LARA TRUCCO
Dispensa
diritto elettorale
Corso di Diritto costituzionale 2 M-Z a.a. 2016/17
2 Lara Trucco
I DALL’ESPRESSIONE DEL VOTO
ALL’ASSEGNAZIONE DEI SEGGI
1. L’oggetto dello studio
I sistemi elettorali sono quei meccanismi, normativamente previsti, che
regolano il procedimento di articolazione delle preferenze individuali in
voti e la conversione dei voti in seggi. In questo senso, essi rientrano, pur
distinguendosene concettualmente, nella “legislazione elettorale”, che
comprende la materia elettorale più ampiamente considerata (concernendo,
ad es., il regime delle incompatibilità, delle ineleggibilità, e la cd.
legislazione elettorale di contorno; una situazione peculiare sembra
rappresentata, poi, dalla incandidabilità, conseguente a fattispecie
criminose, che va, piuttosto, ricollegata al regime del voto di cui al comma
4 dell’art. 48 Cost., che prevede, appunto, com’è noto, che il diritto di voto
non possa “essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di
sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla
legge”).
Più precisamente:
- l’ineleggibilità: è dovuta alla particolare carica ricoperta dal soggetto,
che nella competizione elettorale può porlo in una posizione di vantaggio
rispetto agli altri candidati (v. il t.u. n. 361/1975: persone che ricoprono
determinati uffici, persone appartenenti al corpo diplomatico, persone
legate allo stato da particolari rapporti economici). Se in presenza di una
causa di ineleggibilità un soggetto sia comunque eletto, la sua elezione
viene dichiarata nulla.
- dall’incompatibilità: deriva l’impossibilità materiale di ricoprire
contemporaneamente due cariche (che si presume non siano svolgibili
contemporaneamente). Quindi si deve optare per l’una o per l’altra (ad es.
giudice della Corte costituzionale/deputato). L’incompatibilità a differenza
dell’ineleggibilità, non impedisce la regolare elezione ad una carica ma
impone solo una scelta tra il nuovo ed il precedente ufficio ricoperto.
Diverso è il fondamento giuridico che sta alla base delle due figure: le
ineleggibilità mirano a garantire la parità di chances tra i candidati; invece,
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 3
le incompatibilità sono volte ad assicurare che l’efficienza dell’esercizio
delle funzioni. Le cause di ineleggibilità hanno natura invalidante è
determinano la nullità della stessa elezione; le cause di incompatibilità
sono invece, caducanti e producono la decadenza del titolare della carica
elettiva se questi non sceglie fra le due cariche.
- L’incandidabilità: di norma è prevista in relazione a determinate
vicende processuali (condanne o rinvii a giudizio); da essa consegue il
divieto per alcuni soggetti di presentare la propria candidatura (è il caso di
coloro che hanno riportato condanna definitiva per alcuni delitti
particolarmente gravi).
Accanto al tradizionale profilo “esterno” del voto – in ragione del quale
ciascun individuo, in forza di particolari legami giuridicamente rilevanti
(“di cittadinanza”, “di residenza” …), che presenta con l’ordinamento
giuridico di volta in volta considerato, può rivendicare, in virtù del
principio di eguaglianza formale, di votare alla stregua degli altri elettori –
, è necessario gettare luce anche sul profilo “interno” del suffragio,
strettamente connesso al principio di eguaglianza sostanziale e
maggiormente attento, rispetto al primo, all’incidenza effettiva che ciascun
voto individuale (e, quindi, “la scelta collettiva” espressa dal corpo
elettorale nel suo complesso) finisce per avere sul risultato dell’elezione
(cd. “valenza intrinseca” del suffragio).
Una compiuta attuazione del principio di sovranità popolare
richiederebbe di vedere attribuito ad ogni elettore astrattamente
considerato non solo un medesimo coefficiente individuale, tale da rendere
in tutti identica la valenza formale e sostanziale del proprio voto (cd.
“identità delle valenze”), ma, altresì, un tasso di influenza sul risultato
dell’elezione, almeno sul piano generale, apprezzabile. Non ci si nasconde,
peraltro, come l’esperienza e la riflessione teorica convergano nel ritenere
quello testé descritto un modello teorico irraggiungibile nella realtà. È,
infatti, in qualche modo nelle cose (potrebbe forse dirsi “nei numeri” …),
che, già in partenza – particolarmente al momento, come si vedrà del
disegno delle circoscrizioni – ciascun suffragio, sebbene appaia
formalmente uguale agli altri, presenti un “peso” (ovvero, come s’è detto,
un grado di incidenza sul risultato finale) diverso e che sia destinato poi ad
essere ulteriormente ed in vario modo “conformato” dagli altri meccanismi
che compongono i sistemi di elezione.
4 Lara Trucco
La circostanza, però, non impedisce che quello stesso modello teorico
di cui si diceva possa comunque costituire una sorta di “ideal-tipo” o di
limite tendente all’infinito, verso cui qualunque sistema di elezione
dovrebbe in ogni caso orientarsi al possibile in un ordinamento
democratico. E ciò, in virtù:
– sia sul piano “orizzontale”, nel rapporto reciproco tra i consociati,
del principio della pari dignità elettorale;
– sia sul piano “verticale”, cioè nella relazione tra elettori e organi
del governo rappresentativo (massimamente le assemblee direttamente
formate in base al voto popolare), della libertà di voto e del principio di
sovranità popolare.
Il ruolo delle tecniche di voto, infatti, in ragione della loro
configurazione e della più complessiva costruzione del sistema elettorale,
può oscillare tra scenari pressoché simbolici, allorché la capacità
d’incidenza del suffragio sia nulla – e d’altra parte, i risultati di voto già
(altrove ed altrimenti) prefigurati – a situazioni più libere e
sufficientemente imprevedibili nel loro determinarsi, in cui, appunto, è, in
buona sostanza, il corpo elettorale ad avere nelle sue mani le carte decisive
da giocare.
Di qui, l’opportunità di svolgere un esame delle condizioni di miglior
rendimento del suffragio, vale a dire delle tecniche della sua espressione e
dei suoi modi di “trasformazione” in scelte collettive, con l’obiettivo di
evidenziare quali tra esse ne esaltino la “valenza intrinseca” o, viceversa,
ne mortifichino la portata.
2. Profili “quantitativi” e “qualitativi” del sistema di votazione. A)
Il suffragio
I sistemi di votazione sono quei meccanismi, normativamente previsti,
che, nell’ambito dei più ampi sistemi elettorali, regolano il procedimento
tecnico di espressione e di traduzione delle preferenze individuali relative
a determinate candidature, in voti.
Essi, pertanto, operano, particolarmente, nella fase del procedimento
elettorale che va dall’indizione delle elezioni fino allo scrutinio,
consentendo, nello specifico,
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 5
– la presentazione delle “liste di candidati”: intese, in senso ampio,
come spazio entro cui l’elettore è chiamato a compiere questa stessa scelta
(“lato dell’offerta elettorale”); e
– l’espressione e il computo dei “voti”, o, più tecnicamente, dei “suf-
fragi individuali”: ossia delle scelte degli elettori votanti (per questo
definibile come “lato della domanda elettorale”).
Oltre a disciplinare le concrete modalità di effettuazione della scelta
individuale, gli stessi sistemi di votazione stabiliscono i modi per
l’aggregazione significativa di ciascuna preferenza individuale di per se
stessa considerata. S’intende, dove ciò sia consentito: ed infatti, in quei casi
in cui, come nell’attuale sistema di votazione per le elezioni politiche
italiane (introdotto dalla legge n. 270 del 2005), agli elettori non sia dato
modo di esprimere una qualche preferenza per i singoli candidati, del
voto/suffragio beneficia soltanto la lista (di solito, “di partito”) ed è per
questo che si parla di “voto blindato” (o di “lista bloccata”).
Su quanto prodotto dal sistema di votazione – che potrebbe denominarsi
come “coefficiente di voto ex ante” – intervengono, poi, i meccanismi del
“sistema di assegnazione dei seggi”, permettendo di calcolare il
“coefficiente di voto ex post”.
Ad ogni modo, che la si riguardi nell’atto di produrre i propri effetti sul
sistema di votazione (“coefficiente di voto ex ante”) o su quello di
assegnazione dei seggi (“coefficiente di voto ex post”), la “valenza
intrinseca” (o, se si vuole, l’efficienza) del voto pare dipendere
principalmente dalla combinazione di due fattori:
1. un fattore di ordine “quantitativo”, dato dal numero di suffragi a
disposizione dell’elettore; e
2. un fattore di ordine “qualitativo”, consistente nelle concrete
modalità con cui è possibile, da parte dello stesso elettore, esprimere tali
suffragi.
1. Per quanto riguarda il fattore di ordine “quantitativo”, la diversa
consistenza del “paniere” di opzioni a disposizione di ogni elettore, entro
un ovvio tetto massimo, permette di distinguere tra:
1a) sistemi “a voto plurimo”: in presenza di un numero effettivo di
suffragi disponibili superiore a uno; e
1b) sistemi “a voto unico” (o “singolo”): quando si ha l’attribuzione di
un solo suffragio.
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2. Per quanto riguarda poi il fattore di ordine “qualitativo”, la
possibilità di esprimere una qualche strategia nell’ambito dei suffragi
disponibili in funzione del livello di gradimento dei candidati, autorizza la
distinzione tra “sistemi di votazione”:
2a) “preferenziali graduabili”: in cui l’elettore colloca i candidati
prescelti secondo una gerarchia valutativa (1°, 2°, 3°, …), e
2b) “preferenziali categorici”: nei quali, invece, egli può semplicemente
“spuntare” (“□”) l’oggetto della propria selezione, esprimendo di necessità
un livello di gradimento omogeneo per tutti i candidati “spuntati”.
A completamento di queste considerazioni, accanto ai due fattori già
illustrati, sembra possibile proporne un terzo, di non certamente minore
rilievo sulla latitudine della scelta degli elettori, di carattere, per così dire,
“misto”, costituito dal numero di “entità” su cui insiste simultaneamente
l’atto del voto (ad es., il suffragio rileva per l’elezione del solo candidato
o solo della lista o di entrambi? Per una sola lista o per più liste? Per un
solo corpo rappresentativo o per più d’uno?). Infatti, su questa base, può
utilmente distinguersi tra
– voto esclusivo, mirante a fornire una sola, univoca informazione di
voto (tipicamente nel caso di preferenza attribuita ad un candidato, come
nei sistemi cd. plurality); e
– voto non esclusivo (o simultaneo), con cui, invece, l’opzione di
voto finisce per avere una ricaduta plurima (per l’appunto,
simultaneamente). Così, ad es., possono ricondursi a questo secondo
ambito, in caso di voto categorico, il pooling, vale a dire il “travaso”, a
favore delle rispettive liste, delle preferenze espresse per i candidati; e il
“voto blindato”, nella misura in cui il voto dato obbligatoriamente alla lista
giova ai candidati secondo l’ordine di presentazione. Da questo punto di
vista, rispetto al “voto non esclusivo”, può immaginarsi come “l’altra
faccia della stessa medaglia” l’ipotesi del:
– cd. “voto fuso in senso stretto”, che si presenta nell’ambito dell’e-
lezione della medesima carica (segnatamente, parlamentare),
specificamente, nel caso in cui uno stesso suffragio sia dato, al contempo,
a favore di liste (di partito) e di singoli candidati (v., in particolare, il
sistema introdotto in Italia dalle legge 21 dicembre 2005, n. 270, per
l’elezione dei due rami del Parlamento nazionale).
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 7
L’ipotesi del voto fuso in senso stretto va poi tenuta concettualmente
distinta rispetto a quella del:
– cd. “voto fuso in senso ampio”, per cui uno stesso voto vale per più
elezioni simultanee, riflettendosi, quindi, contemporaneamente sui totali di
voto di candidati che concorrono per cariche qualitativamente diverse (ad
es., Capo dello Stato e parlamentari della Camera dei rappresentanti,
nell’esperienza statunitense prima del XII emendamento del 1804).
Peraltro, val la pena, sin d’ora, di rilevare come, in tutti i casi, i fenomeni
di “fusione” del voto, mentre, sia pur variamente, riducono le probabilità
di risultati divaricati su organi diversi, non solo limitano le possibilità di
“scelte disgiunte” dell’elettore (il quale, ad es., potrebbe ben essere
intenzionato a votare per un determinato partito (rectius: per una
determinata lista di candidati) per le elezioni politiche e per il candidato di
un diverso schieramento per le elezioni presidenziali), ma, come ogni tipo
di “unificazione procedurale”, trascura le specificità intercorrenti tra un
certo sistema elettorale e tipo delle cariche in palio.
3. Segue. B) La lista dei candidati
Oltre che in base alla “struttura”, la “valenza intrinseca” del voto
dipende dalle caratteristiche della “lista dei candidati” su cui va ad
insistere. Al riguardo, è bene subito precisare che si accede qui ad una
nozione ampia di “lista”, tale, cioè, da includere qualsiasi tipo di “offerta
elettorale”, sia essa idealmente composta da:
a) tutti i soggetti eleggibili/candidabili in assenza di formali candida-
ture in una determinata elezione; oppure
b) da singole candidature concorrenti; o, ancora
c) da una pluralità di liste di candidati concorrenti anch’esse all’asse-
gnazione di seggi.
Avendo riguardo, anche qui, in primo luogo, al
1. fattore di ordine “quantitativo”, è opportuno, innanzitutto, sotto il
profilo “terminologico”, segnalare la distinzione che, sulla base del numero
di candidati inclusi nelle liste presentate agli elettori, si fa tra “scrutinio di
lista” e “scrutinio uninominale”; così, si parla di:
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1i) “scrutinio di lista”: quando nella lista (e nel collegio) possono essere
presenti/ati più candidati (da ciascuna formazione in lizza); ed invece di
1ii) “scrutinio uninominale” (o “individuale”): quando nella lista (e nel
collegio) può essere presente/ato un solo candidato (da ciascuna
formazione in lizza).
Al di là di questo, sempre in riferimento al fattore quantitativo, è
evidente – e, per certi versi, di ancora maggior rilievo – la differenza che
corre tra la situazione:
1a) in cui la scelta del votante può dispiegarsi lungo tutto l’arco degli
“eleggibili” uti singuli (cd. “lista libera”), rispetto a quelle:
1b) e 1c) in cui, come perlopiù accade, la scelta è in certo modo
preorientata solo verso chi sia presente in “elenchi” predisposti secondo le
regole per la presentazione delle candidature. E, nell’ambito della
situazione sub 1b):
1bi) il caso in cui la lista sia una componente del tutto neutrale rispetto
alla presentazione del candidato, per cui i voti (rectius: le preferenze) date
dagli elettori ai candidati vanno solo ed esclusivamente a beneficio delle
stesse candidature individuali (cd. voto esclusivo al candidato); e
1bii) il caso in cui, invece, la lista costituisca parte integrante (ovvero
“conteggiata”) ai fini dell’elezione dei singoli candidati, per cui i voti
(rectius: le preferenze) dati dagli elettori ai candidati sono attribuiti anche
ex lege alla lista nell’ambito della quale si presentano all’elezione (cd.
voto fuso in senso stretto o, a seconda dei punti di vista, simultaneo).
Ma le correlazioni tra voto e lista ancor meglio si comprendono, se si
tiene conto del:
2. fattore di ordine “qualitativo” della lista stessa, il quale porta a
constatare come la latitudine di voto dell’elettore sia calcolabile in
funzione della possibilità di spaziare nella scelta dei candidati anche
nell’ambito della più complessiva offerta elettorale. È così possibile
avvedersi di come, in genere, i metodi di voto “preferenziali” si combinino
con “liste aperte” (o flessibili), grazie alle quali l’elettore è libero di
effettuare le proprie scelte “saltellando” tra una lista e l’altra. In altri
termini, l’elettore può panacher, vale a dire, “mescolare”, nel comporre il
proprio “mosaico”, la lista prescelta con nomi di candidati di altre liste o
di candidati indipendenti (in ciò, dunque, consiste il cd. meccanismo di
panachage). Diversamente, i metodi basati sul “voto preferenziale
categorico” tendono ad innestarsi su “liste chiuse”: consentendo, sì, di
esprimere una qualche preferenza ai candidati (cd. “voto di preferenza”),
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 9
ma, pur sempre, nell’ambito della lista prescelta. Anche se è bene, però,
subito avvertire, a quest’ultimo proposito, di come non manchino esempi
di “liste chiuse” che ammettono una preferenza per una candidatura
“esterna” alla lista prescelta (cd. “voto aggiunto”), “temperando”, così, in
qualche misura, l’inflessibilità della regola della “lista chiusa”. Ad ogni
modo, il punto di discontinuità rispetto alle “liste aperte”, è ravvisabile nel
fatto che mentre in queste ultime il “voto esterno” alla lista prescelta
costituisce la normalità, nelle “liste chiuse” essa integra una circostanza
eccezionale.
Il “voto singolo categorico non preferenziale”, dal canto suo, è
associabile a liste completamente “blindate”, in cui l’ordine di precedenza
tra i candidati compresi nella lista ai fini dell’elezione è prestabilito ed
immodificabile, sicché l’elettore non può che votare per la lista,
accettandone integralmente la graduatoria prestabilita. Ciò che ne risulta è,
pertanto, una scheda elettorale in sostanza “pre-compilata”, in cui
l’individuazione degli eletti avviene con il cd. “sistema dello scorrimento”
(vale a dire: l’elezione dei vari candidati si realizza progressivamente
secondo l‘ordine di presentazione nella lista). Non è, dunque, chi non veda
come l’ipotesi rappresenti la soglia minima al di sotto di cui, a meno di non
volersi ammettere ancora il “voto blindato di coalizione” (elargito, cioè
dall’elettore, non alla lista, ma alla coalizione di liste “preferita”), in
sistemi democratici non sembra possibile spingersi, dato che,
diversamente, si avrebbero “candidature uniche” (cd. “lista unica
blindata”), che, monopolizzando l’intera area dell’“offerta elettorale”,
finirebbero per azzerare del tutto la scelta, ovvero la valenza sostanziale e,
con essa, la libertà di suffragio dell’elettore.
[…]
5. I “sistemi di votazione” “in atto”.
[…] sulla base delle interrelazioni tra (tipo di) voto e (di) lista,
condurremo il discorso secondo la seguente traccia:
1. sistema di votazione plurimo preferenziale graduabile a
1a) voto libero razionalizzato;
1b) voto preferenziale posizionale;
1c) voto cumulativo;
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2. sistema di votazione plurimo preferenziale categorico a
2a) voto di approvazione;
2b) voto aggiunto; e
3. sistema di votazione singolo categorico a
3a) voto preferenziale simultaneo;
3b) voto preferenziale unico esclusivo;
3c) voto preferenziale disgiungibile;
3d) “voto unico blindato”.
[…]
6. Segue. 2) Il “sistema di votazione” plurimo preferenziale
categorico
A differenza dei sistemi di votazione sensibili, in varia, ma pur sempre
significativa, misura, alla valutazione “graduata” di chi vota nei confronti
dei candidati, i sistemi di votazione “plurimi preferenziali categorici”
chiamano gli elettori ad approvare o a disapprovare (secondo un modulo
di scelta di tipo “binario”: “si”/“no”), in modo (più) tranchant, le
candidature ad essi “offerte”. E se, in genere, in questi casi, la
“disapprovazione” è esprimibile semplicemente tramite la “non spunta”
(l’elettore, cioè, si limita a non apporre alcun segno in corrispondenza delle
candidature “non volute”), deve tuttavia segnalarsi come non siano
infrequenti le legislazioni (v. Norvegia, Islanda, Svizzera), che
contemplano combinatamente la possibile indicazione in “negativo” (cd.
“voto negativo”) del candidato “bocciato” (per cui, in questi casi, l’elettore
è chiamato a tracciare un vero e proprio segno di cancellatura sul
nominativo di chi vuole penalizzare), di norma, senza quantificare la
“portata negativa” del voto (altrimenti, si rientrerebbe nell’ambito dei
sistemi di votazione plurimi preferenziali graduabili).
A tale riguardo, non è senza interesse ricordare come proprio la variante
del “voto negativo” (su “liste chiuse”) sia stata sperimentata
nell’ordinamento italiano con il d.lgs.lgt. 1° gennaio 1946, n. 1, per cui,
nelle elezioni nei comuni capoluogo di provincia con oltre 30 mila abitanti,
l’elettore avrebbe potuto manifestare la preferenza per i candidati della
lista da lui votata ed effettuare nel contempo la cancellazione di alcuni di
essi (ex art. 59, comma 1). Notevole anche il fatto che la medesima
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 11
soluzione per le elezioni politiche sia stata invece osteggiata da parte di chi
riteneva che il “voto negativo” non fosse opportuno – ed anzi, più
radicalmente, fosse inapplicabile – alle procedure elettorali.
2a) Il voto di approvazione si ha allorché al votante sia dato modo di
indicare un certo numero di candidati, “spuntando” il nome o l’apposita
casella in corrispondenza di ciascuno ed attribuendo, pertanto, ad ogni
candidato selezionato, una preferenza di medesimo “peso”.
A dispetto della sua duttilità e del fatto che nel nostro Paese è stato –
insieme al voto singolo categorico preferenziale – il tipo di voto più a
lungo utilizzato, le sue potenzialità sono state esplorate anche da noi solo
in tempi relativamente recenti (a partire dagli anni Ottanta).
2b) Il voto aggiunto (la cui paternità è disputata tra il danese Carl George
Andrae e il britannico Thomas Hare, a far data dalla metà del XIX secolo)
costituisce, in certo qual modo, un’ibridazione dell’ultima variante
esaminata. Esso, infatti, di quello conserva una certa consistenza del
paniere di voti, in quanto dà modo all’elettore di distribuire le preferenze
tra i nomi dei candidati della lista votata, caratterizzandosi, però, per il fatto
di consentire, in alternativa, allo stesso elettore di trarre uno o più nomi, a
seconda della consistenza del collegio, da altre liste (cd. panachage). Detto
altrimenti, in vigenza del voto aggiunto l’elettore ha la facoltà di
aggiungere nomi di (e quindi di esprimere voti per) candidati non
appartenenti alla lista prescelta (in genere in numero di 1, da cui la
denominazione).
7. Segue. 3) Il “sistema di votazione” singolo categorico
Il sistema di votazione singolo categorico è tra i più diffusi (se non in
assoluto il più praticato) soprattutto in ambito europeo, dove si è imposto
in modo pressoché contestuale all’introduzione dei sistemi di assegnazione
dei seggi d’indole proporzionalista ed in stretta corrispondenza
coll’estensione del suffragio, all’insegna del principio di eguaglianza del
voto individuale (come rivela, del resto, la nota espressione “one man, one
vote”). Peraltro, è opportuno immediatamente avvedersi di come, nel suo
seno, siano presenti due fondamentali varianti, al cui interno è possibile,
poi, enucleare altri sottotipi di votazione, vale a dire
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– la variante maggiormente attenta a garantire all’elettore anche
l’espressione di una preferenza nei confronti di un determinato
candidato (cd. “voto unico a singola preferenza”), nel cui ambito può
ulteriormente distinguersi tra:
3a) voto preferenziale simultaneo;
3b) voto preferenziale unico esclusivo;
3c) voto preferenziale disgiungibile; e
– la variante propensa, invece, ad affidare il reclutamento politico
esclusivamente alle parti politiche in competizione (cd. “voto unico
senza preferenze”), tramite:
3d) “voto unico blindato”.
3a) Nel caso del “voto unico a singola preferenza” (altrimenti
denominato “voto di tipo belga” dall’ordinamento in cui ha avuto la sua
prima sperimentazione e dove ad esso è tuttora riservata una particolare
collocazione in Costituzione), l’elettore dispone di due distinti suffragi:
i) il voto di lista, che, secondo tale variante, non può mai mancare (e
che, a differenza delle forme di voto precedentemente incontrate, può
esercitarsi solo su elenchi di candidati già predisposti dai gruppi di
presentatori (cd. “liste chiuse”); ed ii) il voto di preferenza, che è in facoltà
del votante di attribuire o me-
no ad un candidato, appartenente, comunque, alla lista prescelta.
Si ha dunque il “voto doppio simultaneo a preferenza singola
categorica” solo quando (come nel caso della legislazione belga del 1929)
l’elettore, esprimendo, se lo ritiene, al posto del voto di lista, la sua (unica
possibile) preferenza per un candidato di una lista, si veda convertita, tale
preferenza, ope legis, anche in un voto a tale lista. A seconda, poi, del
numero di candidature “beneficiate” da uno stesso voto (cd. “voto fuso”),
è possibile distinguere forme anche ulteriori (ad es. “triplici”: candidato
alla presidenza – lista di partito – candidato in assemblea) di voto
preferenziale categorico simultaneo.
3b) Sembra evidente la distanza che separa questo tipo di sistema di
votazione rispetto al voto preferenziale unico esclusivo, dato che, a
differenza di quello, in vigenza di questo, rilevano solo ed esclusivamente
le preferenze date ai candidati (a beneficio di un’incidenza diretta del
voto), senza che avvenga alcun travaso “preferenziale” (il cd. pooling già
menzionato) a favore di “ulteriori entità” (con conseguente
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 13
“affievolimento”, in questi casi, della valenza del voto individuale, il cui
grado di incidenza sull’esito dell’elezione risulta, per ragioni intuibili,
depotenziato ad ogni passaggio). Si tratta del voto praticato, ad es., in
territorio finlandese, dove, nell’ambito di un sistema elettorale di tipo
proporzionale risultano eletti i candidati che hanno ottenuto il maggior
numero di voti nell’ambito della singola lista, in numero corrispondente a
quello dei seggi effettivamente spettanti a detta lista nella singola
circoscrizione.
Ancora diversa, poi, è l’ipotesi di:
3c) voto preferenziale disgiunto (o “disgiungibile”): consistente,
all’opposto (rispetto al voto simultaneo), in due voti veri e propri,
consentendosi, analogamente al “voto aggiunto”, di votare in modo, per
l’appunto, “diviso” tra liste e candidati preferiti, con la differenza, però,
rispetto al voto aggiunto, che mentre lì il voto viene comunque dato a
candidati per la medesima carica (parlamentare), qui si ha a che fare con
candidature a cariche diverse (ad es., alla carica di sindaco e di consigliere
comunale nei comuni italiani superiori a 15 mila abitanti, e alla carica di
presidente della regione e a quella di consigliere regionale nel sistema di
cui alla legge n. 43 del 1995).
Tenuto conto di quanto si è detto, si avvicina più alla logica del voto
simultaneo, che non a quella che soggiace al “voto diviso”, l’ipotesi del:
3d) “voto unico blindato”, introdotto, tra le prime volte, per l’elezione
della Camera belga alla fine del XIX secolo, in vigenza del quale
all’elettore è consentito soltanto di dare il proprio voto ad una lista di
candidati nell’ordine di presentazione delle candidature prefissato, senza
poter esprimere valutazione alcuna nei confronti di singoli candidati, ma
dimostrando di accettare – ed auspicabilmente di condividere – la scelta
compiuta “a monte” da chi ha in mano la “regìa” della composizione delle
liste dei candidati (verosimilmente, i capi di partito).
In quest’ordine di idee, non possono incidentalmente sottacersi, però,
talune condizioni razionali perché possa veramente dirsi almeno
potenzialmente operante una tale “condivisione”, riassumibili:
i) nella conoscibilità della struttura della lista; e ii)
nella stabilità della medesima struttura.
Per quanto riguarda i), è difficile, peraltro, sostenere che vi concorra
efficacemente qualsiasi modalità di collegamento tra scheda e lista operata
ob relationem, quale esemplarmente si ritrovava nella legislazione
elettorale italiana introdotta dalla già menzionata legge n. 270 del 2005,
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che affidava solo all’affissione di due esemplari del manifesto elettorale
nei locali di voto e all’affissione murale del medesimo l’informazione in
proposito (ex art. 24, comma 1, n. 5, d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361). Si noti,
peraltro, come tale opinabile tecnica costituisca, al contempo, causa ed
effetto della scelta del legislatore italiano di configurare una selezione dei
candidati fondata sulla competizione tra liste elettorali concorrenti, oltre
che “bloccate”, anche “lunghe” (cd. “liste lenzuola”), derivandone, non
solo la difficoltà per gli elettori di riuscire persino a conoscere l’identità
dei candidati della lista che sono chiamati ad “accettare”, ma anche e più
in generale, un elemento di forte deresponsabilizzazione della
rappresentanza politica, che per questa strada può finire per smarrire ogni
sorta di “ancoraggio” con la propria base elettorale.
Circa la condizione sub ii), rileva, invece, il fenomeno presentatosi, tra
le prime volte, nell’ordinamento francese ed in cui oggi è, invece, vietato,
ai sensi dell’art. 156 del Code électoral), divenuto, poi, squisitamente
nostrano (ex art. 19, del d.P.R. n. 361 del 1957, ed ex art. 8 del d.lgs. n. 533
del 1993), in base al quale, essendo ammesse le cd. “candidature multiple”,
vale a dire la presentazione dei medesimi candidati in più circoscrizioni
(ed anche in tutte), l’elettore è chiamato a votare per liste destinate spesso
a “mutare fisionomia” all’indomani delle elezioni in conseguenza
dell’opzione che i candidati plurieletti (ossia eletti in più collegi
nell’ambito della medesima elezione) devono esercitare tra i seggi delle
diverse circoscrizioni, coll’indicare quello effettivamente acquisito,
finendo così per determinare – del tutto arbitrariamente, ovvero nella
pressoché totale mancanza di controllo da parte degli stessi elettori – il
destino di altri candidati, a cui non rimane che sperare di essere “ripescati”.
Diversamente, un qualche “recupero” del rapporto tra elettore ed eletto
può aversi – in vigenza di liste blindate – in quegli ordinamenti che, come
quello spagnolo adottano (per le elezioni politiche) un modello di lista
bloccata “breve” (cd. “liste corte”), innestandola su circoscrizioni elettorali
di limitate dimensioni, mettendo così l’elettore nella condizione,
comunque, di poter “personalizzare”, in qualche modo, il proprio voto.
Per ancora diverso profilo, poi, può pensarsi che un rimedio alla
capacità di incidenza degli elettori (persa pur sempre a causa della
blindatura delle liste), nella selezione finale degli eletti, possa aversi nei
casi in cui i consociati siano messi nelle condizioni – ad es., tramite
elezioni primarie – di far valere la loro opinione circa la scelta delle
candidature e, ancor meglio, la loro collocazione nell’ambito delle liste. Al
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 15
di là delle difficoltà tecniche di tale soluzione, dirimente è che ciò avvenga
in maniera – a sua volta! – “democratica”: diversamente, infatti, non vi è
nessuna garanzia sulla sussistenza di un sufficiente grado di libertà della
partecipazione individuale alla vita del partito, ed, in particolare, circa il
fatto che le scelte, anche e soprattutto in punto di reclutamento delle
candidature, siano compiute dagli stessi partiti politici in modo trasparente
e corretto. Soprattutto (e più in generale), in questi casi diviene concreto il
rischio che proprio in ragione dello scarso ruolo attribuito ai votanti, ogni
tipo di “chiamata alle urne” si riveli una sorta di “delega in bianco”
richiesta agli elettori destinati a “ratificare” decisioni in gran parte
compiute “altrove”, secondo paradigmi plebiscitari inconciliabili col
principio di un’autentica sovranità popolare.
8. Formato circoscrizionale e concezione territoriale/per corpi
sociali della rappresentanza politica
Passati in rassegna i principali sistemi di votazione, deve ora rilevarsi
come tra gli elementi di cui si compongono i sistemi elettorali idonei a
conformare la capacità d’incidenza del tipo di voto in dotazione agli
elettori vi sia il formato circoscrizionale. Ciò, in ragione della capacità di
tale componente di dispiegare effetti di rilievo:
– non solo nel momento in cui, in vista della traduzione dei voti in
seggi, sugli stessi viene applicata la cd. “formula elettorale”, quindi, dopo
che gli elettori hanno votato (cd. fase ex post);
– ma anche ed ancor prima, sul versante del sistema di votazione
(pro-filo di cui ci occupiamo ora), vale a dire quando gli elettori devono
ancora votare (cd. fase ex ante).
9. Le tecniche di apportionment del formato circoscrizionale: il
“criterio demografico”. I parametri I) quantitativi
[…] Nei collegi uninominali viene assegnato un solo seggio, mentre, nei
collegi plurinominali, più di uno. Queste due nozioni non vanno confuse
con quelle di “collegio unico” e di “collegi plurimi” (o “pluricollegialità”),
che indicano, rispettivamente, che il sistema di elezione si struttura in (e
16 Lara Trucco
funziona con) un solo collegio elettorale o, invece (come di norma accade)
sulla base di un certo numero di collegi elettorali (che, pertanto, a loro
volta, possono essere uninominali o, a seconda dei casi, plurinominali).
Il numero di seggi complessivo in palio nel collegio elettorale viene
denominato “magnitudine” (o “magnitudo”) del collegio.
Venendo, dunque, ora, ad esaminare le tecniche di ritaglio di collegi e
circoscrizioni (cd. apportionment), diciamo così, in “chiave moderna”, è
opportuno, in via del tutto preliminare, rilevare come sebbene l’esperienza
storica e comparata dimostri che ogni modalità di apportionment si ispiri
ad un qualche valore ed anche per questo non possa dirsi del tutto estraneo
al conseguimento di un qualche fine politico (nel senso più nobile del
termine), “il criterio” che si rivela maggiormente “neutrale”, in quanto
tendenzialmente oggettivo, sia il già accennato criterio demografico (che,
non a caso, è stato indicato quale “strada maestra”, ad es., dalla Corte
Suprema americana e dal Consiglio costituzionale francese). Il “criterio
demografico”, a sua volta, si rifà ad una serie di
[…]
In tal senso, si noti, va anche la scelta del nostro legislatore: del resto,
già in seno alla Costituente fu prestata attenzione al fatto che si sarebbe
dovuto tenere presente l’ammontare della “popolazione del Paese in
45.000.000 di abitanti”, corrispondente, appunto, al numero di cittadini
residenti. All’indomani, poi, della modifica apportata al disposto
costituzionale nel 1963 il richiamo al numero di abitanti, “quale risulta
dall’ultimo censimento generale della popolazione” (ex art. 56 Cost.) ha
sortito l’effetto di legare strettamente le sorti del criterio demografico ai
risultati del censimento in ordine alla “popolazione legale” (v., al
proposito, da ultimo, il d.P.R. 6 novembre 2012, Determinazione della
popolazione legale della Repubblica in base al 15° censimento generale
della popolazione e delle abitazioni del 9 ottobre 2011).
10. Segue. Il principio di distribuzione proporzionale dei seggi fra
le circoscrizioni: il “quoziente di rappresentanza”
Le osservazioni fin qui condotte non hanno, a ben vedere, presupposto
necessariamente l’articolazione del territorio interessato in una pluralità di
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 17
collegi (cd. “pluricollegialità”), dato che si è fissata l’attenzione solo su
taluni parametri di rappresentanza rilevanti ai fini, in particolare, del
disegno delle circoscrizioni. A tale proposito, significativo è il fatto per cui
un’ipotetica configurazione dell’ordinamento come collegio unico
semplificherebbe di molto le cose, dato che, in tal caso, non si porrebbe
nemmeno il problema del “buon disegno dei collegi elettorali”. E, d’altra
parte, ci si dovrebbe limitare a calcolare il numero degli eleggibili che
comparirebbero nella, sempre ipotetica, lista unica nazionale da cui gli
elettori trarrebbero le loro preferenze (si immagini, ad es., cosa accadrebbe,
se il nostro Paese, per le elezioni politiche, fosse costituito in un solo
collegio unico nazionale – invece che essere suddiviso, ex artt. 56 e 57
Cost. in varie circoscrizioni).
Ora, l’esperienza offre qualche esempio di situazioni consimili, ma non
perfettamente omologabili, quali quelle che si sono avute nei Paesi Bassi e
in Israele (ordinamenti, non a caso, di dimensioni assai ridotte), laddove
può, invece, in generale, osservarsi come l’idea di “collegio unico” abbia
piuttosto svolto un ruolo culturale, di pari passo col progressivo emergere
(ed, anzi, contribuendo all’imporsi) dello Stato moderno: collegandosi
all’idea dell’esistenza di una “più alta” “rappresentanza statale” in cui si
sarebbero potuti identificare tutti i consociati, contribuendo così a
consolidare lo spirito di appartenenza all’entità statuale stessa.
Tuttavia, l’osservazione storica e comparata fornisce la prova che sia
stata un’articolazione più o meno complessa degli ordinamenti in collegi
la soluzione assolutamente prevalente. Può, anzi, ipotizzarsi un
rafforzamento di tale tendenza a motivo della crescente complessità
rappresentativa (e, al contempo, decisionale) che connota la società attuale,
sia che si abbracci l’idea di seguire la strada della cd. “democrazia
territoriale”, sia che si coltivi lo sviluppo della cd. “democrazia
individuale”, sia, ancora, che si rivalutino forme di “rappresentanza
corporativistico-funzionale” (intesa, questa, val la pena di precisare, come
la rappresentanza di particolari “porzioni” di società, legate da specifici
interessi, e/o ideologie).
In quest’ottica, un accentuato principio di “pluralità circoscrizionale”
(cd. pluricollegialità) sembra, dunque, allo stato, ispirare qualsiasi
processo di recupero di una rappresentanza più personalizzata. Deve, però,
immediatamente osservarsi come questa stessa “strada” non sia priva di
implicazioni rischiose ai fini dell’identificazione del livello ottimale di
rappresentanza. È indubbio, infatti, che essa possa garantire che ogni
18 Lara Trucco
singola porzione di territorio abbia una qualche rappresentanza in
assemblea (cosa che potrebbe non accadere in presenza di “collegi unici”),
dato che in linea di massima può dirsi che ad ogni collegio corrisponde
l’assegnazione di almeno un mandato rappresentativo. Questa stessa
“frammentazione” territoriale, però, mentre, da un punto di vista
“simbolico”, può infrangere il senso dell’esito dell’elezione come
espressione di un’autentica ed unitaria manifestazione di “volontà
dell’intera popolazione” (riducendola a mera espressione di tanti “voleri”
locali ed al limite “individuali”), da un punto di vista oggettivo comporta
il rischio che, a seconda di come venga concepito il formato
circoscrizionale, si producano discrepanze anche molto forti sul “peso” del
voto ex ante. È, infatti, questione d’immediata intuizione come
l’assegnazione di un pari numero di seggi a collegi demograficamente
disomogenei, o, viceversa, di un numero di seggi diseguale a collegi
demograficamente equivalenti, avvantaggi (gli elettori di) alcuni collegi a
scapito di altri – segnatamente, quelli dotati di un maggior numero di seggi
in rapporto al parametro demografico che li contraddistingue –,
producendo quel fenomeno meglio noto come malapportionment
(appunto, “cattiva suddivisione” delle circoscrizioni).
