Download - Comportamenti d'acquisto e forme del sé
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INDICE
……………………………………………………………
Introduzione… 2
1. Un approccio interdisciplinare al concetto del sé 5
2. La relazione fra il sé e l’oggetto di consumo 21
3. L’acquisto compulsivo: modelli di spiegazione del comportamento
di dipendenza
35
4. L’influenza della società dei consumi sui comportamenti d’acquisto….… 51
5. Il valore del brand e le sue basi neurologiche 66
6. Neuropsicologia delle decisioni d’acquisto 87
Conclusioni 106
Bibliografia………………………………………………………………………. 108
2
INTRODUZIONE
Obiettivo dell’elaborato è approfondire la relazione fra comportamenti d’acquisto e
caratteristiche del sé. Al fine di indagare al meglio questa relazione in tutte le sue
sfumature, ci approcceremo al tema con uno sguardo interdisciplinare in grado di
abbracciare diversi ambiti di studio, dalla filosofia alla sociologia, dalla psicoanalisi
alle neuroscienze, cercando di unire tutti i contributi che queste discipline possono
fornirci in un unico filone concettuale in grado di non disperderne le rispettive
potenzialità, ma anzi di integrarle in un quadro teorico coerente ed esplicativo.
Approfondendo i recenti studi sui comportamenti d’acquisto, è inevitabile notare
che essi vengono quasi sempre trattati separatamente da ognuna di queste
discipline, le quali, isolando l’argomento dal suo caratteristico tessuto di interazione
teorica e traendo da esso solo le componenti analizzabili secondo modalità
rigorosamente appartenenti alla propria sfera di competenza, ne studiano soltanto
un singolare aspetto riducendo in questo modo notevolmente la complessità delle
tematiche dalle quali l’intero fenomeno è composto.
Le scienze cognitive, proprio tenendo conto della loro ragione d’essere
rintracciabile principalmente nella propria vocazione di natura multidisciplinare,
non dovrebbero certo rimanere indifferenti di fronte all’invitante possibilità di
comprendere dettagliatamente il fenomeno degli acquisti, ma dovrebbero anzi
trovare il modo di attingere alle differenti competenze che, profondamente correlate
alle scienze cognitive, caratterizzano gli ambiti di studio che se ne sono
maggiormente occupati.
Tranne rari casi (Balconi, Antonietti; 2009) dobbiamo però sottolineare che non vi
è al momento traccia di studi sui comportamenti di consumo che siano stati in grado
di fornire un quadro esaustivo dei diversi approcci presenti sulla scena teorica;
obiettivo dell’elaborato è quindi proprio quello di cercare, con i nostri mezzi, di
riempire questa lacuna presente in letteratura, in particolare tentando di appoggiare
i vari studi neuroscientifici e sociologici svolti sul tema su un robusto terreno
epistemologico costruito su basi di natura filosofica e psicologica, che, troppo
spesso ignorate a questo proposito, svolgono invece a mio avviso un ruolo centrale
ed essenziale nella spiegazione dei comportamenti d’acquisto.
3
Inizieremo dunque il nostro studio cercando di porre come primo mattone di questo
edificio teorico un’analisi filosofica e psicologica del concetto di “sé”,
individuandone le componenti di base, accennando a quei possibili meccanismi che
sono alla base della sua nascita e del suo sviluppo, e studiando infine la
correlazione fra un sé di natura individuale, che fa riferimento al concetto di “io”, e
un sé di natura collettiva, che si riferisce invece alla sensazione di un “noi”.
Chiarite le basi epistemologiche della nostra indagine, introdurremo nel secondo
capitolo i comportamenti d’acquisto, rintracciando il ruolo che essi rivestono per la
vita psichica e individuando le modalità attraverso le quali questi comportamenti si
intrecciano con le componenti del sé individuale; faremo in particolare riferimento
al concetto di brand, studiando la sua funzione di esplicitazione e protezione di parti
del sé inespresse.
Nel terzo capitolo presenteremo invece alcune teorie psicologiche e
neuroscientifiche in grado di farci comprendere meglio l’adozione, da parte di molti
soggetti, di un comportamento dipendente in contesti d’acquisto, come accade con
la sempre più diffusa problematica dello shopping compulsivo.
Successivamente, il quarto capitolo avrà invece l’obiettivo di spostare la nostra
analisi da un quadro di natura esclusivamente psicologica a uno maggiormente
incentrato su spiegazioni di matrice sociologica, ponendosi infatti come obiettivo
quello di riassumere le principali ragioni e i principali cambiamenti di natura
sociale che hanno dato vita, durante gli ultimi decenni, a una vera e propria società
che si regge sui consumi e che è sempre più caratterizzata dalla presenza di uno
sfrenato bisogno umano di acquistare una quantità sempre crescente di beni.
Il quinto capitolo reintrodurrà invece nel discorso il concetto di brand, inizialmente
analizzando il suo ruolo sociale e cercando di chiarire la sua relazione con le
componenti del sé collettivo, e successivamente presentando una serie di studi di
neuro-imaging finalizzati all’individuazione di una serie di attività neurali correlate
all’esposizione di un marchio.
Infine, l’indagine neurologica sui comportamenti d’acquisto terminerà nel sesto
capitolo, nel quale, facendo riferimento a degli studi orientati alla ricerca
dell’attività cerebrale durante il momento dell’acquisto in sé, individueremo quali
aree della corteccia risultano maggiormente coinvolte durante il decision-making
4
del consumatore; chiuderemo poi l’elaborato analizzando le euristiche cognitive
che possono intervenire durante la fase dell’acquisto, influenzando la validità delle
scelte consumistiche e alterando il processo decisionale che ne è alla base.
5
1. UN APPROCCIO INTERDISCIPLINARE AL CONCETTO
DEL SE’.
Per comprendere come oggetti di consumo e comportamenti d’acquisto possano
entrare in relazione con diverse caratteristiche del sé, ci sembra importante iniziare
il lavoro chiarendo da quale punto di vista inquadriamo il concetto del sé e
definendo quelle che, coerentemente con il fine dell’elaborato, possono essere le
componenti alle quali dedichiamo una maggiore rilevanza.
Senza addentrarci troppo approfonditamente nei dibattiti recenti intorno alla natura
del sé che caratterizzano l’ambito filosofico e neuroscientifico, sembra ormai
assodata la visione di un sé che prende sempre più le distanze dalla concezione
cartesiana, la quale, basandosi su un radicale dualismo fra mente e corpo,
identificava il sé con la sostanza pensante, fornendolo così di una realtà ontologica
nettamente separata dalla dimensione corporea e totalmente indipendente dalle
leggi cui sottostava la materia1.
Messa da parte non senza difficoltà questa radicale visione, il cui dualismo vive
ancora oggi tentativi di riformulazione teorica2, la desostanzializzazione delle
operazioni mentali avviata dal radicale empirismo di Locke, che riduceva la mente
a una tabula rasa interamente plasmata dall’ambiente3, ha trovato il suo culmine
nella visione contemporanea di un sé che non solo si caratterizza per una stretta
integrazione con la dimensione corporea dalla quale è assolutamente
imprescindibile (Damasio 1995, Montague 2006),4 ma viene addirittura inteso
1 <<Pervenni in tal modo a conoscere che io ero una sostanza, la cui intera essenza o natura consiste
nel pensare, e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo, né dipende da alcuna cosa materiale.
Di guisa che questo io, cioè l’anima, per opera della quale io sono quel che sono, è interamente
distinta dal corpo>> Cottingham, R., (1992), A Descartes Dictionary, p. 36, nota 3, Blackwell,
Oxford. 2 Come sottolineato da Damasio, la metafora adottata in tempi recenti di una mente come “software”
e di un cervello come “hardware”, così come la netta separazione tuttora esistente fra medicina e
psicologia, trova le sue radici proprio nella separazione cartesiana fra mente e corpo; Damasio,
(1993), p.339. 3 <<Supponiamo dunque che lo spirito sia per così dire un foglio bianco, privo di ogni carattere,
senza alcuna idea […] Da dove si procura tutto il materiale della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall’esperienza. Su di essa tutta la nostra conoscenza si fonda e da
essa in ultimo deriva>> Locke, J., (1690), Libro II, cap. 1. 4 <<Eccolo, l’errore di Cartesio: ecco l’abissale separazione tra corpo e mente – tra la materia del
corpo, dotata di dimensioni, mossa meccanicamente, infintamente divisibile, da un lato, e la stoffa
della mente, non misurabile, priva di dimensioni e non attivabile con un comando meccanico, non
divisibile>> Damasio, (1993), p.338. <<quasi nessuno metteva in dubbio quest’opinione: i pensieri
sono privi di base materiale; vivono in qualche posto o stato indefinibile e non posson mai venire
6
come un fenomeno che privato della sostanzialità cartesiana e letto in chiave
evoluzionistica, emerge dal corpo stesso come capacità adattiva di valutare gli
stimoli ambientali garantendo all’organismo una migliore capacità di
sopravvivenza.
Importante in questa direzione è stato il contributo del neuroscienziato Damasio, fra
i più chiari sostenitori di una visione evoluzionistica della mente che, intesa come la
capacità dell’organismo di avere rappresentazioni coscienti, sarebbe emersa
dall’interazione corpo-cervello con la finalità adattiva di proteggere l’organismo
stesso: l’evoluzione ha fatto sì, per Damasio, che il corpo trovasse un potente
mezzo di autodifesa nella propria capacità di sviluppare efficaci rappresentazioni
interne dell’ambiente esterno. Il sé, in questa concezione, emerge quindi come
modalità di rappresentazione della realtà circostante, e le immagini mentali che ne
caratterizzano l’attività risultano essere principalmente delle reazioni in grado di
riprodurre l’ambiente esterno basandosi sulla modificazione che esso provoca nel
corpo stesso. Ciò che percepiamo e memorizziamo, più che la realtà in sé, è come il
nostro corpo reagisce all’incontro con essa (Damasio 1995).
In quest’ottica risuona inesorabilmente non solo l’integrazione fra mente e corpo,
ma la precedenza evolutiva del corpo stesso. Per dirla con Damasio, <<gli eventi
mentali sono il risultato dell’attività che si svolge nei neuroni del cervello; ma vi è
una storia precedente e indispensabile che essi devono narrare: la storia del disegno
e del funzionamento del corpo. La supremazia del corpo è un motivo che risuona
nell’evoluzione.>>5
Staccato da radici metafisiche e sostanziali, e ancorato alla corporeità dalla quale
esso emerge, non sorprende che in quest’ottica il sé si allontani anche dal concetto
di coscienza: a partire da Freud, è infatti conoscenza comune che la maggior parte
delle attività mentali avvengano sotto il livello della coscienza, definita proprio dal
padre della psicoanalisi come la sola punta dell’iceberg dei processi mentali6.
“catturati” da alcuna descrizione fisica. Quest’idea, se da un lato è emotivamente attraente, è però
incompatibile con quella che è una montagna di fatti circa l’ereditarietà e l’evoluzione di caratteri
biologici>> Montague, (2006), pp. 9-10. 5 Damasio, (1993), p. 312.
6 <<i processi psichici sono di per sé inconsci e di tutta la vita psichica sono consce soltanto alcune
parti e alcune azioni singole>> Freud (1915-17). Ma si veda a tal proposito anche Nietzsche: <<la
coscienza ha un ruolo di secondo piano, è quasi indifferente, superflua, forse destinata a sparire e a
far posto a un perfetto automatismo>> Nietzsche, (1887).
7
Diversi filosofi e neuroscienziati7, fra i quali Montague, sostengono che la
coscienza stessa, lungi dall’essere il centro della vita psichica e l’origine delle
azioni umane, non sarebbe altro che un fenomeno emergente assimilabile alla
memoria di lavoro e finalizzato a monitorare i processi mentali che richiedono un
maggiore impegno di energie: una volta che il sé automatizza un insieme di
comportamenti, questi verrebbero messi in atto dall’individuo senza nessuna
difficoltà, evitando così di richiedere il dispendioso intervento della coscienza
(Montague 2006, Gigerenzer 2007). Altri ancora, sulla scia della filosofia di Hume8
e Nietzsche9, definiscono la volontà cosciente come una mera sensazione prodotta
da meccanismi inconsci, una pura emozione di paternità delle proprie azioni che dà
luogo all’illusione di agentività (Wegner 2010)10
.
Il sé, comunque, sia nella sua componente cosciente che inconscia, non viene più
definito come un concetto unitario: esso, più che un’entità monolitica in grado di
agire attivamente su un ambiente passivo, è piuttosto da intendersi come un insieme
apparentemente coerente di diversi processi mentali che agiscono, e che, grazie ad
una capacità di integrarsi fra loro, contribuiscono a creare nell’individuo la
sensazione dell’esistenza di un’entità unica e unitaria in grado di percepire il mondo
e reagire agli stimoli che provengono da esso; già Nietzsche aveva notato questa
importante rivoluzione nel modo di concepire l’io nel momento in cui definiva il
soggetto come molteplicità e parvenza di unità: <<ammettere un soggetto non è
forse necessario; forse è altrettanto lecito supporre una molteplicità di soggetti, il
cui gioco d’insieme e la cui lotta stanno alla base del nostro pensiero e in generale
7 Le Doux elenca fra gli studiosi favorevoli alla riduzione della coscienza a una funzione esecutiva e
di supervisione Shallice, Posner e Snyder, Shiffrin e Schneider, Norman e Shallice. Le Doux,
J.,(1996) 8 Wegner cita Hume per la sua definizione di volontà come <<niente altro che quella impressione
interna che avvertiamo e di cui diveniamo consapevoli, quando coscientemente diamo origine a
qualche nuovo movimento del nostro corpo o a qualche nuova percezione della nostra mente>>
Hume (1739-1740), in Wegner, D. M., (2010) L’illusione della volontà cosciente, in De Caro, M.
Lavazza, A., Sartori, G., (2010). 9 <<l’io è considerato come soggetto, come causa di ogni azione, come autore […] la credenza in
una sostanza trova la sua forza di persuasione nell’abitudine di considerare tutto ciò che facciamo
come conseguenza della nostra volontà- così che l’io, in quanto sostanza, non scompare nella
molteplicità dei mutamenti. Ma non esiste una volontà.>> Nietzsche (1887). 10
<<Meccanismi inconsci e imperscrutabili creano infatti sia il pensiero cosciente dell’azione sia
l’azione, e producono anche la sensazione di volontà che sperimentiamo percependo il pensiero
come causa dell’azione>> Wegner, D.M., (2010).
8
della nostra coscienza>>11
. La mente perde così la connotazione di teatro cartesiano
e palcoscenico di immagini mentali per frammentarsi in una serie di molteplici
funzioni: l’unità della percezione che noi percepiamo non è altro che una mera
sensazione che non trova riscontro in alcuna sostanzialità, né in alcuna area
celebrale, ma è prodotta proprio dall’integrazione di molteplicità differenti. Come
Damasio sottolinea, l’effetto di unitarietà psichica e percettiva è dovuto a una
questione di simultaneità temporale che trova la sua base in un principio di
sincronizzazione di differenti attività neurali (Damasio 1993).
Più che di un sé, dovremmo quindi parlare di diverse parti del sé che lo
costituiscono. Ponendoci in quest’ottica di pensiero, il paragone fra la dimensione
individuale e quella sociale appare intrigante: come a livello sociale l’unione di
diversi individui può dare origine a quella sensazione di gruppo come entità
indipendente e dotata di vita propria, così, a livello individuale, le diverse funzioni
del sé basate su diversi processi mentali, interagendo fra di loro, sarebbero in grado
di dar luogo alla sensazione di un sé unico che agisce sul mondo. La conseguenza è
semplice ed efficace: il “senso del sé” che è alla base sia della percezione della
soggettività del “me” che dell’entitatività12
del “noi” è quindi il prodotto
dell’integrazione fra le sue molteplici componenti elementari; è in questa direzione,
infatti, che vanno le recenti ricerche sui substrati neurali della coscienza, fra cui
quelle che fanno capo al neuropsichiatra Tononi, il quale postula una duplice
capacità alla base dell’esperienza della soggettività: da una parte la percezione di
una molteplicità di esperienze differenti, e dall’altra la facoltà di integrare queste
diverse informazioni percepite in un unico dato. Ciò che distingue l’organismo
vivente da quello artificiale non è tanto la capacità di ricevere informazioni, quanto
la capacità di integrazione di esse (Tononi 2003)13
.
Ma per quanto le teorie contemporanee ci mostrino l’unitarietà del sé come una
sensazione prodotta dall’integrazione fra diverse parti, ciò non significa che ne
svalutino l’importanza: lungi dall’essere una mera illusione poco funzionale ai fini
11
Nietzsche, F., (1887), p.275. 12
Con questo termine, nei recenti approcci della psicologia sociale, si fa riferimento al grado in cui
un aggregato sociale è percepito come entità esistente e reale da osservatori esterni. Speltini, G.,
Palmonari, A., (2007). 13
Importante notare che in questo caso il termine coscienza va inteso non come stato di meta-
consapevolezza che l’individuo ha delle proprie azioni, ma più in generale come uno stato di
“vigilanza” che permette all’organismo di essere “vivo”.
9
dell’individuo, la percezione di unità dell’ente psichico è invece il presupposto
essenziale su cui si basa l’intera esistenza e su cui fondiamo tutti i nostri
comportamenti. Abbiamo già visto come sia ormai insito nella natura umana
percepire se stessi come unici e in grado di agire sul mondo: il concetto di “io” è
stato appositamente creato dall’uomo in chiave adattiva, e per quanto possa essere
fittizio, è senz’altro indispensabile per la vita umana. Di nuovo, il salto
dall’individuo alla società è breve: sarebbe infatti difficile sostenere che la
sensazione di gruppo come entità dotata di una propria autonomia trovi un suo
correlato sostanziale basato su una realtà ontologica propria e indipendente dai
membri che lo costituiscono; eppure, pur trattandosi di un’illusoria sensazione, ciò
non toglie che essa risulti fondamentale nel regolare la vita del gruppo stesso.
Il gruppo come entità in sé indipendente dai suoi stessi membri non esiste, eppure
la percezione che esso sussista concretamente emerge dall’interazione dei membri,
ed è parte fondamentale del suo sviluppo. Come noto a ogni persona chiamata a
gestire il lavoro di un team, non vi è nulla di più importante per la vita di un gruppo
del creare un’atmosfera tale che i suoi membri siano in grado di sperimentare la
sensazione di far parte di un’entità comune che trascende i confini del singolo; una
volta che viene prodotta questa sensazione, ogni membro percepirà il gruppo a
livello inconscio come entità indipendente non solo da se stesso, ma anche da tutti
gli altri membri: un potente fenomeno emergente che deve la sua origine al solo
fatto che tutti lo pensino tale. Qualcosa che non esiste concretamente, ma che nello
stesso tempo trascende tutti: l’identità, staccata da radici ontologiche, non perde
potenza, ma anzi la acquisisce.
Rispondere quindi alla domanda su quali siano i processi in grado di formare questa
sensazione di “entitatività” non sembra epistemologicamente separabile dal
ricercare i processi mentali in grado di formare il senso del sé individuale: così
come l’integrazione fra membri fornisce al gruppo quella che viene chiamata
“un’identità”, anche un buon senso di identità a livello personale sarà secondo
questa visione dato da una capacità delle parti del sé di interagire e comprendere i
propri stati a vicenda.
Detto questo, ambiti disciplinari come filosofia, neuroscienze, psicoanalisi e
psicologia sociale si trovano di fronte a una lunga strada da percorrere in
10
quest’ambito: siamo infatti ancora lontani dal capire come le diverse componenti di
un sistema riescano a interagire per arrivare a produrre un senso di entità. Si può
però nel frattempo definire le caratteristiche di base di questo “senso di entità”,
nella speranza in un futuro prossimo di poter conoscere i processi in grado di
originarlo. Cosa contraddistingue quindi il sé, oltre al senso di unità? Quali sono le
sue caratteristiche di base? Non sappiamo mediante quali processi hanno origine,
ma sappiamo definire quali esse siano? In chiusura del suo libro “Che cosa
sappiamo della mente?” il neuroscienziato indiano Vilayanur Ramachandran elenca
quelle che sono per lui le componenti centrali del sé sulle quali concentrare le
ricerche:
“Che cosa si intende esattamente con <<sé>>? Ho individuato cinque
caratteristiche fondanti. La prima è l’impressione di continuità, di un
filo che corre lungo l’intero tessuto della nostra esperienza,
accompagnato dal senso del passato, del presente e del futuro. La
seconda, strettamente correlata alla prima, è l’idea di unità e
coerenza. Nonostante la varietà dei ricordi, delle credenze, dei
pensieri e delle esperienze sensoriali, ciascuno di noi esperisce se
stesso come un individuo unico, un’unità. La terza è la corporeità, o
meglio il senso del possesso del proprio corpo, al quale ci si sente
ancorati. La quarta è la facoltà di azione volontaria, quella che
chiamiamo libero arbitrio, l’idea di essere padroni delle proprie
azioni e del proprio destino […]. La quinta, e più elusiva di tutte, è
la capacità di riflessione, la consapevolezza che il sé ha di se stesso
[…] La malattia mentale perturba uno o più aspetti del sé ed è per
questo che non ritengo il sé un’entità unitaria, bensì un insieme di
varie componenti.”14
Con il concetto di continuità possiamo facilmente far riferimento alla sensazione di
sviluppo temporale riguardante le esperienze passate e le aspettative future che
caratterizza non solo il sé individuale, ma anche il sé collettivo; più che un collage
di ricordi e speranze operato grazie a una rievocazione consapevole da parte
dell’individuo, la sensazione di continuità si presenta come un fenomeno che, attivo
principalmente a livello inconscio, si avvicina al concetto di “sentimento di fondo”
introdotto da Damasio per descrivere il senso di proprietà del corpo e tramite il
quale si fa riferimento a una sensazione del sé costituita dall’associazione fra
14
Ramachandran, V., (2003), pp .97-98.
11
modificazioni corporee e rappresentazioni neurali delle modificazioni stesse: una
tipologia particolare di sentimento continuamente presente in sottofondo, e della
quale si può diventare consapevoli soltanto quando vi si pone volontariamente
attenzione (Damasio 1993). Il senso di continuità potrebbe quindi trovare il suo
fondamento nell’integrazione fra diverse rappresentazioni inconsce riguardanti lo
stato passato, presente e futuro del sé.
Come accennato da Ramachandran, la correlazione fra i turbamenti a questa
componente del sé e le patologie mentali non è da trascurare: facendo riferimento
agli studi sull’attaccamento prodotti dalla psicoanalisi e in particolare da Bowlby15
,
un buon senso di continuità del sé ha la possibilità di svilupparsi quando
nell’ambito della relazione originaria e fusionale fra il caregiver e il bambino, il
primo riesce a tranquillizzare le paure di abbandono che il secondo nutre riguardo
al distacco, permettendo al bambino stesso di sviluppare una base sicura che faccia
riferimento a un sufficiente livello di fiducia nella possibilità di ritrovare il legame
con il caregiver in futuro; perché si sviluppi un buon senso di continuità del sé, è
importante che vi sia nel bambino la capacità di mantenere nella propria mente una
rappresentazione costante dell’altro anche in sua assenza: soltanto così si può
instaurare quella fiducia basata sulla possibilità di ritrovamento dell’altro in futuro,
che diventerà poi fiducia nelle proprie capacità di trovare nel mondo ciò che
procura piacere. Al contrario, una mancanza di fiducia nel ritrovare l’altro in questa
fase di separazione risulterebbe decisiva nel turbare il senso di continuità del
bambino stesso, che nel corso della sua vita potrebbe vivere traumaticamente le
separazioni (non solo da figure affettive, ma anche da situazioni, pensieri, luoghi,
oggetti..), ancorandosi così a ciò che di piacevole trova nel passato, guardando con
timore ai cambiamenti, e reiterando con comportamenti dipendenti le situazioni
presenti piacevoli, vissute come momenti ineluttabilmente destinati a non tornare
più: il sé rischia in questi casi di perdere il suo carattere di continuità trasformando
la vita psichica in una serie di momenti slegati fra di loro e frammentati in un
quadro tutt’altro che unitario e rassicurante: ogni stato emotivo si trasformerebbe in
un’ineluttabile condizione priva di uscita e scollegata dal resto.
15
Faremo riferimento a questi studi più avanti: i nostri punti di riferimento per la teoria
dell’attaccamento sono comunque Bowlby (1969), Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002),
12
Il senso di continuità, lungi quindi dall’essere una mera sensazione priva di
sostanzialità, si presenta come un sentimento di fondo con caratteristiche
fondamentali per l’attività del sé stesso; anche facendo riferimento all’attività di un
gruppo, risulta quanto mai importante fornire ai singoli l’immagine di un team
continuo nel tempo, basato su un importante passato e slanciato verso un
prosperoso futuro: si rischia altrimenti di ritrovarsi un gruppo che vive come
piccolo trauma ogni minimo cambiamento.
Se la continuità può quindi essere intesa come la sensazione di uno sviluppo
temporale dal sé, l’unità o coerenza che Ramachandran cita come seconda
componente può a mio avviso essere pensata come la sensazione di uno sviluppo
spaziale del sé: per acquisire coscienza di se stessi come una medesima entità
psichica, nonostante i cambiamenti seppur minimi che il tempo ci impone,
dobbiamo infatti far riferimento almeno a livello inconscio ad una rappresentazione
mentale dei nostri confini e di ciò che nello stesso tempo ci limita e ci
contraddistingue dall’altro e dall’ambiente: solo in presenza di tale mappa psichica
in grado di contrassegnare i nostri limiti come fattori di distinzione finalizzati a
tracciare un confine con l’altro possiamo percepirci come spazialmente distanti
dagli altri e conseguentemente come individualità uniche e invarianti rispetto al
tempo. I confini non sono in questo senso da intendersi solo come propriamente
fisici, ma anche psichici: ogni stato emotivo percepito come proprio e non attribuito
all’altro permette al sé di conoscere e percepire i propri limiti, di posizionarsi
rispetto all’altro, e di trovare quindi la propria identità.
Anche questa componente del sé sembra avere le caratteristiche di un sentimento di
fondo che scorre sotto il livello della coscienza durante ogni istante della nostra
vita: ogni sensazione percepita come propria permette la ricostruzione continua di
un confine di separazione che permette al sé di auto-delimitarsi e auto-percepirsi
nello spazio come ente autonomo e dotato di caratteristiche personali e differenti
dagli altri. Ogni qualvolta siamo in grado di percepire un contatto prettamente
fisico con l’ambiente, il sé coglie la reazione dell’organismo aggiornando la
rappresentazione dello schema corporeo e ridefinendo i propri confini fisici con lo
spazio circostante; non vi sono ragioni per dubitare che la medesima cosa possa
accadere anche con gli stati affettivi: quando il sé riconosce come proprio uno stato
13
emotivo (ad esempio paura, felicità o rabbia), la rappresentazione dei propri confini
si plasma riposizionandosi rispetto agli altri e percependo i propri limiti come
fondamentali nella costituzione di un senso di unità del sé.
Più banalmente, ogni volta che evidenziamo ai nostri occhi o a quelli degli altri
alcune nostre caratteristiche quali possono essere gentilezza o onestà, piuttosto che
pigrizia o avarizia, stiamo mettendo l’accento su componenti caratteriali in grado di
distinguerci dagli altri, e quindi di definire la nostra identità. Un atteggiamento
eccessivamente orientato a mettere in rilievo le caratteristiche dell’altro
(specialmente negative) può essere a questo proposito sottolineato come una
modalità per rinforzare i propri confini laddove essi siano più fragili: se l’altro è
visto come un “non-sé”, le caratteristiche attribuitegli possono portare per
esclusione a definire i propri limiti e quindi a trovare l’identità del “sé”; sembra
questo il meccanismo rintracciabile anche a livello collettivo all’origine delle
accese rivalità fra gruppi, che trovano nella proiezione di caratteristiche negative
all’altro gruppo (o spesso proprio nella costruzione apposita di un “altro” fittizio)
una modalità per definire se stessi e per compattare i propri confini.
Anche qui, la correlazione con le problematiche legate al sé balza all’occhio: senza
entrare nel dettaglio clinico per il quale non ne abbiamo le competenze, è chiaro
anche agli occhi dei non esperti che se parti del sé e aspetti del carattere vengono
vissuti come deficit da annullare e da superare e non come sani limiti in grado di
contraddistinguerci dagli altri e di fornire i necessari confini al sé, ne deriverà non
solo un profondo senso di frustrazione per la mancata accettazione di parti del sé e
un conseguente tentativo di repressione di ciò che viene rifiutato e spesso proiettato
in figure esterne, ma anche una forte sensazione di incompletezza legata alla
percezione di uno scarto fra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere: vedremo poi
come questo può essere correlato, fra le altre cose, a certi comportamenti
d’acquisto.
Il sé, quindi, sia a livello individuale che collettivo, necessita da una parte, nella sua
dimensione temporale di continuità, di una capacità di mantenere viva una
rappresentazione degli oggetti anche se assenti e di una fiducia di base nella
possibilità di poterli ritrovare con le proprie potenzialità, e dall’altra, nella sua
dimensione spaziale necessaria per percepirsi come la stessa unità, di basarsi su una
14
rappresentazione dei propri limiti fisici e psichici, esperiti come caratteristiche in
grado di separarlo e distinguerlo dalle altre entità.
Dimensione spaziale e temporale sembrano decisive nel caratterizzare le reazioni
del sé agli stimoli percepiti: persone con un differente senso di continuità del sé
reagiranno diversamente a livello emotivo di fronte a situazioni simili quali, ad
esempio, distacchi affettivi. In quest’ottica, queste componenti di base del sé
sembrano interporsi fra la percezione degli stimoli e la reazione ad essi, giocando
così un ruolo decisivo nell’indirizzare i comportamenti sulla base delle loro
differenti caratteristiche: i dati sensibili percepiti dal soggetto tramite una capacità
di integrare le informazioni propria dei sistemi coscienti costituirebbero delle entità
sensibili che entrerebbero nello stesso tempo in contatto con varie dimensioni del
sé, fra cui quelle spaziali e temporali, le quali, secondo le proprie caratteristiche
sviluppatesi nel tempo, filtrerebbero gli stimoli percepiti permettendo una
rappresentazione psichica differente per ogni individuo e producendo differenti
reazioni.
Essendo meno rilevanti ai fini dell’elaborato, non dedichiamo altrettanta attenzione
alle altre componenti del sé segnalate da Ramachandran: la corporeità, o il senso di
appartenenza al proprio corpo, si delinea come una caratteristica maggiormente
ancorata alla dimensione fisica, e può fare riferimento agli studi di Damasio sul
sentimento di fondo e sulla rappresentazione corporea ai quali abbiamo accennato
prima (Damasio 1993); a proposito dell’azione volontaria, invece, ne abbiamo già
discusso precedentemente, riportando le tesi secondo cui la coscienza e il libero
arbitrio non sarebbero altro che sensazioni fondamentali per percepire se stessi
come entità che agiscono sull’ambiente, e non rappresenterebbero cause vere e
proprie delle azioni (Wegner 2010): la riflessività è probabilmente la caratteristica
che più da vicino riguarda l’uomo e può essere intesa come meta-consapevolezza e
capacità di pensare a sé stessi come esseri pensanti.
