazzi di solito non hanno la coda, irato con se stesso perché non aveva avuto la solita sfacciataggine di corteggiare Angela anche in presenza di altri e con il linguaggio greve del maschio bolanese.
Erano tutti e due vittima di un innamoramento subdolo e strisciante che si traduceva con un comportamento apparentemente
indifferente verso l'altro ma in realtà continuamente alla ricerca dell'altro. Non erano schermaglie; erano subdole strategie inconsce
che spingevano Sandro a cercare con maggiore frequenza le due cugine con l'inconscia speranza di trovarle insieme ad Angela e
Angela a cercare le due amiche nell'inconscia speranza di vedere Sandro. Poi, una volta raggiunto il comune scopo se ne stavano
insieme a Maria e a Zara, che continuavano ad essere le caciarone spericolate di sempre, lei muta e come attonita, stordita dalla
presenza di quel ragazzo che si presentava sempre grondante di
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brillantina e azzimato come un gagà parigino pronto a cingere di un cortese assedio la prossima vittima del suo fascino. Ma in
silenzio anche lui: non c'è niente di più stupido di un bolanese quando deve ammettere l'effettivo interesse per una donna: diventa una specie di automa incapace di articolare parola e resta
semplicemente estasiato di fronte alla donna che lo ha colpito. Fu il primo amore infelice di Angela: un amore fatto di
sguardi furtivi e di mutismi eloquenti e insomma alla fine siccome l'amore è come la tosse, non si possono nascondere, la cosa
inesistente arrivò alle orecchie delle mie sorelle maggiori che ne parlarono con mia madre che ne parlò con mia padre che ne parlò
con le mie sorelle maggiori ecc. fino a dare vita ad un amore che non era ancora sbocciato per stroncarlo prima ancora che
sbocciasse. Nelle chiacchiere di famiglia, sempre note a tutti meno che all'interessato, come succedeva regolarmente, questa volta
pesava il muto dissenso di Assuntina la quale l'anno precedente si era vista stroncare da mio padre una certa simpatia per il fratello
maggiore di Sandro, Cesare, per via che avevano quella bellissima sorella chiacchierata e reclusa ormai in casa da tre anni. Assuntina era una persona leale e coerente. Non disse mai né a né ba per
appellarsi a un criterio di giustizia che avrebbe voluto: “come per me non è andato bene Cesare così per Angela non deve andar bene
Sandro!”. Ma erano le altre che parlavano per lei, soprattutto Cettina, che era quella bigotta che ho detto, e più delle altre
parlava il suo silenzioso riserbo. Insomma alla fine mio padre emise la sua solita sentenza: “Non se ne parla proprio. Che si
vuole imparentare con una puttana?” E mia madre che non diceva parolacce né tollerava che le dicessero altri, quando però le diceva
mio padre per dare esecuzione alle di lei volontà allora diventava improvvisamente indulgente e se la cavava con un “André!” carico
di rimprovero a cui mio padre rispondeva scusandosi ma questa volta condendo la risposta con una battuta di dubbio gusto: “Hai ragione, scusa, scusa, ma Pia quello è, anche se è 'pia'!” A cui mia
madre faceva seguire un secondo andré che voleva dire “in questa casa non solo è vietato pronunciare quel termine, ma e vietato
persino pensare il concetto ad esso corrispondente” e senza che nessuno potesse capire il nesso logico dei suoi ragionamenti
incominciava la solita lagna: “Io ho quattro figlie femmine e se una di loro mi dovesse coprire la faccia io sarei rovinata ecc. ecc.
ecc.” Chi era in grado di capire capiva, ma erano pochi in famiglia. Ed era esattamente quello che mia madre voleva. Voleva
cioè far calare le sue sentenze sulle sue prime quattro figlie come dei mantra minacciosi sui quali esse dovevano meditare e mai
prendere decisioni: le decisioni spettavano soltanto a lei. Ed erano
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decisioni retrive, assolutamente in controtendenza con la puttanaggine favorita e diffusa dal fascismo grazie alla radio e al
cinema: le mie povere sorelle dovettero accettare matrimoni a cui si piegarono convinte di aver fatto loro la scelta che invece era stata imposta da mia madre per bocca di mio padre. La vittima più
illustre fu Ginetta alla quale fu imposto di sposare un uomo che non amava e che lei però, grazie a questi diktat, amò e rispettò per
tutta la vita portandosi dietro un'ipoteca che la rese sempre scontentata e infelice: Desiderio la amava perdutamente ma
pendeva letteralmente dalle sue labbra e non fu mai capace di svincolarsi dal suo ruolo di gregario per mettersi alla pari con lei
da uomo che comanda e decide; ciò forse le avrebbe consentito di liberarsene e di procedere a conquiste che, dopo la delusione del
primo amore, per lei avrebbero potuto essere la soddisfazione della sua vita.
Anche Angela fu vittima di questa mentalità paleocontadina che condizionò le scelte di tutta la famiglia mediante un viluppo
inestricabile di falsi ragionamenti intrecciati tra loro in modo tale che nessuno mai potesse liberarsene. E nessuno se ne liberò mai, infatti, me compreso, determinando così l'impossibilità di tutta la
famiglia di vivere liberamente e disviluppata dai paralogismi clerico-fascisti imposti da quei due gaudenti che si divertivano a
sanzionare in tutto e per tutto i loro figli per spassarsela invece da soli in camera charitatis.
Il moralismo paracattolico di mia madre, imposto con l'autorità e la retorica del linguaggio ripulito di mio padre,
condizionarono le scelte di tutta la famiglia radicandola profondamente nella mentalità fascista che in seguito non riuscì
più ad abbandonare. A guerra finita (1945), io avevo qualche mese, mio padre si ritrovò rovinato dalle scelte rovinose del Duce,
ma né lui né i suoi figli in età della ragione se la presero mai col Duce: la colpa era della guerra e una guerra si può sempre perdere. Angela come Ginetta dovette sacrificare a questa mentalità
orrenda il suo primo amore mai vissuto, mai rivelato all'altro, mai confessato neanche a se stessa, amore di cui tutti meno che lei
sapevano tutto. Aveva però, quell'amore mai fiorito, tutte le caratteristiche dell'amore. Angela aveva scelto Sandro perché
Sandro aveva con sé, oltre a tutto il resto, anche l'aureola della trasgressione (una sorella puttana, vogliamo scherzare?). Dovervi
rinunciare fu per lei la prima presa di coscienza che la sua vita lei non l'avrebbe mai vissuta. Era testarda, Angela, e semplice nei
suoi ragionamenti e nelle sue scelte. Inconsciamente decise che siccome Sandro no, per il diktat dei miei, lei non si sarebbe più
avventurata in amori dei quali per altro non gliene importava gran
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che. Nei confronti di Angela i miei hanno la grave responsabilità
di averle negato, per un motivo o per l'altro, tutto. E lei con cieca e testarda obbedienza ha sempre avallato le loro scelte sapendo che al di fuori di quelle per lei non ci sarebbe stato scampo. Dunque,
Sandro no! E va bene. La guerra incombeva. La vita era costantemente in forse. Era meglio divertirsi con le stupide
ragazzate di Maria e di Zara che ovviamente non compresero mai quell'improvviso voltafaccia di Angela che prima era sempre
pronta a cercarle con la chiara intenzione di incontrare Sandro e che adesso invece ogni vola che Sandro appariva all'orizzonte lei
si defilava e abbandonava la compagnia. Fu insomma, quell'amore, un amore sospeso. Data la guerra, si rimandava tutto
a tempi migliori. Forse anche quell'amore doveva essere rimandato come tutto il resto a tempi migliori.
Che non vennero. La famiglia fu trasferita prima ad Avezzano e poi a Sulmona dove Angela vide le due sorelle andare
a nozze e si convinse che a lei tutto ciò non sarebbe mai toccato perché lei o avrebbe sposato Sandro o nessuno. Pensava di rimanere in casa insieme a mamma e papà se il suo sogno non
fosse andato a buon fine. Poi la sua vita si ridusse ad assistere quelle due sorelle tornate a casa dopo essersi maritate e che
facevano avanti e indietro fra Roma e Sulmona, che partorivano i loro primi figli, che combattevano le loro schermaglie per avere un
primato in questa o quella direzione. Quando Assuntina doveva partorire il secondo figlio, mia
madre, costretta a partire, lasciò Angela con lei per assisterla. Il piccolo si sbrigò a nascere e Angela appena sedicenne dovette
affrontare il suo primo parto tutta sola. Fece avvertire immediatamente Delio, Delio con la bicicletta andò a prendere la
levatrice; ma quando arrivarono il piccolo era già nato e la levatrice fece appena in tempo a tagliare il cordone ombelicale, cosa che avrebbe dovuto fare lei se non fossero arrivati in tempo.
Sì, ma come? Lei non lo sapeva fare e quindi non avrebbe potuto far altro che preoccuparsi.
Angela insomma faceva quello che le veniva ordinato. Viveva come trasognata. Intanto il pensiero di Sandro diventava
sempre più flebile e sempre meno forte la forza che l'aveva spinta verso di lui. A lungo andare Angela aveva completamente abraso il
suo istinto sessuale convinta dalle suore che esso era peccaminoso e che tutt'al più poteva essere immolato sull'altare di mamma e
papà. Aspettava quindi un uomo più per imitazione delle sorelle maggiori che perché sentisse effettivamente corporeamente il
desiderio di proiettarsi verso di lui. Lo scempio del corpo
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femminile, osservato durante e dopo il parto di Assuntina, aveva definitivamente suggellato in lei questa specie di infibulazione che
la povera ragazza aveva subito con la violenza buona, tipica dei miei... e dei cattolici in genere. Oppure imitava senza molta convinzione qualche amica scema che stava sempre alla ricerca di
un uomo. Una volta con una di queste, più per gioco che altro, rispose ad un'inserzione matrimoniale letta su un giornaletto
femminile tipo, a quei tempi, “Grand Hotel”; mandarono anche delle foto e il tizio si mostrò subito interessato scrivendo delle
lettere molto belle. Alle quali le due incoscienti non sapevano rispondere e allora fecero ricorso all'aiuto di Assuntina che rispose
per loro fino a quando la corrispondenza non si chiuse per stanchezza più che per un rifiuto da una parte o dall'altra. Anche
nel campo degli amori virtuali Angela era particolarmente poco portata e se non fosse stato per l'aiuto di Assuntina non avrebbe
provato mai neanche l'emozione di essere corteggiata sia pure per lettera. Per lettera, sì: quando aspettava una lettera di quello
sconosciuto l'emozione la assaliva e a volte scoppiava a piangere, specialmente se era da sola, apparentemente senza alcuna ragione. A un certo punto parlando di Giacomo secondo e pensando
alla vita delle monache che l'avevano così bene istruita pensò che forse quella di ritirarsi in un convento avrebbe potuto essere la
scelta migliore. La sua mente annaspava contro le parole ma poi la sua povera immaginazione non andava oltre quello che aveva
visto frequentando le monachelle della chiesa. Che facevano? Mangiavano o no? E se mangiavano, come mangiavano? E ci
andavano al bagno? Ma le domande non erano neanche formulate. Insomma tutto finiva in un radotage insensato: Angela vi si
crogiolava per un po'; poi si stancava. Anche la vita monacale perse fascino piano piano ai suoi occhi e l'ipotesi fu esclusa per
sempre. La vita di Sulmona invece era bella. Quel casello era una reggia. La città, splendida, era a due passi. La gente era ospitale ed
essendo generalmente brutta era particolarmente ospitale e sensibile verso le persone di bell'aspetto e le persone della mia
famiglia, vero o falso che sia, erano ritenute tali. Angela era corteggiata ma non lo capiva, non se ne rendeva conto, un po'
perché era sempre con la testa confusa e un po' perché se coglieva uno sguardo interessato, il suo pensiero correva a Sandro e l'idea
di un destino ormai segnato la rigettava nei suoi radotage interminabili. Perciò aveva deciso che lì a Sulmona la sua vita
sarebbe stata felice. Se fosse durata! Ma Angela era una di quelle persone
particolarmente care alla Sfiga, divinità dei tempi nostri. Sono
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convinto che lei aveva smesso di pendere decisioni e che ogni volta che si trovava di fronte a delle scelte nicchiava,
temporeggiava, tergiversava, nel tentativo di depistare questa dea tremenda che alla fine riusciva sempre comunque a colpirla. Dopo un paio d'anni mio padre riuscì ad ottenere di nuovo il
trasferimento a Bolano. Ad Angela sembrò chissà quale fortuna; in realtà la Sfiga le stava preparando una trappola micidiale che
avrebbe chiuso ermeticamente il lavoro iniziato con Sandro. Pensava che lo avrebbe rivisto, che, finita la guerra, anche quella
storia di Pia sarebbe stata dimenticata, come tante altre cose, che in fondo suo padre avrebbe potuto cambiare idea, che se gli avesse
permesso di tornare a frequentare Maria e Zara, sicuramente si sarebbe ammorbidito anche sulla sua frequentazione con Sandro.
Ma non andò proprio così. Maria e Zara la aspettavano con ansia. Si riabbracciarono felici, ma di Sandro neanche l'ombra e neanche
il minimo cenno da parte loro. Abituata al silenzio, Angela aspettò che qualche notizia le provenisse da qualche parte e finalmente un
giorno Maria parlando con Zara le chiese “Ma Sandro per Natale non torna da Roma?” Allora capì che Sandro se ne era andato a studiare a Roma e che non sarebbe tornato che raramente a
Bolano. Ormai anche l'immagine di quel bel ragazzo stava svanendo dalla sua memoria. Quella notizia fu un ulteriore strappo
della forbice che recide dalla nostra memoria le immagini residuali di coloro che per un motivo o per l'altro non vediamo più. Angela
si accontentò di tornare a vivere con Maria e Zara i tempi belli di una volta; sembrava che quelle due non fossero cresciute: il loro
passatempo preferito era quello di “ripassarsi” le persone, cioè di dirne male alle spalle criticando per ridere questo o quel loro vizio
o difetto [Euclide si era sposato una smonacata e quella ogni volta che andava a dormire recitava il rosario inginocchiata alla sponda
del letto per farsi perdonare il peccato che avrebbe commesso una volta che vi fosse salita sopra; Giulia arrotondava le misere entrate della sua pensione di guerra con marchette fuggevoli e facilmente
nascondibili (ne parlava tutto il paese in tempo reale); oppure le vecchie bravate di tipo maschile che avevano dilettato la loro
infanzia.] Di Cecca ho già parlato, ma anche quello dei fichi è un
episodio simpatico perché coinvolse anche tutti noi più piccoli e perché ne anticipava un altro molto più importante. Si trattava
della vigna che, grazie all'interessamento di mio padre, un cantoniere aveva ottenuto lungo la ferrovia e che quello aveva
chiuso con due splendidi alberi di fichi. Nel giugno di quell'anno, dopo la prima fioritura, quei due alberi si presentavano così carichi
di frutti da attirare l'attenzione di tutti i malintenzionati e la cura
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particolare del padrone che ovviamente non se li voleva far portare via. Le tre sciagurate decisero di andarsi a mangiare un po' di
quegli splendidi fichi pensando stupidamente che quegli alberi di confine fossero di tutti e portandosi dietro me, Gisa e Giacinta, un'altra accolita di quella piccola armata brancaleone. Ce ne
stavamo dunque tutti sdraiati sulla scarpata che divide la ferrovia dalla stradina che la costeggia assaporando quei frutti maturi al
punto giusto e dolcissimi, quando improvvisamente fece irruzione il cantoniere che ne era il padrone e cominciò a insultarci e a darci
del ladro minacciandoci di denunce e di chissà che cos'altro. Naturalmente ci sequestrò il cestino che ci eravamo portati
appresso per fare incetta dopo esserci abbuffati e pretese che restassimo lì fermi fino a quando non fossero arrivati i carabinieri.