Va da sé, pertanto, che un disegno dei collegi che intenda realizzare,
almeno ex ante, un’equa suddivisione del formato circoscrizionale, debba
operare nel senso di ripartire i seggi in palio con criterio proporzionale alla
misura dell’indice demografico prescelto (cd. “formula proporzionale per
la distribuzione dei seggi fra le circoscrizioni”).
In vista, dunque, di operare un simile tipo di riparto, gli elementi
rilevanti per l’assegnazione dei seggi, sotto un profilo tecnico, risultano
precisamente quattro:
1. il totale demografico ordinamentale;
2. il totale dei seggi dell’eligenda assemblea;
3. il parziale demografico di ogni singolo collegio;
4. la quota dei seggi da attribuirsi ad ogni singolo collegio.
Ciò posto, la regola di “buon riparto” esige, come già accennato, che ad
ogni collegio spetti una quota del totale dei seggi su base ordinamentale
proporzionalmente rapportata alla consistenza del corrispondente parziale
demografico. Il che, tecnicamente, comporta che:
1) Tot. Demografico : 2) Tot. seggi (Assemblea) =
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 19
3) Parz. Demografico : 4) Quota seggi collegio
Si noti che al primo membro di tale proporzione, uno od entrambi i
fattori possono essere già precostituiti, a seconda che, rispettivamente, il
totale dei seggi in palio sub 2) sia o no ancora da calcolare, dandosi così
luogo a due soluzioni organizzative elettorali diverse, cioè: A) “a
composizione dell’assemblea variabile”; e
B) “a composizione dell’assemblea fissa”.
Nel primo caso, il calcolo è svolto sulla base del seguente rapporto:
2) Tot. seggi (Assemblea) =
[1) Tot. demografico : 4) Quota seggi collegio] : 3) Parz. demografico
La soluzione sub A) fu, com’è noto, quella adottata in Assemblea
costituente (e per l’elezione della stessa), allorché si stabilì che la Camera
dei deputati sarebbe dovuta essere eletta “in ragione di un deputato per
ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila” (art. 56,
comma 1, Cost.); e, analogamente, che a “ciascuna Regione fosse attribuito
un senatore per duecentomila abitanti o per frazione superiore a centomila”
(art. 57, comma 2, Cost.). Tale soluzione (detta anche Oltralpe “répartition
par tranches”), grazie alla sua flessibilità, potrebbe dirsi la più adeguata
nel perseguire, nonostante eventuali incrementi demografici, l’obiettivo di
garantire sia l’eguale valenza di voto in tutti i collegi, sia (ed è, forse, quello
che maggiormente importa) una costante caratura del voto rispetto al
seggio. Tuttavia, tale regola pone non trascurabili problemi già all’atto di
fissare la misura del rapporto frazionario, com’ebbe a dimostrare l’acceso
confronto che si svolse sul tema in seno alla Commissione per la
Costituzione, tra chi era favorevole all’abbassamento dell’aliquota (fissata
dal Comitato di redazione a “centomila o frazione superiore a
cinquantamila abitanti”) per la Camera dei Deputati, ritenendo che la
diminuzione del numero di rappresentanti (dovuta ad una aliquota elevata)
si sarebbe risolta, in ultima analisi, in una diminuzione dell’“autorità” (in
termini di legittimazione) dell’organo rappresentativo e chi, invece,
all’opposto, ne propose l’innalzamento, dichiarandosi nettamente contrario
all’aumento del numero dei Deputati, essendo preferibile che i legislatori
“siano buoni” e non che “siano tanti” ...
20 Lara Trucco
Successivamente, sulle ragioni della “rappresentatività” dell’organo
dettate dall’esigenza di garantire la massima fedeltà di riproduzione della
struttura democratica in seno all’Assemblea Legislativa ebbero la meglio
motivazioni di ordine strettamente funzionale, fondate sul convincimento
che il rendimento dell’organo rappresentativo non fosse da valutarsi in
senso “quantitativo” (con la garanzia di un rapporto numericamente più
prossimo tra rappresentanti e rappresentati) ma, piuttosto, in senso
“qualitativo” (col tenere vivo un legame efficiente). Soprattutto, fu il
“boom demografico” degli anni Cinquanta a rendere urgente l’esigenza di
evitare un’ipertrofia di Camera e Senato, onde evitare che il costante
incremento dell’assemblea rappresentativa finisse per rendere difficile
(fino al punto da compromettere) il funzionamento dell’organo
parlamentare.
La soluzione organizzativa sub B) avrebbe pertanto finito con l’imporsi
grazie alla legge cost. n. 2 del 9 febbraio 1963, che introdusse l’attuale
sistema “a composizione dell’assemblea fissa”, in cui, cioè, il rapporto tra
“Totale demografico” sub 1) e Totale seggi (Assemblea) sub 2) resta
fissato una volta per tutte (cd. “quoziente fisso”) da norme di rango
costituzionale. Così, nell’occasione, fu stabilito, come si legge nel vigente
testo costituzionale, che le due Camere avrebbero dovuto avere,
rispettivamente, seicentotrenta deputati e trecentoquindici senatori, e che
la ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni sarebbe dovuta avvenire, per
la Camera, “dividendo il numero degli abitanti della Repubblica (…) per
seicentodiciotto e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di
ogni circoscrizione” (ex art. 56) e, al Senato, “in proporzione alla
popolazione delle Regioni” (ex art. 57).
Comunque sia, va notato che entrambe le soluzioni, sub A) e sub B),
lasciano impregiudicato il problema dei resti, ritenuto peraltro “congenito”
e “virtualmente ineliminabile”, quando si voglia “mettere in proporzione”
tra loro valori che, sotto il profilo matematico, non sono multipli e divisori
reciproci. Su tale questione avremo modo di tornare quando ci occuperemo
dei vari tipi di formule proporzionali: basti per ora rilevare come proprio
l’impossibilità di risolvere in via definitiva tale problema avesse portato i
Padri costituenti a prevedere la possibilità di comporre Camera e Senato,
eventualmente, in ragione di un deputato per “frazione superiore a
quarantamila ” (ex art. 56, comma 1, Cost.), e di un senatore “per frazione
superiore a centomila” (ex art. 57, comma 2 Cost.). Invece, da parte dei
fautori della predetta riforma costituzionale, al fine di assegnare comunque
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 21
tutti i seggi in palio, venne adottata la regola “di chiusura” ampiamente
utilizzata dalle legislazioni elettorali, che attribuisce i seggi ancora
eventualmente rimasti scoperti ai collegi che presentino i “più alti resti” (v.
gli artt. 56 e 57 Cost. italiana).
Tornando, per concludere sul punto, sulla linea principale del discorso,
vorremmo nuovamente (ora, però, in modo più tecnico) rimarcare come,
in tutti i casi, il principio di eguale “valenza intrinseca” ex ante del
suffragio richieda che, nei vari collegi elettorali, risulti un rapporto
tendenzialmente analogo (se non proprio del tutto identico: cosa
praticamente impossibile in presenza di una pluricollegialità accentuata)
tra il numero di seggi attribuiti al collegio stesso (cd. “magnitudo”) e il
parametro rappresentativo utilizzato per la suddivisione del formato
circoscrizionale (ovvero, come s’è visto, a seconda dei casi, il numero di:
a) abitanti; b) residenti; c) cittadini, e, può sin d’ora aggiungersi, di d)
elettori iscritti).
Elemento centrale di questa “prova del nove” è il cd. “quoziente di
rappresentanza”, calcolabile secondo la formula: Qrapp. = n. seggi
parziale/parziale demografico.
Detto ancora altrimenti, non deve esservi una differenza eccessiva tra i
quozienti di rappresentanza dei vari collegi così calcolati, tale, cioè, da
superare il limite massimo tollerato (cd. “limite di scostamento
dimensionale”).
La presenza, infatti, di differenze ragguardevoli (in genere rispetto ad
un valore medio comune a tutte le circoscrizioni, ma un tale “tetto
massimo” potrebbe anche essere stabilito in modo più sofisticato) tra i
quozienti di rappresentanza nei vari collegi elettorali è sintomo, già prima
che sul voto individuale intervengano i meccanismi di assegnazione dei
seggi legati alla formula elettorale, di “un diverso peso” del voto stesso (ex
ante), ovvero di una differente capacità di incidenza sull’esito dell’elezione
tra gli elettori, a seconda della circoscrizione in cui votano (così, ad es., se
ad un collegio di 100 abitanti sono assegnati 10 seggi e un egual numero
di seggi è attribuito ad un altro collegio di 1.000 abitanti, il quoziente di
rappresentanza è pari, nel primo caso, a (10/100 =) 0,1 e, nel secondo, a
(10/1.000 =) 0,01: ciò significa che il voto dato nel primo collegio vale 10
volte quello dato nel secondo; laddove una ripartizione dei seggi “equa”
necessiterebbe di vedere attribuiti o al primo collegio un solo seggio (ed
infatti: 1/100 = 0,01 ottenendosi, con ciò, un quoziente di rappresentanza
equivalente a quello del secondo collegio); o al secondo collegio 100 seggi
22 Lara Trucco
(dato che 100/1000 = 0,1 ovvero, un quoziente di rappresentanza analogo
a quello del primo collegio).
[…]
14. Il disegno fraudolento dei collegi
Il c.d “gerrymandering” – termine curioso, derivante dalla
combinazione delle parole “Gerry”, nome (Elbridge Gerry) del
Governatore americano dello Stato del Massachusetts, che lo praticò
magistralmente, nel 1812, al fine di garantirsi facilmente la rielezione, e
“salamander”: per il fatto che il disegno dei collegi da questi effettuato
presentava dei contorni talmente “tortuosi” da far loro assumere l’aspetto
di salamandre (!) –, consiste nel disegno deliberatamente fraudolento dei
collegi elettorali, al fine di favorire (conoscendo le tendenze di voto delle
varie “zone elettorali”) determinate candidature a scapito di altre.
Il gerrymandering costituisce indubbiamente uno degli “abusi”
elettorali più subdoli sia sul i) piano giuridico, sia su quello ii) socio-
politico.
Quanto al versante i), infatti, è bene subito chiarire che il “perfetto”
gerrymandering non è associabile a malapportionment, potendosi
innestare, anzi, nell’ambito di collegi scrupolosamente well apportioned.
Ciò finisce per renderne, sul piano formale, difficilmente denunziabile e
censurabile la sussistenza, anche se non sono mancate pronunce in cui i
giudici (v. ad es., Corte Suprema americana, Davis v. Bandemer del 1986)
hanno mostrato di volersi lasciare aperta la verifica di tale tipo di abuso,
attraverso l’eventuale riscontro di un “eccesso di potere” e/o della volontà
di compiere una “frode elettorale”.
Quanto, poi, al versante sub ii), deve rimarcarsi come il gerrymandering
presuma la conoscenza delle intenzioni di voto dei votanti nelle diverse
zone (rivelandosi, invece, più incerto in presenza di elettorati “fluidi”),
facendo conto su una certa tendenza all’inerzia sul lato della domanda
elettorale, corresponsabile, si potrebbe dire, in questo senso, di alimentare
l’“abuso di posizione dominante” della parte politica al potere. Su questa
base l’obiettivo può, di volta in volta”, essere quello di:
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 23
– “valorizzare” l’elettorato di un determinato colore politico: cd.
affermative gerrymandering”; oppure di
– penalizzare l’elettorato di un determinato colore politico: cd.
“negative gerrymandering” (o “gerrymandering per diluizione”); o,
ancora,
– render stabile una certa situazione: “silent gerrymandering” (o
“sta-
tus quo gerrymandering”).
È evidente che questo tipo di operazione, in una qualunque delle sue
varianti, risulta più “efficace” in presenza di collegi uninominali, la resa
dei cui meccanismi elettorali è più immediata ed agevole da gestire.
Più in generale, pur non potendosi del tutto escludere la sua pratica
anche in altri sistemi, il gerrymandering sembra presentare, in queste sue
varie forme, più alte probabilità di successo con sistemi elettorali “lineari”
vuoi sul versante del “sistema di votazione” (voto singolo categorico o,
comunque, sistemi che valorizzano le prime preferenze nell’ambito di liste
chiuse), vuoi sul versante del sistema di assegnazione dei seggi (collegi a
24 Lara Trucco
bassa magnitudine). In senso diametralmente opposto, esso risulta (quanto
meno) ostacolato dall’aumento dei seggi in palio, nonché, più in generale,
di pari passo al complicarsi del sistema elettorale, diventando,
corrispondentemente, più difficoltoso calcolare in anticipo l’esito del voto.
15. Il conteggio delle “preferenze” elettorali individuali e la loro
trasformazione in “voti”
Esaurito, in linea di massima, l’esame del profilo ex ante della
procedura elettorale (della fase, cioè, lo si ripete, che precede l’espressione
del voto individuale), immaginando ora che gli elettori si siano recati alle
urne ed abbiano compiuto la propria scelta (cd. fase di votazione), prima
di addentraci nell’analisi dei vari sistemi di assegnazione dei seggi, è
opportuno dedicare una certa attenzione ai profili concernenti la
contabilizzazione delle preferenze individuali, in quanto si tratta, nella
sostanza, di quel passaggio della procedura elettorale (cd. “di conteggio”)
che interviene immediatamente dopo l’esaurimento della fase di votazione
in ambito circoscrizionale. Nella fase di conteggio, infatti, prendono forma
le cifre elettorali, ossia le preferenze collettive “rilevanti”, destinate
successivamente a divenire “scelta collettiva” grazie all’impiego della
formula elettorale, ossia dell’algoritmo impiegato per la trasformazione dei
voti contabilizzati in seggi.
Trattasi di una fase di estrema delicatezza e decisività sotto svariati
profili (sicurezza, correttezza, libertà dello scrutinio, ecc.), ma che qui
viene in considerazione sotto quello puramente tecnico del metodo di
conteggio, il rispetto delle cui regole è condizione di validità della
complessiva elezione, non meno del rispetto di quelle che assistono
l’espressione dei suffragi. Non ci si sorprende, pertanto, se, nei diversi
contesti ordinamentali, sono allestite adeguate procedure di garanzia,
sottoposte, a loro volta, alla vigilanza e al riscontro di organi “super
partes”. E nemmeno se questo stesso profilo ha assunto livelli di grande
delicatezza con specifico riguardo al nostro ordinamento, in ordine alla
scelta, talvolta compiuta, di autorizzare in vario modo il conteggio in via
automatizzata dei voti “a livello centrale” (cd. “cervellone elettronico”),
considerate le incognite che il più generale “voto elettronico”, allo stato,
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 25
specie nelle sue forme tecnologicamente più avanzate, ancora presenta, sul
versante della segretezza e della genuinità del suffragio.
Del resto, si ribadisce come una contabilità esatta in tale fase
prodromica sia il presupposto imprescindibile per la successiva corretta
applicazione della formula elettorale, a cominciare, come vedremo tra
breve, dalla questione degli eventuali quorum strutturali. Esattezza
contabile che, peraltro, rinvia ad aspetti ancora più generali, quali la
formazione e la tenuta dei registri elettorali, la certa identificazione dei
votanti, e, ancora più in radice, gli accertamenti demografici per la
formazione e la tenuta dei registri della popolazione: profili, tuttavia,
questi, che non sono qui oggetto di diretta considerazione, ma di cui è
indiscutibile l’importanza non solo giuridica e istituzionale, ma anche
politica e di (mal)costume (si pensi ai cd. “elettori fantasma”, ossia gli
elettori deceduti, ma non depennati dalle liste elettorali).
16. Il quorum (strutturale) dei votanti
Tra le questioni di maggior delicatezza e rilievo, attinenti (anche) al
conteggio, vi è quella concernente la qualificazione dei diversi
comportamenti tenuti dall’elettore, quali la mancata partecipazione al voto
(cd. astensionismo elettorale: involontario per impedimento, o per apatia
politica, o, ancora, per protesta …) o la partecipazione, che abbia dato,
però, luogo a differenti criticità (scheda in bianco, invalidità della scheda
o voto contestato) o che, invece, come fortunatamente perlopiù accade,
vada senza intoppi a buon fine.
Con apparente paradosso (se si pensa alla posta in gioco), non
costituiscono la maggioranza gli ordinamenti che (analogamente, per certi
versi, a quelli, per le elezioni politiche, italiano del XIX secolo e francese
attuale; nonché, ancora, italiano, per l’elezione dei consigli dei comuni
“più piccoli”, “ove sia stata ammessa e votata una sola lista”), ai fini della
validità dell’elezione, richiedono che alle procedure di voto abbia preso
parte un certo numero di “elettori” (cd. “quorum – strutturale – dei
votanti”), a garanzia della condivisione dell’iter che conduce al risultato
elettorale della comunità politica di riferimento ed, in fondo, della stessa
autorevolezza e credibilità dell’elezione. Più vasto è, infatti, l’assolvimento
del quorum – in contesti s’intende, dove sia garantita la libertà di voto – e
26 Lara Trucco
maggiore è la persuasione che alla scelta abbia contribuito la più ampia
“volontà generale”, mentre più è basso, più elevato è il rischio che la scelta,
presa da pochi, non rappresenti la volontà di tutti, fino a potersi proporre il
cd. “paradosso dell’uno determinante”, per cui, in linea teorica, anche un
solo votante potrebbe essere decisivo ai fini dell’elezione …
Al di là, comunque, dell’eventuale presenza di un quorum, il calcolo dei
votanti è prodromico ed imprescindibile non solo in termini di
legittimazione dell’elezione, ma anche per l’espletamento delle ulteriori
procedure elettorali in vista della contabilizzazione dei “voti validi” (v. ad
es., Corte EDU, caso Paschalidis, Koutmeridis e Zaharakis c. Grèce). A
tale riguardo, mentre, in genere, nel calcolo “dei votanti”, vengono
contabilizzate sia le “schede bianche”, sia quelle invalide (anche perché
l’accertamento del numero dei votanti è un’operazione preliminare allo
scrutinio), invece, nel computo dei “voti validi” le seconde vengono
(ovviamente) escluse. Va peraltro notato come tali operazioni, anche
quando non siano rilevanti ai fini di un quorum strutturale, presentino,
comunque, aspetti assai delicati, dato che una loro non perspicua gestione
potrebbe ingenerare (talvolta strumentali) confusioni circa i dati statistici
della partecipazione al voto. Al proposito, di un certo spessore si è
dimostrato, in Italia, il problema della contabilizzazione delle schede
bianche, data la laconicità della normativa sul punto (art. 67 e ss. del d.P.R.
n. 361 del 1957).
Ad ogni modo, una volta determinato il numero totale dei voti validi, il
passaggio successivo concerne la distribuzione di tali voti tra le liste o i
candidati in competizione ai fini dell’attribuzione dei seggi.
A tale riguardo, una significativa variabile – che dev’essere
prevista/consentita dalla normativa elettorale – è data dalla necessità di
prendere eventualmente in conto i “collegamenti” (“apparentamenti” in
presenza di sistemi proporzionali, e “cartelli” con sistemi maggioritari) sia
tra le liste, sia tra i candidati (unioni di candidati).
Il fenomeno dei collegamenti si produce, in linea di massima, allorché
a liste o a candidati espressione di raggruppamenti eterogenei sia
consentito di formare ufficialmente “coalizioni” al fine di assommare a
proprio vantaggio i voti singolarmente ottenuti. Si noti, dunque, che se,
sotto un profilo spiccatamente “politico”, la nozione di “coalizione”
presuppone, per avere un senso, una qualche intesa duratura su di un
congruo ventaglio di temi, da un punto di vista meramente “contabile”, è
comunque tale qualsiasi accordo (cd. “struttura delle alleanze”) stipulato
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 27
anche soltanto a fini elettorali (a meno che la normativa non preveda delle
condizioni più rigorose su tale specifico punto). In ogni caso, in vigenza di
collegamenti tra liste, sulla scheda elettorale compare sia il simbolo della
lista, sia quello della coalizione a cui essa aderisce (v., ad es., il sistema
elettorale italiano, introdotto dalla legge n. 270 del 2005 sia per le elezioni
della Camera, sia per quelle del Senato). Con ciò, si produce, dunque, non
solo una sorta di “discrasia” tra voto ex ante e voto ex post, ma anche una
“diluizione” della valenza del voto individuale, nel senso che, ai fini del
conteggio, non rileva più soltanto la lista votata, ma la lista in quanto parte
della coalizione prefigurata, che resta la prima destinataria dei seggi
conquistati.
Per diverso profilo, deve tenersi conto del fatto che ogni tipo di
“alleanza elettorale” ha un “costo” in termini di “identità politica”: questo
comporta che, per essere stipulata, l’unione elettorale deve far presagire
benefici superiori al prezzo che si è chiamati a pagare, quali, ad es., la
possibilità di conseguire i livelli quantitativi (in termini di suffragi)
richiesti per beneficiare del riparto dei seggi. In quest’ottica, un ruolo di
non trascurabile rilievo sulla composizione di alleanze elettorali è svolto
dalla “formula” in senso stretto e, più in generale, della presenza di
meccanismi idonei ad accrescere il grado di “selettività” (ovvero di
difficoltà dell’acquisizione del seggio, nel collegio) del sistema elettorale
complessivamente considerato, a partire dalla vigenza di “soglie di
sbarramento”, per arrivare alla previsione di “meccanismi premiali” (solo)
per chi sia “meglio arrivato” nella competizione elettorale.
17. Le soglie di sbarramento esplicite
La contabilizzazione dei voti secondo le regole finora esposte è
suscettibile di aprire immediatamente la strada all’attribuzione dei seggi
(non prima, però, di aver fatto applicazione della formula in senso stretto)
oppure necessitare dell’ulteriore passaggio della conversione “qualitativa”
dei suffragi in voti “rilevanti” (applicazione della formula in senso lato).
A quest’ultimo fine, viene particolarmente in rilievo il meccanismo
costituito dalle cd. soglie di sbarramento esplicite (Sperrklausel). Tali
soglie si concretizzano in percentuali specifiche, stabilite normativamente,
indicanti il numero minimo – in valore assoluto o, più spesso, percentuale
– di voti validi (v. qui di seguito per qualche esempio dell’una e dell’altra
28 Lara Trucco
ipotesi) che le parti in lizza sono chiamate a raggiungere per accedere alla
distribuzione dei seggi. Il che può bastare a gettare luce sulla decisività
della loro misura, la cui fissazione, non è certo un caso, è oggetto, di norma,
di attenta e accesa negoziazione tra le parti politiche in campo.
[…]
Più nel dettaglio, nei casi in cui la misura della soglia convenzionale
esplicita sia bassa, essa finisce per avere un impatto assai ridotto, talvolta
del tutto simbolico (soglia esplicita più bassa della soglia implicita),
limitandosi a segnalare l’esistenza di un qualche “filtro” “in entrata” (v.
Paesi Bassi: 0,67% e Israele: 1-2%: soglie espresse in termini percentuali).
Così, guardando al passato, abbastanza “marginale” è stata la “correzione”
introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 16 maggio 1956, n. 493
(riassorbita poi dall’art. 83 del d.P.R. n. 361 del 1957), che, per l’ulteriore
distribuzione, in sede di collegio unico nazionale, dei seggi residui,
richiedeva l’ottenimento, da parte di ciascuna lista, di almeno 300 mila voti
su scala nazionale (soglia espressa in valore assoluto), oltre che un
quoziente pieno a livello circoscrizionale (ex art. 36).
Diverso (e assai più frequente), è il caso in cui le soglie esplicite
agiscono invece “al rialzo”: in questa ipotesi, infatti, l’innalzamento
convenzionale della soglia di accesso “naturale” alla ripartizione delle
cariche finisce per produrre effetti manipolativi in direzione
“disproporzionale” di rilievo, causando l’inasprimento dell’attitudine
selettiva del sistema elettorale. Un elemento di non trascurabile rilievo
circa l’impatto delle soglie di sbarramento è dato, inoltre, dalla loro
applicazione a livello nazionale o locale, anche se occorre riconoscere che
il tipo di clausola di sbarramento più utilizzata è quella che ne prevede
l’applicazione al solo (ed unico) livello nazionale: così è per la
Sperrklausel tedesca al 5%, applicata, a partire dal 1953, all’intero
territorio federale; ma possono menzionarsi altresì l’Islanda: 5%; la
Spagna: 3%; l’Austria: 4%; Israele, dal 1992: 1,5%, in precedenza, l’1%;
Norvegia: 4%; Svezia: 4%; Polonia: 5%; Danimarca: 2%; Nuova Zelanda:
5%; Turchia: 10%; nonché la più parte dei sistemi per l’elezione dei
parlamentari europei previsti dalle legislazioni degli Stati membri,
compreso ora quello italiano (cfr., infra).
Oltre ad agire direttamente eliminando le parti in competizione meno
attrezzate (a tutto vantaggio, evidentemente, per le formazioni politiche più
forti, o comunque in grado di superare questo tipo di resistenza), le clausole
di sbarramento favoriscono la riduzione del numero di candidature
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 29
concorrenti anche per altre strade, forse più indirette, ma non per questo
meno efficaci. Tale technicality, infatti, è idonea a produrre effetti selettivi,
nel senso della semplificazione dell’offerta elettorale, sin dalla fase
preparatoria delle procedure elettorali e, per certi versi, anche prima, al
momento, cioè, di fare la scelta se presentarsi o meno sulla scena politica,
dato che, già in quella fase, le formazioni politiche sarebbero indotte ad
unirsi (procedendo alla fusione e, dunque alla riduzione numerica di liste
e candidature in competizione) nella consapevolezza, così facendo, di
avere maggiori chance di superare lo sbarramento (v. il caso del
“miracolo” elettorale tedesco ai tempi del Cancelliere Adenauer).
In una prospettiva più generale, è proprio la potenzialità selettiva di tale
technicality a renderla uno strumento apprezzato ed ampiamente diffuso
nei sistemi elettorali a livello planetario, al punto dall’esser oggi
difficilmente individuabili ordinamenti in cui vigano sistemi elettorali
(tendenzialmente) inclusivi che non ne prevedano l’impiego, al fine di
ostacolare l’ingresso nelle assemblee rappresentative delle
candidature/formazioni minori (con meno consenso elettorale), viste, in
special modo dove vi sia una forma di governo parlamentare, come un
fattore di instabilità per gli Esecutivi. In tali contesti, infatti, com’è noto,
la vitalità dell’Esecutivo deriva dalla sussistenza del rapporto di fiducia
con l’organo parlamentare: va da sé che più quest’ultimo è
composito/“caotico” (cd. “frammentazione parlamentare”) e meno risulta
“affidabile”; là dove la situazione ideale per lo stesso Esecutivo, per poter
portare avanti la propria azione, sarebbe quella di poter contare su di una
maggioranza “sicura” in parlamento. Deve, peraltro, notarsi come,
muovendo da un diverso ordine di idee, da parte di altri, l’eterogeneità delle
assemblee venga invece vista come una fonte di ricchezza, in quanto
all’origine di una molteplicità di punti di vista e di idee (cd. “pluralismo
parlamentare”) di cui “parlare”, nella valorizzazione del senso e della
funzione propria, per l’appunto, dei “parlamenti”. A condizione, però
(anche qui), che ciò non degeneri in “abuso” ovvero in “disordine” ed, al
limite, nella minaccia “cronica” (e, nei casi estremi, nell’attivazione) di
crisi da parte dell’assemblea, al punto da compromettere l’efficacia
dell’azione di governo, a motivo di interessi partigiani, quando non del
tutto personali. Più in generale, quanto testé considerato porta ad
interrogarsi sull’opportunità (e, prima ancora, sulla correttezza) di
“sovraccaricare” il sistema elettorale – chiamato, non si dimentichi,
innanzitutto a garantire un’adeguata rappresentanza politica – di eccessive
30 Lara Trucco
aspettative per quanto riguarda “la resa” dell’azione di governo, specie
nella perdurante assenza di un’adeguata razionalizzazione della forma di
governo stessa.
Nondimeno, le conclusioni a cui siamo approdati, circa l’attitudine
“selettiva” delle clausole di sbarramento possono trovare il loro contraltare
nelle particolari strategie di elusione delle soglie stesse, tramite, ad es., la
formazione di alleanze elettorali create pour l’espace d’un matin, con lo
specifico intento delle parti in lizza di oltrepassare indenni la soglia in
questione, per, poi, magari, riconquistare la propria autonomia
all’indomani dell’elezione. Analogamente, infatti, a quanto può avvenire
in presenza di premi di maggioranza anche in questo caso la
precostituzione di cartelli elettorali, aventi come unico scopo quello,
appunto, di superare lo sbarramento, già mettendo in conto il “ritorno”, non
appena conclusasi la parentesi elettorale, alla propria identità politica
originaria, può risultare un fattore idoneo ad inficiare la previsione di
soglie, e, più in generale, ogni possibile intento di favorire il crearsi di un
contesto parlamentare favorevole alla stabilità dell’azione politico-
governativa.
L’ipotesi da ultimo formulata riflette, del resto, una vicenda che ha
caratterizzato il nostro ordinamento dove, in seguito all’adozione del
sistema elettorale che, nel 1993, alla Camera fissò una soglia al 4% a livello
nazionale, già in occasione della tornata del 1996, pochi mesi prima del
voto si assistette alla nascita di formazioni politiche inedite per assemblare
partiti che, da soli, non sarebbero mai stati in grado di raggiungere la soglia
prevista (molti dei quali, per vero, non l’hanno conseguita lo stesso …), la
più parte delle quali, peraltro, sarebbero state destinate a volatilizzarsi
all’indomani delle elezioni (come, ad es., il Biancofiore, il Girasole …).
Per diverso profilo, nel caso di dinamica “al rialzo”, il rischio che le
soglie presentano è che possano avere un impatto talmente “selettivo”, da
chiudere la porta d’accesso alle sedi rappresentative ad un gran numero di
parti in lizza, a detrimento del pluralismo politico e della presenza stessa
di “opposizioni”, e, nei casi estremi, di tutte le forze politiche in campo
(cd. “paradosso dell’aula vuota”, là dove nessuna formazione politica
dovesse dimostrarsi in grado di attingervi: basti, a tale proposito, provare
ad immaginare cosa comporterebbe, ad es., la fissazione di una soglia
all’80% dei voti validi …).
La questione dell’eccessiva misura della clausola di sbarramento si è
posta in tutta la sua problematicità nell’ordinamento turco: ivi, infatti, la
Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 31
previsione normativa che vuole che la distribuzione dei seggi avvenga solo
tra le liste che abbiano superato a livello nazionale il 10% è stata
impugnata, dapprima, davanti alla Corte costituzionale turca e, quindi,
denunciata alla Corte EDU (Affaire Yumak et Sadak c. Turquie), pur
variamente riuscendo a passare indenne il vaglio di entrambi i giudici.
[…]
Ci si limita, infine, a rilevare come l’accesso all’attribuzione dei seggi
possa essere condizionata anche da altre diverse clausole: tante quante
possa arrivare ad immaginarne la fantasia. Anche qui, però, a condizione,
in ordinamenti che vogliano dirsi democratici, che, i vincoli che ne
derivano non finiscano per comprometterne in radice l’imparzialità del
sistema di elezione ed il suo carattere genuinamente competitivo,
inducendo, un po’ come accade nei labirinti, una prefigurazione del
risultato elettorale.
In quest’ottica, è opportuno dunque tenere sempre presente
l’inescappabile esigenza, affinché un sistema elettorale possa dirsi
“democratico”, che sia garantito un buon grado di competitività tra le forze
politiche in campo, non richiedendosi un’incertezza massima degli esiti
(com’era, ad es., per il metodo di sorteggio di aristotelica memoria), ma
nemmeno, all’estremo opposto, come appena rilevato, la sostanziale
precostituzione dei risultati (come, del resto, da ultimo evidenziato anche
dalla Corte costituzionale italiana, nella decisione n. 4 del 2010).
II
I SISTEMI DI ASSEGNAZIONE DEI
SEGGI
1. I sistemi di assegnazione dei seggi “selettivi”. Le “formule mag- gioritarie” 1) a voto categorico preferenziale 1a) a turno unico
La “semplicità” del rapporto rappresentativo in contesti istituzionali non
particolarmente articolati, o, comunque, non destinati, per così dire, a
riflettere tutte le complessità sociali esistenti, come quelli più antichi – non
a caso, di norma, a suffragio ristretto – può dar ragione della linearità, oltre
che del voto, anche delle formule elettorali di assegnazione dei seggi ivi
utilizzate. Con esse, infatti, l’elettore era messo in grado di approvare o
disapprovare le candidature secondo meccanismi di selezione di tipo
“binario”, senza valutazioni ulteriori circa il livello di gradimento nei
confronti dei candidati prescelti.
In questo quadro, lo scenario storico si caratterizza per formule
ispirantisi all’idea maggioritaria di selezionare un Esecutivo con la propria
maggioranza, vale a dire maggioranze (di governo) all’interno
dell’assemblee elette e, di riflesso, “il capo” stesso dell’Esecutivo. Ebbene,
già in origine questo tipo di formule furono in genere associate a sistemi di
votazione “categorici preferenziali”.
[…] In questo paragrafo ci occuperemo dunque (solo) di alcuni dei
principali sistemi ispirantisi al principio maggioritario, e cioè a dire:
1. formule maggioritarie a voto categorico preferenziale a 1a) turno
unico:
1a1) “first past the post” (plurality);
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 33
1a2) plurality “at large”;
1a3) voto “in blocco”; 1b)
a turno multiplo:
1b1) doppio turno;
[…]
1a1) Il “first past the post” a turno unico – o formula plurality – può
annoverarsi, anche (e, forse, soprattutto) in ragione della sua semplicità,
tra le formule più antiche e più diffuse al mondo. Essa, infatti,
omettendo qui di considerare le epoche più antiche (v., esemplarmente,
quella romana), secondo alcune ricostruzioni avrebbe cominciato a
trovare impiego nell’ordinamento inglese già a far data dal XIII secolo,
senza essere, poi, più messa seriamente in discussione (nemmeno
all’indomani della Gloriosa Rivoluzione del 1689), almeno fino ad oggi
(tanto da essere ancora nel cuore degli inglesi, come dimostrato
dall’ultimo fallito tentativo di espungerla, avutosi con il referendum del
5 maggio 2011). Peraltro, nella comprensione del più ampio sistema
elettorale a cui essa contribuisce a dare vita, va subito notato che, mentre
“agli esordi” questo tipo di formula era normalmente innestata su
collegi plurinominali, è stato dapprima sul suolo americano e, quindi,
su quello inglese (col già evocato Redistribution Seats Act del 1885),
che la sua applicazione nell’ambito di collegi uninominali è divenuta la
regola. A partire da quel momento, la formula first past the post ha,
quindi, trovato la sua “applicazione classica” in “collegi uninominali”
(cd. single-member district) per l’elezione della Camera dei Comuni,
aprendo la porta al definitivo affermarsi del sistema plurality tutt’ora
vigente, tanto caratteristico di tale ordinamento da essere anche
conosciuto come “voto di tipo britannico”.
Venendo, finalmente, a ricordare il funzionamento della generale
formula first past the post, può notarsi come le caratteristiche essenziali
consistano nel fatto che essa:
– a livello di sistema di votazione, si basa sul voto singolo categorico
preferenziale;
– per quanto concerne il formato circoscrizionale, opera su vari (di
qui, pare, il nome “plurality”) collegi uninominali; e,
– in ordine alla formula per l’assegnazione del seggio, richiede
soltanto l’ottenimento da parte del candidato di un numero di suffragi
34 Lara Trucco
superiore a quelli ottenuti dagli altri competitori (ovvero la maggioranza
relativa dei voti validi o, se si vuole, “la maggiore minoranza”).
–
In quest’ottica, si comprende, pertanto, la denominazione “first past the
post”, dandosi, appunto, rilievo al fatto che chi conquista anche un solo
voto in più del secondo arrivato “vince tutto”: “the winner takes all”,
mentre gli altri candidati non prendono nulla (nessun seggio). La
circostanza, infine, per cui l’elezione necessariamente si conclude in un
unico turno di votazione dà ragione dell’ulteriore considerazione di esso
come di una formula “a maggioranza relativa a un turno”.
Il plurality “at large” e il “voto in blocco” sono due ulteriori varianti
del first past the post. Tale formula, infatti, può trovare – e, in origine,
come s’è anticipato, ha trovato – impiego in collegi plurinominali, a
seconda dei casi, nelle versioni:
1a2) a voto “singolo” categorico preferenziale: ed allora si ha il plurality
“at large” (altrimenti denominato “voto singolo non trasferibile”). In
questo caso, all’elettore è dato modo di attribuire una sola preferenza a
fronte di una pluralità di seggi in palio: sicché, in un collegio con n + 1
seggi, conseguono la carica gli n + 1 candidati che, nella graduatoria delle
preferenze, hanno ottenuto i migliori piazzamenti. Con minor rischio, si
noti, rispetto al plurality, di una “sterilizzazione” del voto individuale in
virtù di un numero maggiore di seggi in palio rispetto al collegio
uninominale (v., ad es., il sistema giapponese dal 1889 al 1994 per
l’elezione della Camera dei Rappresentanti);
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 35
1a3) a voto “plurimo” categorico preferenziale (ovvero il voto di
approvazione): ed, allora, si ha il “voto in blocco”. In questo caso, a
differenza delle precedenti situazioni, l’elettore ha in dotazione più
preferenze (e non una sola) da “distribuire” tra i candidati; mentre,
analogamente alle precedenti ipotesi, conseguono il seggio i candidati
meglio piazzati nell’ordine delle preferenze ottenute. Anche qui, poi, le
probabilità di “sterilizzazione” del voto individuale, pur partendo, per
ovvie ragioni, da una situazione migliore rispetto a quella che si ha in
presenza di un solo voto preferenziale, risultano strettamente dipendenti
dal numero di seggi in palio nel collegio, potendo, tale formula, innestarsi
sia su collegi plurinominali, sia (con più alto rischio di inefficacia del
suffragio) su collegi uninominali.
