DIOCESI DI VICENZA
UFFICIO PER L’INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA
“CHE COS’È L’UOMO PERCHÉ TE NE CURI?” (Sal 8,5)
Miseria e grandezza dell’uomo nella filosofia del ‘900, nella prospettiva biblica e cristiana,
nel dialogo interreligioso
RELAZIONI E MATERIALI DEL CORSO MONOGRAFICO DI AGGIORNAMENTO (A CURA DI) PROF. DAVIDE VIADARIN PROF. GIULIANO CISCO PROF. DON GIANDOMENICO TAMIOZZO PROF. DON ANTONIO BOLLIN
2012
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Leonardo Da Vinci, Uomo Vitruviano, 1490, conservato nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe delle
Gallerie dell’Accademia di Venezia.
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MAH-ENÔSH?
Un approccio biblico… a cura di DAVIDE VIADARIN
1. Una domanda che esige una risposta
2. Domanda su noi stessi, domanda ad un interlocutore
3. I sette testi in cui compare
Salmo 8 1Al maestro del coro. Su «I torchi». Salmo. Di Davide.
2O Signore, Signore nostro,
quanto è mirabile (mah ‘addîr) il tuo nome su tutta la terra!
Voglio innalzare sopra i cieli la tua magnificenza, 3con la bocca di bambini e di lattanti:
hai posto una difesa contro i tuoi avversari,
per ridurre al silenzio nemici e ribelli. 4Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato, 5che cosa è mai l’uomo (mah ‘enôsh) perché di lui ti ricordi (zakar),
il figlio dell’uomo (bên-‘adam), perché te ne curi (paqad)? 6Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,
di gloria e di onore lo hai coronato. 7Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi: . 8tutte le greggi e gli armenti
e anche le bestie della campagna, 9gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
ogni essere che percorre le vie dei mari. 10
O Signore, Signore nostro,
quanto è mirabile (mah ‘addîr) il tuo nome su tutta la terra!
Salmo 144 1Di Davide.
Benedetto il Signore, mia roccia,
che addestra le mie mani alla guerra,
le mie dita alla battaglia, 2mio alleato e mia fortezza,
mio rifugio e mio liberatore,
mio scudo in cui confido,
colui che sottomette i popoli al mio giogo. 3Signore, che cos’è l’uomo (mah ‘enôsh) perché tu l’abbia a cuore?
Il figlio dell’uomo (bên-‘adam), perché te ne dia pensiero? 4L’uomo è come un soffio,
i suoi giorni come ombra che passa.
Giobbe (7,17-21; 15,14; 25,4)
11Mosè disse a Dio: «Chi sono io
per andare dal faraone e far uscire
gli Israeliti dall’Egitto?». 12
Rispose: «Io sarò con te. Questo
sarà per te il segno che io ti ho
mandato: quando tu avrai fatto
uscire il popolo dall’Egitto,
servirete Dio su questo monte»
Es 3, 11-12
4
«17
Che cosa è l’uomo (mah ‘enôsh) perché tu lo consideri grande e a lui rivolga la tua attenzione 18
e lo scruti
ogni mattina e ad ogni istante lo metta alla prova? 19
Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi
lascerai inghiottire la saliva? 20
Se ho peccato, che cosa ho fatto a te, o custode dell’uomo? Perché mi hai
preso a bersaglio e sono diventato un peso per me? 21
Perché non cancelli il mio peccato e non dimentichi la
mia colpa? Ben presto giacerò nella polvere e, se mi cercherai, io non ci sarò!».
«14
Che cos’è l’uomo perché si ritenga puro, perché si dica giusto un nato da donna?»
«4Come può essere giusto un uomo davanti a Dio e come può essere puro un nato da donna?
5Ecco, la luna
stessa manca di chiarore e le stelle non sono pure ai suoi occhi: 6tanto meno l’uomo, che è un verme, l’essere
umano, che è una larva».
Siracide (18,7-8) 7Quando l’uomo ha finito, allora comincia, quando si ferma, allora rimane perplesso.
8Che cos’è l’uomo? A
che cosa può servire? Qual è il suo bene e qual è il suo male?
Ebrei (2,5-9) 5Non certo a degli angeli Dio ha sottomesso il mondo futuro, del quale parliamo. 6Anzi, in un passo della
Scrittura qualcuno ha dichiarato:
Che cos’è l’uomo perché di lui ti ricordi
o il figlio dell’uomo perché te ne curi? 7Di poco l’hai fatto inferiore agli angeli,
di gloria e di onore l’hai coronato 8e hai messo ogni cosa sotto i suoi piedi.
Avendo sottomesso a lui tutte le cose, nulla ha lasciato che non gli fosse sottomesso. Al momento presente
però non vediamo ancora che ogni cosa sia a lui sottomessa. 9Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco
inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per
la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.
1Parole di Qoèlet, figlio di
Davide, re a Gerusalemme. 2Vanità delle vanità, dice
Qoèlet,
vanità delle vanità: tutto è
vanità. 3Quale guadagno viene
all’uomo
per tutta la fatica con cui si
affanna sotto il sole? 4Una generazione se ne va e
un’altra arriva,
ma la terra resta sempre la stessa.
(Qo 1,1-4)
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Miseria e grandezza dell’uomo nel dialogo interreligioso
(Che cos’è l’uomo perché te ne curi?)
a cura di GIANDOMENICOTAMIOZZO
Introduzione:
Siamo nell’anno della fede (cristiana); iniziamo pertanto con un atto di fede, fissando il nostro sguardo su
Gesù autore e perfezionatore della fede (cfr. Eb. 12,1ss); Lui è per noi colui che fa sorgere la fede e colui
che la rende matura, fino al punto da riconoscere la verità profonda di quel passo di san Giovanni: “Quale
grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!... Carissimi, noi fin
d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si
sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv. 3,1ss).
Questa verità è il nostro punto di riferimento antropologico, la nostra pietra miliare, su cui confrontiamo gli
altri punti di vista sull’essere umano, altre antropologie, antiche e nuove. Gesù per noi è la pietra angolare su
cui costruiamo il nostro pensare, discorre e agire. Ne abbiamo il diritto, direi, proprio in nome della fede che
abbiamo abbracciato, anche se magari non ancora in pienezza.
Ci soffermeremo sull’antropologia di quattro religioni: buddismo, induismo, gianismo, islam.
Prima parte: il buddismo.
Iniziamo col buddismo, perché, anche se sembra essere quello che più dà valore alla dignità umana, con la
sottolineatura sull’autocoscienza (mindfulness), in effetti, concentrando la sua riflessione all’aspetto
antropologico e tralasciando quello teologico, riduce l’essere umano ad un insieme di aggregati fisici e
psichici (i cinque kandas).
L’abbiamo già sottolineato anche in precedenti riflessioni, in questa sede dell’IRC. La ricerca del Buddha è
fondamentalmente antropologica più che teologica. Al Buddha interessava di più l’essere umano che non Dio
e le domande metafisiche. C’è nel buddismo, specie iniziale, uno scavo nella natura umana (in linea con il
rinnovamento culturale religioso in atto nel periodo upanishadico dell’induismo) e un tentativo di
disciplinare i pensieri, le emozioni e i sentimenti in vista della pacificazione della mente e dei sentimenti. In
questo si riconosce lo stretto legame della ricerca di Gautama Siddharta con la tradizione dello Yoga, i cui
maestri sono stati i suoi primi maestri. Molto investì il Buddha nella concentrazione del pensiero e nella sua
purificazione. Basterebbe citare a proposito il primo dei versi gemelli nel Dhammapada: “Siamo ciò che
pensiamo. Tutto ciò che siamo è prodotto dalla nostra mente. Ogni parola o azione che nasce da un pensiero
torbido è seguita dalla sofferenza, come la ruota del carro segue lo zoccolo del bue. Siamo ciò che
pensiamo. Tutto ciò che siamo è prodotto dalla nostra mente. Ogni parola o azione che nasce da un pensiero
limpido è seguita dalla gioia, come la tua ombra ti segue, inseparabile. «Mi ha insultato, mi ha aggredito, mi
ha ingannato, mi ha derubato.» Se coltivi questi pensieri vivi immerso nell'odio. «Mi ha insultato, mi ha
aggredito, mi ha ingannato, mi ha derubato.» Abbandonando questi pensieri ti liberi dell'odio”.
Però, disancorando l’uomo da Dio, staccando il relativo (l’uomo) dall’Assoluto, su che cosa o su chi si basa
la dignità umana, la sua stessa essenza? Alla fin fine, il Buddismo (il Theravada, quello più marcatamente
etico) sembra lasciare una profonda solitudine: tu con te stesso, con i tuoi limiti, con i tuoi mali e peccati da
purificare, purificazione che solo tu con il tuo ritorno, in base alla legge del Karma, puoi realizzare (anche
se, pure nel buddismo, soprattutto nell’amidismo giapponese, il discorso della grazia che sgorga dalla fede in
Buddha, farebbe cambiare le carte in tavola).
1.Miseria della creatura umana
Nel buddismo, come in altri pensieri religiosi, la riflessione sul limite e miseria dell’uomo inizia da una
constatazione esistenziale, - che il Buddha ha codificato nella prima nobile verità -, la constatazione della
impermanenza del reale attorno a noi e in noi: “Tutto è dukkha (tutto è sofferenza), perché tutto è anatma,
tutto è anicca”.
Anche se sono concetti già accennati in precedenti nostri incontri, li riprendo, perché necessari onde capire la
antropologia buddista di base e la sua riflessione su una delle espressioni più evidenti della miseria umana
che è il dolore: tutto è dukkha. Buddha spiega questa realtà in tre tappe caratteristiche:
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a. Tutto è provvisorio (anicca). Tutti gli elementi che costituiscono la nostra esistenza sono per natura
provvisori. Le parole di Buddha, sempre ricche di poesie, suonano: ”La materia è simile a un ammasso di
schiuma, la sensazione a una bolla d’acqua, la cognizione a un miraggio, la volontà ad fragile tronco di un
banano e il pensiero a un fantasma”. Infatti le materie si tramutano d’istante in istante; basta pensare al
metabolismo del nostro corpo. Nemmeno i fenomeni interni godono di maggiore stabilità. Buddha dice:
“Come una scimmia, che sta prendendo i suoi svaghi in un bosco, afferra un ramo, poi lo lascia andare e ne
prende un altro, così ciò che si chiama cognizione, volontà e pensiero, si produce e sparisce con perpetuo
mutamento, di giorno e di notte”.
b. Tutto è privo dell’io (anatta).Se gli elementi che costituiscono la nostra esistenza sono del tutto
provvisori, sono per forza privi dell’io (atman), cioè della sostanza a sé stante. Gli elementi non
appartengono all’io. L’io non esiste come entità a sé. Se il mio corpo fosse mio, non sarei mai ammalato; se
le sensazioni fossero mie, avrei solamente quelle piacevoli; se il pensiero fosse mio, lo controllerei a volontà.