A un certo punto di quella sceneggiata, concepibile solo nei tempi della fame dell'immediato dopoguerra, dal folto fogliame di quelle
due piante meravigliose sbucai io con le mani imbrattate dai fichi che mi ero mangiato e di cui mi ero riempito le tasche. Il
cantoniere mi guardò bene per sgridarmi e un altro po' non gli prese un colpo: “Eh, ma tu 'n sì i figlie d'i survegliante? “None.” risposi scioccamente terrorizzato com'ero dall'espressione truce di
quell'uomo anziano col volto solcato dalle rughe e bruciato dal sole. Non mi diede ascolto naturalmente. “Oddì, i cumma facce?
quist so' i figlie d'i survegliante.” Da quel momento fu lui più terrorizzato di noi perché ormai temeva la reazione di mio padre.
Prese il cestello che ci aveva sequestrato, lo riempì dei più bei fichi che riuscì a trovare e ce lo consegnò insieme con le scuse per
quanto ci aveva detto e pregandoci di non raccontare nulla a nostro padre. Preoccupazione inutile! Se mio padre avesse saputo quello
che avevamo fatto, a noi ci avrebbe anche picchiato, ma a lui lo avrebbe ringraziato. Mio padre era un socialista prestatosi al
fascismo senza convinzione perché tengo famiglia. Ma l'avventura più traumatica quelle tre sciagurate la ebbero quando dopo due giorni che Sirio, il calzolaio in odore di
omosessualità (perché scapolo, troppo incline alle amicizie maschili e per niente a quelle femminili e perché troppo amante
della cultura e troppo raffinato nel vestire, sia pure poveramente) non apriva la bottega e nessuno sapeva che fine avesse fatto,
decisero di entrare loro nella sua povera casa per fare un'indagine sulla quell'anomala situazione. Sirio occupava una casetta a due
piani con un solo ambiente al pianterreno e un solo ambiente al primo piano. Il pianterreno però aveva anche un'entrata sul lato
posteriore perché lì il poveretto rimetteva il calesse con cui si recava in campagna quando non aveva scarpe da riparare. Le tre
dell'avemaria forzarono la porta posteriore, avanzarono nel buio
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pesto dentro la casa chiamando a voce bassa “Sirio? Siriù?” E Sirio, quando Maria, più coraggiosa delle altre, si spinse alla cieca
verso l'arco che separava la bottega dalla retrobottega, si presentò loro ma con gli occhi strabuzzati e penzolando dal gancio che pendeva da quell'arco e che fino ad allora era stato utilizzato per
appenderci insaccati di maiale dati in cambio di qualche riparazione. Cominciarono a gridare tutte e tre come invasate e
restarono immobilizzate dal terrore fin quando non arrivarono le persone del vicinato. Angela non aveva mai visto la morte. Anzi
no; l'aveva vista, ma in una forma anche bella: la bambina di Cettina composta in un atteggiamento sereno da angioletto tornato
in cielo dalla sua madre vera sul bel catafalco che mia sorella Cettina le aveva preparato. Lo spettacolo dell'impiccato quindi si
sostituì all'altro e restò per sempre impresso nella sua mente. Intanto nell'immediato le procurò una febbre che non volle più
andarsene e che ricompariva ogni tanto inopinatamente, tanto fu lo spavento che quel corpo penzolante le aveva procurato. Sirio poi
ritornò per anni nei suoi incubi, perciò, se qualcuno le chiedeva di raccontare quell'episodio angoscioso della sua vita lei si schermiva col solito: “Lasciami stare: non mi va proprio!”
Noi continuavamo a fare la vita dei caselli ferroviari e dunque mia madre per provvedere al sostentamento di una prole
così numerosa allevava quando poteva galline conigli e maiale. La mattina usciva carica di mangime, chiamava a raccolta le galline e
distribuiva loro, di solito, grano o mais a seconda di quello che riusciva a rimediare. Un anno le capitò un fatto strano. Era
abituata a ricontare le galline sia la sera, quando le metteva per così dire a dormire, sia la mattina quando le chiamava per la
colazione perché poi per il resto della giornata quelle brave bestiole, destinate alla nostra tavola, si arrangiavano da sole
massacrando vermi, insetti e tutto il commestibile che si trovavano a portata di becco. Quell'anno però mia madre contava quindici galline al mattino e quattordici la sera. E la cosa, una sera sì e
l'altra pure, stava succedendo con una regolarità curiosa. Mia madre alla fine decise di indagare sulla doppia vita della gallina
presente/assente. Che faceva la notte quella depravata? Quale gallo andava a trovare per farsi sbattere, la.... Ah, ah, non si dice
né si pensa quella parola, signora Antinea! Insomma una sera decise di seguirla e scoprì che la povera bestia si era fatta un nido
in un cespuglio lì nei pressi, vi aveva raccolto un po' di uova e le covava amorosamente staccandosene solo la mattina per venire a
nutrirsi. Perché era accaduto tutto ciò? Perché mia madre nella
stagione degli amori la sera oltre a contare le sue galline le visitava
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come si fa agli uomini per la prostata, cioè si infila loro, alle galline dico, un dito nel culo per misurarne la temperatura.
Quando mia madre sentiva che la temperatura era più alta del solito significava che la gallina era ornai una biocca, era cioè pronta per la cova. Allora mia madre raccoglieva in un nido un po'
di uova gallite, cioè fecondate dal gallo, e dava alla biocca la possibilità di sfogare il suo istinto materno.
Certo ad Angela non poteva fare la stessa visita che faceva alle galline e perciò mia madre non si accorse che Angela era
pronta per innamorarsi di nuovo visto che quel primo amore glielo avevano stroncato sul nascere. Se Sandro non andava bene sarebbe
stato un altro. Insomma l'amore adolescenziale che di solito è il primo vero “amore” non perdona nessuno, neanche i meno dotati
dal punto di vista ormonale. Spuntò nell'orizzonte di Angela un altro ragazzo che era anche una promessa per l'avvenire perché
particolarmente intelligente e portato allo studio. Vittoriano Esposito si chiamava e in seguito si laureò e divenne professore di
lettere, ma quando ormai il destino lo aveva già portato lontano dalla mia famiglia e da Angela. Vittoriano era bello come sanno esserlo solo i maschi
contadini quando gli mettono dentro la testa un cervello che funziona a 360 gradi e alla velocità della luce. Era alto, snello,
lineamenti marcati ma non volgari, due occhi neri grandi che sembravano ammassi di stelle scintillanti, dei capelli solo
apparentemente lunghi, ma in realtà abbondanti perché lasciati in disordine da una volontaria trascuratezza, tutta maschia e
contadina, cioè del maschio che ha altro da fare che starsi a curare i capelli. Vestiva ancora i pantaloni così detti alla zuava: era un po'
antiquato nel vestire ma sempre perfettamente in ordine perché la madre, che lo adorava, non si occupava d'altri che di lui.
Non ostante ciò, cioè anche se la madre lo adorava e un po' lo viziava, Vittoriano era molto serio: studioso, pensoso, sempre preoccupato del suo avvenire e di quello della madre. Ciò
conferiva al suo viso un'espressione più adulta degli anni che aveva e lo rendeva perciò ancora più affascinante.
La prima volta si incontrarono lui e Angela in una situazione abbastanza imbarazzante sempre per colpa di quella pazza di
Maria che era un vulcano di trovate a volte non proprio intelligenti. A Bolano, ma credo in quasi tutti i paesi italiani di
quel tempo, da una certa ora del pomeriggio fino a tutta la notte sulla piazza del mercato si passeggia avanti e dietro fino
all'estenuazione, ma di fianco alla piazza ci sono negozi e un paio di bar dove chi è stanco si siede per prendere un caffè o quello che
gli pare. Vittoriano era seduto ad uno di questi bar, ma volgeva le
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spalle alla piazza per cui le tre amiche passeggiavano in lungo e in largo gettando lo scompiglio, con i loro scherzi e i loro lazzi, fra i
più grandi e più seri frequentatori della piazza che però, conoscendo bene la figlia di Arturo, che era una pazza, la lasciavano stare.
A un certo punto però Maria esagerò: finse di avere un terribile mal di pancia per cui gridava come un'ossessa destando la
preoccupazione di tutti i presenti in quel momento. Vittoriano si volse appena, per vedere che cosa stesse accadendo, ma non si
alzò perché intorno a Maria si era già fatto un capannello di persone che volevano aiutarla. C'era trambusto, voci, la cosa non
sembrava voler finire mai. Allora Vittoriano si decise, si alzò e guardando da una parte e dall'altra per capire incontrò prima lo
sguardo di Angela e poi quello di Maria che non fece in tempo ad intercettare perché Maria gridò: “Oddì! I quist? Oddì, quant'è
béglie!” Vittoriano capì che quell'importuno e inopportuno complimento era rivolto a lui. Se ne infastidì: i maschi bolanesi
non sono abituati alle frittate rovesciate (caso mai era il maschio che faceva i complimenti a una donna). Incontrò di nuovo lo sguardo di Angela e non sapendo che dire perché l'emozione gli
strozzava la gola se ne uscì con le parole: “E' amica a tì sta scèma?” Angela si offese: “Scine! Perché?” rispose con aria di
sfida. Il guanto era stato lanciato, la sfida era ormai aperta.
Vittoriano non pensò più all'accaduto preso com'era dai suoi impegni di lavoro e di studio, Angela invece non faceva che
pensare a lui. Cercava il modo di poterlo reincontrare; cercava di incoraggiare le due amiche a prendere iniziative stravaganti nella
speranza che come quella prima volta si ripetesse l'incontro; tutte le volte che poteva convincerle le portava in piazza a passeggiare,
ma di Vittoriano neppure l'ombra. Col tempo si convinse che forse stava a Bolano di passaggio; ma no, parlava l'inconfondibile dialetto di Bolano; forse lavorava; ma no, era troppo giovane;
forse la madre non lo faceva uscire; ma no, era troppo grande. Insomma non riusciva a trovare un'ipotesi che le consentisse di
attuare una qualche strategia. Un bel giorno ecco che mio padre rientra e incomincia il suo
solito racconto di cosa aveva fatto durante la giornata. Oggi, Antinè, ho conosciuto una donna molto molto bella; poveretta, è
vedova e ha un solo figlio, maschio. Ma dovessi vedere che semplicità, che aspetto pulito, che modo di parlare, paesano ma
educato e rispettoso. E' venuta da me col figlio, che è vedova l'ho pensato io perché il marito non l'ha mai nominato, per chiedermi
se possono coltivare quella striscia di terra che sta sotto la scarpata
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dopo il casello, che è della ferrovia e che perciò nessuno coltiva. Mi ha fatto pena, perché ho capito che non hanno niente. Io non ce
l'ho l'autorità di darle quel permesso ma gliel'ho dato lo stesso, tanto che mi possono fare! Le ho chiesto che faceva quel ragazzo e lei con molta modestia mi ha risposto: studia. Pensa, lo ha
mandato addirittura al liceo, con tanti sacrifici, mi ha detto, ma è bravo, porta i risultati e perciò vale la pena di sacrificarsi. E' un
maschio, Ndiné: è giusto che studi. Parlava di Vittoriano. Nulla sapeva che quel ragazzo
pensava inconsapevolmente ma continuamente ad Angela e che Angela pensava a lui con tutti i sentimenti. Fu ancora il caso a farli
incontrare la seconda volta. Il ragazzo si presentò in casa con un cestello pieno di fichi. Questo signò ve lo manda mamma. Girò gli
occhi per la grande cucina nella quale era stato ricevuto e da una parte vide Angela che sferruzzava. Tutte le mie sorelle dovevano
imparare a cucire a macchina e a fare la maglia. Angela alzò gli occhi dal lavoro perché le era sembrato di riconoscere quella voce.
Lui ammutolì e non riuscì a dire più neanche una parola. Si guardavano inebetiti dalla sorpresa e quando mia madre lo ebbe liberato dal cestello ringraziandolo non gli sembrò vero di
potersene andar via di corsa. Aspetta! Dimmi chi sei! Come ti chiami! Ma Vittoriano era ormai così lontano da non poter
neanche sentire la sua voce. Quando mio padre rientrò e vide i fichi non gli sembrò vero.
Non si mise neanche seduto. Incominciò a mangiarli e se li sarebbe finiti tutti, come al solito, se non fosse intervenuta mia
madre per salvarne qualcuno per noi figli. Dove li hai presi? Chiese papà. Me li ha portati un ragazzo. Ah, dev'essere quello
dell'altro giorno, il figlio della vedova. Com'era? Alto? Moro? Spigliato? No, spigliato no, mi sembrava imbambolato. Angela
rispondeva mentalmente a quelle domande. Aveva impressa nella mente l'immagine di quel ragazzo del quale si era chiaramente innamorata. E l'amore, si sa, aguzza l'intelligenza, suggerisce le
mosse, aiuta a vivere. Domani gli riportiamo il cestello. Disse mia madre. Ci vado io, disse subito Angela con noncuranza volendo
dare ad intendere che era solo per buona volontà e perché aveva capito dove stavano di casa.