2. Segue. 1b) A turno multiplo
Il principale elemento di criticità della formula first past the post, nelle
sue diverse configurazioni, è, però, a ben vedere, costituito dall’eventualità
che un esiguo numero di voti (ed, al limite, anche uno solo) possa risultare
decisivo per l’esito dell’elezione. Come si è già, però, avuto modo di
osservare, una soluzione per stemperare le implicazioni negative di una
simile eventualità è, talvolta, costituita dalla richiesta di un quorum
strutturale di qualche tipo (cfr., supra). Occorre, tuttavia, rimarcare ancora
una volta come preoccupazioni del genere non siano generalmente
registrabili per nessun tipo di formula elettorale, laddove non è, invece,
infrequente fare a meno di quorum funzionali (che richiedono, cioè,
l’espressione ed il conseguimento, da parte dei candidati, di un certo
ammontare di voti validi per la validità stessa dell’elezione).
In quest’ordine di idee, non v’è, allora, dubbio che sia più coerente, con
la stessa caratterizzazione in senso maggioritario della formula, la
soluzione del “quorum dei voti validi”, in genere pari ad almeno la metà
più uno dei suffragi (ma, per un caso, sia pur particolare, di quorum
“qualificato”, può per certi versi menzionarsi la percentuale del 65% di cui
alla ridetta legge elettorale del Senato italiano n. 29 del 1948), individuata
dai sistemi majority (altrimenti noti come “sistemi di tipo inglese con il
quorum”). […]
36 Lara Trucco
Portando, dunque, l’attenzione sul più frequentato di questi ultimi
meccanismi, ossia sul “turno multiplo”, ci si avvede di come esso, per
intuibili ragioni, richieda una “distribuzione” delle schede elettorali
scaglionata “nel tempo” (ad un determinato intervallo, prestabilito), nel
corso della medesima procedura elettorale (avendosi pertanto a che fare
con una scelta, per così dire, “a formazione progressiva”). Osserviamo
ulteriormente come i parametri (che anche noi, qui di seguito, adotteremo)
per operare una classificazione delle sue diverse configurazioni siano
principalmente due, vale a dire:
I) il numero di tornate elettorali effettuabili;
e
II) II) le “condizioni” di accesso ai turni
successivi.
1b1) Il doppio turno può dirsi il più diretto precipitato del parametro del
numero di tornate elettorali effettuabili sub I), essendo, in sua vigenza,
previsto che, nel caso in cui nessun candidato ottenga in prima battuta il
prescritto quorum dei voti (di solito il 50% + 1), debba, appunto, procedersi
allo svolgimento di un secondo – e conclusivo – turno di votazione. Tale
variante di “turno multiplo”, come si vedrà, è nota al nostro ordinamento,
essendo, tra l’altro, stata adottata “originariamente”, al momento
dell’unificazione nazionale per la Camera dei deputati, anche se
attualmente risulta caratteristica soprattutto dell’ordinamento francese, la
cui moderna vicenda costituzionale non solo si è molto identificata, ma
continua ad identificarsi con (l’applicazione di) tale formula (cfr. l’art.
L123 del codice elettorale).
Uno degli elementi normalmente caratterizzanti le formule a “doppio
turno” è dato dalla soglia di accesso al turno successivo. Parametro (più
sopra indicato sub II)) che, come intuibile, è (almeno in linea teorica)
estremamente mutevole, data la varietà di soglie di accesso al turno
successivo che è possibile applicare. Per diverso profilo, esso è assai
rilevante, in quanto si pone in stretta relazione con la capacità filtrante
(selettiva) dei primi turni e, più in generale, del sistema elettorale
complessivamente considerato. Si va, così, da sistemi ad elevato grado di
selettività (tale, però, in ogni caso, da produrre un’offerta elettorale di una
qualche consistenza, pena l’azzeramento della valenza del voto
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 37
individuale), a sistemi in cui la selezione è inesistente. Entrando più nel
dettaglio, si può stabilire di limitare l’accesso (turno chiuso) solo ed
esclusivamente ai candidati che abbiano ottenuto un certo numero di voti
al primo turno (cd. misura di accesso “relativa”), in genere ristretta o ai
due più preferiti (avendosi con ciò il “ballottaggio” propriamente detto),
come, ad es., è previsto in Italia per l’elezione dei Sindaci dei comuni con
più di 15 mila abitanti (ex art. 72, comma 5, del d.lgs. n. 267 del 2000) e
dei Presidenti delle province (ex art. 74, commi 6 e 7, d.lgs. n. 267 del
2000); o ai candidati che abbiano conseguito una certa percentuale di
suffragi (cd. misura di accesso “assoluta”), come stabilisce l’attuale
legislazione francese per l’Assemblea nazionale, dove passano al secondo
turno i candidati che hanno ottenuto almeno il 12,5% dei suffragi.
Nel caso, invece, di formula a doppio turno aperto, si acconsente alla
riproposizione di tutte le candidature presentate al primo turno, senza
esclusioni di sorta (lasciandosi che siano eventualmente i candidati stessi
a decidere di ritirarsi di loro spontanea volontà) e, persino, la presentazione
al secondo turno di candidature “nuove” in aggiunta o in sostituzione di
precedenti (cd. “sistema romano”).
[…]
7. Caratteristiche generali e comuni delle “famiglie” proiettive
Venendo ora ad esaminare i sistemi di assegnazione dei seggi che si
ispirano al principio “proporzionalista”, deve rilevarsi come l’“ideale
proporzionale” valorizzato, dapprima, nell’ordinamento statunitense, per
38 Lara Trucco
la definizione “territoriale” dei collegi, si sia in seguito progressivamente
affermato pure sul continente europeo, in vista (non solo e non tanto del
disegno dei collegi, quanto, soprattutto) della definizione in “chiave
sociale” degli organi parlamentari. Ivi, infatti, tra tutte le proposte messe
sul tappeto, nel corso del XIX secolo, al fine di migliorare il rendimento
degli istituti di democrazia, sarebbe stata proprio “la proporzionale” quella
destinata ad avere la maggiore fortuna, di pari passo con l’ampliarsi della
domanda sociale di rappresentanza politica dovuta vuoi all’estensione del
suffragio, vuoi (correlativamente) all’emersione dei partiti politici di
massa.
In tale contesto, l’idea della rappresentanza proporzionale è stata
dunque, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, opportunamente
rivisitata e riadattata in una logica di equità, appunto, per così dire,
“sociale”, in vista, per la precisione, di consentire una più ampia proiezione
delle liste (dei nascenti partiti politici). Tale processo sarebbe quindi
pervenuto alle sue ultime conseguenze nel corso del ’900, quando
l’opzione proporzionalistica non si sarebbe fondata più esclusivamente
sull’esigenza di massimizzare la rappresentatività dei parlamenti (la cd.
“protezione delle minoranze”) e sull’etica egualitario-democratica,
risultando funzionale anche e soprattutto al bisogno di riconoscere e
rafforzare la “novità” del secolo: i partiti politici di massa.
Dal punto di vista tecnico, le formule che si ispirano al principio
proporzionale si propongono, dunque, di ottenere nell’organo
rappresentativo la riproduzione “in scala ridotta” dei rapporti di forza
emersi (all’evidenza, in termini di voto) tra le parti politiche in occasione
della tornata elettorale, puntando ad assegnare, a tal fine, un numero di
seggi (rappresentanti) parlamentari in rapporto ai voti ottenuti da ciascuna
delle predette.
Pertanto, a differenza della logica che caratterizza i sistemi improntati
al principio maggioritario, quelli d’indole proporzionale non mirano in
modo prioritario all’enucleazione di maggioranze all’interno dell’organo
rappresentativo, né (anche) in vista di questo, valorizzano il (solo) voto
dato dagli elettori “in maggioranza” (i già esaminati “sistemi selettivi”, o
“escludenti”), ponendosi soprattutto l’obiettivo della “rappresentatività”
delle varie componenti sociali, col tener conto, sin dove possibile, della
volontà elettorale da tutte queste espressa (cd. “sistemi proiettivi” o
“inclusivi”).
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 39
In quest’ottica, in applicazione delle formule proporzionali si finisce per
ottenere qualcosa di vagamente assimilabile a ciò che si ha quando si riduce
il contenuto di una pagina facendone la fotocopia, per cui il risultato finale
dipende oltre che dalla grandezza del foglio (immaginabile come la
dimensione dell’arena parlamentare), altresì, da come si regola la
fotocopiatrice (cd. “indice di riduzione”): in modo tale, cioè, che si possano
cogliere pure i dettagli del foglio fotocopiato e non, invece, soltanto gli
elementi più vistosi.
Il paragone che s’è proposto, per quanto forzato, può però, forse, aiutare
a meglio comprendere la ragione per cui tali sistemi affidano la propria
attuazione agli strumenti messi in campo dagli studi matematici sulle
proporzioni (“teorie delle proporzioni”), essendo quelli che, tra gli
“strumenti” euclidei, risultano i più adatti ad operare (un po’ come le
fotocopiatrici appunto …) una “trasposizione” “proporzionalizzata” delle
entità sociali (i votanti) in quantità numeriche (i seggi).
Peraltro, a questo stesso riguardo, è bene immediatamente chiarire che
per ottenere questo tipo di risultati, i “metodi proporzionali” necessitano
“per definizione”, vale a dire, per loro stessa ragion d’essere, di avere a che
fare non solo con offerte politiche di una certa consistenza e “varietà” –
come del resto dovrebbe essere in ogni democrazia degna di questo nome
– ma anche di innestarsi (a differenza dei sistemi d’indole maggioritaria)
su collegi plurinominali, mancando, altrimenti, per ovvie ragioni, da un
lato, la materia prima e, dall’altro lato, l’ambiente per procedere alla ridetta
“proporzionalizzazione”). Su questa base, l’illustrazione di tali formule è,
in certo modo, agevolata dalla loro possibile categorizzazione in due
distinte “famiglie”, che, allo scopo di ottenere un risultato al possibile
“proporzionato”, sono però connotate da due diverse impostazioni, vale a
dire:
i) una, incentrata sul metodo del quoziente, cronologicamente più datata e
propugnata dalla Scuola svizzera, di carattere empirico (denominabile
“proporzionale pratica”), che contabilizza il diverso livello di
apprezzamento ottenuto dalle parti in campo, procedendo per progressive
assegnazioni di seggi, man mano che si produce il raggiungimento di un
certo risultato (calcolato matematicamente): la cd. soglia di assegnazione
del seggio (o, tecnicamente, il “quoziente elettorale”), che, quindi,
rappresenta, per così dire, il “costo” di ciascun “seggio”, in termini di voti
necessari alla sua acquisizione; e ii) l’altra, portata avanti dalla Scuola
belga, collegata al metodo dei divisori successivi, relativamente più
40 Lara Trucco
recente, di carattere astratto (denominabile “proporzionale teorica”), che si
basa sull’applicazione di strumenti di tipo ancor più schiettamente
matematico: vale a dire, specificamente, la particolare proprietà (che
appartiene alla teoria delle proporzioni) per cui se si dividono più numeri
per il medesimo divisore, i quozienti che si ottengono stanno tra loro nella
medesima proporzione dei numeri divisi. Di qui, per l’appunto, l’idea di
applicare “divisori comuni” alle “cifre di lista”, fino ad ottenere un numero
di quozienti corrispondenti (almeno) al numero di seggi da ripartire.
Contrariamente, però, a questa successione storica, la sistematica della
trattazione consiglia di considerare in primo luogo le varianti della
“famiglia” sub ii), sia perché ciò consentirà di evidenziare, come già in
sede di studio dei sistemi maggioritari, la graduazione da sistemi elettorali
poco inclini a valorizzare il voto individuale a sistemi che (più caratteristici
della famiglia sub i)) rinvengono, all’opposto, in siffatta valorizzazione la
loro ratio più autentica; sia perché si dimostrerà più agevole commentare
le soluzioni proposte nel tempo per ovviare ad uno dei principali limiti di
tipo logico della proporzionale, ossia quello delle parti frazionarie
rimanenti in seguito all’applicazione della formula e variamente incidenti
sulla perfetta proporzionalità del risultato (cd. problema “delle rimanenze”
o “dei resti”).
Ci proponiamo, dunque, di percorrere il seguente itinerario espositivo:
1. formule proporzionali a voto categorico
1a) basate sul metodo dei “divisori successivi”:
1a2) formula D’Hondt (e varianti);
1b) basate sul metodo del quoziente:
1b1) formula dei “più alti resti”;
1b2) formula del quoziente corretto Hagenbach-Bischoff (e va-
rianti);
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 41
8. Le “formule proporzionali” a voto singolo categorico: 1a) basa-
te sul metodo dei “divisori successivi”
1a2) la formula D’Hondt prevede l’applicazione alle “cifre elettorali di
lista” di “divisori comuni” fino ad ottenere un numero di quozienti
corrispondenti (almeno) al numero di seggi da ripartire tra le parti (liste) in
competizione. In altri termini, in base a tale formula, i risultati ottenuti
dalle varie liste (appunto, le cd. cifre elettorali di lista) sono divisi sulla
base di “divisori comuni”, i quali, pertanto, funzionano come vere e proprie
“scale di riduzione” per la traduzione dei voti in cariche parlamentari: in
seguito alle successive divisioni, infatti, si ottengono per le varie liste un
certo numero di quozienti in base ai quali si opera, in ordine decrescente,
l’assegnazione di tutti i seggi in palio. Più precisamente, nella classica
versione del “metodo D’Hondt”, recepita per la prima volta dalla legge
elettorale belga del 1899, si prevede che i divisori comuni siano intervallati
l’uno dall’altro di un’unità, per cui, appunto, si è chiamati a dividere la
cifra elettorale di ciascuna delle liste successivamente per 1, 2, 3, 4, ecc. e,
quindi, ad allineare i quozienti così ottenuti in ordine decrescente fino alla
concorrenza di un numero totale di quozienti uguale a quello dei
rappresentanti che si devono eleggere.
La fondamentale variabile capace di incidere sull’“indice di riduzione”,
è data dallo “spazio” tra un divisore e l’altro i) in avvio e, quindi, ii) durante
le divisioni successive. Infatti, i) in avvio, l’adozione dell’intervallo “1”
consente alle forze politiche minori di massimizzare il risultato, dal
momento che esso viene a coincidere con la loro migliore performance
(cifra elettorale : 1 = cifra elettorale); le stesse forze politiche minori
risulterebbero, poi, ancora avvantaggiate dall’ampliamento ii)
dell’intervallo tra un divisore e l’altro nel segmento successivo, in quanto
la divisione così operata “brucia”, a discapito delle liste più forti, risultati
intermedi sui quali le stesse potrebbero altrimenti contare. Situazioni
simmetriche, favorirebbero invece queste ultime.
Attraverso la più adeguata modulazione dell’indice è possibile, dunque,
produrre risultati variamente manipolativi, assegnando alle liste più deboli
o, a seconda dei casi, a quelle più forti, una maggiorazione di seggi distanti
da quelli che vorrebbe il principio di proporzionalità strettamente inteso.
In particolare, l’intervallo utilizzato dalla formula D’Hondt, pari, come s’è
detto a “+ 1”, lungi dallo svolgere un ruolo (come forse si potrebbe essere
42 Lara Trucco
portati a pensare) neutrale, rivela, in realtà, a dispetto del suo “avvio”
favorevole alle forze minori, proprietà matematiche propizie, almeno in via
tendenziale, ai partiti più forti.
Conclusivamente, proprio in base al diverso intervallo adottato in avvio
e tra un divisore e l’altro possono così graduarsi, in ordine decrescente di
“favore” per le formazioni più forti (in termini di consenso elettorale), le
principali varianti del metodo dei divisori successivi:
– la “Formula belga”: 1, 1.5, 2, 2.5, 3, 3.5, 4, 4.5, ...;
– la “Formula Nohlen”: 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, ...;
– la “Formula Huntington”: 1.41, 2.45, 3.46, 4.47, ... ;
– la “Formula D’Hondt”: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, ...; – la “Formula
danese”: 1.4, 3, 5, 7, 10, 13, 16, 19, 22, ...; – la “Formula Sainte-
Laguë”: 1, 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, ....
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 43
9. Segue. 1b) Le formule proiettive basate sul metodo del quoziente
Venendo ora ad esaminare il metodo del quoziente, v’è subito da
osservare come esso possa dirsi tra metodi più “intuitivi” e, fors’anche per
questo, storicamente, più antichi, per ripartire i seggi tra le parti in
competizione in modo proporzionato. Tale metodo, infatti, nella sua forma
matematica più “elementare”, consiste in una semplice proporzione, dove,
al primo membro, v’è il rapporto tra:
– il numero totale di voti validamente espressi (“T”) e il numero
complessivo di seggi da attribuire (“s”); e, al secondo, il rapporto tra
– il numero di voti ottenuti da ciascuna lista (“L”) e il numero totale
di seggi (da calcolare) che spettano ad essa (“?”).
In base alla regola matematica del “quarto proporzionale”, infatti, il
numero totale di seggi da attribuire alle varie liste (“?”) è dato dal numero
di voti ottenuti da ciascuna di esse (“L”) moltiplicato per il numero di seggi
totale da attribuire (“s”), diviso, quindi, il risultato così ottenuto, per il
numero totale di voti validi espressi (“T ”).
Di qui la denominazione di questo metodo, come “formula del tre
semplice”, o, anche, più comunemente, come “formula Hare”, da chi lo
introdusse, tra i primi, in ambito europeo. Ma, forse la denominazione
meglio capace di identificare tale formula è proprio quella di “metodo del
quoziente”, dato che il risultato del rapporto tra totale dei voti dati (“T ”) e
numero complessivo dei seggi da attribuire (“s”) così ottenuto (cd.
“quoziente naturale”), indica quanti voti validi sono necessari per
l’acquisizione di un seggio o, il che è lo stesso, il costo di un seggio
calcolato in voti: per cui se si divide il numero di voti validi presi da ogni
44 Lara Trucco
lista (cd. cifra elettorale di lista) per tale quoziente si ottiene l’ammontare
di seggi spettanti a ciascuna.
Il fatto è che può accadere che l’applicazione di tale formula sulle
singole cifre elettorali di lista si riveli non in grado di esaurire, guardandosi
alle sole parti intere dei quozienti ottenuti, il numero di seggi da attribuire.
Si manifesta, cioè, in questi casi, il fenomeno dei “seggi restanti”, col
conseguente problema della loro attribuzione.
Sono varie le soluzioni escogitate in vista di superare questo tipo di
impasse: ci limitiamo qui di seguito ad indicarne alcune. Così, tra le strade
maggiormente seguite, vi è la previsione di “collegi di ulteriore livello”
(cd. pluralità di livelli circoscrizionali in senso “verticale”, per distinguerla
dalla “pluricollegialità”, intesa come pluralità di circoscrizioni in senso
“orizzontale”), per cui, quanto “rimasto” (in termini di seggi) da assegnare
viene fatto rifluire in collegi “più alti” e distribuito sulla base di regole di
assegnazione ad hoc. Trattasi, del resto, della soluzione adottata dal nostro
sistema elettorale sino al 1992 per l’elezione della Camera dei Deputati, in
vigenza del quale i voti rimasti “inutilizzati”, dopo aver applicato in prima
battuta la formula proporzionale, erano sommati e combinati per ogni lista
e, quindi, destinati al collegio unico nazionale, nel quale, secondo un nuovo
calcolo su base proporzionale, venivano coperti i seggi rimasti
eventualmente vacanti. Ancora, altre soluzioni escogitate, per così dire, “a
chiusura” del sistema – in modo, si noti, per dirla con Arrow, “dittatoriale”
–, consistono:
– nell’attribuire i seggi rimasti alle liste che hanno ottenuto le
maggio-ri cifre elettorali, o, alternativamente (a seconda del tipo di
“politica elettorale”), le minori; e
– nel ricorrere come extrema ratio al “sorteggio” (metodo, questo,
strenuamente osteggiato dai più convinti fautori dell’approccio “razionale”
alla materia elettorale).
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 45
1b1) La formula dei “più alti resti” (altrimenti denominata “metodo dei
più alti resti” o “dei resti più forti”, o “delle più alte percentuali
frazionarie”; o, ancora, “proporzionale pura”), tra tutte le strade, è stata
probabilmente quella più percorsa. Essa fu tracciata, tra le prime volte, nel
1791, da Hamilton (cd. “metodo di Hamilton”) quando, per la ripartizione
dei collegi in territorio statunitense, egli propose, una volta assegnata a
ciascuno Stato la parte intera della sua quota di seggi, di attribuire agli Stati
che presentavano i resti (appunto) più alti i seggi eventualmente rimasti
non assegnati. Da notare che una proposta simile sarebbe stata fatta, nel
1864, anche da uno studente della facoltà giuridica di Bruxelles, al fine,
però, questa volta, di assegnare i seggi ai candidati, con la singolare
variante che i soggetti così eletti avrebbero dovuto godere di un semplice
potere consultivo in assemblea.
46 Lara Trucco
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 47
1b2) La formula del quoziente corretto, elaborata, nel 1889, da Eduard
Hagenbach-Bischoff (e, per questo, meglio nota col suo nome) ed
introdotta in territorio elvetico nel 1919, si basa sull’idea di intervenire
direttamente a “modulare” l’indice di riduzione/proporzionalizzazione. A
tal fine, essa prevede che il quoziente elettorale venga determinato
(sempre) dividendo il totale dei voti validi (ottenuti dalle varie liste in
competizione) per il numero di seggi da ripartire, aumentato, però (questo
secondo termine, ovverosia, il divisore della frazione), di una unità (ecco
la “modulazione” …).
Nell’escogitare tale formula lo studioso svizzero ebbe di mira
l’obiettivo di porre rimedio a taluni bug di ordine logico affliggenti il
metodo dei più alti resti, nel timore che essi potessero compromettere
quella “giustizia rappresentativa” che costituiva il punto di forza
dell’ideale proporzionalista. Così, in particolare, era paventata la
possibilità che la soluzione “dei più alti resti” fosse applicata a tutte le liste,
comprese quelle che, non avendo raggiunto il quoziente elettorale, non
avrebbero “meritato” di partecipare all’assegnazione dei seggi.
Soprattutto, una tale soluzione si basava su di un’evenienza assai casuale,
quale il presentarsi di resti, finendo con ciò stesso per produrre dei risultati
aleatori.
Sul piano tecnico, egli prese le mosse dalla constatazione di come,
all’origine della mancata assegnazione di tutti i seggi, vi fosse la presenza
di un “costo”, in termini di voti necessari ad acquisire un seggio (il
48 Lara Trucco
“quoziente elettorale”), troppo elevato per le forze politiche in campo.
Pertanto, per consentire a un numero maggiore di liste di partecipare
all’assegnazione delle cariche in palio, il quoziente elettorale (ovvero, tale
“costo”) sarebbe dovuto essere diminuito. Ciò che, matematicamente,
sarebbe stato possibile grazie, per l’appunto, all’aumento di un’unità del
divisore della frazione.
Volendo tornare alla metafora della fotocopiatrice, lo studioso non fece
altro che accrescere l’indice di riduzione in modo da “catturare” un
maggior numero di dettagli. Ed infatti, un tale innalzamento del valore del
denominatore della frazione produce un risultato (quoziente) più basso,
diminuendosi, in questo modo, “il costo” (in termini di voti) di
acquisizione di ciascun seggio. Ma la correzione del quoziente “n + 1”,
elaborata da Hagenbach-Bischoff, in talune situazioni può risultare ancora
insufficiente ad operare l’assegnazione di tutti i seggi al primo riparto: in
questi casi, può, dunque, rivelarsi opportuno/necessario ricorrere a
correzioni più incisive, là dove, per le ragioni che si son dette, più la
correzione è “al rialzo”, più si tende a favorire le forze politiche più deboli.
È quanto fanno, ad es.:
– il “quoziente Imperiali”: col prevedere l’ulteriore elevazione della
correzione a “n + 2”; e
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 49
– il “quoziente Droop”: calcolato, come l’Hagenbach-Bischoff, col
dividersi il numero dei voti validi per il numero di seggi in palio aumentato
di un’unità, ma, qui, con l’ulteriore incremento del quoziente così ottenuto,
di un’ulteriore unità: [Voti/(Seggi + 1)] + 1).
In alcuni casi, poi, l’aumento (quando in applicazione del quoziente, il
numero dei seggi da attribuire alle liste risulti inferiore a quello dei seggi
assegnati al collegio) o, a seconda dei casi, la diminuzione (quando in
applicazione del quoziente, il numero dei seggi da attribuire alle liste risulti
superiore a quello dei seggi assegnati al collegio) della correzione del
quoziente è stabilito dalla legge in via automatica (cd. “quoziente
variabile”): così, ad es., il sistema di elezione della nostra Camera dei
Deputati sino al 1992. Si noti, concludendo sul punto, come taluni
ordinamenti abbiano optato per mantenere operative tutte le diverse
soluzioni, applicando in prima battuta correzioni al quoziente e, se
necessario, in via residuale, il metodo dei più alti resti (v., ad es.,
Slovacchia e Repubblica ceca).
[…]
13. I sistemi elettorali e i modelli di democrazia. Democrazie mag-
gioritarie vs. democrazie proporzionali
Fermi i ridetti principi ispiratori dei due fondamentali modelli
(maggioritario e proporzionale), può dirsi, dunque, in linea del tutto
orientativa, che, sul piano della politica elettorale, si collocano:
– da un lato, i sistemi maggioritari: ispirati ad una logica più selettiva
nella individuazione degli organi di rappresentanza e di governo e, per ciò
stesso, più escludente, essendo più difficile, in questi casi, per le
candidature in lizza, conquistare un seggio (la cd. “soglia di rappresentanza
implicita d’inclusione” è elevata) al contrario, facile, a scapito,
particolarmente, delle forze più deboli, restare escluse dall’assemblea (la
cd. “soglia di rappresentanza implicita d’esclusione” è bassa), al punto che
tali forze possono essere indotte a trattenersi dallo “scendere in campo”
nella competizione elettorale (si noti, in direzione da subito favorevole al
cd. dualismo partitico o bipartitismo che, è opportuno precisare, è quella
situazione politica dominata da due sole forze partitiche principali, diversa
dal “bipolarismo”, che può caratterizzarsi in maniera più complessa per la
50 Lara Trucco
presenza, invece, di numerose formazioni politiche in competizione tra
loro in due coalizioni contrapposte: destra-sinistra o, a seconda dei casi,
centrodestra e centro-sinistra); e
– dall’altro lato, i sistemi proporzionali: miranti ad assecondare una
logica più votata al compromesso nella selezione degli organi di
rappresentanza e di governo, più proiettiva e, per ciò stesso, più inclusiva,
essendo più facile, in questi casi, per le candidature in lizza, conquistare
un seggio (la cd. “soglia di rappresentanza implicita d’inclusione” è
relativamente bassa) e, quindi, facile entrare a far parte dell’assemblea (la
cd. “soglia di rappresentanza implicita d’esclusione” è elevata), al punto
da assecondare la “discesa in campo”, nella competizione elettorale, di
candidature incerte (in direzione da subito favorevole al cd.
multipartitismo).
Quel che preme ora evidenziare, però, è come l’opzione maggioritaria
piuttosto che quella proporzionalista, lungi dal poter costituire
semplicemente il risultato di una scelta di tipo “ingegneristico”, necessiti,
specie nel lungo periodo, di radicarsi sul piano sociale, costituendo l’esito
di un approccio di tipo, per così dire “ambientale”, attento alle
differenziazioni delle fasi di sviluppo ordinamentale e, più in generale, alla
domanda sociale che richiede di vedersi (adeguatamente) rappresentata. Ed
infatti, la scelta, di natura evidentemente costituente, di delineare la
fisionomia ordinamentale in direzione più marcatamente selettiva piuttosto
che consensuale – a cui consegue la presa di forma di un certo tipo di
democrazia elettorale – è soggetta, soprattutto, a fattori di carattere politico
e socioculturale: segnatamente, al grado di accettazione, sulla base di
regole condivise di fair play istituzionale, della potenziale esclusione (ad
tempus) dal circuito rappresentativo. Per ciò, del resto, questo tipo di
esclusione può notoriamente constatarsi (rectius: accettarsi pacificamente)
solo in “società omogenee”, in cui è maggiormente rilevabile l’attitudine a
concepire le istituzioni rappresentative come senz’altro votate al
conseguimento del “bene comune”.
Del pari nota è la diversità di situazione negli ordinamenti caratterizzati,
invece, da importanti fratture sociali (cd. cleavages), dato che, in questo
caso, quella stessa esclusione sarebbe percepita come una grave perdita di
chances, se non, talvolta, alla stregua di un vero e proprio pericolo di
sopravvivenza identitaria da parte di interi strati della società. Da questo
punto di vista, anzi, lo stesso sistema elettorale perderebbe la sua
fondamentale funzione di collettore delle domande sociali, pretendendo di
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 51
irrigidire eccessivamente le dinamiche politiche ed istituzionali con il
rischio che i gruppi ai quali è reso difficoltoso l’accesso alla rappresentanza
inneschino la miccia della sopraffazione di una parte di società sull’altra.
Può pertanto proporsi questo schema di carattere assai sommario:
1. il formante sociale è “omogeneo”, ben predisposto ad un formato
ipopartitico: l’ordinamento sarebbe, dunque, in grado di assimilare sistemi
elettorali fortemente selettivi. Si noti, peraltro, come, in casi del genere, il
formante sociale potrebbe risultare talmente compatto da trovare, al limite,
“sufficiente esprimersi politicamente attraverso un solo partito”: trattasi
del cd. “paradosso di Wildavsky”;
2. il formante sociale è eterogeneo, ma senza componenti antisistema
di spessore, predisposto ad un formato multipartitico: pertanto, esso è
capace di metabolizzare sistemi elettorali moderatamente selettivi;
3. il formante sociale è complesso, percorso da profondi cleavages
sociali: la domanda di rappresentanza politica è estremamente variegata e,
conseguentemente, l’introduzione di sistemi selettivi rischia di innalzare
lo scontro sociale e di provocare, nei casi estremi, crisi di regime.
Come si vede, tale prospettiva conferma l’idea che anche la nascita e la
diffusione, a partire dalla seconda metà del XIX e, poi, soprattutto, nel
corso del XX secolo, sul continente europeo, della proporzionale vada
concepita come una risposta alla domanda, vieppiù pressante, di una
maggiore, ovvero più equa, rappresentanza sociale, nella direzione di una
più apprezzabile democraticità ordinamentale. È possibile, infatti,
osservare come, proprio nel principio proporzionalista si sia scorto,
all’epoca, un modo per mitigare l’indole (percepita come) eccessivamente
“escludente” dei sistemi maggioritari, agevolando, in stretta
corrispondenza col riconoscimento del suffragio a sempre più ampie
porzioni di popolazione, il superamento delle “alte” – anzi,
“eccessivamente alte” secondo i partiti emergenti – “soglie in entrata”, che
il maggioritario comportava (v., ad es., Germania e Italia).
Da un punto di vista propriamente tecnico, la “variabile socio-culturale”
(peraltro, “criptotipica”, in quanto difficilmente identificabile tra gli
elementi che condizionano il rendimento dei sistemi elettorali), può aiutare
a svelare (in linea, del resto, con le cd. “regole di Sartori”), forse, la
principale ragione per cui, non infrequentemente, ordinamenti che usano
sistemi elettorali simili presentano formati partitici diversi; e come mai, a
52 Lara Trucco
dispetto dell’applicazione di formule relativamente poco selettive, alcuni
ordinamenti presentino un formato tendenzialmente ipopartitico (v.
Austria); e, ancora, perché l’applicazione di formule selettive
(particolarmente il plurality) in contesti in cui viga, invece, una rilevante
frammentazione politica, non riesca a ridurre drasticamente la
proliferazione partitica (v. il Canada). Del resto, come dianzi accennato,
risulta estremamente arduo contrastare solo sul piano “ingegneristico” la
forza del “fattore d’impatto sociale”. In particolare, l’esperienza conferma
come – a meno di non fuoriuscire dai confini che segnano la democraticità
del sistema ordinamentale, con gravi rischi, peraltro, si torna a dire, per la
stabilità del regime politico (cd. crisi di regime) – un formato bipartitico
sia improponibile – quale che sia il sistema elettorale – qualora minoranze
che rifiutano di farsi rappresentare dai due maggiori partiti siano
concentrate, in alte proporzioni, in determinati collegi o in particolari aree
geografiche.
Fatte le dovute differenze del caso, quanto testé osservato può offrire
una chiave di lettura anche del “caso italiano”, in cui la “svolta
maggioritaria” d’inizio anni Novanta lungi dal semplificare e rigenerare,
all’insegna della “compostezza”, il quadro politico esistente, ha finito per
renderne talune caratteristiche e certi esiti ancora più complessi e caotici.
Sicché proprio quando, col tramonto delle ideologie novecentesche, è
parso che l’Italia potesse superare i cleavages dei primi tempi della
Repubblica, entrando finalmente nel novero delle democrazie sia
socialmente, sia politicamente, “assestate”, il cambiamento repentino di
sistema elettorale (di per sé solo e non accompagnato da adeguate riforme
costituzionali) sembra aver concorso decisivamente a far mancare al nostro
Paese tale traguardo.
14. La “continuità” dei sistemi di elezione. I sistemi elettorali misti
[…] Tra gli elementi più volentieri messi in risalto nella
caratterizzazione dei sistemi di elezione come “misti”, vi sia la varia
combinazione di formule elettorali: per cui, in quest’ottica, può, forse,
pensarsi ad un’ibridazione “maggiore”, quando la commistione tra
elementi sia finalizzata, solo o soprattutto, appunto, a livello di formula
(ragionandosi, in questo caso, di “sistemi elettorali misti in senso stretto”).
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 53
Del resto, v’è sufficiente consapevolezza di come i sistemi di elezione
abbiano toccato, attualmente, un punto molto elevato di tecnicismo, tanto
che la ridetta “commistione” di componenti elettorali può dirsi divenuta
ormai una loro caratteristica primaria (se non, addirittura, immancabile).
Ciò premesso, non ci si può tuttavia esimere dal rilevare come, anche
qui, pur nell’estrema difficoltà di addivenire ad una classificazione
esauriente dei sistemi elettorali misti (dato il grande numero di variabili in
campo), la fisionomia complessiva della commistione del sistema
elettorale possa dirsi essere data, sotto il profilo descrittivo, dagli elementi
“strutturali” che si son visti: quindi, oltre (ed, anzi, prima ancora) che dalla
formula, altresì da voto e circoscrizione. Inoltre, rileva qui, i) sotto il
profilo funzionale, il “modo” (approccio qualitativo) e ii) il “dosaggio”
(approccio quantitativo) con cui i vari elementi si combinano tra loro.
Intendendo, dunque, ora, soffermare sinteticamente la nostra attenzione
sulle interconnessioni tra le diverse “anime” che compongono i sistemi
misti, si può immaginare che essi assumano differenti configurazioni e si
dipanino in una gamma di situazioni che va (secondo l’itinerario che
seguiremo nel prosieguo):
a) da una polarità in cui i meccanismi che si ispirano ai diversi
princi-
pi funzionano, per quanto di ragione, in modo indipendente gli uni dagli
altri (giustapposizione di sistemi);
b) ad un’altra, in cui i diversi principi si compenetrano tra loro
inestricabilmente (fusione di sistemi), tanto da poter rendere arduo
l’apprezzamento in essi, talvolta, della prevalenza dell’anima
proporzionale o di quella maggioritaria; mentre
c) tra queste due posizioni si collocano i sistemi in cui gli
elementi di
commistione sono “collegati” funzionalmente tra loro, pur restando
strutturalmente autonomi (combinazione di sistemi).
[…]
16. La fusione dei sistemi
Più interessante, nell’ottica dell’ibridazione dei sistemi elettorali,
sembra, però, l’ipotesi dei sistemi “a fusione”, in cui le varie componenti
del sistema di elezione (ispirantisi ai diversi principi elettorali) si
54 Lara Trucco
amalgamano tra loro totalmente, grazie al sistema di voto “unitario”. Ed,
infatti, è proprio già in partenza che tali sistemi mettono mano alla comune
costruzione, con l’affidarsi ad un voto tecnicamente “unico” e “fuso in
senso stretto”.
Primo “originale”, sistema di elezione “misto” di questo tipo viene
reputato quello elaborato da Geyerhahn, in territorio tedesco, nel 1902 (cd.
“formula Geyerhahn”), si noti, col precipuo intento di superare «la rigida
alternativa tra proporzionale e maggioritario», unendo i «complessi pregi
indisconoscibili della elezione in collegi uninominali con l’esigenza, ormai
non meno indisconoscibile, della rappresentanza proporzionale dei
gruppi». A distanza di tempo, tale sistema avrebbe trovato l’ambiente più
adatto per la propria adozione nella Germania dell’Ovest del 1949. Ivi,
infatti, il pessimo ricordo lasciato dalla proporzionale – rea di aver prodotto
a Weimar un sistema partitico ed un quadro parlamentare frammentato e,
per di più, assai polarizzato (ideologicizzato) sulle ali estreme – ne rese da
subito evidente l’improponibilità. D’altra parte, però, fu avvertito come
pure l’introduzione di un sistema che intendesse ispirarsi tout court al
principio maggioritario sarebbe stata difficilmente adattabile a quel
particolare contesto, dato che, all’esigenza di elaborazione di un sistema
idoneo ad assicurare una qualche “stabilità” delle forze di governo della
nascente Repubblica Federale tedesca, faceva pur sempre riscontro quella
di poter contare su di una solida legittimazione democratica, e,
particolarmente, sulla presa in carico della molteplicità di forze politiche e
sociali presenti nella società tedesca.
