DOMENICA 3 LUGLIO 2011/Numero 333
DomenicaLa
di Repubblicacultura
Sulle tracce della lista di SzczygielMARIUSZ SZCZYGIEL
il reportage
Quando Cristo si fermò a TudiaATTILIO BOLZONI
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Voltidel
Gheddafi, Putin, Obama,Berlusconi e tutti gli altriI leader della Terravisti da Platon, fotografoe ladro di vite nascoste
le tendenze
Un’estate a Capri insieme a JackieIRENE MARIA SCALISE
i sapori
Sua maestà il basilico, re dell’estateLICIA GRANELLO e GINO PAOLI
l’incontro
Moby, “La mia musica e il divino”ANNA LOMBARDI
DAVID REMNICK
In questolibro di foto ritratti, la maggior parte dei quali scat-tati nel giro di pochi giorni nell’edificio delle Nazioni Unite,Platon fissa quasi tutti i più importanti governanti del mon-do in un dato momento. È un progetto affascinante e infi-nitamente memorabile. Dopo il 1970, nel mondo, il nume-ro dei leader eletti democraticamente si è triplicato, anche
se molti di loro — come quelli russi, per esempio — lo sono solo for-malmente. Nel libro sono presenti politici di ogni tipo, dai più bo-nari ad altri quali il libico Muammar Gheddafi, lo zimbabwese Ro-bert Mugabe o l’iraniano Mahmoud Ahmadinejad, tiranni che rin-chiudono gli oppositori nelle prigioni e i cui vanti richiamano quel-li di Lenin. Platon non ha potuto trascorrere molto tempo con i sog-getti dei suoi ritratti. In quasi tutti i casi ha avuto solo pochi minutiper sistemarli davanti alla macchina fotografica e qualche volta siè dovuto accontentare addirittura di solo quattro o cinque scat-ti.Nonostante questi rigidi limiti, i ritratti di Platon non potrannomai essere confusi con quel tipo di foto ritratto che i leader in ge-nere preferiscono.
(segue nelle pagine successive)
GABRIELE ROMAGNOLI
Il potere come volontà, ma soprattutto come rappresen-tazione. Prendete, per esempio, il presidente iranianoAhmadinejad. Fissa l’obiettivo e intanto cerca di assume-re l’espressione che ritiene opportuna: quella di un uomodeciso ma giusto. Insegue la faccia del dover essere, concui mostrerà al mondo occidentale, destinatario di quel-
lo scatto, chi è veramente: non un tiranno, ma un uomo del po-polo e per il popolo, dallo sguardo al contempo inflessibile e soa-ve. Platon, il fotografo che lo inquadra, pensa (come rivela sul si-to del New Yorker): sembra un bambino. Ho avuto quella foto al-la parete per giorni, la guardavo e mi faceva l’effetto di un lupomannaro: i peli che sorgevano da ogni lato del viso creando unamaschera, il villoso tiranno dall’abbigliamento dimesso. Il sog-getto fotografato, l’occhio del fotografo e quello di chi guarda: èuna micidiale combinazione. Può creare effetti voluti o perver-si. Può deviare percezioni provocando o demolendo consensoIlpotere lo sa e da sempre è attento, in modo talora maniacale, al-la propria immagine.
(segue nelle pagine successive)
spettacoli
L’altra Suzanne di Leonard CohenLEONARD COHEN e DARIO CRESTO-DINA
Potere
Repubblica Nazionale
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 LUGLIO 2011
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la copertinaVolti del potere
Da Ahmadinejad a Putin, da Obama a Berlusconi,da Gheddafi a Cameron a Kagame. Un progetto ambiziosoora culminato in un libro: mettere in posa e ritrarrei leader della Terra, i primi a sapere quanto una fotografiapossa creare o distruggere il consenso. Ecco l’impresadi Platon ed ecco perché è rivoluzionaria
(segue dalla copertina)
uperata la fase del ritratto o della scultura (superata? Guardaquanto si discute del Wojtyla alla stazione Termini) è stata la fo-tografia a trasmettere il voler essere dei potenti. L’immagine inmovimento, quella televisiva, le è succeduta, ma è rimasta in se-condo piano finché ha potuto imprimersi soltanto nella me-moria, non essendo replicabile e inoltrabile a piacere. Internetsta assolvendo a questa funzione, ma ancora la fotografia ha unpotere decisivo. Di qui la cura dei leader per la posa, la ricercadel controllo, i veti, le censure, gli interventi di chirurgia esteti-ca in photoshop. E poi l’ingenuità, figlia della vanità, di conce-dersi per pochi minuti, un pugno di scatti appena (che saràmai?) a un grande fotografo come Platon, che si presenta sorri-dente, inerme e, con l’abilità dei più grandi ladri, in un istante tiporta via tutto: la barriera che hai eretto, l’espressione che haicostruito, lo sguardo che volevi tramandare ai posteri. Il lavoroprecedente è stato lungo e complesso. L’ascesa al potere e la
conferma nel ruolo dipendono anche dalla costruzione del-l’immagine. È l’elaborazione di un personaggio. È una narra-zione che a un certo punto si condensa intorno a un nucleo e sifa messaggio. Pensiamo alla campagna elettorale nei Paesi do-ve la scelta del leader avviene democraticamente.
Ci sono trionfi figli di un reportage. Penso a John Kennedy se-guito e magistralmente ripreso da Jaques Lowe durante le pri-marie e il successivo duello con Nixon. L’America elesse, anchee forse prima di ogni cosa, il giovane uomo in barca sul fiume, ilciuffo spettinato dal vento, che guarda nell’acqua e sembrascrutare il fondo del destino individuale e collettivo. Tutta lapresidenza Kennedy si è basata, allora e ora che è un ricordo, suimmagini. Dici il suo nome e vedi John John accucciato sotto lasua scrivania, vedi lui e Jackie scendere luminosi da una scalet-ta d’aereo, vedi infine il cimitero di Arlington, la bandiera sullabara. Chi più di ogni altro ha capito la lezione è stato Obama.Non a caso ha corredato la sua corsa verso la Casa Bianca di unportfolio kennediano, la cui più riuscita immagine è quella del-la colazione alla tavola calda. L’Obama di Platon è meno caldo.Ha la rigidità successiva di chi il potere ha raggiunto e deve ge-
stire, senza esitazioni. È, sebbene lo scatto sia precedente, l’uo-mo che scendendo dalla scaletta dà l’ordine di procedere al blitzcon esecuzione di Bin Laden. Perché per conquistare occorrescendere al livello della gente, ma per governare bisogna mo-strarsi superiori. Vale anche per i leader liberamente eletti. IlBerlusconi in pullover lascia spazio a quello in doppio pettoblindato. Il viso proteso verso il pubblico arretra in una posa checerca di apparire risoluta. Al netto delle immagini rubate (quel-le in bandana bianca o camicia da tranviere) anche il seduttorecorteggia l’autorevolezza. Prova ne sia l’estenuante lavoro deisuoi addetti al ritiro delle immagini considerate in contrastocon la strategia di comunicazione. Che si fa tanto più incom-prensibile quanto più incontrastato è il potere del soggetto.
L’assolutismo ha un effetto perverso: concede al despota didecidere come apparire senza che alcuno osi consigliarlo, giac-ché comunque si mostri resterà al potere, non ammettendo av-versari. Di qui la risibile mistica dei rais del Medio ed EstremoOriente. Ha ragione David Remnick quando scrive che nella fo-to di Platon Gheddafi sembra una creatura di Star Wars. Ma miè capitato di sfogliare un intero album del Franco Califano di
GABRIELE ROMAGNOLI
PLATON
Volontà e rappresentazione
Ahmadinejad è un uomo molto fanciullesco. Non volevo farneuna caricatura, mostrarlo tosto e cattivo. Volevo mostrarequesta ironia, questa innocenza dei suoi occhi
Berlusconi è stato incredibile. Non ho avuto nessun bisognodi dargli indicazioni; girava la testa da un lato, mi sorrideva malandrino. Ha adorato ogni secondo della sessione‘‘
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 3 LUGLIO 2011
DAVID REMNICK
(segue dalla copertina)
Quando lavora, Platon si rende affascinante e si fa accettare assumendo atteggiamenti apolitici escherzosi che gli permettono di conquistarsi la collaborazione del soggetto. Platon è in ogni ca-so all’altezza del compito: è molto più di un tecnico con l’abilità di accedere ai potenti. Non si la-
scia vincere facilmente dalla ben collaudata capacità dei suoi soggetti di sfuggire a un occhio penetrantee la vittoria è quasi sempre sua. Il Gheddafi di Platon è surreale, grottesco, e sembra essere stato prele-vato in un bar e trasportato nel mondo di Star Wars; Mugabe, già leader del movimento di liberazionedel suo Paese e ora un mostro sulla via dell’oblio, sfida l’obiettivo con il suo grugno canagliesco; Ahma-dinejad, che minaccia di far sparire gli israeliani e che elimina i suoi nemici con la prigionia, la tortura el’intimidazione, guarda al mondo con un ghigno. La foto ritratto del leader russo Vladimir Putin svelatutta la sua fredda e dura arroganza; il suo è il volto archetipico di un ufficiale dei servizi segreti sovieti-ci. Alcuni degli autocrati del mondo meno minacciosi si abbandonano allo sguardo indagatore di Pla-ton. Dell’italiano Silvio Berlusconi, Platon coglie lo sguardo ammiccante nel momento giusto. Anchese sono attirato dai ritratti di Platon della tirannia, sono colpito anche dall’abbondanza di normalità, di
non mostruoso e persino di eroico che c’è nella sua opera: lo sguardo tormentato del palestinese Mah-moud Abbas; l’atteggiamento dignitoso dell’iracheno Jalal Talabani; la coraggiosa allegria del maldi-viano Mohamed Nasheed, le cui isole potrebbero restare sommerse dall’innalzamento del livello deimari a causa del riscaldamento globale. È opportuno ricordare che questo progetto riafferma il fatto cheun volto non dice più di tanto, il che è in parte il fascino di questi ritratti del potere. Il ruandese Paul Ka-game è un personaggio estremamente complesso, responsabile sia dello straordinario sviluppo politi-co ed economico del suo paese dopo il genocidio del 1994, sia delle spaventose conseguenze della suainterferenza nella guerra civile in Congo. Il fatto che qui sembri un gentile professore d’ingegneria, congli occhialini cerchiati di metallo dietro cui si accenna il suo sguardo fisso, ci dice solo che è bravissimoa nascondersi. Gordon Brown si sforza di apparire raggiante, anche se dal suo breve regno come Primoministro sappiamo che, oltre a essere onesto e profondamente intelligente, è curiosamente anche in-troverso, poco incline all’umorismo e quasi scontroso. Almeno per il momento, si rivela un democrati-co di acciaio ed esperto a sfuggire, a mentire, a uno dei nostri migliori fotografi.