Oddi cumma si belle! Intre, e jintre. Sì la figlie d'i survegliante? Ascìdete. Statte ne poche. Angela, solitamente
timida e sempre pronta a rifiutare, quella volta accettò volentieri l'invito della madre di Vittoriano nella speranza che Vittoriano
spuntasse da qualche parte. Ringraziò e si mise seduta rispondendo a voce altissima alle domande della donna nella
speranza che il ragazzo la sentisse e si presentasse con un pretesto
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qualsiasi. E così fu. Vittoriano non era uno stupido. Capì subito che Angela era interessata a lui. Prese il cestello e scappò via di
corsa. E di corsa ritornò portandolo ancora una volta pieno di fichi e dicendo “se vi sono piaciuti tanto, portane un altro po' a casa. Questi sono più buoni di quegli altri. Quelli li ha colti mamma e
mamma va sempre di fretta. Invece questi te li ho scelti uno per uno.” Disse intenzionalmente “te li ho scelti” e Angela non se lo
fece ripetere perché aveva capito bene. Ritornò a casa in preda ad un'emozione che la faceva parlare da sola. Parlava da sola e
mischiava a caso poesie di scuola, filastrocche da gioco e pensieri smozzicati. Ogni tanto gridava come se qualcuno la volesse
prendere. Si fermò, si sedette, prese un fico e ne fece un solo boccone. Altri ne seguirono, insomma se li mangiò tutti e si trovò
nei guai perché di quel cestello vuoto non sapeva che fare, ora. Se fosse tornata a casa doveva spiegare il fatto che era vuoto; se lo
buttava, poi non avrebbe potuto restituirlo e a quei tempi un cestello era un cestello; non restava che tornare indietro a rubare
fichi dalle piante della madre di Vittoriano. Le piante di fichi per chi le sa trattare sono meravigliose. Tu ti ci puoi arrampicare, restare nascosto nel fogliame e farti una
scorpacciata di fichi senza che il proprietario possa né vederti né sentirti, se ci sai fare. Ma Angela era inesperta: piena di paura,
sorpassò la casa, raggiunse la pianta, si face largo cautamente tra le grosse foglie, ma di fichi non ce n'era neanche uno. Doveva
andare più in alto. Scalò il primo ramo, poi il secondo, poi fece di questo un valido appoggio, o almeno tale lei lo reputò, e si sporse
verso l'altro per cogliere i fichi più maturi; ma, ahimè, il ramo d'appoggio cedette e lo schianto fu catastrofico. Si ritrovò per terra
con Vittoriano che la guardava perplesso. Si guardarono in silenzio. Poi lui concluse: me sa ca tu si
sceme come l'amica te. La aiutò a rialzarsi, le riempì di nuovo il cestello di fichi e in silenzio la riaccompagnò fin davanti alla porta di casa. E la lasciò senza aggiungere altro a quello che aveva detto
in prima battuta. Lei rimase davanti alla porta di casa sua pensando che quel ragazzo era un opportunista e che si era
comportato in quel modo perché mio padre aveva aderito alla richiesta della madre; lui tornò a casa camminando pianissimo
perché nella ridda di pensieri che gli affollavano la mente ce n'era uno più insistente e ossessivo degli altri: che se crede? perché è la
figlie d'i survegliante... Lei quando a casa le chiesero perché aveva fatto così tardi mentì cercando di nascondere le escoriazioni che
aveva sulle gambe e lui quando la madre gli chiese che era stato quel rumore rispose: gnent, ne cane.
Mio padre, incapace, come al solito, di leggere nel cuore
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femminile, pensando che quella figlia vagabonda, a cui piacevano solo le amiche e le scorribande con le amiche, che non sentiva mai
parlare di ragazzi né di amore, che non amava il cinema, che non voleva mai ascoltare la radio, che se non stava con le amiche se ne andava dalle monache, che quella figlia, dicevo, nutrisse un
sentimento religioso inespresso per pudore, si illuse per l'ultima volta di avere un religioso in casa. Un pomeriggio Angela andò a
trovarlo nell'ufficetto che papà si era riservato poco distante da casa ricavandolo da una casamatta di quelle che le ferrovie un
tempo disseminavano lungo le linee dei treni per far fronte a qualsiasi necessità delle linee stesse. Era spinta dalla volontà di
vedere il telefono che mio padre si era fatto installare e che suscitava la curiosità di tutti, non solo la sua. Ma si può chiamare
anche chi non è ferroviere? Certo. Allora posso telefonare a Cettina. Cettina, come detto, si era sposata con Vincenzo ed era
rimasta ad abitare a Bolano, ma nel paese alto, lontano, e il telefono le era stato installato soprattutto per ragioni commerciali.
Prova, dai! Quando Angela sentì la voce di Cettina non si emozionò affatto; questa sorella aveva una specie di karma che la rendeva insensibile a qualsiasi manifestazione del creato o
dell'ingegno. Per lei era quasi tutto ovvio. Aveva ridotto la sua sensibilità ad un solo sentimento (se di sentimento si può parlare):
la paura. E l'amore che era insorto in lei nascostamente aveva dovuto farsi breccia in quel modo, cioè dolosamente, nello spesso
muro difensivo che lei aveva eretto fra sé e il mondo. Due parole: Cettì, sì tu? So Angela, te so telefonate pe' pruvà i telefone. Cettina
le disse delle cose, ma lei dopo averla ascoltata (forse) rispose: va bone... e riattaccò.
Mio padre la invitò a sedersi e cercò di sondare i pensieri di quella figlia per lui sconosciuta, ma Angela fu impenetrabile.
Rispondeva sempre: no, non so, ma, chissà. Quella figlia era stata la sua disperazione da piccola e continuava ad esserlo ancora adesso che era cresciuta. Alla fine concluse che era meglio affidare
i sondaggi a mia madre e alle sorelle maggiori. Succedeva e succede sempre così nella mia famiglia: un pudore smisurato nei
faccia a faccia e al tempo stesso il chiacchiericcio più irrispettoso quando si parlava alle spalle. Fu questa la maledizione che Apollo
scagliò contro mio padre, Edipo contadino, e contro tutti i suoi discendenti, una specie di follia per cui tutti sanno tutti di tutto, ma
nessuno osa dire all'altro ciò per cui ritiene che l'altro si irriterebbe o si offenderebbe; insomma l'ipocrisia eletta a sistema capillare
che aveva ed ha tuttora, come coté assurdo, l'illusione di poter nascondere agli altri gli scheletri che ciascuno di noi ha nel
proprio armadio, armadio spesso in comune nel nostro caso.
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Insomma: mamma ne parlò a Cettina, che lo disse a Assuntina, che lo disse a Ginetta, che parlò con Angela, che chiese
il perché di quella chiacchierata a mamma, che riferì la sua richiesta a Cettina che ecc. ecc. ecc. Insomma tutte alla fine sapevano che Angela voleva (si diceva così in bolanese)
Vittoriano, meno che Angela, e Cettina che, da primogenita, si era autoproclamata la vestale custode della moralità della famiglia
venne a sapere quasi subito che Olga, la madre di Vittoriano, non era sposata e che quel figlio l'aveva avuto da un uomo poi
eclissatosi e del quale non si era saputo più nulla. Mia madre, pur di maritarle, quelle figlie, avrebbe anche chiuso gli occhi su una
colpa così grave, ma sapeva che né mio padre né Cettina né soprattutto Vincenzo, che a sua volta si era autoproclamato il
braccio armato della grande moralizzatrice, cioè Cettina, avrebbero mai accettato quell'amore. Quando Angela capì
l'antifona reagì come al suo solito: chiuso Vittoriano! E Vittoriano Esposito non riuscì mai a capire che cosa avesse fatto di male per
meritare la sovrana indifferenza che lei da allora in poi gli dimostrò quelle poche volte che si incontrarono di nuovo. Concluse gli studi, si laureò in lettere, si mise a fare il professore,
prese moglie, fece figli, adesso è morto ed è morto senza mai essersi potuto dare una risposta a quella domanda: perché
improvvisamente quella ragazza di cui era innamoratissimo aveva mutato opinione? Bah, chi lo poteva sapere? L'ipotesi più ovvia
era perché lui era figlio di una poveraccia e lei invece di un sorvegliante e di questa spiegazione, anche un po' indignato si
accontentò. Io lo so che oggi questo discorso fa ridere i polli, ma si era
nel 1946, tanti e tanti anni fa, in una regione d'Italia penultima o forse terzultima nella graduatoria delle regioni più depresse e
meno desacralizzate, e questa conclusione sembrava a mio padre e al resto della famiglia, che allora contava, la conclusione più ovvia: un nn? mai! Povera Angela! Era nata per essere privata di
tutto, per tutta la vita. Voi dite che non ci credete al destino: ebbene io sì, ci credo; quando penso a questa sorella ci credo
proprio; subì una gestazione inenarrabile; fu messa al mondo con una imperfezione fisica: completamente sorda all'orecchio destro;
crebbe dimenticata da tutte le sorelle maggiori che avevano ben altro da pensare e ignorata dai fratelli minori che erano
strutturalmente diversi da lei. Insomma la vita le tolse esattamente la metà di quello che le spettava in tutti i campi. In amore poi,
l'esclusione fu totale e fu dovuta ad una sorta di cappa culturale che le impose regole morali restrittive ed assurde mentre il resto
d'Italia se la spassava fra amori, amorazzi, adulteri, triangoli ecc.
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ecc. ecc. Poi ditemi che non credete al destino! Ma non è che si farebbe suora? Ventilò un giorno mio padre
e quando l'ipotesi fu riferita ad Angela, la risposta fu la più logica che ci si potesse attendere: che ci si facesse lui, suora. Risposta che per l'omertà di famiglia mio padre non conobbe mai. Io
quando parlo di destino penso ad una sorta di enorme molletta come quella per stendere i panni che ci tiene con una chela dentro
di noi e l'altra al di fuori di noi. Intendo insomma ciò che gli antichi Greci significavano con la parola ethos. In quella parola
essi includevano indole, carattere, moralità, destino, disposizioni, scelte, preferenze ecc. Angela non reagì al diktat che le toglieva
Vittoriano con le stesse modalità con cui le avevano tolto Sandro. Lei conosceva un solo valore, la famiglia, e se la famiglia diceva
che qualcosa non andava bene, significava che non andava bene. Punto. Già, ma chi era la famiglia? Non ci si capiva un cazzo! Una
volta prevaleva l'opinione di mamma, una volta quella di papà, una volta quella di Cettina o di Ginetta, una volta, perché no,
quella di nonna Francesca: insomma, un casino all'interno del quale non era possibile capire niente. E il tutto, per quanto mi riguarda, all'interno di un'Italietta democristiana nella quale
comandava chi si alzava prima purché obbedisse al Vaticano, che però asseriva di non voler accettare il comando. Insomma ce n'era
per tutti e di tutti i colori. In queste condizioni la povera Angela che, va detto, non fu
mai una mantide, si rassegnò a rinunciare agli amori più belli della vita, quelli dell'adolescenza, tanto che jje fa? diceva. E oggi se le
chiedete qualche ricordo a proposito di quegli amori lei non risponde, dice solo sì o no, se qualcuno prova a ricordare qualche
particolare che li riguarda. E dunque il racconto della sua adolescenza finisce qui perché in certo qual modo è più
interessante per il narratore la sua vita adulta e gli eventi che la segnarono. Partenza per Roma. Arriviamo nel casello di km 3 che oggi
non c'è più perché è stato raso al suolo e all'improvviso comparve nella sua vita un personaggio unico, Aristide Mostacci. Era un
uomo più che adulto, con una decina di anni più di lei, impiegato delle ferrovie e per caso capitato chissà come o perché in quella
nostra dimora abbastanza fuori mano. Del fascismo in cui era cresciuto aveva conservato tutte le apparenze. Era sempre vestito
da impiegato, con giacca e cravatta, capelli impomatati, barba fatta e un non so che di viscido in tutta la persona che faceva pensare al
peggio: un impotente, un gay, un criptocriminale. Parlò prima con mio padre che con Angela. Chiese il permesso di frequentarla in
casa e frequentò casa per qualche mese. Solo che Angela, quando
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arrivava lui, cercava qualsiasi pretesto per allontanarsi. Era agevolata in ciò dal fatto di essere sempre fuori per il
suo lavoro da sarta in casa della signora Maria a piazza Bologna nel quale aveva coinvolto anche Gisa poco più che adolescente. E quando tornava, spesso stanca, se ne andava subito a dormire
anche se Aristide era in casa. Insomma non ci fu verso per quel pover'uomo di rimanere un attimo solo con lei. Tornavano col
treno, lei e Gisa, su cui salivano alla stazione Tiburtina e spesso Aristide andava ad aspettarle alla stazione vicina al nostro casello
dalla quale spesso erano costrette a tornare da sole e specialmente d'inverno col buio avevano una certa paura. Ma se non c'era
Aristide c'era il bastardello che avevamo ereditato dal precedente inquilino del casello, Zucchino, che le raggiungeva non appena
sentiva arrivare il treno delle sette con una puntualità di cui solo i cani sono capaci.
Ma una sera Aristide non era potuto andare e nemmeno Zucchino si era presentato all'appuntamento. Era inverno e si era
gia fatto buio. Le due ragazze camminavano in fretta e si tenevano strette sotto braccio, ma all'improvviso quello che temevano si verificò: un tipo strano, certamente un malintenzionato, sbarrò loro
la strada e loro appena si accorsero che le sue intenzioni non erano raccomandabili, cominciarono a strillare e a chiedere aiuto nella
speranza di essere udite da qualcuno o alla stazione, appena lasciata, o a casa, ancora lontana da raggiungere. Passarono, come
si dice, un brutto quarto d'ora e forse sarebbe finita male se Zucchino non le avesse sentite e non fosse accorso ad aiutarle.
Abbaiava come un forsennato e appena arrivato saltò addosso al malintenzionato addentandolo al trence e poi in più parti fino a
quando quello non fu costretto a fuggire per paura di essere raggiunto da qualcun altro, messo sull'avviso dai latrati di
Zucchino. Le due sorelle da allora fecero di Zucchino un oggetto di venerazione e quando lasciammo quel casello Gisa fu colta da una vera e propria crisi di pianto che durò alcuni giorni anche a
Roma. Il povero Aristide cercò in ogni modo di spiegare ad Angela
le sue intenzioni, a suo dire oneste, ma non ci fu nulla da fare. Angela si dimostrava fredda con lui e se poteva lo evitava. Quello
scemo! Stava sempre in mezzo meno che quando era servito! Diceva sempe riferendosi all'episodio del tentato stupro da parte
dello sconosciuto. Una sera, tra il lusco e il brusco, nostro fratello Pierino, che
rincasava non visto da lui, lo colse che si pettinava e si aggiustava la cravatta prima di bussare da noi. In particolare, inventato o no,
Pierino raccontava il momento finale dell'aggiustamento fingendo
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di sputarsi sulla mano e di inumidire la ciocca di capelli da mettere in ordine. Fu la fine del corteggiatore. Ogni tanto Pierino lo
imitava e per di più aggiungeva una piccola scoreggia forzata come se il distintissimo Mostacci volesse cautelarsi anche, durante la serata, da improvvisi imprevedibili meteorismi. Non era
possibile che quel tipo entrasse in casa nostra. Quelle imitazioni ne fecero una macchietta che ad Angela piaceva moltissimo e che
perciò tollerava, tanto ormai era chiaro che lo avrebbe liquidato. Così fu, tra le congratulazioni di tutti noi ma non di mamma
che vedeva sempre più precario il futuro di quella figlia bisbetica e indomabile. Perché indomabile? Perché ad Angela non importava
niente di rimanere o no zitella. Se fosse capitato uno decente se lo sarebbe preso e amen; se no, chi se ne frega: sarebbe rimasta in
casa a vendicarsi e a tormentare quei due che l'avevano messa al mondo nelle peggiori condizioni possibili.