Chiarite quelle che potrebbero essere le diverse componenti del sé, non è scopo di
questo elaborato prendere in esame tutte le teorie su come queste possano arrivare a
formarsi sviluppando il senso del sé: sappiamo l’importanza che la continuità e i
confini del sé rivestono per la vita psichica, ma non è nostro obiettivo comprendere
come questi si formino. Ci sembra tuttavia utile chiudere questa prima parte
15
presentando una teoria dello sviluppo psichico e delle caratteristiche del sé che ci
potrà servire in seguito per comprendere alcuni aspetti del comportamento umano:
si tratta del modello della mentalizzazione discusso da Fonagy, Gergely, Jurist e
Target (Fonagy, Gergely, Jurist, Target, 2002). Lontano dall’idea solipsistica di un
sé che fonda la sua realtà psichica indipendentemente dall’ambiente e grazie a
strutture innate16
, al centro del lavoro dei quattro psicoanalisti c’è invece l’idea di
uno sviluppo del sé che, sulla scia delle teorie dell’attaccamento proposte da
Bowlby17
, è assolutamente imprescindibile dall’interazione con l’altro: in
particolare, il bambino acquisisce una consapevolezza e una capacità di controllo
sui propri stati emotivi (chiamata regolazione affettiva e resa possibile grazie allo
stabilirsi di quelle che vengono chiamate strutture di controllo secondario) solo
grazie <<all’osservazione delle manifestazioni espressivo-affettive degli altri e
associando queste con le situazioni e gli esiti comportamentali che accompagnano
queste espressioni delle emozioni>>18
. Il “matching” operato dal bambino fra ciò
che esso sente a livello viscerale e la reazione espressiva del caregiver a questo
sentire prende il nome di bio-feedback sociale e costituisce per gli autori la base
necessaria per passare da uno stato in cui le emozioni possono essere concepite
come automatismi incontrollati a uno in cui il sé diviene cosciente dei suoi stessi
segnali, e quindi di se stesso. Come gli stessi autori sostengono <<la
manifestazione esterna dell’emozione contingente all’attuale stato affettivo del
bambino porta alla sensibilizzazione e al riconoscimento di uno stato interno che
precedentemente non era accessibile>>19
.
16
<<Le evidenze mostrano chiaramente che è ingenuo assumere che il destino genotipico di un
bambino si realizzi in un cervello ermeticamente sigillato, in qualche modo isolato dall’ambiente
sociale nel quale si verifica l’ontogenesi e il solido adattamento che costituisce il principio
organizzativo dell’intero sistema>> Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p.95. 17
Le teorie dell’attaccamento trovano le proprie origini nella celebre opera Attaccamento e Perdita
dello psicologo John Bowlby, il quale fu il primo a considerare il rapporto fra bambino e caregiver
come elemento fondante dello stile affettivo e relazionale che il bambino acquisisce. Secondo
Bowlby, il livello di sensibilità e disponibilità del caregiver nel rispondere alle richieste del bambino
è quindi alla base della formazione di modelli operativi interni che andranno a definire i
comportamenti relazionali futuri. Cfr. Bowlby, J., (1969), Attaccamento e perdita, vol.1:
L’attaccamento alla madre. Tr. it. Boringhieri, Torino 1983. 18
Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p.106. 19
Ivi, p. 114. Viene fornito anche un esempio in grado di supportare questa tesi tratto da (Dicara,
L.V., (1970), “Learning in the automatic nervous system” In Scientific American, 222, pp. 30-39 e
Miller, N.E., (1978), “Biofeedback and visceral learning”. In Annual review of psychology, 29, pp.
373-404. <<in questo tipo di studi vengono effettuate continue misurazioni dei cambiamenti dello
stato di alcuni stimoli interni a cui il soggetto, inizialmente, non ha un diretto accesso percettivo,
16
Così, nei primi mesi di vita il bambino sarebbe geneticamente predisposto a
ricercare nell’ambiente eventi contingenti alle proprie azioni, identificando stimoli
esterni come conseguenze di azioni messe in atto e sviluppando una
<<rappresentazione primaria del sé corporeo come oggetto distinto
dall’ambiente>>20
; allo stesso modo, osservando il rispecchiamento affettivo della
propria espressione emotiva modulato dal genitore, il bambino correlerà i propri
stati interni con le manifestazioni espressive del caregiver, cercando poi di
comprendere quali proprie azioni hanno preceduto il rispecchiamento affettivo del
genitore e giungendo così a esercitare consapevolezza e padronanza del proprio
stato emozionale. Più che un unico sé che diviene d’un tratto cosciente, abbiamo in
questo modello diverse parti del sé e stati emotivi che acquistano coscienza di se
stesse tramite il rispecchiamento con l’altro.
Tuttavia, per far sì che questo avvenga, è necessario che il bambino comprenda che
ciò che sente e che viene correlato alla manifestazione del genitore sia uno stato che
appartiene a se stesso e non al caregiver. Detto in altri termini, c’è bisogno di un
processo di categorizzazione degli stimoli (come appartenenti a sé o all’altro)
perché il sé emerga come struttura cosciente: questo, secondo gli autori, avviene
solamente quando il genitore produce una versione esagerata dell’espressione
emotiva <<marcando in modo saliente le proprie manifestazioni di rispecchiamento
affettivo per renderle percettivamente differenziabili dalle espressioni emozionali
autentiche>>21
. Se il genitore dovesse produrre delle espressioni coincidenti con
l’espressione emotiva del bambino, quest’ultimo, data la somiglianza fra il proprio
stato e la manifestazione esterna di esso, non coglierebbe la differenza e non
attribuirebbe più ciò che sente al sé, ma all’altro: lo stato emotivo, non essendo
riconosciuto come proprio (perché troppo simile al rispecchiamento del genitore)
verrebbe attribuito alla stessa persona che produce la manifestazione espressiva,
con il risultato che sarebbe impedito lo sviluppo di rappresentazioni secondarie per
quello stesso stato emotivo, con la spiacevole conseguenza di non riuscire né a
come, per esempio, la pressione sanguigna. I cambiamenti dello stato interno vengono rappresentati
da uno stimolo esterno equivalente, direttamente osservabile dal soggetto, il cui stato co-varia con
quello dello stimolo interno. L’esposizione ripetuta a una tale rappresentazione esterna dello stato
interno ha come esito finale la sensibilizzazione a e, in alcuni casi, il controllo sullo stato interno>> 20
Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p.119. 21
Ivi, p.129.
17
comprenderlo, né tanto meno a gestirlo. Mettendoci nei panni di un bambino che
non distingue ancora fra un “sé” e un “non-sé”, e che vede la realtà come un “tutto”
unico, non percependo la differenza fra una sensazione e lo sguardo del genitore di
fronte a tale sensazione, non avrò neanche la percezione che si tratti di due entità
distinte: è infatti lo scarto fra sensazione e comportamento rispecchiato che mi
permette di comprendere che c’è qualcosa che si distingue in quel “tutto” unico, e
quel qualcosa è il “sé”. In mancanza di questa consapevolezza, il bambino non
categorizza lo stato emotivo come suo ed è obbligato a introiettare nel sé la
rappresentazione dell’altro: <<il bambino che non è in grado di sviluppare una
rappresentazione intenzionale del sé, probabilmente, incorporerà nell’immagine di
sé la rappresentazione dell’altro, a volte quella mentale, a volte quella fisica.
L’immagine del sé, sarà, dunque “falsa”>>22
. Questo, come vedremo, porta a
ricercare l’altro e a esserne dipendenti ogni qualvolta quello stato affettivo viene
percepito: si creano nel sé delle zone di insicurezza dove il soggetto, al posto di
sentire le emozioni proprie, avrà introiettato le reazioni dell’altro a quegli stati
emotivi.
Per ora, sottolineiamo come questa teoria non solo vada incontro alla concezione
del sé come struttura tutt’altro che unitaria ma costituita da diverse parti, ma pone
anche alla base della formazione del sé la categorizzazione e l’attribuzione di stati
emotivi: soltanto quando questo procedimento avviene correttamente, il sé
costituisce dei confini fra stati sentiti come propri e stati riferiti all’altro: ecco
quindi che il procedimento di attribuzione è la base di quella che abbiamo definito
come dimensione spaziale del sé, concernente la consapevolezza dei proprio
confini. Non è possibile percepire confini propri rispetto agli stati affettivi se non vi
è stato un corretto sviluppo del bio-feedback alla base di essi: detto in parole
semplici, così come non è possibile definire i confini di un gruppo se non si è
stabilito quali persone vi appartengono e quali no, non si possono definire i confini
degli stati emotivi e quindi del sé, se non si è stabilito quali stati sono propri e quali
no. Essendo gli stati emotivi fondamentali anche per costruire la propria identità, se
essi non vengono correttamente rispecchiati il bambino rischia di introiettare gli
stati emotivi del genitore: se, ad esempio, di fronte a sensazioni di richieste di
22
Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p. 148.
18
affetto, il bambino osserverà ripetutamente un comportamento evitante del genitore
che non produrrà nessuna espressione marcata della sensazione, lo stato affettivo
non verrà percepito come proprio e verrà introiettata la reazione evitante del
caregiver. La conseguenza è che il bambino non acquisirà consapevolezza della
propria richiesta d’affetto e non svilupperà in corrispondenza di questo stato
emotivo i giusti confini fra il sé e l’altro, reprimendo il sentimento e attivando al
suo posto la rappresentazione evitante del genitore, che gli imporrà di tenere a sua
volta un comportamento schivo: il soggetto, nel corso della sua vita, è probabile che
faccia di tutto per evitare l’identità di persona in cerca di affetto mostrando invece il
lato evitante corrispondente al falso-sé.
Questo ci mostra che le caratteristiche del sé che permangono nonostante il
trascorrere del tempo e che sono alla base della sensazione di unità e dei propri
confini possono corrispondere a quelli stati emotivi non rispecchiati e al “falso-sé”
che viene introiettato al posto di essi: il soggetto, al posto di percepire i propri limiti
come caratteristiche che permettono di distinguerlo dagli altri, se in corrispondenza
di essi non ha sviluppato una linea di confine fra il sé e l’altro data dall’attribuzione
di ciò che lui sente e ciò che sentono gli altri, rischia di viverli come handicap da
reprimere e confini da superare provando un senso di incompletezza del sé da
colmare attraverso l’identificazione con la rappresentazione di stati della mente
altrui.
Se il processo di attribuzione è decisivo per la coscienza dei propri confini e dei
propri limiti, esso risulta importante anche nella dimensione di continuità del sé.
Abbiamo già visto precedentemente come questa nozione sia strettamente correlata
al concetto di cambiamento: un buon senso di continuità del sé permette infatti di
vivere i cambiamenti non traumaticamente, ma con la fiducia nelle proprie
potenzialità future. Il modello di Fonagy getta ulteriore luce sull’argomento: se
infatti, di fronte alla novità che per sua intrinseca natura arreca una sensazione
inziale di paura, il bambino osserva un’espressione marcata del genitore che
“gioca” sullo spavento minimizzandolo, il bambino stesso noterà una differenza fra
la paura che sente e la manifestazione espressiva del genitore, e comprenderà lo
stato emotivo interiorizzandolo come proprio; se invece, nella medesima situazione,
il bambino vedrà un’espressione altrettanto spaventata di fronte alla novità, non
19
coglierà lo scarto fra ciò che prova e ciò che vede e attribuirà la paura al genitore e
non a se stesso.
Ciò porterà a una mancata costruzione di confini fra il sé e l’altro in corrispondenza
dello stato emotivo di paura di fronte a una novità: ne segue che in futuro, in
presenza di contesti simili come i cambiamenti, il soggetto riproverà la paura del
genitore ricercando allarme negli occhi degli altri, non riuscendo a comprendere se
l’origine del sentimento sia da ricercarsi in sé o negli altri, e non riuscendo così a
esercitare un controllo su di se. È probabile, quindi, che la sensazione di continuità
del sé possa basarsi soprattutto sulla regolazione affettiva di stati emotivi
riguardanti i cambiamenti, trovando maggiori lacune proprio negli individui in cui
questi stati affettivi non trovino rappresentazioni di secondo ordine.
Abbiamo quindi visto approfonditamente come l’errata attribuzione all’altro di uno
stato emotivo primario appartenente al sé possa essere in grado di produrre nel sé,
in corrispondenza di stati affettivi non correttamente rispecchiati “zone di
insicurezza”, prive di confini fra il sé e l’altro; queste parti del sé non rispecchiate
sarebbero alla base di problematiche legate sia alla dimensione temporale di
continuità, alterando la fiducia del soggetto nell’affrontare i cambiamenti cui è
soggetto il sé, sia alla dimensione spaziale della consapevolezza della propria
unicità e dei propri confini, non permettendo al soggetto di percepire alcuni suoi
stati e alcune sue caratteristiche come propri, ma favorendo al contrario la
discrepanza fra ciò che si è e le aspettative e gli stati emotivi propri dell’altro
introiettati nei propri confini.
Concludendo, la categorizzazione è quindi vista come quel processo fondativo del
sé individuale e collettivo in grado di sviluppare comprensione cosciente dei propri
comportamenti e dal quale dipendono sia il senso di continuità, sia la percezione dei
propri confini23
. Il punto di vista dal quale partiamo è quindi quello di un sé
23
Si veda a tal proposito anche Altman: <<se posso controllare quello che sono io da quello che non sono io, se posso definire cosa è me e cosa non lo è, e se posso osservare I limiti e lo scopo del mio controllo, allora ho dato un grande passo verso la comprensione e la definizione di chi sono.>> Altman, I., (1975), The environmental and social behavior: Privacy, personal space, territory and crowding. Wadsworth, New York. Riguardo all’importanza del processo di categorizzazione per la costruzione di limiti e di senso di continuità del sé collettivo: <<il concetto di identità risponde alla necessità di individuare e comunicare gli aspetti particolarmente caratteristici e specifici di un’organizzazione, l’insieme di quegli elementi che la rendono distinguibile dalle altre
20
corporeo e frammentato, identificabile più con una serie di diversi fenomeni
mentali che ne sono alla base che come concetto unitario; lo studio dei
comportamenti di consumo che intendiamo svolgere sarà quindi basato su questa
concezione, ed essi verranno conseguentemente esaminati mettendoli in relazione
non con le attività di un sé unitario, ma con l’attività di differenti funzioni del sé.
organizzazioni e che si manifestano con una certa continuità temporale>> Olivero, N., Russo, V., (2009), p. 447.
21
2. LA RELAZIONE FRA IL Sé E L’OGGETTO DI CONSUMO.
Chiarito da quale punto di vista intendiamo definire il concetto del sé, occupiamoci
ora di approfondire la relazione che le sue diverse componenti e funzioni
precedentemente descritte intrattengono con i comportamenti di consumo: obiettivo
principale di questo capitolo è in particolare analizzare il ruolo simbolico rivestito
dagli oggetti e la loro importanza per l’attività psichica, cercando di comprendere al
meglio le basi della relazione soggetto-oggetto che risulta essere di estrema
rilevanza in un’epoca contemporanea che vede nel comportamento di consumo una
delle sue principali caratteristiche.
La relazione fra soggetto e oggetto viene solitamente presa in considerazione dalle
neuroscienze e dalla filosofia della mente facendo riferimento alla dimensione
puramente fisica, indagando cioè come la rappresentazione dei confini corporei
possa variare in relazione all’interazione con gli oggetti: emblematico a questo
proposito è l’articolo apparso nel 1996 sulla rivista Neuroreport24
, nel quale il
neuroscienziato Atsushi Iriki e il suo team, durante uno studio sperimentale
condotto sulle scimmie, hanno abilmente dimostrato come un gruppo di neuroni
della corteccia parietale posteriore dell’animale si attivava in corrispondenza non
solo del movimento della mano della scimmia, mettendo in atto così una funzione
di codificazione dello spazio circostante che già si sapeva appartenere a questi
neuroni, ma anche quando la scimmia cercava di raggiungere del cibo tramite un
rastrello, il quale, modificando la rappresentazione dello spazio raggiungibile
circostante, veniva quindi nel vero senso della parola incorporato nel campo
recettivo visivo di questi neuroni, andando così ad ampliare i confini di ciò che
veniva percepito come appartenente al sé.
L’espansione dei confini della rappresentazione corporea era in questo caso
strettamente legata al momento in cui lo strumento veniva usato: una volta messo
da parte il rastrello, i campi recettivi tornavano alla loro estensione usuale
delimitando i reali confini corporei (Berlucchi 1997, Rizzolatti, Sinigaglia 2006).
24
Iriki, A., Tanaka, M., Iwamura, Y. (1996), “Coding of modified body schema during tool use by macaque postcentral neurones”. In Neuroreport, 7, pp. 2325-2330.
22
Ciò che in questo caso viene chiamato body schema, ossia la rappresentazione
mentale del proprio corpo e dei suoi limiti spaziali, è quindi una mappa corporea
sempre presente in grado di plasmarsi a seconda delle interazioni dell’organismo
con l’ambiente e di estendersi includendo nei propri confini oggetti che, pur non
appartenenti al corpo stesso, vengono percepiti come tali se sono in grado di
aumentare il raggio di azioni potenziali del soggetto modellando la sua possibile
attività: nel momento in cui il rastrello permetteva alla scimmia di mettere in atto
una possibile azione quale raggiungere una quantità lontana di cibo, esso veniva
infatti introiettato nella rappresentazione dei confini del corpo della scimmia stessa.
Il classico esempio che viene fatto a tal proposito in riferimento all’uomo è quello
del ciclista, il cui body schema arriverebbe a includere la bicicletta durante l’uso
che di essa viene fatto (Berlucchi, Agliotti 1997). Allo stesso modo è probabile che
chiunque, dopo aver preso confidenza con la propria macchina, sperimenterà una
sensazione di sicurezza nel calcolare automaticamente gli spazi in cui essa può
muoversi e entro i quali, ad esempio, può essere parcheggiata: la rappresentazione
corporea è estesa in quei momenti fino ai confini della macchina stessa, e i nostri
neuroni si attivano come segnali in grado di codificare lo spazio circostante proprio
come se si trattasse del nostro corpo.
Scoperte e ipotesi di questo tipo ci aiutano a prendere consapevolezza della
malleabilità e della flessibilità dei confini del body schema, concetto che appare
assimilabile a quella rappresentazione corporea che Damasio aveva identificato
come sentimento di fondo sempre presente (Damasio 1993) e Ramachandran come
componente centrale del sé chiamata corporeità (Ramachandran 2002). La
sensazione di proprietà del proprio corpo e dei suoi confini è una delle
caratteristiche fondamentali del sé, e il corpo stesso, fra tutte le entità che siamo in
grado di percepire, è ciò che viene maggiormente identificato come “mio”, se non,
addirittura, come “me”25
(Belk 1988, Prelinger 1959).
25
In una ricerca del 1959 condotta dallo psicologo Prelinger, veniva chiesto a dei soggetti di
assegnare a 160 frasi, in una scala da 0 a 3, un punteggio corrispondente al grado in cui queste frasi
contenevano un elemento percepito come appartenente a sé, come “mio”. Le frasi erano raggruppate
in 8 categorie diverse. Ne risultò che, nell’ordine, il grado di correlazione con il sé era sentito più
altro in corrispondenza di parti del corpo (2,98), processi psicologici come la coscienza (2,46),
caratteristiche e attributi personali (2,22), oggetti posseduti (1,57), idee astratte (1,36), altre persone
(1,10), oggetti dell’ambiente circostante (0,64), oggetti ambientali lontani (0,19). Prelinger, E.
(1959) “Extension and Structure of the Self” in Journal of Psychology, 47, pp. 13-23.
23
Se, come sostengono diverse scuole di pensiero psicoanalitico, il bambino nasce
incapace di distinguere il sé dall’ambiente circostante, è con il passare del tempo e
con l’acquisizione della consapevolezza di esercitare un certo grado di controllo su
alcune parti del proprio organismo che si incomincia a creare nella sua mente uno
schema della propria dimensione corporea costituito dalla rappresentazione neurale
di tutte le sue modificazioni (Belk 1988).
Abbiamo precedentemente visto che però, nonostante l’importanza che la
dimensione prettamente corporea riveste per la vita psichica, vi sono altre
componenti che agiscono come sentimenti di fondo e mappe mentali necessarie per
il sé: in particolare, per i nostri obiettivi, è importante far riferimento sia a quella
che abbiamo descritto come la dimensione spaziale del sé, ossia la sensazione di
unicità e unitarietà fornita dalla consapevolezza di una differenza psichica fra sé e
gli altri e da una rappresentazione mentale dei confini esistenti fra le proprie
caratteristiche e quelle altrui, sia alla dimensione di continuità, ossia una mappa
mentale del proprio sviluppo temporale.
Alla pari della flessibilità dello schema corporeo, possiamo infatti ipotizzare che
anche la percezione dei propri confini psichici e temporali sia ugualmente
malleabile e arrivi a incorporare, oltre agli stati emotivi degli altri come visto nel
modello di Fonagy, anche ciò che gli oggetti rappresentano, facendo sì che essi
vengano percepiti come vere e proprie parti del sé; un oggetto, così come nella sua
dimensione meramente fisica può venir percepito come parte integrante del corpo
qualora modifichi il rapporto del soggetto con lo spazio e il suo raggio d’azioni
potenziali, anche nella sua dimensione simbolica potrebbe essere introiettato nella
rappresentazione dei propri limiti e confini e percepito come parte del sé qualora si
presenti agli occhi del soggetto come un aggregato di significati in grado o di
esprimere alcune sue caratteristiche, andando così a rimodellare le differenze fra
esso e le altre individualità, oppure di fornirgli la concreta sensazione di un proprio
sviluppo temporale.
Per comprendere come possa avvenire questo processo, rivolgiamoci agli studi
filosofici e psicologici che si sono occupati di chiarire la relazione fra gli individui
e gli oggetti che essi possiedono: l’idea sopra esposta che alcuni oggetti siano
percepiti come vere e proprie parti del sé affonda le sue radici nelle teorie dello
24
psicologo William James, il quale già nel 1890 riconduceva il concetto del sé a un
vasto insieme costituito da tutto ciò che la persona ritiene di possedere, in un ampio
agglomerato che va dai beni più concreti fino ai propri ideali e alle proprie
caratteristiche, passando per la dimensione corporea26
: gli oggetti, alla pari del
corpo e di tutto ciò che viene definito dal soggetto come “mio”, diventano quindi
fondamentali nella definizione di ciò che è “me”. Non sorprende, in quest’ottica,
che James fu tra i primi a mettere in dubbio la sottile differenza esistente fra “me” e
“mine”, collocando gli oggetti in nostro possesso in un continuum decisivo per la
definizione della propria personalità: vuoto di sostanzialità, il sé si delinea ora come
una struttura plastica in grado di modificare la sua essenza in base alla provvisoria
conformazione dei propri confini27
.
Sulla stessa scia di pensiero, Jean Paul Sartre, nel suo più importante lavoro
“Essere e Nulla”, definisce il senso del possesso come la base necessaria del senso
del sé: la motivazione prioritaria che spinge l’uomo a desiderare di possedere
qualcosa è infatti per il filosofo francese la volontà e la necessità di ampliare il
proprio sé, trovando riscontri della propria dimensione identitaria nell’osservazione
e nel tentativo di appropriazione di un’oggettualità esterna. Per Sartre, possiamo
infatti sapere chi siamo solo osservando ciò che abbiamo: l’avere è quindi
condizione di possibilità dell’essere, ed è solo tramite l’atto di possesso che il
soggetto può trovare e sentire l’essenza del proprio sé.
Approfondendo l’analisi fra individualità e oggetto, Sartre individua a questo
proposito tre principali modalità attraverso cui si esplica il fondamentale atto di
appropriazione di un’entità esterna: la prima è il gesto del controllo, tramite il quale
l’uomo arriva a percepire come proprio un determinato oggetto sul quale può
esercitare un certo grado di potere (uno scalatore può ad esempio sentire come
“sua” una montagna dopo aver raggiunto la vetta ed aver quindi esercitato un
controllo su tutto il panorama). La seconda modalità è invece la creazione, atto che
permette all’uomo di definire come proprio un oggetto da lui stesso creato: si presti
particolare attenzione al fatto che con il termine oggetto non si fa in questo caso
26
Cfr. <<a man’s self is the sum total of all that he can call his, not only his body and his psychic
poker, but his clothes and his house, his wife and his children, his ancestors and friends, his
reputation and works, his lands, and yacht and bank-account>> James, W., (1980) 27
Cfr. “But it is clear that between what a man calls me and what he simply calls mine the line is
difficult to draw” James, W., (1890).
25
riferimento alla sola dimensione tangibile e concreta, e quindi esclusivamente a
beni prodotti manualmente dal soggetto, ma ovviamente anche alle entità astratte, ai
sentimenti, piuttosto che alle azioni e ai gesti messi in atto, o per così dire “creati”,
dal soggetto stesso. Anche l’atto conoscitivo dell’uomo è per Sartre un tentativo di
appropriazione di qualcosa di esterno e sconosciuto dal sé: conoscendo qualcosa,
quel dato qualcosa viene infatti introiettato nel sé e diventa una propria conoscenza,
permettendo all’individuo di ridefinire i confini della propria identità28
. Ed è
proprio l’atto del conoscere che, in virtù di questa sua natura, viene identificato dal
filosofo come la terza modalità di appropriazione.
Traducendo il tutto nel nostro linguaggio, controllare, creare e conoscere sono
quindi per Sartre non solo tre differenti modi attraverso cui l’individuo entra in
possesso degli oggetti fisici e non, ma anche tre atti tramite i quali il soggetto,
rioperando un processo di categorizzazione, introietta nella sua identità nuovi
elementi che gli permettono di trovare e costruire il proprio sé, differenziandolo
dagli altri (Sartre 1943, Belk 1988): l’oggetto è qui nuovamente visto non come
un’entità percepibile che rimane esterna ed estranea al sé, in uno spazio metafisico
indefinito e irraggiungibile, ma anzi come una costellazione di potenziali azioni e
significati che attraverso l’atto di appropriazione vengono incorporati nella propria
identità esprimendo così una parte di essa.
È in questa direzione che va anche il lavoro del filosofo americano Russel Belk, il
quale per primo fa riferimento esplicito al concetto di sé esteso, identificando con
questa nozione l’insieme di oggetti, luoghi, esperienze, idee e persone che vengono
percepiti dall’individuo come parti della propria personalità. Accanto alla struttura
di base del sé costituita da un nucleo contenente le principali caratteristiche
dell’individualità del soggetto, Belk postula infatti l’esistenza di una parte estesa e
flessibile del sé in grado di inglobare e fare propria la rappresentazione di altre
entità sostanzialmente differenti dall’individuo stesso (Belk 1988).
Questa concettualizzazione, nata sulla scia del lavoro di Sartre, è stata senza dubbio
importante poiché ha introdotto nell’ambito degli studi sui consumi alcune
argomentazioni filosofiche e psicologiche di base che hanno permesso di andare
28
Cfr. “il desiderio di conoscere, per quanto disinteressato possa apparire, è un rapporto di appropriazione. Il conoscere è una delle forme che può prendere l’avere” Sartre, J., (1943)
26
oltre una ricerca sui comportamenti d’acquisto prettamente ancorata a una
dimensione oggettuale concretistica, estendendo invece il dominio di
incorporazione degli oggetti nel sé anche a una dimensione astratta riguardante
luoghi, idee e altre persone; l’immagine mentale che noi produciamo di un oggetto
non è infatti da questo punto di vista ontologicamente differente da quella che noi ci
formiamo di un’altra persona o di un'altra entità non oggettuale: tutto ciò che
percepiamo diventa nella storia della nostra mente una riproduzione ugualmente
manipolabile e soggetta ai medesimi processi cognitivi e emozionali. In questo
modo, persone, luoghi e oggetti sono messi sullo stesso piano dal punto di vista di
ciò che essi rappresentano per noi: tutto può diventare parte del nostro sé esteso e
fungere da immagine mentale in grado di essere incorporata e di rappresentare una
parte del sé.
Chiarito il ruolo dell’atto d’incorporazione di un oggetto all’interno del sé, si
comincia ora a delineare la motivazione che sta dietro a molti comportamenti di
consumo, e non solo: circondarsi di oggetti includendoli nella rappresentazione dei
propri confini significa così permettere ad alcune parti del sé di esprimersi e di
trovare una loro attualizzazione nella vita quotidiana (Balconi, M., Antonietti, A.,
2009). Allo stesso modo, tenendo conto del paritetico status ontologico attribuibile
a entità astratte e concrete, possiamo affermare che venerare una persona, votare un
politico, piuttosto che affidarsi a un brand, diventano tutte modalità attraverso cui
l’individuo esprime, sia all’interno di una rete di rapporti intersoggettivi, sia a se
stesso, una determinata parte e componente del sé che altrimenti, non trovando
nell’oggetto (concreto o meno) la sua rappresentazione sensibile e la sua immagine
mentale in grado di esplicitarlo, rimarrebbe inespressa come un personaggio
teatrale privato di un attore in grado di impersonificarlo: ogni stato affettivo è
infatti nella natura umana un contenuto che ha bisogno della sua forma, ossia di
un’immagine mentale in grado di rappresentarlo.
A titolo di esempio, il desiderio di manifestare una propria carica aggressiva può
trovare così la sua estrinsecazione in personaggi e oggetti che sono associati a
questo tipo di comportamenti forti e arroganti, così come il desiderio di esibire una
parte del sé autonoma e prevaricante può individuare in figure carismatiche e
potenti la sua rappresentazione sensibile, trasformando poi l’unione fra contenuto
27
emozionale e rappresentazione oggettuale in un atto d’acquisto o di adesione a
modelli e oggetti inerenti a questi stati affettivi.
Si tratta quindi di una concezione rappresentazionale e profondamente simbolica
dell’oggetto di consumo, da intendersi in questo caso non solo come un qualcosa di
meramente acquistabile e riferito alla sola dimensione commerciale, ma a tutto ciò
che intercetta i desideri dei soggetti e che viene percepito da essi come una parte di
sé; in quest’epoca in cui è indubitabilmente vero che tutto si vende e tutto si
consuma, la venerazione e il desiderio di possesso non è solamente demandabile
agli oggetti, ma anche, e soprattutto, ad altre persone o ad esempio a brand.
Qualsiasi immagine mentale che può servire al soggetto come forma
rappresentativa in cui un contenuto e un sentire del sé trovano la loro
oggettificazione e attualizzazione viene così incorporata nei propri confini psichici
e percepita come vera e propria parte di sé. Il momento del consumo e più in
generale di adesione a ideali, persone e gruppi è diventato quindi nella realtà
moderna un fondamentale momento di espressione del sé per mezzo del quale
l’individuo può trovare forme simboliche in grado esprimere diverse componenti
della sua personalità, definendola e rimodellandola in continuazione, e permettendo
una sua manifestazione agli altri.
