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SCUOLA UNIVERSITARIA CIELS – SEDE DI MANTOVA
EDOARDO SCARPANTI
Dispensa per il corso di linguistica applicata
a.a. 2014/2015
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Sommario
Parte I. Fondamenti di linguistica Cap. I. Le basi della linguistica 1. Definizione di linguistica 2. Il processo di comunicazione 3. Le caratteristiche del linguaggio 4. I diversi tipi di segno 5. I livelli d’analisi del linguaggio umano Cap. II. Storia del pensiero linguistico 2.1. La Grecia e Roma 2.2. Il Medioevo e l’Età Moderna 2.3. La linguistica dell’Ottocento 2.4. La scoperta delle “leggi fonetiche” 2.5. Le lingue come organismi viventi 2.6. De Saussure e la linguistica del Novecento Cap. III. L’analisi linguistica e i suoi livelli 3.1. Fonetica e sue suddivisioni 3.2. Fonologia 3.3 Morfologia 3.4. Sintassi 3.5. Lessicologia 3.6. Semantica 3.7. Sociolinguistica 3.8. Glottodidattica 3.9. Pragmatica e programmazione neurolinguistica (PNL)
Parte II. La traduzione Cap. I. La traduzione nella storia 1. La traduzione dall’antichità al Rinascimento 2. La traduzione e la sua legittimità nell’Ottocento 3. La riflessione sulla traduzione nel Novecento Cap. II. Teoria della traduzione 1. Che cosa significa tradurre 2. Il segno linguistico secondo Saussure
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3. Il segno nella semiotica di Peirce 4. Comunicazione e funzioni testuali secondo Jakobson 5. Prototesto, metatesto, paratesto, intertesto e ipertesto 6. Tipologia testuale 7. Il circolo ermeneutico 8. Per una definizione di traduzione 9. Nella mente del traduttore Cap. III. Tecnica della traduzione 1. Competenza, dominante, punctum e residuo 2. Gli elementi contestuali
2.1. Contesto 2.2. Cotesto 2.3. Autore: biografia, bibliografia, citazioni, stile 2.4. Il problema dei realia
3. Lessico e significati 4. Tipologia della traduzione 5. Lo stile del traduttore
5.1. Adeguatezza e accettabilità 5.2. Il rischio del paternalismo 5.3. Abitudini scolastiche 5.4. Visibilità del traduttore 5.5. Uno stile adattabile
Cap. IV. Il traduttore e i suoi strumenti 1. Il traduttore 2. Strumenti tradizionali del traduttore
2.1. Il dizionario monolingue 2.2. Il dizionario traduttore 2.3. Dizionari speciali ed enciclopedie
3. Strumenti offerti dalle nuove tecnologie 3.1. Dizionari elettronici 3.2. Corpora 3.3. Enciclopedie e wiki 3.4. Forum di discussione 3.5. Elaboratori di testo e formati dei documenti 3.6. La traduzione automatica
Cap. V. Il testo tradotto: struttura, forma, presentazione 1. Struttura del testo 1.1. Criteri di testualità 1.2. La punteggiatura
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1.3. Ortografia e stile 2. La presentazione del testo tradotto all’editore 2.1. Forma, norme redazionali e bibliografia 2.2. Standard di trascrizione 2.3. La correzione delle bozze Cap. VI. Brevi saggi traduttivi 1. Jack London, il cane Buck e la febbre dell’oro 2. Sherlock Holmes e il portiere del Northumberland Hotel 3. Homer nello spazio profondo e i limerick 4. Pericoli delle pillole in traduzione Appendici 1. Selezione di risorse elettroniche 2. Tabelle di trascrizione 3. Prontuario ortografico e stilistico Riferimenti bibliografici
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Parte I
Fondamenti di linguistica
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Capitolo I. -‐‑ Le basi della linguistica 1. Definizione di linguistica
Introdurre una definizione, esaustiva e insieme semplice, che descriva che cosa sia la linguistica non è così immediato come potrebbe sembrare: si tratta, infatti, di una di-‐‑sciplina particolarmente complessa, che per di più ha come oggetto il linguaggio, cioè proprio quello stesso strumento che si dovrebbe utilizzare per definirla. Comunque sia, una definizione sintetica potrebbe essere la seguente: la linguistica è la scienza che studia il linguaggio umano e le sue manifestazioni storiche, cioè le lingue1.