Liquidato Mostacci la famiglia ebbe a che fare con la tragedia della messa a riposo di mio padre con un espediente che
non fa onore a chi lo mise in atto. Ad una visita medica di controllo, il pover'uomo appena cinquantacinquenne e nel pieno delle sue energie, assolutamente sicuro della propria salute e della
sua possanza fisica, si recò alla visita di controllo assolutamente certo che ne sarebbe uscito ancora abile la lavoro. Invece,
probabilmente per un complotto teso ad avvantaggiare il suo successore nell'occupazione del casello, che era, come già detto,
praticamente una villa in mezzo alla città, gli fu riscontrato un abbassamento dell'udito e, fra ricorsi e controricorsi, alla fine fu
messo a riposo d'ufficio senza possibilità di appello. Praticamente sarebbe stato messo in mezzo a una strada, privato del lavoro e
della casa, se l'Italia in quel periodo (1953/54) non fosse stata al culmine del potere democristiano e il paese non fosse nel pieno di
una vera e propria sindrome di buonismo: in cambio di voti ovviamente. Gli fu concesso quindi, a forza di raccomandazioni e di manovre messe in atto da Ginetta, di occupare ancora una casa
delle ferrovie purché ospite di un'altra famiglia di ferrovieri disposta ad accoglierlo. Fu la fine della libertà e della sua vita.
Ginetta, che pure aveva i suoi problemi con gli alloggi della ferrovia, colse a volo l'occasione per risolverli e occupare, insieme
a tutti noi ormai sfrattati dal casello, un appartamento più ampio, accettando, a suo dire, di accoglierci in esso. In realtà erano state
le lamentazioni di mio padre ad ottenere quello strano aggiustamento. Si era in piena crisi degli alloggi e quella
convivenza di due famiglie legate da parentela stretta sembrò a tutti noi la cosa più ovvia; ma ben presto si rivelò, come ho gia
detto nel romanzo di Ginetta, un vero e proprio disastro.
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Angela non sopportava le due bambine di Ginetta e le due bambine, dispettose come due scimmie, non sopportavano quella
zia musona che pretendeva anche di educarle al posto della madre. Per fortuna Angela aveva già da prima del trasferimento un lavoro presso una sartoria di piazza Bologna e ciò la teneva fuori per gran
parte della giornata! Altrimenti la nostra casa sarebbe diventata un inferno. Le ragazzine spesso strillavano perché Angela le
rimproverava o addirittura le picchiava e Ginetta interveniva inviperita contro noi tutti che le rendevamo la vita difficile e non
sopportavamo quelle due santarelle delle sue bambine. In realtà Momina e Isabella tanto santarelle non erano: si divertivano infatti
a far arrabbiare quella zia antipatica che si dava tante arie. Almeno così a loro sembrava. In realtà Angela non si dava arie; non se ne è
mai date. Semplicemente era incazzata col mondo intero per il fatto di essere nata mezza sorda e, secondo lei, mezza malaticcia.
Ma neanche questo era vero. Godeva e gode ancora di ottima salute: solo che le piaceva e le piace tuttora di dichiarare qualche
malanno anche se si tratta di un banale mal di testa. Angela invero insaporiva con i suoi continui malesseri e con le scaramucce contro le figlie di Ginetta i giorni di un'insopportabile esistenza
piatta e noiosa. Ma lo faceva non intenzionalmente, ma d'istinto, senza commenti e in un silenzio che ci accusava tutti. Insomma
non lo sapeva che la vita così come gliela avevano confezionata quei due poteva essere cambiata in meglio solo che lei avesse
voluto. Ma lei non poteva volerlo perché era bloccata da una paura che l'ha accompagnata per tutta la vita. Se prendevi una iniziativa,
anche positiva e facilmente realizzabile, lei ti diceva subito: “Ma chi te lo fa fare?”. Anche quando l'iniziativa non riguardava lei.
Una paura che oggi si è moltiplicata all'infinito da quando è rimasta sola perché làunica sua figlia è morta. Angela è ormai una
creatura sperduta in un mondo di cui lei crede di controllare ogni parte grazie alle ore ed ore che passa davanti al televisore, ma del quale in realtà non sa nulla e la falsa coscienza di ciò crea in lei
tutte le paure che lei incamerò quando era ragazzina per colpa di quella scema di Cettina.
Cettina aveva paura di tutto e di ciò approfittavano i miei due fratelli discoli per farle tutti gli scherzi possibili immaginabili.
Aveva paura del buio, dei rumori, delle ombre e delle luci, delle voci, degli odori, insomma di tutto: l'unica cosa di cui non avrebbe
mai confessato di avere paura era la morte. Era tanto convinta che c'era un aldilà nel quale avrebbe continuato a vivere, così com'era
nell'al di qua, che la morte non le faceva paura affatto; in realtà quella paura rimossa si traduceva nelle duemila paure di cui
soffriva. La poverina non poté fare a meno di farsi contagiare da
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quella sorella scema: per cui anche lei aveva paura di tutto, anzi di più: aveva paura del freddo, del caldo, delle malattie, del
camminare e dello stare in piedi, degli svenimenti e della coscienza, insomma, come si dice oggi, di tutto e di più. Ma non erano ancora diventate così numerose le paure
quando all'improvviso apparve all'orizzonte Rino, cioè Salvatore detto Rino (che si crede Manzoni? che solo lui ha diritto al suo
Lorenzo detto Renzo?). Era un calabrese aitante e di bell 'aspetto e per di più impiegato nelle forze di polizia come qualsiasi “terrone”
raccomandato ed emigrato a nord. Ad Angela non pareva vero e, a dire il vero, non pareva vero neanche a tutti noi di famiglia.
Sembrava innamorata, ma non era vero neanche questo. Angela non si innamorò mai più veramente: l'amore le faceva paura e
questa volta, magari, aveva ragione. L'amore dovrebbe far paura a tutti perché è la trappola con cui la natura ci inchioda alla biosfera.
Solo i suicidi o volontariamente o involontariamente si sciolgono da tutti i legami amorosi e riescono in questo modo a compiere
l'insano gesto; ma finché un solo legame amoroso o affettivo, sia pur tenue, ci tiene uniti ad un altro essere è quasi impossibile togliersi la vita. Angela non era innamorata del bel Rino; Angela
restava e ancora oggi resta legata a tutti gli amori della famiglia di provenienza: probabilmente non ha amato neanche le persone
della sua famiglia, come vedremo. E Rino probabilmente non era innamorato di lei. Come tutti i calabresi, e qui credo di poter
generalizzare per le esperienze che ho avuto molteplici con quel popolo bellissimo, era capace di amare, ma era anche capace di
non esternare in alcun modo tale sentimento e di poterlo nutrire in seno anche soffrendo enormemente, se non ricambiato, e tenendo
in seno anche la sofferenza. Rino insomma forse Angela l'amava, ma non ebbe la scaltrezza di nasconderle che lui dal matrimonio si
aspettava anche una dote adeguata. E la prima volta che ne fece parola ad Angela, Angela, calvinista in pectore qual era, pur senza saperlo, lo liquidò seduta stante irrevocabilmente. Più e più volte
lui cercò di riagganciarla per telefono ma mi ricordo (ho sentito personalmente una delle ultime telefonate) che Angela opponeva
sempre e con tutta calma il suo diniego determinato e definitivo. Dopo due o tre telefonate ovviamente il giovanotto desistette e
tutta la famiglia tornò a chiedersi che cosa ne sarebbe stato di quella figlia, sorella, che non si voleva piegare a quelle che erano
secondo loro le leggi dell'esistenza. Tutte le sorelle e Gisa in particolare restarono stupefatte da
quel comportamento. Allora, quando la società italiana che si andava lentamente industrializzando ma che conservava modelli
culturali contadini e/o paleocontadini le ragazze quando
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pensavano al loro uomo futuro lo pensavano bello e raffinato. Oggi non più, come è noto, perché bello e raffinato è sinonimo di
gay. Ma Angela sembrava che già allora avesse capito il trucco e quando in seguito le facevamo presente la bellezza di Rino lei rispondeva tiepidamente alla sollecitazione sottolineando che sì,
era vero, ma che non era quella la dote più importante in un uomo. Fu quello con Rino un amore che neanche sbocciò. Rino aveva
conosciuto Angela grazie a Giacomo che si era messo a frequentare giovani autisti della polizia, affascinato, come al
solito, dalla loro grande perizia nel guidare macchine anche ad alta velocità. Rino si era creduto che la nostra famiglia fosse più
benestante di quello che era sotto gli occhi di tutti: vita tranquilla ma nessuna ricchezza; quando scoprì la situazione reale però non
se l'era più sentita di lasciare Angela, che da ragazza era veramente bella e che gli piaceva non poco. Ci pensò lei però a
mandarlo a spasso con una determinazione che come ho detto a quel tempo stupì tutti.
A questo punto Angela, più anziana degli altri due fratelli, non trovò altro loisir che quello di unirsi a loro quando la domenica andavano a ballare e fu in una di queste feste da ballo
che spesso si svolgevano in balere di periferia così modeste da ispirare film indimenticabili sui corteggiamenti di militari in libera
uscita e scapoli in cerca di avventure. In cerca di avventure andava forse anche un viveur, si fa per dire, quarantenne che ormai non
escludeva dalla sua vita la possibilità di un matrimonio tardivo ma per lui del tutto conveniente. Alberto, si chiamava così, era stato
fino a quel momento un vero e proprio tombeur de femmes provinciale e piccoloborghese di origine contadina, con qualche
nostalgia fascista e sicuramente conservatore e tradizionalista: a lui conquistare una donna e riuscire ad andarci a letto dava più
gusto perché si contravveniva ai dettami del cattolicesimo ormai definitivamente intussuscettato: quella che lo rifiutava era una donna seria; tutte le altre, comprese quelle che con lui ci stavano,
erano tutte puttane. Angela, lo verifico dalle foto, era veramente bella: diciamo
una brutta copia italo/provinciale della Taylor e sicuramente capace, col suo carattere idiosincratico e scontroso, di far
innamorare qualcuno. Quel qualcuno fu Alberto che aveva il carattere vero e proprio del seduttore. Media altezza, fisico magro
e proporzionato, un bel viso simpatico e sempre sorridente, un carattere solare reso ancora più aperto e sicuro da quarant'anni di
vita quasi tutta trascorsa a Roma ma rimasta legata indissolubilmente a un paesetto del profondo Abruzzo famoso
perché fucina di cuochi professionisti sparsi per tutto il mondo.
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La storia di Alberto va raccontata, anche se brevemente, perché è la storia di un uomo legato alla famiglia, al passato, allo
statu quo, a ciò che è stato sicuramente accertato e non è soggetto all'alea di novità incontrollate e dunque un democristiano doc con pregresse simpatie fasciste. Era il quinto di cinque figli:
Giuseppina, Ferdinando, Immacolata, Lidia e lui. Il padre lasciò subito il paese e la famiglia per entrare come cuoco nelle cucine
del Vaticano e da qui, cioè da Roma, lavorando in modo infaticabile, garantì alla famiglia un tenore di vita per quel paese
discreto. La famiglia viveva in una delle più belle case di Rojo: situata al termine dello sperone sul quale il paese poggia, si apriva,
da una parte e dall'altra, su scenari mozzafiato della valle del Sangro.
Ho trovato una lettera di Carmine, così si chiamava il padre, al primo figlio, Ferdinando, anche lui cuoco, che descrive
abbastanza bene la situazione della famiglia. Siamo nel 1926, Alberto ha appena 11 anni.
“Rojo del Sangro, 10.8.926. Carissimo Ferdinando, l'altro giorno ricevetti la tua lettera come pure il vaglia di L. 300.
Compiaciomi che stai in ottima salute come al pari dicoti di noi tutti. Di quanto tu mi parli ho capito tutto. Hai fatto bene di non
scrivere a Mastrangelo; se no, quello ti dava il posto da aiuto (?) come il solito; se tu credi che a Firenze stai bene, stai pure, tanto
anche lì è una città, basta che impari. E' meglio che prima vai come aiuto cuoco e poi in veste di cuoco così ti impratichisci di
più e impari. Avrei avuto piacere che eri a Roma, così eravamo più contenti, sia io che tu; ma d'aldronde questa è la vita: bisogna
essere sempre lontano dai propri cari e non c'è che fare; tanto o a gennaio o a febbraio ripasserai la visita militare, io credo che
andrai militare così non farai più tanti cambiamenti. Riguardo ad Alberto io non so ancora cosa devo fare. E' ancora piccolo. Ha appena 11 anni. Se lo porto a Roma dove
lavoro chi ci combatte, quello vuole ancora la mamma. Il compare Carlo va a Roma e mette il figlio al “Sacro Cuore” dove era il
figlio di Barbonetti, ma deve spendere 4000 L. per il corredo e altre spese; ma io non posso affrontare queste spese perché ho la
famiglia più numerosa della sua. Non altro da dirti. La mietitura ora si sta facendo. Tutti i giorni piove e fa un freddo da non
credere. Ritornano, la gente, dalla Valmara con gli scialli. Noi dobbiamo mietere ancora ai colli dei Soldati, della Fontanella e a
Monte Ricotta che è ancora verde. Verso i 15 spero che finiamo, se fa caldo; se no, ci vuole qualche altro giorno. Tanti saluti da zio
Felice con famiglia. Filippetto è a casa, Peppino non ancora: verrà
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fra giorni. Saluti dalla Nonna con zio Angelo, Gennaro e Vincenzo, con tutti di famiglia. Vincenzo va meglio con lo
stomaco. Saluti dalle zie con Marietto con i bambini. Saluti da tutti i parenti, amici e compari. Il compare Antonio non è a casa, è ancora a Roma. Ricambia i saluti il compare Peppino Di Rienzo.
Tanti saluti dal nonno Ferdinando, Giuseppina, Lidia, Alberto ed Immacolata. Saluto io e con tua madre ti mandiamo la S.