Traduzione di Guiomar Parada(Tratto da Powerby Platon © Chronicle Books)
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Tripoli e quel che di sé vuole tramandare assomiglia a un car-nevale personalizzato: stoffe sgargianti, copricapo imbaraz-zanti, lenti fumé, assenza totale di espressività, siderale lonta-nanza da qualunque persona o cosa, finanche dall’obiettivo.Da Saddam a Mubarak, passando per lo yemenita Saleh, la ri-trattistica rivela un immaginario tra l’epico e il fumettistico,suggerendo come archetipo in salsa delirante Gengis Khan.
Qualcosa di simile vale per il dittatore coreano Kim Jong Il,che passa da una fotografia all’altra senza cambiare né divisa néocchiali, presentandosi come un incrocio tra Mao e Leone diLernia, aggravando l’effetto con la decisione di farsi fotografa-re mentre testa ogni oggetto di produzione nazionale, dai bul-loni alle paperelle. L’esito finale è molto più vicino a una scenadei Simpson che a una realtà affidabile. Il potere mira a una fi-siognomica elementare e scontata: così vecchia da ripiegarsi suse stessa e crollare. I suoi esponenti finiscono per cedere alla va-nità e tradirsi. Come Putin quando accetta di farsi intervistareda Naomi Campbell e spara corbellerie sulla caccia alla tigre al-la maniera di uno spaccone da bar. Allo stesso modo si mette inposa cercando di apparire rassicurante e risulta agghiacciante.
È lo squarcio nel velo dipinto. È la rivincita dell’occhio mecca-nico guidato da quello umano. La fotografia racconta l’ine-spresso, la rappresentazione smaschera la volontà. Anche se ilsoggetto non guarda.
Nel gennaio 1998 ero a Cuba e seguivo l’incontro tra il Papa eFidel Castro. Fu pubblicata una foto che mi sembrò più forte diogni altra: i due, di spalle, camminavano in un corridoio scuro,verso una luce al fondo, sorreggendosi. Scrissi che era l’imma-gine di due poteri condannati a durare fino alla morte, del so-stegno reciproco che si davano per perpetuare un dominio. Inconseguenza di quelle parole mi fu negato un successivo vistod’ingresso a Cuba: persona non grata. Lo stesso non accaddeper il fotografo. Il potere, spesso, è così: non si accorge di che co-sa lo mette veramente a nudo. Si dedica alla costruzione del pro-prio mito riproponendo collaudate tecniche di persuasione,propaga per immagini valori non più condivisi. Finisce persmarrirsi in un gioco di specchi riflessi frantumati da uno sguar-do colmo di disincanto. E nessuno che abbia colto l’insegna-mento più raffinato dell’Islam: il profeta non appare.
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Questo è sempre stato il mio ritratto preferito del presidenteNon è il Barack Obama supercarismatico che conosconotutti, questo è l’Obama pensieroso
IL LIBRO
Si intitola semplicemente Power il libro
di fotografie di Platon (con introduzione
di David Remnick, direttore del New Yorker,
che pubblichiamo in queste pagine)
che ritrae cento leader di tutto il mondo
creando un catalogo del potere globale
Il libro è stato realizzato in un anno di lavoro
quasi interamente alle Nazioni Unite
e con pochi minuti a disposizione per ogni
scatto. Platon è fotografo del New Yorker
e vincitore di premi come il World Presse Photo
(proprio con la foto di Putin)
Il libro (224 pagine, 35 dollari) è pubblicato
da Chronicle Books
Nella sua dacia era pieno di guardie e di cecchini. Avevo avutouna settimana stressante e scoppiai in lacrime. Putinmi guardò e disse: “Lo farò”. Penso abbia avuto pena di me
Un ladro che ruba ai grandi per dare ai piccoli
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30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 LUGLIO 2011
il reportageServi e padroni
Nel 1876, all’indomani dell’Unità, quando Franchetti e Sonninoscrissero la loro storica inchiesta, individuarono il feudopalermitano di Tudia come simbolo delle condizioni arretratedel Mezzogiorno. Quasi novant’anni dopo “L’Espresso” tornavain quei luoghi per vedere che cosa era cambiato: nullaOggi, ecco il nostro terzo viaggio
TUDIA (Palermo)
Che cos’è la repubblica? «Non ci sonomai stato». Qual è la capitale d’Ita-lia? «Non lo so». Ha mai visto il ma-re? «No». Ha mai mangiato pesce?
«Qualche sarda». È mai stato al cinema? «Marcel-lino. In piazza. Quando ci fu l’Annunziata». Cosìci ha risposto Damiano Gentile, contadino di Tu-dia, in Sicilia.
E così, più di cinquant’anni fa, cominciava unagrande inchiesta dell’Espresso sugli schiavi di unantico feudo al centro dell’isola. Tiranneggiati dabaroni e marchesi, sovrastanti e campieri, i con-tadini di Tudia nella metà del secolo scorso eranoprigionieri in un mondo fuori dal mondo. I gior-nalisti dell’Espresso s’inoltrarono nel cuore dellaSicilia per ripercorrere, a ottantaquattro anni didistanza, lo stesso itinerario che avevano seguitoappena dopo l’Unità d’Italia Leopoldo Franchet-ti e Sidney Sonnino, due intellettuali della Destrastorica autori di una memorabile indagine sullemiserabili condizioni sociali e politiche del Mez-zogiorno.
Che cosa è cambiato a Tudia? Che cosa è cam-biato in Sicilia? Grandi inviati come Eugenio Scal-fari e Nicola Caracciolo, Gianni Corbi e Livio Za-netti, si posero queste domande incontrando i fi-gli e i nipoti dei mezzadri interrogati otto decenniprima. Non era cambiato niente. Una tragica im-mobilità avvolgeva ancora il feudo. Gli schiavi era-no ancora lì, rinchiusi nei loro tuguri che divideva-no con muli e maiali. L’Africa in casa, titolò L’E-spresso del 26 aprile 1959. La testimonianza di Da-miano Gentile, contadino analfabeta di Tudia,raccoglieva ancora tutte le sofferenze di quei sici-liani del 1876.
Noi siamo andati a raccontare Tudia oggi. Un ri-torno. Un altro ritorno. Il fiume è quasi in secca. Inquesta parte della Sicilia a cavallo tra le province diPalermo e Caltanissetta prende il nome di Imera,ma poco più in là — dove attraversa le miniere dizolfo abbandonate — lo chiamano Salso. Una di-scesa ripida che si butta verso il borgo di Recattivo,una salita fino a Portella del Vento, un’altra disce-sa sul torrente Coda di Volpe e in lontananza ecco— otto chilometri dopo il paese di Resuttano — ilfeudo di Tudia.
La croce della chiesa sconsacrata è coperta di er-bacce, la caserma dei carabinieri deserta, vuoti i si-los per le sementi, le rimesse dei mezzi agricoli e in
fondo il baglio in pietra, la maestosa masseria conla corte interna dove i padroni — nobili che veni-vano da Palermo — trascorrevano le loro estati.Tudia è nome arabo che vuol dire gelso. E due so-no i gelsi che fanno ombra dietro il baglio, mesco-lati a palme e pini d’Aleppo, carrubi, peri, peschi.
Quando Scalfari e gli altri scesero qui cinquan-tadue anni fa per descrivere «l’Italia che non cam-bia», tutt’intorno era un’immensa distesa gialla,due milioni e mezzo di metri quadrati senza con-fini, spighe dorate fino all’orizzonte e in mezzo lo-ro, puntini neri, i contadini che si spaccavano laschiena dall’alba al tramonto per i padroni. Oggi cisono settanta ettari di vigne, trentadue ettari di uli-
vi, otto ettari di frutteti, cinque ettari di pistacchi,orti, canali, laghetti. C’erano anche duecentoschiavi che non ci sono più. I loro figli e i loro nipo-ti sono fuggiti per fame in Germania, in Belgio, nel-le acciaierie di Solingen, nei giacimenti di carbonedi Charleroi, nelle fabbriche di Milano e Torino.Solo alcuni di loro, dopo tanti anni, sono ancoraqui a fare i contadini. Ci sono però sempre i pa-droni. I sopravvissuti e i discendenti di blasonatefamiglie che dal Seicento, generazione dopo ge-nerazione, hanno ereditato terre e anche le vite de-gli uomini. I Moncada e i Filingeri, i De Spuches, iTasca, i Cutò. Fino ai marchesi Di Salvo. Gli ultimisignori di Tudia. Com’è cambiato il feudo un seco-lo e trenta anni dopo l’indagine di Franchetti eSonnino? Cosa è rimasto del feudo dopo i reporta-ge di Scalfari e degli altri giornalisti dell’Espresso?
Le foto di famiglia, impolverate, sono sistematealle pareti del suo studio. Muri spessi e soffitti al-tissimi, fuori il bollore della prima estate sicilianae dentro un fresco ristoratore: sembra una stanzadello scirocco, uno di quegli ambienti progettatidagli antichi mastri per trovare riparo dalla calurapiù violenta. In realtà, una volta, questo studio erail magazzino per far maturare le olive. Dietro lascrivania c’è l’albero genealogico dei Li Destri del-la Castiglia, il ramo di madre di Giuseppina Di Sal-vo, quella che in intimità chiamano «la signoraGiuseppina» ma che per i contadini di Tudia èsempre stata «la marchesa». Ha ottantasette annie due occhi color smeraldo, si sorregge su un ba-stone. Ogni tanto fruga nella sua memoria, ognitanto seppellisce i ricordi più crudeli.
È lei, «la marchesa», la donna che ha segnato ilpassaggio di Tudia da accampamento di schiaviad azienda agricola. Il feudo l’ha ereditato da suopadre Vittorio che a sua volta l’aveva ereditato dalpadre Liborio, diciotto figli generati e dodici arri-vati in età adulta, dissipatori di ricchezze come tut-
ATTILIO BOLZONI
Conversazione in Sicilia
Che cos’è la repubblica? “Non ci sono mai stato”Qual è la capitale d’Italia? “Non lo so”
Così cominciava il servizio “L’Africa in casa”
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 3 LUGLIO 2011
ti i nobili del tempo. Don Liborio, che era entratoin possesso di Tudia nei primi del Novecentoquando un rampollo dei Cutò — con una grandepassione per le ballerine parigine e molto biso-gnoso di denaro — glielo cedette in una notte. Dadon Liborio a don Vittorio, il feudo e il grano, i pa-droni e i sotto, il baglio e il pagliaro, il frustino deicampieri e l’ingordigia dei preti, la sbirraglia sem-pre schierata contro i contadini, pane e cicoria, pa-ne e cipolla. E poi nel 1965 è arrivata lei, Giuseppi-na Di Salvo marchesa De Gregorio.