In quanto scienza, o disciplina scientifica, in primo luogo essa deve essere in grado di formulare affermazioni generali che spieghino fatti particolari: in altri termini, le os-‐‑servazioni, le norme e le costanti individuate dall’analisi linguistica devono essere ap-‐‑plicabili a tutti i casi a cui esse si riferiscono e le eventuali eccezioni devono essere di volta in volta giustificate in maniera oggettiva. In secondo luogo, la linguistica in quan-‐‑to scienza deve sempre proporre ipotesi e spiegazioni che siano scientificamente verifi-‐‑cabili da parte di un osservatore esterno, attraverso esperienze e osservazioni ripetibili, conformemente alla nota teoria della falsificabilità introdotta da Popper e da altri teo-‐‑rici della scienza. Tuttavia, la linguistica non è una scienza normativa (o prescrittiva; in altri termini, una scienza “dura”), ma una scienza semplicemente descrittiva (una scienza “morbida”) e in questo senso essa si distingue nettamente dalla grammatica normativa contenuta, ad esempio, nei libri di grammatica italiana delle scuole prima-‐‑rie: in altre parole, la linguistica non espone leggi grammaticali o ortografiche che deb-‐‑bano essere obbligatoriamente osservate, quindi ad esempio non si preoccupa di riba-‐‑dire che in italiano non bisogna mai dire a me mi piace oppure se io studierei, ma al con-‐‑trario essa si limita a individuare alcuni fenomeni linguistici reali e a descriverli; essa, cioè, registra imparzialmente e studia oggettivamente il concreto comportamento dei parlanti di una certa comunità linguistica e cerca di capire quale ne siano l’origine e la spiegazione; in tal modo, riprendendo lo stesso esempio fatto sopra, essa indaga i mo-‐‑tivi storici e antropologici per cui spesso si possono udire frasi come le già citate a me mi piace o se io studierei.
Come si è detto, l’oggetto della scienza linguistica è il linguaggio umano nelle sue manifestazioni storiche, cioè le lingue2: si tratta, dunque, di un argomento di studio straordinariamente vasto e perciò si è soliti suddividere questa disciplina in numerose branche specialistiche, che si occupano di specifici aspetti del linguaggio umano; fra queste, si possono citare ad esempio: la linguistica generale (o linguistica teorica), che 1. Per un’introduzione complessiva alla materia, si segnalano qui, fra tanti altri, i manuali di Simone [1990; 2013], Gobber e Morani [2010], Berruto e Cerruti [2011], Graffi e Scalise [2013]. Per la terminologia specialistica, si veda Baccaria [2004]. A tali testi implicitamente si rimanda, lungo tutta questa prima parte, per l’illustrazione completa ed esaustiva di tutti quei concetti che qui sono soltanto rapidamente riassunti e abbozzati. 2. In altri termini, si può anche dire che l’oggetto formale della linguistica è il linguaggio umano, mentre numerosi sono i suoi oggetti reali, a seconda degli interessi specifici del ricercatore e delle domande che il linguista si pone; cfr. Rigotti e Cigada [2004: 61], Gobber e Morani [2010: 2].
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studia le caratteristiche comuni a tutte le lingue, quelle specifiche delle singole realtà linguistiche e il funzionamento del linguaggio umano nel suo complesso; la linguistica descrittiva, che si occupa della descrizione delle singole lingue e dei reciproci rapporti che fra loro intercorrono; la linguistica storico-‐‑comparativa (nella tradizione accade-‐‑mica italiana indicata anche come glottologia), che ha per oggetto lo studio dell’evoluzione delle lingue nel tempo e la comparazione fra le diverse lingue in chiave storica; la geografia linguistica (o linguistica areale), che studia la diffusione geografi-‐‑ca delle lingue e di certi fenomeni linguistici, tracciando a questo scopo le cosiddette isoglosse (i confini fra le aree geografiche dove un certo fenomeno si realizza e quelle dove esso non si realizza); la linguistica pragmatica, che si occupa delle condizioni concrete e delle strategie (consapevoli o meno) della comunicazione verbale; la socio-‐‑linguistica, l’etnolinguistica e la linguistica applicata, infine, che studiano, da punti di vista in parte differenti, il complesso rapporto fra i concreti usi linguistici e le comunità linguistiche entro le quali essi sono diffusi.