Ma le cose stanno ben altrimenti. Uno sguardo dato a un passante davanti agli occhi suscita già in me
simpatia o antipatia, piacere o disgusto. L’io sussistente è un sogno; non è che un nome dato all’insieme
degli elementi che mutano. Buddha dice: “Come là dove le parti di un carro si trovano riunite, si suole usare
la parola ‘carro’ che in sé non esiste. così là dove gli elementi psicofisici sono riuniti, si suole usare la
parola ‘io ma in effetti l’io non esiste come entità a sé”.
Mi soffermo di più su questo principio buddista dell’anatmavada, perché la dice lunga sull’antropologia
buddista e sul limite riconosciuto alla creatura umana. Negando l’atman, la sua visione antropologica si
codifica attorno ai cinque aggregati (skandas): corporeità (rupa), sensazioni-sentimenti piacevoli e
spiacevoli e indifferenti (vedana), percezione sensoriale e mentale (sanjna), predisposizioni ereditarie
(samskàras), consapevolezza (sanjnana). L’uomo sarebbe come “un sacco ben legato” di varie componenti
materiali e mentali, come un carro che esiste solo in quanto aggregato di singole parti. La personalità che ne
deriva è una realtà composta e per questo transitoria. Ciò che si reincarna non è pertanto l‘atman - che non
esiste - ma un principio vitale che riprende il ciclo. La lettura che il buddismo successivo e gli studi
occidentali sul buddismo han fatto del concetto di atman mi pare sia più sul piano psicologico che spirituale.
Generalmente il termine atman viene tradotto in inglese con “self” e in italiano - a sua volta traduzione
dall’inglese - con “sé”, quasi fosse un “ego” da cui guardarsi. Ma trasferire il grande concetto spirituale di
atman della tradizione induista in una categoria psicologia è - a mio modestissimo avviso - un “riduzionismo
spirituale e culturale”, una non corretta interpretazione di un concetto che ha segnato e segna la grande
tradizione induista. Anche il Dalai Lama si muove su questa pista dell’anatmavada: “La filosofia buddista
non accetta l’esistenza di una tale entità autonoma e indipendente. … Il nostro senso del Sé può essere
considerato come un flusso complesso di eventi mentali e fisici, raggruppati in modalità chiaramente
identificabili, fra cui gli elementi fisici, gli istinti, le emozioni, gli atteggiamenti ecc. che possiedono una
continuità nel tempo… Il senso del Sé è meramente un costrutto mentale, una semplice definizione data a un
insieme di eventi mentali e fisici che sorgono in modo condizionato e che hanno una certa continuità”.
c. Tutto è dolore (dukkha). Se tutti gli elementi che costituiscono la nostra esistenza sono privi di ogni
permanenza e sussistenza, sono di per sé dolorosi. Di conseguenza, la nostra esistenza stessa è dolorosa.
Buddha dice:“Dolore è la nascita, dolore è la malattia, dolore è la vecchiaia, dolore è la unione con chi non
si ama, dolore è la separazione da chi si ama, dolore è non ottenere di quanto si desidera; in sostanza i
cinque elementi psicofisici con l‘attaccamento sono dolore”. Qualunque felicità umana, segnata dalla
caducità. è essenzialmente dolorosa. Tutto finisce con la morte. Buddha dice: ‘Nel corso di varie esistenze
abbiamo versato più lacrime dell‘acqua contenuta nei quattro oceani”.
Il lama Thamthong Rinpoche, del buddismo tibetano, nel suo libro La saggezza di Buddha, descrive la
sofferenza generale del samsàra (cioè l’impermanenza e il dukkha) attraverso sei aspetti:
1. L’incertezza, proprio perché nel samsàra nulla è certo; lo stesso piacere che ricerchiamo, non è stabile, è
fuggevole, non è certo.
2. L’insoddisfazione. Si cerca inutilmente la soddisfazione esercitando potere sugli altri o sui soldi. Il
corpo e la mente si affaticano in questa ricerca di soddisfazione. E quante insoddisfazioni e preoccupazioni
nascono dal nostro cercare la soddisfazione! Il vero povero è colui che non è mai soddisfatto.
3.Perdere il corpo ripetutamente. Il che significa morire, reincarnandoci. Oggi abbiamo un corpo, ma un
giorno lo perderemo e ne assumeremo un altro. Oggi abbiamo un corpo umano, ma nel prossimo ciclo forse
avremo un corpo di animale.
4.Rinascere nuovamente: rinascere significa riprendere un altro corpo. Un corpo che non scegliamo noi, un
corpo a seconda delle predisposizioni di come abbiamo impostato il nostro potenziale karmico.
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5.Cambiare continuamente la condizione esistenziale. Oggi va bene, domani male; l’unica certezza è che
tutto cambia. Il lama spiega questo continuo cambiamento, con la fine di quattro fenomeni: 4.1. La fine
dell’accumulo è l’esaurimento. Questo può avvenire a livello personale o anche familiare: si può decadere da
uno stato familiare di nobiltà e di ricchezza, a causa di fenomeni esterni quali guerre, mutamenti sociali,
crolli economici, mancanza di salute, problemi familiari… Allo scopo di accumulare, quante preoccupazioni
e irritazioni, e invidie e gelosie, menzogne e danni provocati ad altri… 4.2.Salire in alto e poi cadere: più si
sale in alto in società più la caduta fa male. Il venerabile Tempel Dulmé afferma che se ci si arrampica su un
albero molto alto, sarebbe meglio arrivare a metà, perché più si sale e più l’albero tende ad assottigliarsi
aumentando il pericolo di cadere. Restare a metà significa che ogni cosa deve essere fatta con la giusta
moderazione. 4.3.La fine dell’incontro è la separazione: amicizie e relazioni che nascono e poi ci si deve
separare, con sofferenza e insoddisfazione. 4.4.La fine della nascita è la morte. Chi nasce è sicuro di morire.
6.Morire soli, senza compagni: Quando abbiamo qualche problema o sofferenza, non possiamo dire: “
Amico prendi un po’ della mia sofferenza; puoi soffrire tu al mio posto?” Così, nel momento della morte,
nessuno ci potrà accompagnare in questa esperienza. Moriremo soli.
Tutto dunque è segnato dalla sofferenza, dal limite, dalla miseria: ecco il primo punto. Il secondo passaggio è
l’interrogativo sull’origine del dolore, del limite, della pochezza che caratterizza l’esperienza umana (questo
sarebbe il quesito della seconda nobile verità): l’origine della sofferenza (samudaya satya) è la passione,
l’attaccamento, così potentemente iscritto nella natura umana. Per cui una forza positiva come il desiderio
può diventare causa di sofferenze e di male esistenziale, perché mette in moto azioni buone e cattive.
L’esistenza dolorosa è causata dall’azione, la quale a sua volta è condizionata dalla passione, dal desiderio,
dall’attaccamento. E qui percepiamo il cuore del discorso karmico (la legge del karma, dell’agire) così
centrale nel buddismo, come nell’induismo: le azioni buone vengono ricompensate con destini buoni, le
azioni cattive vengono retribuite con destini cattivi. Diceva il Buddha: “Tu sei il signore di te stesso.
Nessuno può purificare un altro... Contro di te e contro te solo hai peccato. Queste cattive azioni che sono
tutte tue proprie, non sono state compiute né da tua madre, né dai tuoi amici. Tu solo le hai compiute e da
solo dovrai raccoglierne il frutto”.
Ci soffermiamo ora ad approfondire il tema della morte nel buddismo tibetano, dal momento che la morte
è il tratto che più di ogni altro parla del limite umano e della sua miseria. La meditazione sulla morte è un
classico della meditazione buddista come aiuto forte nel capire la prima nobile verità del “tutto è dukkha,
tutto è dolore”. Esiste anche un libro che porta il titolo: Libro tibetano dei morti, di cui faremo qualche
accenno, dove appare, a mio avviso, una concezione dell’uomo che va al di là dell’anatmavada.
Il Lama Thamthog, già citato sopra, suggerisce i seguenti passaggi per una meditazione sulla morte: Primo
passaggio: la consapevolezza che la morte è certa: Questa prima convinzione viene sviluppata in tre
ragionamenti: 1.la morte arriva di sicuro, niente la può fermare: “Non importa in quale condizione io sia
nato, che io sia fortunato o sfortunato; dovrò certamente morire... Per quanto io possa viaggiare non c’è alcun
posto dove trovare rifugio o sfuggire alla morte”. 2.La vita non si può allungare, al contrario si consuma
continuamente: Il Dalai Lama affermava che “se ci rendessimo conto della natura impermanente della nostra
esistenza e della morte, allora capiremo che, ogni istante della vita, non facciamo altro che correre incontro
alla morte come se volessimo abbracciarla”. 3.Si morirà senza essersi dedicati alla pratica del dharma. Un
famoso maestro tibetano, parlando della sua vita, diceva: “Ho vissuto vent’anni senza avere avuto il minimo
interesse per la pratica buddista, poi altri venti pensando: “Voglio praticare, ma ora ho molto da fare, appena
finito mi impegno nella pratica”; e dopo altri vent’anni, pensando: “Non ce la faccio, non posso”. Alla fine,
concludeva: questa è la storia della mia vita umana vuota. Tutto questo dovrebbe spingere il buon buddista a
una prima determinazione: decidere di praticare il dharma.
Secondo passaggio: il momento della morte è incerto. Anche qui il lama suggerisce tre ragionamenti: 1.La
durata della vita degli esseri senzienti di questo mondo è del tutto incerta (“Se vivrò una settimana in più o
un anno in più, possa questo tempo essere utile per creare le cause per una rinascita fortunata nel futuro, per
creare le condizioni della liberazione dalle sofferenze”). 2.Le condizioni favorevoli per la sopravvivenza
sono minori delle condizioni favorevoli alla morte; anzi a volte le condizioni favorevoli possono diventare
esse stesse causa di morte (cfr. cibo, macchina, strumenti di lavoro…). Nagarjùna paragonava la vita a una
lampada accesa in mezzo alla tempesta che si può spegnere da un momento all’altro. 3.Il momento della
morte è incerto, perché il nostro corpo è fragile. Pensiamo alla fragilità del respiro… Da queste
considerazioni nasce la seconda determinazione: praticare subito il dharma.