Nel quadro storico-istituzionale tedesco appena indicato, è stata,
dunque, come s’è anticipato, la legge elettorale del 15 giugno 1949 a dare
al sistema elettorale proposto da Geyerhahn la sua più completa ed efficace
applicazione, prevedendosi, in origine, che:
a) i seggi del Bundestag fossero ripartiti nei singoli Länder in due
gruppi, nella proporzione approssimativa del 60% (242 seggi) e del 40%
(158 seggi) ed assegnati sulla base di meccanismi fondati su principi
elettorali diversi: il primo maggioritario ed il secondo proporzionale;
b) fosse applicata, sempre a livello periferico, una “Sperrklausel”, sta-
tuendosi l’esclusione dall’attribuzione dei mandati nel Land delle liste che
non avessero ottenuto una cifra elettorale pari ad almeno il 5% dei voti
validi nel Land stesso (si noti che si votava con una scheda unica) o che
non vi avessero conquistato (almeno) un collegio uninominale;
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 55
c) i seggi, nell’ambito della parte maggioritaria, fossero
immediatamente conquistati dai candidati capaci di conseguire la
maggioranza, anche solo relativa (Direktmandate);
d) i seggi, nell’ambito della parte proporzionale, fossero attribuiti con
il metodo D’Hondt, con l’ulteriore precisazione che dai seggi conquistati
da ciascuna lista sarebbe stato detratto un numero di seggi pari a quelli già
ottenuti nella parte maggioritaria, mentre sarebbero “residuati” i seggi
proporzionali necessari a conservare intatta la conseguita attribuzione
proporzionale;
e) non entrassero in tale meccanismo i seggi attribuiti al Land conqui-
stati da candidati indipendenti o non collegati ad alcuna lista della parte
proporzionale;
f) nel caso, poi, in cui il numero di seggi spettante ad una lista secondo
il riparto proporzionale fosse risultato inferiore a quello dei seggi
uninominali conquistati dai candidati della lista stessa, venissero attribuiti
a quest’ultima seggi addizionali fino a concorrenza della sua quota
maggioritaria (con conseguente incremento del totale dei seggi assegnati
al
Land); e, infine,
g) dal punto di vista dei candidati, fossero eletti, oltre a quelli vittorio-
si nei seggi uninominali, anche quelli indicati sulla scheda nell’ordine
prestabilito (liste bloccate).
17. La combinazione dei sistemi
Il modulo della “combinazione dei sistemi” si caratterizza, rispetto a
quelli finora considerati in ciò che concerne la stessa struttura del voto,
trovandocisi, infatti, qui, davanti a sistemi di votazione plurimi e distinti (a
differenza che nella “fusione dei sistemi”), ma, nello stesso tempo,
funzionalmente collegati (diversamente dalla “giustapposizione dei
sistemi”). Ciò che, tra l’altro, si riflette nella duplice strutturazione della
scheda elettorale (cd. “doppia scheda”: una per la parte maggioritaria e
l’altra per la parte proporzionale).
Quest’ultima circostanza ha senz’altro conseguenze di rilievo sulle
strategie di voto degli elettori, oltre che su quelle di presentazione delle
candidature, nonché, in ultima analisi, sulla resa complessiva del sistema
56 Lara Trucco
elettorale in senso più o meno marcatamente selettivo/inclusivo. In vigenza
di una combinazione di sistemi, infatti, le probabilità che il suffragio
conservi qualche efficacia risultano in genere aumentate dal maggior
numero di voti a disposizione e dalla particolare configurazione della
formula.
La sussistenza, inoltre, di un paniere ricco di opportunità di scelta
diminuisce le capacità predittive dell’impatto del voto individuale,
aumentando, per contro, il grado d’incertezza dell’esito dell’elezione a
scapito dei tentativi di prefigurazione dei risultati elettorali. Certo, non è
possibile ignorare la maggior complessità del sistema di votazione e la sua
esposizione al rischio di cortocircuiti di tipo logico: la cui plausibilità può,
forse, soltanto essere rinvenuta in quel comune senso di consapevolezza e
di accettazione di un simile rischio a cui si è fatto già riferimento in
precedenza.
Limitandoci, in questa sede, a proporre un essenziale campionario di tali
technicalities, deve utilmente portarsi l’attenzione ancora
sull’ordinamento tedesco, dianzi considerato nella fisionomia del 1949.
Successivamente, infatti, l’originario impianto “misto” ha subito talune
modificazioni soprattutto sul versante del sistema di votazione, nel senso
della diversificazione e dell’ampliamento, sia pur nell’ambito di un sistema
a voto categorico, delle strategie di scelta degli elettori. Così, la più
importante innovazione, idonea a mutare la fisionomia stessa del sistema
misto di elezione, apportata dalla riforma dell’8 luglio 1953, è consistita
proprio nell’introduzione del cd. “doppio voto” in “doppie schede”,
attribuendosi all’elettore un primo suffragio “preferenziale” per la scelta
del candidato nel collegio uninominale (cd. Erststimme o “voto diretto” ai
candidati) e un secondo voto “blindato” per la scelta della lista (cd.
Zweitstimme o “voto alla lista”). Altri interventi hanno poi inciso sulla
composizione numerica del Bundestag (passata dai 400 seggi originari a
656, per ridiscendere, quindi, ai 598 membri fissi attuali);
correlativamente, è stata ritoccata la distribuzione dei seggi tra parte
maggioritaria e proporzionale (attualmente fissata al 50%). Infine,
l’applicazione della Sperrklausel è risalita dal livello del Land a quello
nazionale, in alternativa dell’ottenimento di almeno tre candidati nei
collegi uninominali, da parte delle formazioni in lizza, al posto dell’unico
(seggio acquisito) richiesto in precedenza.
La disciplina elettorale vigente prevede, dunque, che si prosegua con un
sistema di assegnazione dei seggi di carattere spiccatamente “misto”,
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 57
nell’ambito del quale, dei 598 seggi del Bundestag, 299 debbono ora essere
assegnati in collegi plurinominali territorialmente coincidenti con i Länder
(cd. quota plurinominale); mentre gli altri 299 vanno attribuiti nell’ambito
di altrettanti collegi uninominali (cd. quota uninominale), a scrutinio
maggioritario ad un turno, secondo la formula plurality di tipo inglese.
In questo senso, è, quindi, ancora la parte proporzionale a determinare
la composizione politica del Bundestag, in quanto la ripartizione dei seggi
fra le varie liste avviene in proporzione al numero totale dei voti di lista da
esse riportati, a condizione di aver superato la predetta soglia di
sbarramento al 5% (ciò che può consentire di considerare il sistema tedesco
alla stregua di un “proporzionale maggioritarizzato”), con effetto
determinante, a tale fine, della “seconda scheda”. La “prima scheda” è,
invece, decisiva nella composizione personale del Bundestag (con l’effetto
di un “proporzionale personalizzato”), mantenendosi, inoltre, fermo il
meccanismo di detrazione dei seggi uninominali conquistati (cd. mandati
diretti) dalla quota proporzionale, spettante alla lista ad essi collegata.
Come si sarà, a questo punto, percepito, la particolare focalizzazione del
sistema elettorale tedesco appare giustificata dalla ricchezza e
dall’articolazione delle tecniche combinatorie messe in campo, così come
il completamento dell’esame di siffatto sistema è ancora in grado di
confermare. Calcolate, dunque, le cifre elettorali di lista, il totale dei seggi
(a livello) di Land viene ripartito tra esse in proporzione, in applicazione
della formula Sainte-Laguë (dopo aver sperimentato dal 1985 al 2008 il
criterio Hare ed, originariamente, il metodo D’Hondt). Il numero dei seggi
così spettante a ciascuna lista in ogni Land viene dapprima occupato dai
candidati collegati usciti vincenti dall’Erststimme (il primo voto) nei
singoli collegi del Land, a titolo di “mandato diretto” e, quindi, da quelli
indicati nelle liste secondo l’ordine di presentazione, fino alla concorrenza
dei seggi ut supra attribuiti.
Più nel dettaglio può accadere che:
a) i vincitori nei collegi uninominali collegati alla lista risultino essere
non sufficienti numericamente per coprire l’ammontare di seggi spettante
alla lista di riferimento sulla base della parte proporzionale (ciò che può
verificarsi allorché una quota molto elevata di elettori si sia espressa in
senso favorevole ad una data lista e, contestualmente, a favore di candidati
collegati): in questo caso, la legge è univoca nello stabilire che i seggi
rimangono vacanti.
Può, però, verificarsi, altresì, il caso in cui:
58 Lara Trucco
b) il numero dei seggi complessivamente attribuiti ai candidati nei
collegi uninominali risulti superiore alla quota di seggi che alla lista
collegata spetterebbe sulla base dei “secondi voti” (ciò che può verificarsi
allorché una quota molto elevata di elettori non abbia manifestato grande
favore per una data lista, ma, nel contempo, ne abbia preferito in grande
misura i candidati collegati): ebbene, in tale evenienza, la formazione
politica in questione conserva i seggi in più, sicché il totale dei seggi che
vanno a comporre il Bundestag risulta corrispondentemente innalzato (cd.
Überhangsmandate) rispetto al numero ordinario.
Il fenomeno di mandati in soprannumero, in netta crescita nel
“postunificazione” della Germania (allorquando se ne sono avuti sedici
mandati in soprannumero nel 1994, tredici nel 1998, cinque nel 2002,
sedici nel 2005 e ventiquattro nel 2009: a fronte di una media inferiore a
due nelle tornate elettorali precedenti (!)) sin dalla sua comparsa, è stato
bersaglio di imponenti critiche a motivo, fondamentalmente, della sua
portata distorsiva rispetto all’ideale proporzionale. Deve, peraltro, notarsi
come il Tribunale costituzionale tedesco, pur non smentendone in radice
le problematicità, lo abbia, tuttavia, fin dove possibile fatto salvo, col
considerare, secondo un approccio estremamente pragmatico,
l’impossibilità di qualunque sistema di ripartizione dei voti in seggi di
“raggiungere una perfetta eguaglianza del valore effettivo dei voti” (v. già
dec. 22 maggio 1963); e, d’altro canto, l’idoneità del principio di
eguaglianza di tollerare – in ragione di obiettivi “di fondamentale
importanza” (v. dec. 10 aprile 1997) e sino a che i collegi abbiano, nei
limiti del possibile, pari dimensioni – alterazioni del peso finale dei voti”,
“fintanto che rimangono nel margine di imperfezione proprio di qualsiasi
procedimento matematico” (v. dec. 24 novembre 1988).
Tuttavia, per uno strano scherzo del destino, è stato proprio il
problematico risultato derivante dall’applicazione di un meccanismo di
tipo puramente matematico ad aver indotto i giudici costituzionali tedeschi
ad interrompere l’attitudine di self-restraint che ha ispirato buona parte del
proprio “filone giurisprudenziale elettorale”. Per la precisione, in una
pronuncia del 3 luglio 2008, la Corte di Karlsruhe ha censurato il sistema
elettorale, tra l’altro, in quanto rendeva possibile, attraverso il suddetto
meccanismo dei mandati soprannumerari che, in determinate circostanze,
un numero maggiore di voti si traducesse in un numero minore di seggi
(cd. “paradosso del pregiudizio da aumento del consenso”, o cd.
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 59
“Negatives Stimmgewicht”). Trattasi, più precisamente, dell’eventualità
che:
– l’ottenimento di (ulteriori) voti (nella parte proporzionale del siste-
ma elettorale) possa produrre l’effetto controintuitivo di provocare la
perdita di seggi, e che, d’altra parte
– una qualche lista ottenga più seggi, pur non avendo visto aumentare
il proprio numero di voti.
La Corte, infatti – si noti, in una prospettiva attenta e sensibile alla
portata sostanziale del suffragio –, ha ritenuto di dover ravvisare il
contrasto di questo tipo di esito con i principi costituzionali di eguaglianza
e di libertà del voto, distintamente e congiuntamente intesi. Inoltre, di
rilievo è notare come l’occasione si sia rivelata propizia per il giudice
tedesco per chiarire che:
a) gli elettori devono essere messi in grado di sapere prima del voto
quali persone aspirino ad un mandato parlamentare e come il proprio voto
possa influire sul successo o il mancato successo dei candidati;
b) ciascun voto individuale deve esercitare tendenzialmente lo stesso
peso sull’elezione;
c) l’incidenza del voto deve andare nella direzione impressa dal
votante;
d) l’elettore deve poter avere una qualche cognizione dell’esito del
pro-
prio voto;
e) pur non potendosi pretendere che il suffragio risulti pienamente
efficace, deve essere assicurata almeno la possibilità, per chi vota, di
esercitare una qualche influenza sul risultato elettorale.
Considerazioni, queste, che, ci pare, portano, più in generale, ad
interrogarsi sull’ammissibilità di tutti gli istituti capaci di stravolgere i reali
assetti della rappresentanza politica e, particolarmente, sulla conciliabilità,
coi dettami della democrazia elettorale, dei meccanismi intesi – specie in
assenza di precise previsioni costituzionali al riguardo – a prefigurare i
rapporti di forza nelle assemblee rappresentative politiche in modo del
tutto slegato dalla volontà dal corpo elettorale. Il rischio, infatti, è,
all’evidenza, che, in tali situazioni, le elezioni finiscano per ridursi ad una
semplice “ratifica” di risultati in gran parte già predisposti dagli stessi attori
politici, fino all’estremo limite di dar corpo a forme plebiscitarie di
manifestazione del voto, in cui la capacità di incidenza del suffragio
60 Lara Trucco
individuale è completamente azzerata, mentre totale è la precostituzione
dei risultati elettorali da parte delle forze al potere.
Ad ogni modo, si diceva come la Corte costituzionale tedesca abbia
dichiarato l’incostituzionalità della legge elettorale prescrivendo,
contestualmente, al legislatore di “riparare” la situazione entro il 30 giugno
2011. È stato così che, il 25 novembre 2011, è stata messa a punto la
diciannovesima legge di modifica della legge elettorale federale, le cui
previsioni, però, non sono state ritenute sufficientemente idonee a garantire
una più compiuta “proporzionalità” del risultato elettorale (col porre
rimedio alla compromissione dell’esito proporzionale dovuta
all’applicazione dei suddetti meccanismi legati ai mandati
soprannumerari). Di qui il ricorso, ancora una volta, al Tribunale
costituzionale federale, che, con una decisione del 25 luglio 2012, proprio
appellandosi alla natura proporzionalistica del sistema elettorale, ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale anche della nuova disciplina. Al
fine di colmare la preoccupante lacuna normativa venutasi a creare il
legislatore ha quindi elaborato, in maniera pressoché pedissequa rispetto
alle indicazioni del giudice costituzionale una nuova soluzione elettorale,
con la previsione, in particolare, di cd. “mandati compensativi”
(Zusatzmandate), attribuiti in modo da correggere, al possibile, in senso
proporzionale i risultati delle singole liste (suscitando, peraltro, le critiche
di chi teme che una tale scelta produca una lievitazione dei cd. “costi della
politica”.
18. I “seggi premio”
Tornando al nostro repertorio delle technicalities elettorali, sembra
opportuno richiamare ora l’attenzione su di un meccanismo che, rispetto a
quelli fin qui esaminati, si caratterizza per il fatto di esplicare i propri effetti
in maniera ancora più “distante” dal voto degli elettori, essendo collegato
al solo risultato matematico dello scrutinio. In questo senso, anzi, sembra
possibile (e utile) determinare più in generale questo concetto di
“distanza”, andandosi da meccanismi che incidono già, variamente
“coartandola”, sulla stessa volontà elettorale, quali, ad es., il voto
categorico rispetto al voto plurimo preferenziale o, addirittura, “libero”; o
la lista chiusa (e, a maggior ragione, quella blindata) rispetto alla lista
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 61
aperta, dove è consentita, invece, una certa “ginnastica” della volontà; o,
ancora, alle technicalities che maggiormente tendono ad alterare
l’equilibrio espresso nelle urne, quali la stessa clausola di sbarramento
rispetto ad una contabilizzazione integrale dei suffragi.
Su questa stessa rappresentazione della “distanza” tra volontà elettorale
ed effetto reale del suffragio prodotto dal sistema va, poi, ancora innestato
il discorso circa la progressiva perdita di contatto tra voto e risultato man
mano che intervengono le famose technicalities, andandosi, anche qui, da
un ampio rispetto del principio di immediatezza, non incompatibile, a ben
guardare, anche con metodi di voto blindati (nel senso dell’esatta
corrispondenza tra scelta ed effetto “promesso”) – passandosi per
situazioni intermedie – ad una sostanziale alterazione degli stessi rapporti
rappresentativi espressi dal risultato dello scrutinio.
È, quest’ultimo, esemplarmente, il caso, appunto, dei cd. “seggi
premio”, su cui si tornerà a ragionare nel prosieguo, in riferimento al
sistema elettorale italiano introdotto dalla legge n. 270 del 2005, dato che
tale meccanismo interviene dopo che la formula elettorale è già stata
applicata e, pertanto, i rapporti di forza emersi dall’elezione sono già stati
“quantificati” e “qualificati” dallo scrutinio.
I “seggi premio” si hanno, infatti, com’è noto, allorché viga la
previsione dell’attribuzione ex lege, per l’appunto, di un certo numero di
seggi in base al conseguimento di un determinato risultato elettorale:
specificamente, quando l’obiettivo a cui si mira è quello di
assicurare/accentuare una composizione “maggioritaria” dell’assemblea,
tramite la predisposizione di una regola legale, avente lo scopo precipuo di
attribuire a chi ha ottenuto il maggior numero di voti più della metà dei
seggi in Parlamento. Ciò che getta luce sulla principale ragione per cui di
tale correttivo non viene più messa in dubbio l’idoneità a svolgere un ruolo
di “chiusura” (potrebbe dirsi, con Arrow, di natura fondamentalmente
“dittatoriale”) dei sistemi di elezione, nel perseguimento di una politica
elettorale di tipo maggioritario.
Peraltro, ci pare che proprio nella misura in cui tale correttivo si dimostri
capace non solo di intervenire in via del tutto autonoma dal voto popolare,
ma anche di manipolare i rapporti di forza scaturiti dalle elezioni, mutando
l’espressione di voto dello stesso corpo elettorale (sia in meglio, sia,
soprattutto, in peggio, con l’acuire la distanza tra i voti dati alle forze
politiche vincenti e quelli elargiti alle candidature perdenti), sia necessaria
una qualche sussunzione delle corrispondenti regole in previsioni di
62 Lara Trucco
carattere costituzionale; sempreché, naturalmente, non si ritenga il
correttivo inconciliabile in radice con gli stessi dettami fondamentali di
eguaglianza e libertà del voto della democrazia elettorale.
Il meccanismo premiale in questione potrebbe, poi, rivelarsi
specificamente incompatibile con eventuali principi di diritto elettorale
presenti nelle Carte fondamentali orientati in senso proporzionalistico, con
la conseguenza dell’inammissibilità del suo innesto proprio nel tronco di
quei sistemi, appunto d’impronta proporzionalistica, nel cui ambito è per
solito impiegato.
Venendo adesso agli aspetti più tecnici, con l’avvertenza, sin d’ora, che
essi si ritrovano esemplarmente negli “originali” sistemi di elezione italiani
che si esamineranno nel prosieguo, il premio in questione può articolarsi
in vario modo, risultando, in ogni caso, per intuitive ragioni, strategica:
i) la fissazione dell’ammontare del premio stesso. Il premio può poi
essere
ii) “fisso”, o “variabile”, a seconda che lo stesso suo ammontare di-
penda o meno dal conseguimento di un certo risultato elettorale (da parte,
s’intende, di “chi vince”); ancora, la sua elargizione può andare iii) alla
lista o alla coalizione di liste; e la sua configurazione essere iv) su base
locale o su base nazionale.
Ciò posto, una distinzione scriminante è quella che si ha a seconda che
il premio sia
v) corrisposto al superamento o meno di un quorum di attribuzione e
che, in caso positivo, il quorum sia “di maggioranza assoluta” o “di
maggioranza relativa”, così che mentre:
– nel caso di premio per conseguimento del quorum di “maggioranza
assoluta”, si ha il cd. “premio per la maggioranza” (o “premio di
consolidazione”), vale a dire, l’attribuzione di seggi premiali per
consolidare una maggioranza parlamentare che già c’è, avendo saputo
ottenere con le proprie sole forze la maggioranza assoluta dei seggi in
Parlamento;
– nel caso, invece, di cd. “premio di maggioranza specifico”, ovvero
per conseguimento del quorum della “maggioranza relativa” prescritta, si
ha l’assegnazione di seggi premiali al fine di garantire che, prima di
ottenere ex lege la maggioranza assoluta, chi vinca goda, nei fatti, di un
livello di consenso da parte del corpo elettorale presunto come adeguato
dallo stesso legislatore;
Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 63
– nell’ultima ipotesi, si ha il cd. “premio di maggioranza generico”,
ovverosia, l’attribuzione ex lege del premio alla forza politica che abbia
ottenuto, comunque, ossia al di là di soglie legislativamente imposte, la
sola maggioranza semplice dei suffragi al fine di garantire, in ogni caso, il
conseguimento della maggioranza parlamentare.
Non ci si nasconde, peraltro, come i vari tipi di premio presentino dei
profili di dubbia compatibilità coi principi di eguaglianza e di libertà del
suffragio, agendo essi nel senso della prefigurazione dei risultati elettorali
(quindi sull’imparzialità, nella misura in cui questa si ricollega alla
casualità degli esiti elettorali) e, quindi, come s’è anticipato, direttamente
sui rapporti di forza in ambito parlamentare e sulla capacità del voto
individuale d’influenzare l’esito dell’elezione. Derivandone, nel
complesso e in definitiva, un vulnus profondo al principio portante di tutti
i sistemi democratici, vale a dire, quello della sovranità popolare.
Nel caso, poi, di premi senza quorum, deve aggiungersi il rischio di
effetti distorsivi fuor di misura allorquando (anche “semplicemente” a
causa dell’elevato numero delle forze politiche in competizione) la
coalizione più votata risulti aver ottenuto un modesto numero di suffragi.
D’altra parte, la predisposizione di premi con quorum mentre, da un lato,
può rivelarsi inutile in quanto difficilmente attivabile, dall’altro lato,
presenta il rischio, per certi versi ancora più grave, di mortificare anche
gravemente la presenza e la capacità di azione della/e minoranza/e
parlamentare/i, compromettendo le prerogative ad esse riconosciute anche
(e soprattutto) da parte di norme di rango costituzionale. In ogni caso, il
premio non può arrivare a precludere l’accesso alle sedi rappresentative
alle forze di minoranza e di frustrare i meccanismi costituzionali di
garanzia “antimaggioritari”, tra cui, particolarmente, quelli posti a presidio
della stessa rigidità costituzionale.
Si tratta, a ben vedere, di preoccupazioni ricollegabili ad ogni previsione
di “seggi premio”, così che induce a riflettere, ad es., anche la
predisposizione (non a caso, più di interesse teorico che di rilievo pratico)
dei cd. “doppi premi”, finalizzati al duplice scopo di assicurare non solo,
come appena visto, alla maggioranza di godere di un solido margine di
sostegno nell’assemblea, ma anche alla minoranza di ottenere una adeguata
presenza in Parlamento, mediante l’elargizione di un “premio di
consolazione” fisso, a seconda dei casi, al miglior perdente (onde
incentivare una competizione di carattere bipolare) o ai migliori perdenti
(in una logica di tipo proporzionale).
64 Lara Trucco
Analogamente, può ragionarsi per le varianti estreme del meccanismo
delle “quote di garanzia”, allorché non si limitino a promuovere un
semplice “diritto di tribuna” (ossia una presenza di carattere perlopiù
simbolico di minoranze nelle assemblee rappresentative), ma mirino a
garantire le rappresentanze di determinate categorie, svolgendo una
funzione a tutti gli effetti “riequilibratrice” del risultato elettorale. Anche
in questi casi, infatti, il rischio è di assistere a vere e proprie pianificazioni
ex ante della geografia politica delle Camere elettive, a detrimento del reale
rapporto di forza fotografato dal suffragio e dell’effettiva capacità di
incidenza del voto individuale, con irrimediabile lesione del “nucleo
essenziale” del diritto – e financo della libertà – di voto.
III
I SISTEMI ELETTORALI
NELL’ESPERIENZA COSTITUZIONALE
ITALIANA
1. La “forma di legge” dei sistemi elettorali italiani all’insegna
della continuità storica
Veniamo ora ad esaminare più da vicino l’“esperienza” elettorale del
nostro Paese, prendendo le mosse dallo Statuto albertino (del 4 marzo
1848) che, anche sulla scorta dei suoi modelli ispiratori (la Charte del 1830
e la Costituzione belga del 1831), nella sua laconicità di riferimenti in
materia rinviava interamente, per la disciplina delle elezioni della Camera
elettiva, “alla legge” (ex art. 39). Ed infatti, si è inaugurata così, nel nostro
ordinamento, una tendenza – potrebbe dirsi: un approccio alla materia –
destinata a mantenersi ed anzi, per certi versi, a consolidarsi nel tempo,
giungendo fino all’epoca attuale. Per cui, come avremo modo di meglio
esaminare nel prosieguo, ancora oggi, nel nostro Paese, il legislatore
ordinario risulta il pressoché esclusivo affidatario della regolamentazione
del sistema elettorale per le elezioni politiche.
Va peraltro rilevato, ad un tale riguardo, come, di recente, specie nei
confronti della legge elettorale di Camera e Senato, sia venuta in
discussione la questione se questa materia sia disponibile da parte del
decreto-legge. Evenienza alla quale, per vero, si imputa soprattutto il
rischio, insito nella natura provvisoria della fonte, che la normativa sortisca
un effetto “fotografia”, valevole, cioè, solo per la tornata elettorale di cui è
imminente lo svolgimento.
66 Lara Trucco
Un ulteriore profilo critico, poi, riguarda la stessa allegazione dei
presupposti della necessità e dell’urgenza per legittimare l’uso del potere
di decretazione in prossimità degli appuntamenti elettorali, allorché la
motivazione faccia riferimento allo stato di scioglimento delle Camere,
avallandosi il ricorso all’art. 77 Cost. come strumento d’intervento
“ordinario” in periodi particolarmente delicati quali sono, appunto, quelli
di passaggio tra una legislatura e l’altra: e ciò, si noti, anche quando risulta
chiaro che un “tempestivo” ricorso alle “legislazione ordinaria” non
avrebbe trovato ostacolo per l’intero decorso della legislatura, dandosi in
questi casi adito al sospetto che le “condizioni” per ricorrere alla
decretazione d’urgenza siano, se non “programmate”, quanto meno
“attese”. Anche se ci sembra che le maggiori esitazioni che l’impiego della
decretazione d’urgenza in materia elettorale suscita siano date dalla
possibilità che, attraverso tale strumento, si pervenga a modificare “di
fatto”, ad esclusivo vantaggio della parte politica “di maggioranza”, le
regole fondamentali di scelta dei rappresentanti. Per non dire, poi, che,
almeno rispetto alla “formula” e al “voto” tecnicamente intesi, pare assai
arduo immaginare la presenza di una qualche situazione straordinaria di
necessità ed urgenza, tale da giustificare il ricorso alla fonte emergenziale.
Per diverso (ma connesso) profilo, pure il versante della tecnica
redazionale elettorale offre spunti di rilievo: dal suo esame, infatti, emerge
come le varie riforme avvicendatesi nel tempo – che si cercherà qui di
passare sinteticamente in rassegna – si siano “impiantate” su di un quadro
“formale” di fondo talmente stabile da rimanere, financo negli articoli di
riferimento, fondamentalmente immutato. Il punto di partenza può
rinvenirsi nella lontana legge n. 680 del 1848, che nel regolamentare,
appunto, la materia, la collocò in sei diversi titoli:
1. Titolo I: delle condizioni per essere elettore, e del domicilio
politico;
2. Titolo II: Capo I, Della prima formazione delle liste elettorali; Capo
II, Della revisione annua delle liste elettorali;
3. Titolo III: Dei collegi elettorali; 4. Titolo IV: Dei deputati;
5. Titolo V: Disposizioni generali;
6. Titolo VI: Disposizione particolare […].
Volendo mantenere la nostra attenzione sul piano formale, può dirsi che,
da questo punto di vista, le modifiche di maggior momento sono
67
intervenute nel 1882, quando è stata adottata una tecnica legislativa
destinata a divenire, per così dire, una “costante” del settore anche (e non
solo) nel nostro ordinamento: quella, cioè, di “raccogliere” in un “Testo
unico” tutta la normativa in materia, riunendone i profili più tecnici
(esemplarmente, l’apportionment delle circoscrizioni elettorali) in
allegato, “come parte integrale della normativa” stessa. Così, se si guarda
ai testi normativi di riferimento vigenti in Italia in punto di sistemi
elettorali, ci si avvede di come a tutt’oggi essi siano dati da:
– il d.P.R. (Testo unico) 30 marzo 1957, n. 361, per la elezione della
Camera dei deputati;
– il d.lgs. (Testo unico) 20 dicembre 1993, n. 533, per la elezione del
Senato della Repubblica;
– la legge n. 459 del 2001, per l’esercizio del diritto di voto dei citta-
dini italiani residenti all’estero;
– la legge 24 gennaio 1979, n. 18, per l’elezione dei rappresentanti
dell’Italia al Parlamento europeo; e, a livello locale, da:
– il d.P.R. (Testo unico) 16 maggio 1960, n. 570: per la composizione
e l’elezione degli organi delle amministrazioni comunali; dalla
– legge 25 marzo 1993, n. 81: per l’elezione diretta del sindaco, del
pre-sidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio
provinciale; anche se è bene subito precisare che “il cuore” della normativa
locale in materia è stato poi ricondotto nel
– d.lgs. (Testo unico) 18 agosto 2000, n. 267, recante, più in generale,
“le leggi sull’ordinamento degli enti locali”.
Più varia e composita è stata, ab origine, la regolamentazione dei
sistemi di elezione degli organi consiliari regionali, essendo prevista:
– per le regioni a statuto speciale (talora) in norme di rango costitu-
zionale; ed invece
– per le regioni a statuto ordinario, nelle leggi 17 febbraio 1968, n.
108 e 23 febbraio 1995, n. 43. Su questa base, come si vedrà, è intervenuto
come una cometa il legislatore costituzionale “consegnando” alle regioni,
in via transitoria, vale a dire, in attesa dell’entrata in vigore dei nuovi statuti
e delle nuove leggi elettorali regionali (cd. tandem procedurale) il sistema
di elezione previsto dalle norme qui sopra richiamate (ex art. 2, legge cost.
n. 1 del 1999).
68 Lara Trucco
Anticipato, con ciò, il quadro normativo ad oggi vigente nel nostro
ordinamento in materia di sistemi elettorali ai diversi livelli di governo, e
ripromettendoci di tornare ad esaminarne i contenuti caratterizzanti nel
corso del capitolo, fermiamo ora la nostra attenzione sul “retroterra
storico” nel settore. A tale riguardo, può sin d’ora anticiparsi come il nostro
ordinamento abbia conosciuto vari tipi di sistemi di votazione e di
assegnazione dei seggi, pur sempre, però, è bene subito dirlo, nell’ambito
del voto categorico plurimo/singolo, a seconda dei casi,
preferenziale/blindato. Su questa base, come si vedrà appresso, la valenza
sostanziale del voto individuale nella democrazia elettorale italiana è
risultata variare in dipendenza sia del tipo di suffragio – ristretto (1848-
1911)/allargato (1912-1944)/universale (dal 1945) – sia, una volta
stabilizzatasi finalmente sul suffragio universale, degli stessi meccanismi
elettorali.
[…]
4. La lista unica blindata durante la dittatura
Sempre con specifico riferimento alla manifestazione del voto, è
opportuno ora tornare a volgere lo sguardo al contesto europeo del XIX
secolo, per osservare come, in base alle teorie elaborate dalla
giuspubblicistica europea dell’epoca, “la sovranità” appartenesse, in via
esclusiva ed originaria, all’entità statuale e/o nazionale, assoluta detentrice
di ogni tipo di potere pubblico.
La “volontà dello Stato” era poi suscettibile di “farsi volontà umana”,
come teorizzato, in special modo, dalle teorie organicistiche, destinate,
com’è noto, a divenire il vero e proprio “spirito vitale” dei rapporti tra la
sfera pubblica e quella privata in ambito ordinamentale. Tale fenomeno –
che Kelsen avrebbe definito di “ipostatizzazione ordinamentale” – favorì,
all’epoca, il maturare di una concezione “totalizzante” della sfera della
partecipazione politica – e, particolarmente, del suffragio –, dato che, in
esso, prese, con ciò stesso, a scorgersi l’esercizio di pubbliche funzioni, la
cui titolarità, dunque, doveva, pur sempre, ricondursi in capo all’entità
statale.
69
Nell’affermazione di questo tipo di approccio un ruolo di primario
rilievo ebbe la dottrina tedesca ottocentesca. Ciò, si noti, anche in reazione
alla cd. “fiammata francese” del 1789, che, muovendosi in un’ottica
giusnaturalista, aveva voluto identificare nell’elettorato attivo un diritto
naturale dell’individuo: il voto sarebbe stato così valorizzato per la sua
idoneità a favorire l’identificazione tra chi avrebbe dovuto fare le leggi e i
suoi destinatari (v., esemplarmente, l’art. 6 della Dichiarazione dei diritti
del 1789).
Su di un binario ancora diverso, più univocamente orientato nel senso
della valorizzazione dell’idea di “sovranità popolare”, si mosse, invece,
quell’altra parte della dottrina d’Oltralpe di fine XIX secolo, che, proprio
mirando al superamento delle concezioni del voto dominanti all’epoca –
appunto, vuoi del voto come funzione (teoria della sovranità nazionale), al
cui adempimento i titolari non si sarebbero potuti sottrarre, vuoi del voto
come diritto (teoria della sovranità statale), al cui esercizio i titolari non
sarebbero potuti essere costretti, ma di cui avrebbero potuto, comunque,
almeno in linea teorica, essere privati – propose una razionalizzazione
dell’idea del suffragio come “potere” (cd. “pouvoir du suffrage”) proprio
di ciascun individuo per il fatto stesso di partecipare (essere parte)
dell’ordinamento giuridico in forza del patto costituente.
Si noti, però, ancora, come, sempre in una prospettiva attenta al “valore
costituente” del suffragio e ai punti di contatto che esso presenta col
principio di sovranità popolare, il voto individuale possa essere, invece,
più linearmente concepito come un diritto fondamentale di esercizio di una
quota del complessivo potere elettorale del corpo sovrano di cui ciascun
elettore, in quanto tale, è parte.
Al di là delle concezioni teoriche, il dato di fatto è che, agli inizi del XX
secolo, il passaggio di testimone dalla “sovranità statale” a quella
“popolare”, lungi dall’essere realizzata, finì per essere vittima di quegli
stessi eventi che aveva contribuito a produrre. Vero è, infatti, che,
all’esigenza di dar voce alla pluralità di istanze sociali emergenti nel
nascente Stato pluralista, pressoché tutte le Carte costituzionali risposero,
tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, arricchendosi di cataloghi di
diritti “dei cittadini”, dando così spazio alle libertà proprie della sfera
politica (significativa, al riguardo, fu anche la promulgazione, il 1° luglio
1901, della prima legge francese sulla libertà di associazione). Tuttavia, a
motivo, tra l’altro, dell’incapacità dei partiti politici dell’epoca di farsi
efficaci connettori tra società civile e sfera di governo, tali proclamazioni
70 Lara Trucco
di principio si scontrarono presto con la difficoltà di conferire alle
medesime istanze sociali un effettivo “peso” nella sfera istituzionale.
Nella situazione che venne a crearsi, fu, dunque, gioco facile per l’asse
del potere dirigersi ancora più “in alto” (rispetto alla propria allocazione
nel baricentro statuale), attratto dalla forza affascinante e prorompente
dell’idea – non meglio identificabile – di “Nazione”, personificata nelle
figure di leaders carismatici capaci di farsi, almeno apparentemente,
interpreti e fautori dei sentimenti del popolo (inteso, qui nella sua
accezione di “collettività omogenea”, ritenuta depositaria di valori
tradizionali tipici ed esclusivi del patrimonio culturale e spirituale
nazionale). Si assistette, insomma, all’epoca, alla consacrazione dell’idea
di “sovranità Nazionale”, all’insegna di una rinnovata forma di gestione
personalistica ed autoritaria del potere. Situazione, questa, che rese
possibile (al di là delle proclamazioni di principio), l’inverarsi di quanto di
più distante in realtà possa esservi dal principio di sovranità popolare e
dalla realizzazione dell’ideale democratico: la subordinazione, cioè, degli
individui, al “valore supremo” della Nazione, attraverso la considerazione
dei singoli alla stregua di “meri strumenti” del potere politico (e non
viceversa).
Ebbene, dal nostro punto di vista, con specifico riguardo alle vicende
italiane, significativo è osservare come, sul piano tecnico-giuridico,
l’assunzione, da parte del regime fascista, di un volto autoritario si sia
accompagnata allo “scardinamento” del sistema di elezione, preceduto,
questo, da una escalation nella “gestione” degli stessi meccanismi
elettorali fino al punto da assicurarsi la prefigurazione dei risultati,
privandosi, nella sostanza, gli elettori di qualunque capacità di incidenza
sull’esito delle elezioni, con l’annientamento, dunque, della valenza del
voto individuale.
A tal fine è possibile, e forse utile, distinguere, in estrema sintesi, due
fasi: i) una fase “populistica”; e ii) una fase “autoritaria”.
i) Nel “primo periodo” (fase populistica), che occupò, all’incirca gli
anni Venti, il regime seppe sfruttare al meglio le potenzialità ed il
significato plebiscitario delle consultazioni popolari, fondando la propria
ragion d’essere sulla legittimazione derivante(gli) da un ampio consenso
popolare (da più parti reputato “di massa”), manifestato, tra l’altro,
attraverso il ricorso alle urne. Che, poi, peraltro, il sistema di elezione
(rectius: la consultazione) avesse assunto, nel tempo, il carattere del vero
e proprio “plebiscito”, è dato di vedere nel fatto che i risultati elettorali
71
fossero, nella forma e nella sostanza, praticamente precostituiti.