Il linguaggio verbale umano ha alcune caratteristiche proprie, che lo distinguono sia dal linguaggio degli altri animali sia da tutti gli altri linguaggi utilizzati dagli uomini, come possono essere il linguaggio dei segni, dei colori, dei simboli, delle im-‐‑magini, dei profumi e via dicendo; tali caratteristiche proprie sono ugualmente valide per tutte le lingue del mondo, cosicché è impossibile affermare che una lingua è “mi-‐‑gliore”, “peggiore” oppure “più (o meno) complessa” o “evoluta” di un’altra lingua, al di là di giudizi puramente estetici e soggettivi. Come si avrà modo di vedere, le singole lingue differiscono invece le une dalle altre quanto al loro funzionamento, alla loro struttura e alle loro caratteristiche fonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali, sicché è possibile affermare che una lingua, come ad esempio l’italiano, è particolarmente vi-‐‑cina ad un’altra, come il francese, per struttura, caratteristiche e lessico, mentre essa è allo stesso tempo molto distante dal cinese. Queste osservazioni, che non implicano dunque giudizi di merito o di valore, permettono invece di stabilire ad esempio quanto potrà essere impegnativo l’apprendimento di una seconda lingua da parte di un sog-‐‑getto che parli l’italiano come lingua materna: va da sé che lo studio del cinese, rispetto a quello del francese, porrà davanti al parlante italofono sfide più complesse, proprio a causa della maggiore distanza tipologica delle due lingue; in conclusioni, non esistono lingue “facili” o “difficili” in senso assoluto, ma piuttosto lingue più o meno facilmente acquisibili a seconda della nostra lingua materna di partenza. 2. Il processo di comunicazione
Prima di esporre le principali caratteristiche del linguaggio umano, vale la pena ri-‐‑cordare che, secondo la teoria della comunicazione elaborata da Roman Jakobson (1896-‐‑1982), perché esista un atto linguistico è necessaria la presenza di tutti i sei ele-‐‑menti della comunicazione: l’emittente, il ricevente, il messaggio, il canale, il codice e il contesto. L’emittente è colui che codifica e produce un messaggio, tipicamente in forma verbale o in forma scritta, mentre il destinatario (o ricevente) è colui che lo rice-‐‑ve e lo decodifica. Nel caso di una comunicazione verbale l’emittente è costituito dal parlante, mentre il destinatario sarà l’ascoltatore: ciò vale sia che la comunicazione av-‐‑
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venga in presenza dei due soggetti, sia che essa si svolga attraverso un mezzo tecnolo-‐‑gico come il telefono o un computer dotato di microfono e videocamera. Qualora, inve-‐‑ce, la comunicazione sia scritta, l’emittente sarà l’autore dello scritto e il ricevente, co-‐‑me è ovvio, il lettore; le comunicazioni scritte possono naturalmente avvenire grazie a diversi supporti: dalla carta, allo schermo di un computer, sino ai messaggi SMS di un telefono cellulare. Il parlante, dunque, codifica il messaggio verbale: nel suo cervello ogni concetto viene “tradotto”, per così dire, in una sequenza di suoni, secondo uno schema preciso che rispetta un determinato codice linguistico (ad esempio l’italiano, o il francese), e quindi tale sequenza viene prodotta ed emessa dal sistema articolatorio del parlante stesso; in questo modo egli produce un messaggio. Lo stesso procedimen-‐‑to, naturalmente, può portare alla codifica e all’emissione di un messaggio scritto, anzi-‐‑ché orale.