Ma la storia di Tudia non si può raccontare solodalla parte dei padroni. La storia di Tudia la devo-no raccontare soprattutto i superstiti. Quelli chesono rimasti vivi dopo quarant’anni a scavare nel-la terra sotto Portella del Vento. Quelli che non ave-vano niente perché i loro padroni avevano tutto.Uno che nei campi di Tudia ha lavorato per tren-tadue anni — dal 1936 al 1968 — è Antonino D’An-na. Poi è emigrato in Germania, a Oberkichen. Mail suo cuore e il suo sangue sono rimasti sempre lì,nel feudo che l’ha sfamato: «Nel bene e nel malequi ho passato la mia esistenza». La vita grama pri-ma e dopo la guerra, poi il 1948 e la speranza chetutto finalmente cambiasse. L’occupazione delleterre, i contadini che erano tutti comunisti, i cara-binieri a cavallo che li caricavano, la ritorsione deicampieri, i sacchi di frumento come pizzo al mar-chese, i sacchi di frumento come pizzo alla chiesa,i sacchi di frumento come pizzo per il passaggionella stradella che portava fuori dal feudo. Fave epasta una volta la settimana, la carne a Pasqua e aNatale, il brodo di gallina solo quando in casa c’e-ra un malato. Faticavano dalle quattro del mattinofino al buio, molti non avevano scarpe, guai aimezzadri con una bella moglie adocchiata dal pa-drone, il bastone sempre pronto per chi si lamen-tava o si ribellava. Violenze e soprusi. In un Me-dioevo di appena mezzo secolo fa.
La parte più imponente del baglio è una costru-zione che al primo piano ha un balcone che affac-cia sulla corte. Sotto, scolpite nel marmo, tre lette-re: BLM. Barone Lucio Mastrogiovanni. Uno deivecchi proprietari. È da quel balcone che don Li-borio aspettava i contadini, quelli che di notte an-davano a prendere le sementi alla masseria per ri-trovarsi nei campi con la prima luce. «È in quellenotti che don Liborio ci aspettava per pisciarci intesta», ricorda Giuseppe Puleo, un altro deglischiavi di Tudia, sedici anni passati a tirare la cor-da dei muli per i marchesi Di Salvo.
La scuola elementare non c’è più e neanche lacaserma dei carabinieri a cavallo, la chiesa è co-
perta dai rovi, i magazzini abbandonati. Non ci so-no più nemmeno i duecento schiavi di Tudia. Og-gi qui, a otto chilometri da Resuttano, quaranta daCaltanissetta e centoquattro da Palermo, vivono lasignora marchesa, il figlio Vincenzo Sudir De Gre-gorio e la sua compagna Gila Sinibaldi.
Dal 1965 la marchesa ha preso in mano le sortidel feudo travolto da un dissesto finanziario e conle unghie e con i denti ha cercato di salvarlo. Ha por-tato l’acqua, ha piantato i vigneti, ha voluto i peschisulla collina, alcuni contadini hanno comprato laterra e fatto società con l’ex padrona. Per esempioi Meli, che ai confini di Tudia oggi hanno sessantaettari. Il baglio è diventato un bellissimo agrituri-
smo. Dove fino a qualche decennio fa si ammassa-va il grano adesso c’è una sala banchetti, una lungatavola coperta da ricotte fresche e pecorini primosale, frittatine di zucchine, pomodori secchi, olive,cannoli. E vini bianchi e rossi. E poi essenze di erbee di fiori, olio di calendula e olio di iperico. In unaparte della vecchia cantina c’è l’Osho Center, unostanzone enorme «dove si può meditare, cantare,danzare, stare a contatto con la natura».
Ma la vera sorpresa nell’antico feudo deglischiavi sono Brian e Nicole ed Emy, ragazzi divent’anni che vengono dagli Usa e dall’Inghilter-ra. Sono qui a Tudia da qualche settimana. Potanole viti, raccolgono melanzane, fanno marmellate,sbucciano piselli, preparano torte, puliscono at-trezzi, riparano sedie, tagliano erba. Nell’ultimoanno di ragazzi come loro a Tudia ne sono passatipiù di cento. Canadesi. Cinesi. Polacchi. Li chia-mano “Wwoofers”, sono volontari giramondo perle fattorie biologiche dei cinque continenti. Incambio di vitto e alloggio offrono lavoro nei cam-pi e nell’azienda agricola. Fuori da logiche mer-cantili, i “Wwoofers” sono arrivati anche in questaSicilia alla ricerca del feudo che non c’è più e forseanche di se stessi.
La signora marchesa lancia uno sguardo sor-nione a Nicole, la bella ragazzina americana cheserve a tavola la caponata. Il figlio Vincenzo intan-to racconta il suo sogno: una Tudia che in futurodiventerà un po’ business e un po’ comune. C’è giàl’orto biotantrico, ogni domenica vendono i loroprodotti nella piazza Marina di Palermo.
I vecchi contadini che ci hanno accompagnatoin questo viaggio nel cuore dell’isola sorridono conmalinconia. Uno di loro ci dice: «Il figlio della mar-chesa è diventato più comunista di noi. È propriovero che il mondo si è capovolto». Così abbiamo la-sciato il feudo dove una volta c’erano gli schiavi.
TESTIMONIANZENell’altra
pagina,
l’inchiesta
dell’Espresso
e Tudia oggi;
in questa
pagina, volti
di Tudia:
qui a fianco,
Giuseppina
Di Salvo,
Giuseppe
Puleo
e Antonio
D’Anna;
in basso, i resti
del “pagliaro”
fotografato
dall’Espresso
ONLINE SU RE LE INCHIESTE
È online da questa mattina la storia del feudo
di Tudia. Su Repubblica.it in RE Le inchieste,
un filmato di trenta minuti — Ritorno a Tudia —
firmato da Attilio Bolzoni e Massimo Cappello
Un viaggio al centro dell’isola mezzo secolo dopo
il reportage de L’Espresso, con le testimonianze
dello storico Nicola Caracciolo, che nel 1959
raccontò sul settimanale le miserabili condizioni
dei contadini della Sicilia. Il reportage video andrà
in onda domani alle 19.15 su RepubblicaTv, canale
50 del digitale terrestre. In studio Attilio Bolzoni
Uno dei vecchi contadini adesso dice:“Il figlio della marchesa è più comunista di noiÈ proprio vero che il mondo si è capovolto”
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
Un foglio raccolto sotto il tavolo di un caffè: un elencodi nomi femminili: Irene, Krystina, Hanna... Ventuno personePerché? Chi sono? Chi lo ha compilato? Un dongiovanni?
I servizi segreti? Un assassino? Incomincia così una delle inchieste giornalistiche“impossibili” dello scrittore polacco: ricostruire le storie dietro quel catalogoPer arrivare all’incredibile colpo di scena
CULTURA*
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 LUGLIO 2011
“Credo di sapere di cosasi tratta”, dice Halina P“A quel tempo tutte noisiamo state delle ragazzeterribili. Scommettoche le altre farannodi tutto per impedireche la verità venga a gallaPotrebbero addiritturasuggerirle di lasciarperdere questa faccenda”
Dal tavolino del Caffè Nowy Swiatmi cadde la penna. Nel chinarmividi per terra due oggetti: a parte lamia penna, in una fessura tra lagamba del tavolo e la parete c’eraun foglio di carta. Ingiallito dal
tempo e ricoperto di annotazioni. Non sembravaprovenire da un quaderno, quanto piuttosto daun bloc-notes. Su entrambe le facciate si legge-vano dei nomi di persona, i loro anni di nascita (glianni Trenta) e gli indirizzi. Feci per porgere la li-sta al cameriere, quando all’improvviso realizzaiche tutti i nomi elencati erano nomi di donne, eche anzi conoscevo personalmente una di loro.In tutto erano ventuno.
Il foglio era vecchio, ma aveva tutta l’aria di nonessere mai stato usato: niente segni di piegatura nésgualciture. I nomi erano annotati con una pennastilografica, in una calligrafia regolare che tradivauna mano avvezza alla scrittura. Le donne elencateavevano in comune soltanto il fatto di essere natepiù o meno nello stesso periodo. Due nomi in par-ticolare spiccavano tra gli altri. Accanto a quello diKrystyna P., residente in via Pulawska, saltavano in-fatti all’occhio tre punti esclamativi, invece a lato diEwa S. campeggiavano due esclamativi separati dalsegno “più”.
Dei ventuno indirizzi riportati nella lista uno nonesiste più, per l’esattezza quello di viale Stalin 16/33,il che vuol dire che il foglio deve per forza risalire al-la prima metà degli anni Cinquanta. Feci il numerodella signora che conoscevo: Hanna Krall.
«Lei figura in una lista di donne che non è dispo-sta né in ordine alfabetico né in quello numerico»,esordii, dopodiché mi lanciai nella lettura dei nomi.
«Strano. Non conosco nessuna di loro», replicò lagiornalista. «Lei si è fatto qualche idea?»
«Me la sono fatta, ma non vorrei essere sgarbato». «Vada avanti».«Potrebbe essere opera di un uomo a cui piaceva
annotare le donne che aveva avuto. Doveva muo-versi con estrema cautela, ecco perché era preferi-bile che le signore non si conoscessero tra loro».
«Suona logico, ma è da scartare». «Perché?» «Perché nessuno mi ha avuta, a parte un signore
che ora si trova in Val Thorens, a sciare, è quindiescluso che possa aver perso un foglio qui. Ci deveessere sotto qualcos’altro. E se fosse, mettiamo, l’e-lenco delle clienti di un sarto?»
«Cosa se ne farebbe un sarto delle date di nasci-ta?»
«Già». C’è da pensare che i nomi segnati siano nomi da
nubili: a quel tempo le donne della lista non pote-vano avere più di diciotto, vent’anni. Tanto per co-minciare, al civico 28 di via Londynska nessuno hamai sentito nominare Katarzyna S. Forse aveva tro-vato una stanza in affitto lì solo per un breve perio-do? In cerca di coloro che potrebbero ricordarsi del-le coinquiline dei primi anni Cinquanta, passo inrassegna gli elenchi dei condòmini che sono affissiagli ingressi dei palazzi. Suono alla porta di Franci-szek, Józef, Waclaw: in via Sienna 59, in viaMickiewicza 26/6, in via Dynasy 8. Solo per ritro-varmi con un nulla di fatto. Riparto alla carica. Maanche altri cinque tentativi vanno a vuoto.
***Decido di pubblicare un annuncio sull’edizio-
ne di Varsavia della Gazeta Wyborcza. Non possodichiarare apertamente di cercare delle donneche figurano su un pezzo di carta trovato per ter-ra. E per di più ho la sensazione (persistente) chelo abbia compilato un uomo perseguitato dall’i-dea di non raccapezzarsi nelle proprie avventuresentimentali.