Lo studio dei consumi sembra avere acquisito la consapevolezza di una funzione
dell’oggetto che trascende il valore funzionale del prodotto in sé a partire dai lavori
sociologici di Douglas e Isherwood, fra i primi ad aver indicato la centralità del
processo di significazione operato dai consumatori all’interno di una teoria volta a
comprendere i comportamenti d’acquisto (Douglas, M., Isherwood, B., 1979). Tale
processo rappresenta per ogni individuo una grande opportunità di costruire e
cambiare la propria identità secondo le proprie scelte consumistiche, fornendo nello
stesso tempo uno specchio di ciò che si vorrebbe essere anche agli altri: come
sintetizzato recentemente da Olivero e Russo <<si può sostenere che i significati
condivisi socialmente orientano il consumatore verso un dato prodotto, il quale
successivamente mette in atto un’operazione di personalizzazione, di attribuzione di
significati legati alla relazione che vi instaura, come se divenissero un territorio
esteso per la rappresentazione del self>>.29
.
29
Oliviero, N., Russo, D., (2009)
28
Il ruolo dell’oggetto nella definizione della personalità viene ribadito anche dal
filosofo comportamentista Mead e da Cooley, i quali, riferendosi all’insieme di
teorie già esposte nel capitolo precedente, rievocano il ruolo centrale del processo
di rispecchiamento e di osservazione dei comportamenti degli altri per la
formazione del sé, e inquadrano in quest’ottica l’acquisto come un ritorno a questa
dimensione, grazie alla quale l’opinione espressa dagli altri su di sé, e sul bene
posseduto, funge da punto di partenza per la costituzione di una propria identità;
non solo, quindi, il processo di scelta diventa una modalità di comunicazione
mediante la quale trasmettere agli altri un messaggio e una componente del sé, ma
riveste anche una grande importanza nell’auto-costruzione di un’identità (Balconi,
M., Antonietti, A., 2009).
Naturalmente questo ruolo degli oggetti d’acquisto non è sfuggito a chi è stato
chiamato alla gestione di un brand, dove con questo termine, come già ricordato,
non intendiamo designare solamente la mera dimensione oggettuale, ma anche
qualsiasi prodotto “vendibile”, persone e ideali compresi: ad ogni “oggetto” da
porre sul mercato viene infatti associata una personalità, così da favorire un
processo di identificazione da parte dei soggetti, i quali cercano nel momento del
consumo un’opportunità per narrare parti del sé inespresse, allargando i confini del
sé e percependo come appartenenti a se stessi tutte le entità in grado di fornire un
vestito concettuale a un corpo emotivo di base30
.
Un rapido sguardo alle pubblicità ci mostra infatti come <<Barilla acquista un
carattere prevalentemente affettivo e protettivo, Tim diventa amicale e affiliativa,
Vodafone dinamica e coraggiosa, Dior altezzosa e aristocratica […] La preferenza
accordata a una marca piuttosto che all’altra assume il valore di simbolo, di
stemma, con cui il consumatore esprime il suo personale stile di vita, l’adesione a
determinati valori>> (Balconi, M., Antonietti, A., 2009). Non sorprende che in
questo contesto di personalizzazione dei brand31
, un ambito che riscuote sempre
30
Riguardo all’importante concetto di identificazione, processo alla base dell’introiezione di un oggetto nei propri confini, il contributo principale deriva dalla psicoanalisi: <<Nella teoria psicoanalitica, infatti, questi processi sono strutturanti l’identità dei soggetti, spostando i confini tra il sé e realtà in modo tale che in ogni esperienza transizionale l’oggetto di identificazione divenga parte di sé (introiezione), così come parti di noi divengano elementi dell’oggetto (proiezione)>> Balconi, M., Antonietti, A., (2009). 31
Gli studi di Aaker sulla brand personality, ovvero l’antropomorfizzazione del brand hanno condotto all’individuazione di 5 caratteristiche di personalità, anche dette Big Five, riconoscibili, in
29
grande successo sia quello dell’abbigliamento, tramite il quale la natura del
comportamento d’acquisto esprime tutto il suo potenziale: il vestito diventa infatti il
paradigma per eccellenza della possibilità degli individui di indossare e prendere in
prestito un’identità, trasformandola in un qualcosa di prettamente fisico e
facilmente comunicabile agli altri. I capi d’abbigliamento, così, non solo possono
essere incorporati nel proprio body schema ampliando i confini della propria
rappresentazione corporea (Berlucchi, G., Agliotti, S., 1997), ma possono anche
essere inglobati nella dimensione spaziale del sé contenente le proprie
caratteristiche, dando forma alle proprie componenti identitarie e venendo di
conseguenza percepiti come vere e proprie parti di del sé.
Chiarito l’importante ruolo che l’oggetto d’acquisto riveste nel processo di
espressione di parti del sé che l’individuo intende mostrare, occupiamoci invece ora
di comprendere le modalità tramite cui ciò che viene incorporato nel proprio sé
esteso possa contribuire a proteggere alcune zone del sé e a nascondere certi stati
affettivi per mezzo dell’identificazione in oggettualità esterne.
Lo studio della relazione fra il significato simbolico attribuito agli oggetti e le
mancanze percepite nella rappresentazione del sé trova la sua origine negli studi di
Wicklund e Gollwitzer, che nel loro volume “Self-completion theory” teorizzano
l’esistenza di un processo di completamento simbolico del sé, che, inserito in un
contesto intersoggettivo, viene operato dagli individui come tentativo di sopperire
al mancato raggiungimento di un obiettivo, ritenuto fondamentale per la propria
immagine, attraverso un oggetto che sia socialmente ritenuto rappresentativo del
medesimo scopo. Gli individui, secondo questa teoria, sperimenterebbero un senso
di completezza quando, di fronte alla percezione di un divario psichico fra il sé
attuale, ossia ciò che essi pensano di essere, e il sé ideale, ossia ciò che essi
vorrebbero essere, riescono, tramite l’esibizione di “etichette” e l’appropriazione di
oggetti, a ridurre questo gap agli occhi degli altri. Le oggettualità esterne, in virtù
della loro natura rappresentazionale, fungono in questo caso da entità in grado di
colmare un vuoto interiore.
misure diverse, in tutte le marche: sincerità, eccitazione, competenza, sofisticatezza e rudezza. Cfr. Olivero, N., Russo, V., (2009), pp. 209-210.
30
Mettere in atto inconsciamente questo tipo di strategia compensatoria tesa a
nascondere preesistenti e durature mancanze del sé implica per gli autori
l’instaurazione di rapporti interpersonali non autentici, ma piuttosto improntati
solamente sull’esasperato bisogno del soggetto di essere visto e riconosciuto dagli
altri come individualità priva di imperfezioni e di quella stessa mancanza, vissuta
dal sé come limite. L’altro perde in questi casi il suo carattere di persona con cui
empatizzare, e diventa un mero specchio attraverso il quale controllare l’efficacia di
un processo di occultazione del sé reale e di sovrapposizione di una maschera
rappresentante il sé ideale (Wicklund, R., Gollwitzer, P., 1982). Esibire, in questo
senso, significa nascondere: la vergogna di mostrare le proprie mancanze viene
cancellata da un oggetto, un concetto, o una persona in grado di esprimere un
significato opposto alla propria carenza, e vicino invece a ciò che si vorrebbe
essere.
Tornando all’argomentazione di Russel Belk, è probabilmente a questo principio
che il filosofo fa riferimento quando ipotizza una relazione di proporzionalità
inversa fra la solidità del nucleo di base del sé e la necessità di acquisire entità
esterne da introiettare nel sé esteso: maggiore è il grado in cui un’individualità
poggia su basi certe e ancorate alla propria personalità, minore dovrebbe essere il
suo bisogno di fare affidamento a oggetti e personalità esterne al fine di definire e
proteggere se stessa; al contrario, una minore solidità di base e una minore
consapevolezza dei confini della propria identità sarebbero causa di un
atteggiamento del sé orientato all’incorporazione di oggettualità esterne in grado di
sopperire alle mancanze di base (Belk 1988)32
: potremmo parafrasare la questione
con un semplice “più siamo vuoti dentro, più tenteremo di essere ricchi fuori”. In
questa nuova ottica di pensiero, molti comportamenti d’acquisto troverebbero il
loro significato in un estremo tentativo del sé di trovare i propri confini non
precedentemente definiti sulla base di un sano sviluppo della personalità.
Facendo riferimento al lavoro di Fonagy esplicitato nel primo capitolo, possiamo
comprendere che ciò che viene definito “sano sviluppo del sé” è un processo
fondato su una corretta attribuzione di stati affettivi operata tramite il meccanismo
32
Cfr. “we may speculate that the stronger the individual’s unextended or core self, the less the need to acquire, save, and care for a number of possessions forming a part of the extended self”. Belk, R. (1988), p. 159.
31
di rispecchiamento: categorizzare uno stato affettivo come appartenente al sé o
all’altro è infatti ciò che sta alla base della costituzione di una mappa psichica che
rappresenti i confini del sé e funga da sentimento di base in grado di fornire al sé la
necessaria consapevolezza dell’estensione della propria identità di base, delle sue
caratteristiche, dei suoi limiti, del suo sviluppo temporale e di una precisa
distinzione fra sé e altro. In mancanza di questo processo abbiamo visto che il sé
non acquisisce la corretta percezione dei propri confini e introietta lo stato mentale
dell’altro portando alla costituzione di quello che Fonagy, con riferimento a
Winnicott, chiama non a caso il falso sé33
, una personalità basata sulla negazione di
questi stessi stati mentali (Fonagy, Gergely, Jurist, Target, 2002).
Possiamo ora capire che questo falso sé, che prende forma nelle zone di insicurezza
laddove manca una percezione dei propri confini e che come detto da Fonagy
<<prende in prestito ideali>> per colmare il proprio vuoto, coincide con la fragilità
del nucleo di base del sé e con il conseguente tentativo di ricorrere ad entità esterne
per proteggersi a cui fa riferimento Belk (Belk 1988). Il concetto di base è infatti il
medesimo: un sé poco sicuro dei propri confini e delle proprie caratteristiche
ricorrerà a oggetti, personalità e ideali esterni che gli permettano di trovare i suoi
stessi limiti, mascherando così il vuoto di personalità sottostante.
Ritornando all’esempio trattato nel primo capitolo, possiamo, a scopo meramente
didattico e mettendo fra parentesi per un momento la complessità di fattori che
concorrono alla formazione della personalità, ipotizzare che un soggetto il quale,
causa il reiterato comportamento evitante del genitore, non acquisisca
consapevolezza della propria richiesta d’affetto e tenda quindi a reprimere quel
sentimento imponendo a se stesso di assumere invece un comportamento a sua
volta evitante, dovrebbe fare di tutto per evitare l’identità di persona in cerca di
affetto: è probabile dunque che, per mascherare lo stato affettivo e il vuoto di
personalità sottostante ad esso, acquisirà ideali di forza e aggressività, orienterà i
33
Cfr. “un sé il cui stato costitutivo no ha ottenuto riconoscimento è un sé vuoto. Il vuoto riflette l’attivazione di una rappresentazione secondaria che manca delle connessioni corrispondenti con l’attivazione affettiva all’interno del sé costitutivo. L’esperienza emozionale sarà priva di significato, e l’individuo potrà ricercare altre figure potenti con cui fondersi, o ricercare l’induzione per causa esterna (attraverso droghe) di esperienze fisiche di attivazione per riempire il vuoto con una forza o ideali presi in prestito.” (Fonagy, Gergely, Jurist, Target, 2002), pp. 146-147.
32
suoi consumi e i suoi gusti in tale direzione, e prenderà come modelli di
identificazione personalità che esibiscano questi tipi di comportamento.
Una zona di insicurezza del sé contenente uno stato affettivo non compreso diventa
dunque terreno fertile per la ricerca di oggettualità esterne che, introiettate nel sé,
definiscano la personalità. Accade così che l’acquisto esasperato di oggetti, la cieca
adorazione di una personalità e l’espressione esacerbata di estremi ideali possano
rappresentare in questo senso modalità tramite cui il sé nasconde a se stesso e agli
altri un’insicurezza sottostante; essendo quest’area di insicurezza, come abbiamo
visto, territorio in cui non vi è confine fra un proprio sentire e quello di un altro, e
in cui regna sovrana la confusione, un qualcosa di esterno viene mentalmente
incorporato e sentito come proprio con la speranza che possa aiutare il sé a
ricostruire il proprio confine con l’altro definendo così la propria identità:
comprando un oggetto, piuttosto che attraverso l’identificazione con qualcuno, ho
infatti l’opportunità di ribadire una personalità, di esprimere una parte di me, e in
poche parole, di definirmi e posizionarmi rispetto agli altri. Maggiore sarà la mia
insicurezza, maggiore sarà la necessità di ricorrere a queste entità esterne per
definirmi.
Il riferimento a dimensioni oggettuali utilizzate per mascherare aspetti del sé viene
identificata in psicoanalisi con il concetto di strategia feticista: facendo riferimento
in questo ambito al brillante saggio scritto dalla psicoterapeuta americana Louise J.
Kaplan e intitolato “falsi idoli”, con il termine feticismo non si fa riferimento a un
comportamento attinente alla sola sfera sessuale, come si è soliti pensare, ma più in
generale ad un concetto che rimanda ad un qualsiasi atteggiamento di venerazione
per certi oggetti: il feticcio, in quest’ottica, diventa quindi la sintesi di tutto ciò che
fino ad ora abbiamo identificato come dimensione oggettuale incorporata nei
confini del sé per esprimere o mascherare parti del sé. Per la Kaplan, in particolare,
la strategia feticista è quel processo messo in atto dal soggetto per trasformare tutto
ciò che è immateriale, ambiguo e per sua natura incontrollabile, come possono
essere quelle emozioni e quegli stati affettivi non compresi, in qualcosa di
materiale, conosciuto, manipolabile e distante da sé. Nel feticismo sessuale, ad
esempio, la forza pulsionale dell’erotismo, ambigua e mai compresa fino in fondo,
costituisce un’ombra pericolosa che viene esorcizzata e mascherata dalla presenza
33
di un oggetto su cui concentrare le proprie attenzioni e i propri desideri: proiettando
infatti su un’entità esterna un qualsiasi sentimento imprevedibile e pericoloso, il
soggetto allontana l’ignoto da sé, prendendone le distanze e sperimentando una
sensazione di controllo su di esso. Naturalmente, questo atteggiamento inconscio
pervade molti istanti della nostra quotidianità; come ci ricorda la Kaplan, <<la
nostra vita quotidiana è basata sulle culture del feticismo che sostituiscono i valori
spirituali con oggetti materiali che catturano la nostra attenzione con il loro
scintillio in modo da nascondere più agevolmente il loro contenuto traumatico>>34
.
La smodata venerazione per oggetti, ma anche per persone, ideali e concetti che
vengono, in termini di marketing, brandizzati, e cioè trasformati in icone, è in
buona parte rimandabile a questo bisogno di coprire un sentimento sottostante
vissuto come imprevedibile e inquietante perché, come direbbe Fonagy, non
mentalizzato e non rispecchiato; senza una capacità riflessiva di comprendere i
propri stati emotivi l’individuo è infatti facilmente portato a percepirli come ignoti
e quindi pericolosi, ricorrendo così a dimensioni oggettuali che deviino la sua
attenzione, reprimano il sentire, mascherino le sue carenze, ed esprimano parti del
sé: <<quando l’oggetto del desiderio è vivente e incontrollabile, il desiderio, per
proteggersi si posa su un oggetto inanimato.>>35
Il brand e l’oggetto rivestono in questo senso l’importanza di etichette da
sovrapporre alle ferite del sé per coprire un doloroso sentire sottostante: la stessa
Kaplan fa riferimento al marketing ricordando che <<senza saperlo distintamente,
la sterile cultura contemporanea fa leva su questi timori primordiali per sviluppare
strategie di marketing che inducano i consumatori ad acquistare molte più merci di
quante gliene occorrerebbero>>36
Concludendo questo capitolo, abbiamo dunque visto come le dimensioni del sé e le
conseguenti percezioni di una propria unicità e di un proprio sviluppo temporale cui
faceva riferimento Ramachandran siano flessibili e malleabili rappresentazioni
inconsce che, essendosi sviluppate sulla base di un corretto processo di
categorizzazione, possono anche essere alla base di certi comportamenti d’acquisto
tesi non solo all’incorporazione di oggetti esterni mirata a dare una veste sensibile e
34
Kaplan, L.,J., (2006), p. 17. 35
Ivi, p. 147. 36
Ivi, p, 165.
34
rappresentativa alle proprie parti e caratteristiche, ma anche a proteggere e
difendere il sé nelle sue zone più vulnerabili, cercando la ricostruzione di un
confine e di una personalità laddove non vi sia stato un corretto processo di
sviluppo di distinzione fra il sé e l’altro.
35
3. L’ACQUISTO COMPULSIVO: MODELLI DI SPIEGAZIONE
DEL COMPORTAMENTO DI DIPENDENZA.
Dopo aver attentamente analizzato il rapporto fra il sé e gli oggetti d’acquisto, e
prima di dedicarci allo studio dell’influenza esercitata dalla società dei consumi su
questa relazione, è giunto ora il momento di concentrare le nostre attenzioni su un
tema che svolge un ruolo centrale nei comportamenti d’acquisto, e non solo: la
dipendenza.
Obiettivo di questo capitolo non è ovviamente fornire una panoramica completa di
tutti gli ambiti in cui questo concetto può essere studiato, e neanche rintracciare un
quadro esaustivo delle sue possibili cause, ma bensì, coerentemente con i
precedenti capitoli, analizzare la possibile relazione fra il comportamento
dipendente e la sfera degli acquisti, correlazione che trova la sua attuazione in un
fenomeno che negli ultimi decenni è stato chiamato acquisto o shopping
compulsivo.
Prima di addentrarci nell’analisi di questo fenomeno, è tuttavia necessario porre
come doverosa premessa un rapido quadro generale del concetto di dipendenza: se
è senza dubbio vero che con questa espressione, attualmente, si è sempre soliti far
riferimento ad un qualsiasi comportamento compulsivo di ricerca di una
determinata sostanza o ad una reiterata messa in atto di un comportamento, ed è
dunque da intendersi come un concetto che racchiude in sé una serie di molteplici
significati che vanno ben oltre la sfera attinente agli acquisti e gli intenti di questo
elaborato, è però fondamentale sottolineare che tradizionalmente il termine
dipendenza veniva esclusivamente usato in riferimento al reiterato abuso di
sostanze alcooliche o tossiche da parte di un individuo non in grado di esercitare un
controllo su questa azione (Pani, Biolcati, 2006).
Nonostante il suo significato originario affondi quindi le radici in un contesto di
abuso di alcool o droga, tuttavia, negli ultimi decenni, il concetto si è esteso fino a
inglobare una serie di determinate azioni non per forza orientate all’assunzione di
tali determinate sostanze: in particolare, in ambito psicologico, a fianco del
tradizionale modo di intendere la dipendenza, ha fatto la sua comparsa il concetto di
“addiction”, termine con il quale recentemente si è soliti designare una condizione
generale di <<dipendenza psicologica che spinge alla costante ricerca dell’oggetto,
36
dell’attività, senza i quali l’esistenza dell’individuo sembrerebbe perdere di
senso>>37
.
Il concetto di dipendenza esce quindi da una condizione di forte imprescindibilità
dalla presenza di una concreta sostanzialità per arrivare invece a includere tutte le
generiche circostanze in cui vi è un abuso, da parte del soggetto, di un determinato
comportamento, ripetuto in modo incontrollato poiché dettato da un sottostante
bisogno urgente che richiede immediato soddisfacimento.
Ciò che è importante rimarcare per il prosieguo della nostra analisi è che,
indipendentemente dall’oggetto del comportamento dipendente, vi sono importanti
aspetti che accomunano le recenti “addictions” con le tradizionali dipendenze:
primo fra questi lo stato di forte desiderio compulsivo verso il raggiungimento
dell’oggetto/comportamento, accompagnato secondariamente da un malessere
dovuto all’astinenza da esso e da correlate radicali alterazioni del tono dell’umore
in corrispondenza dell’inizio o della fine dell’attività dipendente; quest’ultima,
inoltre, recita un ruolo di dominanza nel pensiero e negli atteggiamenti del
soggetto, arrivando a interferire con la quotidianità della sua vita e rischiando di
compromettere non solo la stabilità psichica del soggetto stesso, ma anche le
relazioni che esso intrattiene con coloro che gli stanno vicino (Pani, Biolcati, 2006).
Così inteso, il comportamento dipendente può quindi arrivare a includere i più
svariati ambiti di applicazione, che vanno dal gioco d’azzardo a internet, fino allo
shopping, sul quale concentriamo i nostri studi in questo capitolo; se infatti, come
abbiamo precedentemente visto, l’acquisto è sicuramente un importante momento
di espressione del sé grazie alla sua capacità da una parte di offrire al consumatore
un mezzo di identificazione di parti del sé, e dall’altra di porsi come potente
strumento comunicativo tramite il quale manifestare un determinato ruolo sociale,
non è finora chiaro come, e per quali ragioni, esso possa passare da rituale
momentaneo e episodico quale comunemente è, a vera e propria ossessione ripetuta
anche contro la propria volontà.
Posta quindi come premessa inamovibile del discorso la rilevanza dei beni materiali
nell’auto-definizione del sé e nella costruzione di una propria manifestazione
espressiva vicina a un sé ideale tanto agognato quanto internamente irraggiungibile,
37
Pani R., Biolcati R., 2006, pp. 3-4.
37
e messo momentaneamente fra parentesi il considerevole impatto dell’influenza
sociale nel far sì che questi comportamenti dipendenti vengano dirottati sui
consumi, è possibile tracciare un quadro concettuale che sia in grado di fornire una
spiegazione il più possibile completa e corretta dell’acquisto compulsivo?
Nonostante qualche sporadico cenno di interesse a questo tema sia stato riscontrato
anche all’inizio del ventesimo secolo38
, la psicologia ha provato seriamente a
rispondere a questa domanda solo in tempi recenti, dove la tematica dello shopping
compulsivo è diventata di stringente attualità grazie anche a una serie di indagini
specifiche sull’argomento condotte sia in ambiti di competenza prettamente
psicologica e psichiatrica, che in campi di studio attinenti alla sfera del marketing,
merito di un sempre crescente interesse sul tema da parte soprattutto degli studiosi
di mercato; naturalmente, trattandosi ancora di un’area di ricerca abbastanza
giovane, soprattutto se confrontata con gli studi relativi ad altre dipendenze, è
impossibile pervenire ad un esauriente elenco di tutte le sue caratteristiche, ma
ricerche scientifiche e resoconti clinici sono abbastanza numerosi per poter
permettere un discorso abbastanza preciso sul tema39
.
Malgrado i dati empirici sembrino mostrare una maggiore presenza di questo
disturbo nella popolazione femminile40
, il fenomeno è segnalato in crescita anche
nel genere maschile41
, a testimonianza del fatto che la differenza di genere finora
riscontrata non è tanto rimandabile a una diversità intrinseca nella natura di uomo o
38
I primi a parlarne furono Kraepelin (1915) e Bleuler (1924), che coniarono il termine <<oniomania>> per descrivere la mania degli acquisti, considerandola appartenente alla categoria degli impulsi patologici. Dopo di loro, tuttavia, non se ne è parlato per più di 60 anni. Cfr. Pani R., Biolcati R., 2006, p. 22. 39
Per un buon elenco delle principali fonti bibliografiche sul tema dell’acquisto compulsivo, si veda Pani, R., Biolcati R., 2006, p.25. 40
Vi sono numerose evidenze empiriche a sostegno di una prevalenza del genere femminile per quanto riguarda il problema dello shopping compulsivo: “Nello studio di D’Astous e Tremblay (1988), le donne hanno ottenuto un punteggio significativamente più elevato alla scala che valuta lo shopping compulsivo. Inoltre, quasi tutti i casi di acquisto compulsivo, presentati in letteratura psicoterapeutica, riguardano donne. Nell’indagine compiuta da Scherhorn, Reisch e Raab (1990) nella Germania occidentale, le donne hanno ottenuto punteggi più elevati al German Addictive Buying Indicator rispetto agli uomini” Pani, R., Biolcati, R. (2006), p.36 41
“lo shopping compulsivo rimane un disturbo più rappresentato nella popolazione femminile, seppur ci sembra, dalla nostra pratica clinica, che in Italia l’aumento registrato, negli ultimi cinque anni, vada a carico percentualmente più degli uomini che delle donne. I dati di cui siamo in possesso sono ricavati da esperienze cliniche più che strettamente sperimentali e sospettiamo che tale aumento sia di natura socioculturale, parallelo al cambiamento che vede gli uomini più attenti all’estetica e a una sorta di identificazione con l’atteggiamento femminile” Pani, R., Biolcati, R. (2006), p.37
38
donna (teorie queste che rischiano di aprire un pericoloso dibattito sull’innatismo
delle differenze fra i sessi) quanto ad un’influenza sociale dettata da pubblicità,
mercato e coscienza collettiva, che tradizionalmente associano maggiormente alle
donne l’attività dello shopping.
Per comprendere da più vicino il fenomeno dello shopping compulsivo, facciamo
ora riferimento a queste ricerche: per quanto riguarda una precisa definizione del
problema, possiamo innanzitutto dire che vi è in letteratura un ampio consenso di
base nel determinare l’acquisto compulsivo come un disturbo che non consiste
tanto nell’episodico e comune impulso a comprare che produce improvvisi e
singolari atti di acquisto non pianificati; piuttosto, esso viene definito come la
perdita cronica del controllo su questi impulsi, che evolvono quindi in un pattern
ripetitivo in grado di assorbire drammaticamente l’individuo in una catena di
acquisti, reiterata fino al punto in cui essa determina effetti dannosi per il soggetto
stesso e per le persone che gli stanno vicine. Alla pari delle altre dipendenze, il
soggetto che sviluppa una dipendenza nei confronti degli acquisti sperimenta quindi
un desiderio ossessivo di ricerca dell’attività dello shopping, con una relativa
compulsione a comprare in continuazione che, seppur spesso riconosciuta come
esagerata, solo in pochi casi sfocia in una consapevolezza dell’individuo riguardo la
gravità della problematica.
Come primo aspetto del disturbo, ci pare importante sottolineare che l’acquisto di
beni è in questi casi indipendente dalla funzionalità di essi: ciò che emerge dalle
ricerche indica infatti che i soggetti compulsivi comprano oggetti non perché utili di
per sé, ma perché spinti dal desiderio frenetico e irresistibile di comprare più di
quanto effettivamente necessitano (Raab, Elger, Neuner, Weber, 2010); la maggior
parte di articoli acquistati da questi soggetti viene infatti usata in minima parte, se
non addirittura conservata intatta e chiusa in pacchetti senza poi mai essere
utilizzata42
.
Questa svalutazione della funzionalità del bene induce a pensare che, similmente a
quanto avviene nelle altre “addictions”, i soggetti affetti da shopping compulsivo
sviluppino una dipendenza non tanto verso una concreta sostanza esterna quale può
essere droga o alcool piuttosto che beni materiali, quanto piuttosto verso un preciso
42
Cfr. Pani, R., Biolcati, R., (2006), p. 41.
39
comportamento, in questo caso l’acquisto, che viene ossessivamente ricercato; sono
infatti numerose, a questo proposito, le testimonianze di soggetti che descrivono
l’esperienza dello shopping in sé come eccitante e portatrice di soddisfazione,
felicità e benessere43
: << alcuni pazienti dipingono lo shopping come qualcosa di
eccitante, di pazzo, che dà un brivido, il cosiddetto thrilling o buzz […] Alcuni
soggetti, interrogati sulle sensazioni corporee, hanno parlato di vibrazioni, di calore,
vampate, energia che si diffonde>>44
.
Più che dal possesso dei beni in sé, si può quindi diventare dipendenti dall’atto
d’acquisto: è l’azione, più che l’oggetto, la determinante della compulsione. A
dimostrazione di questo concetto, centrale per comprendere la dipendenza,
sembrano esserci anche alcune evidenze neurologiche: in un recente esperimento
svolto in presenza di soggetti affetti da shopping compulsivo, i ricercatori idearono
un contesto sperimentale volto ad analizzare l’attività di due aree cerebrali, che,
come vedremo dettagliatamente più avanti, vengono spesso associate agli atti
d’acquisto, e non solo: il nucleo accumbens (NAcc) e l’insula. Se la prima è infatti
notoriamente coinvolta durante i processi che generano piacere nell’individuo,
come ad esempio la semplice presentazione di una ricompensa, la seconda sembra
invece giocare un ruolo fondamentale nei processi di aspettativa del dolore e del
dispiacere, quale può essere ad esempio la percezione del prezzo da pagare per
l’ottenimento di un bene (Babiloni, Meroni, Soranzo, 2007; Lugli, 2010; Knutson,
2007). Partendo da queste conoscenze, un gruppo di ricercatori coordinato dal
professore tedesco Gerhard Raab, radunò un gruppo di 49 donne, 23 delle quali
riconosciute grazie a diversi test come affette da shopping compulsivo, e studiò,
tramite la tecnica di visualizzazione cerebrale nota come FMRi (risonanza
magnetica funzionale), l’attività del nucleus accumbens e dell’insula durante un
semplice compito: a tutti i partecipanti, compulsivi e non, venivano mostrate in un
primo tempo le immagini di vari prodotti, successivamente accostate al loro prezzo;
poi, in un terzo momento, gli veniva chiesto, per ogni oggetto mostrato, di decidere
se acquistarlo o meno.
43
<<molti sostengono che solo l’attività dello shopping possa farli sentire meglio>> Pani, R., Biolcati, R., (2006), p. 40 44
Cfr. Ivi, p. 47
40
Secondo le previsioni teoriche dell’esperimento, i soggetti compulsivi, solitamente
più inclini ad agire d’impulso acquistando beni senza badare a spese, avrebbero
dovuto manifestare, rispetto ai soggetti non-compulsivi, una maggiore attivazione
del nucleo accumbens durante la presentazione dei prodotti, a testimonianza di un
maggior coinvolgimento dei processi legati all’ottenimento di una ricompensa, e
successivamente una minore attivazione dell’insula, segno di una scarsa percezione
del dispiacere legato al prezzo del prodotto.
I risultati empirici hanno effettivamente dato ragione a queste previsioni:
confrontando i soggetti non-compulsivi con quelli compulsivi, questi ultimi hanno
sistematicamente mostrato una maggiore attività del NAcc durante la semplice
presentazione dei prodotti e una minore attività dell’insula durante la
visualizzazione dei prezzi relativi agli articoli acquistabili: segno che effettivamente
i soggetti compulsivi, di fronte alla possibilità di un generico e non pianificato atto
d’acquisto, sperimentano una vera e propria esigenza di comprare, molto più
intensa di quella provata dagli altri individui, e da mettere in atto anche a costi
proibitivi. (Raab, Elger, Neuner, Weber, 2010.)