Il canale rappresenta lo spazio fisico attraverso il quale il messaggio, una volta
emesso, si propaga (dunque l’atmosfera che ci circonda, per un messaggio verbale, op-‐‑pure un supporto cartaceo o elettronico, per un messaggio scritto); perché la comunica-‐‑zione abbia successo è necessario che il canale sia il più possibile aperto, cioè che esso subisca il minor disturbo possibile: un foglio macchiato o una stanza con una forte ru-‐‑more di fondo rappresenteranno perciò un canale disturbato, parzialmente chiuso, e potranno rendere il messaggio in parte o in tutto non comprensibile. Le parti di mes-‐‑saggio eventualmente più o meno disturbate possono in ogni caso essere reintegrate grazie alla conoscenza, da parte del ricevente, del contesto della comunicazione: si trat-‐‑ta dalla conoscenza condivisa di una serie molto complessa di informazioni, quali il luogo della comunicazione, il suo scopo, i ruoli dei partecipanti, le convenzioni sociali, il momento, gli elementi già noti ai due parlanti, le persone presenti e via dicendo. Co-‐‑sì, ad esempio, nel corso di una conversazione che si svolge a tavola durante un pasto sarà molto facile integrare una frase, pervenuta fortemente disturbata e incompleta, del tipo per favore passami la ((…))estra: è evidente che l’oggetto desiderato in questo caso è senz’altro la minestra, poiché proprio il contesto ci aiuta a escludere altri termini della lingua italiana foneticamente simili, come la finestra, la maestra o la balestra. Il presup-‐‑posto fondamentale per la riuscita dell’atto comunicativo è, comunque, che l’emittente e il ricevente conoscano e utilizzino, oltre allo stesso contesto, anche il medesimo codi-‐‑
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ce linguistico (ad esempio che entrambi stiano utilizzando la lingua italiana o la lingua araba, ma non uno l’italiano e l’altro l’arabo).
Un testo (orale o scritto che esso sia) può di volta in volta privilegiare e mettere al centro dell’attenzione uno dei sei elementi della comunicazione appena descritti, ren-‐‑dendolo in tal seno dominante, pur senza eliminare i restanti; così, Jakobson individua sei diversi tipi di testo con sei diverse funzioni: si avrà in tal senso una funzione emo-‐‑tiva, se il testo ha come fulcro di interesse l’emittente e dunque l’espressione del suo stato d’animo e delle sue sensazioni; una funzione conativa, quando l’emittente cerca di influenzare il ricevente, sul quale è incentrato l’interesse, ad esempio spingendolo a compiere una determinata azione; una funzione poetica, se la complessità semantica e strutturale del messaggio obbliga il ricevente a tornare più volte sul messaggio stesso allo scopo di decodificarlo, come può avvenire in un brano poetico o anche in un testo pubblicitario (celebre è l’esempio portato da Jakobson: lo slogan elettorale I like Ike, che si riferiva alla campagna per l’elezione presidenziale di Dwight “Ike” Eisenhower); an-‐‑cora, il testo può avere una prevalente funzione fàtica, nel caso in cui ci si preoccupi che il canale di comunicazione sia ben aperto, come quando nelle conversazioni telefo-‐‑niche si esordisce dicendo pronto; ancora, una funzione metalinguistica, se il testo ha come oggetto il codice stesso, cioè la lingua, come può accadere in un libro di gramma-‐‑tica o in una trattazione di linguistica; infine, una funzione referenziale, quando il te-‐‑sto ha come scopo la semplice illustrazione di un aspetto del contesto della comunica-‐‑zione, come avviene nel caso di un annuncio all’altoparlante di una stazione ferroviaria o delle istruzioni per l’uso di un elettrodomestico.
Come si può facilmente sperimentare nella comunicazione di ogni giorno, nel caso che il canale sia in qualche modo disturbato, oltre a sfruttare il più possibile le infor-‐‑mazioni fornite dal contesto, è probabile che all’emittente sia richiesto, anche esplici-‐‑tamente, di produrre un messaggio particolarmente ben articolato (iperarticolato), ral-‐‑lentando la velocità di fonazione, aumentando il volume della voce e ponendo atten-‐‑zione all’esatta articolazione di ogni fono. In ogni atto di comunicazione il contesto, più o meno ricco, e l’articolazione del messaggio (iperarticolato o, al contrario, ipoarticola-‐‑to) entrano contemporaneamente in gioco: così, ad esempio, se il messaggio è ipoarti-‐‑colato e il contesto è povero, molto probabilmente il ricevente non sarà in grado di de-‐‑codificare il messaggio stesso a causa della carenza di informazioni disponibili.