«Sto scrivendo un reportage dedicato alle giova-ni cittadine di Varsavia dei primi anni Cinquan-ta…». Seguono i cognomi che le donne potevanoportare all’epoca, e i nomi delle vie in cui verosimil-mente abitavano. Il giorno dopo arriva la prima te-lefonata. «Mi chiamo Katarzyna Meloch e sono no-
minata nel suo annuncio». Getto un’occhiata al fo-glio. «Spiacente, ma lei non viene affatto citata».
«Guardi che è me che cerca, ma sotto il nome diIrena Dabrowska».
«In effetti sto cercando una certa Irena Dabrow-ska».
«Sono io. Non solo ho cambiato cognome, ma hopersino preso un nuovo nome di battesimo».
***L’indomani. Incontro Katarzyna Meloch al Caffè
Nowy Swiat. Fa la giornalista, ha scritto un volumededicato agli scrittori della “generazione del ’56”. Siè portata dietro una fotografia.
«Perché ha cambiato nome e cognome?»«L’ho fatto nel ’68. A marzo, o giù di lì. Era inizia-
ta la caccia agli ebrei, e molti si videro riesumare egettare in faccia i vecchi cognomi di origine semiti-ca, accantonati da tempo e rimpiazzati con quellipolacchi. E così io, che per ben ventotto anni avevovissuto come Irena Dabrowska, mi ero detta: ecco ilmomento giusto per tornare alla luce. Devo dirloagli altri, ma anche a me stessa: sono ebrea, mi chia-mo Katarzyna Meloch. Qualcosa mi diceva che do-po mi sarei sentita meglio».
«Ed è stato così?»«Altroché! Ora faccio addirittura parte dell’Asso-
ciazione dei bambini dell’Olocausto, sono una fon-te d’ispirazione per gli altri e, pensi un po’, ancoraoggi c’è chi emerge dalla sua tana».
«Perché? C’è qualcuno che preferisce non farlo?»«Certo, e quelli moriranno di crepacuore».«Come mai proprio di crepacuore?»«Immagini un uomo di sessantasette anni, la cui
moglie e i figli non hanno la minima idea di chi siarealmente. Che altra fine può fare? Quelli che vivo-no murati dentro al proprio segreto, finiscono permorire di crepacuore».
Katarzyna-Irena dimentica il suo tè, non ne habevuto nemmeno un sorso. Mi mostra la foto. Ungiovane uomo attraente con gli occhiali dalla mon-tatura in filo di metallo, la testa appoggiata su unamano. Al suo fianco, una ragazza di straordinariabellezza. «È mia madre con suo fratello. Wanda e Ja-cek Goldman. C’era un tempo in cui giravo per lacittà e sentivo i loro occhi fissarmi da ogni parte.
«Nel 1939, dopo che la nostra casa che si trovavanei dintorni del mitico grattacielo Prudential fubombardata, ci trasferimmo a Bialystok. Mio pa-dre, Max Meloch, funzionario dell’Archivio di Sta-to, un giorno scomparve nel nulla. Per mettersi al ri-paro dai tedeschi, i conoscenti dei miei genitori co-minciarono a fuggire in Unione Sovietica. Restava-mo tutto il tempo chiuse in casa, in attesa, e intantolei mi raccontava Il libro della giungla di Kipling.
«Sapeva che sarebbero venuti a prenderla. Un te-desco afferrò il suo passaporto sovietico e disse convoce stentorea: “Una comunista, e per giuntaebrea!” “Sono soltanto una madre”, ribatté lei. La-sciarono che si vestisse. Una volta varcata la porta,scomparve per sempre dalla mia vita. Avevo noveanni».
Il cameriere continua a girarci intorno ansioso.Infine domanda se deve portarci il terzo tè, visto cheanche il secondo si è già raffreddato. Ma Katarzyna-Irena non ha la testa per il tè. «Grazie al certificato dibattesimo di una bambina morta sono diventataIrena Dabrowska.».
«Secondo lei che cos’è questo foglio?» domandoe le mostro la lista.
«Sono le bambine ebree sopravvissute sotto i no-mi ricevuti durante l’occupazione. Però faccia mol-ta attenzione».
«Perché?»«È una lastra di ghiaccio».
***Soltanto Alina Krzepkowska abita ancora all’in-
dirizzo indicato sul foglio. In un vecchio palazzo co-struito nell’anteguerra, in via Tamka. È una donnadal portamento maestoso: alta, dritta, elegante, concapelli bianchi raccolti in uno chignon. Le paretidella casa sono adorne di libri e di quadri dipinti dalmarito. Incantato dai paesaggi arabi, li trasferivaprontamente sulla tela. La conversazione si sposta
sulla storia. «Si parla tanto dell’11 settembre che ri-schiamo di trovarci presto di fronte a un parados-so», osserva la padrona di casa. «Nei luoghi dellamemoria continuo a incontrare giovani che nonhanno nemmeno una vaga idea di che cosa sia sta-ta l’Insurrezione di Varsavia. Un altro po’ e cancel-leremo il nostro passato nazionale».
«Mi domando se questa potrebbe essere una li-sta delle bambine ebree salvate durante la guer-ra», butto lì. Risponde prontamente con un sorri-so: «No».
«Perché?»«Perché io non ho origini ebraiche».Fissa lo sguardo sulla lista. «Un momento… co-
nosco la signora con i tre punti esclamativi. Abbia-mo fatto l’università insieme, Scienze matemati-che e ambientali. Krystyna era molto avvenente.Bionda con gli occhi verdi, una bellezza fuori dal co-mune. Forse gli esclamativi vogliono rimarcare lasua bellezza? Dal foglio risulta che abitava a duepassi da casa mia».
«Ma chi può averlo scritto e a che pro?»«Magari ci siamo fatte qualche nemico? Io mani-
festavo apertamente le mie convinzioni. Chissà,potrebbe essere una delle tante liste dei Servizi di si-curezza».
***Ricevo la telefonata di Halina P. del quartiere di
Solec. Ha letto il mio annuncio sulle cittadine di Var-savia. Le racconto che in realtà c’è di mezzo un fo-glio di carta. «Credo di sapere di cosa si tratta», dicein tono convinto. «Lei capisce però che non sono di-scorsi da fare al telefono, ma certo è che a quel tem-po tutte noi siamo state delle ragazze terribili.Scommetto che le altre faranno di tutto per impe-dire che la verità venga a galla. Potrebbero addirit-tura suggerirle di lasciar perdere questa faccenda».
***La Terribile abita in via Solec, al secondo piano.
Sulle scale ristagna odore di urina, ma la casa è unospecchio. Mi mostra l’opera della sua vita: quattro-cento cartine risalenti all’epoca in cui era a capo del-le edizioni cartografiche. Ora è in pensione. Da bra-va ospite, mi ha fatto trovare pronti: il brandy po-lacco, l’acquavite di sorbo e il liquore di ciliegia. «Perme è un po’ presto per bere…», dico vedendola in-tenta a posare sul tavolo i bicchierini di cristallo.
«Non dica mai che è troppo presto per qualcosa. Sirenderà conto in fretta che è già troppo tardi pertutto».
«Perché eravate così terribili?»«Mi faccia vedere la lista… Be’, questa calli-
grafia non mi dice più niente. Se appartiene achi ho in mente, allora parliamo di uno chestava ai vertici della gerarchia stalinista. Lui sìche può aver avuto tutte quelle donne. Altro-ché! Può averne avute molte di più, questa li-sta non è che una briciola».
«Perché eravate così terribili?»«Shhhhh», d’improvviso la Terribile emette
un sibilo imperativo e s’irrigidisce sulla sedia. «Un topo?» domando sottovoce. «Ma no! Shhhhh!… Otto, nove, dieci, undi-
ci. Bene. Undici è per l’interno 3». Si calma, si lascia ricadere sulla sedia.
«Perché eravamo capaci di cose terribili…Faccia silenzio! Non ha aperto! Ecco, orascende! Noi facevamo una rivoluzione deicostumi sessuali. Ma non si trattava sempli-cemente delle percezioni erotiche, cosacrede? Il nostro era un vero e proprio atto diribellione. Per noi il comunismo significavarivolta. Altrimenti perché mai avrei militatonell’Unione della gioventù polacca durantegli anni universitari? Ci eravamo formati laconvinzione che i colpevoli di quell’orribileguerra fossero i nostri genitori. E che fosse ne-cessario vivere in maniera diversa. Come ama ri-petere una mia amica: la Chiesa non aveva più al-cun governo delle anime e l’Aids non esisteva anco-ra. E badi bene che non ci importava del piacere fi-sico, noi credevamo che quella fosse una nuova for-ma di vita, e per di più migliore. Sennonché le con-seguenze di tutto ciò sono state disastrose».
«E cioè?»«Shhhhh!… Dodici, tredici, quattordici, quindi-
ci, sedici… meno male, va all’interno 6!»«Che genere di conseguenze?»«Raschiamenti. Abortire per noi era come to-
gliersi un dente, né più né meno. Quella che abita al3 è una tipa tremenda. È talmente ficcanaso».
Di colpo smette di parlare. Tende le orecchie, manon c’è nulla da contare.
«Mi faccia rivedere quel foglio. Potrebbe appar-tenere a un ginecologo, ecco perché non conosco lealtre… Lei ha messo le mani su qualcosa di molto in-
MARIUSZ SZCZYGIEL
Szczygiel’slist
Fino all’ultima donna
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 3 LUGLIO 2011
timo. Lasci stare quelle signore, non le cerchi più.Shhhhh!»
«Perché continua a contare i passi?»«Perché quattordici vorrebbero dire che vengo-
no da me».
***Siamo punto e a capo. Ho rintracciato le famiglie
di diverse donne della lista, due di loro sono morte.Chi, e per quale ragione, è venuto in un caffè con unfoglio di appunti presi tanti anni fa?
Krall: «Il colpevole tende a tornare sul luogo deldelitto. Vada al Nowy Swiat, si sieda allo stesso ta-volo. Può darsi che accada qualcosa».
Ci vado e qualcosa accade. Domando alla ragaz-za al banco se per caso qualcuno non avesse cerca-to un documento smarrito. «Altroché se lo cerca! Unsignore anziano, che viene qui spesso, ci chiede giàda alcuni giorni se qualcuno ha trovato il suo foglio-ricordo. Se ce l’ha lei, lo lasci qui, per favore».
«Non lo lascio…».
***Combino un incontro. Si presenta un uomo di
settant’anni e passa, non troppo alto, biondo con labarba, stranamente non ancora incanutito. Portauna giacca con motivi a spina di pesce.
«Questo foglio è stato compilato nel 1954, tra il 10e il 20 aprile», spiega volentieri. «Ero un giovane me-dico incaricato di vaccinare 2.790 studenti univer-sitari contro il tifo addominale. Colsi l’occasioneper prendere nota, con discrezione s’intende, dellestudentesse più belle».