Terzo passaggio: nel momento della morte solo il Dharma ci sarà di aiuto. Anche qui tre ragionamenti: 1.Nel
momento della morte, le ricchezze non servono e non ci aiutano. Shantideva, nel testo del Bodhicaryàvatàra,
scrive: “Nel momento della morte si abbandona tutto, ma non lo sapevo. Finora ho cercato di proteggere gli
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amici e parenti e di tenere lontano i nemici. Con queste due preoccupazioni ho accumulato un enorme karma
negativo che non posso condividere con nessuno, nemmeno con amici e parenti. Infatti sono nato da solo e
muoio da solo. Tutta la negatività accumulata la porto io solo; nessuno mi farà il favore di condividerne
almeno un po’”. 2.Nel momento della morte, parenti e amici non aiutano. Nonostante i legami fortissimi con
parenti e amici, il separasi è inevitabile. Per descrivere questa situazione, nel Tibet usavano l’analogia del
pelo nero da estrarre dal burro (peli di yak neri). Il burro è paragonato agli amici e parenti, mentre il pelo
nero siamo noi. 3.Nel momento della morte nemmeno il nostro corpo potrà aiutarci. Mentre siamo in vita
consideriamo il nostro corpo come il bene più prezioso al mondo, ma nel momento della morte, esso sarà
completamente inutile e lo dovremo abbandonare. Da tutto questo, ecco la terza determinazione: la
decisione di praticare solamente il Dharma.
Un ulteriore modo di meditare sulla morte è andare in un cimitero, raccogliere un osso di un essere umano
come noi, che una volta cercava la felicità e allontanava la infelicità, proprio come noi . E di lui non è
rimasto che un osso. Anche noi finiremo così. Pensare e ragionare e cercare di cogliere questa realtà ci è utile
perché senza prenderne coscienza, rimarremmo perennemente distratti e compieremmo azioni non virtuose.
Cogliere questa realtà ci stimola ad accumulare azioni virtuose forti, sia fisiche sia mentali.
La meditazione sulla morte e la vanità della vita è comune anche alla tradizione cristiana. Citerei alcune
pagine dell’Imitazione di Cristo per vederne le affinità, anche se c’è una differenza tra le due posizione:
antropologica nel buddismo, e teologica nel cristianesimo. Ma le considerazioni sono similari. Basterebbe
leggere i capitoli XII e XIII del Libro I, dai titoli La meditazione della miseria umana e La meditazione sulla
morte, per vederne i punti in comune (cfr. p. 77 ss Imitazione di Cristo).
Prima di concludere questa sezione sulla miseria della creatura umana nel buddismo, faccio qualche cenno al
Libro tibetano dei morti, che è una vasta guida sia al vivere sia al morire, come fu insegnata in origine da
Padmasambhava, il fondatore del buddismo tibetano nell’VIII secolo d.C., considerato come il secondo
Buddha del Tibet. Il libro tibetano dei morti è praticamente una guida sulle pratiche relative alla
trasformazione della nostra esperienza della vita quotidiana e i metodi per indirizzare i processi del morire e
dello stato post mortem e poter aiutare coloro che stanno morendo. Si tratta di un testo di 14 capitoli: il primo
capitolo (aggiuntivo), illustra le pratiche preliminari; i capitoli 2-7 suggeriscono le tecniche per coltivare la
nostra esperienza della natura ultima della mente nella pratica quotidiana. Il capitolo 8 contiene una specie
di guida al riconoscimento dei segni della morte imminente e una descrizione dettagliata dei processi mentali
e fisici; il cap. 9 presenta alcuni rituali per evitare una morte prematura; il cap. 10 impartisce le istruzioni sui
metodi per portare la coscienza del morente in uno stato illuminato; il cap. 11 contiene il famoso testo La
grande liberazione attraverso l’udire che viene letto al morente e al defunto; il capitolo12 contiene alcune
preghiere che vengono lette al momento della morte; il cap. 13 contiene un dramma allegorico che descrive il
passaggio attraverso lo stato intermedio e il cap. 14 presenta una traduzione dei sacri mantra che vengono
attaccati al corpo dopo la morte e che, si dice, determinano la Liberazione attraverso l’indossare tali mantra.
Cito qualcosa del primo capitolo e del cap. VII (alcune formule di confessione) e dal cap. XII: Preghiere-
aspirazioni. Prendo testi semplici e a noi in qualche modo affini, evitando lunghe citazioni (che sono davvero
moltissime) e tutto quello che suona strano e fantastico:
Dal cap. I: Contiene l’invito alla consapevolezza e alla pratica del dharma: “O ipnotizzato dall’ignoranza,
hai avuto anche troppo tempo per dormire: perciò non addormentati ancora, ma lotta per la virtù con il corpo,
con la parola e con la mente… Ti sei dimenticato delle sofferenze della nascita, della vecchiaia, della
malattia e della morte? Non ci sono garanzie che sopravvivrai, nemmeno dopo questo giorno! E’ tempo che
tu sia perseverante nella pratica…. Non possiamo sprecare i momenti della nostra vita e non possiamo
prevedere le possibili circostanze della morte… Tutti i fenomeni sono privi di sé, vuoti e liberi da
elaborazioni concettuali… Quanto hanno bisogno di compassione gli esseri viventi, torturati dal karma, che
stanno annegando in questo gorgo dell’oceano delle loro azioni passate… Quanto hanno bisogno di
compassione gli ignoranti e gli illusi confinati nella soffocante prigione dell’attaccamento egotico… Noi che
non abbiamo paura e siamo insensibili, anche se abbiamo visto così tante sofferenze provocate dalla nascita,
dalla vecchiaia e dalla morte, stiamo sprecando le nostre esistenze umane, dotate di libertà e di opportunità,
perché seguiamo le vie della distrazione. Dateci la vostra benedizione, o maestri spirituali, perché possiamo
continuamente ricordare l’impermanenza e la morte!”
Dal cap. VII: E’ una delle tante preghiere per chiedere perdono: “O Molto compassionevole e trascendente
signore Vajrasattva,… tu che sei noto come la guida e il maestro.. amico unico di tutti gli esseri viventi, o
Signore della gentilezza amorevole, divinità della compassione, ti preghiamo di assisterci. Da un tempo
senza inizio e senza fine ho vagato nell’esistenza ciclica – sviato dal potere delle mie erronee azioni e dal
mio sbagliato comportamento passato, ho smarrito la strada e mi sono perso. Mi pento con profondo rimorso
di tutte le passate azioni negative… I fuochi dell’avvampante odio mi hanno bruciato la mente, la densa
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oscurità dell’illusione mi ha accecato la consapevolezza discriminante, le distese oceaniche del desiderio mi
hanno affogato la coscienza, il crudele vortice dell’invidia mi ha risucchiato, in questi mondi ruotanti, dove,
legato dallo stretto nodo dell’egocentrismo, sono caduto nella fossa del desiderio … Sono pertanto nato
come personificazione dello sfrenato egoismo in questo sistema di mondi del desiderio. Mi dolgo di una
simile nascita e sono costernato delle mie azioni passate. Tuttavia, nonostante il rimorso e la costernazione,
le azioni passate non possono essere rifatte… O Signore della gentilezza amorevole, grazie alla tua
compassione, purifica le oscurità generate dalle mie azioni passate e dai miei dissonanti stati mentali, e
proteggimi con la presenza della tua materna benevolenza” (sic).
Dal cap. XI – Una delle invocazioni che il morente o il lama che lo assiste, dovrebbe recitare con intensa
concentrazione, immediatamente prima di leggere al morente La liberazione attraverso l’udire (la lunga
recita di testi del cap. XI) e dopo aver preso rifugio nei Tre Preziosi Gioielli e dopo le offerte: “O buddha e
bodhisatwa , rifugio degli esseri viventi, pieni di compassione, pieni di conoscenza, pieni di chiara visione e
di amore, … questo essere umano (si dice il nome) sta lasciando il mondo e sta per giungere in un altro. Egli
sta per essere gettato fuori da questa terra e si sta avvicinando alla grande transizione della morte. Soffre
profondamente, non ha amici, non ha rifugio, non ha protettori e non ha compagni. La sua percezione di
questa vita sta svanendo... Entrando nella fitta foresta del dubbio, sarà trascinato dalla potenza delle azioni
passate…… sarà afferrato da possenti forze maligne e, allorché incontrerà gli esecutori delle infallibili leggi
di causa ed effetto (la legge del karma), sarà sopraffatto da paura e da terrore. Per le sue azioni passate,
incapace di resistere, potrà anche rientrare nei regni della rinascita. Oramai non ha scelta, deve andare avanti,
solo, lasciandosi dietro i cari amici. O compassionevoli, date rifugio a questa persona che non ne ha alcuno.
Proteggetela. Accompagnatela. Difendetela dalla grande oscurità dello stato intermedio. Fatela uscire dal
potente uragano delle azioni passate. Proteggetela dalla paura e dal terrore delle infallibili leggi di causa ed
effetto…”
2.Grandezza dell’uomo: La creatura umana, pur essendo marcata dalla sofferenza e dal limite psico-fisico e
morale, è capace di bontà, di misericordia, di compassione, è capace di azioni virtuose. Ed è questa la sua
grandezza: essere capace di compassione per tutti gli esseri senzienti e di generare pace nella propria mente e
nel proprio cuore, mediante la pratica della meditazione. Questa possibilità la creatura umana è chiamata a
esercitarla e svilupparla su un percorso che il Buddha ha codificato in otto gradini, il cosiddetto ottuplice
sentiero, che forma il marga-satya, cioè il cammino che conduce al nirvana, alla pace del cuore, alla
conclusione del cammino samsàrico, alla fine pertanto di ogni forma di dukkha, di dolore, di impermanenza.
E’ un cammino virtuoso, di perfezionamento, di rettitudine.