Benedizione, unito tanti baci e dicomi tuo aff.mo papà Carmine.” Ho costretto il lettore a questa lunga fatica perché essa
racconta meglio di quanto potrei fare io quale fu l'ambito sociofamiliare all'interno del quale Alberto crebbe. Alberto ebbe
due padri: quello biologico, Carmine, il mittente, e quello adottato, Ferdinando, fratello e destinatario di questa lettera. Due lavoratori
instancabili che lo sostennero economicamente per tutta la loro vita. Purtroppo mancarono a breve distanza l'uno dall'altro e da
allora Alberto ormai più che sessantenne non ebbe più la verve di sempre. Visse per molti anni dopo ma si capiva che la sua stagione
si era conclusa con quelle due sparizioni che avevano messo punto ad una vita diversa da quella che si faceva dopo la seconda guerra a cui Alberto, ancora scapolo, partecipò di stanza in Sardegna
guadagnandosi anche una medaglia. Ed ecco una lettera di Maria, moglie di Carmine e madre di
Alberto, indirizzata al marito e datata 1.11.1948 dalla quale si capisce che Alberto, trentatreenne, è ancora un “figlio di famiglia”
e che lo resterà ancora per dieci anni, fino a quando, cioè, non sposerà Angela:
“Carissimo Carmine, ieri l'altro ho ricevuta la tua lettera, dicendomi che ai fatto un
buon viaggio, solo che la machina del compare Armandino ti à fatto un poco male, ma poi devi credere che fà a tutti male
l'automobile del compare, ma poi dobbiamo pensare che l'età cresce, e diminuisce anche il fisico, mi compiaccio che hai trovato tutti bene, Nando Peppino ed Alberto, e di più è giunto benissimo
Vincenzo e Peppinuccio, dove mi fa piacere e lo desiderava tanto del suo buon arrivo, auguro che lo stomaco se lo sente bene di non
aver sofferto nulla. Riguardo di tornare a Rojo se ha piacere venisse che lo aspettiamo. Riguardo ad Alberto mi dici che l'hai
trovato molto bene, auguro che sia così, e la cura gli farà ancora meglio, gli feci domanda nella primavera di rifarla come disse il
dottore Serafino, ma lui non mi fece risposta, in tutti i modi se gli fai fare i raggi devi esserci tu presente, dicendogli anche che ebbe
una polmonite a 10 mesi ed un'altra a sei anni, gli aveva preso l'osso matricolare (sic!) della spalla, anche della gamba, che si
fece male alla Sardegna avendo anche la febbre di malaria. Spero
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che [Alberto] non ne abbia di bisogno, ma in tutti i modi voglio dirtelo, e spero che non ti dispiacerà, anzi ci fai lavorare al tuo
posto qualche persona per un giorno o pure due. Sono andate ancora ad operarsi a Lanciano per l'appendicite, ieri l'altro, la figlia di Marietta Barone, Ilda, e la figlia del compare Peppino Consola,
Antonina, che soffriva da parecchio tempo, ora vanno bene. Poiché l'anno passato mi diceva Alberto che gli faceva male
nella cinta, auguro che vada bene e non ci sia nulla di male, non ho [altro] che dire, badate a voialtri che la salute è la prima che è
necessaria, mi compiaccio che avete stati uniti a mangiare e dormire con Ferdinando. Riguardo al mio ginocchio vado sempre
meglio e spero che presto si toglie del tutto. Antonio con Italia e Pasqualino spero che hanno giunto bene, gli dai i miei saluti,
anche a Peppino. I tuoi Signori giungono oggi, auguro che il tuo lavoro ti vada bene e puoi adempire a tutto. Ricambia i saluti il
compare Domenico e famiglia. Il tuo scritto l'hai fatto nella cucina del compare Peppino, gli dai i miei saluti. Saluta tua sorella Meni
e Filippo. Pasqualino non ancora scrive. Saluta Giuseppina con i suoi [figli], baci ad Anna e Marino. Saluti da Giuseppina e Lidia, il piccolo Giampiero guarda ed aspetta nonno tutto contento per la
parte delle scale, specialmente [perché] Anna glielo dice spesso. Auguro sempre benissimo. Saluti baci. Saluti e baci a Ferdinando
Alberto Vincenzo e Peppino, da me i più affettuosi saluti. Ti bacio. Tua aff.ma Maria.”
Dal 1948 al 1958 Alberto si diede alla bella vita. Aveva il lavoro che abbiamo detto e che gli permetteva di guadagnare
molto, per cui si diede alla pazza gioia. La famiglia, tutta, lo scongiurava di prendere moglie e di sistemarsi, ma lui non ci
pensava proprio. Donne, donne, ma nessuna mai sul serio e quasi tutte “rimediate al paese” e non in città. Insomma si fece la fama
del farfallone che piluccava qua e là, a seconda delle opportunità, e che non si fermava mai. Neanche di fronte alle insistenze del fratello maggiore Ferdinando che da una parte era felice della vita
spensierata del fratello ma dall'altra era vivamente preoccupato soprattutto per le anamnesi catastrofiche della madre. Non sta
béne! Se s'ammala, chi lo cura? Gli capitò di conoscere Angela e non gli sembrò vero di poter finalmente accontentare tutti: un
matrimonio di pari livello sociale; anzi, per la verità, alla sua famiglia sembrò sempre di aver fatto un passo avanti, come si
dice. Angela, come ho detto, era riluttante, ma Alberto sfoderò tute le sue armi di seduttore e alla fine l'ebbe vinta.
Diede inizio, subito dopo il primo approccio in profondità respinto con sdegno e in modo definitivo da Angela, ad una corte
serrata alla quale lei riusciva a sottrarsi con tutte le astuzie
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possibili immaginabili, ma quel piccolo seduttore di provincia le trovava tutte pur di ottenere il suo consenso. Il fatto è che mia
sorella, dietro all'insegnamento di famiglia e in particolare di mia nonna, della quale restano celebri alcuni mantra memorabili (“Madonna me, se me dovessero coprì la faccia è meglio fammele
vedé stese dentro na bara” oppure “Pettine e cuio non se danno a nisciuno.” che non traduco per decenza) non cedeva neanche un
po' alle richieste intime del “seduttore”, il che aveva due risultati contrastanti: lei le riteneva offensive e lo respingeva con
l'intenzione di liquidarlo e lui, più lei lo respingeva più tornava all'attacco convinto finalmente di aver trovato la donna “seria” che
andava cercando. Insomma alla fine Alberto riuscì ad introdursi in casa e a
convincere tutti delle sue serissime intenzioni. Angela come al solito tentennava fortemente ma alla fine si può dire che si trovò
fidanzata con quel corteggiatore, non petulane ma intelligentemente assiduo, grazie alle sue ripulse, che si era
fidanzato, per così dire, con tutta la famiglia meno che con lei. Mia madre, innamorata di quell'uomo così affidabile e così ben assortito per quella figlia bisbetica, ma non indomabile, era
sinceramente preoccupata perché pensava che Angela non ci metteva niente a mandare a quel paese, in senso proprio e figurato,
anche quel forse ultimo corteggiatore. Angela opponeva tutti gli ostacoli possibili ma soprattutto quello dell'età. Lei aveva già 29
anni e Alberto che ne aveva 13 più di lei, andava ormai per i 42: che matrimonio avrebbe potuto essere il loro? Ma mia madre per
la sua esperienza diceva che quella era l'unione più giusta, scelta fatta da due persone mature che si univano perché avevano
seriamente riconosciuto la necessità di unirsi. Povera Angela! Mai le avesse dato retta! Ma mia madre era anche lei sufficientemente
intrigante quando si trattava della “sistemazione” delle sue figlie e perciò pregò Assuntina, ormai sposata e trasferitasi in Calabria, di portarsela un mese con sé e di convincerla ad accettare la corte di
Alberto. Fu una buona trovata, dal punto di vista di mia madre. Alberto scriveva lettere appassionate e Assuntina gli rispondeva a
posto di Angela e così quella Cyrano al femminile riuscì a concludere ciò che neanche il destino sembrava capace di imporre
ad Angela. Se parlo con tanta sicurezza di seduttore è perché ne trovo
ampia testimonianza nelle lettere che egli ebbe modo di scrivere ad Angela durante il periodo di riflessione che lei si prese prima di
decidere: il soggiorno in Calabria, a casa di nostra sorella Assuntina, dove nostra madre la mandò affinché Assuntina la
convincesse a dire di sì.
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Angela era partita con la promessa di farsi viva presto per lettera. Promessa che ovviamente non mantenne se non molto tardi
ma bisogna dire che Alberto aveva una pazienza di ferro. Alla fine per le insistenze di Assuntina, che le dettò di sana pianta il biglietto, si decise a scrivergli. La risposta di Alberto è un vero e
proprio capolavoro di fascinazione. Sentite. “Roma, 2 agosto 957.
Angela cara, è la prima volta che rispondo alla tua prima lettera e devo
subito dirti che sono tanto contento di te. Aspettavo con una certa ansia un tuo scritto e quindi ti lascio immaginare quanto mi abbia
fatto piacere ricevere una tua lettera che, anche se non troppo lunga, mi dice tante cose che forse a voce ti eri....... dimenticata.
L'ho presa ieri sera, press'a poco all'ora della nostra passeggiata, e nel leggerla ho avuto la sensazione di essere con te,
e tu eri più cara del solito e le tue prole mi hanno dato tanta gioia. Vorrei che ti fossero state suggerite dal cuore perché solo se
spontanee hanno tutto il valore del loro significato. Angela, anch'io ti penso e sono un po' triste la sera perché mi manchi; ora mi hanno telefonato e ho avuto la sensazione che
fossero i due squilli tuoi...., forse perché scrivendoti ti penso tanto. Ieri sera ho telefonato a Ivana che mi ha chiesto di te e ti
saluta tanto; l'altra sera invece sono stato da un architetto a Via XXI Aprile e così ho avuto occasione di vedere un po' tutte. C'era
anche il nostro amico Luciano col quale sono stato fino a oltre le 10. Forse domenica andrò con lui e credo che questo ti faccia
piacere e ti tranquillizzi. Auguro che il mare ti faccia bene e..... nera, nera, ma
soprattutto che ti dia tanto ristoro. Divertiti e, mi raccomando, solo amiche di tua sorella. Fatti tante fotografie e mandamene una.
Alla stazione non mi fu possibile di venire, mi trovavo al lavoro come sapevi, vuol dire che ti verrò a prendere quando tornerai, va bene?
Scrivimi presto e dimmi tante cose belle; sono certo che al tuo ritorno sarà tutto diverso poiché questo periodo di lontananza
ci avvicina e ci fa comprendere di più. Ti penso tanto e ti bacio caramente.
Alberto.” Ogni commento è superfluo sia sulla bravura del seduttore
sia sulla riluttanza di Angela, che, è la verità, non era finta: Angela semplicemente non sapeva decidere, vittima di una sorta di
disincanto assoluto per il quale aveva dichiarato fin dalla nascita: io qui non ci volevo venire; voi mi ci avete portato per forza e voi
adesso provvedete a fare quello che c'è da fare. Per me è
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comunque tutto una grande stronzata. Ma sentiamo la lettera successiva di Alberto, di solo nove
giorni dopo: “Roma, 11.8.957 Angela carissima,
sento che scrivere a te non mi è di peso, anzi sento un piacere e allo stesso tempo una smania di parlarti e dirti tante cose.
E' più di una settimana che non ti scrivo con lettera, ma solo due cartoline, una domenica scorsa mentre, solo, ero in giro a trovare
qualche cugino partente e l'altra giovedì dall'EUR, sapendo che durante la settimana non avrei avuto tempo di scriverti a lungo.
Ma ti ho pensato sempre tanto, forse più di quanto credi, perché mi manchi, perché..... ti voglio bene.
Il 6 ho ricevuto la tua cara lettera che mi ha portato le tue buone notizie e le parole del tuo affetto celato ma puro. L'ho letta
con molto piacere e con piacere ti ho seguito sul come trascorri le giornate a Reggio, sono sicuro che il riposo ti rinfrancherà
veramente sia nel fisico che nello spirito. Come sarei stato lieto di venirti a trovare la domenica se eri più vicina! Ma la lontananza non mi dà altra possibilità se non quella di ringraziare i tuoi e te
del vostro gentile invito. Penso che Ferragosto lo passerai a Reggio e te lo consiglio
perché qui c'è molto caldo. Ti dovrei dire “torna” perché io lo passerò a Roma, ma sarei cattivo e ingiusto. Vuol dire che avremo
la possibilità di vederci al tuo ritorno, se invece andasse diversamente ci rivedremmo alla fine del mese (quasi).
Presentemente sto aiutando un vecchio principale a Trastevere e questo potrà continuare (forse) anche per un po' di
pomeriggi dopo il 16 corrente. Non solo, fra l'altro avrei interesse di andare a trovare i miei alla fine del mese perché mio nipote farà
la Comunione e Cresima. Certamente mio fratello passerà per Roma e potremmo andare insieme per pochi giorni. Sai, questi giorni scorsi, sempre di sera un po' tardino, ho
telefonato una volta a Ivana e l'altro ieri a Pina; ieri sera ho staccato un po' prima e ho fatto in tempo a trovare Teresa a San
Giovanni: ti salutano tutte e credo che avrai scritto loro, mi risulta che solo a Pina hai mandato una cartolina, vero?
Appena lasciata Teresa sono tornato a casa ed ho trovato posta tua, tre cartoline insieme e ti sono grato del tuo continuo
ricordo. Chissà se domani sera ne troverò altre tre o quattro! Certo è che se non ne trovo nessuna ci resterò male. E' l'unico sistema di
sentirsi vicini anche se così lontani, vero? Non ho avuto forse la sensazione di stare con te mentre ti ho scritto questa lettera? Sai,
senza rincrescimento ti ho dedicato il tempo migliore di questo
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tardo pomeriggio domenicale. E sono contento come se fossi stato a spasso con te. Scrivimi e mandami tanti baci. Ti abbraccio.
Alberto.” Niente male, come affabulatore, mio cognato! Scrive, scrive, ma tra le righe fa passare messaggi ben precisi sulle sue
intenzioni. In particolare segnalo il vieto stilema “affetto celato ma puro” e la pregnanza di quel “ma” del tutto ingiustificabile, a
meno che non stia lì a rivelare la contraddizione inconscia del seduttore che vuol dire tutto il contrario, “cioè affetto esternato ed
impuro”. E' chiaro infatti che un affetto più è celato più è puro. Dunque non sta parlando di Angela, ma di se stesso; anzi, di tutti e
due: il tuo affetto è celato e puro come io lo desidero da tanto tempo per selezionare una moglie come dico io; il mio invece, che
non ti nascondo affatto e che dunque non può essere puro, è bene che io te lo riveli subito, sia pure fra le righe.
Angela, come quasi tutte le mie sorelle, in fatto di sesso univa alla naturale ritrosia femminile i diktat tremendi di mia
nonna e di mia madre. Un altro mantra di mia nonna, a proposito di sesso, era: “Gli ommeni so' tutti porchi”. Così per il povero Alberto fu più facile conquistare l'affetto di Angela che non la sua
disponibilità sessuale che anche da sposati dovette vincere ogni volta ovviamente con suo grande piacere di pascià che vuol essere
assolutamente sicuro del suo “possesso”. Il ragionamento sottostane è facilmente intuibile: se fa tante storie con me che sono
il marito, figuriamoci con gli altri. Ma anche a lui ovviamente sfuggiva il cambiamento della
moralità femminile intervenuto in Italia con l'avvento delle automobili. Vedi nel romanzo di Giacomo la ragazza che gli
concedeva solo l'intimità anale perché a giorni si sarebbe dovuta sposare e desiderava presentarsi vergine al futuro marito. Angela
se le avessero parlato di “intimità anale” tre giorni prima di morire, a ottantasette anni, non solo dico che non avrebbe capito, ma anche che, essendo ormai quasi sorda del tutto, non avrebbe
neanche registrato l'espressione per lei del tutto priva di significato. Ma andiamo avanti con la corrispondenza galeotta che
portò al fidanzamento e poi al matrimonio. Segue una lettera di Alberto datata proprio a Ferragosto, ma
priva di interesse per la mia narrazione. Insomma Angela tornò a Roma pressoché fidanzata, fidanzamento rinsaldato da una
seconda trovata di mia madre. Dovevo fare io, questa volta, la comunione e dunque Alberto poteva essere il mio miglior padrino.