«E perché mai? Riuscì a rivederle in seguito?»«Per amor del cielo! Non ho conosciuto da vicino
nessuna di loro. Deve sapere che ero molto timidocon le donne. Pesavo ben novanta chili per cento-settanta centimetri di altezza. Mi dissi che se nel gi-ro di un anno non mi fossi sposato, allora avrei pro-vato a conquistare una delle ragazze della mia lista.Fantasticavo di comparire un giorno alla porta del-la prescelta dicendo che la vaccinazione non eraandata a buon fine e che bisognava ripeterla. In fon-do un amore può cominciare anche così».
«E poi? Ha sposato una di loro?»«No, mi sono sposato al di fuori della lista. Con
una bionda che portava i capelli legati in una codadi cavallo, l’ho incontrata accanto allo sportello do-ve ritiravo lo stipendio».
«Ma perché portarsi dietro quel foglio in uncaffè?»
«Un caso. Avevo letto un articolo sull’attrice JeanSeberg e su suo marito, lo scrittore Romain Gary,che per colpa di lei si era ficcato una pallottola in te-sta. Lui, tra l’altro, per alcuni anni aveva vissuto aVarsavia».
«E che cosa c’entra con il foglio?»«Sono un lontano cugino di Romain Gary. Sa co-
sa dice nella prima pagina del suo romanzo La pro-messa dell’alba? “A quarantaquattro anni eccomiancora a sognare su queste tenerezze fondamenta-li”. E mentre leggevo quell’articolo, mi era venuto inmente che dovevo aver conservato una lettera del-la Seberg scritta negli anni Sessanta. Presi a frugaretra le mie carte, e finii con l’imbattermi nella listadelle più belle. A dire il vero non so perché l’ho por-tata con me. Mi piaceva tenere quel foglio tra le pa-gine della mia agenda. Tutto qua. Ero molto secca-to quando ho scoperto di averlo perduto, mi sonosentito un imbranato».
«E perché questa signora ha tre punti esclamati-vi?»
«Perché era la più bella. Non la dimenticheròmai… Bionda con gli occhi verdi. Ben proporziona-ta, anche se nel frattempo potrebbe aver presoqualche chilo».
«L’ho trovata!»«Veramente?!»«Non apre mai la porta, non esce di casa, ha per-
so la memoria».«Non mi dica nulla di quelle donne, la scongiu-
ro».Traduzione di Marzena Borejczuk
© 2011 nottetempo srl
IL LIBRO
È in libreria Reality, il nuovo lavoro
di Mariusz Szczygiel, seguito ideale
del precedente Gottland: storie
mai inventate anche se lo sembrano,
indagini nei piccoli fatti quotidiani
che servono a ricostruire vite e storie
eccezionali. Reality raccoglie quattro
racconti-cronache intorno a figure
femminili. Pubblichiamo la versione
ridotta di uno di questi. Il libro
(156 pagine, 8 euro) è pubblicato
da nottetempo
© RIPRODUZIONE RISERVATA
IL DOCUMENTO In alto, la lista di nomi trovata da Mariusz Szczygiel in un caffè di Varsavia
Repubblica Nazionale
C’è la Elrod, con cui ha avuto la figlia Lorca,c’è la Verdal, la ballerina venerata, c’è la Vega,amica di una vita, c’è quella della canzone
più copiata al mondo e resa celebre in Italia da De André. E ora, grazie a un librodi poesie inedite del cantautore canadese in uscita in Italia, ne spunta una nuovaIn quei versi mai messi in musica, l’eterno ritorno dello stesso nome: l’unica cosa certadi “un cuore errante sotto un cielo troppo vasto”
SPETTACOLI
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 LUGLIO 2011
Se pensate che serva talento per riuscire a in-vecchiare senza diventare adulti e voleteconfortarvi nell’idea o nell’aspirazione, sem-pre che ne possediate una simile, sedetevi da-vanti a uno schermo televisivo dopo aver in-serito nel lettore il video-album Songs from
the Road di Leonard Cohen e premete il tasto play. Pas-serete, tra l’inizio del 2008 e la fine del 2009, da Glasgow aManchester, da Göteborg alla Royal Albert Hall di Lon-dra, da Helsinki a San Josè, da Lover, Lover, Lover a Chel-sea Hotel, da Bird on the Wire a Closing Time, da The Par-tisan a Waiting for the Miracle, per atterrare dolcementeuna sera sotto le montagne californiane inondate di lucerosa del Coachella Music Festival di Indio a raccogliere lametafora di un uomo sempre più anziano e sempre piùmagro, incline alla solitudine e a lunghissime stanzialità,ma capace di tradire se stesso con un tour mondiale cheha toccato ottantaquattro paesi, nove in più dei suoi an-
ni, che allora erano settantacinque. Guardatelo con at-tenzione per pochi minuti. Nell’eseguire AllelujahCohen si esibisce in qualche passo della ballata, si ingi-nocchia sul palco e si rialza con uno scatto di tendini ra-gazzi, scacciando l’immagine scolpita in un non so piùquale libro da un personaggio dello scrittore Cormac Mc-Carthy, altro grande e misantropo patriarca americanosuo coetaneo, che non riusciva a togliersi i vecchi dalla te-sta perché lo guardavano e avevano sempre negli occhiuna domanda, come se si fossero svegliati all’improvvi-so senza sapere come erano arrivati lì.
Leonard Cohen non solo conosce benissimo le ragio-ni che lo hanno portato fino a Indio, non ultima il biso-gno di rendersi interessante a se stesso; sa anche che nonsi fermerà perché «la strada è troppo lunga, il cielo è trop-po vasto e il cuore errante è finalmente senza dimora». Èconvinto che il miglior modo per giocare il tempo sia im-possessarsene, occuparlo di desideri e di un mestiere fat-to bene, come scrivere canzoni agonizzandovi sopra,prendendosi un sacco di tempo per perfezionarle senzaterminarne mai davvero la creazione, abbandonandole,infine, perché a un certo punto bisogna pur suonarle.Con eleganza, sempre, scandendone le parole con uncoltello affilato perché chi le ascolta ne comprenda il si-gnificato, come gli insegnò sua madre che aveva una vo-ce bellissima e gli raccontava storie yiddish cantandolein ebraico e russo.
L’eleganza, la forma. Nel film del backstage girato daLorca, la figlia fotografa avuta da Suzanne Elrod, ragazzadiciannovenne conosciuta nel ’68 sulla soglia di un ascen-sore al Plaza Hotel di New York, Leonard unge con un olioessenziale e propiziatorio i polsi dei suoi musicisti e dopo,sul terreno sommerso dagli applausi di un pubblico diogni età, si ritrae in un angolo buio per togliersi dalla testail borsalino grigio e inchinarsi alle sue regine di coro, lastraordinaria Sharon Robinson e le Webb Sisters, le dia-fane arpiste Charley e Hattie. Un profeta di fil di ferro den-tro la camicia grigia e l’abito nero. Racconta Suzanne Ve-ga nella prefazione del libro di Cohen Parassiti del para-disoche esce in questi giorni in Italia: «Una volta ci incon-trammo a Los Angeles. Era domenica, sul presto, e ci ve-demmo per una colazione a bordo piscina in albergo. In-dossava dei jeans e una T-shirt, stivali da cowboy e unblazer. Adoro la formalità del suo abbigliamento. Gli dis-si che avevo notato che spesso portava dei completi e noni classici jeans degli altri cantanti folk. Lui mi rispose: “Miopadre era un sarto. Io non voglio sembrare Paul Bunyan,il leggendario boscaiolo della tradizione americana”».
Parasites of Heaven, che minimum fax manda in libre-ria per la traduzione di Giancarlo De Cataldo e Damiano
DARIO CRESTO-DINA
LeonardCohen
Inseguendo Suzanne
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Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 3 LUGLIO 2011
‘‘Abeni, fu pubblicato in Canada per la prima volta nel1966 da McClelland&Stewart. Raccoglie poesie in versie in prosa scritte a partire dal 1957, durante la stagionegiovanile sentimentalmente e intellettualmente bulimi-ca di Cohen. Viaggi, donne, «le puttane sono le mie don-ne ideali», smodate e snodate ambizioni, anfetamine,pejote, marijuana, armagnac, maestri come Garcia Lorcaletto a partire dagli undici anni, Louis Dudek, poeta ebreoche insegnava letteratura alla McGill University di Mon-treal e, soprattutto Irving Layton, uno dei maggiori autoricanadesi del Novecento che dell’allievo e poi amico dirà:
«Il ragazzo dimostra di avere ciò che è essenziale perun giovane poeta: l’arroganza e l’inesperienza».
Il libro fluttua con sfrontata leggerezza e conacrobazie linguistiche più o meno riuscite dall’unoall’altro di questi due estremi, disseminando trac-ce autobiografiche fin dal titolo — chi meglio di luipoteva sentirsi in quel periodo un parassita in para-diso? — e vaticini nei testi destinati a trasformarsi inalcune delle sue canzoni immortali come The MasterSong, Avalanche, Teachers, Fingerprints. E soprattut-to Suzanne, la ballerina Suzanne Verdal tanto amatasulle sponde del fiume San Lorenzo, mai avuta e cele-brata nel suo capolavoro più famoso e copiato, un fan-tasma preceduto nel 1963 da un’altra sorprendente Su-zanne (o forse la stessa) che nel libro spunta in mezzo altraffico con un giaccone di cuoio, il passo da soldatessae «seni che bramano il marmo». Parassiti del paradiso èl’uovo dentro al quale Cohen si impasta senza sapere qua-li piume mettere. Nell’attesa di rompere il guscio, all’ini-zio degli anni Sessanta aveva già scritto due romanzi, Il gio-co preferito e Beautiful Losers, che avevano avuto alterne
fortune e che si affermeranno solo quando il loro au-tore avrà raggiunto i vertici della carriera di songwriter.
Più tardi confesserà onestamente che non fu Hi-ghway 61 Revisited di Bob Dylan a spingerlo sulla sce-na musicale, ma il bisogno di mantenersi: «A un certopunto mi sono reso conto che con i libri non arrivavo apagare le bollette. Non avevo voglia di insegnare. Nonera il mio campo. Ero troppo dissoluto, dovevo staresveglio fino a notte tarda, avevo bisogno di muovermitroppo in fretta. Ho preso un’altra strada, ma non ho maiavuto una strategia, faccio le cose così come vengono».Restare fedeli al proprio carattere e alla propria gioventù
è un compito difficile, il cielo non è mai soddisfattodelle macchie sulla nostra pelle. RiconoscevaLawrence Breavman, il doppio di Leonard delGioco preferito: «I bambini mostrano le cicatricicome medaglie. Gli amanti le usano come segretida svelare. Una cicatrice è quello che succedequando la parola si fa carne. È facile esibire una fe-rita, le orgogliose cicatrici di battaglia. È difficilemostrare un foruncolo». Cohen completa il pensie-ro in questa raccolta: «Il cielo esige storie: chiede agliuomini ogni sorta di storie, divertimenti, ricami, pro-prio come fa con le proprie stelle e costellazioni. Alcielo non importano un certo carattere o un dato do-lore, vuole che l’uomo intero sia perso nella propriastoria, che tocchi i suoi compagni, li lasci, ne segua ipassi, danzi in cerchio come faceva anticamente. Il cie-lo vuole dei grafici delle nostre vite e li archivia come pic-coli orologi da polso curiosi, che sono i nostri regali dimatrimonio».