Quanto detto finora sulla centralità di questa azione nello shopping compulsivo si
sposa con quanto detto nei capitoli precedenti, nei quali indicavamo come
componente fondamentale dei comportamenti d’acquisto l’atto di incorporazione di
un’oggettualità esterna nei confini del sé; il piacere dello shopping sembra infatti
intrinsecamente legato all’azione dell’acquisto come importante momento che ci
permette di entrare, mediante un’estensione dei propri limiti, in contatto con una
oggettualità esterna in grado di esprimere una parte del nostro sé.
Se, come ipotizziamo, questo piacere è la base di molti comportamenti d’acquisto, è
da questo medesimo piacere che gli individui soggetti allo shopping compulsivo
sviluppano una dipendenza; l’atto di rimodellare i propri confini incorporando
entità in grado di dare loro una nuova definizione e posizione nello spazio di
interazione psichica e sociale diventa una attrazione irresistibile tale che alcuni
soggetti ne diventano dipendenti. Non è un caso, in questo senso, che in cima alla
classifica dei beni maggiormente acquistati durante lo shopping compulsivo vi
siano prodotti principalmente legati all’apparenza e all’immagine esteriore, come
41
vestiti, scarpe e gioielli45
(Dittmar, Drury, 1998); tutti questi sono infatti oggetti
molto personali, che a detta degli acquirenti sono in grado di modificare
l’immagine di se stessi che si intende mostrare: <<con questo acquisto posso far
sembrare diverse le mie gambe, o il soggiorno di casa, posso fare in modo che altri
mi vedano diversa>>46
. Stando alle testimonianze, il nucleo di piacere dello
shopping compulsivo risulta quindi essere il momento dell’acquisto, vissuto dai
soggetti come una scossa libidica dovuta all’incorporazione di un determinato
prodotto, ricco di importanza simbolica, nell’immagine del sé.
Com’è possibile, però, che un semplice piacere come quello procurato dall’attività
dello shopping, da momento di svago e occasionale opportunità di ridefinizione dei
limiti del sé, diventi invece una vera e propria ossessione in grado di dominare la
mente di migliaia di persone influenzandone la quotidianità?
Rispondere a questa domanda in modo esaustivo non è certo facile e neanche di
nostra stretta competenza, ma possiamo provare a raccogliere una serie di
motivazioni derivanti sia dall’osservazione clinica, sia da studi neurologici.
Un primo elemento di interesse deriva da quanto detto poco fa: lo spostamento
concettuale del focus dei comportamenti d’acquisto dall’oggetto in sé all’atto
dell’acquisizione è infatti in grado anche di spiegare l’eterna insoddisfazione
provata dopo l’acquisto, che come vedremo successivamente, viene da molti
ritenuta il motore della società consumistica; se infatti ciò che ci muove a comprare
determinati oggetti è il piacere legato all’attività dell’acquisto e il relativo desiderio
di possesso del bene precedente alla sua acquisizione, è inevitabile che una volta
terminata questa azione ed entrati in una fase di contatto definitivo con l’oggetto, il
piacere e il desiderio subiranno una progressiva diminuzione per poi riaccendersi
solo grazie alla spinta verso l’ottenimento di altri oggetti: il tutto in un circolo
vizioso che ci rende dipendenti dall’attività dell’acquisto.
45
Cfr. Pani, R., Biolcati, R., (2006), p. 40. In una ricerca svolta da McElroy, Philips, Keck risalente al 1994, i prodotti più acquistati durante gli episodi di shopping compulsivo risultano essere vestiti (95,8%), scarpe (75,0%), gioielli (41,7%), articoli per make-up (33,3%). Solo successivamente subentrano altri tipi di prodotti come articoli da collezione in generale (25%), antichità (25%), dischi (20,8%), arte (16,7%), auto e accessori (16,7%), articoli per la casa e libri (12,5%). 46
Ivi, p. 48.
42
Sintetizza bene la questione la Franchi, quando citando Albert Hirschman, ricorda
che:
<< Hirschman spiega la spinta al consumo sulla base del sentimento
di delusione che nasce nel momento stesso in cui un individuo entra
in contatto con un bene: il progetto sotteso all’acquisto è basato sui
suoi desideri, in esso inserisce le immagini degli oggetti disponibili;
poiché questi non potranno mai soddisfare il desiderio proiettato
sull’oggetto materiale, ne deriva un meccanismo di delusione che si
perpetua a ogni atto d’acquisto>>47
Se questa argomentazione ha senza dubbio il pregio di ricordare in primo luogo che
il ruolo chiave rivestito dagli oggetti nei processi d’acquisto è più che altro dovuto
alla loro capacità di offrire forme rappresentazionali grazie alle quali il sottostante
desiderio di possesso trova una necessaria estrinsecazione, essa tuttavia mette in
luce un meccanismo di eterna insoddisfazione, dovuto alla prevalenza del piacere
dell’azione dell’ottenimento di un bene sul possesso del bene stesso, che è però
presente in ognuno di noi, e anche in ambiti che vanno ben oltre la sfera degli
acquisti.
Il piacere legato all’inseguimento di qualcosa, pronto a spegnersi quando ciò viene
raggiunto, è sì un elemento che spinge le persone a crearsi continui obiettivi e, nel
caso degli acquisti, a comperare sempre nuovi oggetti che siano in grado di
restituire la momentanea scossa data dall’entrata in contatto con un’entità esterna
ricca di significato simbolico per il sé, ma non è però sufficiente a spiegare i
comportamenti di dipendenza da questo piacere: tutti noi infatti ricerchiamo
occasionalmente il piacere legato alla novità e all’inseguimento di essa, ma solo
alcuni di noi diventano schiavi di inseguimenti continui di oggettualità esterne che
finiscono poi con il privare ai soggetti stessi la possibilità di godersi ciò di cui
realmente sono già in possesso.
La mera attrattività dell’atto di appropriazione di qualcosa di esterno e il correlato
desiderio legato al fascino di questo inseguimento non sono quindi condizioni
47
Franchi, M., (2007), p.23. Il riferimento a Hirschman è tratto da Hirschman, A.O., (1983), Ascesa
e declino dell’economia dello sviluppo e altri saggi, trad. it. A cura di A. Ginzburg,
Rosenber&Sellier, Torino.
43
sufficienti per dare origine a una dipendenza da questa tensione e attività; devono
esserci altri fattori che concorrono alla formazione del comportamento compulsivo.
Il DSM IV-TR, ossia la versione attualmente in vigore del manuale diagnostico e
statistico dei disturbi mentali, ci aiuta a comprendere l’origine delle compulsioni,
definendole innanzitutto come <<comportamenti ripetitivi o azioni mentali il cui
obiettivo è quello di prevenire o ridurre l’ansia o il disagio e non quello di fornire
piacere o gratificazione>>48
e precisando poi che <<la persona si sente spinta a
mettere in atto la compulsione per ridurre il disagio che accompagna un’ossessione
o per prevenire qualche evento o situazione temuti>>49
.
Attenendoci a questa definizione, possiamo quindi primariamente identificare
l’azione compulsiva come un atto che, indipendente dalla ricerca del piacere, trova
invece la sua principale finalità nell’alleviare un disagio sottostante; essa si
configura infatti come una <<possibilità di allontanamento e negazione, seppur
momentanea, da negativi sentimenti di sé>>50
, permettendo inoltre all’individuo di
spostare la sua attenzione su differenti attività transitorie ed evasive che vengono
ritenute in grado, in un modo quasi magico, di ridurre il senso di paura e l’ansia.
È ormai del tutto evidente che non è possibile separare questi ultimi stati del sentire
dai comportamenti compulsivi; più che fenomeni correlati, l’ansia e la paura si
pongono infatti come potenti cause della dipendenza: è questo il caso dei soggetti
che, non tollerando alcune sensazioni dolorose poiché vengono vissute come prove
di inadeguatezza personale, sperimentano in corrispondenza di queste un forte stato
di ansia e paura e un immediato bisogno di rimpiazzare tali pericolosi sentimenti
con attività a loro più congeniali (come può essere l’atto di acquisto), rischiando
così di sviluppare un comportamento dipendente da questo stesso atto.
Lo stesso shopping compulsivo, inserendosi così in un quadro più ampio di
dipendenze che vanno dal gioco d’azzardo all’abuso di droghe, dall’alcolismo ai
disordini alimentari, può quindi essere definito come <<un cronico, ripetitivo
acquistare che si verifica in risposta a eventi o sentimenti dolorosi>>51
o come un
transitorio ed effimero <<rimedio contro il senso di vuoto e la depressione, che si
48
Pani, R., Biolcati, R., (2006), p. 31. 49
Ibidem. 50
Ivi, p.65. 51
Ivi, p.28.
44
cerca di colmare attraverso l’acquisto di beni>>52
; non solo, infatti, il circolo della
dipendenza ha il risultato di coprire momentaneamente un doloroso sentire
mediante azioni che esauriscono il loro effetto benefico nel momento stesso in cui
vengono messe in atto, ma anche quello di rinchiudere la vita mentale
dell’individuo in una concatenazione di atti che, tanto prevedibile quanto
rassicurante, possa costruire una sorta di riparo dal terreno psicologico del vuoto e
dell’incerto contatto con il quotidiano.
Lungi dall’essere un mero accumulo di beni, lo shopping compulsivo trova quindi
il suo senso profondo in una tensione ad agire finalizzata a mascherare un’altra
pericolosa azione, intendendo con questa espressione un qualsiasi evento mentale
ritenuto pericoloso; in quali condizioni e per quali motivazioni questo meccanismo
difensivo di dipendenza investe la sfera degli acquisti piuttosto che altri ambiti
quali il gioco d’azzardo, l’alcool ed altri oggetti che si prestano a questo tipo di
attività, è difficile a dirsi: sicuramente vi sono da una parte, come vedremo nel
prossimo capitolo, una serie di variabili e trasformazioni sociali che hanno costruito
un contesto storico-culturale adatto per lo sviluppo di questi comportamenti, e
dall’altra un insieme di fattori di tipo individuale che spingono a questo tipo di
dipendenza solo soggetti già inclini, per gusti e predisposizione personale, a un
certo tipo di acquisti.
Inoltre, l’importanza del comprare nella vita psichica di ognuno di noi è stata già
messa in evidenza nei capitoli precedenti; l’acquisto rappresenta un’estensione dei
propri confini, l’estrinsecazione di parti inespresse e l’espressione di zone di
insicurezza del sé, fornendo inoltre una dimensione tangibile che permette
all’individuo di sentire la propria integrità e di fondare la propria immagine sulla
costruzione di un’identità ben visibile agli altri. Acquistando beni di consumo,
l’individuo può acquisire un’immagine di sé flessibile e modificabile a seconda
delle esigenze e del momento: il nuovo acquisto viene visto dalla persona affetta da
shopping compulsivo come una possibile svolta per rendere se stessi diversi,
migliori e più stimati agli occhi degli altri.
Non stupisce quindi che l’attività dell’acquisto possa essere oggetto frequente di
comportamenti dipendenti, offrendosi come categoria ricca di simboli attraverso la
52
Pani, R., Biolcati, R., (2006), p.29.
45
quale la tattica difensiva della dipendenza agisce: <<gli individui addicted si
sentono ricompensati dalle spese, […] si sentono eccitati, sognano di appartenere a
gruppi esclusivi, di essere ricchi, belli e affascinanti; […] comprare dà loro un
senso di sicurezza e funziona da stimolante che fronteggia la noia del vivere; si
tratta di una droga universale>>53
.
Prima di passare a una trattazione neurologica del problema, concludiamo questa
parte accennando alle possibili origini del disturbo; senza entrare in dettagli clinici,
quanto abbiamo ricordato nel primo capitolo a proposito del meccanismo di
regolazione affettiva di Fonagy può essere utile per comprendere la base anche di
alcuni comportamenti dipendenti; individui che, in virtù di una mancata costruzione
di confini fra stati mentali propri e stati mentali altrui, non hanno sviluppato una
corretta funzione riflessiva in corrispondenza di certi stati del sentire, perdono
infatti la capacità di esercitare controllo su questi stessi affetti, i quali, esperiti come
pericolosi stati non appartenenti al sé, vanno inesorabilmente a formare determinate
zone di insicurezza del sé che non solo, come abbiamo visto, sono alla base di
alcuni comportamenti d’acquisto finalizzati a colmare questo vuoto, ma possono
anche dare origine ad alcune dipendenze: un bambino non aiutato a sviluppare la
funzione riflessiva e incoraggiato invece ad un ritiro quasi autistico verso stati
mentali alternativi, messi in atto per evitare di provare emozioni devastanti poiché
incontrollabili, sarà infatti propenso ad adottare posizioni passive rispetto alla realtà
e comportamenti dipendenti di fuga dal puro contatto con essa.
Vi è inoltre da sottolineare che disturbi nella dimensione della continuità del sé
possono facilmente essere messi in relazione a comportamenti compulsivi: se infatti
è caratteristica tipica di questi ultimi una ricerca continua dell’oggetto della
dipendenza, ciò può anche essere dovuto ad uno scarso senso di continuità
temporale e ad una poca fiducia in se stessi nel ritrovare tale oggetto in un futuro:
da qui l’idea che la separazione sia un evento traumatico da evitare per mezzo di un
contatto diretto che si trasforma presto in una dipendenza da tale oggetto.
Concludendo questa parte, siamo così ora in grado di comprendere come una
generica dipendenza da una continua ed ossessiva ricerca di stimoli esterni in grado
di catturare la nostra attenzione e di porci come passivi spettatori di fronte ad essi
53
Pani, R., Biolcati, R., (2006), p. 49.
46
non sia altro che un’efficace modalità di fuga messa inconsciamente in atto per
allontanarsi da un doloroso sentimento sottostante che non viene affrontato;
l’occasione di un’attività del soggetto volta a comprendere il proprio sentire viene
così scambiata per una condizione di passività della mente nel farsi trascinare da
una serie di scosse transitorie in grado di annullare l’ansia.
Se la dipendenza risulta essere una delle modalità utilizzate dalla nostra mente per
evitare una paura interna, e suona quindi come un’evoluzione di un più primitivo
istinto umano quale la fuga di fronte al pericolo, siamo in grado di comprendere
quale circuito celebrale sia responsabile di questo tipo di operazione?
La risposta non è univoca, e varia a seconda che si parli di dipendenza da sostanze
o da comportamenti. Se infatti nel primo caso vi sono sufficienti elementi di
spiegazione intrinsecamente legati alla sostanza stessa, nel secondo la situazione è
più oscura e difficile da delineare; faremo a tal proposito riferimento agli studi in
merito del neuroscienziato americano Read Montague, il quale con una brillante
esposizione teorica ipotizza l’estensione del modello di Redish riguardante la
dipendenza da droghe anche alle dipendenze dai comportamenti.
Il punto di partenza dell’intero lavoro di Montague è lo studio dei neuroni
dopaminici: raccolti a grappolo in piccoli gruppi nel tronco encefalico, questo tipo
di neuroni presente in un numero piuttosto esiguo di unità, è connesso con diverse
aree celebrali e trasmette loro, attraverso scariche (bursts) di dopamina, un segnale
orientato a guidare l’organismo verso una ricompensa prevista. Come sottolinea
Montague, il sistema dopaminico fornisce al cervello informazioni in ogni istante,
grazie ad un meccanismo di trasmissione facilmente codificabile:
“le scariche nell’attività degli impulsi significano: “la ricompensa
supera le aspettative”; le pause: “la ricompensa è inferiore
all’attesa”; infine, l’assenza di variazioni: “la ricompensa equivale a
quanto ci si aspettava”. Tali neuroni emettono di continuo
informazioni, anche quando non modificano la frequenza di
riferimento degli impulsi”54
54
Montague, R., (2006), p. 107. La spiegazione del funzionamento dei neuroni dopaminergici è
principalmente dovuta agli studi pioneristici di Wolfram Schultz, un neuroscienziato che all’inizio
degli anni ’70, studiando le cellule celebrali delle scimmie, notò che i neuroni dopaminergici si
attivavano subito prima che una scimmia ricevesse una gratificazione come ad esempio una pallina
di cibo o un pezzo di banana. Cfr. Lehrer J., (2009), p. 31.
47
Questo costante segnale, prodotto dalla codifica continua di uno scarto fra la
situazione presente e le aspettative future basate sull’esperienza passata, è detto
errore per predizione della ricompensa, ed è quindi reso possibile grazie ad una
duplice informazione che giunge al sistema: da una parte un feedback che
rappresenta l’esperienza immediata e che informa sulla situazione qui e ora vissuta
dal soggetto (<<che esperienza sto avendo adesso?>>55
), e dall’altra un giudizio a
lungo termine sul futuro (<<che esperienza è probabile che io abbia nel
futuro?>>56
). Il sistema dopaminergico, confrontando quindi la condizione presente
con quella ipotizzata come possibile, è in grado di fornire un segnale diverso a
seconda che la prima sia ritenuta migliore, uguale o peggiore della seconda.
In base a questo segnale, il cervello è in grado di costruire una mappa delle azioni
potenziali associando ad ognuna di esse un grado di desiderabilità legato alla
ricompensa predetta dal flusso dei neuroni dopaminici, la cui attività è quindi
decisiva nell’orientare il processo decisionale dell’individuo; ed è proprio questa
capacità del sistema dopaminergico di fornire al cervello gli obiettivi da perseguire
la base della correlazione fra questo tipo di neuroni e la corteccia prefrontale.
Come ricordato da Montague, infatti, quest’ultima è tradizionalmente associata ad
un ruolo di centrale importanza nella formazione e nel mantenimento degli scopi
generali dell’individuo; assumendo, come attualmente si ritiene in letteratura, che
gli obiettivi siano configurazioni stabili di attività neurale (patterns) rappresentati
nella corteccia prefrontale, quest’ultima area svolgerebbe non solo un compito di
selezione fra diversi pattern (ossia diversi scopi) in competizione fra di loro, ma
anche di stabilizzazione della configurazione selezionata, e infine di trasmissione di
questa informazione ad altre aree celebrali.
Nel compiere quest’attività di selezione degli obiettivi da perseguire, è stato notato
(da un gruppo di studiosi formato da O’Ewilly, Cohen e Braver) che la corteccia
prefrontale può agire sia in solitaria, chiudendo, secondo quel processo denominato
controllo del gating, il flusso di informazioni proveniente da altre aree celebrali, sia
dialogando con altre parti del cervello, permettendo tramite lo spegnimento del
cosiddetto scudo anti-informazione, l’accesso di segnali provenienti da esse.
55
Montague, R., (2006), p.102. 56
Ibidem.
48
La correlazione fra questa attività della corteccia prefrontale e il sistema
dopaminico è individuabile nella capacità di quest’ultimo di alterare il processo di
selezione e mantenimento degli scopi: secondo l’ipotesi del controllo dopaminico
del gating, sviluppata dal medesimo gruppo di studiosi a cui fa riferimento
Montague, una scarica di dopamina sarebbe in grado infatti di abbassare lo scudo
per le informazioni della corteccia prefrontale, facendo sì che l’informazione
corrente stabilisca un nuovo scopo. In questo modo la dopamina segnalerebbe la
presenza di una possibile ricompensa prevista dall’organismo e manderebbe il
segnale alla corteccia, che prenderebbe in considerazione il nuovo possibile
obiettivo: <<è proprio il tipo giusto di segnale da impiegare per abbassare lo scudo
per le informazioni e far sì che la corteccia prefrontale prenda in considerazione un
altro obiettivo! Esso dice alla corteccia che potrebbe accadere qualcosa di meglio
del previsto, e la prepara a cercare un nuovo scopo>>57
.
Che relazione c’è fra tutto questo e la dipendenza? La risposta è in questo caso
abbastanza immediata: abbiamo visto come i neuroni dopaminergici siano decisivi
nell’orientare il comportamento comunicando all’organismo quali scopi perseguire
e spingendolo a considerare le azioni che offrono una maggiore ricompensa
immediata; nella maggior parte dei casi, però, quando questi neuroni incontrano
ripetutamente la medesima ricompensa in un breve lasso di tempo, vanno incontro
ad un progressivo stato di assuefazione dovuto al fatto che, aspettandosi la
ricompensa stessa, lo scarto fra la situazione attuale e quella attesa diminuisce, e la
scarica dopaminica, da uno stato di flusso in cui <<la ricompensa è superiore alle
attese>>, si interrompe poiché <<la ricompensa equivale a quanto ci si aspettava>>.
Questo è ciò che avviene ad esempio con ricompense primarie come cibo, acqua e
sesso, ma non solo: in un certo periodo di tempo successivo all’ottenimento
dell’oggetto desiderato, i neuroni dopaminergici non scaricheranno più, diminuendo
la loro attrattività e influenzando la selezione degli obiettivi generali operata dalla
corteccia prefrontale, finché, passato un certo periodo, la loro desiderabilità tornerà
alta e tale informazione giungerà a modificare l’atteggiamento dell’organismo di
fronte ad essi.
57
Montague, R., (2006), p. 134.
49
Quello che succede nella dipendenza, stando al modello di Redish riguardante la
dipendenza dalla cocaina, è proprio una perdita della capacità di apprendimento dei
neuroni dopaminergici: essi, in presenza della droga, continuerebbero infatti a
scaricare segnalando all’organismo la presenza di un qualcosa che va oltre le
aspettative, e ciò a causa della capacità di sostanze come la cocaina di scardinare i
freni che consentono al sistema di <<arrestare l’apprendimento delle ricompense
una volta che siano state adeguatamente predette.>>58
; in particolare, la cocaina
sarebbe in grado di produrre questo fatale meccanismo grazie a una duplice
capacità di potenziare la trasmissione della dopamina da una parte, e di bloccare i
trasportatori che la ricatturano nello spazio sinaptico dall’altra (vedi fig.1)59
.
Fig. 1. Rappresentazione dell’effetto della cocaina sulla trasmissione dopaminergica
Nella mente del dipendente, quindi, la sostanza rimane sempre uno stimolo che
mantiene il suo valore irresistibile proprio a causa del fatto che i neuroni
dopaminergici, perdendo la capacità di apprendere, continuerebbero a scaricare
inviando alla corteccia prefrontale un continuo segnale di positività rispetto alle
attese che spingerebbe l’individuo a mantenere fra le sue priorità la continua ricerca
della sostanza.
58
Montague, R., (2006), p.151. 59
http://disintossicazionecocaina.myblog.it/apps/media.php?url=http%3A%2F%2Fdisintossicazione
cocaina.myblog.it%2Fmedia%2F02%2F00%2F911194070.jpg
50
Secondo Montague, nei disturbi compulsivi come la dipendenza dai propri pensieri,
piuttosto che dallo shopping o dal gioco d’azzardo, potrebbe intervenire un
problema analogo: il sistema dopaminergico non sarebbe più in grado di apprendere
il valore delle ricompense, e il comportamento in questione sarebbe trasmesso alla
corteccia prefrontale come un obiettivo da perseguire in continuazione, per poter
raggiungere la ricompensa attesa.
L’affascinante ipotesi è quindi che l’intero insieme delle dipendenze, al di là delle
differenze rimandabili a caratteristiche intrinseche delle differenti sostanze,
ricadrebbe sotto un unico grande disturbo di valutazione degli stimoli. Detto questo,
la strada per la comprensione neurologica dei disturbi di dipendenza, soprattutto per
quanto riguarda le recenti addictions è ancora molto lunga e richiederà, nel
prossimo futuro, un continuo dialogo fra discipline e un’intensa attività di ricerca
per far sì che si possa far luce sui meccanismi cerebrali alla base di questi
comportamenti, che rappresentano una minaccia sempre maggiore per la salute
mentale delle persone.
51
4. L’INFLUENZA DELLA SOCIETà DEI CONSUMI SUI
COMPORTAMENTI D’ACQUISTO.
Fino ad ora, il nostro lavoro è stato orientato all’individuazione di alcune
motivazioni sottostanti all’atto d’acquisto; questo obiettivo è stato prima di tutto
perseguito delineando una triplice funzione insita in questa determinata azione:
fornire una necessaria estrinsecazione formale e un’interpretazione di contenuti
sensibili sottostanti, esprimere e ostentare parti del sé, e infine mascherare zone di
insicurezza attraverso un atto di incorporazione di un’oggettualità esterna in grado
di ricostruire una linea di confine fra il proprio sé e l’alterità, coprendo così un
proprio difetto o sulla dimensione temporale o su quella spaziale del sé.
Successivamente, abbiamo tentato di spiegare il frenetico ciclo consumistico
caratteristico della società odierna sulla base sia di una proprietà intrinseca dell’atto
di acquisto, che trova il suo nucleo di piacere fondamentale nell’azione
dell’ottenimento di un bene e non nel mero possesso di esso, sia sulla base di
possibili comportamenti di dipendenza dovuti al tentativo di reprimere uno stato
ansioso preesistente.
Quanto detto finora fa però capo a motivazioni di natura prettamente psicologica e
individualistica, non tenendo conto, come abbiamo sottolineato in precedenza, di
possibili ragioni sociologiche alla base dei comportamenti d’acquisto; obiettivo di
questo capitolo è quindi riequilibrare il piano argomentativo del nostro lavoro,
spostando il focus dell’analisi su parte delle trasformazioni e dei meccanismi sociali
che possono aver giocato un ruolo di primo piano sia nel condizionare la relazione
fra il sé e gli atti d’acquisto, sia nel porre questi ultimi come componente centrale e
assolutamente imprescindibile della cultura occidentale. Non si tratta, tuttavia, di
spostarsi su una linea teorica che va alternativamente da un polo di spiegazione
psicologica a uno di natura sociologica, quanto piuttosto di mettersi nelle
condizioni di accettare un contributo teorico da entrambe le discipline, le cui
argomentazioni non sono sempre e necessariamente incompatibili.
Se è infatti chiaro, come abbiamo descritto nel primo capitolo, che alla base della
costituzione del sé vi è un principio psicologico che fa principalmente riferimento
al contesto dell’attaccamento come primo ambito nel quale il sé trova una sua
condizione di possibilità di sviluppo, ciò non significa che si debbano svalutare
52
meccanismi sociologici in grado di intervenire successivamente, non tanto nel
processo di costituzione della psiche, quanto nel suo inserimento in un tessuto
sociale volto a governare le sue relazioni con l’ambiente e con le altre alterità.
Affacciarsi alla realtà e interagire con il mondo nella sua totalità non è infatti una
fase totalmente indipendente dal processo di crescita del sé, ma bensì un periodo
che, profondamente intrecciato con esso, è in grado di esercitare la sua influenza
orientando i comportamenti del singolo e rafforzando abitudini che si manterranno
lungo qualsiasi futuro contesto di interazione.
La natura sociale della mente è rimarcata anche dal filosofo comportamentista e
sociologo George Mead, il quale, partendo dalla già discussa ipotesi che alla base
del sé vi sia un complesso processo che vede il bambino impegnato a osservare le
reazioni degli altri per capire che tipo di soggetto possa essere, mette in risalto
come l’identità stessa sia un’entità <<composta da molte sfaccettature che trovano
espressione in base ai diversi contesti e stimolazioni che provengono
dall’ambiente>>60
; posto quindi come principio la priorità del contesto psicologico
di attaccamento sul processo di formazione del sé, vi è comunque un’ingente
quantità di variabili e stimoli provenienti dal contesto sociale che si pongono come
fattori in grado di influenzarne lo sviluppo.
È dunque importante, a fianco di motivazioni psicologiche delle dinamiche
d’acquisto, anche cercare di fornire un quadro di spiegazioni sociologiche che
rendano conto di questi comportamenti, spaziando in un contesto più ampio di
trasformazioni sociali; dobbiamo inevitabilmente tenere conto del fatto che
acquistare, ancor più di altre azioni umane, oltre che fenomeno palliativo e
importante per il sé, è anche un atto che trova la sua origine e il suo sviluppo in una
serie di meccanismi sociali che è necessario studiare e comprendere a fondo.
Come premessa alle tesi di natura sociale che stiamo per esporre, dobbiamo prima
di tutto precisare che il concetto di identità trova negli studi sociologici, a
differenza di quanto avviene in altri campi disciplinari come filosofia e psicologia,
una diversa definizione, facendo infatti riferimento non ad un sé psichico ed alla
sua evoluzione, ma ad un processo di costruzione e ricostruzione operato
dall’individuo e finalizzato alla produzione di un’immagine di sé da mostrare agli
60
Balconi, M., Antonietti, A., (2009), p.141.
53
altri in un quadro socioculturale di interazione nel quale i consumi rappresentano
occasioni uniche per creare e trasformare le sembianze della propria personalità a
seconda delle esigenze sociali; in quest’ottica, l’identità assume quindi un
significato che, diversamente dall’idea psicologica di entità formata sì da una
molteplicità di componenti, ma in fondo unitaria, si spezza invece in un indistinto
agglomerato di potenziali peculiarità da comunicare in un ambito esclusivamente
relazionale: più che di un sé, parliamo ora di un’immagine del sé da ritoccare e
mostrare come necessario biglietto da visita in un mondo complesso e
estremamente competitivo.
Ne scaturisce un fondamento di provvisorietà che caratterizza l’identità stessa, la
quale deve porsi come entità mutevole per stare al passo con i cambiamenti
repentini di una realtà che condanna la fissità e promuove al contrario il concetto di
novità. Ecco quindi che l’oggetto di consumo trova un suo ruolo e una sua
dimensione sociale nella sua capacità di fornire continuamente al soggetto diverse
modalità di presentazione al pubblico: acquisire un bene può infatti essere
l’opportunità di mostrare agli altri una precisa e costruibile immagine di sé ritenuta
idonea a un determinato contesto, permettendo così al soggetto stesso di
identificarsi con essa. In questo senso l’identità finisce con il coincidere con gli
oggetti acquistati e diventare essa stessa un qualcosa da indossare in particolari
esigenze, e da gettare in altre (Franchi, 2007; Balconi, Antonietti 2009).
Questa funzione dell’atto d’acquisto non è tuttavia altro che un’esplicitazione, a
livello sociale, di una medesima funzione già ricordata a livello individuale: che
l’acquisizione di un bene volta a evidenziare un certo tratto della propria personalità
sia infatti finalizzata ad esibire tale componente a se stessi, piuttosto che agli altri,
ciò non cambia lo scopo dell’azione, che rimane comunque l’espressione di una
parte del sé. Ma quali sono le motivazioni esclusivamente sociali che, a fianco di
quelle individuali, influenzano gli individui sia nei singoli atti d’acquisto che nella
messa in pratica di un ciclo reiterato e continuo di consumo di beni?