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3. Le caratteristiche del linguaggio
Per quanto riguarda, invece, le caratteristiche universali proprie del linguaggio umano, la prima di esse consiste nel suo carattere essenzialmente fònico: esso, cioè, è principalmente e primariamente un linguaggio verbale, che sfrutta l’emissione di suoni da parte dell’emittente attraverso l’apparato fonatorio umano per elaborare messaggi in forma orale; tuttavia, esso può manifestarsi secondariamente anche in forma scritta o ancora in forma non visibile né udibile, attraverso il pensiero verbale (in forma coscien-‐‑te o nei sogni)3. I suoni prodotti dall’apparato fonatorio umano nel corso di un atto lin-‐‑guistico verbale sono detti dai linguisti fòni, allo scopo di distinguerli dai comuni suoni non linguistici (rumori, musica ecc.), e si trascrivono sempre con speciali segni secondo le convenzioni dell’alfabeto fonetico internazionale elaborato dall’International Phonetic Association (IPA); le trascrizioni fonetiche si pongono entro parentesi quadre, come se-‐‑gue: [a], [p], [t], [k] ecc. I foni saranno diffusamente trattati nella parte di questo corso espressamente dedicata alla fonetica, cioè alla scienza che studia i foni stessi.
La seconda caratteristica del linguaggio umano consiste, poi, nella discretezza dei suoi costituenti: esso, infatti, è costituito da elementi minimi sonori (i foni) i quali, se accidentalmente scambiati l’uno per l’altro da parte dell’ascoltatore a causa del rumore di fondo o della distanza fisica con il parlante, possono cambiare completamente il si-‐‑gnificato di un’intera parola. Così, in italiano se nella parola pane ['ʹpane] si sostituisce il fono [p] con il fono [t] si ottiene una parola diversa, tane ['ʹtane], e un mutamento com-‐‑pleto di significato. I foni [p] e [t] sono definibili in italiano come discreti proprio perché un parlante di tale lingua automaticamente tende a identificare un fono disturbato che sta ascoltando come [p] oppure come [t], ma in nessun caso lo identificherà con un fo-‐‑no intermedio fra i due, che in italiano infatti non esiste: i due foni, in questo senso, so-‐‑no elementi discreti che, come si vedrà più avanti, realizzano concretamente due diver-‐‑si fonemi della lingua italiana; nei casi dubbi, l’ascoltatore si affiderà al contesto: ad 3. Fra le svariate migliaia di lingue esistenti ed esistite soltanto una ridottissima percentuale è stata affidata più o meno episodicamente, negli ultimi cinque millenni, alla scrittura; cfr. Ong [1986: 25].
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esempio, nella frase mangio un po’ di ...ane, egli potrà abbastanza facilmente supporre la presenza del fono [p] (potrebbe anche trattarsi del fono [r] di rane o [k] di cane, che però costituiscono un cibo senz’altro meno frequente rispetto al pane).
La terza caratteristica del linguaggio umano consiste nella sua linearità e nella sua ricorsività: esso, cioè, è anzi tutto un linguaggio che si esprime linearmente, mediante una successione ordinata di elementi, siano essi i più semplici o i più complessi (dai fo-‐‑ni ai morfemi, alle parole, ai sintagmi, sino alle intere proposizioni); tale successione ovviamente avviene nel tempo (così ad es. i due diversi foni [s] e [f] non possono essere pronunciati contemporaneamente, né è possibile produrre nello stesso momento le dif-‐‑ferenti parole ragno e mosca). La successione dei singoli elementi, però, può essere ad ogni momento interrotta per inserire al suo interno, tra un elemento e il successivo, nuovo materiale linguistico con un processo, appunto, ricorsivo, cioè virtualmente ripe-‐‑tibile all’infinito; così, la frase ho visto un bambino può essere modificata in ho visto un bambino che correva, e nuovamente in ho visto insieme a Giorgio un bambino che correva, e così via. In questo modo, mediante il linguaggio verbale è teoricamente possibile for-‐‑mulare qualunque messaggio (si parla perciò di onnipotenza semantica).
Un’ulteriore caratteristica del linguaggio consiste nel fatto che il codice linguistico è un codice composto da segni del tutto speciali: tali segni infatti sono costituiti sempre da due elementi, sono cioè segni biplanari (biplanarità del linguaggio). Infatti, secondo Ferdinand De Saussure (1857-‐‑1913) un segno linguistico è composto da un primo ele-‐‑mento fisico detto significante e da un secondo, psichico, detto significato; il signifi-‐‑cante è quello che comunemente chiamiamo parola, ma che meglio potremmo definire come l’immagine psichica prodotta nell’ascoltatore dalla percezione dell’insieme dei foni che in sequenza costituiscono la parola stessa (oppure, nello scritto, dall’insieme dei grafemi, cioè dei simboli grafici), mentre il significato è il concetto a cui ci si riferisce con quella parola (significante) in una certa lingua. Così, in italiano al significante gatto ['ʹgatto], emesso sotto forma di foni dall’emittente e ricevuto dal destinatario, corri-‐‑sponde generalmente il significato, cioè il concetto mentale, di “mammifero felino do-‐‑mestico”.