Si tratta di Otto “rettitudini” o virtù: retta visione della realtà, cioè conoscenza della quattro nobili verità e
dell’impermanenza delle cose; retta decisione di vivere una vita di distacco dal mondo e in armonia con tutti;
corretto uso della parola che deve essere vera e rispettosa; condotta corretta che si esplicita nell’osservanza
del “pancasila”, cioè dei cinque doveri fondamentali del non uccidere, non rubare, controllo sessuale, non
mentire e non assumere sostanze inebrianti; guadagnarsi la vita con un lavoro onesto; sforzo costante di
vivere una vita morale libera da pensieri negativi e aperta alle buone disposizioni; retta attenzione nel
coltivare la consapevolezza della transitorietà delle cose; l’ottava rettitudine - che dovrebbe sfociare nel
nirvana -, include la meditazione, la gioia della tranquillità interiore, la purificazione totale e la perfetta
sapienza. L’ottuplice cammino viene generalmente raggruppato in una triade: moralità o sila (parola retta,
azione retta, professione retta); meditazione o samadhi (retto sforzo, retta attenzione, concentrazione retta); e
saggezza o prajna (retta visione e retta decisione).
Sapienza pura, pensiero puro, azione pura, vita pura. Ma non è così automatico. C’è bisogno di una
concretezza ripetitiva che si trasformi in virtù, proprio per mettere in atto quella dignità dell’uomo nascosta
nel cuore, ma che ha bisogno anche di disciplina, di orientamento, di lotta. Le virtù più significative della
tradizione buddista, sia hinayana che mahayana e già presenti inizialmente nell’induismo, sono: benevolenza
(maitri), generosità (dana) e compassione (karuna).
Maitri è la benevolenza, intesa come disposizione discreta e cordiale dell’anima. L’Itivuttaka, uno dei testi
del canone buddista, afferma: “Tutti i mezzi impiegati per ottenere un merito religioso, non hanno che il
valore di un sedicesimo di benevolenza”. I racconti buddisti sostengono che quando il Buddha fu concepito
“tutti gli essere ebbero pensieri affettuosi e benigni; tutti provarono gli uni verso gli altri i sentimenti di un
padre e di una madre”. E quando morì, questo elogio funebre fu enunciato: “Fu compassionevole; nessun
essere vivente fu mai ferito da colui che aveva per armatura la misericordia”. Una delle pratiche suggerite al
bhikshu (monaco) per crescere nei sentimenti di benevolenza è la “maitri meditation”, una pratica meditativa
nella quale si dovrebbe procedere per gradi di benevolenza, cominciando con gli amici, poi con gli
indifferenti e infine con i nemici.
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Dana (donare, dare) è la capacità di cercare il bene degli altri, come fare l’elemosina, offrire cibo e vestiti,
donare medicine, servire il prossimo, edificare strutture caritative. Il dana-paramita, cioè la perfezione del
donare assume varie espressioni, dal circondare di cure benevole uomini e animali fino al dono del dharma,
cioè il diffondere la dottrina buddista. Espressione della maitri, il dana dovrebbe ispirarsi anche alla karuna
(compassione).
La karuna è legata alla consapevolezza che il dolore è eredità di tutti gli esseri viventi e pertanto ad ogni
vivente si deve esprimere compassione. Questa trilogia virtuosa non è originariamente buddista. Già presente
nella Brhad-Aranyaka Upanishad induista, viene ripresa e sviluppata nella tradizione più antica
dell’hinayana e poi assunta a categorie ancora più ampie nel Mahayana. Sarà quest’ultima, con la figura del
bodhisatwa (il perfetto), a sviluppare ancor più il pensiero del “dana” con le perfezioni del donare (dana-
paramita), e della karuna, virtù che più si addice specificatamente al bodhisaiwa, “al cui midollo — direbbe
Asanga, il grande monaco della scuola Yogacara — sta l’amore per le creature, come si ama un figlio unico”.
L’insistenza del buddismo sui pensieri “puri” e sulle azioni “pure” è in sintonia con la teoria del karma, anzi
è da essa richiesta con logicità: le azioni buone producono meriti purificatori e le azioni cattive non fanno
altro che legare l’individuo al processo delle reincarnazioni. Una vita virtuosa pertanto è l’antidoto migliore
per “il cammino del non ritorno”, che il Buddha aveva indicato con l’ottuplice sentiero. Maitri, dana e
karuna non sono le uniche virtù care alla tradizione buddista, ce ne sono anche altre come la muditha
(capacità di congioire con gli altri) e l’upeksha (equanimità, imperturbabilità), la consapevolezza del qui ed
ora (mindfulness)... ma le tre sopra indicate sono quelle che maggiormente dicono il bisogno di relazioni
benevole che esiste nel cuore dell’uomo, purificato dai moti negativi istintivi.
In conclusione: è questa capacità di vivere in “modo virtuoso”, secondo le intuizioni di base delle nobili
verità del Buddha, che dice la grandezza dell’essere umano secondo l’antropologia buddista.
Termino con un piccolo credo buddista (avevamo iniziato con un riferimento all’anno della fede), come lo
definisce e presenta Gerald Roscoe nel suo libro The triple gem:
Mi comporterò rettamente in tutte le mie azioni e pensieri; Tratterò tutti, persone ed esseri viventi,
con comprensione empatica, con compassione, con misericordia; Non mi lascerò vincere dall’ira.
Mi asterrò dall’attaccamento; Coltiverò tranquillità mentale; Mediterò: sarò consapevole (mindful)
in ogni mia azione, in ogni mio pensiero; Respingerò i desideri egoistici, tutte le nozioni di un’unità
chiamata “self” (Sè), ogni nozione di permanenza; Non mi lamenterò del passato né mi sbilancerò
nel futuro; Svilupperò sentimenti di equanimità; non permetterò a me stesso di esultare nella buona
sorte o di disperare nella sfortuna; Farò del mio meglio per seguire il cammino dell’illuminazione.
Seconda parte: il giainismo
Solo qualche riferimento, per l’originalità del suo sguardo antropologico. Anche nel giainismo l’essenza
della “creatura” (non creata) umana è spirituale, come nell’induismo. Ma, mentre nell’induismo si
dichiara senza mezzi termini la fede in Dio e nelle sue molteplici manifestazioni, nel giainismo di per sé non
si crede in Dio, come creatore, rimuneratore ecc. ma si crede nella divinità delle anime. Il giainismo eleva
l’essere umano alla divinità e lo ispira a raggiungere tale dignità mediante una fede ferma, una corretta
percezione del reale, una conoscenza perfetta e soprattutto con una vita pura e senza macchia (cfr. l’aspetto
ascetico, tra cui in primis il rispetto per ogni forma di vita, di jiva). Pur quindi non affermando l’esistenza di
un Dio supremo, il giainismo mantiene l’idea del divino, ma nel senso di una perfezione che l’essere umano
può raggiungere mediante il suo impegno e la sua vita. “Dio è soltanto il più alto, il più nobile, la più
perfetta manifestazione di tutti i poteri che giacciono latenti nell’anima dell’uomo”. Il rispetto e anche il
culto quindi non viene espresso ad un Dio Supremo, ma a quelle “jivas” che hanno raggiunto la dignità
divina, cioè la perfezione del loro stato libero dai legami con il karma (il legame tra jiva e a-jiva), mediante
un cammino di perfezione che conduce al nirvana. Per questo l’invocazione più popolare nel giainismo è il
Màgadhì: “Lode e onore agli Arahantas (santi); lode e onore ai Siddhas (illuminati); … agli Acàryas
(maestri); … agli Upadhyàyas (nobili); e a tutti i sadhus(ricercatori della perfezione spirituale) del mondo”.
Praticamente le statue di Mahavira (il sistematizzatore del giainismo, quasi contemporaneo del Buddha) e di
altri Tirthankaras (santi del giainismo, 24, incluso Mahavira) sono sullo stile del culto hindù, ma si ritiene in
ogni caso di onorare l’idealità che essi esprimono, cioè l’anima portata a “divinizzazione”.
Ma anche nel giainismo c’è la dimensione di fragilità e pochezza della creatura umana, in modo molto
simile al buddismo e all’induismo. Il Karma la dice lunga anche per il giainismo; il corpo e la dimensione
psichica dell’uomo sono soggetti a frustrazioni, inadempienze, malattia, dolore e morte. Sono cose troppo
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evidenti per non vederle e non sottolinearle. Ma lo sguardo è posto sull’essenza dell’essere umano che è
visto nella sua dignità spirituale divina. La stessa teoria della relatività della conoscenza, cioè dell’incapacità
della ragione umana di capire e dire tutta la verità, ma solo una parte (cfr. la parabola dei sei ciechi e
l’elefante), evidenzia il limite umano, anche se l’atman (jiva) è destinata a mete da capogiro. Le negatività
dovute al karma, causa prima e ultima della miseria della natura umana, sono superabili attraverso una lunga
sequenza di pratiche ascetiche, tra le quali il digiuno, la ricerca voluta di sconforti fisici di qualsiasi tipo,
controllo rigido dei sensi, del parlare e dell’intelletto, e la confessione dei propri peccati. Ma l’azione più
significativa per una condotta virtuosa è la non violenza o a-himsa, uno dei cinque grandi voti o vratas
comuni all’induismo e buddismo. Accanto a questa, altre virtù sono raccomandate: controllo dell’ira e
perdono delle offese; umiltà e annullamento dell’arroganza; semplicità e franchezza nel parlare e nell’agire;
il distacco; verità e dolcezza nel parlare; pulizia; distacco dai parenti, amici e proprietà; castità.
Terza parte: l’induismo.
1.Miseria e grandezza dell’uomo:
La fragilità dell’uomo, l’induismo in genere la percepisce a partire dalla malattia, dalla vecchiaia e
soprattutto dalla morte, che furono poi le visioni che più colpirono lo stresso Buddha nella sua ricerca
yoghica sull’origine del dolore. Ma non dimenticheremo il limite morale e la fragilità etica, il peccato.
C’è in sanscrito una lunga terminologia per dire le varie forme di sofferenza e di fragilità e di male. Ne
citiamo alcune: enas: crimine, peccato, sfortuna, torto, offesa, errore e anche male, infelicità; àgas:
trasgressione, offesa, peccato, errore; agha: cattivo, male, disgrazia, peccato, impurità; molti termini che
hanno come radice dus: che denota cattiveria, male, difficoltà (la stessa parola dukkha ha questa radice, come
pure dushkrta, che vuol dire peccato, il male fatto, lo sbaglio compiuto); anrta (opposto di rta), che significa
falsità, ingiustizia, assenza di legge, scorrettezza, menzogna; adharma (opposto di dharma: ordine, legge,
religione, rettitudine); pàp che significa cattivo, malevolo, vizioso, e, usato come sostantivo neutro, significa
peccato, crimine; shoka: essere afflitto, dolore, tristezza, afflizione, angoscia ecc. Un elenco che la dice lunga
sull’esperienza di sofferenza, di malattia, di male, di limite vissuta dall’uomo vedico e postvedico.