Hai costruito una piccola casa in fondo al deserto, mioamico mio killer, per sfuggire al grande catasto del cielo,ha cantato in Famous Blue Raincoat. Per padroneggiare il
tempo Leonard Cohen invece è tornato a Montreal,lavora su una scrivania di vecchio pino interamen-te sgombra, tre metri di lunghezza e uno e mezzo dilarghezza. Scrive, disegna, guarda fuori dalla finestracon la speranza di trovare i paesaggi piatti e immobi-li di Henri Rousseau. Quattro anni fa, in occasione del-la pubblicazione in Italia del suo Libro del desiderio(Mondadori), dopo una lunga e gentile trattativa at-traverso telefono e mail, acconsentì all’invio di unatrentina di domande. Dopo tre settimane tornarono in-dietro quindici risposte e un appunto che diceva così:«Per le altre mi servirebbe ancora un mese. Ma il miotempo sta per finire e non ho ancora scritto la vera can-zone, la grande canzone. Non crede sia una ragione suf-ficiente per non interessarsi troppo di me?».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
“Ero troppo dissoluto,stavo sveglio fino a notte tarda,avevo bisogno di muovermitroppo in frettaHo preso un’altra strada”
IL LIBRO
Esce il 6 luglio per minimum fax
Parassiti del paradiso (192 pagine,
13 euro), di Leonard Cohen,
una raccolta di testi e poesie inedite
del 1966. Tradotte da Giancarlo
De Cataldo e Damiano Abeni
con una prefazione di Suzanne Vega,
è la quarta antologia
del cantautore canadese
dopo Le spezie della terra (2010),
Confrontiamo allora i nostri miti (2009)
e L'energia degli schiavi (2003)
I’M YOUR MANNella foto grande, Leonard Cohen;
accanto, alcune copertine dei suoi dischi
Suzanne porta un giaccone di cuoioHa le gambe assicurateda molti ponti bruciati
Ha polpacci gonfi come vele maestrein una regata leale,
sodi per tutta la musica seguitaal di fuori delle mappedi qualsiasi pubblico
Suzanne porta un giaccone di cuoioperché non è una civileNon passa mai per caso
per Saint Catherine Streetperché con ogni passo
deve redimerele masse dal piede caprino
e battere il campodegli immensi chicchi di grandine
che non si sono mai sciolti,cioè il cimitero
Sull’attenti! sull’attenti!Passa Suzanne
Porta un giaccone di cuoioNon si fermerà
a bendare le fratturefra cui incede
Non deve fermarsi, non deveavere soldi con sé
Sono molti gli addetti alla carità
Pochi servono i lillàpochi curano con la nebbia
Suzanne porta un giaccone di cuoioI suoi seni bramano il marmo
Il traffico si blocca: la gente cadedalle macchine
I loro pensieri più lubrichinon sono abbastanza selvaggi
da edificare quella città di cristalloa misura di formica
che lei manderebbe in frantumicon il brio del suo passo
Traduzione di Giancarlo De Cataldoe Damiano Abeni
Suzanne wears a leather coatHer legs are insured
by many burnt bridgesHer calves are full as spinnakers
in a clean race,hard from following music
beyond the maps of any audience
Suzanne wears a leather coatbecause she is not a civilian
She never walks casually down Ste Catherine
because with every step she must redeem
the clubfoot crowdsand stalk the field
of huge hail-stonesthat never melted,
I mean the cemetery
Stand up! stand!Suzanne is walking by
She wears a leather coatShe won’t stop
to bandage the fractures she walks between
She must not stop, she must notcarry money
Many are the workers in charity
Few serve the lilac,few heal with mist
Suzanne wears a leather coatHer breasts yearn for marble
The traffic halts: people fall outof their cars
None of their most droolingthoughts are wild enough
to build the ant-full crystal cityshe would splinter
with the tone of her step(1963)
© Leonard Cohen, 2011 © minimum fax, 2011Tutti i diritti riservati. Su gentile concessionedi Nabu International Literary&Film Agency
Nel suo posto in riva al fiumeSuzanne ti ha voluto accantoe ora ascolti andar le barcheora vuoi dormirle accanto
sì lo sai che lei è pazzama per questo sei con leie ti offre il tè e le arance
che ha portato dalla Cina
Traduzione di Fabrizio De André
Suzanne takes you downto her place near the river,
you can hear the boats go byyou can stay the night beside her
And you know that she’s half crazybut that’s why you want to be thereand she feeds you tea and orangesthat come all the way from China
(1966)
‘‘
‘‘ ‘‘
Repubblica Nazionale
le tendenzeIcone
Cappelli a larghe falde e maglie a righe, grandi occhiali da solee borse di paglia, sandali rasoterra e piccoli gioielli colorati. Con i primicaldi torna attuale il look estivo anni Sessanta, reso famoso dalle vacanzesull’isola di Jacqueline Kennedy. E ora riproposto anche in una mostra
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 LUGLIO 2011
miliari dove acquistare pantaloni in cotone e foulard da legare tra i ca-pelli. Il piede quasi nudo e, proprio per questo, sexy a modo suo. Sem-pre senza eccessi. E poi gli occhiali da sole che le aveva consigliato di usa-re Gore Vidal, spiegandole che servivano per nascondersi e guardare ilmondo senza farsi scoprire. Esplorava l’isola con i figli ancora piccoli.Passava dal gioielliere Chantecler. Per la cena, ristoranti semplici. E du-rante il giorno le gite alla Grotta Azzurra o le passeggiate tra Villa San Mi-chele e Villa Jovis. Le foto di Jackie sono protagoniste di una mostra: “Unmito nel mito, Jacqueline a Capri” (da oggi alla sala Donna Lucia Mor-gana del Grand Hotel Quisisana). A seguirla, come un’ombra, era il fo-tografo Settimio Garritano: «Ero diventato per lei un volto familiare,amava Capri perché poteva dimenticare la vita austera e formale di NewYork e sentirsi libera». Sarà il rimpianto per quel modo di vivere ma og-gi, che l’isola sembra contesa tra turisti incolonnati davanti ai Faraglio-ni come davanti alla Basilica di San Pietro e nuovi ricchi che confondo-no Via Montenapoleone con Via Camerelle, Capri prova a riscoprire ilfascino di quegli anni. Anche nel look.
Ecco allora le maglie a righe in cotone, i cappelli a grandi falde e lemaxi borse in paglia. Mentre i tacchi a spillo sono sostituiti da soluzio-ni rasoterra e le minigonne mozzafiato mutuate in calzoncini pinoc-chietto. Per muoversi agilmente su e giù per la via Krupp, vanno per lamaggiore i mocassini in camoscio, con i chiodini sulla suola, contro gliscivoloni. Come ornamento niente di troppo vistoso, ma piccoli gioiel-li allegri e dalle pietre in technicolor. Per tutte quelle che provano, ci-clicamente, a far rivivere il mito di Jackie ci sono i grandi occhiali da so-le (ottimi anche per proteggere il contorno occhi). E, naturalmente, lesemplici T-shirt a mezze maniche: il lusso della semplicità.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Era il centro del mondo. Di un mondo meraviglioso fatto diun lusso mai ostentato, di intellettuali radunati per uncaffè nella “piazzetta” o nella casa del medico AxelMunthe. Era la Capri degli anni Sessanta. Per omaggiarla,con i primi caldi, arrivavano in tanti: Orson Welles, Tru-man Capote, Graham Greene. E poi Saul Bellow e Nadine
Gordimer. E, prima di tutti, Curzio Malaparte, proprietario della casapiù assurda dell’isola: una costruzione razionalista ed estrema. Bellis-sima. Una ferita rossa a picco sul mare blu. Ma più di ogni altra imma-gine, forse, la Capri gioiosa e vacanziera è legata a quella di JacquelineKennedy. Rigorosa e chic. Dall’estate del 1969 a quella del 1973, con ilsecondo marito, l’armatore Aristotele Onassis, Jackie divenne una ha-bituée dell’isola. E per i capresi vederla sbarcare era una festa. Quellagrazia irripetibile con cui si muoveva tra le vie dello shopping o scen-deva dallo yacht Christina rallegrava il ritmo pigro delle giornate piùinfuocate. Alta società in versione caprese.
Per Jacqueline Kennedy fare acquisti era un fatto decisamente local.Niente grandi firme, ma sandaletti in cuoio intrecciato e boutique fa-
IRENE MARIA SCALISE
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Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 3 LUGLIO 2011
“Artigianato e sobrietàperché l’eleganza è innata”
Intervista Diego Della Valle
uno degli habitué di Capri e la sua boutiqueTod’s è nel cuore della celebre piazzetta. Perl’imprenditore Diego Della Valle l’isola ha diver-se anime, tutte da scoprire. E frequentarla è an-
che l’occasione per rilanciare la cura e l’attenzione auna moda che strizza l’occhio all’artigianato e, proprioper questo, è destinata a trasformare i prodotti in icone.
Lei conosce Capri da anni, come ha visto cambiarel’isola?
«Oggi nell’isola ci sono due Capri. Quella dei turistipiù caotici e quella dei capresi d’adozione che, alme-no un paio di volte l’anno, scelgono di passare qual-che giorno in casa o anche in albergo. E questa, perchi sa come muoversi, è fatta di silenzi, di profumi,di passeggiate al tramonto e vecchie trattorie».
Anche la moda caprese è mutata negli anni: pri-ma c’erano le boutique ora imperversano i gran-di nomi. Cosa ne pensa di questo cambiamentoda local a global?
«Dico sempre ai miei amici capresi che ilmondo delle tradizioni andrebbe preservato,magari ricostruendo ad Anacapri le vecchieboutique e facendo riscoprire a tutti un fasci-no indiscutibile. In fondo il vero lusso non èaltro che farsi cucire un pantalone in tre oreo chiedere dei sandali su misura. Per la Capri
internazionale, invece, il piacere è tro-vare in pochi metri una concentra-zione di negozi come in via Monte-
napoleone o in Madison Avenue ed ègiusto che sia così».
Il vostro negozio Tod’s, appenarinnovato, è nel cuore della piazzetta.
Che clienti ha visto passare negli anni ecosa chiedono i nuovi consumatori?
«I nostri clienti sono sempre gli stessi ecomprano le stesse cose con regolarità.