A lui non sembrò vero. Angela nicchiò (non era mai convinta neanche a cose fatte) ma non essendo abituata a contraddire i
nostri genitori alla fine si adattò alle decisioni prese da altri, cioè
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da quei due. Era esattamente come la voleva Alberto. Ormai era fatta. Come si capisce da due lettere scritte da lui durante due
soggiorni a Rojo in quello scorcio del '57. La prima non contiene particolari particolarmente illuminanti ma è interessante perché chiarisce lo stato dell'opera, come si dice.
“Rojo del Sangro, 1.9.57 Angela carissima,
sono già due giorni che sono nella nostra terra d'Abruzzo e sento come se avessi fatto tardi a scriverti; ma sai, fra un
ricevimento e l'altro, il tempo è volato via veloce. Il mio viaggio è stato ottimo e sto bene assieme ai miei tutti.
E tu come stai? Auguro guarita o per lo meno molto meglio di quando ti ho salutato.
Sai, mi è dispiaciuto lasciarti, maggiormente perché la mia partenza non ti ha lasciata indifferente. Sei tanto cara e sento che
presto sarai una cosa indispensabile per me. Non so se sabato sei stata al lavoro e tanto meno posso
sapere se questa mattina sei stata alla stazione, certo tutto è dipeso da come ti sei sentita. Auguro che tutto sia andato per il meglio e sarai stata contenta di conoscere persone che mi appartengono.
Eventualmente il tuo stato di indisposizione durasse, non ti preoccupare, ma provvedi come è desiderio mio e dei tuoi, non
pensare al lavoro, intesi? Vorrei parlarti a lungo, ma devo uscire ed imbucare la presente; per la fretta mi sono anche sbagliato, l'ho
cominciata all'ultimo foglio, ma tu mi scuserai. Spero di scriverti anche domani e più a lungo, ti dirò tante
cose. I miei ti salutano pur senza conoscerti, anzi ricambiano i tuoi saluti, particolari da mio fratello Ferdinando.
Saluta per me i tuoi di famiglia. Ti bacio caramente.
Con affetto. Alberto.” La carta da lettera, quelle belle lettere di una volta color
pastello e tutte increspate! ha effettivamente una pagina vuota, perché Alberto si è sbagliato ed ha incominciato a scrivere dalla
seconda pagina; cosa che avrebbe potuto riparare solo continuando a scrivere all'inverso (2, 1, 4, 3), ma si capisce che ha fretta.
Quando Alberto è risucchiato dal suo mondo si dimentica un po' anche di Angela, ma ad Angela il suo interessamento non
importava gran che. Probabilmente aveva capito che se avesse accettato quel matrimonio si sarebbe liberata del lavoro che
sopportava malvolentieri data la sua indolenza sottesa da questa istintiva disistima della vita e dei suoi piaceri e dal pensiero mai
divenuto pensiero del “tanto è tutto inutile”. Anche questo ad
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Alberto non dispiaceva. Egli voleva una donna che, come la madre, stesse in casa e lo aspettasse in fedele attesa. Io quando
rientro – diceva – non mi piace aprire con la chiave. Nel senso che doveva trovare sempre qualcuno, cioè la moglie, che gli apriva. Insomma lui, come mia sorella, avevano ritagliato nell'immenso
alveare del Tuscolano il loro piccolo paesello di origine e nei limiti di quel paesello continuavano a perpetuare i loro riti mantenendo
intatti i loro miti. L'ultima lettera prima del fidanzamento ufficiale viene
spedita da Alberto che per Natale è andato a stare in famiglia. “Rojo, 23.12.57
Carissima Angela, avrei voluto scriverti ieri per dirti del mio viaggio e di come
ho trovato i miei, ma tu sai bene come succede quando si arriva fra parenti e amici.
Il mio viaggio è stato buono da principio assieme ad Elsa, ma meglio è andato dopo in compagnia pure di Rolando; siccome
siamo partiti in ritardo da Roma, siamo arrivati a Rojo alle 5 e 1/2 e abbiamo trovato un po' di neve solo vicino al paese. Ora non ce n'è più perché ieri e oggi sono state due belle giornate.
I miei stanno tutti bene e sono lieti del mio ritorno, però il mio nipotino Giampiero mi ha detto che dovevo portare anche te.
Il tuo biglietto non ancora arriva, ma sarà certamente domani, sai bene che i biglietti di auguri sotto le feste viaggiano
con ritardo. Mamma e papà ti ringraziano molto del pensiero che hai
avuto per loro e ti fanno tanti auguri assieme a mia sorella e a mia cognata. I tuoi come stanno? E' tornato Giacomo? Tu come stai?
Hai lavorato tanto dopo la mia partenza? Da quello che mi dicesti per telefono, ho l'impressione che avrai cambiato pure orario e
speriamo che il 29 non lavorerai. Ti volevo scrivere ieri (domenica), ma ho voluto aspettare oggi perché se arrivava il tuo biglietto certamente ti avrebbe scritto
almeno pure papà in questa lettera, vuol dire che ti scriverà per conto suo.
Tu cosa hai fatto ieri? Sei uscita il pomeriggio? Penso di sì , in compagnia di Olga. Io volevo andare al cinema perché avevo
proprio tanta voglia, ma non ci sono andato perché..... non ci sono cinema quassù.
Penso che questa mia ti arriverà il 26 per via che c'è la festa di Natale, quindi non ti posso rinnovare gli auguri, ma solo ti dico
buon S. Stefano. Spero che vincerai tanti soldi a tombola, insomma voglio dire che non credo che uscirai sempre.
Tanti cari saluti dai miei tutti, unitamente alla tua famiglia.
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Da me affettuosamente baci cari. Alberto.”
Lettera non molto significativa non fosse per il fatto che Alberto ormai certo della conquista incomincia a venire allo scoperto con la sua mentalità computistica particolarmente legata
al denaro, mentalità che si trasferì tale e quale nella figlia e che influenzò non poco anche Angela. Dalla lettera inoltre si capisce
che ormai stiamo in dirittura d'arrivo. E' infatti sul finire degli anni cinquanta che si celebrò quel
matrimonio con tutti i crismi ma non senza le solite chiacchiere che le tre sorelle maggiori, guidate da Ginetta, fomentavano per
sottrarsi all'obbligo di partecipare concretamente alla realizzazione di esso. Era già in corso il fidanzamento di Pierino con Silvana e
Ginetta premeva perché quei due, suoi protetti, si sposassero prima di tutti gli altri; ma mia madre era irremovibile: prima le figlie
femmine e poi i maschi. Ciò lasciò spazio a Ginetta per rivalersi contro Angela e sottrarsi così all'obbligo di concorrere
concretamente a quelle nozze. Angela ascoltò per sbaglio una conversazione sul tema ed entrò infuriata nella stanza in cui io stavo studiando mormorando tra sé e sé contro i cedimenti di mia
madre verso quella figlia intrigante. Ma lei, Angela, era fatta così: non avrebbe mai addolorato i suoi genitori con recriminazioni
dirette; mormorava; si sfogava con gli altri fratelli, ma non aveva mai il coraggio di affrontare direttamente i problemi con i diretti
interessati e cioè in questo caso con i miei genitori. Naturalmente Ginetta trovò il modo di rientrare dei soldi
messi insieme a quelli delle altre due sorelle per fare il regalo di nozze convincendo Angela e Alberto ad acquistare mobili da una
sua conoscente che glieli faceva avere a buon prezzo. Chissà con quali accordi di sottobanco! Perché? Perché Alberto che era uno
che aveva un certo gusto artistico dovuto al lavoro che faceva, lavorava con un architetto che lo impiegava nel costruire plastici in gesso delle costruzioni che lui aveva progettato per questo o
quel cliente o per questa o quella istituzione, avendo un certo gusto artistico, dicevo, aveva scelto una certa sala da pranzo con
quegli specchi lì e con quel tavolo lì. Il commerciante, al momento della consegna, probabilmente fidando nella mediazione di
Ginetta, non trovandosi più gli stessi mobili che avevano scelto Alberto e Angela, gliene aveva consegnato altri molto simili ma
non sicuramente gli stessi. Il che fece molto arrabbiare Angela ma alla fine lei e Alberto decisero di non reclamare e di tenersi quella
sala da pranzo così come gli era stata consegnata, ovviamente continuando sempre a mormorare contro Ginetta e insinuando
sempre l'idea che avesse potuto lucrare su quel mancato
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adempimento del mobiliere. Alberto, sulla scia di Angela, subiva, facendo finta di no, l'enorme seduzione che Ginetta esternava su
chiunque le capitasse a tiro. Ginetta era per così dire in servizio seduttivo permanente e Alberto non seppe svincolarsene mai. Se noi protestavamo contro le angherie di quella sorella terribile lui ti
faceva protestare ma non prendeva mai posizione contro di lei. Era un uomo pneumatico ed estremamente prudente, aveva paura di
tutto e dunque era stato bene assortito con mia sorella Angela. Il loro matrimonio si celebrò quando già avevamo lasciato,
tutta la famiglia, la casa in coabitazione con Ginetta e poco prima che nostro padre morisse. Sulle foto di famiglia lo vediamo per le
ultime volte mentre orgoglioso accompagna all'altare quella figlia che lo aveva fatto penare tanto prima di decidersi a prendere
marito. Quando morì, mia sorella era al quinto mese di gravidanza. Partorì poi in una clinica vicina al mio liceo per cui quando
finivano le lezioni io andavo a trovarla per vedere quella nipotina che arrivava quando finalmente io avevo l'età giusta per diventare
zio. Non come tutti quegli altri nipoti che erano tutti miei coetanei. Carla venne al mondo non come creatura autonoma e
capace di prendere decisioni autonome; fu un clone di mia sorella e del marito messi insieme. Per superare il gradino di mezzo
centimetro che collegava la nostra nuova casa col pianerottolo impiegava circa cinque minuti, alzando la sua gambetta più volte
per misurare la fattibilità di quella pericolosa scalata. E restò così per tutta la vita, Carla, fino a quando non morì di tumore
prematuramente. Ma procediamo con ordine. Nacque in clinica ma il papà e la mamma già abitavano in
un bell'appartamento della zona di Porta Latina che però non era di proprietà di Alberto, ma gli era stato messo a disposizione
gratuitamente dal cognato. Era la famiglia di Di Battista Carmine quanto di meglio mia sorella potesse sperare: persone di origine contadina che, inurbandosi e cambiando status, di quell'origine
avevano conservato solo la moralità e la lealtà, spendendole poi nel rango signorile che avevano raggiunto con i sacrifici che più o
meno sono emersi già dal mio racconto e dalle lettere qui trascritte. Erano e sono una sorta di impresa familiare con un unico
fine: il eciproco soccorso. E per quanto ne posso sapere io questa moralità così profondamente radicata non ha mai mancato di
esprimersi tempestivamente e compiutamente in tutte le evenienze che la famigliola dovette affrontare nel corso del tempo.
In occasione del primo compleanno di Carla io le dedicai due sonetti notevolmente brutti che però trascrivo per dovere di
cronaca:
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Quando nascesti dissi: “Benvenuta in questa vita, Carla! E' brutta tanto ma in fondo è degna d'essere vissuta!”
E tu ridevi, quale dolce incanto
in quegli occhioni vividi e innocenti! Oggi ti dico... Cosa dir ti posso?
Lascio gli auguri agli altri compresenti che mi guardano attonito e commosso
di questa tua beltà, del tuo piedino
che tenta, ancora incerto, i pavimenti ma che tra qualche giorno pian pianino
passi sicuri e svelti muoverà
verso un grande avvenire, grande quanto oggi è la gioia di mamma e papà.
Ed io allora augurar ti voglio
tanti giorni felici come questi e voglio che tu abbia un portafoglio
immenso, smisurato e che a cesti
colga le gioie di quella bellezza che mamma e babbo ti donaron quando
un anno fa nascesti, di freschezza adorna e d'infantil grazia. Augurando
queste cose per te, una che sia solo per me la voglio: è la più dolce
fra quelle che il mio cuore adesso vuole.
Voglio una cosa calda più del sole, che più d'un dolce canto il cuore molce:
un bacio! Che cos'altro vuoi che sia?
A Porta Latina Carla restò i primi sei anni della sua vita e poi si dovette trasferire in una nuova casa al Tuscolano, casa che
nulla aveva a che vedere, ahimè, con quella precedente. Qui la piccola fu costretta a crescere in quell'alveare dove solo i mafiosi
possono trovare una sistemazione consona: uno degli insediamenti
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delinquenziali realizzati dalla speculazione edilizia e dai tecnici politici con essa conniventi. Un vero e proprio sciame di
miniappartamenti nei quali le famigliole si rifugiano avendo i ponti tagliati con qualsiasi altro possibile livello culturale, a meno che non sia quello dei coinquilini della scala o, ovviamente, della
tv. E dentro quella specie di ospizio per vecchi la piccola dovette crescere con due genitori vecchi e assediata da paure che le fecero
ancor più temere la vita e le sue lusinghe, da lei sempre ingigantite e cnsiderate insidie mortali.
A ciò si aggiunsero due eventi per lei devastanti. Mio cognato improvvisamente scoprì di avere un tumore al rene che a
quei tempi equivaleva ad una condanna a morte e che invece la chirurgia oncologica di quel momento, sebbene arretrata, riuscì ad
estirpare e a bloccarne le metastasi contro tutte le previsioni catastrofiche. Alberto, conservatore e tradizionalista, credette
sempre che la sua guarigione fosse dovuta all'intervento di una Madonna venerata nel paese di provenienza dei miei presso il cui
santuario si era recato convalescente insieme alla moglie e alla figlia. La piccola fu perciò sottoposta al primo grave trauma della sua vita. Era abbastanza grande per capire che stava per essere
privata del padre per cui da quel momento in poi si attaccò ad Alberto che restò per sempre l'unico uomo della sua vita.
Naturalmente si rifugiò anche nell'affetto della madre, che Angela ricambiò in modo direi beluino, in una simbiosi di cui loro due
non ebbero mai coscienza e che non fu più possibile dirimere neanche ad opera di qualche innamorato testardo. Madre e figlia
costituivano una sola entità e più avevano motivi di contrasto più quel legame appariva loro solido e inscindibile.
In questa situazione, a un paio d'anni di distanza dalla guarigione di Alberto, fu Angela ad essere colpita, per insipienza
dei medici, da un male solo apparentemente letale. Un lungo ricovero nella clinica in cui Carla era nata costrinsero mio cognato ad affidare la bambina alla solita Ginetta che, con la scusa delle
vacanze, la portò con sé in Abruzzo per liberare mio cognato e mia sorella e consentire a lui di assistere la moglie. Carla fu esposta
per la seconda volta al grave trauma della perdita e alla sindrome psicologica dell'abbandono.