L’esperienza più immediata della sofferenza e del limite è il dolore inflitto dal cattivo funzionamento
dell’organismo umano che comunemente chiamiamo malattia. Un numero considerevole di inni
dell’Atharva Veda, sono preghiere per invocare la guarigione da malattie. Ne citiamo uno che contiene un
lungo elenco di sofferenze fisiche (AV IX,8): “Mal di testa, cefalea, mal d’orecchio, infiammazioni, tutto ciò
che ora affligge la testa, espelliamo con la nostra preghiera…. Qualunque cosa renda l’uomo muto o cieco…
il dolore che dilania le membra, che distrugge le membra, il dolore che pulsa in ogni parte… espelliamo con
la preghiera. La febbre che assale l’uomo in ogni autunno… il mortale dolore che invade le cosce e
raggiunge l’inguine, il malanno che si espande dalle parti intime, espelliamo con la nostra preghiera… Se
una malattia fosse causata da amore o da odio, dalle affezioni del cuore, anche questo espelliamo con la
preghiera… Dal tuo stomaco e dai tuoi polmoni, dall’ombelico e dal cuore, il veleno di ogni malanno
logorante da te io esorcizzo…Le fitte che colpiscono di traverso e penetrano nello stomaco, possano esse
uscire dall’orifizio, senza effetti negativi…. Pustole eruttanti e ascessi, dolori reumatici e malattie
dell’occhio, il veleno di ogni male logorante da te io esorcizzo…. Il tuo cuore di nuovo batte fortemente.
Sorgendo o Sole (Surya), tu hai cacciato via lontano coi tuoi raggi il mal di testa e hai placato il dolore
torturante!”
Sul deperimento organico e la vecchiaia, ci bastino due citazioni. Una dal Brihadaranyaka Upanishad (BU
IV, 3, 35-38): “Come un carro sovraccarico s’avanza pesantemente scricchiolando, allo stesso modo il sé in
questo corpo, carico del Sé della saggezza, avanza pesantemente scricchiolando quando il suo respiro diviene
pesante… Quando un uomo è dimagrito, per vecchiaia o per malattia, allora, come un frutto di mango o un
fico si stacca dal ramo, così questa persona, liberata dalle sue membra, ritorna alla Vita, al luogo dal quale è
venuta…. Come le guardie, gli ufficiali, gli aurighi e gli anziani del villaggio si radunano attorno al re
quand’egli parte, proprio così tutte le energie vitali si radunano attorno a questo sé alla fine del suo tempo,
quando il suo respiro sta diventando pesante”. E un’altra citazione dal Chandoghia Upanishad (VI, 15,1-2):
“Quando un uomo, o mio caro, è colpito da malattia, i suoi parenti gli si avvicinano chiedendogli: Mi
riconosci? Mi riconosci? Fintantoché la sua parola non è immersa nella sua mente, la sua mente nel suo
respiro, il suo respiro nella luce e la luce nella suprema Divinità, egli ti riconosce. Ma quando la sua parola è
immersa nella sua mente, la sua mente nel suo respiro, il suo respiro nella luce e la luce nella suprema
divinità, allora egli non li riconosce più”.
Sul peccato: il peccato è concepito come un’azione non corretta all’interno del dharma. Cito un testo del
RigVeda (RV 5,85) dove appare chiaro un concetto religioso di peccato e la richiesta di perdono rivolta al dio
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Varuna, la divinità più alta nel RigVeda. Ecco il testo: “Se abbiamo peccato contro uno che ci vuol bene, se
abbiamo sbagliato contro un fratello, un amico, un compagno, o uno dei vicini che sono sempre con noi, o
uno straniero, tu o Varuna, allontana da noi quel peccato”. Leggiamo un secondo testo, molto originale nel
suo genere, una specie di esame di coscienza di un giocatore d’azzardo, il suo lamento, consapevole del male
che non riesce a evitare, ma che produce tanto danno all’interno della sua stessa famiglia. Ecco il brano preso
dal RigVeda (RV 10,34): “Parla il giocatore: I dadi hanno catturato il mio cuore… La mia fedele consorte
non ha mai litigato con me né si è indignata; verso di me e i miei compagni di gioco ella fu sempre gentile,
eppure io l’ho scacciata per amore del malaugurato lancio di un dado… Il coro: la madre di sua moglie lo
maledice, sua moglie lo respinge; egli implora l’aiuto della gente ma non trova pietà. Un giocatore sfortunato
non è migliore da vendere al mercato di un vecchio ronzino… Il giocatore: Io prendo la decisione di non
giocare d’azzardo. I miei amici se ne vanno e mi lasciano indietro. Ma quando le brune noci vengono scosse
e lanciate, io corro a incontrarle, come una ragazza amorosa. Il coro: … Si affretta al luogo d’incontro il
giocatore. Vincerò? Si chiede sperando e tremando. Ma i lanci dei dadi distruggono le sue speranze, dando i
punteggi più alti ai suoi avversari…. Abbandonata, la moglie del giocatore si strugge di dolore. Addolorata è
anche sua madre mentre lui vaga smarrito. Spaventato, indebitato, perennemente avido di denaro, egli ruba di
notte dalla casa altrui. E’ attanagliato dal rimorso quando vede la sorte di sua moglie rispetto a quella della
sua vicina con una casa ben in ordine… Il dio Savitr: Evita i dadi. Lavora bene il tuo campo. Rallegrati di ciò
che ti è concesso e tienilo in gran conto. Guarda o giocatore i tuoi armenti, tua moglie, Questo è il consiglio
del nobile Savitr”.
Sulla morte: scrive Panikkar: “L’uomo vedico in genere non tiene conto dell’inevitabilità della morte e non
cerca di estrometterla dalla vita. La morte non è inevitabile; è solo accidentale. Muore colui la cui vita vien
ghermita prima che abbia raggiunto la maturità o prima del matrimonio, o in ogni caso per un qualsiasi
incidente, o prematuramente. L’uomo anziano, “l’uomo di lunga vita” come lo chiamano i Veda, che ha
completato il suo tratto di vita, che ha consumato la torcia, che ha esplicato il suo fluido vitale, è giunto a
compimento. La sua fiamma vitale continua e brucia nei suoi figli e figlie, nei figli dei suoi figli, negli
amici, nelle opere e nelle idee che ha condiviso. Anche il suo corpo ha arricchito con la propria energia la
terra sulla quale ha camminato…. Ma è a questo punto che nasce la grande ricerca del dopo, della morte. Ci
lasciamo guidare in questa ricerca da un prezioso Upanishad, il Katha Upanishad, che affronta il tema della
morte. Un giovane, Naciketas, interroga la morte: “Naciketas: C’è questo dubbio che riguarda una persona
morta: alcuni dicono “c’è ancora”, altri dicono “non c’è più”. Questo mistero vorrei risolvere, grazie al tuo
insegnamento”. Morte: “Anche gli dei furono un tempo tormentati da questo dubbio. Non è facile capire.
Scegli un altro desiderio, o Naciketas! Non insistere: lascia perdere questa domanda!” Naciketas: “Dici che
non è facile capire. Eppure come insegnante, di questo non hai pari. Non esiste altro desiderio che valga
questo!” Morte: “Scegli figli e nipoti centenari, mandrie, elefanti, oro e cavalli. Scegli una grande dimora
sulla terra e di vivere tu stesso quanti autunni che vuoi. Scegli ricchezza e lunga vita. Sii grande sulla terra; ti
dono la soddisfazione di tutti i desideri… Ma non interrogarmi riguardo al morire!” Naciketas: “Effimere
cose o sterminatore, che consumano tutte le energie di un mortale. Anche una vita intera è poca cosa. Tieni i
tuoi carri, tieni le danze e i canti. Non è ricchezza che può soddisfare un essere mortale… Godremo della vita
finché tu regni?... Ciò di cui gli uomini dubitano, cosa vi sia nel grande passaggio, dicci o Morte! Questo
dono che penetra le cose nascoste, questo e non altro Naciketas sceglie!” La morte a questo punto cede e
istruisce Naciketas sul senso della morte, dicendo che chi si ferma a considerare reale solo questo mondo è in
potere dell’ignoranza, ma chi si lascia guidare dalla sapienza spirituale dell’atman, costui intuisce che la
creatura umana non è ciò che si vede, ma il suo Sé (atman) non muore, perché “è innato, immutabile, eterno,
primordiale; esso non muore quando il corpo viene ucciso”. La morte quindi non è l’ultimo pensiero; c’è
una identità divina nell’uomo che non marcisce, ma che permane: questa è la sua vera grandezza. E’ la verità
dell’atman.
2.La grandezza dell’essere umano:
Secondo la tradizione bramanica accolta dalle varie scuole filosofiche di matrice indù, fatta eccezione dei
sistemi eterodossi di Charvak e del Buddha, l’essere umano è per essenza anima (atman, self, spirito). Una
entità eterna che non muore mai e che trasmigra reincarnandosi in materia nuova, fino alla liberazione dal
ciclo samsarico (moksha o mukti; cfr. Ghita 2,20.22; Kena Upanishad 1,2). Pur essendo interpretata in modo
diverso dalle varie scuole - //Shànkara (a-dvaita: monismo) - Brahman e Atman e mondo in unità
(dimensione mistica). Ramànuja (vishistadvaita: monismo qualificato). I tre principi eterni: Ishwara-il
Signore; acit-mondo inanimato; cit-coscienza individuale. L’Essere supremo è la guida interna del mondo e
delle anime; queste sono emanazione dell’Essere Supremo, ma formano con Lui un’unità (monismo
qualificato). Madhva. (dvaita: forte dualismo). Madhva, un asceta itinerante, fu il caposcuola della corrente
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filosofico-mistica che affermava la realtà e la sostanziale diversità dell’Essere Supremo e del mondo
empirico //– pur con interpretazioni diverse, la “fede” nell’atman è un elemento che accomuna l’induismo.