Tecnicamente, ciò fu reso possibile anche e soprattutto dal sistema di
elezione attraverso cui poté prevedersi:
– in un primo momento, con la legge 18 novembre 1923, n. 2444
(meglio nota come “legge Acerbo”, dal nome del suo proponente, l’allora
Sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Giacomo Acerbo) che
addirittura i due terzi dei seggi alla Camera sarebbero dovuti essere
assegnati alla lista di maggioranza relativa, a condizione che avesse
ottenuto almeno il 25% dei suffragi (“premio di maggioranza specifico”),
mentre il rimanente terzo sarebbe dovuto essere suddiviso in maniera
proporzionale ai voti ottenuti dalle restanti liste (cd. “proporzionale
zoppa”);
– e, in un secondo momento, con la legge 17 maggio 1928, n. 1019,
che il “voto singolo categorico” fosse associato ad una “lista unica
blindata” (cd. “listone fascista”), compilata dal Gran Consiglio del
fascismo. Così, “la votazione per l’approvazione della lista dei deputati
designati” doveva avvenire attraverso l’espressione, “in calce alla formula
per sì e per no”, “mediante schede portanti il segno del fascio littorio e la
formula: approvate voi la lista dei deputati designati dal gran consiglio
nazionale del fascismo?” (ex art. 6). Il tutto, nell’ambito di una sola grande
circoscrizione, dato che “tutto il regno” costituiva un “collegio unico
nazionale” (ex art. 1).
In questo modo, il regime pose le coordinate essenziali per
monopolizzare l’intera area dell’“offerta elettorale”, finendo per azzerare
del tutto la valenza sostanziale del voto individuale e, con essa, altresì,
come s’è anticipato, la libertà di suffragio dell’elettore.
ii) Nel “secondo periodo” (fase autoritaria), lo Stato autoritario prese
apertamente a negare il principio della rappresentanza politica di
ascendenza liberale, non nascondendo nemmeno il proprio disprezzo nei
confronti della “forza” dei numeri. Così, lo stesso Mussolini non perse
occasione per negare «che il numero per il semplice fatto di essere
numero», potesse «dirigere le società umane» e «che questo numero possa
governare attraverso una consultazione periodica [...]». Sicché, in
quest’ottica, la conseguenza della considerazione degli strumenti elettorali
alla stregua di meri «ludi cartacei» fu pressoché scontata, col sancirsi la
72 Lara Trucco
soppressione del momento elettorale ed anche il formale, definitivo,
scardinamento del circuito democratico italiano.
5. Il voto plurimo categorico preferenziale con formula inclusiva
per la Costituente
Nel secondo dopoguerra, il principio proporzionale poté (ri)affermarsi
negli ordinamenti in cui l’immagine dei partiti politici era riuscita a
ritrovare un nuovo smalto a seguito delle vicende belliche. Un esempio di
ciò è fornito dalla prima esperienza repubblicana nel nostro Paese, in cui,
anzi, la valorizzazione della proporzionale assunse il significato del tutto
particolare di principio posto alle fondamenta dell’edificio ordinamentale
dalle forze politiche che avevano sottoscritto il patto costituente, nella
consapevolezza della sua idoneità a garantire il coinvolgimento nel sistema
costituzionale, in linea di massima, di tutte le forze politiche democratiche.
Di qui, la scelta di adottare un sistema elettorale di tipo inclusivo, al
possibile proiettivo, di natura, insomma, proporzionale (d.lgs.lgt. n. 74 del
1946), fatta in vista della ricostruzione istituzionale, segnatamente, per dar
corpo alla previsione (contenuta nell’art. 1 del d.l.lgt. n. 151 del 1944) di
far eleggere per la prima volta “a suffragio universale diretto e segreto
un’Assemblea costituente per deliberare la nuova Costituzione dello
Stato”.
In tale rinnovato contesto, fu, dunque, in qualche modo nelle cose, il
recupero, come punto di partenza, della legge elettorale del 1919. Su questa
base, il d.lgs.lgt. n. 74 del 1946, ripropose il voto di approvazione,
coll’attribuire ad ogni elettore “un voto di lista” (ex artt. 2 e 45), e
riconoscendo, contestualmente, la “facoltà”, a ciascuno, “di attribuire
preferenze, per determinare l’ordine dei candidati compresi nella lista
votata” e, precisamente (ex art. 45):
– due preferenze se, nel collegio, i deputati da eleggere fossero stati
fi-no a 15; e
– tre preferenze se, nel collegio, i deputati da eleggere fossero stati
“da 16 in poi”.
In vigenza di tale sistema di elezione, sarebbe, dunque, dovuta avvenire
l’elezione di 573 deputati: tuttavia, le consultazioni non poterono svolgersi
nelle province di Bolzano, Trieste e nella Venezia Giulia (Gorizia, Pola,
Fiume e Zara), in quanto tali territori erano ancora sotto l’occupazione
73
militare degli alleati Anglo-Americani e della Jugoslavia. Pertanto, il 2
giugno 1946 (contestualmente allo svolgimento del referendum
istituzionale per la scelta tra monarchia e repubblica), all’Assemblea
costituente furono eletti (solo) 556 deputati, nell’ambito di 32 collegi
(plurinominali).
3. Segue. L’elezione dei rappresentanti dell’Italia al Parlamento
europeo
Attualmente, se si prescinde dall’ipotesi, assai circoscritta, di voto di
approvazione prevista per i cittadini italiani residenti all’estero (a cui,
infatti, l’art. 11, comma 3, della legge n. 459 del 2001 ha dato modo di
“esprimere due voti di preferenza nelle ripartizioni alle quali sono
assegnati due o più deputati o senatori”), il solo sistema in cui vige il voto
di approvazione è quello per l’elezione dei rappresentanti dell’Italia al
Parlamento europeo.
La legge n. 18 del 1979, infatti, già nella versione originaria, aveva
stabilito che l’elettore potesse “manifestare non più di tre preferenze nella
prima circoscrizione; non più di due nella seconda, terza e quarta
circoscrizione ed una nella quinta circoscrizione”. Tale previsione, da
ultimo, è stata modificata (dall’art. 5 della legge n. 90, dell’8 aprile 2004),
uniformandosi a “non più di tre” il numero di preferenze esprimibili
dall’elettore “in ogni circoscrizione” (art. 14).
Più nello specifico, il voto di approvazione si innesta su di un formato
circoscrizionale che vede la suddivisione del territorio nazionale in 5
circoscrizioni plurinominali, comprendenti varie regioni, che si vedono
assegnatarie di un numero di seggi variabili (per un totale di 72) in
dipendenza della popolazione, secondo quanto si schematizza qui di
seguito:
1. Italia nord-occidentale (Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria,
Lombardia): 19 seggi;
2. Italia nord-orientale (Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia
Giulia, Emilia-Romagna): 13 seggi;
3. Italia centrale (Toscana, Umbria, Marche, Lazio): 14 seggi;
4. Italia meridionale (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata,
Calabria): 18 seggi;
74 Lara Trucco
5. Italia insulare (Sicilia, Sardegna): 8 seggi.
Il calcolo dei seggi attribuiti alle liste avviene a livello centrale nel
collegio unico nazionale, per tramite (ex art. 21) del metodo dei quozienti
naturali e dei più alti resti (in caso di parità di resti, i seggi sono assegnati
“a quelle liste che abbiano avuto la maggiore cifra elettorale nazionale”; e,
nell’ipotesi di ulteriore parità, per sorteggio), tra le liste che abbiano
conseguito sul piano nazionale la soglia del 4% (introdotta dalla legge 20
febbraio 2009, n. 10). In applicazione della medesima logica avviene, poi,
l’ulteriore riparto dei seggi così assegnati, fra le singole liste, a livello
circoscrizionale, individuando i seggi spettanti a ciascuna lista nelle varie
circoscrizioni grazie al quoziente elettorale di lista (calcolato dividendo la
cifra elettorale nazionale di lista per il numero di seggi spettanti alla lista
stessa; a questo punto il quoziente “peserà” il seggio conquistato a livello
circoscrizionale).
Nel complesso, può dirsi che il sistema di elezione dei parlamentari
europei sia rimasto improntato a quel “principio proporzionalista” che,
come si vedrà a breve ha informato di sé, per la prima fase repubblicana, il
nostro ordinamento, e che, a tutt’oggi, risulta caratterizzare il “patrimonio
elettorale europeo” (acquis électoral communautaire). Prova di questo, del
resto, al di là dell’esame delle legislazioni degli Stati membri, ci viene data
dalla Decisione del Consiglio, 2002/772/CE, Euratom (contenente il
75
quadro normativo di riferimento, dell’Unione come tale, in punto di
elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo), che, in vista, appunto,
di valorizzare i “principi comuni a tutti gli Stati membri” in materia, ha
stabilito che l’elezione dei membri del Parlamento europeo “In ciascuno
Stato membro” debba avvenire “a scrutinio di lista” o – si noti il richiamo
al meccanismo di trasferibilità preferenziale – a scrutinio “uninominale
preferenziale con riporto di voti di tipo proporzionale” (ex art. 1).
Per opportuna completezza val la pena di ricordare che, fino
all’approvazione di una legge elettorale comune europea (preconizzata, si
noti, già dall’art. 21, par. 3, del Trattato di Parigi del 1951 e
successivamente riproposta dall’art. 7 dell’“Atto relativo all’elezione dei
rappresentanti nel Parlamento europeo a suffragio universale diretto”,
allegato alla decisione del Consiglio del 20 settembre 1976), gli Stati
membri restano competenti a determinare il proprio sistema elettorale
(benché gli ultimi progetti di riforma diano prova della volontà del
legislatore comunitario di occupare un certo spazio nella materia, per cui
25 deputati europei “supplementari” dovrebbero essere eletti, nel 2014, in
via sperimentale, in una circoscrizione unica corrispondente all’intero
territorio dell’Unione europea).
9. Il voto singolo categorico con formula (più) selettiva a livello
territoriale. I comuni
Deve, peraltro, ora rilevarsi come gli enti locali siano stati le prime
realtà istituzionali ad avere avuto a che fare, all’inizio degli anni Novanta,
con nuove regole d’impronta più marcatamente “mista” per l’elezione dei
propri organi rappresentativi, in forza, come s’è anticipato, della legge n.
81 del 1993, ora in molta parte confluita nel d.lgs. n. 267 del 2000.
[…]
b) Nei comuni sino a 15 mila abitanti: il meccanismo del “voto fuso”
basato sul voto singolo categorico preferenziale ha trovato il terreno più
fertile in cui fiorire. Un tale meccanismo, infatti, lo si ritrova, qui (ex art.
71 del d.lgs. n. 267 del 2000), ancora più fortemente compatto in direzione
maggioritaria rispetto alle previgenti regole sulla provincia più sopra
descritte. In particolare, l’elettore può (ex art. 71, commi 5 e 7):
i) votare per un candidato alla carica di sindaco (segnando il relativo
76 Lara Trucco
contrassegno); ed (eventualmente) ii) esprimere un voto di preferenza per
un candidato alla carica di con-
sigliere comunale purché compreso nella lista collegata al candidato alla
carica di sindaco prescelto (scrivendone il cognome nella apposita riga
stampata sotto il contrassegno);
Più precisamente (secondo quanto ora previsto dall’art. 2 della legge 23
novembre 2012, n. 215), nei comuni con popolazione superiore ai 5.000
abitanti i voti di preferenza espressi dagli elettori (a beneficio di candidati
compresi nella lista collegata al candidato alla carica di sindaco prescelto)
possono essere uno o due, a condizione, in questo secondo caso, che le
preferenze riguardino candidati di sesso diverso della stessa lista: pena,
l’annullamento della seconda preferenza (cd. “seconda preferenza di
genere”). Al proposito, ci si limita a rilevare il carattere decisivo che viene
ad assumere, in presenza della “seconda preferenza di genere”, la
composizione della lista di candidati, dovendo, questa, essere “fornita”
della necessaria “offerta elettorale” se non si vuole correre il rischio di
forme di precostituzione dei risultati. Per diverso profilo, anche se pur
sempre al fine di favorire la rappresentanza di entrambi i sessi, la stessa
legge pone divieto a che, nelle liste, uno dei due sessi risulti presente “in
misura superiore ai due terzi dei candidati” (cd. “riequilibrio di genere
nelle liste elettorali”).
Ad ogni modo, in tutte le menzionate opzioni il voto si intende attribuito
sia al candidato alla carica di sindaco, sia a “ciascuna lista di candidati alla
carica di consigliere” (comma 7, cit.) ad esso collegata. Pertanto, non è
possibile optare per il voto disgiunto, essendo precluso il voto per il
sindaco e per un candidato al consiglio che non appartenga a una delle liste
ad esso collegate. Così come non è possibile votare esclusivamente per il
candidato sindaco, senza che tale voto vada anche a beneficio delle
candidature che lo sostengono.
Più nel dettaglio, la disciplina attuale prevede che “l’elezione dei
consiglieri comunali venga effettuata con metodo maggioritario
contestualmente alla elezione del sindaco”, per cui, del tutto
conformemente alle dinamiche maggioritarie, il candidato che prende più
voti risulta eletto e con lui restano eletti i due terzi dei consiglieri fra i
candidati della sua (unica) lista, mentre gli altri seggi sono ripartiti fra le
altre liste in proporzione ai voti avuti, con metodo D’Hondt.
77
Si noti, poi, che, in precedenza, era previsto che “Nell’ambito di ogni
lista i candidati [fossero] proclamati eletti consiglieri comunali secondo
l’ordine delle rispettive cifre individuali” (ex art. 5, comma 8, della legge
25 marzo 1993, n. 81). La normativa vigente, invece (allineandosi a quella
dei comuni con popolazione superiore ai 15 mila abitanti, ex art. 73,
comma 6), stabilisce, con evidente favore per le ragioni “di lista”, che
“Nell’ambito di ogni lista i candidati” siano “proclamati eletti consiglieri
comunali [i candidati] secondo l’ordine delle rispettive cifre individuali,
costituite dalla cifra di lista aumentata dei voti di preferenza” (ex art. 71,
comma 9, del d.lgs. n. 267 del 2000). È rimasta, invece, invariata l’ultima
parte del disposto che prevede che “A parità di cifra, sono proclamati eletti
i candidati che precedono nell’ordine di lista. Il primo seggio spettante a
ciascuna lista di minoranza è attribuito al candidato alla carica di sindaco
della lista medesima”. Nell’ipotesi, poi, per vero improbabile, della parità
di voti tra candidati, si procede a ballottaggio fra i due candidati che hanno
ottenuto il maggior numero di voti, da effettuarsi la seconda domenica
successiva; ed in caso di ulteriore parità, viene eletto il più anziano di età.
Da ultimo, deve quanto meno accennarsi alla previsione, tanto singolare
(nel panorama comparato) quanto indispensabile ai fini di una qualche
garanzia di democraticità dell’elezione (salvo poi accorgersi della sua
eludibilità, attraverso la presentazione di liste di candidati fittizie …), per
cui, nell’ipotesi di lista unica, ovvero nell’eventualità che “sia stata
ammessa e votata una sola lista”, per l’elezione di “tutti i candidati
compresi nella lista”, e del “candidato a sindaco collegato”, è necessario (a
pena di nullità dell’elezione) che
– la stessa lista abbia riportato “un numero di voti validi non inferiore
al 50 per cento dei votanti” (cd. “quorum funzionale”) e che
– “il numero dei votanti non sia stato inferiore al 50 per cento degli
elet-tori iscritti nelle liste elettorali del comune” (cd. “quorum strutturale”).
Assai significativo, peraltro, è il fatto che una tale previsione fosse già
stata contemplata agli esordi dell’ordinamento repubblicano dal Testo
Unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle
Amministrazioni comunali (ex art. 50, T.U. n. 203 del 1951), con lo
stabilire, nella menzionata ipotesi di una sola lista candidata (ed a pena,
anche qui, di nullità dell’elezione) che:
– nei Comuni con popolazione sino a 10.000 abitanti (limite, in
segui-to, abbassato a 5.000 dalla legge n. 663 del 1964), fossero eletti i
candidati che avessero riportato “un numero di voti validi non inferiore al
78 Lara Trucco
20 per cento dei votanti” (“quorum funzionale”), purché il numero dei
votanti non fosse stato “inferiore al 50 per cento degli elettori iscritti nelle
liste elettorali del Comune (“quorum strutturale”); mentre
– nei Comuni con popolazione superiore, si sarebbero dovuti
intendere eletti “i candidati compresi nella lista” purché essa avesse
“riportato un numero di voti validi non inferiori al 50 per cento dei votanti”
(“quorum funzionale”), ed il numero dei votanti non fosse stato “inferiore
al 50 per cento degli elettori iscritti nelle liste elettorali del Comune”
(“quorum strutturale”).
Attualmente, l’art. 71, comma 10, T.U. n. 267 del 2000 per l’elezione
del sindaco e del consiglio comunale nei comuni sino a 15 mila abitanti
prevede, a pena di nullità dell’elezione, che “Ove sia stata ammessa e
votata una sola lista”, siano “eletti tutti i candidati compresi nella lista, ed
il candidato a sindaco collegato, purché essa abbia riportato un numero di
voti validi non inferiore al 50 per cento dei votanti ed il numero dei votanti
non sia stato inferiore al 50 per cento degli elettori iscritti nelle liste
elettorali del comune”. Ci si limita, al proposito, a rilevare come la Corte
costituzionale, nella sent. n. 242 del 2012, abbia fatto salva
l’interpretazione ed applicazione (di una tale normativa) in base alla quale,
ai fini del calcolo del suddetto quorum strutturale dei votanti, devono
essere contabilizzati pure i cittadini iscritti all’Anagrafe degli italiani
residenti all’estero (AIRE).
c) Nei comuni con più di 15 mila abitanti: è stato invece previsto il cd.
“voto preferenziale disgiungibile”, consistente, in senso diametralmente
opposto rispetto al voto fuso, in due voti veri e propri a beneficio,
rispettivamente di sindaco e consigliere comunale.
Più precisamente, il sistema di voto per l’elezione dei consigli e dei
sindaci dei comuni con più di 15 mila abitanti (ex art. 72, del d.lgs. n. 267
del 2000) consente di esprimere il proprio suffragio:
i) a beneficio di una lista e del candidato sindaco dalla medesima lista
sostenuto (voto doppio), tracciando un segno sia sul contrassegno della
lista, sia in corrispondenza rettangolo che contiene il nominativo del
candidato sindaco prescelto; ii) a favore solo di una lista ed
automaticamente anche per il sindaco da essa sostenuto (voto fuso),
tracciando un segno solo sul contrassegno della lista; iii) per un candidato
alla carica di sindaco e per una lista diversa (cd. voto disgiunto) rispetto a
79
quella/e da cui questi è sostenuto, segnando, cioè, il simbolo della lista e,
contestualmente, il nome di un candidato sindaco non collegato a quella
lista;
Si deve precisare che nelle ipotesi i), ii) e iii) all’elettore è dato anche
modo (secondo quanto ora previsto dall’art. 2 della già menzionata legge
n. 215 del 2012) di esprimere uno o due voti di preferenza per dei candidati
alla carica di consigliere comunale, nell’ambito, però, esclusivamente,
della lista votata ed a condizione, altresì, come s’è visto supra, che le
preferenze riguardino candidati di sesso diverso della stessa lista (cd.
“seconda preferenza di genere”). Inoltre, anche qui, è fatto divieto a che,
nelle liste, uno dei due sessi risulti presente “in misura superiore ai due
terzi dei candidati” (cd. “riequilibrio di genere nelle liste elettorali”).
Ancora, l’elettore può esprimere il voto
iv) solo per il sindaco (voto esclusivo), spuntando esclusivamente il
suo
nome, si badi bene, senza effetto automatico di trasferimento del voto alla/e
lista/e che lo sostengono; o
v) solo per uno o due candidati consiglieri (alle condizioni che si son
dette), scrivendone il nome nell’apposito spazio sulla scheda elettorale: in
questo caso, similmente a quanto avviene sub ii) esso vale in automatico
(voto fuso) anche per la lista a cui appartengono le candidature in questione
e al candidato sindaco collegato.
80 Lara Trucco
Per quanto riguarda l’elezione del sindaco, similmente ai comuni con
popolazione sino a 15.000 abitanti, è previsto che ottenga la carica il
candidato capace di conseguire la maggioranza dei voti validi. Anche se,
poi, deve subito avvertirsi di come, qui, le cose si complichino già “alla
base”, dato che l’anzidetta caratteristica del “voto disgiungibile” fa sì che
il sindaco eletto possa venirsi a trovare con una maggioranza del consiglio
in mano all’opposizione (cd. “anatra zoppa”). Per la precisione, ciò accade
nel caso in cui il sindaco venga eletto al primo turno ma la lista/e ad esso
collegata/e non raggiungano il 50% dei voti, per cui potrebbe aversi che la
lista/e di uno dei candidati sconfitti abbia/abbiano ottenuto più del 50% dei
voti, acquisendo, appunto, la maggioranza in consiglio.
Per diverso profilo, assai controversa è risultata la questione se nel
computo dei “voti validi” (ai sensi del comma 10, dell’art. 73, del d.lgs. n.
267 del 2000), dovessero essere inclusi soltanto i voti espressi a favore
delle liste, o, invece, oltre (in aggiunta) a questi, anche le preferenze
espresse (foss’anche esclusivamente) a favore dei candidati alla carica di
sindaco. Al proposito, in una decisione di indubbio rilievo, il Consiglio di
Stato ha avallato le ragioni della seconda linea interpretativa (v. Cons.
Stato, sez. V, sent. 14 maggio 2010, n. 3022, di “conferma” di T.A.R.
Piemonte, sez. II, sent. 23 ottobre 2009, n. 2316).
A differenza, inoltre, dei comuni sino a 15.000 abitanti, è previsto che
ciascun candidato alla carica di sindaco, all’atto della presentazione della
candidatura, possa dichiarare il collegamento (non solo) con una ma anche
con più liste presentate per l’elezione del consiglio comunale. Inoltre, è
posto il limite per ciascun gruppo in ogni collegio di presentare un solo
candidato, ed è previsto che “Le liste per l’elezione del consiglio comunale
devono comprendere un numero di candidati non superiore al numero dei
consiglieri da eleggere e non inferiore ai due terzi” (ex art. 73 del d.lgs. n.
267 del 2000).
In tale quadro, l’acquisizione della carica di sindaco è direttamente
disposta a favore di chi, tra i candidati, riesca a conseguire la maggioranza
assoluta dei voti; altrimenti si procede ad un secondo turno elettorale di
ballottaggio (che ha luogo la seconda domenica successiva) a cui
partecipano i due candidati che hanno ottenuto al primo turno il maggior
numero di voti e viene proclamato eletto il candidato che ha ottenuto il
maggior numero di voti validi. Si precisa che, per i candidati ammessi al
ballottaggio rimangono fermi i collegamenti con le liste per l’elezione del
consiglio dichiarati al primo turno, essendo, però, data loro la facoltà
81
“entro sette giorni dalla prima votazione, di dichiarare il collegamento con
ulteriori liste rispetto a quelle con cui è stato effettuato il collegamento nel
primo turno” (le dichiarazioni di collegamento per essere efficaci devono
ovviamente risultare convergenti con le analoghe dichiarazioni rese dai
delegati delle liste interessate).
A questo punto, per stabilire la composizione del consiglio comunale,
premesso che vanno escluse le liste che, singole o collegate, non abbiano
superato la soglia di sbarramento del 3%, si tiene conto dei risultati
elettorali del primo turno e degli eventuali ulteriori collegamenti nel
secondo (implementandosi con i voti del primo turno delle liste
successivamente collegate il paniere del primo turno). Precisamente, per
l’assegnazione dei seggi consiliari, dopo aver applicato il metodo D’Hondt
si verifica se la lista o le liste collegate al candidato eletto al primo turno
raggiungono il 40% dei voti, o se, nell’eventualità di elezione in sede di
ballottaggio, la lista collegata abbia già ottenuto nel primo turno il 40% dei
voti (in entrambi i casi, ovviamente, senza che nessun’altra lista abbia
raggiunto il 50%), attribuendosi, in entrambe le ipotesi, alla lista collegata
al sindaco eletto, un premio pari al 60% dei seggi. I restanti seggi sono
assegnati, sempre in applicazione del metodo D’Hondt, alle altre liste o
gruppi di liste collegate sulla base della somma dei voti validi riportati dalle
stesse liste in tutte le sezioni del comune (cd. cifra elettorale di lista). Anche
per stabilire il numero dei seggi spettanti ad ogni lista nell’ambito di
ciascun gruppo di liste collegate, poi, si applica il medesimo metodo, sulla
base della cifra elettorale di ciascuna di esse, corrispondente ai voti
riportati nel primo turno.
Una volta determinato il numero dei seggi spettanti a ogni lista/gruppo
di liste collegate, sono proclamati eletti alla carica di consigliere
innanzitutto i candidati alla carica di sindaco, non risultati eletti, collegati
a ciascuna lista che abbia ottenuto almeno un seggio (si noti che, in caso di
collegamento di più liste al medesimo candidato alla carica di sindaco
risultato non eletto, il seggio spettante a quest’ultimo viene detratto dai
seggi complessivamente attribuiti al gruppo di liste collegate). E, quindi, i
candidati di ciascuna lista secondo l’ordine delle rispettive cifre individuali
(e, in caso di parità di cifra individuale, quelli che precedono nell’ordine di
lista).
[…]
82 Lara Trucco
12. Segue. Le regioni a statuto ordinario (la normativa statale
transitoria)
Occorre ora brevemente ricordare come l’introduzione dei sistemi
elettorali a livello locale abbia corrisposto all’intento (in ciò, in certo modo,
funzionando da laboratorio istituzionale) di superare la precedente e
generalizzata situazione di ricerca di sempre nuovi e defatiganti equilibri
istituzionali tra coalizioni precarie, in quanto soggette alle continue
richieste (sotto la minaccia di crisi di governo) di modificare i programmi
e gli impegni elettorali assunti. Da questo punto di vista, può pertanto
ritenersi che, pur non essendo consigliabile riporre nel solo sistema
elettorale, in difetto di altre non meno importanti condizioni, speranze
palingenetiche, pure l’esperienza locale deve aver mostrato qualche
virtuosità se il legislatore ordinario, prima, e quello costituzionale, dopo,
vi hanno fatto riferimento anche per il livello regionale.
Nella seconda metà degli anni Novanta, dunque, anche le regioni hanno
visto aggiornare il proprio sistema elettorale, col superamento dei
meccanismi d’indole schiettamente proporzionalista che avevano fino ad
allora trovato applicazione anche a questo livello di governo (in estrema
sintesi, il sistema elettorale previgente era basato su di un voto plurimo
preferenziale categorico – cd. “di approvazione” –, nell’ambito di liste
provinciali concorrenti di tipo “chiuso” e prevedeva l’impiego della
formula Hagenbach-Bischoff, con eventuale recupero dei resti, in
applicazione della formula Hare, nell’apposito collegio unico regionale), a
favore dell’adozione di sistemi elettorali più marcatamente ibridi in senso
maggioritarizzante.
Il compromesso capace di assecondare, nel brevissimo periodo
(segnatamente, in vista delle elezioni regionali del 1995), la tendenza
favorevole al superamento del ridetto sistema proporzionale fu incorporata,
come s’è in parte anticipato, nella legge n. 43 del 1995 di riforma del
sistema elettorale delle regioni a statuto ordinario.
Tale riforma, che, intervenuta “a Costituzione invariata”, ha trovato,
poi, con la legge cost. n. 1 del 1999, una transitoria copertura, è basata
sull’elezione diretta e contestuale del consiglio regionale e del presidente
della giunta regionale, candidato – ora anche formalmente – capolista alla
presidenza della regione nel cosiddetto “listino” (mentre, con la legge n.
43 del 1995, la candidatura del capolista alla presidenza della regione era
83
avvenuta in via di fatto, prevedendosene l’inserimento del nome sulle
schede elettorali accanto ai contrassegni delle liste corrispondenti).
Si noti che la medesima legge cost. n. 1 del 1999 ha fornito le coordinate
essenziali concernenti sia la forma di governo regionale, sia la nuova
legislazione elettorale, nel senso di
– riconoscere (sia pure con taluni condizionamenti) alla potestà statu-
taria la competenza di definire la forma di governo “regionale”; e
– di attribuire alla competenza legislativa regionale, nell’ambito di
uno schema ripartito tra Stato e regioni, la “materia elettorale”.
Su questa base, spetta alle regioni stabilire il sistema di elezione e i casi
di ineleggibilità e di incompatibilità del presidente e degli altri componenti
della giunta regionale, nonché dei consiglieri regionali; mentre compete
allo Stato la fissazione dei principi fondamentali, oltre che la durata degli
organi elettivi (ex art. 122 Cost.: la relativa “disciplina-quadro” è
contenuta, com’è noto, nella legge n. 165 del 2004). Ad un tale riguardo,
si rileva come, nella sent. n. 151 del 2012, la Corte costituzionale abbia
chiarito la natura di “principi fondamentali” di normative aventi
«l’obiettivo di ridurre la spesa pubblica corrente». Chiamata, poi, con la di
poco successiva sent. 198 del 2012, ad effettuare il controllo sul
meccanismo di fissazione del “numero massimo” dei consiglieri e degli
assessori regionali ai fini della collocazione delle Regioni nella classe di
enti territoriali “più virtuosa”, la Corte ha, di fatto, finito per ribaltare la
propria giurisprudenza in materia (v., ad es., le sentt. n. 196 del 2003; n. 2
del 2004; n. 3 del 2006; e, più di recente, la sent. 68 del 2010),
coll’affermare che un siffatto meccanismo ha, comunque, carattere
recessivo rispetto al principio di eguaglianza consacrato dall’art. 3 della
Costituzione. Nel percorrimento di questa strada, la Consulta ha finito,
dunque, per posporre le ragioni dell’autonomia – delle Regioni a statuto
ordinario – rispetto a quelle dell’economia, concludendo per la non
violazione, da parte della norma impugnata, degli artt. 117, 122 e 123 della
Costituzione, dato che la «disposizione censurata […] nel quadro della
finalità generale del contenimento della spesa pubblica, stabilisce, in
coerenza con il principio di eguaglianza, criteri di proporzione tra elettori,
eletti e nominati». Con ciò, a ben vedere, disponendo su quanto la legge
cost. n. 1 del 1999 e la legge cost. n. 3 del 2001 non avevano previsto, che
spetti, cioè, al legislatore statale stabilire (oltre che la durata, anche) il
numero di componenti degli organi elettivi regionali.
84 Lara Trucco
Ad ogni modo, pur nella sua programmata provvisorietà, può essere di
un qualche interesse esaminare, ora, la meccanica essenziale del sistema
elettorale regionale transitorio, per il quale è stato coniato il termine
giornalistico di Tatarellum (dal nome dal suo primo firmatario, Giuseppe
Tatarella). Tra le modifiche di maggior rilievo apportate dalla legge n. 43
del 1995 alla normativa originaria recata dalla legge n. 108 del 1968,
relativamente al sistema di votazione vi è stato l’abbassamento della
portata quantitativa del suffragio individuale (a cui s’è già accennato). Ed
infatti, il previgente “voto di approvazione” (ovverosia la possibilità, per
l’elettore, di “manifestare una preferenza nelle circoscrizioni nelle quali il
numero dei consiglieri regionali da eleggere è fino a 5”, “non più di due
nelle circoscrizioni nelle quali il numero dei consiglieri da eleggere è da 6
a 15 e non più di tre nelle altre”, ex art. 13) è stato “superato”
dall’introduzione del “voto singolo categorico preferenziale” (dandosi
modo agli elettori di “manifestare una sola preferenza”: v. l’art. 13 della
legge n. 108 del 1968, come modif. dall’art. 1, comma 10 della legge n. 43
del 1995). Più nel dettaglio, l’elettore può votare:
i) per il solo candidato presidente: precisamente, esprimere un unico
voto per una delle liste regionali (cd. listini) e per il suo candidato a
presidente (tracciando un segno sul simbolo di una lista regionale o sul
nome del candidato a presidente, senza segnare, nel contempo, alcun
contrassegno di lista provinciale). In tal caso, s’intende validamente votata
la lista regionale ed il suo candidato a presidente, senza che il voto venga
“travasato” alla lista o alle liste provinciali collegate; ii) per il candidato
presidente e per una delle liste provinciali cui è col-
legato (tracciando un segno sul simbolo di una lista provinciale e, nel
contempo, sul nome del candidato a presidente);
iii) per una lista provinciale da sola (tracciando un solo segno nel
rettangolo che contiene il contrassegno della lista provinciale),
esprimendosi, in tal caso, un voto valido sia per la lista provinciale, sia per
la lista regionale collegata, il cui capolista è candidato a presidente (ovvero
intendendosi, in tal caso, il voto, implicitamente espresso anche per il
candidato presidente a cui la lista provinciale è collegata); iv) per il
candidato presidente e una delle liste provinciali cui egli non è collegato
(tracciando un segno nel rettangolo recante una delle liste provinciali ed un
altro segno sul simbolo di una lista regionale non collegata alla lista
provinciale prescelta, o sul nome del suo candidato a presidente), optando,
come si diceva, per il “voto disgiunto” (dato che, in tale ipotesi, il voto è
85
validamente espresso per la lista provinciale e per la lista regionale
prescelte, anche se non sono collegate fra loro).
Si deve, inoltre, precisare che tale sistema di voto consente all’elettore
di esprimere un (solo) voto di preferenza per un candidato alla carica di
consigliere compreso nella lista provinciale prescelta (scrivendone
nell’apposita riga i dati identificativi).
Non può, peraltro, non rilevarsi come il “voto disgiunto” non sia (fino
ad ora) andato a detrimento della possibilità di munire il presidente eletto
di una sua propria maggioranza. Tale attenuazione della portata
“maggioritarizzante” del sistema elettorale, infatti, trova alcune
“compensazioni”, dimostratesi, almeno a questo livello di governo, nel
complesso efficaci, vale a dire:
– il reticolo di collegamenti tra il candidato presidente e le liste, ovve-
ro il necessario collegamento (come per gli enti locali) da parte dei
candidati a presidente con una o più liste provinciali;
86 Lara Trucco
– la previsione di una clausola di sbarramento al 3% dei voti validi
(salvo il collegamento a liste regionali capaci di oltrepassare il 5% dei voti
validi) per l’assegnazione dei seggi consiliari; e, soprattutto,
– il meccanismo del simul stabunt simul cadent: anche se con ciò
usciamo dai confini della materia qui trattata, sconfinando nel tema – tanto
delicato, quanto decisivo – degli strumenti di razionalizzazione della forma
di governo (in questo caso, regionale).
Un rilievo particolare ha, poi,
– la prescrizione per i candidati a presidente della regione di
capeggiare una propria lista regionale (cd. “listino”), contenente un
numero di candidati pari a un quinto dei componenti del consiglio, la quale,
come vedremo qui appresso, costituisce il serbatoio da cui attingere,
eventualmente, per l’attribuzione del premio di maggioranza consiliare.
Sulla base del sistema di votazione descritto risulta, quindi, eletto il
candidato presidente che ottiene più voti ed, insieme a lui, la “sua”
maggioranza, mentre i seggi spettanti alle forze di opposizione vengono
individuati “in via residuale”. A tal fine, sul versante dell’assegnazione dei
seggi, il sistema (ex art. 15) si rifà, in prima battuta, in modo pedissequo,
al metodo Hagenbach-Bischoff (del quoziente corretto), che già vigeva
nell’originale sistema del 1968, prevedendone l’applicazione nelle varie
circoscrizioni, corrispondenti alle province, in cui è diviso elettoralmente
il territorio regionale.
È inoltre stabilita l’eventuale riconduzione dei seggi non assegnati e dei
voti residuati al collegio unico regionale, in vista della loro ripartizione col
metodo Hare (dei quozienti interi e dei più alti resti), per cui, si noti, come
di norma accade quando l’assegnazione definitiva dei seggi avviene “a
livello nazionale”, il sistema ammette la possibile variazione dei seggi
originariamente assegnati alle singole circoscrizioni (cd. apportionment).
A questo punto, a rendere “definitiva” l’assegnazione dei seggi
interviene, in seconda battuta, l’applicazione di un meccanismo premiale
assai elaborato, che prevede l’elargizione dei seggi in modo variabile (cd.
“premio mobile”) a seconda del risultato elettorale ottenuto dalle liste
collegate. Più precisamente, posto che l’obiettivo “minimale” del
congegno è quello di garantire, in ogni caso, che il candidato eletto
presidente possa contare sul sostegno di non meno del 55% dei consiglieri
delle liste che lo appoggiano, l’ammontare effettivo dei seggi-premio varia
a seconda dei risultati. Così, se le liste collegate al candidato presidente
vincente hanno ricevuto:
87
I) più della metà dei seggi, a tale maggioranza viene attribuita solo la
metà dei seggi del “listino” (pari, cioè, al 10% del totale dei seggi in
consiglio) e, in tal modo, le operazioni si concludono;
II) meno della metà dei seggi, si procede all’elezione di tutti i compo-
nenti del listino (pari, cioè, al 20% dei seggi del consiglio), verificando,
altresì, se la cifra elettorale conseguita dalla maggioranza abbia o no
superato il 40% del totale dei voti;
IIa) se la verifica è positiva, alla percentuale del 55% dei seggi
conquistati si sostituisce quella del 60% dei seggi. In tal modo, le
operazioni si concludono;
IIb) se la verifica è negativa, si verifica ulteriormente se il totale dei
seggi, anche in seguito all’attribuzione di tutti i seggi-premio, supera o no
la soglia del 55% dei seggi,
IIb1) se quest’ulteriore verifica è positiva, le operazioni si concludono;
IIb2) se, invece, è negativa, è previsto che alle liste in appoggio al
candidato vincente, in aggiunta alla totalità dei seggi del “listino”, vengano
attribuiti tanti consiglieri “extra” fino ad arrivare al 55% dei seggi del
consiglio (cd. “clausola di governabilità”) attraverso l’assegnazione di
seggi aggiuntivi. Il verificarsi di quest’ultima circostanza ha
indubbiamente l’effetto, analogamente ai mandati di sopravanzo tedeschi,
di aumentare il numero dei consiglieri oltre quello astrattamente (e
matematicamente) previsto; ma se ne differenzia in quanto la “quota
aggiuntiva di seggi” (ex art. 15, comma 13, della legge n. 108 del 1968)
più che a premiare (come avviene in Germania) i candidati come tali, mira
a garantire alla coalizione meglio piazzatasi una maggioranza più ampia di
quella già ottenuta nelle urne (che, poi, ci si limita qui a rilevare, un simile
meccanismo sia arduo da riportare a coerenza con un’eventuale previsione
statutaria fissa di seggi consiliari, emerge da Corte cost. sent. n. 188 del
2011).