Ricomposta la famiglia dopo la guarigione di Angela, siamo nel 1970 e io ero già stato assunto come insegnante, i tre ripresero
la loro vita piatta e senza sorprese. Carla cresceva coccolata da madre e padre, dalle numerose famiglie dell'una e dell'altro, da
tutti i coinquilini della scala C che si intenerivano di fronte a quella bambina, poi ragazzetta, poi signorina, dall'aspetto grazioso
e fragile che ogni mattina lasciava la casa per andare a scuola. Era
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proprio carina, Carla, e suscitava i pensieri di varie mamme dello stabile che sognavano di poterla un giorno maritare con il loro
figlio maschio. Ma Carla, pur così oggettivamente carina, non si considerava tale: non si piaceva. Serbava un astio malcelato verso quei due bassetti, Alberto e Angela erano piccoli di statura, e li
rimproverava spesso di averla messa al mondo così piccola. Come la maggior parte delle ragazze era perfezionista, ma, per fortuna,
senza conseguenze anoressiche; solo mutrie continue fra lei e la madre che non si perdonavano l'una con l'altra il non perdonarsi.
Carla poi oltre alla bassa statura rimproverava ai genitori di averle fatto i capelli troppo folti e troppo crespi, per cui ogni volta che
pioveva e l'umidità glieli arricciava in casa di mia sorella erano guai. Angela stessa mi raccontò di una lite furibonda tra lei e la
figlia per una questione di capelli che non volevano stare ai comandi del fono azionato da mia sorella. Una lamentela, un
rimprovero, una lamentela, un rimprovero, si era accesa una discussione che presto degenerò in litigio per cui Angela, che non
aveva mai alzato un dito contro di lei, inseguì la figlia per tutta la casa con il fono impugnato per colpirla fino a quando la poverina non si rifugiò sul balcone dove rimase chiusa come in cul de sac.
Mia sorella la raggiunse ma come al solito non riuscì a picchiarla. Le disse solo delle parole crudeli (Buttati, e buttati!) che non
pensava, perché dettate solo da una rabbia incontenibile, e che dovettero risultare terribili alle orecchie di quella figlia che si
considerava brutta perché punita dalla nascita pur senza oggettivamente esserlo.
In realtà quello che la tormentava era una terribile paura di perdere uno o entrambi quei genitori che amava in modo morboso
riconoscendo in essi, e soprattutto nel padre, un possibile baluardo contro le angherie della vita. Le faceva paura, la vita, a Carla.
Aveva paura di tutto, aveva paura perfino di capire. Pensava che capire troppo conquistandosi la libertà l'avrebbe esposta all'eccesso e l'eccesso l'avrebbe spinta alla morte. Non pensò mai
che la vita quando ti vuole uccidere non pianifica, semplicemente non guarda a niente pur di riuscire nel suo intento. Il buio, il
restare sola, l'uscire da sola, il professore troppo severo, la visita in casa di persone non ancora del tutto ben note, un semplice rumore
sospetto udito fuori della porta di casa sulle scale, tutto era per lei motivo di angoscia. Si può dire che pensava quasi esclusivamente
alle conseguenze e dunque viveva in una sorta di surplace in cui indecisione e irresolutezza la facevano da padrone. In questa
situazione la vita di quel trio stagnava in una specie di limbo in cui l'unica buona notizia era che non era accaduto niente. Ma a Carla
non bastava: si preoccupava di ciascuno di noi, di ciascuno degli
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amici di famiglia, di ciascuno dei coinquilini. Alla fine la sua (la loro) vita si ridusse a due sole componenti: inazione e
preoccupazione astratta per mali inesistenti. Sembra una cosa difficile da farsi, ma quando la si fa spontaneamente, d'emblée, come dicono i francesi, almeno in
Italia è la cosa più semplice del mondo, e cioè trasferirsi in città. Ma per l'intera mia famiglia trasferirsi in città significò soltanto
ritagliare, come fanno i cani, un piccolo territorio, da sostituire al proprio paese di provenienza, identificando il paese con il
condominio in cui si abita o con la parrocchia o, nel migliore dei casi, con il proprio quartiere. Si può dire che ho visto tanti casi
assimilabili a questo: gente che arriva a Roma dal paesello e, una volta a Roma, ignorare che a Roma c'è San Pietro, Piazza Navona,
il Colosseo, come se fossero realtà più grandi di loro e delle quali è meglio tenersi alla larga.
Con i miei fratelli successe quasi sempre così: Cettina aveva tentato di venire a Roma, per la strada aperta da Ginetta, ma dopo
un paio di tentativi era stata risucchiata indietro dal paese e soprattutto dalla controvolontà di Vincenzo; Assuntina, come vedremo, dopo un paio d'anni preferì ritornare in una realtà
provinciale anche se non quella di Bolano, per lei ormai conclusa; Ginetta resistette fino a verso i sessanta ma poi anche lei gettò la
spugna, come si è visto; Pierino, povero, non fece in tempo a tornare, ma forse fu l'unico con i piedi a terra e forse non l'avrebbe
mai fatto; Giacomo seguì Ginetta come in tutte le cose della sua vita; Gisa, inchiodata a Roma dal marito e dai figli, non rinuncia
con pervicace ostinazione a mantenere con la realtà di Bolano il massimo dei rapporti possibili. Vive praticamente nella realtà del
suo condominio, ma con la testa sta sempre a Bolano: forse non ha mai visto San Paolo né il Pantheon e qualsiasi cosa accada a
Pechino o a New York lei trova immediatamente il corrispettivo bolanese. Per quanto mi riguarda, ci sono volute le sette esperienze
fallite dei miei fratelli-sorelle per insegnarmi ad abbandonare per sempre un paese di ignoranti, retrogradi e presuntuosi, i quali
credono di poter ridurre tutto agli insignificanti fatti della loro realtà provinciale.
Angela non fu da meno degli altri fratelli-sorelle, aiutata in ciò da Alberto e da Carla, la quale, nonostante gli studi e un lavoro
di responsabilità, non riuscì a staccarsi mai da una circoscritta realtà paesana ancora più misera e povera di quella di Bolano,
Rojo del Sangro. Rojo è un paesino sperduto fra le montagne del Sangro,
appollaiato su uno sperone (rojo, in spagnolo) come se fosse un
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aereo incagliatosi sulla punta di quella montagna sulla quale si sale oggi in macchina attraverso una serie infinita di tornanti. Un
paio di tornanti prima di arrivare all'abitato, se giri a destra, un corto viale sterrato e fra gli alberi ti conduce al piccolo cimitero dove i rojesi trapassati riposano in pace, in genere dopo aver
visitato il mondo facendo i cuochi per famiglie o istituzioni prestigiose. In quel cimitero, già mentre sto scrivendo queste
righe, riposano Alberto, da undici anni, Carla, da sette, e mia sorella da appena quattro mesi: questo, secondo la volontà di mia
sorella, ma, c'è da giurarci, anche secondo quelle del marito e della figlia che a questo borgo natio (di mio cognato), adottato come
tale anche da loro, furono attaccati morbosamente in vita. Carla, perché in vita non seppe prendere mai una decisione
autonomamente e si adeguò sempre, come aveva sempre fatto la madre, a quelle prese dai suoi genitori, e mia sorella perché seguì
fatalmente il destino di tutti i suoi fratelli: non saper cogliere le gioie della città e tornare di fatto o in pectore al paesello di
partenza o ad un suo succedaneo (nel suo caso: Rojo). E io che pure ho deciso fermamente di non abbandonare mai Roma, almeno nelle villeggiature scelgo, non Bolano, per carità, ma suoi
succedanei con forti somiglianze: sempre località del sud e mai del nord; sempre paesi del grande regno di Napoli ingiustamente
usurpato dai piemontesi; sempre località in cui si parlano dialetti autentici e non questa lingua di merda in cui scrivo.
Dopo i due lunghi periodi di degenza ospedaliera prima di Alberto e poi di Angela i tre ripresero la loro vita piatta in un
appartamento dell'alveare tuscolano dove Carla fece i suoi studi e papà e mamma si dedicarono sostanzialmente all'accumulo di
denaro e a qualche modesta speculazione edilizia. Prima la casa in cui abitavano, poi il box per la macchina nello stesso palazzone,
poi un altro box non lontano da casa adibito a cantina, poi una casa rimediata dal ministero in cui Carla nel frattempo era entrata a lavorare (ma questa un po' lontana da Roma) e infine qualche
anno prima che Carla morisse una seconda casa, al piano di sopra a quello abitato, per la quale fu stipulato un mutuo bancario
coperto da assicurazione. Conclusione: quando Carla morì l'assicurazione dovette pagare il resto del mutuo e mia sorella si
ritrovò padrona di tutto questo ben di Dio, senza sapere cosa farsene né volendo farsene qualcosa. L'unica cosa che le
importava era mantenere in vita nelle migliori condizioni il gatto che Carla le aveva lasciato in eredità insieme a tutto il resto, Luna.
Un bel gatto castrato, donde il nome da trans, prepotente e dispettoso, che si credette sempre, fino all'ultimo respiro, il
padrone della casa di mia sorella la quale per altro non lo smentiva
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affatto. Era stata sempre succube di qualcuno per tutta la vita? Bene! Volle concluderla, quella vita, restando succube di quel
gattaccio che mi odiava perché io lo scacciavo da sopra al tavolo da pranzo e lo inseguivo minacciandolo quando la mordeva alle gambe con una tracotanza pari alla sua bellezza. Era bello Luna,
come tutti i trans, e aveva un portamento altezzoso e fiero che lo facevano assomigliare a un leoncino castrato che non si sarebbe
mai rassegnato ad essere una leonessa. Quando Carla lo salutò per ricoverarsi, e fu l'ultima sua uscita da quella casa, il distacco da
Luna fu straziante. Lei aveva intuito che probabilmente il male non l'avrebbe perdonata e la povera bestia inarcava la schiena
sotto le sue carezze come se sentisse che il momento era solenne. “Luna, non ti rivedo più!” diceva fra le lacrime quella mia infelice
nipote così presto strappata alla vita, e aveva ragione: la rarissima forma tumorale che l'aveva colpita non le lasciò scampo e lei dopo
due brevi ricoveri si spense tra le braccia della madre che non volle crederlo sul momento e che non lo credette mai neanche
dopo. Mia sorella negli ultimi sei anni della sua vita se avesse avuto la possibilità di scrivere sui muri, come fanno i sopravvissuti delle varie organizzazioni di dissidenti che popolano questo paese
dal 1968 ad oggi, avrebbe scritto sicuramente “CARLA VIVE”. Come i ragni che finiscono di tessere la tela anche se voi gli
strappate via quella che hanno già tessuto così mia sorella continuò a vivere per sei anni in una sorta di memorial dedicato
alla figlia nel quale si continuava a risparmiare accanitamente su tutto assolvendo al solo compito di mantenere bene in vita Luna.
Per il resto non fece più niente: quello che fece lo fece su pressione dei fratelli rimasti, ma sempre malvolentieri e sempre
lamentandosi di doverli disturbare senza poterli compensare in alcun modo, perché lei doveva continuare a risparmiare... per chi?
per cosa? La risposta che lei dava dentro di sé era: per Carla, per quando si sposa. Quella figlia non le aveva voluto dare la soddisfazione di prendere marito e di gratificarla con dei nipotini?
Bene! Lei volle vivere nell'illusione che in uno degli infiniti mondi possibili Carla vivesse ancora e che un giorno si sarebbe sposata.
Aveva ammucchiato per lei un corredo sterminato di cui noi eredi abbiamo fatto diaspora regalandone a destra e a manca fra il
disappunto dei destinatari non abituati a capi così di lusso. Negli anni “felici” della loro esistenza, e cioè nel trentennio
1971/2001, quasi tutte le domeniche ero invitato a pranzo da loro, anche in presenza di parenti rojesi, perché mia sorella amava
ostentarmi come una sorta di fiore all'occhiello (mio fratello professore! Come il titolo, un po' adattato, del celebre film
neorealista!). Dunque divennero la mia famiglia, visto che io
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avevo preso la decisione irrevocabile di non metterne su una per conto mio, perché sono personalmente e ideologicamente
schierato, cosa che costituisce una delle motivazioni della mia ispirazione: raccontare cioè, prelevando dalla carne viva, quanto male si possa fare in nome della famiglia.
Erano tre persone testarde asserragliate in una mentalità retrograda inscalfibile. Mentalità retrograda che, proprio perché
tale, inconsciamente creava loro vari problemi: me li sottoponevano durante quei pranzi della domenica e io, fingendo
di interessarmi ad essi, suggerivo le soluzioni per me più logiche, ma da loro sistematicamente disattese, almeno sul momento. Poi,
dopo averla digerita negli anni, qualcuna la adottavano pure, ma raramente. Se penso a quanto tempo ho perso a spiegare le cose a
mia nipote mi vengono i brividi solo al pensiero che se mi avesse dato retta almeno un po' quel destino orrendo avrebbe potuto
essere mitigato e avrebbe forse colto tutti, lei compresa, un po' più preparati e chissà forse avrebbe potuto anche essere evitato.
Il primo ostacolo che si mise di traverso sulla strada di Carla fu un professore di italiano, un certo Scalamandré (forse). Quel brav'uomo aveva intuito la personalità di mia nipote e cercava
quindi di aiutarla. Dette adito a ogni tipo di sospetto: che avesse qualche inconfessabile interesse per lei; che l'avesse presa
sott'occhio, come si diceva una volta; o che semplicemente, non capendola, la perseguitasse inutilmente. Insomma Carla si sentì
per sempre danneggiata da quel “mostro” soprattutto per un voto di maturità che, secondo me, rispecchiava perfettamente il suo
valore scolastico; secondo lei, no. Macché! Se aveva preso un voto così basso era tutta colpa di Scalamandrè che ce l'aveva con lei.
Hai voglia a spiegarle che il voto di maturità è un voto collegiale e che non è che un episodio marginale della carriera scolastica di
uno studente. Che, una volta all'università, lo studente può mostrare effettivamente il suo valore oscurando per sempre quel voto. Niente da fare! Si parlò molte domeniche di quell'affaire e
dell'angheria subita da Carla per colpa di quel cretino di Scalamandrè. Ho passato domeniche e domeniche a parlare con
loro o di chiacchiere di famiglia o dei problemi inesistenti di Carla.
Mentre frequentava l'università accolse il mio suggerimento di cominciare a fare concorsi; lo fece, ma non tanto per il mio
suggerimento, bensì per il fatto di essere stata cresciuta ormai nel mito del denaro. Naturalmente i concorsi in Italia si vincono solo
se si è raccomandati e così sul primo concorso in cui superò gli scritti piombò l'intervento diretto della zia Ginetta che sciolse il
nodo e Carla poté andare ad occupare un posto di rilievo
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all'interno della pubblica amministrazione, ramo difesa. E fu assunta al lavoro con un grado prestigioso che i non addetti poco
conoscono, quello di consegnatario. Che fa un civile che ha il grado di consegnatario ed è perciò responsabile all'interno di una caserma del deposito di articoli
militari? Dovrebbe garantire che tutti i pezzi bellici acquistati dalle varie ditte costruttrici siano effettivamente necessari, stivarli nel
magazzino della caserma in cui presta servizio e quindi distribuirli ai vari enti interni che ne facciano richiesta. Che cosa può fare il
consegnatario? Quasi niente. Si limita a dichiarare, se manca qualche pezzo, che quel pezzo è stato rottamato. C'è poco da
ridere, lettore! Tu lo capisci da te che cosa può avvenire e che, per carità, non avviene, o di certo io non ne ho le prove, nel corso di
una filiera simile. Sta di fatto che i consegnatari generalmente vanno in pensione con situazioni economiche per nulla
corrispondenti a quelle che avevano al momento dell'assunzione. Ora assumere come consegnatario una ragazzina di
vent'anni con nessuna esperienza fu la vera crudeltà di quel concorso. D'altra parte rifiutare il posto fisso sarebbe stato un delitto. Insomma incominciò per Carla una vera e propria via
crucis. Si piegò ovviamente al dovere, ma lo fece vivendo nel terrore di essere coinvolta in qualche impeachment. Figuriamoci!