Per dire la stima della ricerca delle Upanishad sull’identità vera, spirituale e divina dell’essere umano,
citiamo un testo della Ghita e un secondo della Brihadaranyaka:
Ghita 2,12-30: Siamo all’interno del dialogo tra Arjuna, il guerriero intimorito di fronte al suo dovere di
uccidere in battaglia, e il divino suo cocchiere, il dio Chrishna: “12. Non ci fu un tempo in cui io non fossi,
né tu, né questi principi, né mai in futuro avverrà che tutti noi non siamo. 13 Come per lo spirito che ha un
corpo si susseguono in questo corpo adolescenza, giovinezza e vecchiaia, così esso (atman) anche avrà altri
corpi: il saggio in questo non si inganna….18. Si sa che hanno una fine questi corpi dello spirito eterno che
abita il corpo, imperituro e incommensurabile: perciò combatti o discendente di Bharata! 19. Colui che pensa
che egli uccida o ritiene che venga ucciso: entrambi non hanno discernimento, giacché egli non uccide né
viene ucciso. 20. Non nasce né mai muore; non ha mai cominciato ad esistere né cesserà di esistere; non
nato, eterno, perenne, questo antico non è ucciso quando il corpo viene ucciso… 21. Come un uomo si
sbarazza dei vecchi abiti e ne prende altri nuovi, così colui che possiede un corpo si sbarazza dei corpi vecchi
e si unisce ad altri nuovi. 23. Non lo feriscono le armi, non lo brucia il fuoco, non lo bagnano le acque, non
lo asciuga il vento. 24. Egli non può essere ferito, egli non può essere bruciato. Egli è imperituro, è eterno,
onnipresente, saldo come una colonna, immobile, perpetuo”.
Brihadaranyaka (4,5,1-7): Yajnavalkya istruisce Maitreyi sull’Atman. “Yajnavalkya aveva due mogli,
Maitreyi e Kàtyayàni. Di esse Maitreyi amava la scienza sacra, mentre Katyayàni conosceva quello che le
donne solitamente conoscono. Un giorno Yajnavàlkya , che stava per accedere a un nuovo stadio di vita
(sadhu-sanyasi), disse: Maytreyi cara, io sto per lasciare questo luogo ed affrontare la vita del monaco
mendicante e voglio definire la tua situazione con Katyayàni”. Allora Maytreyì disse: “O signore, se tutta la
terra con le sue ricchezze mi toccasse, forse sarei per questo immortale, o no?” “No – rispose Yàjnavalkya –
la tua vita sarebbe come quella dei ricchi, ma non dalla ricchezza si può sperare l’immortalità”. Allora
Maitreyi replicò: “Che m’importa di ciò che non mi fa raggiungere l’immortalità? Ma ti prego, o signore,
dimmi ciò che tu conosci”. Allora Yàjnavalkya disse: “Tu mi eri già cara, ancor più cara mi sei diventata.
Orsù, ti spiegherò, ma tu sta attenta alle mie parole”. E parlò: “Non a causa dell’amore per il marito è caro il
marito, ma a causa dell’amore del Sé è caro il marito. Non a causa dell’amore per la moglie è cara la moglie,
ma a causa dell’amore del Sé è cara la moglie. Non a causa dell’amore per i figli son cari i figli, ma a causa
dell’amore del Sé son cari i figli. Non a causa dell’amor per le ricchezze son care le ricchezze, ma a causa
dell’amore del Sé sono care le ricchezze… Non a causa dell’amore per il brahmano è cara la condizione del
brahmano, ma a causa dell’amore del Sé è cara la condizione del brahmano….Non v’è nessun oggetto che si
desideri per amore di esso oggetto, bensì si desiderano tutti gli oggetti per amore del proprio Sé. E’ il Sé
dunque che bisogna guardare e sentire; è al Sé che bisogna pensare e rivolgere la propria attenzione o
Maitreyi; quando, o cara, si vede, si ascolta si pensa si conosce il Sé, tutto l’universo è conosciuto. La
dignità del brahmano abbandona colui che questa dignità pensa esistente al di fuori dell’Atman; … gli dei
abbandonano colui che li pensa esistenti al di fuori dell’Atman… le creature abbandonano colui che le pensa
esistenti al di fuori dell’Atman….”… “L’Atman può essere definito soltanto in senso negativo: esso è
inafferrabile perché non lo si afferra, non è soggetto ad attaccamento perché non s’attacca; privo di legami,
non teme, né può essere colpito. Chi mai potrebbe conoscere il conoscitore? Così hai ricevuto
l’insegnamento, o Maitreyi, e questo è in verità ciò che si riferisce all’immortalità”.
Il segreto della vita spirituale, secondo alcune correnti indù (cfr. Advaita) è proprio quello di sconfiggere
l’antica primordiale ignoranza (a-vidya), praticando un retto discernimento (Vivèka) che conduce a non
identificarsi né con il corpo, né con i sensi, né con la mente (manas), né con l’io (ahankar), né con
l’intelletto (buddhi), ma di scoprirsi della stessa natura divina.
L’identità divina dell’anima viene espressa nelle Upanishad con delle grandi espressioni che sono chiamate
Mahà-vakyani: “Io sono l’Assoluto” (Aham Brahma asmi), “Tu sei Quello” (Ta twam asi)... “Lo spirito che è
nell’uomo e lo spirito che è nel sole è unico e identico”.
Da tale visione nasce quella ricerca quasi affannosa della filosofia indiana per i processi di
liberazione dal ciclo del samsàra (reincarnazione), affinché la dignità dell’essere umano si manifesti
finalmente in tutta la sua vera identità divina.
Quarta parte: islam
1.La miseria dell’uomo: Le caratteristiche negative dell’uomo sono la debolezza (Q 4,28), come nel caso di
Adamo, e l’instabilità, per cui la sua fiducia in Dio cambia con la situazione in cui si trova. Quando sta bene
è contento, ma quando soffre, perde subito la speranza (30,36) e nella disperazione abbandona la fede
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(41,49): “Allorché colmiamo l’uomo di grazie si discosta sdegnoso, e quando poi lo coglie il male si
dispera” (Q 17,38).
L’uomo è di natura pusillanime: “davvero l’uomo fu creato instabile; prostrato quando lo coglie sventura,
arrogante nel benessere; eccetto coloro che eseguono l’orazione e sono costanti nella loro orazione e sui cui
beni c’è un riconoscimento retto per il mendicante e il diseredato” (70,19-25).
L’uomo è ignorante e tende all’ingiustizia (33,72); “egli è litigante ostinato” (36,77; 16,4). Nella
maggioranza dei casi è poco disposto alla fede (11,17; 12,106).
Il Corano riconosce l’inclinazione dell’uomo al male (15,53): “In verità Noi creammo l’uomo e sappiamo
quel che gli sussurra l’anima dentro, e siamo a lui più vicini che la vena grande del collo” (50,16).
Il senso del proprio limite, l’uomo lo prova anche nel momento della prova. Le diverse situazioni della vita,
soprattutto quelle che comportano difficoltà e sofferenze, sono occasioni per superare le prove. Nel Corano si
trovano esempi di tali situazioni: quando Dio richiede ad Abramo il sacrificio del proprio figlio (37,105-
106); le prove dei figli di Israele (44,33); le prove dei musulmani durante le guerre contro i nemici dell’islam
(47,31). L’uomo supera la prova se crede in Dio, lo serve adempiendo la sua volontà compiendo i suoi doveri
religiosi e ordina la propria vita sociale secondo la Legge coranica. Chi non supera la prova, cioè chi non
accetta la fede e abbandona il bene “perde la vita terrena insieme con la vita futura” (22,11), mentre ai
credenti che fanno il bene, Iddio darà amore e amicizia non solo con la retribuzione dell’aldilà, ma anche
nella grazia concessa in questo mondo (16,30): “Chi opera il bene, sia egli maschio o femmina, purché
credente, li premieremo del premio loro, per le cose buone che avranno operato” (16,41; 30,44-45).
2.La grandezza della creatura umana: A differenza chiarissima dal giainismo e del buddismo, l’islam
professa la fede in un Dio creatore, provvidente e remuneratore. L’uomo è frutto di un atto creatore di Dio,
che gli ha donato una figura bella e armoniosa come ripete il Corano (Q 95,4; 40,64; 64,3). Dio conferma la
bontà della creazione ogni volta che qualcuno viene generato (Q 75, 36-39; 53,45-46) perché “Dio ha fatto
buono tutto ciò che ha fatto” (32,7). Dio ha donato all’uomo l’udito, la vista, la ragione, orecchi, occhi e
labbra, disponendo il mondo al suo servizio (Q 20,53-55; 16,79-83; 27,60-64), rendendogli la terra docile e
preferendolo alle altre creature: “E Noi già molto onorammo i figli di Adamo e li portammo per la terra e sul
mare e demmo loro provvidenza buona e su molti degli esseri da noi creati preferenza grande” (Q 17,70).
Dio ha posto l’uomo – servo di Dio – come suo vicario nel mondo, generazione dopo generazione (2,30; 27,
62; 10,14.73). L’uomo deve essere consapevole di questo mandato e deve percorrere la retta via davanti al
Signore. Il mondo ha valore nella misura in cui dà l’occasione all’uomo di cercare il volto dell’Altissimo
(6,52; 76,9; 18,28;30,38-39).
Soldi e ricchezza non danno l’immortalità (104,3); e il cenno al distacco sembra fare riferimento ai monaci
cristiani che il Corano loda con le seguenti parole: “Uomini che né il commercio né affari distolgono dalla
menzione di Dio, dal compiere la preghiera, dal pagare la decima, uomini che temono il giorno in cui
verranno sconvolti i cuori e gli sguardi” (24,37-38).
Ma l’islam non incoraggia la vita monastica, semmai, a partire dell’esperienza del profeta e della comunità
islamica nascente, c’è un invito all’impegno nel mondo e a vedere il mondo come luogo della fede.
Spesso il Corano invita la creatura umana ad accorgersi dei segni della presenza di Dio e della sua
provvidenza: “Certamente nei cieli e sulla terra vi sono segni per i credenti” (45,3). L’armoniosa creazione
dei cieli e della terra e la diversità di lingue … sono segni per chi è fornito d’intelletto (2,164): “E’ Dio che
fa scendere acqua dal cielo per voi e ne bevete e ne crescono gli alberi fra i quali spingete a pascolare gli
armenti e ne fa crescere per voi il frumento e l’olivo e la palma e le viti e ogni specie di frutti: e certo un
Segno è ben questo per gente che sa meditare; e vi ha soggiogato la notte e il giorno, e il sole e la lune e le
stelle, soggiogate tutte a servirvi per ordine suo; e certo un segno è ben questo per gente che sa ragionare; e
quel che ha sparso per voi sulla terra, varietà di colori: e certo un segno è ben questo per gente che sa
ricordare” (cfr. 16,10 fino a 18).