Proprio per questo proviamo a salvare letradizioni e anche il recente rinnovo del lo-
cale è stato curato in puro stile caprese. Perchi viene da noi, ed è abituato a trovare i pro-
dotti Tod’s ovunque nel mondo, ci sono so-prattutto delle limited editioncreate per ricor-
dare i colori dell’isola».Capri e Tod’s hanno in comune l’attenzione
all’artigianato italiano. La cura del dettagliopuò essere ancora un valore per la moda del
2011?«L’alta qualità ha necessariamente nell’artigianato
un punto di forza ed è quello che crea i prodotti iconae di vero culto. Chi realmente cerca il lusso lo trovaproprio nell’attenzione al dettaglio, che è tipica di unprodotto artigianale. Quindi la risposta è sicura-mente affermativa».
Il modello di donna di quest’inverno, portatoavanti da giornali e tv, è spesso stato poco eleganteed edificante. Pensa che come reazione naturale sistia tornando a uno stile sobrio, appunto sul mo-dello di Jakie O, e contemporaneamente a una ri-cerca di eleganza e sobrietà come stile di vita?
«Da uomo posso rispondere che l’eleganza è unfatto innato e che prescinde dallo stato sociale o dalpatrimonio. È una cosa che, per fortuna, non si puòcomprare. La vera classe ha dei codici scritti e mi fapiacere notare che i giovani hanno voglia di sco-
prirli e di tornare all’antico, magari cercando dei capifatti realizzare su misura. Per le donne, invece, il fatto dimettersi delle cose tagliate con gusto è forse la rispostapiù sana a un recente passato non molto elegante».
(i.m.s.)
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HAPPY FEETIl classico mocassino con gommino
griffato Tod’s e ideato per celebrare
la nuova boutique caprese
BON TONCostume intero appena scollato
di Calzedonia. Con piccoli pois
bianchi e spalline sottili di sostegno
INTRAMONTABILEÈ intramontabile la cintura in cuoio
da indossare con maglia sportiva
e pantaloni. Disegnata da Ferragamo
SPORTIVANata per il tennis la polo in cotone
bianca Fred Perry è diventata
un classico dell’estate
LA MOSTRASi intitola
“Un mito nel mito,
Jacqueline a Capri”
la mostra di foto
di Settimio
Garritano
che si inaugura
oggi ed è aperta
fino al 20 agosto
alla sala Donna
Lucia Morgana
dell’hotel Quisisana
‘‘L’unica cosache non voglioè essere chiamataFirst LadySuona comeil nomedi un cavalloda corsa
JACQUELINE KENNEDY
È
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 LUGLIO 2011
T
i saporiBianco, rosso e...
Il suo nome deriva dal greco e vuol dire “regale”per sottolineare le tante proprietà terapeutiche e medicinaliMa è a tavola, soprattutto in estate, il suo vero poterePochi grammi bastano infatti a cambiare volto a un piattoDalle paste ai contorni, fino al sorbetto e al liquore
RisottoNino Di Costanzo
(Il Mosaico, hotel Terme
Manzi, Ischia) manteca
un riso bianco con burro
e coulis di basilico
Sopra, pomodoro crudo
e mousse di mozzarella
GreenMauro Uliassi (Uliassi,
Senigallia) celebra il colore
verde con un mix di favette,
piselli, asparagi, condito
con sugo di basilico
Sopra, pane e “neve”
di mela verde
CapesantePer Valentina Soliani
(La Casa dei Capitani,
Genova Quinto) capesante
spadellate, servite su pesto
fluido. A fianco, mix di patate
con maggiorana,
origano, timo e olio
Pensa VerdeMassimo Bottura
(La Francescana, Modena)
serve lombo d’agnello
al forno con tre salse
( basilico, menta
e basilico, aglio)
patate e chips di pane
DopIl baxeicou protetto
dall’Unione europea
è coltivato in modo naturale
nel territorio ligure da semi
di ocimum basilicum
Ha foglie medio-piccole,
ovali, verde tenero
VarietàTra le più diffuse,
oltre al genovese gigante,
il napoletano, a foglia larga
e frastagliata, il porpora
dalle venature rossastre
e il tailandese,
dolce e speziato
LuoghiA crescita spontanea
in tutti i continenti,
vanta coltivazioni dedicate
nei paesi dell’area
mediterranea e negli Stati
Uniti (leader mondiale
nella produzione)
AbbinamentiLe preparazioni a crudo,
dalla salsa di pomodoro
al pesto fino ai formaggi
freschi, mozzarella
e ricotta prima di tutto
La cottura lede
la delicatezza aromatica
utto merito dell’eugenolo. Nascosto fino a pochissimi anni fasotto la coperta protettrice degli enzimi, che impediva a chimi-ci e agronomi di scoprire il segreto del basilico, re delle erbe aro-matiche summer style. Perché non esiste caprese senza l’odoreinebriante delle foglioline appoggiate sulla mozzarella, tocco diverde che battezza il tricolore di uno dei piatti più appetitosi delmenù estivo. Il basilico, a cui la molecola volatile dell’eugeno-lo regala un profumo ineguagliabile, dimostra che il gusto nul-la può senza l’olfatto. Ben lo sanno i mentori del Parco del Basi-lico, che rivendicano il primato assoluto delle piantine coltiva-
te nella campagna di Pra’, “terra di contadini e pescatori”, do-ve l’incontro tra sole e salmastro di Piana Podestà crea la magiaaromatica dell’“erba dei re”, scevra da qualsiasi, sciagurato re-trogusto di menta.
La nobiltà del basilico nasce insieme alla prima piantina diOcimum basilicumcresciuta in un punto imprecisato d’Orien-te qualche migliaio d’anni fa. Il nome greco, basileus, e l’agget-tivo bazilicòn (il basilicum latino), infatti, rimandano a “re” e“reale”, a sottolinearne le grandi virtù medicinali, grazie allequali fu iscritto tra le piante sacre. Se egizi e greci lo utilizzava-no per le offerte sacrificali, come viatico nel viaggio per l’aldilà
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Le nobili virtùdell’erba dei reLICIA GRANELLO
(e tutt’oggi la religione indù considera sacra la varietà ocimumtenuiflorum), Plinio il Vecchio attribuiva al basilico proprietàneurotoniche e afrodisiache, al punto da consigliarne l’utilizzonei pastoni per muli e cavalli durante il periodo della monta.
Ancora oggi, il mondo dell’erboristeria lo traduce in infusi eoli essenziali per le numerose proprietà terapeutiche: antin-fiammatorio, antimicrobico, antalgico, digestivo. Unica con-troindicazione, la presenza di estragolo, sostanza potenzial-mente rischiosa, comunque già neutralizzata dalla nevadensi-na presente nelle foglie.
Ma il suo luogo d’elezione da qualche secolo a questa parte èla cucina, dove gode dello status di profumo da mangiare (esat-tamente come il tartufo, però a costo quasi zero): pochi gram-mi bastano a cambiare il volto a un piatto, dalle paste ai contor-ni, fino al delizioso sorbetto e al liquore (Basilicello). In cambio,pretende di essere trattato con il riguardo che si deve a una pian-ta “reale”, poco incline a mischiarsi con altre erbe aromatiche,da cui verrebbe sovrastato.
Allo stesso modo, non ama né le cotture, né gli strapazzi delcoltello, dato che calore e metallo mortificano i suoi delicati oliessenziali. Volendo profumare la salsa di pomodoro o la par-migiana di melanzane, meglio spezzettare le foglie con le ditaun attimo prima di servire in tavola.
Per scoprire le nuove varianti verdi d’autore, regalatevi unagita a Bologna nelle prossime settimane, durante la decima edi-zione di “Dopoteatro con gli chef”, organizzato dall’Arena delsole (il Teatro stabile di Bologna), con la regione di Gozo e Co-mino della Repubblica di Malta. Dopo un tuffo tra le polpettinecrude di fassona Zivieri con maionese al basilico di Massimilia-no Poggi e il manzo caramellato, pesto e risini di Aurora Maz-zucchelli, promuoverete il basilico da re a imperatore.
Basilico
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 3 LUGLIO 2011
Il pesto, una questione di terra, di minerali. E di poesiaGINO PAOLI
Il basilico è solo quello genovese. E il basilico genovese è quello di Pra’. Non so bene il motivo, il se-greto, la formula magica, il mistero. Credo sia una questione di terra dove la piantina cresce. For-se una storia di equilibrio di minerali. Suona come una poesia. La terra di Genova. È diversa da
tutte le altre, e quella di Pra’ è la migliore. Guardate il colore, accarezzate piano la foglia, annusate ilprofumo del basilico. Del basilico genovese. Nella mia vita ho gestito due ristoranti, uno a Firenze el’altro a Lampedusa. Sull’isola era il ’77, sono passati quasi trentacinque anni. A quel tempo non c’e-ra nulla, solo il sole e un mare straordinario: la Lampuga l’abbiamo aperta io e Guidobaldo Grossi, loscenografo, il designer, l’architetto. Impresa fallimentare. Eravamo troppo avanti, con Guidobaldo,quello era un locale da Costa Azzurra e invece lì il turismo non c’era ancora: adesso sarebbe diverso,ma dopo un anno Guidobaldo è morto in un incidente e io ho lasciato tutto.
Il basilico, dicevamo: a Lampedusa mi sono portato delle piantine, le ho trapiantate, sembravatutto perfetto. Ma il giorno dopo avevano già preso il sapore della menta. Perché il basilico prendedappertutto il sapore della menta, tranne a Genova. Tranne a Pra’. In Sicilia ne hanno uno che nonè male, lo chiamano basilico greco: che è una vera pianta, non una piantina come le nostre. Però al-la fine io mi sono sempre portato dietro quello della mia terra, anche a Firenze. Se vuoi fare il pesto,ci vuole quel basilico. Che poi, oggi lo chiami pesto ma forse dovresti dire: frullato. Perché il pesto ve-ro è quello del mortaio, schiacchiato col pesto. Con un trionfo di oli essenziali, con un colore verde
intenso che alla fine te ne basta un cucchiaio per condire, mentre con il “frullato” ce ne vogliono tre.Basilico crudo. Sempre. Nel pesto, in un piatto di trenette al pomodoro. Oppure in insalata con
qualche pomodoro. Però ci vuole l’olio, quello vero. Certa gente spende venticinque euro d’olio peril motore della macchina, poi a tavola mette una bottiglia comprata al supermercato con qualchespicciolo. Io ho vissuto tanto, abbastanza per aver conosciuto prima la fame e poi i migliori ristoranti.Abbastanza per aver imparato che il cibo merita rispetto: è cultura, è storia. La storia della tua gente.