Non ci fu verso di farglielo capire che il suo compito era solo quello di firmare ciò che poi sarebbe stato controfirmato dal
comandante e che quindi lei non correva assolutamente alcun rischio. Cominciò a fare domanda di rientrare a Roma e siccome i
santi in paradiso erano potenti la trasferirono a Roma, ma senza cambiarle, perché non era possibile, la destinazione.
Furono mesi drammatici. Lei rifiutò di continuare a fare il consegnatario e i capi a insistere che loro di un consegnatario
avevano bisogno. Fu spostata da una stanza all'altra; fu privata di una scrivania; fu fatta lavorare in un sottoscala fino a quando il problema non salì su più alte scrivanie e, proprio sotto Natale,
Carla ricevette un telegramma con l'invito di assumere il ruolo che le era stato conferito dal concorso. Naturalmente una mediazione
mai! Figuriamoci! I militari! Il tenore del telegramma era perentorio, però pur sempre di
un invito si trattava. Quella volta eccezionalmente fui invitato a cena e da solo. Io credetti di dover fare il mio lavoro di insegnante
di italiano e suggerii né più né meno che un invito si può declinare e che una declinazione non è un rifiuto. Perché coi militari se ti
rifiuti sono cazzi tuoi! Disperati mi diedero retta e dettai io stesso un telegramma asciutto asciutto che diceva: “Motivi più volte
esposti S.V. sono costretta declinare gentile invito.”
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L'intera arma della difesa fu messa in subbuglio da questa “declinazione”. Il capoccione interessato consultò vari vocabolari
e alla fine si rese conto che o riscriveva un telegramma (Mai e poi mai! Un militare non si rimangia mai la parola!) o la licenziava o trovava alla fine un accomodamento. Di quale accomodamento
si sia trattato non lo sapremo mai; fatto sta che Carla non fu licenziata e da quel momento fu messa a lavorare con altre due
impiegate civili che con impagabile amorevolezza femminile ne sopportarono tutti i tentennamenti.
Come la raccontava la solita Ginetta con la quale io ero ormai in lite definitiva? Secondo lei il capoccione avrebbe
chiamato il conoscente da lei interessato per il superamento del concorso e lo avrebbe informato che Carla stava per essere
licenziata. E il conoscente avrebbe per una seconda volta interceduto affinché il terribile evento non si realizzasse.
Naturalmente non era vero. Ginetta, padrona delle chiacchiere, aveva ricevuto la notizia dal suo conoscente, l'aveva
manipolata e me l'aveva rivolta contro. Cioè: come se effettivamente avessero pensato ad un licenziamento a causa della mia “declinazione” e poi avessero receduto grazie all' intervento
del suo conoscente. Ma se così fosse stato, probabilmente il trio indecisi non mi avrebbe più consultato. Invece iniziarono una
campagna contro le ingerenze di Ginetta, continuando a trattare me sempre con la stessa cordialità di prima. La faccenda, come al
solito, rimase all'attualità delle chiacchiere femminili, perché le altre “zie” (sorelle e cognate) continuavano a imperversare e a
diffondere tali chiacchiere provocando come al solito timori insussistenti in Carla e famiglia per stroncare qualsiasi loro
tentativo di prendere coraggio e di mettere a posto una volta per tute le mezze menzogne di Ginetta. Era il suo solito gioco
perverso, trattare gli affetti secondo volgari regole di bassa politica, al quale però tutti i fratelli minori ipocritamente si piegavano: lei, attraverso chiacchiere infondate, e in via
eccezionale Cettina, ed eccezionalissima Assuntina, dovevano sempre stare sopra agli altri e i miei fratelli, succubi, si piegavano
al gioco credendo di ricavarne vantaggi che in realtà finivano sempre nelle tasche di lei, e alle altre due solo gli onori e qualche
regalia di passaggio. Alberto, Angela e Carla, messi tra due fuochi (o me o Ginetta), si sommersero nella palude di sempre: non mi
permisero più di intavolare l'argomento “consegnatario” finalmente risolto, ma, tacitandomi, non mi consentirono neanche
di lanciare le mie bordate contro Ginetta che cadevano regolarmente nel vuoto. Incontravo un fratello, un nipote o
qualcun altro della famiglia? Gli spiegavo come stavano le cose?
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Bene! Quello mi ascoltava in silenzio senza dire ne sì né no e, dopo avermi salutato, cancellava totalmente quanto gli avevo detto
e tornava sotto le grandi ali protettrici di Ginetta. Ancora oggi, dopo che loro (non io: io posso raccontare la mia ma non polemizzo coi morti) si sono resi conto del gioco infame a cui
volontariamente si piegarono, ancora oggi, dicevo, restano imbambolati dalla seduzione di Ginetta. E anch'io oggi, a sette
anni dalla sua scomparsa, debbo riconoscere il suo carisma che però seppe esercitare in modo irreversibile ahimé solo su alcuni
dei fratelli. Nonostante il problema del consegnatario Carla alla fine
riuscì a laurearsi, ormai quasi quarantenne, non perché avesse un qualche interesse culturale ma semplicemente perché stiudia el
latin per reussir nel comersio. Io pensai di essere stato reclutato per portare a termine il lavoro nel più breve tempo possibile;
invece Carla mandò le cose per le lunghe in modo tale da ridurre al minimo il mio aiuto e quindi sciogliersi da qualsiasi obbligo nei
miei riguardi. Obblighi ai quali ovviamente io non pensavo minimamente. Si laureò, tutti aspettammo in vano una festicciola, ma l'evento non si dette mai: il pretesto era che, essendo ormai l
famiglia divisa in due fazioni, loro non volevano inimicarsi con nessuna delle due; la realtà era invece che ogni scusa era buona
per non spendere soldi. Infatti la laurea per Carla e per il trio Di Battista aveva significato solo per i molti vantaggi di tipo
amministrativo che avrebbe procurato, e cioè maggiori guadagni. L'ultima impuntatura di Carla e la più grave si ebbe quando
morì il padre a novantun anno. Grave perché probabilmente le costò la vita. Non volle mai rassegnarsi alla morte del padre e
rimase sempre convinta, a causa della sua mentalità paesana, che il medico di famiglia, persona preparatissima e onestissima, se fosse
passato a visitare il padre ormai morente, avrebbe potuto evitare l'infausto evento. E' evidente l'assurdità del ragionamento; ma per questo motivo, spalleggiata dalla madre, cambiò medico.
L'incapacità psicologica di sopportare il lutto, del resto prevedibilissimo data l'età, e un'assistenza medica non in possesso
di un'anamnesi dettagliata come quella del medico abbandonato, non le consentirono di affrontare in tempo utile il male che la
assalì e la condusse a morte. Ancora una una volta la chiacchiera familiare e il risucchio di mentalità ignoranti avevano la meglio
sulla razionalità che conduce lo spirito di autoconservazione alle scelte più giuste per la salvaguardia di se stessi e degli altri. La
storia della mia famiglia potrebbe riassumersi in una battuta feroce: il sopravvento dello spirito di conversazione su quello di
conservazione. Chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere, gestite da un
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esercito di donne sulle quali poco hanno potuto i pochi maschi arruolati, ignoranti e retrogradi. Da qui forse il nuovo titolo
“Sorelle d'Italia” che adotterò per l'intero ciclo e la dedica autoironica ad Arbasino. Infine l'unica storia d'amore che sembra essere stata
imbastita da questa ragazza, sostanzialmente restia all'accoppiamento, si ebbe mentre, grazie al lavoro infaticabile di
mio cognato, lei riuscì ad avere dal Ministero del Tesoro un miniappartamento a Fiano Romano. Durante l'allestimento di quel
piccolo loft si propose come aiuto un certo Giacomo che era dolce e gentile come una fanciulla e che non destò minimamente in
Carla il sospetto che potesse avere per lei qualche interesse di tipo sentimentale. Perciò tutto andò bene fino a quando, mentre
parlavano in macchina, all'imbrunire, lui non tentò di baciarla. Apriti cielo! Lo respinse con uno schiaffone e su tutte le furie
lasciò la macchina. Il povero Giacomo fece qualche altro timido tentativo, sempre vanificato dalle ripulse di lei, per cui alla fine
desistette e poco dopo la moglie se la trovò al paese, dove c'era una ragazza che non vedeva l'ora di sposarselo. Poveretto! Aveva solo sbagliato i tempi. Avesse avuto la pazienza di far digerire la
cosa al trio indecisi forse la cosa sarebbe andata a compimento, ma il destino non volle. Quando poi lei, viste le brutte, lo
ricontattò, lui cominciò a bestemmiare perché si era già sposato. Potete immaginare quanto tempo gli ci volle al trio indecisi per
mentalizzare l'evento più frequente al mondo: due ragazzi coetanei si piacciono e si sposano. Ma va?
Da allora in poi, come la gallina di cui mia madre non s'era accorta del sopravvenuto istinto materno, Carla arredò il suo nido
d'amore con rigorosa puntualità: mancava solo la culla e il lettino per il bimbo che non sarebbe mai nato. O, tanto per fare un
esempio più nobilitante, come Ludwig di Baviera che si faceva costruire un nuovo castello non appena aveva sentore di un nuovo amore che stava per nascere e che però non era quello riproduttivo
che lui pensava, così lei ogni volta acquistava un nuovo “ninnolo” per quel nido d'amore mancato.
L'unico suo vero amore era quel vecchio padre che l'aveva generata a quarantacinque anni e che ormai andava declinando in
modo sempre più vistoso. Giunto al traguardo degli ottanta per Alberto incominciò
l'inesorabile declino dell'ultimo decennio che subì una grande accelerazione negli ultimi due anni portandolo alla fine a morire.
Carla non volle mai accettare quella morte; non riuscì a smaltire un lutto che la vedeva orfana e vedova al tempo stesso. Il cul de
sac in cui si era cacciata nel giro di quattro anni condannò a morte
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anche lei e Angela rimase irrimediabilmente sola. Nel giorno del funerale di Carla, su pressione di un suo
cugino che poi volle recitarla, male, in chiesa, le scrissi, come nel giorno del suo primo compleanno, una poesia, che mi sembra bella (ma il merito non e mio: il modello è riconoscibilmente di Saba) e
forse è veramente bella perché l'unica vera poesia è quella che parla coi morti.
Figlia che te ne vai,
ti voglio dire quel che per noi sei stata
nel breve corso della vita breve che il destino crudele ti ha stroncato.
Per noi sei stata l'èsile farfalla
che volteggia elegante nei giardini di primavera.
Sei stata l'ape che dai fiori prende
il nèttare soltanto
lasciando agli altri il miele.
Sei stata la gazzella che si aggira timida e sospettosa
per il bosco del mondo presentendo
che la belva è in agguato su di lei.
E poi sei stata la formica assidua che accùmula certezze
per mamma e per papà nell'illusione
di un'incerta e malfida eternità.
E sei stata la chiòcciola che lenta
metodica ed umbràtile nella corsa sa vincere anche Achille.
Ma alla fine sei stata solo nuvola
che un démone crudele e capriccioso ha plasmato con mani di demiùrgo
per consegnarti al male spietato e inesorabile
che ti si porta via.
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Per cui ora dall'alto versi, o gentile,
le tue ultime lacrime
sul dolore del mondo e il suo mistero.
Ma alla fine alla fine nulla di tutto questo tu sei stata.
Silenziosa e discreta tu hai accettato pazientemente
la dura legge dell'inconclusione, distribuendo amore
silenziosamente. Così perdendo hai vinto:
e pur andàndo via, resti con noi per sempre, cara,
e resti nei ricordi in una delle forme
che fino a qui ti ho dato.
E resti con la mamma, nel suo ricordo,
la mamma infaticabile che ti ha seguito passo passo sempre
e soprattutto in questo ultimo viaggio
di cui ancora ieri ti chiedevi un perché...
senza risposta.
Distàccati da noi senza paura, vai da sola
nel regno delle tombe e della notte...
là ti attendono insieme papà, gli zii e i nonni a cui donasti
la gioia, la speranza e l'allegria; rimanendo però dentro di noi
col dolcissimo amore che ci hai dato e che nessuno mai potrà scordare.
Per me veramente una figlia era stata, che mi lasciava
inopinatamente, fiaccata da un tipo di tumore rarissimo male ed inesorabile. E' vero che scrissi questi versi su pressione del cugino,
ma oggi debbo ringraziarlo, quel cugino, perché in questo modo
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mi permise di dare forma al dolore insopportabile che quella scomparsa mi procurò. L'ho ancora davanti agli occhi, Carla, in
ospedale, e negli ultimi giorni della sua vita, e probabilmente porterò per sempre dentro di me quelle immagini lancinanti: ma più di tutte porterò dentro l'immagine di mia sorella che più il
medico di turno quella notte con delicatezza le spiegava che era finita più lei ostinatamente replicava “Ma non si può fare niente?”
Povera Angela, non si convinse mai che Carla era morta; come avevo potuto osservare e osservo ancora nelle madri che perdono
un figlio, nessuna riesce ad usare il passato remoto per i figli morti. Nella loro testa c'è sempre l'idea che quel figlio non è morto
ma che in qualche mondo possibile ancora continua a vivere. Angela fece appello a tutte le sue forze e tutti, parenti amici
e vicini, le si strinsero attorno facendo a gara per aiutarla a sopportare l'ultima crudeltà che il destino volle infliggerle. Si
aggrappò ai ricordi. Riempì la casa delle foto della figlia che la figlia, nel suo incurabile narcisismo, si faceva fare a iosa, s i dedicò
anima e corpo a Luna, cercò di rispondere per quanto possibile agli stimoli a cui tutti la sottoponevamo con l'intento di aiutarla a vivere.
Ma quando il 25 febbraio 2016 il gatto, Luna, vecchissimo, morì, lei lo appuntò in modo scombiccherato sulla prima pagina di
una sua antiquata agenda telefonica che ancora conservo e dopo qualche giorno si ammalò. Il cancro al colon la divorò in un paio
di giorni e, nonostante il naturale istinto a vivere di cui era dotata, alla fine dovette cedere; il suo abbandono alla morte fu com'è,
giustamente, quello di tutte le donne perché la natura le ha progettate per la vita e non per la morte: Angela non pensò mai,
neanche per un secondo, neanche nell'ultimo attimo della sua vita, che la vita ha una conclusione e che si può morire.
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