Vi è unanimità, fra gli scienziati sociali, nel definire l’epoca in cui viviamo come
era postmoderna, per differenziarla nettamente dall’epoca precedente, la quale,
distanziandosi dal concetto di dubbio, si caratterizzava per la presenza di forti
autoritarismi politici e religiosi, per la diffusione di ideologie dominanti, e
54
soprattutto per l’instaurarsi di verità che, ritenute uniche e stabili, erano in grado di
fornire a tutti una solida ed univoca chiave interpretativa della realtà (Olivero,
Russo, 2009). Nell’era postmoderna, venendo meno questi forti ancoraggi
epistemologici che rappresentavano inamovibili punti di riferimento per la
costruzione di precise identità sociali, l’assenza di tali vincolanti indicatori di
direzione ha fatto sì che sopraggiungessero alcune importanti trasformazioni
sociali61
(Franchi, 2007).
Un primo sostanziale cambiamento è stato senza dubbio l’improvviso avvento di un
relativismo gnoseologico, e la conseguente frammentazione dei modelli culturali a
cui fare riferimento: se le guide di natura istituzionale e spirituale perdono la loro
capacità di imporsi come autorità unica sulla quotidianità dell’individuo,
conseguenza naturale è infatti il moltiplicarsi dei valori e dell’incertezza. Il soggetto
dell’epoca postmoderna si è quindi trovato di fronte ad una pluralità di fonti di
informazione; emblematico di questo processo di democratizzazione della vita è
stato il recente sviluppo delle tecnologie quali internet, che hanno fatto in modo non
solo di mettere in comunicazione diverse parti del mondo fornendo ad ogni persona
un ingente quantitativo di informazioni su ciò che avviene a chilometri di distanza,
ma anche di esporre ogni soggetto ad un grande numero di modelli in grado di porsi
come punti di riferimento: secondo alcuni, questo fiorire di esempi da imitare ha
prodotto negli individui una spinta ad avvicinarsi ad ognuno di essi nel tentativo di
colmare il gap fra il proprio sé e il sé ideale, aumentato proprio a causa
dell’incremento di possibili identità sociali da emulare (Gergen 1991). Ciò avrebbe
avuto come naturale conseguenza l’instaurarsi di frequenti meccanismi di
venerazione o di forte adesione a valori, ideali e personaggi, con un relativo
incremento dei consumi legati ad essi.
Un altro cambiamento prodotto dalla caduta <<del baricentro ideologico e
istituzionale della vita sociale>>62
è stato sicuramente l’imporsi di un veloce
processo di individualizzazione, inteso come improvviso ed insperato
accrescimento della centralità e della libertà decisionale del soggetto nella fase di
61
Cfr. <<le istituzioni che prima rappresentavano la guida per l’interpretazione della realtà e per la
costruzione della propria identità hanno lasciato il posto alla ricerca di valori a cui sembra che si
aderisca sempre più al livello astratto e di principio, alla ricerca di un modo per poter esprimere la
propria personalità>> Balconi, M., Antonietti, A. (2009), p. 150. 62
Ibidem.
55
costruzione della propria identità. All’apparenza estremamente positiva, questa
eccessiva autonomia dell’uomo nel dare forma al proprio destino è stata invece
foriera di un’evidente insicurezza cronica; non potendo più far riferimento a schemi
precostituiti o ad autorità esterne, il soggetto si è infatti trovato in una possibilità di
auto-determinazione che lo ha obbligato a prendere delle decisioni in un contesto di
complessità e incertezza, con una conseguente e costante paura di compiere la
scelta sbagliata: <<La biografia delle persone, staccata da determinazioni prefissate,
viene messa nelle loro mani, aperta alle loro decisioni, ma anche al rischio della
sconfitta>>63
.
Questa condizione di paura e ansia che accompagna la solitudine sociale
dell’individuo è stata in grado di esercitare una sua influenza sui comportamenti
d’acquisto nel momento in cui ha dettato uno stato di passività e di conseguente
incapacità del soggetto nel resistere alle sollecitazioni esterne e interne, lasciando
quindi spazio a una serie di consumi patologici, compulsivi e dipendenti: staccato
da verità ontologiche e metafisiche e da autorità centrali, l’uomo è giunto infatti a
percepirsi come perso ed abbandonato, con il susseguente rischio di essere spesso
trascinato in una qualsiasi corrente di passaggio; la condizione umana di incertezza
è infatti da sempre terreno fertile per mode transitorie, che possono approfittare di
questo stato di flebilità intellettuale dell’individuo per agire più facilmente
plasmando e influenzando i pensieri dei consumatori (Lipovetsky, 2006).
Ma non è questa l’unica possibile conseguenza della ritrovata autonomia
decisionale dell’individuo nell’era postmoderna; come rilevato recentemente dalla
filosofa e sociologa Renata Salecl, lo stato di dubbio e ansia correlato alla troppa
scelta spinge i soggetti ad un’auto-limitazione e alla creazione di un nuovo rigoroso
modello di autorità al quale sottostare:
“Questo connubio tra la ricerca di un potere superiore che si faccia
carico dei nostri problemi e l’insistenza sulla libertà di scelta non
deve stupire. Quando siamo ansiosi, e scegliere implica sempre un
elemento di ansia […] spesso ci guardiamo intorno per trovare
qualcuno o qualcosa che si prenda la responsabilità. Nella speranza
di placare l’ansia, possiamo decidere di consultare una guida
religiosa, un guaritore, o perfino un astrologo”64
63
Franchi, (2007), p.14. 64
Salecl, (2010), p. 58.
56
L’auto-imposizione di un principio di autorità in grado di restringere il nostro
campo di scelta è un tipico aspetto del comportamento umano, ed è in questa fase in
grado di spiegare anche l’incremento dei consumi successivo alla caduta del potere
istituzionale o religioso: molte persone hanno infatti trovato riparo dall’ansia di
scegliere in autorità e modelli auto-vincolanti presenti nella società, orientando di
conseguenza i propri consumi in modo da rassomigliare a tali esempi sociali il più
possibile; una maggiore autonomia decisionale ha dato paradossalmente il via
all’instaurarsi di un maggiore grado di dipendenza da un’alterità, trasformando così
l’identità sociale in un’entità flessibile e plastica che l’individuo cerca di plasmare
tramite frequenti identificazioni con modelli di riferimento esterni.
Sempre seguendo la linea argomentativa della Salecl, una decisiva spinta verso
l’attuazione di questo meccanismo è stata data dall’ideologia capitalista del “self-
made man”, rea da una parte di aver posto eccessivamente l’accento sulla
possibilità dell’individuo di decidere da solo, senza vincoli sociali, il proprio futuro,
e dall’altra di aver oltremodo diffuso la mentalità dell’uomo vincente che,
scavalcando gli ostacoli senza l’aiuto di nessuno, si impone sulla massa come un
vero conquistatore. In quest’ottica, chiunque, nell’era postmoderna, è diventato
non solo pieno artefice e unico responsabile del proprio destino, ma anche soggetto
dotato di tutte le potenzialità necessarie per poter ergersi come eroe della propria
epoca, sempre ammesso che ne abbia la voglia e la capacità, e che sia soprattutto in
grado di compiere le scelte giuste.
Trasformando l’uomo in una sorta di azienda la cui sopravvivenza è interamente
dipendente dalla qualità delle sue decisioni, la visione capitalista ha inevitabilmente
radicalizzato l’ansia di compiere la scelta giusta, costringendo così l’individuo a
ricorrere all’auto-imposizione di nuovi tipi di autorità che possano indicargli la
strada corretta per la scalata verso la vetta della società. È così che quindi <<il
nuovo individuo che si fa da sé tende a prendere qualche vip come modello>>65
,
creandosi <<una struttura simbolica che lo sollevi dall’ansia della scelta […] e
65
Salecl, (2010), p. 45.
57
dandogli vita, sceglie l’opzione di non scegliere, di lasciare che altri scelgano per
lui>>66
.
Comprendere questo punto è fondamentale per capire a fondo la spiegazione
sociale di molti atti d’acquisto: è infatti del tutto evidente che alcune componenti
della società hanno tentato di sfruttare al massimo questo meccanismo, cavalcando
l’insicurezza delle persone e cercando di costruire e proporre il maggior numero
possibile di modelli ed esempi sociali che siano in grado di offrire agli individui
diversi schemi comportamentali da seguire, facendo così in modo da una parte di
alleviare la loro ansia di scelta riguardo le scelte di vita da intraprendere, e dall’altra
di incentivarli all’acquisizione di una molteplicità di beni legati a tali personalità,
ideali, o valori. Comprare, nell’era postmoderna, è diventato così sinonimo di
acquisire un preciso stile di vita: un vero e proprio surrogato della decisione, che,
slegato dal valore del bene in sé, si impone come atto di fondamentale importanza
per segnalare ed ostentare alla comunità, grazie all’adesione a modelli sociali, un
preciso modus vivendi.
La capacità della società di canalizzare il sentire degli individui in determinate
categorie sociali non è d’altronde un’esclusiva del mondo dei consumi e della
pubblicità: nel suo brillante saggio Disgusto e umanità, la filosofa Martha
Nussbaum porta l’esempio di quanto avviene con il sentimento del disgusto, che
nella sua forma proiettiva, ossia quando non è diretto verso oggetti primari in grado
di suscitarlo universalmente, viene intenzionalmente indirizzato dalla società verso
alcune minoranze, come può accadere con omosessuali e immigrati.
In questi casi, sfruttando un bisogno profondamente umano di allontanare da sé un
lato di animalità tanto pericoloso quanto nascosto in ognuno di noi, la società fa in
modo che un comune sentire umano come il disgusto, nato con lo scopo evolutivo
di allontanare l’organismo da ciò che può essere realmente contagioso e dannoso,
venga proiettato, grazie ad una associazione continua e martellante con alcune
categorie umane, verso tali minoranze che, interpretando una sorta di condizione
“semi-umana” e ponendosi quindi come livello intermedio fra lo stato animale e
quello umano, possano rassicurare la maggioranza facendola sentire ancora più
lontana da quel temuto lato del sé (Nussbaum, 2010): così come il disgusto viene
66
Salecl, (2010), p. 61.
58
quindi utilizzato dalla società come strumento per regolare le distanze fra parti del
sé, in questo caso allontanando ciò che viene etichettato come pericoloso, non è
improbabile pensare che lo stesso meccanismo entri in gioco anche con altre
tipologie del sentire umano, come ad esempio l’attrazione.
Possiamo infatti ipotizzare che, indirizzando appositamente quest’ultimo
sentimento verso determinate categorie sociali che si ergono come esempi da
seguire, il mondo della pubblicità e la società dei consumi facciano leva su questo
procedimento al fine di porre questi modelli come unici intermediari fra il sé attuale
e il sé ideale, proiettando di conseguenza su di essi un’aurea di fascino fornita dalla
possibilità, data a ciascun individuo, di colmare, tramite identificazione con essi, la
distanza fra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere.
Variano quindi i sentimenti, ma il meccanismo di proiezione utilizzato dalla società
è il medesimo: gli individui, così come indirizzando la loro attrazione verso questi
modelli trovano il modo di ridurre le distanze con quella parte del sé che
rappresenta i loro ideali, allo stesso modo, rivolgendo il loro disgusto verso
categorie etichettate come inferiori, raggiungono invece l’obiettivo di aumentare il
divario con quel lato del sé che esprime ciò da cui fuggono; questo è naturalmente
reso possibile dal fatto che alcune categorie sociali, soprattutto se in una situazione
di minoranza, si prestano particolarmente bene al ruolo di esplicitazione di un
comune sentire: se nei primi capitoli avevamo parlato di una funzione dei beni di
acquisto di interpretare un’estrinsecazione sensibile di una parte del sé priva, per
sua stessa natura, di un’espressione formale, ora possiamo ribadire con forza il
concetto anche in riferimento alle categorie sociali, le quali possono facilmente
fungere da contenitori in grado di assorbire un contenuto sensibile altrimenti
inespresso e privo di una forma rappresentazionale.
L’atto d’acquisto trova quindi anche una sua spiegazione sociale nel momento in
cui la sempre crescente importanza che ha assunto nel tempo si è sviluppata anche
grazie alla capacità della società di canalizzare alcuni sentimenti umani, come
l’attrazione, verso preconfezionati modelli da seguire e predefiniti beni da
acquistare.
Un differente e originale punto di vista sulla funzionalità sociale dell’atto
d’acquisto è rappresentato invece dalla posizione del sociologo Gilles Lipovetsky,
59
il quale, a differenza di molti suoi colleghi ipercritici verso una tipologia di società
basata principalmente sui consumi, non esprime una dura condanna per l’acquisto
in sé, che a suo dire non trova più tanto la sua finalità principale nel rimarcare
distinzioni sociali e affermare status di classe, quanto piuttosto in un puro e
semplice piacere edonistico di matrice prettamente individuale.
In particolare, per Lipovetsky, la società postmoderna ha subito notevoli
trasformazioni, passando attraverso tre principali momenti di sviluppo: se una
prima fase, costituita dall’emergere dei consumi e dalla nascita dei concetti di
marca e pubblicità, si caratterizzò per uno spiccato ruolo sociale dell’atto di
acquisto, vissuto da un’élite di persone come un momento simbolico intriso di
ostentazione e volto a segnare una profonda distanza con la massa, una seconda
fase, coincidente con gli anni ’60-’70 e con la relativa grande diffusione di beni
durevoli industriali anche ai ceti più poveri, ha invece cominciato a minare la logica
delle spese come obiettivo di considerazione sociale, promuovendo al contrario un
modello di consumo di tipo individualistico, mirato principalmente a una
soddisfazione personale.
L’attuale terza fase, chiamata la società dell’iper-consumo, anche grazie alla
progressiva caduta di autorità centrali di tipo istituzionale e religioso, ha portato
alle estreme conseguenze questo processo di individualizzazione dei consumi,
spostando definitivamente il baricentro degli atti d’acquisto da una dimensione
sociale e di gruppo a una questione maggiormente legata ad un’affermazione
solipsistica ed a una ricerca di felicità puramente privata: cadendo le rigide ed
immutabili distinzioni di classe e con esse il relativo bisogno narcisistico di
distanziarsi dalla massa, si è infatti instaurato un meccanismo d’acquisto
maggiormente incentrato da una parte sulla ricerca di un piacere meramente
evasivo ed edonistico, e dall’altra su una profonda esigenza di non apparire “da
meno” rispetto agli altri singoli individui.
Questi ultimi assumono quindi attualmente il ruolo di iper-consumatori che,
sopperendo alle proprie lacune intrapsichiche grazie all’identificazione con la
personalità delle marche, inseguono così nel mondo dei consumi l’estasi, il confort,
il piacere della novità e il brivido dell’avventura che permettano loro una rapida
fuga dalla ripetitività del quotidiano e dalla fossilizzazione nella routine; in una
60
sorta di condizione narcisistica, per Lipovetsky, l’uomo contemporaneo che volge il
proprio sguardo a se stesso finisce con l’acquistare più con lo scopo di rivivere una
propria giovinezza emotiva e trovare uno stato di massimo godimento dei sensi, che
con quello di sbandierare un proprio status e manifestare una propria appartenenza
sociale (Lipovetsky, 2006).
Fornita quindi un’esaustiva panoramica di differenti punti di vista riguardo il ruolo
sociale dell’atto d’acquisto, che va da puro momento di evasione estatica a modalità
di canalizzazione di paure e desideri, da auto-limitazione della propria libertà di
scelta fino a occasione di avvicinamento a identità sociali prossime al sé ideale, è
ora opportuno vedere quali possibili ragioni di natura sociale hanno spinto l’uomo
non solo a fare dell’acquisto in sé un momento di fondamentale importanza per la
vita quotidiana, ma anche a dare vita ad un vero e proprio ciclo consumistico
dettato dall’urgenza di un continuo consumo di beni.
In questo ambito è d’obbligo il riferimento al sociologo Zygmunt Bauman, che
nelle pagine del suo trattato Homo consumens, descrive la vita del consumatore
come basata non sull’acquisto in sé e sul possesso di un determinato bene, ma più
che altro sulla perenne condizione di continuo movimento; ciò che caratterizza l’era
dei consumi è infatti per Bauman la volontà, da parte della società stessa, di tenere
l’umanità in uno stato di profonda penuria e insoddisfazione, spingendola così a
un’estenuante e interminabile attività di ricerca e utilizzo di beni in grado di
promettergli il raggiungimento, in realtà impossibile, di uno stato di serenità.
Il grado di soddisfazione dell’uomo è quindi per Bauman inversamente
proporzionale al successo della società dei consumi, la quale se vuole sopravvivere,
deve per forza alimentare la spirale dei bisogni:
“Per una cultura consumista, coloro che si accontentano di ciò di cui
credono di avere bisogno, e che si sforzano di realizzare questo e
nulla di più, sono dei consumatori avariati: quasi dei reietti sociali,
rispetto alla società dei consumi. La minaccia di esclusione, o il
timore di essere esclusi, incombe anche su quanti sono soddisfatti
dell’identità che possiedono […] la cultura consumista, invece,
racchiude in sé un’inestirpabile pressione a essere qualcun altro. I
mercati dei beni di consumo tendono sistematicamente a svalutare le
61
proprie offerte precedenti, per lasciare spazio libero alla domanda
pubblica di nuovi beni e prodotti>>67
Accade così che nella società di oggi si faccia di tutto per inculcare nell’uomo fin
dalla nascita l’idea del mondo come <<enorme contenitore di parti di ricambio che
vengono rifornite in continuazione>>68
, da una parte elogiando la forza del
cambiamento, del rinnovamento continuo e dell’ambizione che non conosce mai
limiti, e dall’altra svalutando l’instaurarsi di relazioni stabili e la capacità di
accontentarsi di ciò che si possiede; l’imperativo categorico di questa società è
quindi il movimento continuo, e il desiderio è ciò su cui fare leva per pervenire a
questo stato.
La moda, ad esempio, riveste in questo senso un ruolo di catalizzatore di questo
processo, spingendo le masse a rinnovare in continuazione il loro guardaroba per
evitare di essere marchiate come inferiori ed escluse dalla vita sociale69
. Un
consumatore che si accontenta di ciò che possiede rischia infatti di portare il
mercato a una fase di stagnazione, motivo per il quale la società dei consumi è
impegnata in continuazione a creare bisogni tramite un ripetuto scoraggiamento di
ciò che è vecchio e usato; ai giorni nostri, la pazienza è una qualità da reprimere:
ciò che non funziona va gettato immediatamente per far posto a un nuovo bene che,
nonostante sia presentato come perfetto, dopo poco tempo incapperà
inesorabilmente nello stesso destino.
Per Bauman, la conseguenza di questa mentalità è, contrariamente a quanto ci si
attenderebbe, la disgregazione dell’entità “gruppo” e la sua sostituzione con il più
fuggevole e provvisorio concetto di sciame: l’homo consumens, vittima di questa
mentalità consumistica, tende infatti a scontrarsi casualmente in agglomerati in cui
tutto ciò che conta non è, al contrario di quanto avviene in un gruppo, un’attiva
interazione fra i suoi membri finalizzata al raggiungimento di uno scopo, ma
piuttosto una passiva e reciproca imitazione orientata principalmente a evitare una
fuoriuscita dal perimetro dello sciame stesso; ovviamente, tale riproduzione passiva
67
Bauman, Z., (2006), p. 24. 68
Ivi, p. 30. 69
Emblema di questo processo è, come ricorda Bauman, il caso della compagnia produttrice di
Barbie, che nel 1996 ha promesso ai suoi consumatori di vendere loro la nuova Barbie a prezzo
scontato, purché restituissero quella usata in un loro negozio. Come evidenzia il sociologo,
<<scambiare una Barbie usata per una “nuova e migliore” è il primo passo di una vita di legami e di
relazioni che ricalcano fedelmente la logica dello scambio commerciale>> Ivi, p. 31.
62
di ciò che fanno gli altri spinge alla semplice e frettolosa formazione di legami
superficiali che durano semplicemente il tempo dell’atto di consumo (Bauman,
2006).
La società dei consumi, per espandersi e incamerare un guadagno sempre maggiore,
non può quindi far altro che mettere l’accento su concetti come provvisorietà e
superficialità, scoraggiando da una parte una fissità relazionale che bloccherebbe il
ciclo consumistico, e allontanando dall’altra una profondità intellettuale che
rischierebbe di portare gli individui a un punto di massima soddisfazione e minimo
bisogno.
L’evidente correlazione fra la nascita della società dei consumi e la crescente
instabilità relazionale è dovuta anche al fatto che la mentalità consumistica, se da
un lato si nutre di uno stato di eterna insoddisfazione, dall’altro è in grado di
promuovere nell’uomo una perenne speranza di poter raggiungere, con i propri
mezzi, un agognato stadio di soddisfazione: portando sempre più in là l’asticella
della felicità, la società fa sì che l’uomo tenti in continuazione di pervenire a questo
stato (fittizio?) di godimento, consumando così sempre più beni per raggiungerlo.
Siccome questa immaginaria vetta di felicità, rappresentata così bene nella
pubblicità e negli schermi cinematografici, risulta il più delle volte essere
nient’altro che un’abile costruzione fantasiosa priva di possibili riscontri nella
realtà, accade frequentemente che la delusione per il mancato raggiungimento di
essa porti a scaricare le colpe sulle persone più vicine, ad esempio il partner, e al
conseguente abbandono di relazioni profonde e durature in nome di fugaci contatti
in grado di fornire scosse di felicità momentanee; ipotizzando in continuazione
l’avvento di un ipotetico “principe azzurro” e il relativo raggiungimento di uno
stato di serenità totalizzante, molte persone etichettano come negativa la
quotidianità dei problemi della vita di coppia, privandosi così di valide persone che
hanno come solo difetto quello di essere “non-perfette”, e nello stesso tempo dando
inizio a un ciclo continuo di interminabile ricerca del partner-perfetto (Salecl,
2010).
Sia nel contesto delle relazioni interpersonali che in quello dei consumi, viviamo
quindi un’epoca che fa della transitorietà il suo unico imperativo, e che, rendendo
gli uomini schiavi di un’inesistente perfezione, li condanna ad un’eterna condizione
63
di insoddisfazione tanto penosa quanto necessaria per alimentare il ciclo
consumistico.
Dello stesso parere è anche Lasch, secondo il quale la società postmoderna, era
delle identità individualizzate, si contraddistingue non tanto per l’imporsi di
un’umanità in grado di provvedere al suo futuro, quanto per un patologico
ripiegamento narcisistico della personalità, per il quale i soggetti sfuggono un tipo
di coinvolgimento profondamente affettivo e dialogico impegnandosi invece in una
continua e frenetica ricerca di conferme circa la validità delle loro scelte che ha
come unica conseguenza l’instaurarsi di una pluralità di contatti fugaci e non
impegnativi con l’altro (Lasch, 1984).
La possibile influenza esercitata della società dei consumi sulla qualità delle
relazioni umane e sull’avvio e il mantenimento di un reiterato e frenetico ciclo di
acquisizione e smaltimento dei beni viene invece notevolmente ridimensionata da
Lipovetsky, il quale, manifestando un costante atteggiamento critico nei confronti
di gran parte dei suoi colleghi, sposta le cause di queste trasformazioni da una
dimensione esclusivamente sociale ad una sfera squisitamente psicologica; se infatti
l’epoca in cui viviamo è senza dubbio caratterizzata dalla ferrea volontà di
mantenere l’uomo in uno stato di eterna insoddisfazione, sollecitando quindi
continuamente ogni suo desiderio e spingendolo alla ricerca di una felicità sempre
più distante, com’è possibile, si chiede Lipovetsky, che questa condizione di
penuria, nonostante l’accento posto su di essa da parte della società, non si presenti
mai in uno stato esagerato, mantenendo invece sempre un suo rapporto con la
realtà?
Secondo diverse indagini, infatti, i desideri dei consumatori non vanno mai molto al
di là di ciò che essi possono plausibilmente ottenere, stabilizzandosi, generalmente,
intorno ad una realtà che, per quanto difficilmente realizzabile, è quasi sempre alla
loro portata; la maggior parte delle persone, ad esempio, aspira in futuro
all’ottenimento di un reddito che superi soltanto di circa un terzo il loro reddito
attuale: la condizione di penuria non è mai uno stato totalizzante e privo di vie
d’uscita, ma lascia quasi sempre spazio a una speranza di miglioramento.
Inoltre, molti sondaggi svolti nel continente europeo mostrano come gran parte
della popolazione metta ancora caratteristiche come amore, figli, coppia e famiglia
64
in cima alla lista degli elementi in grado di condurre alla felicità: questo a
dimostrare, secondo Lipovetsky, che non vi è stato un vero e proprio degrado di
valori portato dalla società dei consumi, la quale non è quindi riuscita totalmente
nel suo intento di porre il desiderio dei beni al centro dell’esistenza umana.
Nonostante un quantitativo considerevole di messaggi pubblicitari e sociali volti
alla distruzione dei legami stabili e alla promozione di contatti fugaci con l’alterità
e con gli oggetti di consumo, l’uomo ha quindi mantenuto non solo come finalità
principale della sua vita l’instaurazione di stabili legami con altri individui, ma, ed
è questo quello che conta nel contesto consumistico, ha mantenuto la felicità a
portata di mano, concentrando le sue aspirazioni nell’ottenimento di una condizione
solo relativamente migliore a quella in cui è; in parole povere, ci accontentiamo, da
sempre, di migliorarci.
Secondo lo studioso, ciò sarebbe spiegabile sulla base di una volontà unicamente
umana di porre la propria ipotetica felicità non in una dimensione utopica
irraggiungibile, cosa questa che porterebbe a uno stato di depressiva rassegnazione,
ma piuttosto in uno stato raggiungibile, ma non ancora raggiunto; questo fenomeno
comportamentale, al quale abbiamo già accennato nel precedente capitolo, trova le
sue origini nella superiorità dell’atto di conquista in sé rispetto al semplice possesso
del bene ottenuto; incapace di godere a fondo la mera realizzazione di un obiettivo
ormai acquisito, sappiamo infatti che l’uomo ha bisogno di agire, lottare, inseguire
e superare se stesso per avere in continuazione un’immagine positiva di sé e per
sentire un continuo contatto con la vita e con le emozioni che soltanto una ripetuta
attività può dare: spostare la felicità un gradino più in là di quello in cui siamo ci
obbliga ad agire per raggiungerla, e l’azione, ribadiamo, è l’unica modalità in grado
di generare piacere (Lipovetsky, 2006).
Il merito dell’argomentazione di Lipovetsky è senza dubbio quello di aver posto
l’attenzione sul fatto che la ragione dell’esistenza di un continuo ciclo consumistico
non è interamente rintracciabile in un atto di creazione volontaria da parte della
società di un eden terrestre da inseguire invano, ma trova piuttosto la sua origine
fondante in un meccanismo profondamente umano, applicato, così come in altri
ambiti, anche in quello dei consumi; ci sembra però un errore ridurre al minimo
l’influenza esercitata dalla pubblicità e dalla società su questo frenetico ciclo
65
consumistico: se è pur vero che esso inizia con un puro e comune atto di piacere
dell’inseguimento e di bisogno di auto-determinazione tramite un’azione, e trova un
suo possibile sviluppo soprattutto grazie all’instaurarsi di un processo di
dipendenza volto a reprimere ansie sottostanti e a sfuggire alla stabilità tramite una
continua ricerca di scosse momentanee, la società ha senza dubbio le sue
responsabilità non solo nell’avere canalizzato questo tipo di comportamento sui
consumi, ma anche nell’aver contribuito a diffondere una mentalità del contatto
fugace, della svalutazione della stabilità e della ricerca di una perfezione
inarrivabile che ha trovato una sua propagazione non solo nell’ambito
consumistico, ma anche in quello relazionale.
Malgrado le persone possano mettere al primo posto nei sondaggi di una vita felice
il raggiungimento di una relazione stabile, questo obiettivo è di fatto sempre più
difficilmente raggiunto; nonostante le intenzioni, molti soggetti agiscono infatti
schiavi di un’ideologia della perfezione che è sì, sviluppata su basi prettamente
psicologiche rintracciabili nel mantenimento volontario di una ricerca che li tenga
lontani da ansie e paure sottostanti, ma che deve in parte la sua diffusione anche
all’accento posto dalla società su un continuo elogio dell’ambizione senza fine e su
un costante svilimento di ciò che è stabile e longevo.
Convinti quindi che, come accade spesso, la verità stia nel mezzo, e dunque la
società dei consumi non sia né un cancro da estirpare, né un qualcosa da benedire
come portatore di salvezza, ma semplicemente trovi il suo senso più profondo
nell’aver esercitato i propri effetti esaltando alcune caratteristiche della nostra vita
mentale, possiamo ora passare invece a un’analisi più approfondita di ciò che è alla
base della società dei consumi, ossia il concetto di brand.
66
5. IL VALORE SOCIALE DEL BRAND E LE SUE BASI
NEUROLOGICHE.
Nel secondo capitolo, una volta definito il concetto di identità e alcune delle sue
componenti principali, fra le quali la dimensione temporale di continuità e la
consapevolezza spaziale dei propri limiti, abbiamo preso in considerazione la
funzione psicologica del brand mettendo soprattutto l’accento sulla sua stretta
correlazione con queste componenti: andando infatti ben oltre il ruolo di semplice
esplicitazione di parti inespresse del sé, l’associazione di una personalità ad un
brand si è rivelata un’operazione in grado di offrire all’identità personale una
preziosa opportunità di mascherare eventuali difetti delle proprie componenti
psichiche di base; questo ruolo del brand, come abbiamo ricordato, trova le sue
condizioni di possibilità in un atto di incorporazione nella propria mappa mentale di
un’entità esterna, in questo caso il brand stesso, che si ponga come oggettualità in
grado di ricostruire momentaneamente un confine fra il sé e l’altro proprio in
corrispondenza di quelle determinate zone psichiche di insicurezza dove è venuto a
mancare un corretto processo di categorizzazione.
Come abbiamo visto, la bravura di chi crea e gestisce un brand, e con questo
concetto facciamo come sempre riferimento ad un vasto insieme di prodotti
acquistabili che va dal semplice oggetto di consumo fino a comprendere ideali,
persone e team, non sta soltanto nella capacità di associare al marchio una precisa
personalità, intercettando i gusti più diffusi e fornendo un vestito concettuale a
comportamenti impliciti che non trovano altre modalità di attualizzazione nella
realtà quotidiana, ma risiede soprattutto nell’abilità di offrire alle persone un
marchio che sopperisca adeguatamente alle loro lacune intrapsichiche, andando a
colmare i possibili difetti propri sia delle singole dimensioni temporali e spaziali del
sé, sia del senso generale di appartenenza alla propria corporeità.