Mio padre e mio nonno facevano l’olio. Quando il loro podere è passato a me, mi sono detto chela cosa migliore che potevo fare era continuare nella nostra storia. E così con mio figlio Niccolò ci sia-mo messi a fare l’olio, a produrre. In questi casi hai solo due possibilità: decidi di guadagnare, o di fa-re le cose nella maniera migliore. Noi ci stiamo provando a fare un olio come si deve: passano nonpiù di due ore dalla raccolta alla spremitura. Ha corpo, pizzica e alla fine ti lascia quel gusto vero unpo’ amarognolo. L’Olio dei Paoli: stiamo iniziando a commercializzarlo, ce l’hanno a Eataly. Si ve-drà. Intanto mi faccio il pesto da me. Il basilico ce l’ho nell’orto di casa, una collina alle spalle di Ner-vi. Anche d’inverno ne coltivo una qualità diversa che non è male. È basilico genovese. È una que-stione di terra, di minerali. Forse di poesia.
(testo raccolto da massimo calandri)
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Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 LUGLIO 2011
l’incontroElettronici
‘‘
musica hai una relazione col divino. Edè questo che conta. Il successo è arriva-to per caso».
Peccato che le cose con Moby sianotutt’altro che semplici. A partire daquesta casa che si raggiunge dopo unlabirinto di corridoi, al quinto piano diun vecchio edificio industriale, il lettonascosto da un séparé di carta di riso, lacucina a vista e tutto il resto attufato inuno studio strapieno, zeppo di sintetiz-zatori, radio e mixer d’epoca. Questa èla casa dei sogni. Presa quando l’artistaera un signor nessuno che soffriva d’in-sonnia. «Nelle mie passeggiate nottur-ne incontravo spesso Iggy Pop. E CatPower, i Beastie Boys e i Sonic Youth. Epoi, anni dopo, Sean Lennon e BlondeRedhead. Magari seduti sulle scale diquesto vecchio edificio rosso di MottStreet, proprio di fronte a Saint Patrick,la vecchia chiesa di voi italiani. Il fatto èche questo è l’unico edificio industria-le di una vecchia zona residenziale. Eper qualche ragione ci sono tre piani disotterranei diversamente dai tanti edi-fici di NY che ne hanno solo uno. Sot-terranei incredibili, enormi, che sem-brano catacombe. Venivano affittati aprezzi stracciati. Tutti i musicisti diNew York sono passati da qua. Comepotevo non innamorarmi di questo po-sto? Mi sono ritrovato in questa speciedi grande famiglia dove tutti conosce-vano tutti».
Ma inutile suonare al suo campanel-lo. Oggi il musicista che più newyor-chese non si può — quel bisnipote po-vero di Herman Melville, il ragazzo na-to ad Harlem che deve il suo nomigno-lo alla balena bianca («Sempre meglioche chiamarsi Achab») — non abita piùqua. Lui, così legato a New York, cosìtragicamente legato ad essa anche dalgiorno del suo compleanno, l’11 set-tembre, si è trasferito a Los Angeles.Città forse più adatta a ospitare la suacomplessa personalità di fervente de-mocratico, fervente ambientalista, fer-vente vegetariano. «Pensano tutti cheio sia finito laggiù per coltivare i contat-ti nel mondo della musica e del cinema.Ma la verità è che Los Angeles è una cittàincredibile: bella, calda, piena di par-chi. E, che ci crediate o no, economica.A New York, a Londra, a San Franciscopossono viverci solo i ricchi. Los Ange-les è una città per tutte le tasche. È lì cheadesso approdano gli artisti di tutta l’A-merica. Ecco perché è così piena di mu-sicisti e scrittori». E transfughi: comeBret Easton Ellis, tornato nella cittàdov’era nato e a cui aveva dedicato ilsuo primo romanzo, dopo aver descrit-to la New York dei party infiniti a ritmodi musica che sembra uscita da un di-
sco di Moby. «A me piace proprio perquesto. Certo, poi è una città incasina-ta, che funziona a stento. Apocalittica,quasi: c’è traffico, altroché, tutto va apezzi. Ma proprio per questo interes-sante. E poi, posso dirlo?». Prego. «Nonc’è Wall Street! Non ci sono quei brokerparassiti che hanno distrutto New Yorktrasformandola in un posto borghesecaro e poco amichevole. Soprattuttoper noi artisti».
Ma come, parla così proprio lui? Ilmusicista che ha venduto di più la suamusica agli spot pubblicitari e ai video-game? Basta l’esempio di Play: dician-nove brani, quattordici finiti in spot.«Non sono contro il mercato. Anzi, lapubblicità mi piace. Ho smesso di esse-re un’estremista dopo essere stato nel-la Germania dell’Est, all’indomani del-la caduta del muro, nel 1990. Da un la-
to trovavi rabbia e sporcizia: dall’altrotutto era pulito, la gente era cordiale. Lecose sono complicate e bisogna pren-dere la vita con fluidità, perché ci sonocampi dove l’integrità diventa un im-pedimento al successo. E dall’altro latooggi un’artista ha molti più modi peresprimersi. Graphic design, videoga-me, film, pubblicità, fotografia, video.Insomma essere contro certa WallStreet non vuol dire essere contro ilmercato. Purtroppo, anzi, spesso vedopiù creatività in certe pubblicità che incerta arte».
Già, l’integrità dell’artista. Moby hasmontato la sua immagine di artistaimmacolato — mai uno scandalo, maiuna paparazzata, e che noia per unapop star — raccontando apertamentele sue esperienze a base di droga, alcole sesso al Guardian. «Ora ho smesso. Dibere, certo, ma anche di prendere dro-ghe. Di solito sono più riservato sullamia vita privata. Mi sono confessatoperché non ne potevo più di essere pre-so per una persona rigida, statica. Sia-mo tutti più complicati di quello chesembriamo». Al limite della confusio-ne? «Io mi ritengo di sinistra, progressi-sta, ambientalista, credo nei dirittiumani. Ma non sono un hippy. Ancheun ambientalista vegano come me puòessere autoironico. Puoi essere pro-gressista e sognare di farti una famiglia:chi l’ha detto che è un valore del passa-to? E non è che se fai yoga poi devi perforza indossare pantaloni strani... Puoifare yoga e amare la musica punk. Es-sere pacifista e praticare kickboxing. Iparadossi sono vitali. Io ho dei principi.E dei vizi…».
Eppure quei principi non li ha maimessi in una canzone. Lui che riempieun blog («Che parola orribile: io lo chia-mo journal, giornale») dove se la pren-de con il Tea Party e rimbrotta BarackObama perché ha smesso di far sogna-re. Lui che commenta l’orrore dellacentrale di Fukushima e la tragedia del-le alluvioni americane. Mai un inno.Mai una canzone di protesta. Solo dan-ce. «Non ne sono capace. Ci ho provatoma non ci riesco. Molti miei eroi lo han-no fatto. John Fogerty e John Lennon.Joe Strummer. Chuck D dei PublicEnemy. Neil Young. La mia forza comemusicista è altrove. Forse perché la miacausa è molto semplice: mai forzare lavolontà di un altro. Mai». I suoi eroi?Oggi per molti l’eroe è diventato luistesso. Vanno a bussare alla sua porta,gli chiedono consigli, fanno il diavolo aquattro per incontrare il loro guru. «Lamia raccomandazione a chiunque vo-glia fare musica oggi è semplice: amaquello che fai perché aumenta le tue
chance di successo. E anche se non haisuccesso, almeno ti diverti, no? Ma c’èanche un’altra regola. Sii pronto a faremolte cose: suonare in dischi di altri.Remixare. Produrre. Magari scriverecolonne sonore». Consigli che ridise-gnano un altro Moby. L’artista senzaconfini che adesso, uscito l’ultimo di-sco Destroyed, si prepara a un tour chelo porterà anche in Italia (il 9 luglio al-la Fiera della musica di Azzano Deci-mo, Pordenone, il 22 a Milano e il 24 aRoma), mostra l’ennesimo travesti-mento della sua personalità. Un al-bum di fotografie intitolato come il di-sco. È un lavoro che lascia intravedereun’altra immagine ancora. E che diffi-cilmente assoceresti alla figura gioiosadel deejay: la solitudine. «Nel libro hocercato di sovrapporre due tipi di im-magini: foto di folla scattate durante iconcerti e l’estremo isolamento in cuimi ritrovo subito prima e subito dopo.Un isolamento estraniante che, devoammettere, a quarantasei anni trovomolto confortante». Non sarà la male-dizione di Moby Dick? La maledizionedel prozio Herman che negli anni delliceo gli regalava la simpatia dei pro-fessori per cui quel ragazzino strampa-lato «non poteva» non andare bene ininglese. «Quando riguardo le folle foto-grafate nel libro — i miei fan — ho pau-ra. Poi giro pagina e tutta quella solitu-dine mi apre quasi il cuore. Mi fa senti-re meglio». E già. Mica per caso l’ex ra-gazzo che fa ballare il mondo s’è ar-rampicato fin quassù, nascosto in fon-do al labirinto di corridoi più lunghi diNew York.
‘‘
ANNA LOMBARDI
NEW YORK
«Non parlo moltodi musica. Per-ché dovrei?».Beh, forse per-
ché è il più famoso deejay del mondo. Oforse perché è il musicista che negli ul-timi quindici anni più ha fatto per ab-battere quelle frontiere che solo ilmarketing continua implacabilmentea erigere: pop, dance, techno, blues,electro, ambient... Appollaiato su unosgabello del suo minuscolo apparta-mento newyorchese, un monovanosoppalcato nel cuore di Nolita, quelquartiere appunto a North di Little Italydove le boutique alla moda hannosfrattato da tempo i paisà, Richard“Moby” Melville Hall sorride con l’ariainnocente che sulle copertine dei di-schi non sfodera mai. Del resto di per-sona è proprio diverso da come lui stes-so s’è disegnato: piccolo e magro, tichiedi dove nasconda, quello scriccio-lo, l’energia che sprigionava sulla co-pertina di Play — fotografato in un bal-zo più da campione di danza rap che dadisc jockey — il disco che letteralmen-te lo lanciò. Dodici milioni di dischi do-po è troppo smilzo per assomigliare aBuddha: ma da sotto la spessa monta-tura nera degli occhiali ti guarda comese avesse davvero trovato il Nirvana.«La musica non è la mia carriera. Sevuoi una carriera vai a lavorare. Io fac-cio qualcosa che amo per la gente cheamo. Se mi pagano tanto meglio. Senon mi pagano è lo stesso. Attraverso la
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Il bisnipote di Herman Melville,il ragazzo nato ad Harlemche deve il suo nome d’artealla balena bianca, il più famoso
deejay del pianetache deve tutto a New York ma ha scelto Los Angeles,arriva in Italia“Mi ritengo di sinistra”,dice, “credo nei dirittiumani. Ma non sono
un hippy. Anche un vegano come mepuò essere autoironicoHo dei principi. E dei vizi”
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“Io faccioqualcosa che amoper la gente che amoSe mi pagano,tanto meglioAltrimenti è lo stessoAttraverso la musicasi ha una relazionecon il divino”
Moby
Repubblica Nazionale