Ad ogni modo, al di là dell’(eventuale) elezione “blindata” dei
componenti del “listino”, i candidati sono dichiarati eletti nell’ordine delle
preferenze ricevute.
Esaminato, dunque, nelle sue linee essenziali, il Tatarellum, deve ora
spostarsi l’attenzione sulla refrattarietà dimostrata, talvolta, dal legislatore
regionale, ad appropriarsi degli spazi d’intervento resi disponibili dalla
riforma: atteggiamento “attendista” che, peraltro, sembrerebbe in buona
parte da ascriversi alla difficoltà, sul piano “procedurale”, di soddisfare la
88 Lara Trucco
previsione di rango costituzionale del cd. “tandem procedurale”, costituito
dalla necessaria consequenzialità tra Statuto (prius) e legge elettorale
(posterius) (per cui, significativamente, v. Corte cost. sent. n. 45 del 2011).
Anche la resa tutto sommato congeniale alla realtà locale del regime
transitorio può aver, dal canto suo, disincentivato la messa a punto
tempestiva di una normativa autonoma (ciò che, del resto, parrebbe
confermato dall’appiattimento sul modello istituzionale statale, da parte di
pressoché tutti gli statuti regionali, non senza conseguenze di rilievo sul
sistema per l’elezione degli organi regionali).
Comunque sia, la stagione delle riforme elettorali regionali si è anche
contraddistinta per “turbolenze” d’altro genere, finite immancabilmente
sul tavolo della Corte costituzionale. In particolare (limitandoci a
menzionare le più significative):
– alcune questioni hanno riguardato il riparto di competenze tra fonte
statutaria e fonte legislativa nella disciplina della materia, trovando una
risposta talvolta più favorevole alla legge, come nel caso risolto dalla Corte
nel 2004, in cui si controverteva sul limite di due mandati per il presidente
eletto a suffragio diretto, muovendosi dalla considerazione per cui «in
questo quadro la fonte statutaria è chiamata a svolgere un ruolo
necessariamente ridotto, seppur significativo» (v. Corte cost. n. 2 del
2004); e, talora più propizia, invece, allo Statuto, per cui motivando in base
alla connessione con la forma di governo, il giudice costituzionale ha
ritenuto rientrare nella competenza della fonte statutaria aspetti più o meno
direttamente connessi alla materia elettorale, quali, ad es., la disciplina di
indizione delle elezioni (v. Corte cost. n. 196 del 2003), l’individuazione
del numero dei consiglieri regionali (v. Corte cost. n. 3 del 2006), il regime
della prorogatio degli organi regionali, nonché quello dello scioglimento
del consiglio e delle dimissioni del presidente ai sensi dell’art. 126 Cost.
(v. Corte cost. n. 196 del 2003, cit.);
– altre questioni hanno riguardato, invece, la competenza stessa dello
Stato o delle regioni a disciplinare determinati oggetti, esemplarmente,
aspetti procedurali delle elezioni regionali, sotto il profilo della “gestione”
del procedimento elettorale, con particolare riguardo all’esclusione o
all’ammissione di candidati e liste (v. Corte cost. n. 107 del 2010) mentre
l’attribuzione alla fonte statutaria della competenza a determinare il
numero dei consiglieri, emarginandone così la legge regionale, non può
non valere, a maggior ragione, nei confronti della legge statale stessa,
rendendo costituzionalmente dubbie iniziative come quelle recate dal d.l.
89
13 agosto 2011, n. 138 (conv. nella L. 14 settembre 2011, n. 148), per cui
(ex art. 14), anche se in una logica premiale, le regioni sono indotte ad
“adeguare, nell’ambito della propria autonomia statutaria e legislativa
(sic!), i rispettivi ordinamenti” in modo da ridurre il numero dei consiglieri
e degli assessori regionali.
Significativo è poi notare come si sia in qualche caso attribuito agli
organi di garanzia statutaria – anche della materia elettorale – non meglio
precisati compiti amministrativi inerenti lo svolgimento delle elezioni (v.,
ad es., l’art. 80, comma 3, dello Statuto abruzzese).
Per diverso profilo, ci si limita ad osservare come la giustizia elettorale
regionale abbia conosciuto un momento evolutivo importante con la sent.
n. 93 del 1965, che ebbe a dichiarare l’incostituzionalità, per difetto
d’imparzialità della procedura e del giudice, delle previsioni (del T.U. 16
maggio 1960, n. 570) che istituivano quali giudici elettorali delle elezioni
comunali gli stessi consigli (comunali). Pertanto, la materia, dopo talune
incertezze giurisprudenziali, veniva ripartita dalla legge n. 1147 al 1966 tra
giudice ordinario (ineleggibilità) e giudice amministrativo (operazioni
elettorali: dal 1971, i Tribunali amministrativi regionali). In tempi più
recenti, la Corte costituzionale è tornata sulla materia. Così, essa ha
dapprima rilevato, problematicamente, la mancanza di una normativa
idonea a garantire la risoluzione di controversie elettorali (nella fattispecie,
in tema di ineleggibilità) prima dello svolgimento delle elezioni, reputando
«evidentemente incongrua» la situazione giuridica ingeneratasi in quanto
incapace «di assicurare la genuinità della competizione elettorale» (v.
Corte cost., sent. n. 84 del 2006). E, quindi, portando alle estreme
conseguenze un tale orientamento giurisprudenziale, essa è pervenuta a
dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 83-undecies del T.U. n. 570
del 1960, «nella parte in cui esclude[va] la possibilità di un’autonoma
impugnativa degli atti del procedimento preparatorio alle elezioni,
ancorché immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli
eletti» (v. Corte cost., sent. n. 236 del 2010; cfr., altresì, per un diverso
approccio, sent. n. 257 del 2010).
Da ultimo, la materia è rifluita nel Codice del processo amministrativo
recato dal d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, che dedica al “Contenzioso sulle
operazioni elettorali” l’intero Titolo VI, confermandosi, in particolare, al
giudice amministrativo la “giurisdizione in materia di operazioni elettorali
relative al rinnovo degli organi elettivi dei Comuni, delle Province, delle
90 Lara Trucco
Regioni” (oltre che “all’elezione dei membri del Parlamento europeo
spettanti all’Italia”).
[…]
15. Il voto blindato del 2005
Sul terreno concreto, la situazione in punto di “fonti di
regolamentazione” dei sistemi di elezione per le politiche ha lasciato aperta
la porta alla possibilità che, una volta esauritasi, nel nostro Paese, la
stagione della proporzionale, nessun ostacolo di tipo formale abbia potuto
(e possa, a tutt’oggi) essere frapposto a mutamenti anche radicali della
sostanza del “patto costituente” (consacrato in quel principio orientatore,
di cui aveva inteso farsi garante l’ordine del giorno Giolitti), finendosi, con
ciò, tra l’altro, per destabilizzare gravemente i delicati equilibri su cui si
reggeva il nostro dettato costituzionale (anche in questo senso, del resto, si
parla autorevolmente di “Costituzione ferita”).
Il sistema elettorale, infatti, a dispetto della sua importanza, è rimasto in
balìa delle forze di “maggioranza” al potere, i) sul piano procedurale come
su quello ii) di ordine sostanziale, come ha contribuito a far emergere, in
modo tanto evidente quanto problematico, la legge n. 270 del 2005, che, a
tutt’oggi, reca i sistemi di elezione di Camera e Senato.
i) Sul piano procedurale la legge n. 270 del 2005, ha dato il via a un
dibattito a tutt’oggi non del tutto sopito in ragione del fatto che essa ha
introdotto un nuovo sistema elettorale nell’imminenza (appena quattro
mesi prima) delle elezioni.
Le argomentazioni a sostegno di questo tipo di politica elettorale si
basano su di un’interpretazione rigorosamente letterale del testo
costituzionale, facente perno sulla mancanza di norme specifiche inibenti
in Costituzione: sicché, non solo non potrebbe dedursi il divieto di
riformare il sistema elettorale alla vigilia delle elezioni, ma non sarebbe
nemmeno possibile, più in generale, individuare un momento astrattamente
“ideale” per varare una qualche riforma di tal tipo nel corso di tutta la
legislatura. A consigliare, ancora, riforme elettorali “all’ultimo minuto”
concorrerebbe la risalente idea dell’attitudine delle riforme in materia a
91
provocare una delegittimazione degli organi eletti sulla base delle
precedenti regole di elezione, innescando così uno scioglimento delle
Camere si direbbe “dovuto”, in modo tale da procedere ad una
“rilegittimazione” dell’organo sulla base dell’intervenuto mutamento del
quadro normativo.
Per contrastare, tuttavia, quest’ultima argomentazione, potrebbe dedursi
non solo e non tanto (si noti: anche qui) la mancanza di prescrizioni formali
in tal senso, quanto, soprattutto, la prassi costituzionale che, in chiave
storica, dimostrerebbe come la delegittimazione e il conseguente
scioglimento delle Camere siano state conseguenza esclusivamente del
mutamento della consistenza del corpo elettorale (in corso di progressiva
estensione per effetto delle stesse riforme elettorali; ma anche, ad es., nei
casi di allargamenti territoriali). Circostanza, questa, che è cosa diversa
dalla modifica delle regole inerenti al sistema di elezione in senso stretto,
per cui la latitudine della base elettorale resta invariata. Avverso riforme
elettorali “dell’ultimo minuto” potrebbero farsi altre, più generali,
considerazioni, fondantesi sul principio per cui in questa, probabilmente
più che in altre materie, sarebbe necessario procedere muniti di un “velo di
ignoranza”, al fine di favorire l’adozione di riforme corrispondenti
all’importanza degli interessi oggettivi in campo, nonché, in ultima analisi,
in vista di una resa adeguata della democrazia elettorale che si mira a
edificare.
ii) Quanto ai contenuti, deve subito osservarsi come lungi dal potersi
ritenere (come potrebbe forse far pensare il modo repentino della sua
approvazione) un prodotto inatteso, il sistema di elezione introdotto dalla
legge n. 270 del 2005 si sia radicato su di un terreno già in gran parte arato
sia a livello nazionale, sia in ambito locale e regionale (cfr., in special
modo, la legge reg. Toscana 15 dicembre 2004, n. 70). Tentando ora di
proporne un inserimento nel contesto del presente capitolo, deve rilevarsi,
anzi tutto, che l’impianto essenziale del sistema si presenta come
marcatamente proporzionale, basato, com’è, si noti, sia alla Camera, sia al
Senato:
– su di un sistema di votazione di tipo blindato (voto unico categorico
+ liste/coalizioni di liste bloccate);
– su collegi estesi; e
92 Lara Trucco
– su di una formula fortemente proiettiva, quale quella del quoziente
naturale e dei più alti resti (v. l’art. 83 del d.P.R. n. 361/1957, e nell’art. 17
del d.lgs. n. 533 del 1993, in cui è “confluito” il nuovo sistema), applicata
per l’attribuzione dei seggi tra le liste e le coalizioni di liste (se presenti)
sul piano nazionale per la Camera dei deputati e, nell’ambito delle singole
circoscrizioni (regionali, ex art. 57 Cost.), per il Senato.
Così, schematicamente, per l’assegnazione dei 617 seggi in palio (630
– 12 “seggi esteri” – 1 seggio “valdostano”) alla Camera dei Deputati,
il sistema prevede che (ex art. 83, T.U. n. 361 del 1957):
93
i) una volta determinati i voti validi delle coalizioni di lista/liste capa-
ce/i di superare le soglie multiple di sbarramento, si proceda al riparto dei
seggi tra le liste singole e le coalizioni di liste (se presenti) sul piano
nazionale in base alla formula del quoziente e dei più alti resti (e, in caso
di parità di resti, della maggiore cifra elettorale; e, a parità di quest’ultima,
del sorteggio). Più precisamente, si divide il totale delle cifre elettorali
nazionali di tutte le parti in lizza (coalizioni e liste singole), per il numero
dei seggi da attribuire, ottenendo così il quoziente elettorale nazionale, e si
divide poi la cifra elettorale nazionale di ciascuna coalizione di liste o delle
singole liste per tale quoziente: la parte intera del quoziente così ottenuta
indica il numero dei seggi teorico (o provvisorio) da assegnare a ciascuna
coalizione di liste, o singola lista, vincenti.
ii) A questo punto, si verifica se la coalizione di liste o la singola
lista
che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi abbia conseguito
almeno 340 seggi (cd. verifica maggioritaria).
iia) Qualora tale verifica dia esito positivo, si procede, per ciascuna
coalizione di liste, al riparto dei seggi tra le liste della coalizione in base
alla cifra elettorale nazionale di ciascuna lista della coalizione. A tal fine,
si divide la somma di tutte le cifre elettorali delle liste della coalizione per
il numero di seggi precedentemente individuato, ottenendosi il quoziente
elettorale di coalizione e, quindi, si divide la cifra elettorale nazionale di
ciascuna lista della coalizione per tale quoziente: la parte intera del
quoziente così ottenuta rappresenta, dunque, il numero dei seggi da
assegnare a ciascuna lista della coalizione. Per le liste singole, come è
evidente, tale risultato è già stato acquisito sub i).
– Il passo successivo è l’ulteriore dislocazione dei seggi assegnati
alle varie coalizioni di liste o singole liste a livello di singole circoscrizioni.
A tal fine, per ciascuna coalizione di liste, il totale delle cifre elettorale
circoscrizionali di tutte le liste della medesima coalizione è diviso per il
quoziente elettorale nazionale: in questo modo, si ottiene l’indice relativo
ai seggi da dislocare nella circoscrizione alla liste coalizzate.
Analogamente si procede per ciascuna lista: vale a dire, si divide la cifra
elettorale circoscrizionale della lista in questione per il quoziente elettorale
nazionale, ottenendo, così, l’indice relativo ai seggi da attribuire nella
circoscrizione alla lista medesima. Ciascuno degli indici così individuati
nella circoscrizione va, quindi, moltiplicato per il numero dei seggi
assegnati alla circoscrizione stessa: il prodotto di tale moltiplicazione va
94 Lara Trucco
diviso per la somma di tutti i suddetti indici, così che la parte intera dei
quozienti di attribuzione ottenuti rappresenta il numero dei seggi da
attribuire nella circoscrizione a ciascuna coalizione di liste o, a seconda dei
casi, di ogni lista non coalizzata.
– A questo punto, si effettua un’ulteriore verifica, accertandosi se il
numero dei seggi assegnati in tutte le circoscrizioni a ciascuna coalizione
di liste o singola lista corrisponde al numero dei seggi come più sopra
calcolato, procedendosi, in caso negativo, a riequilibrare la situazione
(secondo le modalità indicate dall’art. 83 del T.U., ovvero sulla base, in
sostanza, dei migliori risultati ottenuti).
– Il passo successivo prevede l’attribuzione, nelle singole circoscri-
zioni, dei seggi spettanti alle liste di ciascuna coalizione, applicandosi,
anche qui, il metodo del quoziente e dei più alti resti. Per la precisione, si
determina il quoziente circoscrizionale di ciascuna coalizione di liste
dividendosi il totale delle cifre elettorali circoscrizionali delle liste per il
numero di seggi assegnati alla coalizione nella circoscrizione, e si divide,
quindi, la cifra elettorale circoscrizionale di ciascuna lista della coalizione
per tale quoziente circoscrizionale: la parte intera del quoziente così
ottenuta rappresenta, dunque, il numero dei seggi da assegnare a ciascuna
lista. Successivamente, si accerta se il numero dei seggi assegnati in tutte
le circoscrizioni a ciascuna lista corrisponde al numero dei seggi ad essa
attribuito a livello nazionale, riequilibrandosi, altrimenti, tale esito
(secondo le modalità indicate dal precitato art. 83, ovvero sulla base, in
sostanza, anche qui, dei migliori risultati ottenuti).
iib) Qualora la verifica maggioritaria dia esito negativo, alla parte vin-
cente viene attribuito il numero di seggi necessario per poter disporre di
340 seggi alla Camera dei deputati. A questo punto, si procede, ancora una
volta, ad applicare il metodo del quoziente e dei più alti resti, col dividere
il totale delle cifre elettorali nazionali di tutte le liste della coalizione, o
della singola lista “di maggioranza”, per 340, al fine di calcolare il
quoziente elettorale nazionale di maggioranza.
Il passo successivo vede la ripartizione in maniera proporzionale dei
restanti 277 seggi tra le altre coalizioni di liste e liste “minoritarie”: a tal
fine, dapprima si divide il totale delle loro cifre elettorali nazionali per 277
[630 (totale seggi) – 340 (seggi premio) – 12 (seggi esteri) – 1 (seggio della
Valle D’Aosta)], ottenendosi, con ciò, il “quoziente elettorale nazionale di
minoranza”; e, quindi, si divide la cifra elettorale di ciascuna coalizione di
liste o singola lista per tale quoziente: la parte intera del quoziente ottenuta
95
indica, così, il numero di seggi da assegnare a ciascuna coalizione di liste
o singola lista.
– A questo punto, in presenza di coalizioni si deve effettuare
l’ulterio-re distribuzione “interna” dei seggi tra le liste che ne fanno parte
ammesse al riparto in applicazione del metodo del quoziente naturale e dei
più alti resti: utilizzando, però (qui), come dividendo, i voti della
coalizione e, come divisore, i seggi spettanti alla coalizione medesima
(come più sopra calcolati).
– Si procede, quindi, alla dislocazione nelle singole circoscrizioni dei
seggi assegnati alle varie coalizioni di liste, o singole liste, e, poi, infine,
all’attribuzione, nelle singole circoscrizioni, dei seggi spettanti alle liste di
ciascuna coalizione, nei modi che si son precedentemente visti, con
l’importante avvertenza che, qui, al posto del quoziente elettorale
nazionale, deve essere utilizzato il quoziente elettorale nazionale di
maggioranza per la coalizione di liste, o singola lista, che ha ottenuto il
maggior numero di voti validi e il quoziente elettorale nazionale di
minoranza per le altre coalizioni di liste o singole liste (“peggio arrivate”).
Al Senato, la logica del riparto dei 309 seggi (315 – 6 “seggi esteri”) è
analoga a quella dianzi vista, con l’importante differenza consistente
nell’assegnazione dei seggi al livello regionale, di cui s’è detto. Così, anche
qui, una volta determinati i voti validi delle coalizioni di lista/liste capace/i
di superare le soglie multiple di sbarramento, si procede al riparto dei seggi
tra le coalizioni di liste (se presenti) e le liste singole liste non coalizzate
sul piano nazionale in base alla formula del quoziente e dei più alti resti (e,
in caso di parità di resti, della maggiore cifra elettorale; e, a parità di
quest’ultima, del sorteggio). Più nel dettaglio (ex art. 17, T.U. n. 533 del
1993),
i) si procede ad una prima attribuzione provvisoria dei seggi tra le
coalizioni di liste e le liste non coalizzate, in base alla cifra elettorale
circoscrizionale di ciascuna. A tale fine, il totale delle cifre elettorali
circoscrizionali di ciascuna coalizione di liste, o singola lista, è diviso per
il numero dei seggi da attribuire nella regione, ottenendosi, così, il
quoziente elettorale circoscrizionale. La cifra elettorale circoscrizionale di
ciascuna coalizione di liste, o singola lista, è quindi divisa per il quoziente
elettorale circoscrizionale: la parte intera del quoziente così ottenuto
96 Lara Trucco
rappresenta il numero dei seggi da assegnare a ciascuna coalizione di liste,
o singola lista.
Si effettua, poi, la cd. verifica maggioritaria di livello regionale,
accertando se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il
maggior numero di voti validi espressi nell’ambito della circoscrizione
abbia conseguito almeno il 55% dei seggi assegnati alla regione.
iia) Nel caso in cui la verifica dia esito positivo, nell’ambito di ciascuna
coalizione di liste collegate, tra le liste “ammesse”, si procede al riparto dei
seggi come in precedenza determinati. A tal fine, per ciascuna coalizione
di liste la somma delle cifre elettorali circoscrizionali delle liste ammesse
al riparto è divisa per il numero di seggi come individuato, ottenendosi,
così, il relativo quoziente elettorale di coalizione. La cifra elettorale
circoscrizionale di ciascuna lista viene quindi divisa per tale quoziente: la
parte intera del quoziente così ottenuta rappresenta il numero dei seggi da
assegnare (a ciascuna lista).
iib) Nel caso in cui la verifica dia invece esito negativo, alla coalizione
di liste, o alla singola lista che abbia ottenuto il maggior numero di voti,
viene assegnato un numero di seggi ulteriore necessario per raggiungere il
55% dei seggi assegnati alla regione.
Anche qui, gli altri seggi sono ripartiti tra le coalizioni di liste o singole
liste “di opposizione”. Si procede, infatti, alla divisione del totale delle
cifre elettorali rispettive per il numero dei seggi restanti, ottenendosi il
quoziente elettorale circoscrizionale di minoranza. Si divide, poi, la cifra
elettorale circoscrizionale di ciascuna coalizione di liste o singola lista per
quest’ultimo quoziente: la parte intera del risultato così ottenuto
rappresenta il numero dei seggi da attribuire a ciascuna coalizione di liste
o lista singola.
Per ciascuna coalizione si procede, quindi, al riparto interno tra le liste
dei seggi ad essa spettanti. A tale fine, per ciascuna coalizione di liste, il
totale delle cifre elettorali circoscrizionali delle liste ammesse al riparto è
diviso per il numero dei seggi ad essa spettanti. Si divide, quindi, la cifra
elettorale circoscrizionale di ciascuna lista per quest’ultimo quoziente: la
parte intera del risultato così ottenuto rappresenta il numero dei seggi da
attribuire (a ciascuna lista).
A questo punto, vengono proclamati eletti, nei limiti dei seggi ai quali
ciascuna lista ha diritto, i candidati compresi nella lista medesima, secondo
l’ordine di presentazione.
97
Va, ora – e conclusivamente – osservato come la fisionomia dell’esito
elettorale risulti profondamente incisa (fino al punto da essere stravolta)
dai già ricordati meccanismi “maggioritarizzanti”, consistenti:
a) nella clausola di sbarramento (rectius: negli sbarramenti “a soglia
multipla”); e;
b) nel premio di maggioranza.
In particolare, va sottolineata l’idoneità dell’“azione combinata” dei due
meccanismi (sub a) e sub b)) ad esaltare la tendenza selettiva del sistema
elettorale, secondo quello che potrebbe denominarsi (se ci si passa
l’espressione) il “meccanismo del fotomontaggio”. Esso, infatti, si
dispiega attraverso due fondamentali momenti:
I) una successione di “ritocchi” fino a pervenire al risultato ritenuto
maggiormente “fotogenico”: là dove, a ripulire lo sfondo, provvede, come
si è già accennato, la singolare azione di vari tipi di clausole di sbarramento
(cd. sbarramenti “a soglia multipla”); e, quindi, ad affinare ulteriormente
le fisionomie così ottenute, la via al recupero di particolari dettagli.
Recupero che è, soprattutto, reso possibile attraverso la previsione di una
serie di “eccezioni” ai predetti meccanismi di sbarramento (cd. “soglie
scontate”). Su questa base, sono ammesse alla ripartizione dei seggi per la
Camera solo (ex art. 83, del d.P.R. n. 361 del 1957):
– le coalizioni che abbiano raggiunto almeno il 10% del totale dei
voti validi e, al loro interno, le liste che abbiano ottenuto il 2% dei voti;
– le liste rappresentative di minoranze linguistiche con almeno il
20% dei voti della circoscrizione;
– la lista (nell’ambito, se presente, di ciascuna coalizione) che abbia
conquistato più voti tra quelle che non hanno conseguito il 2% dei voti
(cd. miglior perdente); nonché
– le liste che, pur non facendo parte di alcuna coalizione, abbiano
avu-to almeno il 4% dei voti a livello nazionale.
E, al Senato (ex artt. 16 e 17, del d.lgs. n. 533 del 1993):
– le coalizioni che non arrivano a prendere il 20% voti e che non
contengano “almeno una lista collegata che abbia conseguito sul piano
regionale almeno il 3% dei voti validi espressi”, fatte salve le liste delle
medesime coalizioni che abbiano comunque attinto alla soglia dell’8%;
nonché
– le liste non coalizzate che non abbiano conseguito almeno l’8% dei
voti validi espressi;
98 Lara Trucco
II) a questo punto, a dare luce alle figure principali subentra la seconda
fase di applicazione del sistema, più sopra descritta, con la previsione
dell’attribuzione del premio di maggioranza alla parte politica vincente,
con tutte le (ulteriori) problematicità di cui s’è ragionato, che tale
technicality presenta.
16. Segue. Dal “premio alla maggioranza” del 1953 al “premio di
maggioranza” del 2005: “a volte ritornano …”
Proprio la technicality da ultimo chiamata in campo, in ragione vuoi
della sua attuale estensione nel panorama italiano dei sistemi elettorali,
vuoi della sua decisività in punto di rapporti di forza nell’ambito delle
assemblee rappresentative, ci pare che meriti di essere ulteriormente
approfondita.
Interessante, infatti, è notare come – dopo avere trovato impiego nella
legge elettorale Acerbo – essa, in epoca repubblicana, sia stata
“rivitalizzata” dalla legge del 31 marzo 1953, n. 148 (denominata “legge
truffa” da parte delle formazioni politiche rimaste soccombenti nella
“battaglia parlamentare”), che le diede la luce.
Rinviando ai numerosi studi che si sono occupati specificamente della
vicenda, ci limitiamo qui a considerare come, sotto il profilo strettamente
tecnico, la legge del 1953 avesse predisposto l’attribuzione di un premio di
maggioranza, a livello nazionale, pari a 380 seggi (sui 590 di cui si
componeva la Camera dei deputati) alla lista o alle liste apparentate che
avessero (già) conquistato la metà più uno dei voti validamente espressi
(cd. premio di consolidazione). Anche se, poi, com’è ben noto, nelle
elezioni politiche che si svolsero sotto la sua vigenza, a nessuna
formazione riuscì di raggiungere la predetta maggioranza, necessaria a
farlo scattare (a quel punto, il premio fu “cancellato” dalla legge n. 615 del
31 luglio 1954).
Su questa base, anche senza voler considerare le problematicità di
carattere generale già in precedenza segnalate è stato in qualche modo
giocoforza rilevare come, a differenza delle precedenti normative elettorali
italiane degli anni Venti e Cinquanta, che si erano comunque premunite di
stabilire un qualche quorum per l’attivazione del premio, la legge del 2005
99
non abbia manifestato un’attenzione analoga. Rendendo con ciò possibile
– come messo problematicamente in luce, tra l’altro, dallo stesso giudice
costituzionale (v. Corte cost. nn. 15 e 16 del 2008 e n. 13 del 2012) – che
una maggioranza anche del tutto esigua e/o solo apparentemente più
compatta delle altre, si “trasformi”, per così dire, ex lege, in una
maggioranza assoluta di seggi (cd. premio di maggioranza “generico”).
Ma, oltre a questo, altri profili del meccanismo premiale congegnato
dalla legge n. 270 del 2005 sono stati oggetto di critiche puntuali: così, in
estrema sintesi:
– il computo dei voti rilevanti in vista del calcolo della forza politica
maggioritaria a cui elargire il premio (precisamente: la previsione, da un
lato, dell’esclusione dal computo dei voti dei cittadini italiani residenti
all’estero e di quelli necessari ad eleggere il deputato della Valle D’Aosta;
e, dall’altro lato, la rimessa in gioco, nella contabilizzazione dei voti
riportati dalle liste collegate, anche di quelli delle liste escluse per non aver
attinto la soglia di sbarramento);
– la sua consistenza (340 seggi su 630, pari a circa il 54% dell’intera
assemblea), considerata eccessiva.
– Soprattutto, la tornata elettorale del febbraio 2013 ha messo in luce
una caratteristica del premio su cui, fino a quel punto, s’era ragionato, per
lo più, da un punto di vista puramente matematico, ovverosia l’inattitudine,
per così dire, “strutturale” del meccanismo premiale previsto per l’elezione
del Senato a conseguire l’obiettivo per cui è stato predisposto.
L’attribuzione del premio su base regionale invece che nazionale è, infatti,
all’origine di disallineamenti non certo remoti delle maggioranze tra i due
rami del Parlamento: ipotesi, questa, vista con una certa preoccupazione,
specie da chi ritiene che il bicameralismo paritario imponga anche
un’omogeneità politica tra le due assemblee e, d’altro canto, non risolutiva
la previsione (non a caso, salita agli onori della cronaca, all’indomani
dell’introduzione del vigente sistema elettorale per le politiche) dell’art.
88, comma 1, Cost., di scioglimento di «anche una sola» delle due Camere.
Inoltre, se, già in presenza di due coalizioni, è possibile che, in forza delle
“compensazioni premiali” tra le Regioni (dovute, per l’appunto,
all’elargizione del premio su base regionale), si produca un sostanziale
annullamento della portata complessiva del premio stesso, in presenza di
più di due coalizioni (di un certo peso politico, s’intende), risulta del tutto
improbabile che una stessa formazione politica riesca ad acquisire la
100 Lara Trucco
maggior parte dei premi regionali e, conseguentemente, dei seggi
parlamentari.
L’emersione del premio, a queste condizioni, lungi dall’esser «la
regola», finisce, dunque, per costituire un evento remoto, se non addirittura
eccezionale. Ciò che è tanto più vero, se solo si pensa che le probabilità
che si presentino casi del genere sono destinate a crescere di pari passo
all’aumentare dell’offerta elettorale: segnatamente, al numero di coalizioni
in lizza. Fin qui, succintamente, un quadro diagnostico che è sotto gli occhi
di tutti. Se si condivide, poi, la prognosi per cui il numero di parti
(coalizzate) in competizione tenderà all’aumento o, comunque, quanto
meno, alla stabilità (piuttosto che alla riduzione), con la possibilità in tutti
i casi di “dispersioni” dei premi regionali, sembra ormai pressoché
obbligata una revisione del meccanismo premiale in questione. Se, poi, ciò
avvenisse (per conservare la metafora), secondo i migliori “protocolli”, in
collegamento, cioè, con le riforme tese a modernizzare il sistema
istituzionale, potrebbe, forse, essere finalmente propiziata la
“normalizzazione” del Paese.
– In un’ottica di stretto pragmatismo politico, poi, s’è dubitato del-
l’idoneità dello stesso meccanismo premiale a rinforzare la coesione della
maggioranza “di governo”, considerandosi l’attitudine dei seggi premio a
produrre maggioranze del tutto artificiose, in quanto create pour l’espace
d’un matin, con lo specifico intento elusivo delle parti in lizza di ottenere
il beneficio in questione, già mettendo in conto il – del resto, consentito –
“ritorno”, non appena conclusasi l’elezione, all’identità politica originaria.
In quest’ottica, dunque, lungi dal basarsi su (e favorire il comporsi di)
visioni politiche e programmi di governo solidamente condivisi, il premio
potrebbe funzionare vuoi da incentivo alla presentazione di liste, le più
svariate e numerose, ed alla formazione di maggioranze parlamentari, le
più eterogenee e labili, per lucrare poi le rendite di posizione inerenti alla
partecipazione al cartello elettorale che ha vinto le elezioni; vuoi, in
controtendenza rispetto alla sua ratio, come uno strumento di pressione
dato che (come si diceva, in mancanza di congegni idonei a garantire una
qualche conservazione delle alleanze pre-elettorali) potrebbe rivelarsi
addirittura conveniente, per qualunque forza politica “di maggioranza”
(anche se di scarso rilievo), non solo far pesare oltre misura “il contributo
partecipativo” al risultato dell’elezione (si pensi, ad es., a quanto avvenuto
durante il “quarto Governo Berlusconi”), ma anche ventilare la minaccia
101
di (e, nei casi estremi, attivare) crisi di governo (si pensi, ad es., a quanto
avvenuto durante il “secondo Governo Prodi”).
Più in generale, ci pare che meriti di essere meditata la reale idoneità
della predisposizione soltanto e semplicemente di strumenti di “ingegneria
istituzionale” a condurre “immediatamente” al conseguimento di obiettivi
assai articolati e profondi nella loro essenza. Approdi che, nel presupporre
il possesso e la sussistenza di un sostrato culturale democratico nonché, ad
oggi, di determinate competenze, possono necessitare, a seconda del
formato politico con cui si ha a che fare, di una ben più complessa e delicata
opera di messa a punto di strumenti concernenti l’intero sistema
costituzionale. In quest’ottica, la scelta di sovraccaricare il sistema
elettorale di aspettative di governabilità, specie in un’ottica di breve
periodo, può apparire la più agevole da percorrere, ma non è priva di
criticità, potendo rivelarsi illusoria l’idea di dar vita, per il solo tramite di
meccanismi elettorali, ad una qualsiasi maggioranza che nella realtà non si
è spontaneamente e fisiologicamente formata.
Compete, infatti, primariamente alle regole sulla forma di governo
(nonché, più nello specifico, sull’organizzazione ed il funzionamento
dell’assemblea) intervenire al riguardo, laddove ai sistemi di elezione
spetta, fondamentalmente, di salvaguardare (si precisa, al di là della natura
selettiva o proiettiva che s’intenda conferire loro) il carattere
rappresentativo dell’assemblea, assicurando, in particolare, una certa
capacità di incidenza del voto individuale sulla scelta finale degli eletti.
Il rischio, altrimenti, è che possa perpetuarsi uno dei principali “nodi
irrisolti” fin dall’epoca della Costituente: quello, per l’appunto,
concernente la “debole razionalizzazione” della nostra forma di governo.
In quest’ottica, la scelta della “Commissione di saggi” (v. la Relazione
presentata il 30 marzo 2013, di cui si riporta uno stralcio in Appendice) di
valorizzare le interrelazioni tra sistema di elezione e forma di governo
colpisce senza meno nel segno. Ci pare, peraltro, che, in vista della riforma
del sistema elettorale, una tale prospettiva andrebbe ora, per così dire,
completata con l’esame più attento della “forma di stato”. Ciò che è tanto
più vero specie per chi condivida l’idea che l’opzione maggioritaria
piuttosto che quella proporzionalista (o “mista”), lungi dal poter costituire
semplicemente il risultato di una scelta di tipo “ingegneristico”, necessiti,
specie nel lungo periodo, di radicarsi sul piano sociale, costituendo l’esito
di un approccio di tipo, per così dire “ambientale”, attento, in particolare,
alla domanda sociale che richiede di vedersi (adeguatamente)
102 Lara Trucco
rappresentata. In una tale prospettiva “relativista” può, anzi, pensarsi che
non solo non ci sia e non ci possa essere un sistema in assoluto “migliore”
(a prescindere, cioè, dalle caratteristiche del formato “rappresentato”), ma
anche, per diverso profilo, che lo stesso sistema elettorale (per quanto ben
costruito) perda la sua fondamentale funzione di collettore delle domande
sociali, pretendendo di irrigidire eccessivamente le dinamiche politiche ed
istituzionali; con il rischio, in particolare, che i gruppi ai quali è reso
difficoltoso l’accesso alla rappresentanza inneschino la miccia della
sopraffazione di una parte di società sull’altra, con quanto ne consegue
riguardo ai rischio di provocare, nei casi estremi, crisi di regime.
Ebbene la presa d’atto delle caratteristiche della società italiana (che, ci
sembra, lungi dal potersi dire “omogenea”, risulta, tutt’oggi percorsa da
importanti fratture sociali) ci porta a concludere per l’opportunità, de iure
condendo, di delineare la fisionomia del sistema elettorale (e più
ampiamente ordinamentale) in direzione tendenzialmente “proiettiva” o, al
più, moderatamente selettiva. De iure condito, poi, è ineludibile riproporre
le tesi di coloro i quali, già all’alba della Repubblica, avevano tenuto ad
evidenziare l’importanza dei punti di contatto della trama costituzionale
col principio proporzionalista considerandolo il “preferito” ed, anzi il
principio posto alle fondamenta dell’edificio ordinamentale dalle forze
politiche che avevano sottoscritto il patto costituente: nella consapevolezza
(appunto) dell’idoneità di quel principio a garantire il coinvolgimento, nel
sistema costituzionale, di tutte le forze politiche democratiche in campo.
Se ciò, poi, non bastasse, la situazione generatasi all’indomani della “svolta
maggioritaria” ha fatto emergere, in modo per certi versi paradossale, più
nitidamente che per l’innanzi anche le implicazioni sistemiche di tale
opzione, al punto, ci pare, da corroborare, anche dal punto di vista
sostanziale, la tesi ad essa favorevole.
Non stupisce, pertanto, che, a fronte della concreta aspettativa di una
palingenesi del versante politico, si sia fatta, se possibile, ancora più
avvertita l’esigenza di riforme istituzionali, che, anzi, la più attenta dottrina
ebbe antesignanamente ad indicare come affatto pregiudiziali (come, del
resto, sarebbe stato, si noti, a livello regionale, dove, come s’è visto, la
conformazione della “forma di governo” da parte degli statuti deve di
necessità precedere quella del sistema di elezione da parte delle leggi
elettorali regionali) per un’evidente esigenza logica alla riforma elettorale.
E, ciò, appunto, nella consapevolezza del rischio, divenuto realtà, che il
mancato “aggiornamento”, rispetto alla “svolta maggioritaria” della Carta
103
fondamentale, potesse introdurre un accompagnamento musicale
dissonante, finendo per stravolgerne i delicati equilibri armonici, ed in
fondo tradire il motivo che, in origine, aveva ispirato il suo compositore.
17. Quid est del voto?
Alla luce delle precedenti considerazioni, se sembra lecito osservare
come nel meccanismo elettorale del 2005 ben poco sia lasciato al caso,
pare anche di potersi concludere – del resto, in questo forse più che in altri
settori, tout se tient – sul risicato ruolo riconosciuto all’elettore. Sotto
entrambi i profili non può allora non richiamarsi il pensiero espresso dalla
Corte costituzionale nella sent. n. 4 del 2010 sulla necessità che il
legislatore non «prefiguri», in qualche modo, il risultato elettorale,
«alterando forzosamente la composizione dell’assemblea elettiva rispetto
a quello che sarebbe il risultato di una scelta compiuta dagli elettori in
assenza della regola contenuta nella norma». Da questo punto di vista, il
sistema recato dalla legge n. 270 del 2005 potrebbe, dunque, “salvarsi”
solo sottolineandosi il fatto che almeno l’identità della lista o (come più
probabile) della coalizione meglio classificate nella competizione sia
decisa, da un punto di vista matematico, dagli elettori, laddove il fatto che
queste ultime si trasformino anche in forze di governo può esser dovuto,
invece, ai meccanismi premiali della legge.