Cambiando la lingua (cioè il codice) di riferimento, ovviamente il legame fra quel
significante e quel significato non esisterà più e sarà necessario scegliere un nuovo si-‐‑
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gnificante per esprimere il significato che si vuole ottenere; ad es. in inglese il signifi-‐‑cante gatto ['ʹgatto] non corrisponde più a nessun significato, mentre al significato “mammifero felino domestico” corrisponde un significante completamente diverso da quello utilizzato in italiano, cioè cat ['ʹkæt]. In questo modo, si capirà facilmente perché un’altra caratteristica del linguaggio umano, la quinta, consista nella sua arbitrarietà e convenzionalità: infatti, il legame fra un certo significante e un certo significato non avviene per natura, ma per una scelta inizialmente arbitraria che viene in seguito adot-‐‑tata convenzionalmente da una specifica comunità linguistica (gli italiani, gli inglesi ecc.). Inoltre, è arbitrario anche il legame fra la forma (la suddivisione interna) e la so-‐‑stanza (nel suo complesso) dello stesso significato; cioè, le varie lingue organizzano un certo significato suddividendolo liberamente fra vari significanti a loro piacere: ad es. alle tre parole (significanti) italiane bosco, legno e legna corrispondono in tedesco le due sole parole Wald (per il significato “bosco”) e Holz (per i significati “legno” e ”legna”), in francese l’unica parola bois (per tutti i tre significati ”bosco”, ”legno” e ”legna”) e co-‐‑sì anche in inglese il solo termine wood; ancora, al verbo italiano andare e all’inglese go corrispondono in tedesco due diversi verbi: gehen “andare a piedi” e fahren “andare con un mezzo meccanico”.
bosco legno legna
Wald Holz bois wood
Osservazioni analoghe si possono fare, ad esempio, con i possibili traducenti in ita-‐‑
liano, tedesco e francese dell’unica parola inglese time.
tempo volta ora Zeit mal Uhr Spät temps fois heure
time
Tutto ciò ha ovviamente una grande importanza nella pratica della traduzione, nella quale il traduttore deve tenere in debita considerazione i diversi aspetti semantici (cioè del significato) dei significanti (cioè delle parole) che egli ha a disposizione nei due di-‐‑versi codici linguistici (cioè le due lingue). Ogni lingua, naturalmente, tende a svilup-‐‑pare maggiormente quella parte del suo patrimonio lessicale che più risulta utile per la vita della comunità linguistica: così, ad esempio, gli eschimesi hanno numerosi termini diversi per indicare ciò che in italiano si riassume nella sola parola neve. Le uniche pa-‐‑role in parte non arbitrarie, nelle quali esiste cioè una parziale motivazione per il rap-‐‑porto fra significante e significato, sono le onomatopee (bau-‐‑bau, chicchiricchì ecc.), che
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hanno qualche legame con il suono naturale che vogliono rappresentare (cfr. manuale cap. I, § 1-‐‑3; cap. II, § 7).
Le parole di una lingua, tuttavia, sono costruite in modo da utilizzare la minore mo-‐‑le possibile di materiale fonetico per ottenere il massimo risultato in termini di signifi-‐‑cato: è la proprietà che va sotto il nome di doppia articolazione. Per ottenere questo ri-‐‑sultato, le lingue organizzano le parole anzi tutto in unità minime portatrici di signifi-‐‑cato (unità di prima articolazione), dette morfemi: come si vedrà più avanti, alcune lingue prediligono parole formate da un solo morfema, come avviene ad esempio per l’inglese dog, mentre altre presentano una maggiore diffusione di termini a più morfe-‐‑mi, come l’italiano capra, formato da un primo morfema capr-‐‑, che fornisce il significato fondamentale, e da un secondo morfema -‐‑a, che fornisce le indicazioni grammaticali di genere e di numero. A un secondo livello troviamo invece i fonemi (unità di seconda articolazione), ad esempio in capra i quattro elementi /k/, /a/, /p/, /r/ e /a/. Questi hanno il vantaggio di fornire una possibilità pressoché infinita di combinazioni a partire da un numero assai limitato di elementi. In italiano, per esempio, con soli trenta fonemi di partenza si ottengono oltre 200.000 morfemi.