Nella realtà odierna non si fatica certo a trovare esempi di brand rafforzatosi
proprio grazie a questi meccanismi di natura prettamente psicologica; fra tutti, basti
pensare al successo della popstar Madonna, incentrato principalmente sulla sua
capacità di fornire un’illusoria protezione alle zone di insicurezza delle principali
componenti del sé: la ormai trentennale carriera della cantante, ricostruita abilmente
durante i suoi concerti grazie a filmati riassuntivi finalizzati a mettere in luce la
67
totale assenza di periodi infelici, offre infatti ai suoi fan la possibilità non solo di
brillare di luce riflessa sentendosi parte integrante del suo successo, ma anche di
sentire come proprio, per mezzo di un atto di incorporazione della sua immagine
nel proprio schema del sé, uno stato di perfetta continuità che può così colmare le
lacune legate alla propria dimensione temporale. Difficilmente, infatti, persone con
un buon senso di continuità di base e una conseguente fiducia nel futuro e nei
cambiamenti, rimangono eccessivamente abbagliate da questo tipo di fenomeno,
volto interamente a far sentire come propria la capacità della star di cavalcare i
cambiamenti traendo da essi sempre e solo novità di natura positiva. Dall’altra
parte, determinate carenze legate alla dimensione spaziale del sé, come ad esempio
una percezione negativa delle proprie caratteristiche, piuttosto che un continuo
senso di incompletezza, possono essere saturate dalla spiccata personalità della
cantante, la quale, come accade spesso con altri divi dello spettacolo, mette
ripetutamente l’accento su alcune caratteristiche identitarie come una personale e
sfrenata ambizione, piuttosto che un illimitato desiderio di fama; identificandosi
con questa nietzscheana volontà di potenza, ogni fan può infatti esorcizzare la
propria paura di confondersi nell’anonimato introiettando nella dimensione spaziale
del proprio sé una serie di immagini di potenza e completezza che facciano da
contraltare ad una profonda insoddisfazione legata ad alcuni aspetti di sé.
Infine, la capacità di Madonna di cambiare frequentemente aspetto e musica pur
rimanendo sempre se stessa è l’emblema di una forte capacità di integrare una
molteplicità di lati diversi del sé in una sintesi unitaria e coerente, processo che è
psichicamente alla base della formazione dell’identità, e che può quindi, tramite
identificazione, suscitare nel fan una rappresentazione di se stesso, laddove è
mancante, come entità unica e resa tale proprio grazie ad una coesistenza armonica
di differenti parti del sé.
Non servirà certo fornire altri esempi per comprendere come dietro il successo di
molti personaggi dello spettacolo, e non solo, vi sia ormai una forte capacità di fare
del proprio nome e della propria immagine un vero e proprio brand di successo,
nettamente riconoscibile e perfettamente in grado di allargare il proprio dominio di
competenza a causa di una stimolazione continua di tali profondi meccanismi di
identificazione.
68
Fin qui, non abbiamo però fatto altro che mostrare, grazie a qualche esempio,
l’importanza del brand in una chiave di lettura esclusivamente individualistica,
soffermando infatti la nostra analisi all’interno di un quadro finalizzato solamente a
mettere in rilievo la relazione che si può instaurare fra il brand stesso e una singola
entità psichica che, tolta momentaneamente da un contesto di interazioni nel quale
svolge la sua attività quotidiana, è stata quindi principalmente considerata in
un’ottica puramente solipsistica; ma, pur tenendo conto della validità di tutto ciò
che è stato detto a questo proposito, un’analisi del valore del brand non può certo
dirsi completa se si limita esclusivamente alla spiegazione della sua funzione nel
processo di sviluppo e di mantenimento di un sé individuale: è necessario, dunque,
a fianco di tali argomentazioni, cercare di rintracciare anche i fattori che rendono il
marchio un potente strumento di aggregazione di identità diverse.
Al fine di considerare al meglio il ruolo sociale giocato dal brand, è doveroso porre
due premesse di carattere fondativo: in primo luogo, riprendendo l’argomentazione
esposta nel primo capitolo, dobbiamo rimarcare la correlazione esistente fra un sé
di natura strettamente soggettivistica e un sé fondato invece su un’identità
collettiva; non essendo la dimensione individuale ontologicamente separabile da
quella sociale, entrambe le sensazioni di esistenza di un “io” e di un “noi” poggiano
le loro basi su un medesimo terreno epistemologico, che, costituito da una parte
dalla consapevolezza di una continuità temporale e dall’altra da una conoscenza
delle rispettive caratteristiche in grado di contraddistinguere l’ “io” e il “noi” dalle
altre entità, trova il suo senso più profondo nella sensazione di appartenenza ad una
medesima identità da parte dei diversi elementi che la compongono, che siano essi
parti del sé o membri di un gruppo.
Successivamente, è bene fornire alcuni elementi di base che possano aiutarci a
comprendere meglio la necessità, da parte di singole identità, di varcare i confini
puramente soggettivi per inserirsi in un contesto di più ampia interazione sociale;
senza addentrarci in una spiegazione dettagliata propria della psicologia sociale, è
comunque nostro obiettivo individuare le motivazioni principali che fanno del
desiderio di appartenenza ad un gruppo una necessità fondante della vita psichica;
se da una parte questo primitivo bisogno di affiliazione sembra rispondere a una
duplice esigenza umana di evitare l’isolamento sociale e di ottenere riconoscimenti
69
personali da parte di altri soggetti con gusti ed obiettivi simili ai propri, dall’altra, la
semplice appartenenza a un gruppo vincente sembra produrre nell’individuo una
tendenza a brillare di luce riflessa, facendolo sentire parte integrante di un successo
comune (Cialdini, Borden, 1976).
Inoltre, far parte di un’entità collettiva può assolvere anche una funzione di
deresponsabilizzazione dell’individuo; facendo infatti riferimento a ciò che è noto
nell’ambito della psicologia sociale come fenomeno della “deindividuazione”, la
semplice partecipazione alle attività di un gruppo sembra sufficiente per provocare
in ogni suo membro una serie di conseguenze che vanno dallo sviluppo di una
sensazione di anonimità alla totale perdita del senso di individualità: questi effetti
producono in ogni membro del gruppo un rapido allentamento dei limiti
normalmente posti al proprio comportamento, dando quindi origine ad un aumento
di azioni impulsive, inconsuete e devianti che non troverebbero mai realizzazione in
un contesto puramente solipsistico (Aronson, 2010). Sulla base di questo fenomeno,
possiamo quindi dire che ritrovarsi in un gruppo e imitare il comportamento di un
altro membro produce per l’individuo un duplice vantaggio, da una parte sul piano
cognitivo, sgravandolo dal compito di dover pensare a quale azione intraprendere, e
dall’altra proprio sul piano delle responsabilità dell’azione, che vengono
automaticamente trasferite alla persona imitata. Secondo il filosofo Simmel, fra
l’altro, il fenomeno della deindividuazione è tipico anche di alcune caratteristiche
della moda, che, alla pari di altre azioni di massa, farebbe in modo di soppiantare la
vergogna dei soggetti e di <<manifestare, in certi tratti, un’assenza di pudore che
come pretesa individuale troverebbe nel singolo un immediato rifiuto>>70
(Simmel
2011).
Poste quindi come premesse inamovibili del nostro discorso da una parte la stretta
correlazione di base fra il “senso-dell’-io” e il “senso-del-noi”, e dall’altra
l’importanza per un sé individuale di percepirsi anche come parte di una più ampia
identità collettiva, è conseguenza diretta del ragionamento l’affermazione di una
capacità intrinseca del brand di interagire sia con la dimensione individuale del sé,
incidendo sulle sue principali componenti e potenziando il “senso-dell’-io” che ne è
70
Cfr. Simmel, G., (2011), p. 37.
70
alla base, sia con una dimensione di natura sociale, sollecitando la formazione di
un’identità collettiva basata sulle medesime componenti di base.
Obiettivo di questo capitolo è quindi far luce sui meccanismi psicologici che hanno
permesso a molti brand di fondare il loro successo proprio sulla costruzione di un
comune “senso-del-noi” in grado di includere in una medesima entità tutti i
potenziali fruitori del marchio stesso; se, come abbiamo visto, espandere i confini
del sé ritrovando il proprio nucleo identitario in un sé collettivo è da sempre una
primaria esigenza umana, il mondo della pubblicità e dei brand, soprattutto in tempi
recenti, ha guardato questa necessità con occhio piuttosto interessato, nel tentativo
tutt’altro che vano di offrire ai consumatori luoghi metaforici di interazione sociale
in grado di sopperire alla caduta, nell’età postmoderna, di sentimenti di
appartenenza riferiti a gruppi di natura istituzionale e religiosa (Lipovetsky, 2006).
Se infatti un tempo questo indispensabile bisogno di affiliazione trovava la sua
realizzazione nell’esistenza di gruppi socialmente e politicamente impegnati,
piuttosto che nella rigida divisione di classe presente prima dell’avvento della
società dei consumi, nell’ultimo secolo abbiamo assistito ad un vero e proprio
decadimento di queste tipologie di comunità, prontamente sostituite dall’avvento di
altre modalità di aggregazione, più lontane dal parametro della vicinanza geografica
e di status, e più vicine al mondo consumistico in continua e rapida ascesa; attorno
ai beni di consumo, ai personaggi resi famosi dal notevole impatto della televisione,
ai team sportivi e a qualsiasi entità individuale o collettiva in grado di porsi come
brand, si sono quindi instaurate delle vere e proprie comunità, tanto da spingere
molti studiosi a coniare il termine “brand community” in riferimento ai <<gruppi
basati su una rete sociale di relazioni fra gli ammiratori di un brand>> (Muniz,
O’Guinn, 2001).
I beni di consumo sono diventati nell’età postmoderna utili strumenti per entrare in
gruppi sociali, e i brand hanno prontamente assunto il ruolo di centri simbolici
finalizzati al ritrovo di identità differenti, rispondendo a un profondo bisogno
umano di affiliazione. Anche l’esperto di marketing Martin Lindstrom ha
prontamente sottolineato la correlazione fra tali comunità e gruppi di altra natura,
precisando infatti che il ruolo odierno di tali aggregazioni consiste nel rispondere a
quella medesima esigenza di appartenenza che è da sempre anche alla base della
71
costituzione di gruppi di diverso genere; persone religiose, tifosi di una squadra
sportiva, e ammiratori di un marchio commerciale trovano così un comune
fondamento psicologico che è necessario studiare in ogni suo aspetto per poter
comprendere i meccanismi di base che muovono questo tipo di aggregazioni
(Lindstrom, 2008).
Naturalmente, è proprio l’intensità di questo desiderio di affiliazione, insieme alla
capacità del marchio di indirizzarlo verso se stesso, a decretare il successo della
funzione sociale del brand: se è senza dubbio vero che tutti noi siamo soggetti a
questo meccanismo di appartenenza, il grado in cui siamo disposti ad ampliare i
nostri confini inserendoci in un tessuto sociale interattivo varia a seconda delle
persone e delle occasioni. Come fa notare a questo proposito Simmel,
contrariamente a quanto si pensa, la sicurezza di base del sé è in molti casi
direttamente proporzionale rispetto alla capacità di inserirsi volontariamente in un
gruppo: sottolineando che <<l’opposizione alla collettività non è sempre sintomo di
forza personale>>, il filosofo ricorda infatti che è proprio una solida fiducia del sé e
una sana consapevolezza della propria unicità che permette all’individuo di
ampliare serenamente i propri confini, accettando di buon grado di inserirsi in un sé
collettivo senza la paura di perdere la propria individualità. Al contrario,
<<l’atteggiamento del demodé può anche essere caratteristico di una personalità
piuttosto debole, come se l’individuo temesse di non poter conservare quel suo
poco di individualità adattandolo alla forma, al gusto e alle norme della
collettività>>71
(Simmel, 2011). Ciò ovviamente non significa che una buona
sicurezza di base porti all’adesione acritica dell’individuo ad una qualsiasi
collettività, ma piuttosto ci aiuta a prendere consapevolezza dell’importanza e della
normalità del processo di costituzione del gruppo, che rimane un momento di sana e
fondamentale aggregazione delle diversità.
Chiariti questi fondamentali aspetti, siamo ora in grado di definire su quali
caratteristiche comuni si basano la maggior parte delle comunità e in che modo è
possibile suscitare un senso di appartenenza intorno a semplici oggetti di consumo?
Quali sono, a questo proposito, per un brand, le mosse da effettuare per costruire un
71
Simmel, G., (2011), p. 29.
72
efficace “senso-del-noi” che abbia come baricentro il marchio stesso e come
elementi costitutivi del gruppo i propri consumatori?
Il primo passo verso il raggiungimento di questo obiettivo, così come accade per
una sfera puramente individuale, è generalmente il tentativo di dare vita a una
dimensione di continuità che, caratterizzando il gruppo stesso, sia in grado di
muoverlo lungo un asse temporale che coinvolga i propri membri: ciò avviene
soprattutto nel caso di brand che, potendo contare su una gloriosa storia costituita
da ripetuti successi, creano e rafforzano un’identità collettiva semplicemente
mettendo in mostra la propria solida tradizione; basti pensare a questo proposito a
molti team sportivi che basano il loro tentativo di costituire un condiviso senso di
appartenenza su operazioni di natura commerciale quali l’allestimento di musei che
esibiscano i trofei vinti e la promozione di iniziative volte a rendere partecipi dei
successi del passato i propri tifosi. Stimolando così un coinvolgimento generale che
si pone come motore primario della costruzione di un “senso-del-noi”, il team
allontana il rischio di trasformare l’atto di ostentazione delle proprie vittorie in
un’azione meramente auto-referenziale.
Probabilmente ereditata da gruppi di ambito sportivo, questa modalità di creazione
di un’identità collettiva è diventata ormai anche peculiarità di marchi prettamente
commerciali; la nota azienda produttrice di macchine Saab, ad esempio, durante il
raduno annuale dei suoi dipendenti, punta molto sulla condivisione con essi della
propria storia, mostrando ripetutamente immagini dei modelli passati che rendano
giustizia all’importanza del brand (Muniz, O’Guinn, 2001). Anche nel mondo della
pubblicità, l’accento sulla dimensione temporale del gruppo è un leit-motiv sempre
più ricorrente; ad esempio, in un recente spot dell’Enel che si apre con la frase
“ogni volta che abbiamo costruito un futuro, non ci siamo fermati a guardarlo
mentre diventava passato, ma siamo andati avanti a immaginare un altro futuro”
l’obiettivo non è solo quello di fornire un’immagine dell’azienda come gruppo di
lavoro sempre proiettato verso la dimensione futura, promuovendo quindi un
meccanismo di identificazione di natura strettamente individualistica, ma anche,
grazie alla frase conclusiva “il futuro è un viaggio all’infinito. Facciamolo insieme”
quello di non escludere da questo slancio ottimistico verso il futuro il consumatore
stesso, il quale, più che individuo escluso dal piano rappresentazionale e relegato a
73
una dimensione di passivo ed estraneo potenziamento del sé individuale, viene
letteralmente coinvolto a sentirsi parte attiva di una comunità che fonda il suo senso
di entitatività proprio su una strutturazione condivisa di una precisa linea temporale.
Ancora più emblematiche, in questo senso, le pubblicità di Calzedonia e della
Telecom: mentre la prima tenta di fare dell’intero genere femminile un unico
gruppo <<da 25 anni insieme>>, la seconda, grazie ad una suggestiva serie di
immagini raffiguranti lo sviluppo della telefonia negli ultimi cinquanta anni, punta
anche attraverso lo slogan <<le emozioni non cambiano, il modo di comunicarle
sì>> a creare fra i suoi consumatori un senso di appartenenza ad una medesima rete
sociale, che deve la sua solida coesione proprio alla capacità dell’intero gruppo di
condividere lungo una striscia temporale tutti i passaggi di un complesso processo
di trasformazione tecnologica.
Se da una parte è quindi evidente che un brand che può vantare un’importante
tradizione può far leva sul tema della continuità al fine di costruire un’identità
collettiva, dall’altra possiamo tuttavia affermare che anche un marchio neonato, pur
non essendo certamente nella condizione di poter raccogliere i frutti di un lavoro
passato, è in grado di interagire con la medesima dimensione del sé collettivo:
caratteristica vincente dei brand che cercano di muovere i primi passi nel complesso
mondo della comunicazione è infatti la possibilità di sopperire alla mancanza di un
passato esprimendo una sconfinata ambizione per il futuro. Questo aspetto, tipico di
aggregazioni di stampo religioso o sportivo che, facendo puntualmente leva su una
particolare “missione” da raggiungere insieme trovano il modo di compattare i
propri membri indirizzandoli verso un futuro comune, è stato preso in
considerazione anche da gruppi organizzativi di lavoro, i quali sempre più spesso
ricorrono al concetto di mission per dar vita, al loro interno, ad un comune senso di
appartenenza: quando nacque la Apple, il suo storico manager Steve Jobs ha
giocato molto su questo effetto, creando un senso di identità collettiva proprio
grazie alla condivisione con tutti i fruitori del marchio di una battaglia futura che
aveva come obiettivo la messa in atto di un processo di continua innovazione
guidato dai giovani (Lindstrom, 2008).
Anche la psicologia sociale, d’altronde, ci insegna che un insieme piuttosto casuale
di persone arriva immediatamente a percepirsi come un’entità unica, se messo di
74
fronte a uno scopo condiviso o a una precisa missione (Aronson, 2010); ipotizzare
quindi una direzione o un obiettivo comune per un determinato gruppo di persone
significa dunque stimolare la creazione di un senso di continuità collettivo che è poi
il primo essenziale mattone da porre per dare il via alla costruzione di un vero e
proprio “senso-del-noi”: facendo sentire il consumatore parte integrante di uno
sviluppo temporale che muove continuamente da due alternativi poli rappresentanti
il passato e il futuro, il marchio fa in modo di piantare le radici per lo sviluppo di un
profondo e condiviso senso di entitatività intorno a se stesso.
Intervenire sul senso di continuità non è tuttavia l’unico modo tramite cui un brand
può creare una precisa identità collettiva; facendo riferimento alle principali
dimensioni del sé, un’altra efficace modalità per costruire un “senso-del-noi”
consiste nel delineare le caratteristiche di fondo che permettono di distinguere un
determinato gruppo dagli altri. Oltre alla condivisione di un medesimo scopo,
un’altra motivazione che spinge le persone a espandere i propri limiti personali
aggregandosi in comunità è infatti la presenza, comune a tutti i membri del gruppo,
di determinate peculiarità, le quali, tracciando i confini delle identità collettive,
permettono ad ogni gruppo di trovare la propria dimensione spaziale e di collocarsi
all’interno di un determinato perimetro di interazione sociale.
Un meccanismo spesso utilizzato per la costruzione di questa dimensione identitaria
è la definizione di se stessi e del relativo gruppo di appartenenza sulla base di una
netta contrapposizione con altre entità; l’atteggiamento del “noi contro loro”, già
considerato in precedenza, permette infatti ad ogni comunità, tramite la negazione
delle caratteristiche dell’altro gruppo, di rafforzare la propria identità. Se, anche in
questo caso, questa mentalità affonda le sue radici nel tentativo delle aggregazioni
di natura religiosa o sportiva di individuare un avversario da combattere per
compattare i propri membri, ora questo meccanismo ha trovato una sua diffusione
anche in ambito commerciale (Lindstrom, 2008); la catena telefonica Tre, per
rimarcare un concetto di identità collettiva, ha ad esempio puntato sullo slogan “se
hai Tre si vede”, sottolineando in questo modo un suo tratto caratteristico, quello
delle videochiamate, in grado di distinguere il proprio gruppo di consumatori da
quello di altre compagnie telefoniche. Anche la Volkswagen, in un recente spot in
cui un sedicente consulente di riduzione dei costi offre ai produttori della macchina
75
la possibilità <<come fanno altri nella categoria>> di tagliare le spese di
produzione eliminando componenti fondamentali della vettura, mira a suscitare nel
consumatore, attraverso gli sguardi perplessi dei produttori, un orgoglioso senso di
appartenenza ad un gruppo automobilistico caratterizzato, a differenza di altri brand
della medesima categoria, dalla serietà e dalla ferrea volontà di offrire ai clienti
prodotti di elevata qualità; la catena di parrucchieri Jean Louis David obbliga
invece i suoi dipendenti all’utilizzo di una particolare ed unica tecnica di taglio, la
quale viene anche ripetutamente mostrata ai clienti mediante filmati presentati
durante il trattamento, permettendo così al marchio di mettere l’accento su un forte
tratto identitario in grado di distinguerlo nettamente dagli altri.
Interagire con la dimensione spaziale del sé fornendo all’identità collettiva limiti
caratteristici ben definiti risulta quindi essere un altro potente strumento per la
creazione di un ben radicato senso del sé collettivo; la mentalità “noi contro loro” è
d’altronde anche la base del fenomeno della moda, che muove su un duplice binario
di appartenenza e distinzione: se da una parte, infatti, essa fornisce un senso di
coesione ed unità rinchiudendo entro i propri limiti quella determinata cerchia
sociale che sceglie di aderire al movimento, dall’altra, per delimitare i confini di
questo indistinto agglomerato di identità, non può far altro che rimarcare una forte
separazione con tutti coloro che scelgono di non farne parte. Sfruttando una doppia
esigenza umana di affiliazione a un gruppo e di distinzione da un altro, la moda
deve la sua sopravvivenza proprio a chi non la pratica; non a caso, essa ha trovato il
suo sviluppo proprio nel momento in cui le classi sociali più agiate necessitavano di
segni differenziali grazie ai quali auto-classificarsi in un gruppo separato dai ceti
sociali meno abbienti: quando questi ultimi, dopo un’affannata rincorsa sociale,
riuscivano ad impossessarsi di questi medesimi modelli di consumo, diffondendo
così la moda fra la maggior parte delle persone e annullando di fatto il suo potere
di creare un criterio di distinzione sociale, la classe privilegiata si trovava
puntualmente nella posizione di dover creare altri segni di superiorità sociale
(Balconi, Antonietti, 2009; Simmel 2011).
Nonostante questi meccanismi di ostentazione di status sociali si siano ora
abbastanza affievoliti, la moda continua a esercitare il suo potere soddisfacendo un
primitivo bisogno di prestigio e di differenziazione che, rimasto immutato nel
76
tempo, necessita di trovare uno sfogo pratico non più in una mera esibizione di
criteri di classificazione sociale, ma nella possibilità di appartenere a gruppi
esclusivi caratterizzati dalla distanza da altre generiche realtà.
Anche simboli, icone e rituali, in quest’ottica, si pongono come preziosi strumenti
di ri-attualizzazione di proprie caratteristiche distintive; molti brand, facendo eco ai
grandi rituali religiosi finalizzati a perpetuare la tradizione della comunità,
organizzano frequentemente eventi promozionali con il medesimo scopo di
rimarcare la propria dimensione identitaria; anche il logo, d’altronde, ha la stessa
funzione di permettere non solo un riconoscimento immediato del marchio stesso,
ma anche una rievocazione continua delle caratteristiche che rendono il brand
unico. I rituali, lungi dall’essere singoli atti dotati di un potere fugace,
rappresentano invece veri e propri momenti a cui ogni gruppo guarda con interesse:
in pochi istanti, essi sono infatti in grado di scolpire nel tempo, tramite un atto ricco
di potenzialità comunicative, le peculiarità di un’identità collettiva, sollecitando,
tramite questo potere di rimarcare la dimensione spaziale del gruppo, la
costituzione e il mantenimento di un “senso-del-noi”.
Prese quindi in esame le due principali componenti del sé e le modalità attraverso
cui il brand può intrecciare una relazione con esse garantendosi il successo, rimane
da vedere un ultimo elemento costitutivo dell’identità sul quale un marchio può far
leva per fondare attorno a se un vero e proprio “senso-del-noi”: l’instaurarsi di un
legame fra i membri del gruppo. Giocando infatti sull’interazione fra gli individui,
si può raggiungere un rapido sviluppo di un senso di comune appartenenza ad unica
entità. Molti brand e aggregazioni di altra natura cercano a questo proposito di
favorire il dialogo reciproco fra i propri membri, fornendo, attraverso forum online
e meeting, non solo alcuni luoghi di scambio di informazioni inerenti al gruppo
stesso, ma anche centri di comunicazione e condivisione delle più svariate
esperienze; è il caso della Apple, che deve gran parte del successo dei suoi lettori
mp3 alla creazione di una community online, come I-Tunes, che ha accompagnato
il lancio del prodotto favorendo un processo di conoscenza reciproca fra i suoi
consumatori (Balconi, Antonietti, 2009). Così come a livello individuale una
profonda interazione fra diverse parti del sé porta quindi alla costruzione di una
sensazione di unità dell’io, anche a livello sociale l’instaurazione di una rete
77
comunicativa fra i membri di un gruppo si pone come elemento strutturante dello
sviluppo dell’identità collettiva.
Molti spot, come ad esempio quelli della Mulino Bianco, della Barilla e della
Nutella, giocano in questo senso proprio sulla creazione di questa rete sociale,
cercando di suscitare nei propri consumatori, tramite l’identificazione con le
famiglie rappresentate nella pubblicità, la sensazione di far parte di un’unica
comunità familiare che vive in totale e pacifica armonia; anche la Saab, a questo
proposito, cerca di fare leva su questo meccanismo nel momento in cui, durante i
suoi raduni, mostra diverse lettere e immagini di fan provenienti da tutte le parti del
mondo, dando così a dipendenti e consumatori la sensazione di appartenere a un
grande gruppo in cui vi è la possibilità di conoscere persone con gusti affini anche a
chilometri di distanza (Muniz, O’Guinn, 2001).
Abbiamo dunque portato diversi esempi di brand che hanno costruito la propria
immagine basandosi o su un meccanismo di identificazione puramente individuale,
o su un bisogno di appartenenza ad una sfera collettiva. Ma sappiamo dire qualcosa
riguardo alle basi neurali del concetto di brand?
Parziali risposte a questa domanda ci giungono dal neuromarketing, termine con il
quale ci si riferisce, più che ad una precisa disciplina, a un insieme di studi che,
tramite l’utilizzo di metodi neuroscientifici, sono orientati all’individuazione di
possibili correlati neurologici del comportamento del consumatore; Read
Montague, uno degli studiosi più attivi in questo ambito, è stato tra i primi a
mettere in luce la correlazione fra il concetto di marca e il funzionamento dei già
citati neuroni dopaminergici: come abbiamo precedentemente visto, la funzione di
queste cellule cerebrali è principalmente quella di segnalare all’organismo la
presenza nell’ambiente di determinate ricompense, suscitando poi in noi la
sensazione di un qualcosa che va piacevolmente oltre le aspettative. Spingendo più
in là l’analisi di questo circuito neurale, Montague ricorda che il sistema
dopaminico non ricopre solo il prezioso ruolo di assegnazione di un valore a ogni
stimolo percepito, ma si pone anche come potente strumento predittivo in grado di
trasferire il segnale della percezione di qualcosa di positivo anche ad una serie di
stimoli precedenti che preludono al raggiungimento della ricompensa; come infatti
è stato costantemente notato in contesti sperimentali, se ad una scimmia viene
78
ripetutamente presentata la sequenza luce-succo in un breve intervallo di tempo, si
ha modo di osservare che la reazione dopaminica incaricata di informare
l’organismo che <<le cose stanno andando meglio del previsto>>, se inizialmente
ha luogo solo in corrispondenza dell’erogazione del succo, dopo una serie di
ripetizioni avviene invece solo nel momento in cui si accende la luce, ossia qualche
istante prima della presentazione della ricompensa vera e propria: i neuroni
dopaminergici, aspettandosi infatti grazie alle costanti ripetizioni il momento
dell’erogazione e la relativa quantità di succo erogata, non scaricano più quando
effettivamente percepiscono la ricompensa, ma, avendo trasferito il valore di essa
alla luce in qualità del suo potere di predizione della ricompensa stessa, scaricano
solo in corrispondenza della presentazione dello stimolo antecedente.
Il valore ottenuto dalla luce può poi essere esteso per delega a ulteriori stimoli
antecedenti, dando così avvio ad un ciclo che, partendo da ricompense primarie, si
estende a macchia d’olio, da una parte permettendo al sistema di acquisire la
capacità di prevedere il valore di eventi futuri possibili, e dall’altra andando a
incrementare il numero di avvenimenti e oggetti esteriori che provocano nel
cervello degli individui piacevoli sensazioni dovute alle scariche di dopamina.
Questa modalità del sistema dopaminergico di trasferire il valore per delega ad altri
stimoli anticipatori di esperienze positive è secondo Montague anche alla base del
valore acquisito dal brand: stando al parere del neuroscienziato, infatti, la marca
agirebbe come un potente segnale in grado di predire la qualità di un determinato
prodotto. Ciò accadrebbe perché, da sempre, il cervello umano è abituato a
etichettare tramite il flusso dopaminico le esperienze che anticipano le ricompense;
così, la marca, agendo da segnale predittivo stimolerebbe l’attività dei neuroni
dopaminergici, informando il nostro sistema percettivo circa la possibilità di
raggiungere un determinato bene di consumo che procura piacere. Questo tipo di
piacere non dev’essere per forza una ricompensa di natura primaria, come possono
essere cibo, acqua o sesso, ma può anche rappresentare esigenze apparentemente
secondarie, che in realtà nel corso dell’evoluzione hanno assunto proprio grazie ad
un sistema di delega un valore primario: il bisogno sociale di riconoscimento, ad
esempio, sfruttando lo stesso meccanismo neurale grazie al quale la luce, in virtù di
anticipatrice del valore del succo, è diventata per la scimmia un premio a sé stante,
79
ha progressivamente assunto nel corso dell’umanità un’importanza primaria grazie
ad una costante associazione con una maggiore possibilità di sopravvivenza e di
procreazione della specie.
Molte pubblicità fanno implicitamente leva su questi bisogni secondari divenuti col
tempo primari, associando a loro volta ad essi un forte brand che rivesta il ruolo di
anticipatore della ricompensa, e stimolando di conseguenza l’attività del circuito
dopaminergico: capita spesso, infatti, che acquistiamo prodotti di marca con il solo
scopo di sentirci riconosciuti dalla società; il nostro cervello, in questo caso,
associando la marca a questa primaria esigenza affiliativa, produce piacevoli bursts
di dopamina proprio nel momento in cui percepisce il brand, spingendo così
l’individuo all’acquisto (Montague, 2006).
Fig. 2. Riproduzione generale della diffusione cerebrale
del sistema dopaminergico72
.
Il sistema dopaminico di predizione della ricompensa qui descritto è una complessa
rete che coinvolge più aree cerebrali (vedi fig.2), che vanno dal corpo striato
ventrale al nucleus accumbens, fino ad alcune zone della corteccia prefrontale; sono
stati di conseguenza molti gli studi che hanno cercato di mettere in relazione
l’attività di queste aree con la preferenza per una certa marca. Un’area cerebrale
particolarmente studiata a questo proposito è stata una regione della corteccia
72
Cfr. http://www.leonardoscienze.it/joomla/biologia/la-dopamina-un-secondo-uso.html
80
prefrontale situata al centro del cranio, proprio appena sopra le nostre cavità
oculari: la corteccia media orbitofrontale, anche detta ventromediale.