Ma, di quale decisione degli elettori, in realtà, si tratta?
Se, a questo punto, può dirsi che (senza voler qui prendere in
considerazione altri importanti fattori d’impatto, come, ad es., le
dimensioni dell’arena parlamentare) è, soprattutto dall’applicazione del
sistema di assegnazione dei seggi che la capacità di incidenza del voto
risulta “conformata”, è allora possibile osservare come il sistema
attualmente vigente in Italia tenda a emarginarne ogni pratica valenza.
Così, al di là della problematicità presente già “in partenza”, data la
risicata capacità di scelta da parte dell’elettore, in quanto coincidente
con l’espressione di un solo suffragio volendosi procedere ora “a
ritroso”:
– un primo fattore capace di causare un “annacquamento” della
valenza del voto individuale è la forma particolarmente intensa di “voto
fuso”, vale a dire la traslazione del voto dato dagli elettori “alla lista”
(dunque, in concreto, ai singoli partiti) in favore, indistintamente, se
104 Lara Trucco
presenti, delle coalizioni a cui le liste eventualmente appartengano (tra le
quali, del resto, come s’è visto, vengono ripartiti in prima battuta i seggi);
– inoltre, un’ulteriore diluizione del rapporto che l’elettore intrattiene
con la sua stessa intenzione di voto, al punto da poter arrivare a
comprometterne il libero esercizio (inteso come possibilità di valutare
appieno la portata e il significato della propria scelta), si deve al congegno
delle cd. candidature plurime e della correlata, eventuale, opzione, da parte
del candidato, del collegio in cui essere eletto (basti dire che tale
meccanismo in occasione delle elezioni politiche del 2006 ha presentato
quasi trecento casi di opzioni concatenate (!));
– ancora, un aspetto critico è stato (per vero, agevolmente)
individuato nel fatto che, in luogo dell’elezione sia intervenuta la “nomina”
dei parlamentari, in quanto prescelti da una ristrettissima cerchia di
persone (e, cioè, in concreto, i dirigenti politici di partito che compilano le
liste), separandosi, per di più, le candidature – e, dunque, gli “eletti” –
rispetto alla “terra” di elezione, con un percepibile stress delle norme
costituzionali concernenti la libertà del mandato parlamentare (ex art. 67
Cost.);
– si rammenti, inoltre, come il ricorso ad un voto così “etero diretto”
possa avere forse qualche plausibilità, a condizione sia di una sua
circoscritta applicazione (nello spazio e/o nel tempo), sia di una certa
compensazione di quanto l’elettore “perde” sul piano del valore funzionale
del suo voto, attraverso la predisposizione di altri “meccanismi di
recupero” (ad es. primarie democratiche). Ebbene, poiché è difficile, oggi,
in Italia, rinvenire tali condizioni, ampia parte della dottrina (e dello stesso
mondo politico) ritiene di non poter sfuggire alla conclusione che il sistema
elettorale contraddica gravemente i principi di libertà e di eguaglianza del
suffragio, che sono tra le condizioni fondamentali e irrinunciabili della
democrazia stessa.
Le predette considerazioni rendono, dunque, più agevole la lettura di
talune recenti iniziative propositive e di contrasto nei confronti dell’attuale
assetto della legislazione elettorale: tra le prime, più proprie delle forze
politiche di opposizione, si segnalano proposte di riforma funditus del
sistema (di tipo misto alla tedesca, maggioritario a due turni alla francese,
ecc.); tra le seconde, maggiormente trasversali alla società civile, spiccano
le iniziative referendarie tese, in via spiccatamente manipolativa, a
resuscitare il precedente mattarellum (cfr., al proposito, i due quesiti
105
depositati in Cassazione l’11 luglio 2011 e, per quanto riguarda iniziative
precedenti).
Sul piano istituzionale, nell’ultimo scorcio della XVI Legislatura, è
emersa l’ipotesi di innesco di una crisi di governo, col conseguente
comporsi di un “esecutivo tecnico”, chiamato ad agire, in particolare,
proprio per mettere mano ad un nuovo sistema di elezione per le politiche.
Che, peraltro, quella testé menzionata non abbia costituito una novità nel
panorama politico italiano, è dato di vedere dal fatto che, già all’indomani
della caduta del “Governo Amato I” (nell’aprile del 1993), l’allora
Presidente della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro) aveva optato per la
formazione di un esecutivo “tecnico” (presieduto da Carlo Azeglio
Ciampi), incaricato, proprio di mettere mano alla riforma della legislazione
elettorale politica.
Nel 2008, poi, durante la crisi del Governo Prodi (aperta dopo la sfiducia
del Senato), il Presidente della Repubblica (Giorgio Napolitano), avviate
le consultazioni, aveva conferito a Franco Marini l’incarico di verificare le
possibilità di consenso su un progetto di «riforma della legge elettorale» e
«di sostegno ad un Governo funzionale all’approvazione di tale riforma»
(v. il Comunicato della Presidenza della Repubblica del 30 gennaio 2008):
compito destinato, evidentemente, all’insuccesso, considerato l’emergere,
ben presto, dell’impossibilità di dar vita a una maggioranza «che
concordasse in particolare» proprio, si noti, «sull’approvazione in tempi
brevi di una riforma della legge elettorale» (v. la Dichiarazione del
Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dopo la firma del decreto
di scioglimento delle Camere, del 6 febbraio 2008).
Ma a ben vedere, è stato l’intero settennato ad essersi contraddistinto
per una particolare attenzione, che ha preso forma in ripetuti moniti
(rimasti, all’evidenza, inascoltati) lanciati dal Presidente Napolitano alle
forze politiche parlamentari, circa l’indifferibile necessità di una riforma
del sistema di elezione. Ci si limita qui a richiamare l’attenzione sulla
“missiva” (del 9 luglio 2012), inviata ai Presidenti delle Camere, con cui il
Capo dello Stato sollecitò i gruppi parlamentari alla «presentazione in
Parlamento di una o più proposte di legge elettorale, anche rimettendo a
quella che sarà la volontà maggioritaria delle Camere la decisione sui punti
che non risultassero oggetto di più larga intesa preventiva e rimanessero
quindi aperti ad un confronto conclusivo»; e su quella al Presidente del
Senato (del 12 ottobre 2012), in cui tornò a considerare positivamente la
proposizione formale di un concreto progetto di nuova legge elettorale.
106 Lara Trucco
Vero è, poi, che, nelle battute finali del mandato, la necessità di
mantenere una certa “compattezza” delle forze parlamentari ha indotto il
Capo dello Stato a retrocedere sul tema, trattenendosi da possibili “inviti”
all’esecutivo di occuparsi della materia (ci si riferisce, specificamente, alle
vicende occorse dopo che la situazione di “stallo” nell’azione di governo
determinatasi nel corso della Legislatura e l’urgenza di varare
provvedimenti impopolari avevano portato lo stesso Capo dello Stato a
nominare Monti, dapprima, senatore a vita, precostituendo, così, una sorta
di “estraniamento” della sua persona da possibili condizionamenti
dell’elettorato e, quindi, per l’appunto, capo dell’esecutivo). Tuttavia, va
subito ricordato come, in occasione del giuramento reso (il 22 aprile 2013)
per il secondo mandato, lo stesso Giorgio Napolitano ha definito
“imperdonabile” la mancata riforma elettorale, dimostrando di ritenere
improrogabile un intervento del legislatore in materia.
107
IV IL SISTEMA ELETTORALE “ITALICUM-BIS”
ALLA PROVA DELLA SENTENZA DELLA
CORTE COSTITUZIONALE N. 1 DEL 2014
1. Premessa
Si intende ora proporre, alla luce della già memorabile sentenza della
Corte costituzionale n. 1 del 2014, una lettura della proposta di legge (A.C.
3-bis-B), recante “disposizioni in materia di elezione della Camera dei
deputati”, approvata, con modifiche dal Senato, il 27 gennaio 2015 ed ora
all’esame di questo ramo del Parlamento.
Cercherò, in particolare, di mettere a fuoco i principali elementi
caratterizzanti il nuovo sistema elettorale della Camera (che denominerò
“proposta-bis“ o “Italicum-bis”), di cui costituisce ora potente sintesi l’art.
1 del testo (introdotto, notoriamente, nel corso della discussione in
Assemblea al Senato, dal cd. “emendamento Esposito”) in comparazione
con la proposta (v. il d.d.l. S. 1385) approvata da questo stesso ramo del
Parlamento, in prima lettura, il 12 marzo 2014 (che per comodità
espositiva chiamerò “prima proposta“ o semplicemente “Italicum”).
Mi concentrerò, in realtà, solo sul sistema di elezione in senso stretto
considerato (dunque, sui meccanismi, normativamente previsti, che
regolano il procedimento di articolazione delle preferenze individuali in
voti e la conversione dei voti in seggi), mentre resteranno fuori dalla mia
analisi altri profili, pure molto interessanti, contenuti nella “proposta-bis“
concernenti la materia elettorale più ampiamente considerata (come, ad es.,
le norme concernenti il “procedimento elettorale preparatorio” e quelle sul
“voto dei cittadini temporaneamente all’Estero”), meritevoli di una
trattazione a parte. Ancora più nello specifico, porterò la mia attenzione
solo sul sistema per l’elezione della Camera dei deputati, dal momento che,
com’è noto, quest’ultima Assemblea (nella seduta dell’11 marzo) ha
stralciato il sistema di elezione del Senato dalla bozza di riforma elettorale,
preso atto dell’avvio, nell’altro ramo del Parlamento, del d.d.l. cost. di
riforma – particolarmente e proprio – del sistema di reclutamento dei
108 Lara Trucco
senatori; e considerato che, comunque, il testo base della riforma elettorale
proponeva un sistema analogo per l’elezione di entrambe le Camere.
Inoltre, terrò presente il regime elettorale speciale previsto per il
Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta. Per diverso, ma connesso profilo,
terrò conto della sola elezione dei 618 “rappresentanti dei cittadini italiani
residenti in Italia”, dato che per l’elargizione dei 12 seggi “esteri”
continuerà a valere un regime elettorale specifico, delle cui criticità s’è già
ragionato in passato, e la cui riforma, tuttavia, al momento, non risulta
contemplata tra i punti all’ordine del giorno.
I
IL SISTEMA DI VOTAZIONE
2. Circoscrizioni e collegi (multilivello), liste (variabili) di candidati
e possibilità (parziale) di candidature multiple
2.1. Tra le principali novità della “proposta-bis“ (Italicum-bis) di
riforma del sistema di elezione della Camera dei deputati rispetto alla
situazione vigente vi è certamente, sul versante del disegno di collegi e
circoscrizioni e del sistema di votazione ad esso connesso, la previsione,
ai fini della presentazione delle liste di candidati, della sostituzione delle
attuali 27 circoscrizioni con la suddivisione del territorio nazionale in 20
circoscrizioni elettorali. Ciò da cui conseguirebbe (come rileva nello
schema che segue) un ampliamento dell’elemento circoscrizionale (il cui
disegno verrebbe a corrispondere perfettamente coi confini delle regioni),
rispetto alla situazione attuale (che vede la contestuale presenza di
circoscrizioni regionali e di circoscrizioni “infraregionali” nelle sei regioni
più popolose), con un certo “allentamento” del rapporto di rappresentanza
tra elettori ed eletti, a cui peraltro pone rimedio quanto si dirà appresso.
SITUAZIONE VIGENTE
PROPOSTA ITALICUM-BIS
CIRCOSCRIZIONE N.
SEGGI
CIRCOSCRIZIONE N.
SEGGI
1. Emilia-Romagna 45 1. Lombardia 101
2. Lombardia 2 45 2. Campania 60
3. Lazio 1 42 3. Lazio 57
109
4. Puglia 42 4. Sicilia 52
5. Lombardia 1 40 5. Veneto 51
6. Toscana 38 6. Piemonte 46
7. Campania 1 32 7. Emilia-Romagna 45
8. Veneto 1 31 8. Puglia 42
9. Campania 2 28 9. Toscana 38
10. Sicilia 2 27 10. Calabria 20
11. Sicilia 1 25 11. Sardegna 17
12. Piemonte 1 23 12. Liguria 16
13. Piemonte 2 22 13. Marche 16
14. Veneto 2 20 14. Abruzzo 14
15. Calabria 20 15. Friuli-Venezia
Giulia
13
16. Sardegna 17 16. Trentino-Alto
Adige
11
17. Lombardia 3 16 17. Umbria 9
18. Liguria 16 18. Basilicata 6
19. Marche 16 19. Molise 3
20. Lazio 2 16 20. Valle d’Aosta 1
21. Abruzzo 14
22. Friuli-Venezia Giulia 13
23. Trentino-Alto Adige 11
24. Umbria 9
25. Basilicata 6
26. Molise 3
27. Valle d’Aosta 1
TOTALE 618 TOTALE 618
MEDIA: 22,9 MEDIA: 30,9
Nell’ambito delle suddette 20 circoscrizioni, l’Italicum-bis, prevede il
disegno di 100 collegi plurinominali, ciascuno corrispondente, in linea di
massima, al territorio delle province (art. 1, c. 1, lett. a)). Questi ultimi
andrebbero quindi a rimpiazzare i 120 collegi elettorali che secondo la
“prima proposta“ di Italicum avrebbero dovuto sostituire, come si diceva,
le attuali, 27 circoscrizioni elettorali.
Come avremo modo di meglio vedere nel prosieguo (v., infra, il §6), la
previsione di un tale duplice livello (circoscrizionale-collegiale) incide
indubbiamente – e, per certi versi, in maniera determinante – al momento,
finale, dell’applicazione della formula elettorale e dell’effettiva
assegnazione dei seggi; tuttavia, è opportuno mantenere ora la nostra
attenzione sulle interrelazioni che il ridetto disegno dell’elemento
circoscrizionale intrattiene col (più ampio) sistema di votazione.
A questo riguardo, una delle principali novità di entrambe le versioni
dell’Italicum rispetto al sistema dichiarato illegittimo dalla Corte
costituzionale (con la sent. n. 1 del 2014) è data dalla previsione – proprio
110 Lara Trucco
in forza, da un lato, della sostituzione delle precedenti grandi circoscrizioni
con circoscrizioni più ridotte e, nel caso dell’Italicum-bis, di collegi
elettorali di più piccole dimensioni e di una stretta interrelazione tra
ammontare di seggi da assegnare e numero di candidature da mettere in
lista – in luogo delle precedenti liste composte da decine di candidati (tanto
da esser denominate “liste lenzuola”), di liste tendenzialmente brevi
(comunque più “corte” rispetto a quelle introdotte dalla legge n. 270 del
2005).
Detto ciò, dal confronto tra i testi approvati, in prima lettura,
rispettivamente, dalla Camera e dal Senato, rileva (v. la tabella che segue)
il fatto che mentre nella prima versione dell’Italicum (laddove si fosse
optato per il numero più alto di collegi) ogni lista sarebbe risultata
composta da un massimo di sei candidati (del resto, anche volendo fare un
calcolo molto approssimativo: 618/120=5,15), nell’Italicum-bis le liste
sarebbero più lunghe, potendo contare fino a nove candidature (anche qui,
facendo un calcolo a spanne: 618/100=6,18).
ITALICUM
(PRIMA PROPOSTA)
ITALICUM-BIS
CIRCOSCRIZION
E
N.
SEG
GI
N.
COLLE
GI
PLURI
NOM.
N.
MEDIO
SEGGI
PER
COLLE
GIO
N.
SEG
GI
N.
COLLE
GI
PLURIN
OM.
N.
MEDIO
SEGGI
PER
COLLE
GIO
1. Lombardia
101 20 5,1 101 17 5,9
2. Campani
a
60 12 5 60 10 6
3. Lazio 57 11 5,2 57 9 6,3
4. Sicilia 52 10 5,2 52 9 5,8
5. Veneto 51 10 5,1 51 8 6,4
6. Piemonte 46 9 5,1 46 8 5,8
7. Emilia-
Romagna
45 9 5 45 7 6,4
8. Puglia 42 8 5,3 42 7 6
9. Toscana 38 8 4,8 38 6 6,3
10. Calabria 20 4 5 20 3 6,7
11. Sardegna 17 3 5,7 17 3 5,7
12. Liguria 16 3 5,3 16 3 5,3
13. Marche 16 3 5,3 16 3 5,3
14. Abruzzo 14 3 4,7 14 2 7
111
15. Friuli-Venezia Giulia
13 3 4,3 13 2 6,5
16. Trentino-
Alto Adige
- - - - - -
17. Umbria 9 2 4,5 9 1 9
18. Basilicata 6 1 6 6 1 6
19. Molise 3 1 3 3 1 3
20. Valle
d’Aosta
- - - - - -
TOTALE 606 MAX
120
606 100
Coerentemente a quanto si è appena osservato, mentre nella “prima
proposta“ di Italicum si era stabilito che ai collegi fosse assegnato un
“numero di seggi non inferiore a tre e non superiore a sei” (v. l’art. 1, c.
3), nell’Italicum-bis si trova che “i seggi spettanti a ciascuna circoscrizione
[…] sono assegnati in collegi plurinominali, nei quali è assegnato un
numero di seggi non inferiore a tre e non superiore a nove” (v. il “nuovo”
art. 1, c. 3).
2.2. Su questa base, l’Italicum, in ambo le versioni, prevede che le liste
(di candidati) siano formate “da un numero di candidati pari almeno alla
metà del numero dei seggi assegnati al collegio plurinominale e non
superiore al numero dei seggi assegnati al collegio plurinominale”,
conseguendone (come rileva dalla tabella che segue) un diverso numero
minimo e massimo di candidati nei due casi.
ITALICUM
(PRIMA PROPOSTA)
ITALICUM-BIS
SEGGI N.
MIN
N.
MAX
SEGGI N.
MIN
N.
MAX
3 2 3 3 2 3
4 2 4 4 2 4
5 3 5 5 3 5
6 3 6 6 3 6
7 4 7
8 4 8
9 5 9
112 Lara Trucco
Una tale differenza “quantitativa” comporta delle conseguenze
tutt’altro che irrilevanti sul piano, per così dire, “qualitativo” del suffragio.
La previsione (anche) da parte dell’Italicum-bis, di un numero variabile
(da collegio a collegio) di candidature in lista, è, infatti, un meccanismo in
grado di incidere sulle pari opportunità di voto degli elettori e, più in
generale, sulla capacità di incidenza del voto individuale sull’esito finale
dell’elezione, diversa essendo la possibilità di esprimere la propria scelta
tra tre e sei, piuttosto che tra tre e nove persone. In particolare, si rileva
problematicamente la possibilità, nei collegi in cui sono assegnati 3 o 4
seggi, di procedere alla presentazione di liste composte da due soli
candidati, incluso il capolista, e, analogamente, la possibilità, nei collegi
di 5 o 6 seggi, di indicare tre candidati, di cui uno capolista: va da sé, infatti,
che, in tali contesti, il livello di personalizzazione del voto sarebbe
indubbiamente elevato, a fronte, tuttavia, di un radicale assottigliamento
dell’offerta elettorale disponibile, dato che, in sostanza, gli elettori
sarebbero chiamati ad esprimere le proprie preferenze nei confronti di
singole candidature (di sesso diverso).
Ciò, per diverso profilo, porta a riflettere sulla infungibilità dell’idea
della “personalizzazione” del suffragio e della “portata preferenziale” del
voto individuale stesso, trattandosi di aspetti la cui distanza meglio si
apprezza proprio in quei casi in cui la gamma di scelte a disposizione sia
talmente esigua da consentire all’elettore (un po’ come accade nei
referendum) di scegliere nell’ambito di una sola alternativa (sì/no)
concernente singole persone (approvo quel candidato/non lo approvo). In
simili situazioni, infatti, a fronte di una valorizzazione massima delle
elemento personalistico, si conferisce un rilievo minimo a quello
preferenziale. In questo senso, potrebbe forse rilevarsi come,
nell’Italicum-bis, in modo un po’ paradossale, l’elemento certamente
migliorativo, sul lato “preferenziale” del voto, costituito dal tendenziale
aumento del numero di candidature in lista, finisca per avere un impatto
negativo sul lato, invece, della “personalizzazione”, in termini di
conoscibilità dei candidati per i quali è possibile esprimere la preferenza
da parte degli elettori (e viceversa).
Questo stato di cose, tuttavia (come rileva, tra l’altro, dalle tabelle che
seguono) non desta particolari preoccupazioni. Ed infatti, le liste di
candidati in questione risultano, comunque, tendenzialmente brevi ed in
ogni caso nemmeno lontanamente paragonabili alle “liste lenzuola” della
vecchia normativa (censurata nella sent. n. 1 del 2014), in vigenza della
113
quale «il cittadino [era] chiamato a determinare l’elezione di tutti i
deputati e di tutti senatori, votando un elenco spesso assai lungo (nelle
circoscrizioni più popolose) di candidati, che difficilmente conosce», con
un conseguente pregiudizio per la sua libertà di suffragio. Senza
considerare, poi, non solo che il venir meno, come si vedrà (infra, al §4)
della componente “coalizionale” gioca a favore del “riavvicinamento” del
soggetto votato al votante, a beneficio, proprio, di una maggiore
personalizzazione della scelta, ma anche che, anche ad uno sguardo
comparato, non sarebbe certamente il primo caso del genere e, soprattutto,
che lo stesso Giudice costituzionale nell’affrontare, nella sent. n. 1 del
2014, entrambi gli aspetti in questione (personalizzazione e preferenzialità
del suffragio) non è parsa infine prediligere uno dei due in particolare1,
lasciando così aperta la strada a varie soluzioni.
ITALICUM
(PRIMA PROPOSTA)
ITALICUM-BIS
1 La Corte, infatti, nell’occasione, si è rivelata certamente attenta nei confronti
dell’elemento preferenziale del suffragio, tanto da dichiarare, nello stesso dispositivo
della decisione, l’illegittimità costituzionale delle norme della legge elettorale “nella
parte in cui non consent[ivano] all’elettore di esprimere una preferenza per i
candidati”…così’ come si è dimostrata scrupolosa nel tener conto del rapporto tra libertà
e personalizzazione del voto, nel senso di “conoscibilità” delle candidature da parte degli
elettori, coll’evidenziare come le «condizioni di voto» introdotte dalla legge n. 270 del
2005 avessero finito per rendere «la disciplina in esame non comparabile né con altri
sistemi» né, tanto meno «con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni
territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente
esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta
e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)».
114 Lara Trucco
Ad ogni modo, la stampa, sulla scheda, dei soli nomi dei capilista, oltre
ad assecondare il richiamato profilo della conoscibilità delle candidature,
potrebbe ovviare ad altrimenti probabili incertezze (com’era avvenuto con
riguardo alle schede della “prima proposta“ di Italicum) circa la possibilità
(una volta assegnato il seggio ai capilista), di considerare bloccate, in forza
di una sorta di “effetto trasferimento” della blindatura, anche le
candidature successive (alla prima) in lista. Rileva, poi, la perdurante
assenza, nella scheda (in attesa, può pensarsi, di vedere cosa succederà sul
versante della riforma istituzionale…), dei nomi dei candidati alla
Presidenza del Consiglio (il cui nominativo potrà per vero continuare a
comparire sui contrassegni), limitandocisi, al proposito, a proporre la cauta
previsione di un “deposito”, da parte dei partiti o dei gruppi politici
organizzati “che si candidano a governare”, contestualmente al deposito
del proprio contrassegno, del “programma elettorale nel quale dichiarano
il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza
politica” (art. 2, c. 8).
2.3. Portando ora l’attenzione su di un versante diverso ma pur sempre
attinente al sistema di voto ed alla conoscibilità dei soggetti votati, benché
la Corte, nella ridetta sent. n. 1 del 2014, abbia additato come problematica
la «possibilità di candidature multiple» e, con essa, «la facoltà dell’eletto
di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito»
(considerandone l’idoneità a mandare delusa l’aspettativa degli elettori
115
«relativa all’elezione in riferimento allo stesso ordine di lista» che gli
viene prospettato al momento del voto), un siffatto meccanismo continua
ad essere contemplato. Per la precisione, dopo essere stato inizialmente
espunto dal testo di base della riforma, e successivamente reintrodotto in
quello approvato alla Camera (dandosi nuovamente modo a ciascun
candidato di “essere incluso in liste con il medesimo contrassegno”, sia pur
“fino ad un massimo di otto collegi plurinominali”), esso viene
ripresentato, ancora da ultimo, dall’Italicum-bis, sia pur limitandone la
sfera applicativa. Così, la proposta di legge in discussione consente solo ai
capilista, a pena di nullità dell’elezione, di candidarsi in liste (con il
medesimo contrassegno), in una o più circoscrizioni, fino ad un massimo
di dieci collegi, mentre non conferisce un’identica facoltà ai candidati su
cui gli elettori sono chiamati ad esprimere la propria preferenza (v. l’art.
2, c. 11).
Un simile congegno, insieme alla diversa tipologia
(blindata/preferenziale) delle candidature in lizza (su cui porteremo
l’attenzione nel prossimo paragrafo) introduce una disparità di trattamento
tra candidati che, anche a volerne ricondurre gli esiti nell’ambito della
sfera di discrezionalità del legislatore, risulta comunque problematica,
specie se si considerano le alte probabilità che, in una fase come quella
attuale – di debolezza del formato partitico, da un lato, e di conflittualità
su quello politico, dall’altro – essa finisca per (ulteriormente) alimentare il
contenzioso, anche di tipo costituzionale (peraltro, con tutte le incertezze
del caso, non avendo, la Consulta, ancora avuto occasione di pronunciarsi
su questo specifico profilo).
In particolare, se si condivide l’idea dell’attitudine, pure in questa
versione “ultra-attenuata”, di un tale meccanismo, di rimescolare,
comunque, le carte in tavola (scoperte al momento della presentazione
delle liste di candidati), si deve parimenti acconsentire sulla sua perdurante
capacità di disorientare l’elettore, continuando a risultare per questi
difficile, se non addirittura impossibile (tenuto conto, altresì, dell’effetto
cd. “flipper”, che esamineremo infra, al §6) in forza del gioco delle opzioni
concatenate, stabilire chi effettivamente beneficia del suo suffragio, a
detrimento della libertà individuale di voto. Si osserva, peraltro, come a
diverse conclusioni si potrebbe arrivare se, per i capilista, fosse riservato
un conteggio a sé, privo di interrelazioni con le altre candidature e tale da
dar vita ad una sorta di classifica “avulsa”, per l’appunto, dei capilista,
magari valorizzandosi maggiormente la figura, attualmente, per vero, un
116 Lara Trucco
po’ sfocata, dei quattro candidati supplenti che assistono (al)le elezioni (ex
art. 2, c. 10), con la previsione di un ticket tra un supplente (dello stesso
sesso) col capolista e l’eventuale sostituzione di quest’ultimo, in caso, per
l’appunto, di opzione per la propria elezione in un altro collegio elettorale.
Comunque sia, fa riflettere il fatto che lo stesso Giudice costituzionale,
pur, come si è detto, evidenziandone le criticità, non abbia, poi, infine,
proceduto – forse considerandone l’inidoneità di per se sola a
compromettere la sostanza del suffragio – a sollevare la questione dinnanzi
a se stesso della possibilità di candidatura/opziona multipla, né tanto meno
a dichiararne l’illegittimità in via consequenziale, lasciando (anche a
questo riguardo) impregiudicata la situazione.
3. Norme sulla preferenza di genere e voto “misto” (blindato e
preferenziale)
3.1. È ormai pacificamente riconosciuta l’attitudine delle norme sulla
cd. “preferenza di genere”, per loro stessa natura ed in maniera variabile a
seconda delle diverse tecniche adottate, a conformare l’elezione (secondo
quanto indicato, del resto, dalle stesse norme costituzionali: v. spec. gli
artt. 51, e 117 Cost.) …e d’altro canto, è unanimemente condivisa l’idea
dell’imprescindibilità, per la caratterizzazione di un sistema come
democratico, della garanzia circa la sussistenza di una qualche aleatorietà
dell’elezione. Stando così le cose, le suddette norme potrebbero funzionare
un po’ come delle scatole, il cui contenuto concreto, però, deve poter essere
scelto, in ogni caso, dagli elettori. In questo senso, il pensiero non può che
andare, ancora, alla giurisprudenza costituzionale, ossia alla sent. n. 4 del
2010, in cui, si badi, proprio avendosi a che fare con un meccanismo
elettorale di riequilibrio di genere – la Corte ha messo in guardia sulla
necessità che il legislatore non «prefiguri», «in qualche modo», «il risultato
elettorale, alterando forzosamente la composizione dell’assemblea elettiva
rispetto a quello che sarebbe il risultato di una scelta compiuta dagli elettori
in assenza della regola contenuta nella norma».
Nella “prima versione“ dell’“Italicum, si era lamentata (anche nel
dibattito parlamentare) non solo la sostanziale inattitudine a conseguire gli
esiti voluti, ma addirittura la possibile produzione di un effetto opposto
rispetto a quello auspicato del riequilibrio di genere, considerandosi come,
117
pure in presenza di una percentuale inusualmente alta di candidature
femminili sarebbe, tuttavia, potuta uscirne un’assemblea composta in
ampia parte di parlamentari del sesso opposto, nel caso in cui le candidate
fossero state collocate agli ultimi posti delle liste (sicché se pure in
quell’occasione i problemi non erano mancati, nondimeno, può dirsi che
essi avessero toccato profili affatto diversi rispetto alla precostituzione dei
risultati di voto).
Nell’Italicum-bis si è intervenuti con l’espresso intento di rimediare a
un simile inconveniente, introducendosi norme meglio in grado di
garantire il conseguimento dell’obbiettivo. Per la precisione, da un lato, si
continua a prevedere, “a pena di inammissibilità” della lista (v. l’art. 1, c.
1, lett. b) e l’art. 2, c. 9), che:
- nella successione interna delle liste nei collegi, i candidati debbano
essere presentati in ordine alternato per sesso (in un tale riferimento alle
liste e non all’elenco dei candidati è possibile dedurre, in via interpretativa,
che l’ordine alternato includa pure il candidato capolista, anche se un
elemento di tanto rilievo meriterebbe, ci pare, di essere meglio
puntualizzato nella normativa).
Ma, dall’altro lato, la normativa risulta ora potenziata dalle ulteriori
prescrizioni per cui:
- i capolista dello stesso sesso non possono eccedere il 60% del totale
in ogni circoscrizione, “con arrotondamento all’unità più prossima”; e
- nel complesso delle candidature circoscrizionali di ciascuna lista,
nessun sesso può essere rappresentato in misura superiore al 50%, “con
arrotondamento all’unità superiore”.
Va inoltre ricordato che (ai sensi dell’art. 2, c. 11) anche
- l’elenco dei quattro candidati supplenti da allegare alla lista deve
rispettare il principio di equilibrio di genere, dovendo a tal fine essere
composto da due uomini e due donne.
Nonostante la maggiore propensione del suddetto insieme di norme
(rispetto quelle contenute nel testo licenziato dalla Camera dei deputati) al
conseguimento dell’obiettivo del riequilibrio di genere non si rilevano
comunque rischi effettivi di predeterminazione dei risultati (da parte di un
simile meccanismo in quanto tale), la cui sussistenza, comportando la
violazione dell’essenza stessa del voto, è certamente passibile di censura
da parte del Giudice delle leggi.
118 Lara Trucco
3.2. Venendo ora ad esaminare, sul piano tecnico, il fondamentale
profilo del voto individuale (in senso stretto considerato), nell’ottica,
anche qui, di un non escludibile nuovo intervento della Corte
costituzionale, è necessario appurare l’attitudine dell’Italicum ad evitare il
(ri)presentarsi della circostanza (su cui è calata, per l’appunto, la scure
della Consulta nella sent. n. 1 del 2014), per cui «alla totalità dei
parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, [manchi] il sostegno della
indicazione personale dei cittadini». Una simile evenienza, infatti,
coll’«alterare per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di
rappresentanza fra elettori ed eletti» ed «[a]nzi, impedendo che esso si
costituisca correttamente e direttamente», finisce, nel pensiero della Corte
costituzionale, per «coarta[re] la libertà di scelta degli elettori
nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una
delle principali espressioni della sovranità popolare», ferendo, pertanto,
«la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione», in
contraddizione con lo stesso «principio democratico».
In quest’ottica, è possibile esplorare talune modifiche (almeno
parzialmente) migliorative intervenute al Senato. In precedenza, infatti, era
riproposto un voto unico, categorico, su liste blindate, seguitandosi, così,
problematicamente ad escludere «ogni facoltà dell’elettore di incidere
sull’elezione dei propri rappresentanti», che continuava a dipendere in
modo pressoché esclusivo «oltre che, ovviamente, dal numero dei seggi
ottenuti dalla lista di appartenenza, dall’ordine di presentazione dei
candidati nella stessa […] che è sostanzialmente deciso dai partiti».
Una tale “tentazione” non, è per vero, del tutto scomparsa nel testo in
discussione, dato che i capilista continuano ad essere blindati e che, a
seconda di come si metteranno le cose (si noti come, in modo per certi
versi paradossale, in questo caso, l’attivazione in tutti e dieci i collegi a
disposizione delle candidature multiple dei capilista potrebbe giocare a
favore delle preferenze…), ampia parte dei seggi potrebbero venire
assegnati “in automatico”, finendo per rendere poco più che simbolica la
legittimazione (di quanto di poco e residuale resta) da parte del voto
popolare…Inoltre, pure in un’ottica realistica, è difficile immaginare che,
in ogni caso (quindi, anche se si fosse previsto un voto completamente
preferenziale), i capilista (specie delle forze politiche maggiori) non
verrebbero eletti…mentre di ciò beneficerebbe la resa della nostra forma
di governo e con esso l’intero circuito democratico.
119
Comunque sia, si propone ora un sistema di voto “misto”, in parte, come
si è appena osservato, blindato ed in parte preferenziale: oltre al voto di
lista, infatti, agli elettori è data facoltà di esprimere (ex art. 1, c. 1, lett. c);
e art. 2 c. 4)) fino a due preferenze per candidati, non capilista, di sesso
diverso, secondo l’ormai noto meccanismo della “doppia preferenza di
genere” (rilevando, come si vedrà infra, al §6, le preferenze di voto,
dall’assegnazione dei seggi ai secondi eletti in lista in poi).
Più precisamente, nella proposta-bis (v. il comma 20 dell’art. 2), si
prevede che “l’elettore, senza che sia avvicinato da alcuno, esprim[a] il
voto tracciando con la matita, sulla scheda, un segno, comunque apposto,
sul rettangolo contenente il contrassegno della lista prescelta” e che possa
“anche esprimere uno o due voti di preferenza, scrivendo il nominativo del
candidato prescelto, o quelli dei candidati prescelti, sulle apposite linee
orizzontali” (v., supra, il “fac-simile”). Su questa base, si chiarisce, inoltre,
opportunamente, che (v. il comma 21 dell’art. 2) se l’elettore
- traccia un segno sul nominativo del candidato capolista, senza
tracciare un segno sul contrassegno della lista medesima, si intende che
abbia votato per la lista stessa;
- se traccia un segno su una linea posta a destra del contrassegno, senza
tracciare un segno sul contrassegno della lista medesima, si intende che
abbia votato per la lista stessa; e, ancora,
- se esprime uno o due voti di preferenza, senza tracciare un segno sul
contrassegno della lista medesima, si intende che abbia votato anche per la
lista stessa; mentre
- se traccia un segno sul contrassegno di una lista e scrive il nominativo
di uno o più candidati sulle linee orizzontali poste a destra del contrassegno
di altra lista o di altre liste, il voto è nullo; e, analogamente,
- se traccia un segno sul contrassegno di una lista e sul nominativo del
candidato capolista di altra lista, il voto è nullo; e, ancora, che in caso di
espressione della seconda preferenza (v. il comma 4 dell’art. 2) se l’elettore
- non sceglie un candidato di sesso diverso rispetto al primo, la
medesima preferenza è nulla. Infine, è stabilito (v. il comma 21 dell’art.
2), in via residuale, che
- ogni altro modo di espressione del voto, determina la nullità del
suffragio “nel caso in cui sia manifesta l’intenzione di annullare la scheda
o di rendere riconoscibile il voto”.
In un tale quadro, non privo per vero, di chiaroscuri, frutto del
contemperamento di interessi di parte, inclini a garantire una qualche
120 Lara Trucco
certezza dei risultati, e valori di tipo democratico, legati all’esigenza di
salvaguardare, comunque, una certa aleatorietà dell’esito stesso
dipendentemente dalla scelta del corpo elettorale, ci pare, dunque, (più)
improbabile (rispetto alla “prima proposta“ di Italicum) che la Corte
costituzionale possa non riconoscere l’idoneità, in qualche misura, dei
profili di riforma (nel senso, come si è detto, di una maggiore
valorizzazione della “personalizzazione” e della portata “preferenziale”
del suffragio) del sistema di votazione, a (contro)bilanciare i profili,
invece, di conservazione del precedente sistema di voto (bloccato),
dichiarandone l’incostituzionalità per “irragionevolezza” o a motivo della
violazione del contenuto essenziale del diritto fondamentale di voto.
Mentre lo stesso giudice potrebbe decidere valorizzare quella propria
giurisprudenza in cui ebbe “profeticamente” ad affermare che la
circostanza che il legislatore abbia lasciato ai partiti il compito di indicare
l’ordine di presentazione delle candidature non avrebbe leso in alcun modo
la libertà di voto del cittadino, a condizione, però, che quest’ultimo restasse
«pur sempre libero e garantito nella sua manifestazione di volontà, sia
nella scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare
questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di
preferenza» (v. la sent. n. 203 del 1975).
II
IL SISTEMA DI ASSEGNAZIONE DEI SEGGI
4. Formula elettorale (proporzionale) e (eventuale) secondo turno
(di lista)
4.1. Venendo all’esame della formula elettorale, tra le modifiche di
maggior momento intervenute al Senato, v’è senz’altro la scelta – o, se si
vuole, la “svolta”… – dell’abbandono di un sistema incardinato sulla
componente “coalizionale” (quale era quello contenuto nella “prima
versione“ dell’Italicum) a favore, invece, di un sistema (come quello
dell’Italicum-bis) in cui, invece, un ruolo centrale è assegnato alle liste di
partito in quanto tali (secondo quanto rileva sin già all’art. 1, c. 1, lett. da
d) a f) della proposta).