I segni della dignità dell’uomo li possiamo intravedere, in modo più specifico, su tre punti: l’essere umano è
chiamato alla fede, alla preghiera, e al “servizio califfale”.
L’essere umano chiamato alla fede: la fede è l’anima dell’islam, condiziona tutto il resto ed è la sola a dare
valore alle opere dell’uomo, mentre l’infedeltà priva anche le buone azioni della loro qualità religiosa, le
rende inutili e senza valore (Q 7,147; 2,217; 33,19). E’ la fede in Dio che dona all’uomo la vera dignità e il
suo più alto valore. Dio lascia anche deviare le opere degli infedeli, non ne accetta le elemosine e non
perdona coloro che muoiono da infedeli (Q 47,34).
L’essere umano e la preghiera: il musulmano è colui che piega le ginocchia davanti al suo creatore e lo
adora e lo implora. Ecco: la dignità del credente islamico è particolarmente espressa quando si prostra
davanti al suo Dio, quando lo loda, quando lo invoca. La preghiera esprime l’accettazione della sovranità di
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Dio, e questa accettazione il credente la esprime sia a livello rituali (salàt) sia a livello privato (du’a). Tutti i
musulmani adulti, uomini e donne, sono tenuti a pregare; i bambini devono essere istruiti e sollecitati alla
preghiera dopo il settimo anno di vita; i malati, i deboli a causa della vecchiaia e i malati mentali sono
dispensati da questo obbligo; mentre al viaggiatore è permesso di pregare secondo la formula abbreviata (Q.
4,101).
“L’uomo: servitore califfale”. Particolare segno di grandezza per l’uomo è quello di essere stato nominato
da Dio “servitore califfale”. Il musulmano è servo di Dio, ma con la dignità di essere suo califfo, cioè suo
rappresentante sulla terra, su tutto il creato. C’è un versetto alla base di questa convinzione, anche se è un
versetto che ha fatto tanto discutere sul suo vero senso: “Ecco io porrò sulla terra un Vicario /Califfo”
(Q.2,30). Al centro della sinfonia del cosmo, Dio ha creato l’uomo dalla creta (Q 6,2) ma gli ha soffiato
dentro il Suo spirito (Q. 15,29). E’ questa la sua speciale dignità: “Noi molto onorammo i figli di Adamo e li
portammo per la terra e sul mare e demmo loro provvidenza buona, e preferenza grande su molti degli esseri
da noi creati” (Q. 17,70). E ancora: “Dio vi h assoggettati le navi che corrono sul mare e vi ha soggiogato i
fiumi, e vi ha soggiogato il sole e la luna, e la notte e il giorno. Che se voleste contare i favori di Dio, non
riuscireste a numerarli!” (Q. 14,32ss). E non solo, ma anche gli angeli vennero invitati da Dio a riconoscere
la superiorità dell’uomo su di loro, quando Dio li mise alla prova, dopo avere creato Adamo: “E quando
dicemmo agli angeli: prostratevi davanti ad Adamo! Tutti si prosternarono salvo iblìs (l’angelo
disobbediente), che rifiutò superbo e fu dei negatori” (Q. 2,34; 7,11; 17,61). Inoltre, Dio “insegnò i nomi di
tutte le cose” soltanto ad Adamo, rispetto al quale gli angeli riconoscono la propria ignoranza” (Q 2,31-33).
Ecco quindi il motivo per la dignità di cui l’uomo è rivestito. Pur rimanendo quindi una creatura e servitore
fedele del suo Signore e Padrone, all’uomo si deve riconoscere una grandezza superiore a quella degli angeli.
tornando ora al versetto del “servitore califfo” (Q 2,30), al di là delle varie interpretazione del medesimo,
esso chiaramente dice il compito importante che l’uomo deve esercitare sulla terra. Tra le varie
interpretazioni, citiamo quella di Ghazàli, il grande teologo del XI secolo, il quale, seguendo l’opinione di
una minoranza di teologi musulmani, suppone una strana ma vera somiglianza tra Adamo e Dio (quello che
sottolineavano i mistici islamici, a differenza dell’islam ufficiale). Ghazàli dice: “se Adamo merita il servizio
califfale, è proprio per questa somiglianza”. Questa sarebbe una delle cause dell’amore tra Dio e l’uomo,
perché “una cosa simile ad un’altra si sente attratta da essa, e perché ogni forma tende a corrispondere a
quella che le è simile”. In definitiva – commenta Borrmans: Il teologo Ghazali vede in tale somiglianza, la
giustificazione ultima per cui il credente è “invitato ad assumere le virtù di Dio. Ciò perché la perfezione
consiste nell’avvicinare il Signore imitandolo in quegli attributi che all’uomo è possibile seguire e che
meritano ogni lode, cioè: la scienza, la bontà, la benignità, la beneficenza, la misericordia, il buon consiglio,
l’incoraggiamento al bene e la preservazione dal male” (testo di Ghazàli). Possiamo qui domandarci –
conclude Borrmans: non è forse questa imitazione degli attributi divini, vissuti e irradiati in modo umano,
che costituisce l’apice dell’esperienza religiosa? Ma questo non sembra essere la posizione dell’islam
ufficiale, per il quale “il servizio califfale” costituisce il limite ultimo da non oltrepassare.
Conclusione:
Avevamo iniziato citando un passo neotestamentario (1Gv. 3,1ss). Ora concludiamo con un passo di san L.
Giustiniani, che prendiamo da una sua opera minore il De compunctione: “Se guardo il cielo, opera delle tue
dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te
ne curi? …” (Sal. 8). Le parole estasiate del salmista ben si addicono alla visione antropologica di
Giustiniani, il quale, pur consapevole dei limiti e del peccato dell’uomo, lo contempla nel suo mistero di
creatura uscita dalle mani di Dio, redenta nell’Incarnazione del Figlio, arricchita dei doni dello Spirito Santo,
chiamata a far parte del Corpo mistico di Cristo e destinata a una gloria incomparabile nella vita senza fine.
Il De compunctione offre degli spunti preziosi di antropologia cristiana, anche se le pagine più ampie
sull’antropologia andrebbero ricercate nel De casto connubio, dove il santo tratta il mirabile evento delle
indissolubili nozze mistiche del Verbo con la natura umana, evento che rese l’uomo onorato e quasi
“invidiato” dagli stessi angeli del cielo. Scrive infatti il santo: «Gli angeli vedono nella nostra natura
l’immagine dell’Uomo-Dio, che regna sulle loro schiere e vive eterno nei secoli. E tale natura, ch’essi
contemplano elevata fino all’uguaglianza con Dio nella unità della sua persona, non possono più pensarla
vile e spregevole, non possono non amarla. Adorano nell’uomo Dio e in Dio l’uomo. Da qui la loro gioia di
vivere accanto agli uomini». «E se quelle angeliche schiere magnificano con tanto ardore una natura che
non è la loro, - continua Giustiniani - quanto noi uomini non dovremmo adorare e amare una natura che
appartiene alla nostra specie, ed è nata dal nostro stesso sangue! Adoriamo dunque con tutto il cuore l’uomo-
Dio, Verbo incarnato; veneriamo e adoriamo in Lui la nostra natura umana; amiamoci in Lui, custodiamoci
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per Lui, camminiamo verso di Lui, restiamo legati solo a Lui (…). Onoriamo la nostra dignità e la nostra
gloria non in noi, ma in Lui. Chè saremmo niente senza di Lui (…)».
Ma la natura umana non è solo grandezza; essa è anche fragilità. Giustiniani conosceva bene l’inseparabilità
della dignità e della debolezza dell’essere umano. Per questo Giustiniani invita l’uomo a scuotersi dal
torpore e dal giogo che lo opprime sotto il peso dei peccati e dell’ignoranza, e a meditare sui grandi doni
elargiti dal suo Dio. Riprendiamo a proposito una sua frase, che il santo rivolge all’uomo: «Che se pur tu
l’offendi, dimmi se chiude le sorgenti delle sue grazie, se ti nasconde la luce del sole, delle stelle… Tutti gli
elementi della natura sono al tuo servizio. Ti servono gli angeli, ti seguono e ti sostengono, desiderando la
tua perfezione. Quante volte egli batte alle porte del tuo cuore… Sappi contemplare in Lui la natura tua e
venerare la tua stessa carne, nella quale per te si fece passibile, visibile e mortale, vero compagno del tuo
peregrinare».
A quest’uomo, grande ma fragile, spirituale ma tentabile, Giustiniani propone l’ideale altissimo dell’amore
di Dio e del prossimo, gli prospetta le mete del destino celeste, lo invita a perfezione sull’esempio di Cristo,
ma ricordandogli che tutto ha un prezzo, che è necessaria una battaglia a tutto campo, onde far emergere il
meglio di sé, ordinare gli istinti primordiali, correggere i sentimenti negativi, purificare i pensieri, vigilare sul
proprio agire. È nel cuore che questa battaglia, che questa pulizia, che questo discernimento hanno luogo.
Se divina è la sua origine, perché uscita dalle mani del Creatore, non meno glorioso è il destino dell’uomo.
All’uomo redento si apre un futuro incomparabile. La creatura umana non è fatta stabilmente per la terra. Il
suo destino è nei cieli, “nella vita futura, nella regione dei vivi, nella terra dei santi, nella casa di Dio, nella
città celeste, nella mistica Gerusalemme”. “L’eredità mia è nella terra dei vivi” – dice il salmista.
«Proprio perché noi fossimo cittadini di quella terra, Dio ci ha creati. In questa, visibile, peregriniamo,
fatichiamo, soffriamo, lottiamo, per accumulare meriti e opere per potere un giorno raggiungere quella
celeste (…). La nostra anima tende per sua natura verso le altezze celesti, per il cui possesso è stata creata.
Teniamo quindi sempre viva tale consapevolezza di essere in esilio, come in cammino».
Quello che interessa di più il nostro tema antropologico nel De Compunctione di L. Giustiniani, è il testo che
segue, nel quale vengono espresse le conseguenze dell’Incarnazione, le ricadute antropologiche ed ecclesiali
della salvezza. “In Lui infatti e per Lui, non solo è stato reintegrato (redintegratum) l’uomo nella sua
dignità originaria, e soddisfatta ogni giustizia divina (perfectum), ma la grazia stessa ha sovrabbondato
(superadditum) in pienezza mirabile, sempre per l’opera redentrice del Mediatore tra Dio e gli uomini,
l’Uomo Cristo Gesù, e la Sua azione santificatrice nei membri del Suo mistico corpo”. La creatura
umana infatti è stata rinnovata o “re-integrata” (redintegratum) nella sua relazione filiale con Dio. In lei –
nella creatura umana – è stato “perfectum”, cioè portato a perfezione quanto era mancante (quod defecerat).