L’origine degli studi su questa zona cerebrale, che corrisponde a una porzione
dell’area 10 di Brodmann (vedi fig. 3), è senza dubbio da rintracciarsi nel già citato
Antonio Damasio, il quale, partendo dall’analisi del cranio del celebre Phineas
Gage, un minatore americano diventato tristemente famoso in seguito all’infortunio
che lo ha visto protagonista sul posto di lavoro (una sbarra di metallo ha trapassato
il suo cervello nella zona ventromediale, lasciandolo incredibilmente vivo, fig.4),
ha condotto diverse analisi per comprenderne il ruolo.
Osservando attentamente il comportamento di diversi pazienti che riportavano
lesioni in questa regione cerebrale, Damasio non ha potuto fare a meno di notare la
loro totale incapacità di produrre un qualsiasi tipo di reazione corporea anticipatrice
in grado di segnalare l’avvicinamento o l’allontanamento degli individui stessi a
una possibile ricompensa: al contrario di quanto avviene per i soggetti sani, che
sono soliti accompagnare il processo di valutazione di un’azione con una correlata
reazione corporea (anche detta da Damasio marcatore somatico73
) che non si limita
al ruolo di semplice conseguenza motoria, ma anzi aiuta l’individuo ad indirizzare
la propria decisione verso la ricompensa attesa, i pazienti di Damasio non
sembravano invece manifestare risposte somatiche di disagio né di fronte a
immagini particolarmente disturbanti, né, durante giochi d’azzardo, di fronte alle
diverse opportunità di perdere un’ingente cifra di denaro, le quali anzi venivano
puntualmente ignorante portando l’individuo a scommettere e perdere ancora più
soldi; la lesione nella zona ventromediale sembrava quindi aver annullato non tanto
la loro comprensione razionale dei fenomeni, che rimaneva nel più dei casi intatta,
quanto la capacità del loro cervello di generare una vera e propria risposta somatica,
che, basandosi sull’apprendimento, avrebbe dovuto e potuto guidarli verso
73
<<si immagini che, prima di cominciare a ragionare verso la soluzione del problema, accada qualcosa di molto importante: quando viene alla mente, sia pure a lampi, l’esito negativo connesso con una determinata opzione di risposta, si avverte una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco. Dato che ciò riguarda il corpo, ho definito il fenomeno con il termine tecnico di stato somatico; e dato che esso “contrassegna” un’immagine, e l’ho chiamato marcatore. […] Cosa fa il marcatore somatico? […] agisce come un segnale automatico di allarme che dice: attenzione al pericolo che ti attende se scegli l’opzione che conduce a tale esito- il segnale può farvi abbandonare immediatamente il corso negativo d’azione e portarvi cos’ a scegliere fra alternative che lo escludono; vi protegge da perdite future, senza ulteriori fastidi, e in tal modo vi permette di scegliere entro un numero minore di alternative>> Damasio, (1996), p.245.
81
l’attuazione di un comportamento in grado di condurli lontani da situazioni di
pericolo e vicini a determinate ricompense.
Il ruolo della corteccia ventromediale, situata in un più ampio circuito cerebrale che
trova la sua base nella capacità dei neuroni dopaminergici di codificare il valore
delle ricompense, sarebbe quindi quello di raccogliere le informazioni sensoriali
provenienti da altre zone, integrarle in un quadro unico e, tramite l’associazione ad
un determinato stimolo di un valore di ricompensa, dare origine ad un segnale
somatico anticipatorio che orienti la decisione dell’individuo informandolo sulla
attrattività o meno delle opzioni di scelta: un vero e proprio centro di generazione di
marcatori somatici in grado di connettere il processo decisionale ad una dimensione
corporea; Phineas Gage aveva quindi perso un’area di fondamentale importanza, e
non a caso, dopo il tagico incidente, la qualità della sua vita si abbassò
notevolmente, trascinandolo in una concatenazione di comportamenti irragionevoli
e in uno stato di drammatica indecisione cronica. (Damasio, 1996).
Fig. 3. A sinistra, rappresentazione della superficie laterale del cervello umano, diviso per aree di
Brodmann. La regione ventromediale corrisponde approssimativamente ad una parte dell’area 10. A
destra, invece, raffigurazione del cranio di Phineas Gage trapassato dalla sbarra di metallo.74
La tesi di un coinvolgimento dell’area ventromediale nella generazione di
preferenze nei soggetti è stata poi confermata in tempi recenti da diverse evidenze
empiriche: in uno studio condotto da Erk e basato su giovani rappresentati del
74
Cfr. Krawczyk, (2002); cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Phineas_Gage
82
genere maschile appassionati di automobili, è infatti emerso, grazie all’uso della
risonanza magnetica funzionale, un forte segnale di attivazione di questa zona
cerebrale solo in corrispondenza della presentazione di macchine sportive, le quali
ovviamente esercitavano sui ragazzi un valore di ricompensa molto più alto di
quanto potessero fare automobili utilitarie (Erk et al. 2002). Il legame fra
l’attivazione di questa area e la presentazione di ricompense è stato poi ribadito
anche da uno studio di Paulus e Frank, i quali mettendo a confronto, sempre grazie
all’utilizzo della FMRi, una condizione di “judgment task” in cui i soggetti
dovevano esprimere la propria preferenza fra due bibite visualizzate, e una di
“visual discrimination task” in cui dovevano solamente indicare quale delle due
fosse in bottiglia, riscontrarono nel primo caso una maggiore attivazione proprio
dell’area ventromediale e dell’insula anteriore (Paulus, Frank; 2003).
Queste recenti scoperte ci permettono non solo di comprendere la vera natura del
processo decisionale, intimamente legata all’ascolto di segnali automatici di
carattere emozionale e corporeo, ma anche di mettere a fuoco il ruolo centrale
svolto dall’area ventromediale nel predire future ricompense e nel generare il
piacere soggettivo che ne deriva, ponendosi quindi come zona critica per
l’espressione delle proprie preferenze. Aveva dunque ragione Montague nel
sostenere che il brand sfrutta questo meccanismo neurale di predizione della
ricompensa per imporsi come anticipatore di un premio, e successivamente come
premio in sé?
Più ricerche sperimentali hanno confermato l’attivazione dell’area ventromediale e
del relativo circuito cerebrale della ricompensa in contesti di esposizione ad una
marca: in uno studio del 2005, Deppe e colleghi hanno tentato di studiare i possibili
correlati neurali dell’impatto del brand sul processo decisionale, sottoponendo
diversi soggetti all’esame della FMRi durante un compito di decision-making di
natura commerciale; i risultati ottenuti hanno messo in luce una significativa
differenza nell’attività corticale tra decisioni in cui era presente una marca forte e
universalmente riconosciuta e decisioni in cui non vi era. Se nel secondo caso le
aree maggiormente attive erano infatti quelle coinvolte nei processi di
pianificazione, ricordo e ragionamento come l’area dorsolaterale, il lobo parietale e
la corteccia visiva, nel caso invece della presentazione di marche familiari ai
83
soggetti si registrava una maggiore attività proprio nella corteccia prefrontale
ventromediale, segno di un coinvolgimento di natura principalmente emotiva; ciò
confermerebbe l’ipotesi del brand come stimolante del sistema della ricompensa: in
particolare, la maggiore attivazione del sistema visivo in corrispondenza della
scelta fra marche meno note potrebbe essere dovuta alla maggiore necessità di un
confronto puramente visivo, in virtù del fatto che in questa condizione manchi uno
stimolo, come il brand, in grado di catturare l’attenzione del soggetto e facilitarne la
scelta (Deppe et al., 2005b).
Risultati simili provengono anche da un altro esperimento, condotto dal team di
Plassmann, in cui veniva chiesto ad alcuni soggetti, selezionati sia fra i clienti fedeli
di un determinato centro commerciale, sia fra consumatori privi di precisi luoghi di
riferimento per gli acquisti, di cimentarsi in una fittizia sessione di shopping da
svolgersi in diversi centri di vendita riprodotti virtualmente al computer; fra questi,
uno solo rappresentava la realtà in cui i consumatori fedeli facevano abitualmente la
spesa. Per questi ultimi, è stato notato, tramite l’uso della FMRi, che la presenza
della marca dell’insegna era in grado di attivare in loro il sistema della ricompensa
(striato ventrale, cingolo anteriore e area ventromediale) durante le fasi di scelta dei
prodotti, cosa che invece non accadeva per i consumatori meno fedeli, per i quali
non si registrava nessuna particolare attivazione cerebrale durante l’esposizione
della marca di quel determinato centro commerciale. Ciò rappresenterebbe un
correlato neurale, legato alla predizione di una futura ricompensa e alla generazione
di una sensazione di familiarità e piacevolezza, del rapporto che i clienti abituali
hanno sviluppato con il centro commerciale in cui si recano più spesso (Plassmann
et al., 2007).
Il già citato Martin Lindstrom ha invece messo alla prova la sua tesi di una
correlazione fra le brand community e i gruppi di natura religiosa sottoponendo
all’esame della FMRi alcuni soggetti di elevata spiritualità: presentando loro una
sequenza alternata di immagini di marche famose e di simboli religiosi, trovò non
solo una netta somiglianza fra gli schemi di attivazione cerebrale, ma anche una
comune reazione agli stimoli da parte del circuito della ricompensa, quasi a
dimostrazione del forte senso di appartenenza in grado di accomunare entrambe le
aggregazioni (Lindstrom, 2008).
84
Un’altra modalità adottata in letteratura per verificare l’impatto del brand sui
processi di valutazione è quella di utilizzare la marca come variabile per ottenere un
effetto di contesto: in uno studio condotto sempre da Deppe e colleghi, ai soggetti
veniva chiesto di giudicare l’attendibilità di diverse notizie, che in realtà si
differenziavano le une dalle altre per lo più per il fatto di comparire sotto quattro
diverse testate giornalistiche; ciò che è stato notato è che all’aumentare del grado di
ambiguità della notizia, la marca del giornale influenzava la sua credibilità, e il test
FMRi mostrava fra l’altro che in tali contesti aumentava l’attivazione proprio della
corteccia prefrontale ventromediale: essa si pone dunque come possibile correlato
neurale dell’effetto framing, per il quale il contesto in cui viene data una medesima
informazione è in grado di variare il processo decisionale e il giudizio su di essa
(Deppe et al.; 2005).
Uno studio simile è stato effettuato da Plassman e colleghi, i quali offrirono a
persone non esperte un assaggio del medesimo vino, attribuendo però ad esso una
volta un prezzo di 5 dollari, ed un’altra un prezzo di 80 dollari, e ottenendo un
risultato sorprendente: non solo, come era intuibile, le persone giudicavano più
buono il vino che pensavano costare di più, ma la loro corteccia ventromediale
faceva registrare una attività più intensa, sintomo di una maggiore preferenza, in
corrispondenza dell’assaggio del vino ritenuto più costoso. Questo dato, oltre a
segnalare un possibile correlato neurale dell’euristica prezzo/qualità, fornisce anche
alla marca (in questo caso rappresentata dal prezzo) un valore di modificazione
dell’esperienza di piacere in sé: un potente effetto placebo in grado di intervenire
sul sistema della ricompensa (Plassman et. al. 2008).
Lo studio più celebre a questo proposito è però quello condotto da McClure e
Montague, i quali hanno avuto la brillante intuizione di portare in laboratorio una
storica rivalità commerciale come quella fra Coca Cola e Pepsi, facendo valutare a
diversi soggetti entrambi i brand: il test sperimentale si è svolto prima con un blind
test, in cui i soggetti dovevano esprimere la loro preferenza dopo aver sorseggiato
entrambe le bibite in un bicchiere anonimo, e successivamente in una condizione in
cui gli stessi soggetti erano chiamati a manifestare la propria preferenza fra le due
marche, le quali però, in questo caso, erano invece ben visibili durante l’assaggio;
oltre al fatto che nel primo caso è emersa un’equa distribuzione delle preferenze
85
mentre nel secondo vi è stata una netta prevalenza a favore della Coca Cola, dato
questo che già suggerisce una netta influenza esercitata della marca sul processo di
scelta, McClure e colleghi hanno anche potuto notare il coinvolgimento di due
differenti sistemi neurali a seconda del contesto sperimentale: mentre nel test
anonimo l’attività della corteccia ventromediale era in grado di predire la
preferenza del soggetto, incrementando la sua attività in corrispondenza
dell’assaggio della bibita preferita, nel test con i brand visibili la marca era in grado
di attivare regioni cerebrali maggiormente legate alla memoria, come l’ippocampo,
e alla sfera cognitiva, come la corteccia dorsolaterale. L’attivazione di quest’ultima
in un contesto relativo al brand ha fatto ipotizzare a McClure la presenza di un
network neurale formato da mesencefalo, ippocampo e area dorsolaterale che,
mettendo in moto l’attività della memoria di lavoro di recupero di tutti i dati
associati al brand, segnalerebbe la presenza di un forte simbolo di riconoscimento,
come il brand, alla corteccia ventromediale, la cui attivazione solitaria avverrebbe
soltanto nei casi di preferenza basata sulle singole percezioni sensoriali. (McClure
et. al., 2004).
Questo dato, anche se timidamente confermato da alcune ricerche di Schaefer
(Schaefer et. al, 2006; 2007), il quale ha riscontrato attivazioni della regione
dorsolaterale in risposta a immagini di auto o brand di lusso, non spiega come mai
in tutte le ricerche precedenti non vi sia stata notizia di attività di questa medesima
area. Rimandando quindi, si spera, a un futuro prossimo una spiegazione in grado di
diradare la nebbia intorno a questi dati, ciò che possiamo per ora affermare con
sicurezza è che il brand, anche se non è chiaro se a causa del lavoro della corteccia
dorsolaterale o meno, esercita un evidente influenza nell’alterare la percezione delle
ricompense attuali e future, incrementando, in ogni caso, l’attività della corteccia
ventromediale.
Per concludere questo capitolo, diamo spazio ad un ultimo dato, proveniente da uno
studio di Koenigs e Tranel in grado di supportare le tesi fin qui mostrate: replicando
il medesimo test sperimentale di McClure con la sola variante della presenza di
soggetti che presentavano lesioni proprio all’area ventromediale, i due
neuroscienziati hanno potuto notare che questi ultimi, sia nella condizione anonima
che in quella di conoscenza delle marche, mantenevano costante la preferenza per
86
la Pepsi, ignorando quindi il significato simbolico della Coca Cola; questo dato,
oltre a confermare un ruolo decisivo della corteccia ventromediale nel codificare le
ricompense, mostra ancora una volta chiaramente la correlazione fra l’attività di
questa area e l’importanza del brand (Koenigs, Tranel, 2008). Segno che a livello
cerebrale le nostre preferenze sono guidate più da quello che un brand è in grado di
suscitare nella nostra mente, piuttosto che dall’effettiva esperienza sensoriale che il
solo prodotto è in grado di darci.
87
6. NEUROPSICOLOGIA DELLE DECISIONI D’ACQUISTO.
Nonostante il concetto di brand conservi un’indiscussa centralità nell’ambito degli
studi sui comportamenti d’acquisto, le recenti ricerche di psicologia dei consumi e
di neuromarketing non si sono limitate ad analizzare il valore della marca e i
relativi correlati neurali, ma hanno invece esteso il loro raggio d’azione fino a
comprendere altre caratteristiche peculiari del consumo, fra le quali spicca
l’articolato processo di scelta che precede la decisione di acquistare un determinato
prodotto: obiettivo di questo capitolo è quindi presentare una serie di studi
finalizzati ad approfondire le caratteristiche del decision-making messo in atto dal
consumatore di fronte a determinati beni, evidenziando sia, se possibile, le sue basi
neurologiche, sia alcune delle distorsioni cognitive in grado di intervenire
inficiandone la validità.
Al fine di comprendere al meglio quali siano i circuiti cerebrali maggiormente
impegnati durante l’attività di scelta e di acquisto di un determinato prodotto, un
team di lavoro condotto da Ambler e Braeutigam costruì appositamente un centro
virtuale di shopping, sottoponendo quindi 18 soggetti alla MEG75
durante il
processo di decision-making che l’esperienza simulata imponeva loro. Il design
sperimentale prevedeva il susseguirsi di 3 fasi: inizialmente ai soggetti veniva
chiesto di operare una scelta fra una sequenza di beni di marche diverse, in maniera
molto simile a quanto avviene in un supermercato nella quotidianità;
successivamente, venivano presentate le medesime opzioni di scelta, ma questa
volta i soggetti dovevano limitarsi ad indicare quale, fra i prodotti presentati, fosse
secondo loro quello di dimensioni più piccole. Infine, tutti venivano sottoposti a un
questionario per verificare il loro livello di familiarità con i vari brand esposti
durante la sessione di shopping virtuale.
I risultati dell’esperimento, oltre ad evidenziare una maggiore velocità nelle scelte
caratterizzate dalla presenza di un brand familiare (soprattutto per quanto riguarda
il genere femminile), hanno messo in luce un duplice percorso di attivazione
cerebrale, a seconda della prevedibilità o meno delle decisioni prese dagli individui.
75
La MEG, sigla che sta per Magnetoencelografia, è un apparato che registra i campi magnetici
indotti dall’attività neuronale. Per una dettagliata definizione del funzionamento, si rimanda a
Babiloni F., Meroni V., Soranzo, R., (2007).
88
Quando il processo di decision-making veniva effettuato in presenza di marche
familiari, i soggetti impiegavano infatti circuiti neurali profondamente differenti
rispetto a quando la scelta veniva compiuta fra alternative che implicavano brand
non conosciuti, ad eccezione di quanto avveniva nelle prime fasi puramente
percettive, dove le attivazioni cerebrali erano comuni a entrambi i percorsi
cognitivi.
Dopo circa 90 ms dalla presentazione delle opzioni, la condizione sperimentale in
cui i soggetti erano chiamati a prendere una decisione sul prodotto da acquistare si
caratterizzò infatti, indipendentemente dal livello di familiarità del brand, per una
maggiore attivazione della corteccia visiva rispetto ai casi in cui i soggetti, nella
condizione di controllo, dovevano semplicemente esprimersi indicando l’oggetto
dalla dimensione minore; questa scoperta, secondo gli sperimentatori, è in accordo
con quei precedenti dati raccolti in letteratura che si esprimono a favore di una
correlazione fra l’attività della corteccia visiva e il lavoro svolto dalla memoria di
lavoro. Quest’ultima, data l’importanza per il soggetto di basare una qualsiasi
decisione d’acquisto sul recupero mnemonico di alcuni ricordi concernenti il
medesimo marchio percepito, sarebbe infatti in grado di stimolare l’attività della
corteccia visiva, richiamandola ad una maggiore accuratezza nel processo di
formazione di un quadro rappresentazionale della realtà. Al contrario, in un
contesto in cui il soggetto deve solo fornire un dato relativamente semplice
riguardante una qualità prettamente fisica dell’oggetto, la memoria di lavoro non
dovrebbe avviare un medesimo processo di recupero mentale di informazioni
passate, limitando di conseguenza anche l’attività della zona occipitale deputata alla
visione; al fine di chiarire quale sia il grado di familiarità del brand presentato, il
cervello dei soggetti mette quindi immediatamente in atto, tramite la memoria di
lavoro, un processo di natura fortemente attentiva.
In un secondo stadio percettivo, all’incirca dopo 325 ms dalla presentazione delle
opzioni di scelta, è stata poi riscontrata, nella condizione in cui i soggetti dovevano
compiere una decisione d’acquisto, una forte attivazione di una serie di aree
temporali anteriori e mediane sinistre che risultavano invece meno coinvolte nella
semplice condizione di controllo. Di nuovo, questo dato non sorprende, e trova una
sua spiegazione nel ruolo svolto da queste regioni corticali, tradizionalmente
89
accostate ad una intensa attività di recupero semantico ed episodico delle
informazioni immagazzinate nella nostra memoria; in questa fase del decision-
making, l’attenzione dei soggetti è infatti orientata a identificare l’immagine del
prodotto che percepiscono, classificandola e comparandola con i dati conservati
nella memoria relativa a quel medesimo prodotto. Se la prima fase si
contraddistingueva quindi per una sorta di pre-allarme inviato alle regioni cerebrali
puramente percettive, la seconda si caratterizza invece per l’inizio di una vera e
propria attività di ricerca delle informazioni necessarie.
Dopo 500 ms dall’inizio della scelta da parte dei soggetti, sembrano invece
emergere due quadri di attivazione cerebrale differenti a seconda del grado di
familiarità o meno con il brand. Per quanto riguarda le scelte non prevedibili, ossia
le situazioni in cui il soggetto si trovava di fronte a marche da lui sconosciute, i
ricercatori hanno riscontrato una forte attivazione nella corteccia inferiore frontale
destra, corrispondente alla celebre area di Broca (area 44 di Brodmann).
Il coinvolgimento di questa regione, fondamentale per l’espressione del linguaggio
parlato, potrebbe rivelare una tendenza del soggetto a vocalizzare silenziosamente il
brand sconosciuto, aiutando così, tramite una ripetizione continua, un processo
decisionale che manca di un effetto di familiarità che solo una marca nota ed
affidabile può dare. Nel caso invece di scelte prevedibili, quando cioè il soggetto si
trovava di fronte a un brand conosciuto, si osservava una forte attivazione della aree
parietali destre circa 900 ms dopo l’inizio del compito, dato che, secondo i
ricercatori, sarebbe dovuto alla tentazione del soggetto di trasformare la decisione
d’acquisto in un potenziale atto motorio finalizzato al concreto raggiungimento
dell’oggetto prescelto: conoscendo infatti la funzione di alcune aree parietali,
deputate alla codificazione dello spazio circostante e all’esecuzione dei movimenti
corporei, un loro forte coinvolgimento sarebbe indispensabile per mettere a fuoco il
prodotto da acquistare ed avviare di conseguenza un processo motorio orientato
letteralmente ad “afferrarlo” (Ambler, Braeutigam, 2004).
Uno studio simile è stato svolto dal team di Knutson, che ha studiato attraverso la
FMRi le reazioni cerebrali di diversi soggetti impegnati in un’esperienza simulata
di shopping, articolata lungo tre differenti fasi: in un primo momento veniva
mostrata loro la singola immagine di un prodotto acquistabile; successivamente,
90
unitamente all’immagine, veniva presentato il prezzo del medesimo bene. Infine, in
un terzo momento i soggetti dovevano decidere se acquistare o meno il prodotto
proposto. L’esperimento terminava poi con un’intervista nella quale i partecipanti
esprimevano una propria scala di preferenze per desiderabilità e prezzo che
avrebbero pagato in riferimento ad ogni prodotto visionato.
I risultati della FMRi rivelarono un pattern di attivazione differente a seconda della
decisione dei soggetti di acquistare o meno i prodotti visualizzati: durante la prima
fase di semplice presentazione del prodotto, nel caso di beni acquistati e
particolarmente desiderati dal soggetto, si registrava infatti una marcata attività del
nucleo accumbens (NAcc); per noi non si tratta di un dato sorprendente, dato il
ruolo, già preso in considerazione, di quest’area cerebrale nel porsi come regione
centrale del circuito della ricompensa, e più in generale dell’intero sistema
dopaminergico.
Nella seconda fase, in cui di fianco all’immagine del prodotto faceva comparsa il
prezzo relativo al bene stesso, si verificava invece da una parte una forte attività
dell’insula nei casi in cui l’oggetto non veniva poi acquistato, e dall’altra un forte
coinvolgimento di regioni mesiali prefrontali limitrofe all’area ventromediale nelle
circostanze in cui il soggetto sceglieva di acquistare il prodotto, data la convenienza
economica. Se l’attivazione dell’insula è sempre correlata a situazioni di rischio o
di dolore, e non stupisce quindi un suo coinvolgimento proprio nella fase di
presentazione di un elevato prezzo da pagare per un bene che proprio per questo
motivo non verrà acquistato, l’attivazione della corteccia ventromediale sembrava
direttamente proporzionale allo scarto fra il prezzo che il soggetto era disposto a
pagare e quello effettivo del prodotto, fornendo in questo modo una precisa
anticipazione di quali beni sarebbero poi stati acquistati: maggiore era la
convenienza economica per i soggetti, maggiore risultava l’attivazione di questa
regione cerebrale, il cui ruolo durante i processi di ricompensa è ormai più che
noto.
Questo studio non solo ci fornisce un potente strumento predittivo del processo
decisionale d’acquisto, il cui esito è in qualche modo anticipato dall’attività di
determinate aree cerebrali, ma contribuisce anche a presentare il decision-making
stesso come un complesso processo mentale che vive di una vera e propria
91
competizione neurale fra l’immediato piacere dell’acquisto (Nucleo Accumbens) e
il correlato dispiacere relativo al pagamento (Insula) (Knutson et. al., 2007).
L’idea del processo decisionale come tensione fra diversi circuiti neurali trova il
suo fondamento anche in un’altra ricerca, condotta questa volta da McClure e
Cohen: sottoponendo i soggetti alla FMRi, si chiedeva loro di scegliere fra un
piccolo buono-regalo di Amazon che avrebbero ricevuto immediatamente, e un
altro buono, sempre di Amazon, leggermente più cospicuo e che avrebbero però
ricevuto da due a quattro settimane dopo. Dall’analisi della risonanza magnetica
funzionale emersero due distinti circuiti neurali in grado di predire la scelta del
soggetto: nel caso dei soggetti che optavano per l’ottenimento immediato del
buono, si riscontrò una forte attivazione del sistema limbico, tradizionalmente
associato al lato emotivo e impulsivo della mente, e di alcune zone del circuito
dopaminergico, come il nucleo accumbens (NAcc); nel caso invece di soggetti che
sceglievano il premio più cospicuo, rimandandolo però di 2 o 4 settimane, a
prevalere erano alcune aree prefrontali, come la dorsolaterale, che solitamente sono
deputate a ruoli inerenti alla memoria di lavoro e al ragionamento. Questi dati sono
in grado di fornire una rappresentazione neurale efficace della tensione dei soggetti
fra la volontà di ottenere una ricompensa subito e quella di resistere ricevendo un
guadagno maggiore in un futuro; in termini metaforici, sistema limbico e zone
prefrontali potrebbero rivestire il ruolo di correlati neurali rispettivamente
dell’atteggiamento “cicala” e di quello “formica” (Leher, 2009; Motterlini, 2008).
Definite le principali regioni cerebrali coinvolte nell’atto d’acquisto,
concentriamoci ora su alcune possibili distorsioni cognitive che possono intervenire
nel decision-making del consumatore, influenzandone le scelte; ci occuperemo in
particolare di quattro fenomeni di natura strettamente cognitiva: nell’ordine, si
tratta del framing, dell’euristica dell’ancoraggio, dell’effetto dotazione e del
paradosso della troppa scelta.
Effetto Framing: dipende dai punti di vista
Abbandonato il mito cartesiano di una realtà oggettiva dotata di un proprio status
ontologico indipendente dall’individuo, e sposata invece un’idea di realtà come
costruzione soggettiva intrinsecamente dipendente dalla mente del soggetto, le
92
scienze umane nell’ultimo secolo hanno spostato il focus della percezione dalla
cosa in sé al come essa viene vista dall’uomo, il quale, non più visto come un’entità
che tenta di riprodurre passivamente la realtà nella propria mente, è stato invece
preso in considerazione come un essere che agisce attivamente interpretando il
mondo e costruendo la realtà secondo fattori percettivi, cognitivi e basandosi sul
proprio vissuto precedente.
Questa rivoluzione copernicana nel modo di intendere la mente umana ha
influenzato da vicino anche il processo decisionale dell’individuo, il cui esito non è
più visto come un qualcosa di indipendente dal contesto in cui lo stesso processo si
realizza, ma è anzi fortemente vincolato ad una serie di variabili ambientali; uno
stesso risultato può essere infatti inserito in cornici contestuali molto differenti,
influenzando il modo in cui viene percepito dal soggetto e dando adito, in un
quadro consumistico, a decisioni d’acquisto che possono rivelarsi profondamente
diverse fra di loro: ad esempio, è risaputo che una quantità di gelato minore ma
posta in una piccola coppa che fatica a contenerla viene acquistata più volentieri e a
cifre più alte rispetto ad una quantità maggiore di gelato situata però in una coppa
dalle dimensioni molto più grandi. Questo avviene in particolare quando le coppe
vengono presentate separatamente, e il soggetto, non potendo comparare
precisamente la quantità di gelato di entrambe, lascia che la sua scelta venga
guidata dalla capienza del contenitore: <<comperare una coppa di gelato
traboccante ci piace, suscita un’emozione positiva; comprarne una mezza vuota
no>>76
; è questo il classico esempio di processi decisionali influenzati non dalla
natura del quadro, ma dall’ampiezza della cornice (Motterlini, 2006).
Prendiamo ora il caso di un test sperimentale riguardante la vendita di due differenti
set di stoviglie: il primo è costituito da 24 pezzi (8 piatti piani, 8 piatti fondi e 8
piatti da frutta), tutti in buone condizioni; il secondo, invece è costituito da un
numero maggiore di pezzi, 40 (8 piatti piani, 8 piatti fondi, 8 piatti da frutta, 8 tazze
di cui due con un difetto, 8 piatti da dolce di cui 7 con un difetto). Valutando
congiuntamente i due set, e potendo paragonarli fra loro, i soggetti a cui era chiesto
di fornire una valutazione monetaria di entrambi erano chiaramente disposti a
spendere di più per il set di 40 pezzi (mediamente 25 euro) rispetto a quanto
76
Motterlini, (2006), p. 113.
93
avrebbero pagato il primo set che, anche se in buone condizioni, presentava
comunque meno pezzi privi di difetto (la valutazione qui si aggirava intorno ai 23
euro); la sorpresa arrivava invece quando si cambiavano le condizioni del processo
decisionale, presentando ad alcuni soggetti soltanto il primo set e ad altri soltanto il
secondo, in quella che viene chiamata una condizione di valutazione separata:
contrariamente al principio di razionalità, qui i soggetti si dichiaravano
maggiormente disposti ad acquistare il primo set (valutazione di 25 euro) rispetto al
secondo (valutato mediamente 18 euro). Qualsiasi sia il fattore che abbia
determinato questo cambiamento nella valutazione (probabilmente mentre la
valutazione congiunta spinge a una comparazione fra i due set, nella valutazione
separata, in mancanza di altri elementi, si paragona semplicemente il numero totale
di pezzi con la quantità di pezzi intatti) l’esperimento ci offre più che mai la
possibilità di comprendere come le scelte di consumo siano pesantemente
influenzate dalla modalità in cui vengono presentate.
Generalmente tendiamo a privilegiare, per esempio, un rivenditore che ci fa pagare
un litro di benzina 1,75 e fa lo sconto di 0,05 euro a chi paga in contanti, piuttosto
che uno che fa pagare un litro di benzina 1,70 applicando un aumento di 0,05 euro a
chi paga con il bancomat o carta di credito; la sostanza è la medesima, ma il frame
con la quale ci viene offerta cambia radicalmente, modificando anche i nostri
atteggiamenti di consumo: la parola sconto è molto più attraente della parola
aumento, soprattutto di questi tempi. (Balconi, Antonietti, 2009).