Una tale mutazione genetica ha comportato il contestuale venir meno
121
dello strampalato meccanismo delle soglie di sbarramento multiple (che
costituiva un unicum nel panorama comparato), e del connesso “effetto
fotografico”. Coerentemente è stata poi soppressa anche la previsione
(tendente ad accentuare la convenienza delle forze politiche ad unirsi in
coalizioni) dell’esclusione di tutte le liste che, andando da sole, non si
fossero presentate in più “di un quarto dei collegi plurinominali”.
Eliminate dunque le soglie multiple, per accedere al riparto dei seggi è
ora prevista (in linea, peraltro, con quanto comunemente accade
nell’ambito di sistemi elettorali d’indole proporzionale) una soglia di
sbarramento unica, a livello nazionale, del 3% “del totale dei voti validi
espressi” (v. l’art. 2, c. 25). Dalla portata applicativa dello sbarramento
continuano a rimanere estranee “le liste rappresentative di minoranze
linguistiche riconosciute, presentate esclusivamente in una regione ad
autonomia speciale il cui statuto preveda una particolare tutela di tali
minoranze linguistiche, che abbiano conseguito almeno il 20 per cento dei
voti validi espressi nella regione medesima” (cd. “soglia salva-minoranze
linguistiche”) ed il seggio della Valle D’Aosta.
Operativamente, è l’Ufficio centrale nazionale che individua le liste che
hanno conseguito la soglia minima, a tal fine calcolando il totale dei voti
validi espressi a livello nazionale (dato dalla somma dei voti validi
conseguiti da tutte le liste in tutte le circoscrizioni) e la cifra elettorale
nazionale di ciascuna lista (data dalla somma delle cifre elettorali
circoscrizionali conseguite nelle singole circoscrizioni dalle liste aventi il
medesimo contrassegno).
A questo punto, il computo dei voti esigerà un plurimo livello di calcolo
(ora, però, non più, come avveniva nella “prima versione“ dell’Italicum, a
livello “di ciascuna coalizione di liste collegate” e “di ciascuna lista”, ma),
per così dire “a imbuto”, dal livello territoriale più “alto” a quello più
“localizzato” (cfr. infra, il §6).
4.2. Volendo concentrarci, per il momento, sul livello nazionale, una
volta individuate le liste ammesse al riparto dei voti, l’Ufficio procede ad
una prima ripartizione provvisoria dei seggi tra le liste sulla base dei voti
ottenuti, applicandosi, a tal fine (come già era previsto nella prima
versione“ dell’Italicum), la formula proporzionale dei quozienti interi e dei
più alti resti.
Più nello specifico, l’Ufficio centrale individua la lista che ha ottenuto
la maggior cifra elettorale nazionale, e verifica, contestualmente, se la sua
122 Lara Trucco
cifra elettorale nazionale corrisponde ad almeno il 40% per cento del totale
dei voti validi espressi. A questo punto,
- qualora la verifica abbia esito positivo, l’Ufficio accerta ulteriormente
se tale lista maggioritaria, in base alla ripartizione provvisoria di cui s’è
detto, ha conseguito almeno 340 seggi (pari al 55% dei seggi). Se risultasse
non averli conquistati, alla stessa va attribuito il numero aggiuntivo di
seggi necessario, comunque, per ottenerli;
- qualora, invece, la verifica abbia esito negativo, ossia nessuna lista
abbia ottenuto il 40% dei voti, si procede ad un turno di ballottaggio fra le
due liste più votate. Ed, infatti, sarà, questa volta, alla lista che risulterà
vincente al secondo turno di voto che verranno assegnati i fatidici 340
seggi.
Pertanto, a differenza della “prima versione“ dell’Italicum, nella
“proposta-bis“ in discussione, soppresso l’elemento coalizionale, è
sopravvissuta, come s’è appena accennato, la previsione per cui, nel caso
di mancato conseguimento di una certa percentuale di voti da parte della
lista vincente, debba svolgersi un turno di ballottaggio tra le due più votate.
Si tratta, all’evidenza, di un doppio turno sui generis, che, diversamente da
quanto avviene in genere in questo tipo di sistemi, si svolge su base
nazionale (invece che a livello di singoli, molteplici, collegi elettorali), per
l’individuazione della lista vincente (laddove di norma è tra candidature
individuali che si svolge il confronto), ed in vigenza del divieto di “ogni
forma di collegamento tra liste o di apparentamento tra i due turni di
votazione” (v. la lett. f) dell’art. 1) (possibilità, questa seconda, che, invece,
caratterizza pressoché ovunque i sistemi a doppio turno).
Comunque sia, val la pena sin d’ora di osservare come l’applicazione
congiunta (per vero, più unica che rara in ambito comparato) dei
meccanismi del doppio turno di voto e del premio di maggioranza (su cui
torneremo infra, al §5), tenda a conferire ad un sistema essenzialmente
proporzionale ed inclusivo quale quello sin qui descritto, una torsione (più)
maggioritaria e selettiva. Ciò che, in un’ottica pragmatica, può ritenersi
idoneo ad amputare una delle principali censure formulate dalla Corte
costituzionale nella sent. n. 1 del 2014: il fatto, cioè, che il premio, lungi
dal costituire un semplice “correttivo”, avrebbe prodotto «una eccessiva
divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza
politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della
forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà
dei cittadini espressa attraverso il voto», dato che avrebbe finito per
“rovesciare” «la ratio della formula elettorale prescelta dallo stesso
123
legislatore del 2005» che era quella di «assicurare», secondo una logica
proporzionale, «la rappresentatività dell’assemblea parlamentare».
È opportuno, peraltro, immediatamente considerare che il livello di
selettività di un tale singolare congegno dipenderà da come si deciderà di
comporre l’offerta elettorale (nulla impedendo, in particolare, di mettere
mano a liste, per così dire, “pluripartitiche”). Inoltre, è possibile ritenere
che esso impatterà sul formato politico forgiandolo non in senso bi-
tripolare (e men che meno bipartitico), bensì, in una rinnovata direzione
“centrista”, per cui si avrà un’imponente forza maggioritaria (quella, per
l’appunto, che vincerà le elezioni) la quale (specie poi in presenza di un
fronte non-maggioritario composito e frantumato), risulterà circondata da
una molteplicità di forze di minoranza/opposizione (secondo l’efficace
immagine del «gigante con tanti cespugli” »).
Il fatto che poi, una volta assegnato il premio, per la (ulteriore)
assegnazione dei seggi si dovrà procedere (cfr., infra, il §6) con criterio
proporzionale, può render ragione di una considerazione del sistema alla
stregua di un “maggioritario-proporzionale”, o, più precisamente, di un
“supermaggioritario di lista-proporzionale tra le liste”
5. Premio di maggioranza (fisso), soglia dei voti (apparente) e
quorum dei votanti (che non c’è)
5.1. Con la conferma, da parte dell’Italicum-bis del premio di
maggioranza si confida, ancora una volta, nella capacità taumaturgica del
meccanismo premiale (costituente già di per sé un unicum in chiave
comparata) di rimediare agevolmente alle conseguenze della cronica
debolezza della forma di governo italiana.
Delle problematicità che questo tipo di aspettativa presenta si è avuto
modo altrove di portare l’attenzione e, pertanto, non torneremo qui sul
punto, se non per osservare come, a dispetto della vigenza, ormai da tempo,
di un simile congegno, non si sia tuttavia registrato un miglioramento
apprezzabile, per il suo tramite, sul versante della tenuta e dell’efficienza
dell’azione di governo. Il che, ci pare, nel giustificarne la considerazione
come di «un meccanismo demenziale», dovrebbe bastare, altresì, a
persuadere che, in vista dell’obbiettivo della “governabilità” (reputato,
peraltro, «legittimo» dalla Corte, nella stessa sent. n. 1 del 2014), siano
altri i versanti su cui soprattutto ed improrogabilmente intervenire, a
124 Lara Trucco
partire, «per un’ovvia esigenza logica», dalle riforme istituzionali
(includendovi i regolamenti parlamentari), senza lasciare indietro
nemmeno il delicato tema del ruolo, nel sistema costituzionale, dei partiti
politici…; mentre al sistema di elezione dovrebbe domandarsi – e dal
sistema di elezione dovrebbe pretendersi – semmai di dar forza al circuito
democratico-rappresentativo, col garantire un’adeguata rappresentatività
dell’assemblea e, dunque, una congrua incidenza del voto individuale,
sapendo funzionare, in ultima analisi, da “ponte di collegamento” tra
istituzioni e società.
Vi è poi, quella problematicità, per così dire, “strutturale” del
meccanismo premiale in quanto tale, data dal fatto che la sua applicazione
finisce per lasciare ben poco al caso, assistendosi, in buona sostanza, ad una
pianificazione ex ante della geografia politica delle Camere elettive (così,
ad es., si sa già che in applicazione dell’Italicum-bis la Camera dei deputati
risulterà sistematicamente composta da una maggioranza del 55% e da una
opposizione del 45%) –, a detrimento dell’effettiva incidenza del voto
individuale ed, in ultima analisi, dei reali rapporti di forza emersi
dall’elezione. Né avrebbe molto pregio obiettare, trattandosi di un’ipotesi
abbastanza remota, che, nel caso in cui una lista o coalizione abbia
conseguito del tutto “naturalmente” più del 55% dei voti, anche il risultato
non sarebbe alterato poiché il meccanismo premiale non opera più.
5.2. Con più specifico riguardo al premio previsto dall’Italicum-bis, è
possibile, comunque, rilevarne una maggiore linearità di funzionamento
CAMERA DEI DEPUTATI (distribuzione dei seggi)
MAGGIORANZA OPPOSIZIONE/I
125
rispetto a prima, in ragione del venir meno della “dinamica degressiva”
che caratterizzava il precedente meccanismo premiale, mirandosi ad
assicurare, ora, in tutti i casi, il comporsi di una maggioranza parlamentare
(di una certa consistenza) pari ad almeno 340 seggi.
Tuttavia, talune delle principali criticità che un siffatto congegno
presentava nella precedente versione sono rimaste identiche anche dopo le
modificazioni che ne son state fatte al Senato, sicché nella prospettiva di
un eventuale sindacato di costituzionalità del sistema, si tratterà,
particolarmente, di accertarne la ragionevolezza, avendo, la Corte, nella
sent. n. 1 del 2014, messo in guardia sul fatto che il «sistema elettorale
[…] pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa,
non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio
di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole».
Il riferimento va, in particolare, al fatto che i suddetti 340 seggi (pari,
lo si ripete, al 55% dei seggi in palio) corrispondono, come s’è visto,
all’ammontare dei seggi assegnati alla lista dimostratasi in grado di
acquisire, sin già al primo turno e, pertanto, con le sole proprie forze, il
40% dei voti validi; la quale, dunque, sarebbe irrazionalmente ed
ingiustamente penalizzata rispetto a chi lo stesso risultato se lo veda
consegnato, in via del tutto artificiosa, a seguito del ballottaggio.
Proprio quest’ultimo rilievo getta luce sul vero e proprio punctum dolens
di un tale meccanismo premiale: la mancata previsione, cioè, di una
qualsiasi soglia di voti, anche e soprattutto, per così dire, “ai piani bassi”
del sistema (proprio quelli, si badi, per i quali risulterebbe tanto più
necessaria…), per cui come si diceva, per liste che restino anche ben al di
sotto del 40% dei voti si rende comunque possibile acquistare l’accesso al
ballottaggio e, ciò che più conta, per tramite di questo – dunque in via
puramente matematica – al conseguimento del quorum necessario ad
ottenere (il premio di) ben 340 seggi.
Una tale situazione, a cui in precedenza faceva forse da velo la
componente “coalizionale”, ad oggi, in presenza di sole, singole, liste (di
partito) rileva in tutta la sua problematicità, riportando alla mente, tra
l’altro, un frangente drammatico della nostra storia elettorale e
costituzionale, come il premio a favore della lista di maggioranza relativa
previsto dalla “legge Acerbo” (il quale, peraltro, com’è noto, sarebbe
potuto scattare solo col conseguimento della soglia al 25%...).
Il ricordo, poi, dell’insuccesso del premio previsto dalla cd. “legge
truffa” del 1953, perché a nessuna forza politica riuscì di raggiungere la
maggioranza (assoluta) dei voti necessaria a farlo scattare, porta a riflettere
126 Lara Trucco
sul fatto che l’effettiva sussistenza di un premio dovrebbe implicarne
anche la possibile “non attivazione”. Il premio, cioè, deve anche poter non
scattare (essendo lecito pensare, in questi casi, ad un’applicazione
residuale, ad es., del cd. Consultellum, o, comunque, di un metodo
proporzionale puro, in grado al possibile di riflettere la volontà di voto
espressa dagli elettori). Detto ancora altrimenti, non sembra possibile
sostenere l’esistenza di quella “ragionevole soglia di voti minima” ai fini
dell’attribuzione del premio di maggioranza – la cui mancanza, lo si
rammenta, è stata alla base della dichiarazione di illegittimità
costituzionale di alcune disposizioni della legge elettorale nella ridetta
sent. n. 1 del 2014 – in quei casi in cui di un simile meccanismo premiale
è prevista sempre e comunque l’attivazione, avendosi, a ben vedere, in tali
ipotesi, a che fare con una soglia – e con un premio – attribuiti ex lege.
È quanto avviene, per l’appunto, con riguardo all’Italicum-bis, in cui è
(solo) attraverso la previsione legislativa del meccanismo del ballottaggio
che, in via dunque del tutto artificiosa, vengono create le condizioni per il
conseguimento – in ogni caso– da parte di chi vince, di una soglia di
almeno il 50% dei voti (dato che, come si è detto, al secondo turno di voto
partecipano due sole forze politiche, le quali si spartiscono il 100% dei
voti). Così, se, ad es., nella situazione data, i migliori piazzati si
collocassero ad esempio intorno al 10%, ne risulterebbe, alla fine, che una
forza che ha dato prova di godere di un relativamente modesto appeal tra
gli elettori, fruirebbe comunque del cospicuo bottino appena detto (del
55% dei seggi).
Pertanto, dato che nella sostanza, per dirla con la Corte, «le disposizioni
in esame» continuano a non subordinare l’elargizione del premio al
«raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista» – sembra difficile
pronosticare un positivo superamento, da parte della normativa in
discussione, di un eventuale sindacato di costituzionalità (senza che,
peraltro, un’eventuale censura implichi necessariamente il travolgimento
dell’intero impianto legislativo, che anzi, dovrebbe esser fatto dalla Corte
al possibile salvo, come avvenuto nella sent. n. 1 del 2014)…a meno che
il Giudice costituzionale non decida di far proprio un approccio puramente
formale alla questione, il quale, al momento di appurare la presenza della
soglia, potrebbe portarla ad accontentarsi della vigenza di quel
meccanismo di generazione fittizia, “per via legislativa”, di cui s’è detto,
concludendo per l’infondatezza della questione.
Ad un tale esito potrebbe, peraltro, forse, giovare il precedente
contenuto nella sent. n. 275 del 2014 (in cui la Corte, con riguardo, alla
127
disciplina elettorale comunale, ha sostenuto la “non irragionevolezza” del
premio di maggioranza e della «conseguente alterazione della
rappresentanza», a motivo della sua funzionalità alle esigenze di
governabilità, che nel turno di ballottaggio verrebbero «più fortemente in
rilievo»). Anche se decisiva nel far propendere per l’incostituzionalità
della norma potrebbe essere la constatazione di come, altrimenti, la
Consulta finirebbe per contraddire se stessa, consentendo a quella
compressione della «rappresentatività dell’assemblea parlamentare,
attraverso la quale si esprime la sovranità popolare, in misura
sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito (garantire la stabilità di
governo e l’efficienza decisionale del sistema), incidendo anche
sull’eguaglianza del voto, in violazione degli artt. 1, secondo comma, 3,
48, secondo comma, e 67 Cost.» ritenuta, dallo stesso Giudice delle leggi,
ancora da ultimo, “manifestamente irragionevole” (v. la ridetta sent. n. 1
del 2014; ed inoltre, in senso analogo, già in precedenza, le sentt. n. 15 e
n. 16 del 2008, nonché la sent. 13 del 2012).
5.3. La criticità da ultimo esaminata trascende, a ben vedere, il sistema
elettorale in questione, per coinvolgere, più ampiamente, il meccanismo
premiale di per se stesso considerato. Se, infatti, resta certamente valida
l’idea, patrocinata dallo stesso Giudice costituzionale, della necessità,
attraverso la fissazione di soglie, di porre un qualche limite alla possibilità
di «trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una
percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la
maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea», ciò non toglie che
è esclusivamente di “voti validi” che, in questi casi, si ragiona. Suffragi,
questi, che potrebbero, pertanto, coincidere con un numero estremamente
ridotto di votanti (ipotesi verosimile in presenza di un’alta percentuale di
astensione); i quali, nondimeno, basterebbero a far scattare il meccanismo
premiale (così, se, per ipotesi, nelle elezioni politiche italiane votassero
solo 1000 persone, pari, all’incirca, allo 0,002% del corpo elettorale, ed il
risultato fosse di 410 voti per una certa forza politica, 400 per un’altra e
190 per una terza, il premio scatterebbe comunque ed il vincente otterrebbe
il 55% dei seggi…).
Se si porta questo tipo di logica alle estreme conseguenze, si può dire,
finalmente, ancora con la Consulta, che è il «meccanismo di attribuzione
del premio di maggioranza» in quanto tale a «determinare un’alterazione
del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio
128 Lara Trucco
fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.)»,
trattandosi di un congegno inidoneo per sua stessa natura e ragion d’essere
a soddisfare l’esigenza «che ciascun voto contribuisca potenzialmente e
con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi». Il che, ci pare,
risulta tanto più vero laddove all’assenza di soglie di voti validi si sommi
la mancanza di quorum dei votanti che garantisca una certa condivisione –
e, con essa, autorevolezza e credibilità – dell’iter che conduce
all’attivazione del premio e, più ampiamente, allo stesso risultato
elettorale, da parte della comunità politica di riferimento. Per cui anche a
questo riguardo, se proprio si volesse far salvo il meccanismo premiale,
sarebbe opportuno ed anzi necessario accompagnare la suddetta soglia dei
voti validi con la previsione, altresì, di un quorum dei votanti (al cui
mancato traguardo potrebbe conseguire, anche qui, un’applicazione
residuale, ad es., del cd. Consultellum).
6. Livelli (molteplici) di assegnazione (e traslazione) dei seggi e
proclamazione degli eletti
6.1. Si diceva in precedenti paragrafi come nella “proposta-bis“ di
Italicum il conteggio si articoli, per così dire, “ad imbuto”, nell’ambito
cioè, di una molteplicità livelli “decrescenti quanto ad ampiezza, tra i quali
un ruolo centrale è svolto, come si è in parte anticipato dal (1) livello
nazionale, anche se poi l’individuazione, in concreto, dei beneficiari dei
seggi avviene ai successivi livelli, (2) circoscrizionale e (3) di collegi
elettorali. A tutti questi vari livelli, al fine di operare concretamente il
riparto dei seggi è prevista una dinamica indubbiamente macchinosa da
descrivere (potrebbe dirsi “per progressive approssimazioni in senso
proporzionale”) che, in sintesi estrema, vede, via via ad ogni livello (in
senso decrescente), l’applicazione del criterio proporzionale e l’eventuale
“aggiustamento” del riparto dei seggi che ne deriva, in modo tale da
salvaguardare, al possibile, da un lato, il numero di seggi (cd. magnitudo)
definita al momento del disegno delle circoscrizioni (v., supra, il §2) e,
dall’altro, la volontà espressa dagli elettori espressa al momento del voto
(v., supra, il §3).
Più nel dettaglio, è opportuno considerare come, a livello nazionale, una
volta attribuiti i seggi del premio di maggioranza alla lista vincente al
129
primo turno o a seguito del ballottaggio (v. supra, il §5), spetti ancora
all’Ufficio centrale nazionale operare concretamente il riparto dei seggi fra
le circoscrizioni stabilendo, innanzitutto, il numero di seggi spettanti alle
liste a livello nazionale. A tal fine, esso calcola (il quoziente elettorale di
maggioranza, derivante dalla divisione della cifra elettorale nazionale della
lista di maggioranza per il numero di seggi ad essa attribuito e,
corrispondentemente) il quoziente elettorale nazionale di minoranza, dato
dalla divisione del totale delle cifre elettorali delle liste di minoranza per il
numero di seggi rimasti da attribuire alle liste stesse. Esso procede, quindi,
alla ripartizione dei tali seggi “residuali” tra le altre liste ammesse al riparto
“non vincenti”, rifacendosi, a tal fine, al metodo del quoziente, con
riferimento, da un lato, al “numero di seggi pari alla differenza tra 618 e il
totale dei seggi assegnati alla lista di maggioranza” e, dall’altro, al
“quoziente di minoranza” testé menzionato (v. il c. 3 dell’art. 2).
Si noti, peraltro, come il drafting non del tutto perspicuo in punto di
contabilizzazione dei risultati elettorali delle circoscrizioni Trentino-Alto
Adige e Valle d’Aosta (in cui vengono assegnati 12 seggi “speciali”: 1 in
VA ed 8 in collegi uninominali + 3 con metodo proporzionale in TAA)
potrebbe far sorgere dei problemi in sede applicativa, col risultato di far
mancare l’obbiettivo dell’assegnazione di tutti i 630 seggi (fissati
inderogabilmente dall’art. 56 della Costituzione). Il comma 6 dell’art. 83
dell’Italicum-bis, infatti, mentre si preoccupa di chiarire che i voti espressi
in tali circoscrizioni debbono considerarsi in vista della verifica del
raggiungimento della soglia di sbarramento e per l’individuazione della
lista maggioritaria o delle liste ammesse all’eventuale ballottaggio,
analogo zelo non pone con riguardo al loro conteggio nella successiva fase
di assegnazione dei seggi, limitandosi, a questo riguardo, a prevedere che
“Essi non concorrono alla ripartizione dei seggi assegnati nella restante
parte del territorio nazionale”. Dal canto loro, le disposizioni
specificamente dedicate (all’art. 2, c. 29 e ss.) ai sottosistemi di Trentino-
Alto Adige e Valle d’Aosta, mentre prevedono che i seggi che le liste
maggioritarie ottengono in tali circoscrizioni debbano essere detratti dai
340 seggi del premio, nulla dicono con riguardo ai seggi ottenuti dalle liste
di minoranza nelle due regioni a disciplina speciale (segnatamente, non
prescrivono che essi vadano defalcati dal totale dei 278 seggi destinati alle
liste di minoranza). Su questa base, è stata gettata prontamente luce sulla
possibilità che un’interpretazione strettamente letterale della normativa
conduca a ritenere che i voti espressi nelle due circoscrizioni rilevino solo
130 Lara Trucco
ed esclusivamente sul piano del sistema di votazione, ovvero con riguardo
alle “modalità di considerazione dei voti delle due circoscrizioni con
disciplina speciale nella determinazione delle cifre elettorali delle liste”,
mentre gli stessi resterebbero estranei alle successive fasi di distribuzione
dei seggi. Pertanto, tali 12 seggi “speciali”, dopo essere stati conteggiati ai
fini di cui s’è detto, andrebbero trattati del tutto autonomamente rispetto ai
(618-340=) 278 seggi da elargire alle minoranze, con l’inammissibile
fluttuazione (tra i 631 e i 640 seggi) dell’ammontare totale dei seggi di cui,
deve e non può non essere composta la Camera dei Deputati.
Va dunque da sé che, onde evitare una simile evenienza, la normativa
in questione necessiterà di una interpretazione costituzionalmente
conforme, fondata sull’assunto che il menzionato comma 6 non riguardi il
sistema di voto ma, piuttosto, l’intera fase di assegnazione dei seggi
(calcolo della soglia e del premio, ovviamente, inclusi) e che, pur
presupponendosi che per i seggi di Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta
viga una disciplina speciale, essi vadano, comunque, contabilizzati
nell’ambito dei seggi, rispettivamente, “di maggioranza” e “di minoranza”.
Più precisamente, per non sforare il totale di seggi previsto dalla Carta, la
contabilizzazione dei seggi “di maggioranza” e “di minoranza” dovrà
essere effettuata nell’ambito, da un lato, di tali 12 “seggi speciali” e,
dall’altro, degli altri (630 totale – 12 esteri – 1 Valle d’Aosta – 11 Trentino-
Alto Adige =) 606 “seggi ordinari” (v., supra, al §2 la 2a tabella). A questo
punto, l’effettiva assegnazione dei seggi in Trentino-Alto Adige e Valle
d’Aosta seguirà le “regole proprie” (stabilite dal comma 29 e ss. dell’art.
2 dell’Italicum-bis), in una sorta, analogamente a quanto avviene per i 12
“seggi esteri”, di “subclassifica”/assegnazione avulsa, idonea a mettere al
riparo tali due “circoscrizioni speciali” da quanto avviene nel resto del
territorio, per cui sarebbe in questo senso, che andrebbe intesa la
disposizione più sopra richiamata che vuole che i voti espressi in tali
circoscrizioni non concorrano “alla ripartizione dei seggi assegnati nella
restante parte del territorio nazionale” (v. il c. 6 dell’art. 83).
Comunque sia, va osservato come, una tale “ibridazione” del sistema
presenti delle criticità di non trascurabile rilievo che vanno oltre
l’interpretazione necessitata appena proposta (di cui, peraltro, la tecnica
redazionale messa in campo può dirsi forse spia e riflesso). Ci si riferisce,
in particolare, al fondamento costituzionale in grado di giustificare il
descritto regime elettorale speciale di queste due Regioni (anche) rispetto
alle altre Regioni a statuto speciale, nonché in considerazione del più
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ampio quadro di tutela delle minoranze linguistiche (ai sensi della legge
15 dicembre 1999, n. 482); si pensa, inoltre, per diverso ma connesso
profilo, al (per certi versi, come s’è visto) analogo trattamento riservato a
tali “seggi speciali” rispetto ai “seggi esteri”, mancando, nella Carta, per i
primi, previsioni analoghe a quelle stabilite per i secondi (v. spec. il 2°
comma dell’art. 56 della Costituzione).
D’altro canto, queste due regioni potrebbero lamentare un’indebita
violazione della propria autonomia da parte del legislatore statale, a motivo
del suddetto obbligo di collegamento delle proprie liste con le altre in sede
nazionale, e, più in generale, a causa delle innovazioni rispetto a quanto
stabilito dal Testo unico recante le “norme per la elezione della Camera
dei deputati”. Mentre proprio il collegamento tra le liste di candidati
“speciali” ed “ordinarie” potrebbe essere all’origine di una particolare
ipotesi di “voto multiplo” se si dovesse appurare l’(ulteriore) incidenza dei
voti espressi in tali circoscrizioni oltre che per l’assegnazione dei propri
seggi (in applicazione delle proprie regole), altresì, sul calcolo dei
quozienti elettorali di maggioranza e di minoranza sul piano nazionale (si
ricordi, peraltro, come sia la stessa normativa a prevedere che essi debbano
essere contati per il traguardo della soglia del 3% e per l’assegnazione del
premio di maggioranza a livello nazionale).
E’ difficile pensare che, se mai la questione dovesse essere portata alla
sua attenzione, la Corte costituzionale possa soprassedere a tali e tante
criticità. Mentre sarebbe consigliabile porvi tempestivo rimedio, anche, se
del caso e per quanto possibile, in sede attuativa (nonché, nel dar seguito
alla delega al Governo prevista dall’art. 4 per la determinazione dei collegi
plurinominali).
6.2. Al fine di proseguire idealmente nel percorso applicativo della
formula elettorale, si deve ora considerare come, una volta compiuta
l’assegnazione dei seggi alle liste a livello nazionale, l’Ufficio centrale
nazionale debba procedere alla ripartizione dei seggi nelle varie
circoscrizioni (v. il c. 25 dell’art. 2), in proporzione al numero di voti che
ciascuna lista ha ottenuto in una determinata circoscrizione (qui, come si è
detto, le circoscrizioni Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta fanno sistema
a sé…), in modo tale, da rispettare al possibile quanto stabilito al momento
del disegno della componente circoscrizionale stessa (v. supra, il §2).
A tal fine, in ciascuna circoscrizione l’Ufficio centrale nazionale
determina, per ogni lista, un “indice proporzionale di lista” (che, in pratica,
132 Lara Trucco
rappresenta la quota di seggi spettante in quella determinata circoscrizione
alla lista, sulla base dei seggi ad essa assegnati in sede nazionale),
dividendo la cifra elettorale circoscrizionale della lista per il quoziente
elettorale nazionale della lista medesima, a sua volta ottenuto,
quest’ultimo, dalla parte intera della divisione della cifra elettorale
nazionale della lista per il numero di seggi ad essa assegnato in sede
nazionale. Sulla base di tutti i vari “indici proporzionali di lista” è possibile
quindi determinare un “indice complessivo circoscrizionale” di tutte le
liste (costituito dalla somma degli indici proporzionali di lista). A questo
punto, avendosi la disponibilità dei singoli “indici proporzionali di lista”,
dell’“indice complessivo circoscrizionale delle liste”, e del “totale di seggi
spettanti a tutte le liste nella circoscrizione” mettendo in rapporto tra loro
(con una semplice proporzione) questi dati è possibile calcolare i “seggi
spettanti a ciascuna singola lista”.
Il passo successivo è di accertare se la somma dei seggi assegnati alle
liste in tutte le circoscrizioni corrispondono o se, invece, la lista abbia
ottenuto più seggi (lista eccedentaria) o meno seggi (lista deficitaria) di
quelli alla medesima attribuiti a livello nazionale. In questa seconda
evenienza la soluzione adottata riprende, fatte tutte le differenze del caso,
il metodo “della più alta media”, per cui per approssimazioni successive si
procede ad individuare il risultato “ottimale” (quello, cioè, che consente di
attribuire i seggi in palio distorcendo “al minimo” i rapporti di forza tra
liste, pur, va detto, con tutte le imprecisioni del caso, in ragione della “forza
dei numeri”, la quale però, essendo cieca, è anche imparziale, potendo
giocare indifferentemente a favore o contro questa o quella forza politica).
Su questa base (secondo una dinamica destinata a replicarsi, pur con
alcune non trascurabili, differenze, come si vedrà, a livello di collegio)
l’Ufficio centrale opera, dunque, la “correzione” delle assegnazioni
effettuate. A tal fine, si inizia dalla lista con il maggior numero di seggi
eccedenti, e, in caso di parità, da quella con la maggior cifra elettorale
nazionale, e si procede alla sottrazione dei seggi eccedenti nelle
circoscrizioni nelle quali essa li ha ottenuti con le minori parti decimali dei
quozienti di attribuzione, assegnandoli, nella medesima circoscrizione,
alle liste deficitarie per le quali le parti decimali dei quozienti di
attribuzione non hanno dato luogo all’assegnazione di un seggio. Qualora,
poi, nella medesima circoscrizione due o più liste abbiano le parti decimali
dei quozienti non utilizzate, il seggio è attribuito alla lista con la più alta
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parte decimale del quoziente non utilizzata o, in caso di parità, a quella con
la maggiore cifra elettorale nazionale.
A questo punto, secondo la riformulazione proposta al Senato, prima di
applicare meccanismi comportanti lo slittamento del numero di seggi
attribuiti (nelle precedenti fasi della procedura) alle liste ed alle
circoscrizioni (fatte salve, si badi, le due circoscrizioni “speciali”), si deve
tentare al possibile di effettuare la compensazione nell’ambito delle
medesime liste e circoscrizioni. In quest’ottica, dunque, si prevede che nel
caso in cui non sia possibile attribuire il seggio sottratto alla lista
eccedentaria nella medesima circoscrizione, in quanto non vi siano liste
deficitarie con le parti decimali dei quozienti inutilizzate, l’Ufficio centrale
debba proseguire, per la stessa lista eccedentaria, nell’ordine dei decimali
crescenti, fino ad individuare un’altra circoscrizione in cui sia possibile
sottrarre il seggio alla lista eccedentaria e assegnarlo alla lista deficitaria
nella medesima circoscrizione. E’ a questo punto che, nell’ipotesi in cui
non si sia ancora riusciti ad effettuare la compensazione, si applica la
“norma di chiusura”, che prevede che i seggi vengano sottratti alla lista
eccedentaria nelle circoscrizioni nelle quali essa li ha ottenuti con le minori
parti decimali dei quozienti e che vengano assegnati alla lista deficitaria
nelle altre circoscrizioni in cui abbia le maggiori parti decimali dei
quozienti inutilizzate.
6.3. Completata la procedura pure a livello circoscrizionale, il metodo
di riparto dei seggi nei vari collegi plurinominali, la cui applicazione è
affidata (non più all’Ufficio centrale ma) ai vari Uffici centrali
circoscrizionali, mutua per la più gran parte quello sopra descritto per la
ripartizione dei seggi nelle circoscrizioni, potendosene omettere, dunque,
la ripetizione (v. il c. 25 dell’art. 2). La differenza di rilievo, che, per ciò
stesso, merita, invece, una qualche attenzione, la si deve alla
riformulazione del testo proposta dal Senato, e concerne il sistema di
compensazione fra liste eccedentarie e liste deficitarie nella ripartizione
dei seggi spettanti alle liste di minoranza. Si tratta, dunque, prima di tutto
(v. l’art. 2, c. 1, n. 4) di accertare se il numero di seggi assegnati nei vari
collegi a ciascuna delle liste di minoranza corrisponda o se, invece, le liste
abbiano ottenuto più seggi (liste eccedentarie) o meno seggi (liste
deficitarie) di quelli alle medesime attribuiti a livello circoscrizionale. In
questo secondo caso, l’Ufficio determina la lista che ha il maggior numero
di seggi eccedentari e, a parità di questi, la lista che tra queste ha ottenuto
134 Lara Trucco
il seggio eccedentario con la minore parte decimale del quoziente; sottrae,
quindi, il seggio a tale lista nel collegio in cui è stato ottenuto con la minore
parte decimale dei quozienti di attribuzione e lo assegna alla lista
deficitaria che ha il maggior numero di seggi deficitari e, a parità di questi,
alla lista che tra queste ha la maggiore parte decimale del quoziente che
non ha dato luogo alla assegnazione di seggio: il seggio è assegnato,
quindi, alla lista deficitaria nel collegio plurinominale in cui essa ha la
maggiore parte decimale del quoziente di attribuzione non utilizzata. Tali
operazioni sono ripetute, dunque, in successione, sino alla assegnazione di
tutti i seggi eccedentari alle liste deficitarie.
E’ noto, peraltro, che i meccanismi di compensazione di cui s’è detto,
come spesso accade quando si tratta di contemperare interessi vari e
confliggenti, siano stati e siano tutt’ora oggetto di discussione. Al
meccanismo previsto nella prima versione di Italicum va riconosciuto
l’intento di aver mirato a salvaguardare al possibile il riparto dei seggi
operato al momento del disegno dei collegi e delle circoscrizioni;
nondimeno, un simile obiettivo veniva ricercato con l’applicazione di un
meccanismo di sottrazione dei seggi alle liste eccedentarie (in genere, le
più forti) a beneficio di quelle deficitarie (di norma, le meno forti) che
rendeva possibile ed anzi probabile, specie per le liste più deboli “pescare”
i seggi mancanti dove le liste eccedentarie esibivano la parte decimale più
piccola, e non dove le liste deficitarie medesime presentavano la parte
decimale maggiore, con una certa indifferenza, dunque, dei risultati di voto
ottenuti nei diversi territori (cd. “flipper”), con tutte le incongruenze del
caso (sino, al limite di attribuire alle liste più deboli alcun seggio, a motivo
dell’impossibilità, per le stesse, di ottenere seggi attraverso i resti più alti,
o, men che meno, grazie ai quozienti interi).
Al Senato, come si diceva, il meccanismo è stato modificato, con
l’introduzione della cd. norma antiflipper”, con cui, al fine di scongiurare
la possibilità di procedere all’assegnazione di seggi a determinate liste in
collegi in cui queste presentavano risultati peggiori (rispetto ad altri
collegi) è stata stabilita la cessione del seggio da parte delle liste
eccedentarie nei collegi dove hanno la parte decimale minore, ed il loro
acquisto, d’altra parte, da parte di quelle deficitarie nei collegi in cui queste
presentano la parte decimale maggiore. Detto altrimenti, in base alle nuove
regole, la lista eccedentaria (quindi quella che ha raccolto più voti) è tenuta
a cedere il seggio a quella deficitaria (quindi quella più debole) dove questa
ha ricevuto più consensi.
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In questo modo si è ricondotta la normativa ad una maggiore coerenza,
continuando però a scontarsi la possibilità che, fermo restando,
tendenzialmente, il numero dei seggi attribuiti a livello di circoscrizione,
il numero di seggi complessivamente assegnati nei vari collegi risulti
variabile. Ma del resto, è nella fisiologia dei sistemi elettorali (si direbbe,
anche qui, “nella forza dei numeri”) che, nel momento in cui si scelga di
operare il conteggio ad un più alto livello – sia esso a livello
circoscrizionale o, a maggior ragione, nazionale – si possa e si debba
accettarne le implicazioni ai livelli più bassi, anche se queste comportino
un rimescolamento della carte in tavola (anche a scapito, in qualche
misura, della “conoscibilità”, da parte degli elettori, degli esiti del proprio
suffragio) ….almeno sino a quando ciò non vada a detrimento
dell’imparzialità dell’elezione.
Ad ogni modo, concluse le operazioni di attribuzione dei seggi nei
collegi, le assegnazioni alle liste sono definitive e l’Ufficio centrale
circoscrizionale procede alla proclamazione degli eletti. E’ a questo punto
che rilevano (anche) le preferenze espresse dagli elettori, dato che
(secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 1, lettera g) della proposta-bis
di Italicum), in ciascun collegio lo stesso Ufficio proclama eletti “fino a
concorrenza dei seggi che spettano a ciascuna lista in ogni circoscrizione,
dapprima i candidati capolista nei collegi, quindi i candidati che hanno
ottenuto il maggior numero di preferenze”.