Ma tutto questo non fu e non è ancora sufficiente. C’è un ulteriore passaggio: la creatura umana fu portata a
pienezza sovrabbondante (superadditum). Il tutto, grazie all’opera mediatrice dell’Uomo Cristo Gesù.
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PICCOLA RACCOLTA DI DOCUMENTI ECCLESIALI E INDICAZIONI
PER UN LAVORO INTERDISCIPLINARE SUL TEMA:
MISERIA E GRANDEZZA DELL’UOMO… a cura di ANTONIO BOLLIN
Sul tema, scelto per il corso monografico “Miseria e grandezza dell’uomo …”, vi sono dei testi di
riferimento che nell’IRC e nella preparazione - remota e prossima - dei docenti di religione occorre tener
presenti e a cui far riferimento:
CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA [1992/1997], in particolare nn° 27-49 (Prima parte, sez.
prima); nn°335-384 (Prima parte, sez. seconda); nn° 1700-1748 (Terza parte, sez. prima); n°208: la
piccolezza dell’uomo di fronte a Dio
COMPENDIO CCC [2005], specialmente nn° 1-5 “L’uomo è ‘capace’ di Dio; nn°66-72 “L’uomo”;
nn° 358-366 “La dignità della persona umana”
COMPENDIO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA [2004], soprattutto nn° 34-48 “La
persona umana nel disegno di amore di Dio”; nn° 108-151 “La persona umana ‘imago Dei’” e “La
persona umana e i suoi molti profili”; nn° 552-553 “Il servizio alla persona umana”; inoltre la voce
“uomo” nell’indice analitico pp. 490-495
YOUCAT [2011], in particolare “Noi uomini siamo capaci di Dio” nn° 3-6; “La creatura uomo” nn° 56-
66; “La dignità dell’uomo” nn° 280-320
IL CATECHSIMO DEGLI ADULTI DELLA CEI, La verità vi farà liberi [1995], soprattutto
nell’Introduzione “L’uomo in cammino” nn°2-39
IL CATECHISMO DEI GIOVANI 2 DELLA CEI, Venite e vedrete [1997], in particolare il cap. 1 “Che
cercate?” pp. 12-43 e il cap. 9 “Per trasformare il mondo” pp. 358-397.
Il tema di questo corso - pur mantenendo una specificità per l’IRC - si presta a molteplici collegamenti con
altre materie scolastiche e quindi ad un lavoro interdisciplinare.
Si collega con
la letteratura italiana (scrittori e poeti: D. Alighieri, G. Leopardi, A. Manzoni, G. Verga, G.
Ungaretti…) e la letteratura di altre lingue (v. Hugo con i Miserabili…)
la storia (i grandi personaggi, figure…)
la filosofia (Agostino di Ippona, B. Pascal…)
l’arte…
la musica…
la cinematografia …
Si collega con
la Bibbia (I Salmi, Giobbe…)
la storia della santità cristiana (S. Agostino Le confessioni, S. Francesco di Assisi…).
ALCUNE ESPRESSIONI
“L’uomo è grande poiché si riconosce miserabile. Un albero non si riconosce miserabile. Si è quindi miserabili
perché ci si riconosce miserabili:ma è essere grandi riconoscere che si è miserabili”(Blaise Pascal [1623-1662],
Pensiero n° 397). “L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto
l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità
dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente” (Blase Pascal, Pensiero n° 793).
“Che cos’è in fondo l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, un qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto” (Giacomo Leopardi [1798-1837],Zibaldone).
“Sono una piuma abbandonata al vento dalla fiducia di Dio” (S. Ildegarda di Bingen [1098-1179]).
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“L’uomo è talmente grande che niente sulla terra gli può bastare; solo quando si rivolge a Dio è felice. L’uomo
senza Dio è come un pesce fuor d’acqua” (S. Giovanni Maria Vianney , il Curato d’Ars [1786-1859]).
“L’uomo che si volge verso Dio non diventa più piccolo, ma più grande, perché grazie a Dio e insieme con Lui diventa grande, diventa divino, diventa veramente se stesso” (Papa Benedetto XVI, 08.12.2005).
COMMENTO AL SALMO 8 DI PAPA GIOVANNI PAOLO II 1. "L'uomo..., al centro di questa impresa, ci si rivela gigante. Ci si rivela divino, non in sé, ma nel suo principio e nel
suo destino. Onore, dunque, all'uomo, onore alla sua dignità, al suo spirito, alla sua vita". Con queste parole nel luglio
1969 Paolo VI affidava agli astronauti americani in partenza per la luna il testo del Salmo 8, che ora è qui risuonato,
perché entrasse negli spazi cosmici (Insegnamenti VII [1969], pp. 493-494).
Questo inno è, infatti, una celebrazione dell'uomo, una creatura minima se paragonata all'immensità dell'universo, una
"canna" fragile per usare una famosa immagine del grande filosofo Blaise Pascal (Pensieri, n. 264). Eppure, una "canna
pensante" che può comprendere la creazione, in quanto signore del creato, "coronato" da Dio stesso (cfr Sal 8, 6). Come
accade spesso negli inni che esaltano il Creatore, il Salmo 8 inizia e termina con una solenne antifona rivolta al Signore,
la cui magnificenza è disseminata nell'universo: "O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra"
(vv. 2.10).
2. Il corpo del canto vero e proprio sembra supporre un’atmosfera notturna, con la luna e le stelle che s'accendono nel
cielo. La prima strofa dell'inno (cfr vv. 2-5) è dominata da un confronto tra Dio, l'uomo e il cosmo. Sulla scena appare
innanzitutto il Signore, la cui gloria è cantata dai cieli, ma anche dalle labbra dell'umanità. La lode che spunta spontanea
sulle labbra dei bambini cancella e confonde i discorsi presuntuosi dei negatori di Dio (cfr v. 3). Essi sono definiti come
"avversari, nemici, ribelli", perché si illudono di sfidare e contrastare il Creatore con la loro ragione e azione (cfr Sal 13,
1).
Ecco aprirsi, subito dopo, il suggestivo scenario di una notte stellata. Di fronte a tale orizzonte infinito affiora l’eterna
domanda: "Che cosa è l'uomo?" (Sal 8, 5). La prima e immediata risposta parla di nullità, sia in rapporto all'immensità
dei cieli, sia soprattutto rispetto alla maestà del Creatore. Il cielo, infatti, dice il Salmista, è "tuo", la luna e le stelle sono
state "da te fissate" e sono "opera delle tue dita" (cfr v. 4). Bella è quest'ultima espressione, invece della più comune
"opera delle tue mani" (cfr v. 7): Dio ha creato queste realtà colossali con la facilità e la raffinatezza di un ricamo o
cesello, con il tocco lieve di un arpista che fa scorrere le sue dita sulle corde.
3. La prima reazione è, perciò, di sgomento: come può Dio "ricordarsi" e "curarsi" di questa creatura così fragile ed
esigua (cfr v. 5)? Ma ecco la grande sorpresa: all'uomo, creatura debole, Dio ha dato una dignità stupenda: lo ha reso di
poco inferiore agli angeli o, come può anche essere tradotto l'originale ebraico, di poco inferiore a un Dio (cfr v. 6).
Entriamo, così, nella seconda strofa del Salmo (cfr vv. 6-10). L'uomo è visto come il luogotenente regale dello stesso
Creatore. Dio, infatti, lo ha "coronato" come un viceré, destinandolo a una signoria universale: "Tutto hai posto sotto i
suoi piedi" e l'aggettivo "tutto" risuona mentre sfilano le varie creature (cfr vv. 7-9). Questo dominio, però, non è
conquistato dalla capacità dell'uomo, realtà fragile e limitata, e non è neppure ottenuto con una vittoria su Dio, come
vorrebbe il mito greco di Prometeo. E' un dominio donato da Dio: alle mani fragili e spesso egoiste dell'uomo è affidato
l'intero orizzonte delle creature, perché egli ne conservi l'armonia e la bellezza, ne usi ma non ne abusi, ne faccia
emergere i segreti e sviluppare le potenzialità.
Come dichiara la Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, "l'uomo è stato creato "a immagine
di Dio", capace di conoscere e amare il proprio Creatore e fu costituito da lui sopra tutte le creature terrene quale
signore di esse, per governarle e servirsene a gloria di Dio" (n. 12).
4. Purtroppo, il dominio dell'uomo, affermato nel Salmo 8, può essere malamente inteso e deformato dall'uomo egoista,
che spesso si è rivelato più un folle tiranno che un governatore saggio e intelligente. Il Libro della Sapienza mette in
guardia contro deviazioni del genere, quando precisa che Dio ha "formato l'uomo, perché domini sulle creature... e
governi il mondo con santità e giustizia" (9, 2-3). Sia pure in un contesto diverso, anche Giobbe si appella al nostro
Salmo per ricordare soprattutto la debolezza umana, che non meriterebbe tanta attenzione da parte di Dio: "Che è
quest'uomo che tu ne fai tanto conto e a lui rivolgi la tua attenzione e lo scruti ogni mattina?" (7, 17-18). La storia
documenta il male che la libertà umana dissemina nel mondo con le devastazioni ambientali e con le ingiustizie sociali
più clamorose.
A differenza degli esseri umani che umiliano i propri simili e la creazione, Cristo si presenta come l'uomo perfetto,
"coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli sperimentasse la
morte a vantaggio di tutti" (Eb 2, 9). Egli regna sull'universo con quel dominio di pace e di amore che prepara il nuovo
mondo, i nuovi cieli e la nuova terra (cfr 2Pt 3, 13). Anzi, la sua autorità regale - come suggerisce l'autore della Lettera
agli Ebrei applicando a lui il Salmo 8 - si esercita attraverso la donazione suprema di sé nella morte "a vantaggio di
tutti".
Cristo non è un sovrano che si fa servire, ma che serve e si consacra agli altri: "Il Figlio dell'uomo non è venuto per
essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti" (Mc 10, 45). Egli in tal modo ricapitola in sé
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"tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra" (Ef 1, 10). In questa luce cristologica il Salmo 8 rivela tutta la
forza del suo messaggio e della sua speranza, invitandoci ad esercitare la nostra sovranità sul creato non nel dominio ma
nell'amore.”