Anche le offerte del tipo “paghi 2 e prendi 3” agiscono sullo stesso meccanismo
cognitivo, facendoci credere che il terzo prodotto non costa nulla: in realtà anche il
terzo bene ha un suo prezzo, dato che per ottenerlo dobbiamo ottemperare a una
condizione onerosa sia in termini monetari che di vincolo al consumo futuro,
obbligandoci a consumare la scorta prima di acquistare una marca alternativa: non
si tratta di altro che un efficace trucco per presentare alla nostra mente un concetto
allettante come quello di gratuità (Lugli, 2010).
Per una migliore comprensione dell’influenza del framing sulle nostre scelte di
acquisto, prendiamo ora in considerazione quello che è stato chiamato l’effetto di
attrazione o di disturbo; in un recente esperimento, 100 studenti sono stati messi di
fronte a due differenti condizioni di scelta riguardanti l’offerta di un abbonamento
94
annuale al giornale The Economist: in un primo caso i soggetti dovevano decidere
fra tre differenti opzioni:
Abbonamento online con accesso a tutti i numeri pubblicati a partire dal 1997,
per 59$;
Abbonamento in formato cartaceo, per 125$;
Abbonamento in formato cartaceo più formato online con accesso a tutti gli
articoli pubblicati a partire dal 1997, per 125$.
Gli sperimentatori raccolsero 16 preferenze per la prima opzione, 84 per la terza e
nessuna preferenza per la seconda alternativa, ritenuta evidentemente sconveniente
dal momento che, paragonata alla terza, offre meno servizi allo stesso prezzo.
L’esperimento fu così ripetuto scartando la seconda opzione, e offrendo ai soggetti
la possibilità di scegliere solo fra la prima e la terza alternativa: il risultato fu anche
qui sorprendente, dato che le preferenze si ribaltarono letteralmente facendo
registrare un 68-32 in favore del primo abbonamento; ciò a significare che la
seconda alternativa, sul piano pratico totalmente inutile, svolgeva invece un ruolo
di fondamentale importanza, offrendo ai consumatori una pietra di paragone per
valutare le altre opzioni, e spingendo così il processo decisionale in favore di una
delle due (Lugli, 2010). Il meccanismo è chiamato effetto disturbo, e viene usato da
molti venditori che, grazie all’introduzione di un’alternativa manifestamente non
conveniente rispetto ad una scelta onerosa, inseriscono la scelta in una cornice utile
ad orientare i consumatori proprio verso l’opzione più cara: <<se aggiungiamo
un’altra opzione, chiamata (-A), nettamente peggiore della prima (A), ma anche
molto simile ad essa, il confronto tra di loro diviene facile e suggerisce non solo che
(A) è meglio di (-A) ma che è anche meglio di (B)>>77
Un altro potente effetto di framing intrinsecamente legato ai nostri atti d’acquisto fa
invece riferimento alla nostra avversione per gli estremi, che ci porta spesso a
eliminare, in una scelta fra diverse alternative, da una parte l’opzione più
economica, associata ad una rinuncia sul piano dei benefici ricercati, e dall’altra
quella più costosa, che implica un’eccessiva rinuncia sul piano economico,
spingendo di conseguenza le nostre preferenze verso l’alternativa centrale.
77
Lugli, 2010, p. 91.
95
È su questo meccanismo che giocano molti venditori, impegnati a porre i loro
prodotti sul mercato in una posizione economicamente intermedia: una stessa
offerta in termini di prezzo può avere differente successo a seconda che si trovi in
un contesto ricco sia di alternative più dispendiose che di opzioni più economiche,
oppure in un ambiente in cui rappresenta l’offerta minore o maggiore (Lugli, 2010).
L’effetto framing è stato indagato anche per quanto riguarda i suoi possibili
correlati neurali: in una sorta di gioco d’azzardo ricreato in laboratorio, un’identica
scommessa veniva presentata a dei soggetti in due diverse modalità: nel primo caso
venivano dati loro 50$, chiedendo di scegliere fra la possibilità di tenersene
sicuramente 20$, oppure di investire l’intero denaro a loro disposizione in una
lotteria che con il 40% di possibilità permetteva loro di mantenere i 50$, e con il
restante 60% di possibilità faceva perdere tutti i soldi dati inizialmente. Nel
secondo, caso, invece la lotteria non cambiava, ma questa volta la possibilità
iniziale era quella di perdere 30 dei 50$ ottenuti, piuttosto che di mantenerne 20$:
la situazione ovviamente è la stessa, ma il modo di presentarla variava, e questo
portava i soggetti ad affidarsi alla lotteria il 42% delle volte nel primo caso, e ben il
62% nel secondo caso.
Fin qui, niente di nuovo: un’altra conferma della validità dell’effetto framing; ma
quando i neuroscienziati usarono la tecnica FMRI per studiare l’attività dei cervelli
dei partecipanti, scoprirono che chi sceglieva di scommettere lasciandosi
“abbindolare” dal differente frame, era sviato dall’eccitazione dell’amigdala, una
regione cerebrale che, quando attiva, evoca sensazioni negative di perdita. Questa
zona cerebrale era tuttavia attiva anche nei cervelli di coloro che non si lasciavano
influenzare dalle due diverse presentazioni, ma la differenza, per questi ultimi,
risiedeva nella contemporanea attivazione della zona prefrontale. In parole povere,
anche chi capiva subito che i diversi frame di scelta si riferivano a una medesima
situazione, provava comunque un’ondata negativa di emozione negativa quando
pensava al contesto di perdita, ma, a differenza degli altri, che decidevano sull’onda
di questa sensazione, sapeva cogliere il segnale filtrandolo con elementi di
razionalità stimolati dalla corteccia prefrontale.
Una decisiva evidenza sperimentale in grado non solo di mostrarci un possibile
correlato neurale dell’effetto framing, ma anche di darci una conferma del fatto che
96
le persone razionali non sono tanto coloro che non ascoltano il proprio sentire, ma
piuttosto coloro che, ascoltandolo, lo sanno comprendere (Leher, 2009; Motterlini,
2008).
Euristica dell’ancoraggio: attenzione all’ancora
Era il 1979 quando gli psicologi israeliani Daniel Kahneman e Amos Tversky
stravolsero lo studio dell’economia formulando la ormai celebre prospect theory:
mandando definitivamente in pensione la figura dell’homo economicus, dotato di
una razionalità perfetta e sempre capace di valutare correttamente gli esiti delle
proprie azioni scegliendo quella che massimizza la sua utilità, la prospect theory, da
una parte raccogliendo una serie di evidenze empiriche che testimoniavano una
continua violazione del principio di razionalità nelle decisioni quotidiane, e
dall’altra analizzando a fondo i meccanismi cognitivi della mente umana, si impose
come modello psico-economico in grado di integrare diversi dati comportamentali
in un quadro unico mirato a fornire una dimensione descrittiva delle decisioni reali.
Tralasciando momentaneamente il tema dell’avversione alle perdite, che sarà
centrale per spiegare successivamente l’effetto dotazione, poniamo ora l’accento sul
fatto che gran parte del merito della prospect theory sta nell’aver colto una
caratteristica fondativa del nostro sistema percettivo:
“Un tratto essenziale della presente teoria è che il valore è associato
alle variazioni di ricchezza o benessere, piuttosto che agli stati finali.
Questa assunzione è compatibile con i principi base della percezione
e del giudizio. Il nostro apparato percettivo è sintonizzato sulla
valutazione delle variazioni piuttosto che sulla valutazione di
grandezze assolute. Quando rispondiamo ad attributi quali la
brillantezza, la pesantezza o la temperatura, il contesto passato e
presente dell’esperienza definisce un livello di adattamento, o punto
di riferimento, e gli stimoli sono percepiti in relazione a questo
punto di riferimento”78
Se il nostro cervello è quindi programmato per riconoscere i cambiamenti da un
determinato punto di riferimento, piuttosto che per valutare le dimensioni assolute,
questo è probabilmente dovuto al fatto che i nostri neuroni sono in grado di
codificare lo scarto fra due diversi istanti, piuttosto che di reagire in base a una
78
Kahneman, Tversky, (2005), p. 79.
97
singola situazione: <<se immergiamo una mano nell’acqua, la stessa temperatura
dell’acqua ci sembrerà calda se la nostra mano si era adattata a un ambiente più
freddo, e fredda in caso contrario.>>79
.
Questa caratteristica fondante del nostro sistema cognitivo fa sì che le nostre
decisioni siano basate non tanto su una valutazione dell’esito in sé, come
prescriveva la teoria dell’homo economicus, quanto piuttosto sull’analisi della
correlazione fra l’esito possibile e un preciso punto di riferimento, che funge da
vera e propria ancora del ragionamento, ed è generalmente rappresentato dalla
situazione attuale in cui si trova il soggetto; in particolare, ciò avviene in ambito
consumistico, dove le nostre decisioni sono spesso maturate dopo una meticolosa
comparazione fra diversi beni o differenti prezzi.
Basti pensare a questo proposito al successo dei saldi: la spesa per un oggetto
opportunamente scontato risulterà vantaggiosa per il semplice fatto di essere
paragonata al prezzo pieno, che spesso viene anche appositamente aumentato per
creare la percezione di un guadagno in realtà fittizio; la comunicazione di uno
sconto eccita infatti la mente del cliente, che, ancorandosi mentalmente al prezzo
pieno e valutando l’affare in base allo scarto con quello reale, trova il modo di
minimizzare il dolore della perdita (con un possibile correlato neurale in una
minore attività dell’insula?) sbilanciando così il decision-making verso la volontà di
ottenere immediatamente la ricompensa (Lugli 2010, Motterlini 2008).
Il valore dello sconto non è tuttavia assoluto, ma dipende dal contesto di
riferimento: un medesimo sconto di 4 euro vale infatti diversamente se offerto su un
bene che costa 12 euro o su uno che ne vale 97; questa diversità è spiegata,
nell’ambito della prospect theory, da un fenomeno percettivo, per il quale la
sensibilità psicologica è maggiore per cambiamenti più vicini al livello di
riferimento, mentre diminuisce marginalmente. Così come, per un principio
prospettico, la distanza fra due punti sembra minore se i punti sono lontani nello
spazio, anche lo scarto fra due prezzi sembra ridursi con l’aumentare delle cifre.
Questo, oltre a dare supporto a quelle ipotesi che vedono un correlato neurale
comune fra l’atto di contare e la percezione spaziale, fornisce anche una
spiegazione al fatto che vi sarebbero più persone disposte a muoversi in un negozio
79
Motterlini, (2006), p. 96.
98
vicino per guadagnare 4 euro su un prodotto che ne costa 12, piuttosto che
risparmiare la medesima cifra su un bene valutato 97 (Balconi, Antonietti; 2009).
Sfruttando sempre il meccanismo dell’ancoraggio, alcuni negozi di abbigliamento
istruiscono il proprio personale a vendere l’oggetto più costoso per primo, puntando
sul fatto che quando il cliente arriverà a valutare altri oggetti per loro natura meno
cari, anche se saranno più costosi del solito, i loro prezzi non sembreranno così alti
rispetto alla spesa già effettuata (Lugli, 2010).
Anche i concessionari automobilistici e i siti delle compagnie aeree low-cost fanno
in modo di ancorare la mente del consumatore a un certo punto di riferimento,
corrispondente a un prezzo iniziale, aumentando solo successivamente la cifra
grazie all’aggiunta di optional vari, i quali, rappresentando solamente un graduale e
indolore aumento, vengono percepiti come poco costosi in relazione al prezzo-
ancora (Motterlini 2008).
Ma il fenomeno dell’ancoraggio è molto più efficiente di quanto si pensi: qualche
anno fa un gruppo di economisti del MIT decise di organizzare un’asta per i suoi
studenti, mettendo in vendita diversi oggetti come bottiglie di vino, tastiere wireless
e scatole di cioccolatini. La peculiarità di quest’asta consisteva nel fatto che ogni
studente doveva scrivere su un foglio le ultime due cifre del suo codice di
previdenza sociale, e decidere poi per ogni prodotto se era disposto a pagare quella
cifra. Successivamente, gli studenti dovevano indicare la cifra massima che erano
disposti a spendere per i diversi oggetti. Anche se in linea teorica il numero di
previdenza sociale non avrebbe dovuto esercitare nessuna influenza sulle offerte, si
registrò un profondo divario fra coloro il cui numero terminava con cifre alte (80-
99) e coloro il cui numero finiva con cifre basse (10-20): i primi fecero un’offerta
media di 56 dollari, i secondi di soli 16.
Questo esperimento, in cui l’ancora costituiva un punto di partenza totalmente
scollegato con il compito da portare a termine, rende l’idea di come il nostro
cervello ricerchi continuamente pietre di paragone dalle quali partire per costruire
un ragionamento, mantenendole anche contrariamente a qualsiasi principio
razionale (Leher, 2009).
99
Effetto dotazione: l’importanza del possesso
Fra i principali meriti della prospect theory vi è senza dubbio quello di aver messo
in luce il fenomeno di avversione alle perdite. Diretta conseguenza del fatto che
l’utilità, al contrario di quanto prescritto dalla scelta razionale, è associata non a
stati di ricchezza e benessere, ma a variazioni rispetto a un determinato punto di
riferimento, l’avversione alle perdite si rivela come una tendenza tipicamente
umana ad assumere un atteggiamento differente di fronte ai guadagni e alle perdite:
sistematicamente viene infatti osservato che la desiderabilità legata ad una certa
vincita è inferiore, di circa la metà, rispetto alla desiderabilità di non perdere la
medesima cifra, e che per questo motivo la gente generalmente rifiuta le lotterie
simmetriche che distribuiscono equamente la probabilità di vittoria fra la perdita e il
guadagno di una stessa somma di denaro80
(Kahneman, Tversky, 2005).
Il fatto che le perdite vengono sempre codificate come più grandi dei guadagni
trova un suo correlato nelle decisioni d’acquisto nell’effetto dotazione: con questo
termine si fa riferimento alla ricorrente situazione in cui un individuo, per cedere un
oggetto, pretende molto di più di quanto non sia disposto a pagare per acquistarlo:
in altri termini, il semplice possesso di un bene sembra moltiplicarne il valore
percepito (Motterlini, 2008). Quest’effetto è stato riscontrato diverse volte in sede
sperimentale: dividendo alcuni soggetti in due distinti gruppi di compratori e
venditori, e assegnando a questi ultimi una tazza ciascuno, il numero di scambi di
mercato andati a buon fine si rivelò decisamente sotto le aspettative, a causa di una
differente valutazione delle tazze da parte dei soggetti: se i venditori, infatti, non
erano mediamente disponibili a vendere il bene in loro possesso per meno di $5, i
compratori, d’altra parte, non valutavano le tazze più di $2,25-2,75, mettendo in
luce una notevole differenza di valutazione dovuta al semplice fatto di possedere o
meno l’oggetto in questione (Kahneman, Knetsch, Thaler, 2005).
Con lo scopo di comprendere se la ragione di questa iper-valutazione di un bene in
possesso stia in un vero e proprio aumento della sua attrattività o piuttosto in una
difficoltà a separarsene, Knetsch condusse nel 1990 un esperimento in cui divise i
80
“Una caratteristica saliente degli atteggiamenti verso i cambiamenti per quanto riguarda il benessere è che le perdite sembrano più grandi dei guadagni. Il peggioramento che un individuo prova perdendo una somma di denaro sembra essere maggiore del piacere associato al guadagno della stessa somma. La maggior parte delle persone, infatti, trova le scommesse simmetriche del tipo (x, 0,50; -x, 0,50) particolarmente poco attraenti” Kahneman, Tversky, (2005), p. 81.
100
soggetti presenti in due gruppi differenti, assegnando a uno 5 penne a sfera di
prezzo medio, e a un altro $4,50, e dando poi il via a un libero mercato di scambio;
al termine, i soggetti potevano scegliere come premio per la partecipazione
all’esperimento o una penna o due tavolette di cioccolato: come previsto
dall’effetto dotazione, i soggetti a cui venivano assegnate a inizio esperimento le 5
penne a sfera optavano nel 56% dei casi per la penna, a differenza del solo 24% di
preferenze date alla penna dall’altro gruppo.
Quando però tutti i soggetti venivano sottoposti a un questionario finalizzato a
valutare l’attrattività di 6 doni da mettere a disposizione come premi finali, emerse
che coloro che erano dotati di penne durante l’esperimento non le valutavano più
attraenti rispetto a coloro che avevano svolto l’esperimento senza di esse. Questo
dato dimostrerebbe come <<il principale effetto della dotazione non è esaltare
l’attrattività del bene che si possiede, ma solo la sofferenza che si prova nel
separarsene>>81
, e inserirebbe questo effetto cognitivo in un quadro teorico di
avversione alle perdite che abbiamo già sottolineato nei capitoli precedenti, e che
vede come argomento centrale l’incorporazione di un’entità esterna nei confini del
proprio sé: una volta che un oggetto viene interiorizzato ed entra nelle
configurazione mentale del sé, l’individuo sperimenta verso di esso non solo un
vero e proprio senso di proprietà, ma anche una percezione di appartenenza
dell’oggetto al proprio “io”. L’effetto dotazione gioca proprio sulla flessibilità dei
confini corporei, suscitando nei soggetti una difficoltà a separarsi da ciò che viene
ritenuto in un breve tempo come “parte del sé”.
Ovviamente, questo meccanismo è alla base di molti comportamenti d’acquisto, e
viene spesso sfruttato da venditori particolarmente abili: molti agenti immobiliari,
illustrando le nuove abitazioni, fanno un largo uso di parole finalizzate a far
sembrare la casa, fin dai primi momenti, come già di proprietà dei nuovi clienti.
Facendo percepire la casa come propria, il venditore fa infatti leva sull’effetto
dotazione, che dovrebbe suscitare nel cliente un senso di proprietà e un immediato
relativo dispiacere per un’eventuale separazione.
Allo stesso modo, le concessionarie d’auto fanno in modo di fissare un prezzo base
per la vendita, e, solo dopo che il consumatore ha accettato la proposta, aumentano
81
Kahneman, Knetsch, Thaler, (2005), p. 137.
101
il prezzo grazie all’inserimento di vari optional che difficilmente frenano la
decisione d’acquisto dell’acquirente, ormai già proiettato verso una percezione
dell’automobile come oggetto proprio (Lugli, 2010).
L’avversione alle perdite gioca il suo ruolo fondamentale anche in un’altra
componente decisiva dei comportamenti d’acquisto, il denaro: acquisito ormai lo
status di bene in sé e non più giudicato come semplice moneta di scambio per
giungere ad altri beni, l’importanza del denaro è tale che una relativa perdita
provoca nell’uomo un vero e proprio dolore che trova un suo correlato neurale
nell’attività dell’insula (Lugli, 2010). L’elemento di curiosità, a questo proposito, è
che l’avversione alle perdite di denaro è evidente in misura molto maggiore quando
acquistiamo qualcosa in contanti piuttosto che quando completiamo transazioni
economiche con la carta di credito. Quest’ultima, secondo recenti studi di neuro-
imaging, riduce nettamente l’attivazione dell’insula, provocando nel cliente un
minore dolore verso le proprie spese e non alimentando una percezione di una reale
perdita che viene invece provocata solo nei casi di pagamenti in contanti. Anche in
un semplice esperimento in cui diversi studenti, durante un’asta, sono invitati a
proporre delle offerte, è stato riscontrato che queste ultime sono molto più alte
quando il solo metodo di pagamento accettato è la carta di credito (Leher, 2009).
Il dolore per la perdita di denaro è tale che le persone, quando è possibile,
preferiscono generalmente concentrare la spesa in un unico periodo piuttosto che
pagare la medesima cifra diluita nel tempo, operazione questa che avrebbe come
unico effetto quello di protrarre in futuro i singoli istanti di dispiacere: <<la somma
delle perdite di denaro realizzata con la concentrazione degli acquisti suscita infatti
un’emozione negativa inferiore a quella che avremmo avvertito diluendo gli
acquisti […] la concentrazione degli acquisti equivale a una riduzione dell’effetto
dotazione>>82
(Lugli, 2010).
Il paradosso della troppa scelta: more is less
Contrariamente a quanto prescritto dalla teoria della scelta razionale, secondo la
quale il consumatore tenderebbe a prendere in esame il maggior numero di
informazioni disponibili al fine di massimizzare la propria utilità, il comportamento
82
Cfr. Lugli, (2010) p. 60.
102
quotidiano degli individui è invece caratterizzato da un’ auto-limitazione del campo
di scelta e da una semplificazione continua del processo decisionale. Così, mentre
in tempi non lontani si era convinti che un maggior assortimento di marche e
prodotti implicasse una maggiore soddisfazione del cliente data dall’offerta di un
più vasto ambito di beni fra cui scegliere, ora è chiaro invece, secondo quello che è
chiamato il “paradosso della troppa scelta”, che l’eccessiva presenza di alternative
in un contesto di scelta rallenta e rende più complicata la decisione d’acquisto,
producendo nell’individuo un sovraccarico cognitivo che lo allontana dal compito e
lo obbliga a mettere in atto diverse euristiche mentali: decidere fra un numero
elevato di opzioni, se inizialmente sembrava maggiormente desiderabile e foriero di
un’ampia libertà individuale, determina invece, alla fine, un forte effetto
demotivante nei consumatori (Olivero, Russo, 2009; Balconi, Antonietti, 2009).
Una prima evidenza empirica di questo fenomeno è emersa nello studio di Sheena
Iyngar e Mark Lepper, due psicologi che hanno studiato in un supermercato della
California gli effetti sul comportamento d’acquisto di un numero elevato (24), e di
un numero ristretto (6) di differenti marche di marmellata. Posizionando fra i
banchi della spesa un banchetto che alternativamente offriva le due diverse quantità
di marmellate, gli psicologi notarono che, sebbene il numero di clienti che si
fermava ad osservare era maggiore quando era presente un’elevata quantità di
alternative (24 marmellate), si registrarono molti più acquisti (30% contro il 3%) se
la scelta verteva solo su 6 tipologie: quando il campo di scelta era limitato, i clienti
che compravano i prodotti erano infatti dieci volte di più.
Il medesimo risultato è stato poi riscontrato in più occasioni: a partire dai piani
pensionistici, per i quali si è osservato un calo delle adesioni direttamente
proporzionale all’aumento delle opzioni d’investimento offerte, passando per
l’ambito scolastico, dove la motivazione di uno studente a scrivere un tema può
essere incrementata limitando la scelta degli argomenti, fino agli affari della
Procter&Gamble, che vide le sue vendite crescere del 10% dopo aver preso la
decisione di ridurre le varianti di Shampoo da 26 a 15, (Gigerenzer, 2007; Leher,
2009; Balconi, Antonietti, 2009; Lugli, 2010).
Alla luce delle diverse evidenze empiriche raccolte, la quantità ideale di opzioni da
offrire ad un cliente dovrebbe aggirarsi intorno al sette, cifra che viene stimata
103
come numero massimo di elementi che la nostra memoria di lavoro può mantenere
durante lo svolgimento di un compito (Balconi, Antonietti, 2009).
Lo stesso paradosso cognitivo è stato comunque riscontrato anche nei contesti di
scelta in cui, pur essendo presenti poche alternative, le opzioni venivano descritte
sulla base di un numero elevato di attributi da prendere in considerazione durante il
processo decisionale: illustrando ad esempio un numero non elevato di case in
vendita, ma fornendo nello stesso tempo al possibile acquirente una quantità di
5,10,15,20 o 25 attributi per casa, si è osservato che la confusione del cliente e la
mancanza di qualità delle decisione finale erano fortemente dipendenti
dall’aumento degli attributi. Compiendo diversi studi a questo proposito, sembra
che il tempo impiegato per decidere fra varie opzioni rallenti inesorabilmente
quando per ogni opzione viene fornito un numero di attributi superiore a 12. Anche
in questo caso, i venditori più abili cercano di facilitare la decisione del cliente
offrendogli, oltre a un numero limitato di alternative, anche una modesta quantità di
attributi per ognuna, in modo tale che il confronto fra le opzioni risulti il più esile e
facile possibile.
Il paradosso della troppa scelta è probabilmente dovuto sia ad un sovraccarico
cognitivo che trova la sua ragione d’essere nella limitata capacità della nostra
mente, la quale non è in grado di operare scelte prendendo in considerazione un
numero illimitato di possibilità, sia ad un senso di eccesiva responsabilità degli
individui, i quali, di fronte a un numero elevato di opzioni percepiscono una
maggiore pressione nel dover raggiungere la migliore decisione possibile (Balconi,
Antonietti; 2009). Data questa duplice difficoltà in un contesto di ampia scelta, i
consumatori mettono in atto diverse strategie difensive: molti tendono a rinviare
sistematicamente questi tipi di decisione, rallentando il processo decisionale o
addirittura fuggendo da esso; altri, invece, si impongono regole ed auto-limitazioni
in grado di restringere il campo di scelta e di semplificare di conseguenza la
decisione (in un supermercato, ad esempio, leggere le alternative di assortimento in
verticale e focalizzare l’attenzione sulla posizione centrale, piuttosto che acquistare
preferibilmente i prodotti all’inizio dello scaffale rispetto al senso di percorrenza
senza visionare tutte le alternative, sono esempi di euristiche impiegate per
facilitare il decision-making) (Lugli, 2010).
104
Oltre al paradosso della scelta, che per certi versi è l’emblema dell’effetto negativo
portato nel processo decisionale da un sovraccarico cognitivo, vi è anche un altro
dato interessante in grado di mostrare come l’eccessivo utilizzo delle funzioni più
razionali della propria mente, in un contesto di scelta, porti a un netto
peggioramento della qualità dell’intero decision-making: in un esperimento
condotto dallo psicologo Wilson, a diverse ragazze era chiesto di scegliere il loro
poster preferito fra un paesaggio di Monet, un quadro di Van Gogh e tre poster
umoristici di gatti. Ma, mentre un gruppo doveva semplicemente indicare la propria
scelta portandosi a casa il poster preferito, un altro gruppo sperimentale doveva
compilare un questionario indicando le ragioni della loro decisione e i fattori
valutati come positivi e negativi per ogni poster. Già a questo livello emerse una
profonda differenza: il primo gruppo aveva selezionato maggiormente i quadri
artistici, mentre il secondo, probabilmente spinto dalla paura di non conoscere le
motivazioni sottostanti ad una scelta di carattere artistico, si rifugiava in una
tranquilla scelta di quadri rappresentanti i felini, sicuramente più facilmente
argomentabile sulla base dei proprio gusti personali.
Due settimane dopo, Wilson ricontattò le ragazze per vedere quale gruppo avesse
preso la decisione migliore: il primo gruppo, vale a dire coloro che non avevano
dovuto rendere conto della propria scelta, sembrava totalmente soddisfatto della
propria decisione, dichiarando esplicitamente di non voler cambiare idea. Le
ragazze del secondo gruppo, invece, nel 75% dei casi si mostrarono insoddisfatte
della scelta, chiedendo agli sperimentatori il permesso di poter tornare indietro sui
propri passi: chi aveva ascoltato il proprio gusto personale, risultava quindi
contento del proprio decision-making; chi era stato costretto ad una
razionalizzazione forzata, era invece andato contro le proprie preferenze rimanendo
deluso dalla propria capacità decisionale (Leher, 2009). Questo esperimento
costituisce un buon segnale in grado di suggerirci che, in scelte d’acquisto
caratterizzate dalla presenza di alternative con una scarsa funzionalità e con
un’elevata importanza estetica, pensare troppo può rivelarsi anti-produttivo e può
condurre lontano dalle proprie preferenze.
Ricapitolando quanto espresso da questi ultimi dati, possiamo concludere con una
certa sicurezza << che usare poca informazione produce il vantaggio di effettuare
105
scelte migliori e maggiormente soddisfacenti, risparmiare tempo ed energia
cognitiva ed evitare la sgradevole esperienza di conflitto>>: contrariamente a
quanto si potrebbe pensare, un cliente soddisfatto non è un soggetto che utilizza
tutte le proprie risorse cognitive per risolvere un decision-making caratterizzato da
un gran numero di informazioni, ma è anzi un consumatore che richiede un
processo di scelta rapido, efficace e basato su pochi ma essenziali elementi83
.
83
Cfr. Balconi, M., Antonietti, A., (2009), p.90.
106
CONCLUSIONI
Tenendo fede all’interdisciplinarietà che caratterizza le scienze cognitive, possiamo
quindi concludere il nostro elaborato ritenendo di aver portato a termine, nei limiti
del possibile, una ricerca teorica che, oscillando fra le varie discipline, ha cercato di
racchiudere in un quadro il più esaustivo possibile il complesso e variopinto
fenomeno dei comportamenti d’acquisto.
Spaziando fra i diversi ambiti concettuali, ci sembrava doveroso porre una
premessa di carattere epistemologico in grado di fornire una rigorosa base filosofica
e psicologica per lo studio dei consumi: a nostro avviso, infatti, soltanto
richiamando la visione di un sé come complesso insieme di fenomeni, fondato su
un iniziale processo di categorizzazione e caratterizzato, sia nella sua dimensione
individuale di “io”, sia in quella collettiva di un “noi”, da alcune componenti
principali come la continuità temporale e l’unicità spaziale, era possibile
comprendere a fondo la forza del brand, fondata interamente sulla sua capacità di
intrattenere un rapporto con le dimensioni del sé offrendosi, attraverso una nuova
occasione di categorizzazione, come entità da incorporare nei confini dell’ “io” e
del “noi”, e adempiendo così a una duplice funzione di esplicitazione di parti del sé
inespresse e di copertura di zone di insicurezza psichica.
Questa premessa di natura filosofica e psicologica ci ha garantito le giuste basi
teoriche per avviare un complesso viaggio teorico, costruito anche sulla base di
argomentazioni sociologiche, utili a comprendere le principali trasformazioni
sociali che hanno condizionato i comportamenti consumistici, e di studi
neuroscientifici, che, attraverso l’utilizzo di tecnologie come la FMRi, ci hanno
permesso di far luce su possibili correlati neurali non solo del concetto di brand, ma
anche, più in generale, dei comportamenti di dipendenza e delle caratteristiche del
processo di decision-making finalizzato all’acquisto.
Sperando quindi di aver portato a termine un lavoro che sia stato in grado di
sposare la ricca varietà degli argomenti con la coerenza dell’impianto teorico e
argomentativo, ci auguriamo di aver contribuito anche in minima parte a colmare il
vuoto presente in letteratura; per il resto, non ci resta che auspicare un crescente
interesse delle scienze cognitive per questo tema, sperando che questo, in un futuro
prossimo, possa coniugarsi più facilmente con uno sguardo interdisciplinare
107
finalizzato non solo a non trascurare le basi del fenomeno preso in considerazione,
ma soprattutto a mantenere in vita l’identità delle scienze cognitive stesse, che
possono sopravvivere solo grazie ad una profonda integrazione delle diverse parti
che le compongono.
108
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