Oltre a ciò, il linguaggio umano presenta ovviamente numerose altre caratteristiche, sulle quali non ci si può soffermare analiticamente in questa sede per evidenti motivi di sintesi: fra tutte, la sua natura di fatto sociale e relazionale, cioè di strumento di comu-‐‑nicazione condiviso e utilizzato da una specifica comunità di parlanti. Questo aspetto, cioè l’uso concreto che una comunità umana fa del proprio linguaggio, è evidentemen-‐‑te alla base dell’estrema variabilità del linguaggio stesso (o variazione), che ha fatto sì che parte della riflessione linguistica contemporanea consideri ogni lingua come un complesso sistema, ovvero come un diasistema, cioè un “sistema di sistemi”, un ag-‐‑glomerato dinamico di varietà potenzialmente infinite.
4. I diversi tipi di segno La disciplina che studia i segni, e che ha stretti rapporti con la linguistica, è la semiotica. Un importante filosofo e linguista americano dell’inizio del ‘900, Charles Peirce, ha proposto una classificazione dei vari tipi di segni utilizzati nei processi di comunica-‐‑zione. Secondo Peirce, si possono distinguere almeno cinque diversi tipi di segni: indi-‐‑ci, segnali, icone, simboli e infine segni propriamente detti; tale distinzione è operata mediante l’applicazione dei due criteri della volontarietà e della motivazione4. Così, gli indici (o indizi) sono segni assolutamente non volontari e dotati di una motivazione puramente fisica, come ad es. il fumo che si alza da un incendio in una foresta, che in-‐‑dica che “qui c’è un incendio in corso”. I segnali si distinguono invece dai precedenti perché, pur essendo anch’essi motivati fisicamente, sono tuttavia volontari: riprenden-‐‑do lo stesso esempio, si possono citare i segnali di fumo prodotti deliberatamente da un pellerossa Sioux, che hanno lo scopo di inviare specifici messaggi come ad esempio
4. Peirce [1931-‐‑1948]; su questo, cfr. ad es. Berruto [2006: 3-‐‑4], Gobber e Morani [2010: 8-‐‑9].
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“c’è un intruso nel territorio” ecc. Le icone sono segni volontari che hanno però una motivazione analogica; la loro forma esteriore, infatti, richiama per analogia l’oggetto che vogliono significare: così ad es. un cartello con il disegno stilizzato di una foresta da cui si alza un denso fumo sta a significare “pericolo di incendi”. I simboli sono in-‐‑vece segni volontari con una motivazione esclusivamente culturale; una certa cultura, cioè, attribuisce convenzionalmente un dato valore a quel simbolo, senza un motivo analogico evidente: è il caso, ad esempio, dei cartelli stradali di divieto di accesso, for-‐‑mati da un cerchio bianco con una cornice rotonda rossa. Infine, i segni propriamente detti sono anch’essi volontari, ma non hanno nessuna motivazione: sono, questi, i segni utilizzati dal linguaggio umano, i quali, come si è già visto, associano arbitrariamente un significante a un significato. Sono questi ultimi segni a rendere possibile l’intero processo della comunicazione verbale. 5. I livelli d’analisi del linguaggio umano Il linguaggio è un sistema complesso, le cui diverse parti si influenzano continuamente a vicenda. La linguistica studia questo sistema analizzandone i vari livelli, singolar-‐‑mente e nei loro reciproci rapporti; i livelli d’analisi del linguaggio umano sono: foneti-‐‑ca, fonologia, morfologia, sintassi e semantica. La fonetica, come abbiamo già visto, de-‐‑scrive i suoni prodotti dall’apparato fonatorio umano (i foni); la fonologia studia l’uso concreto che le diverse lingue fanno di tali foni (e dunque studia i fonemi); la morfolo-‐‑gia analizza i costituenti delle parole e il loro valore lessicale e grammaticale; la sintas-‐‑si studia la composizione di più parole in una frase e di più frasi in un periodo com-‐‑plesso; la semantica, infine, non si occupa più dei significanti, ma dei significati e delle loro relazioni. Tutti questi livelli di analisi saranno trattati, in successione, nel seguito di questo corso. Per comprendere al meglio i vari concetti teorici che si introdurranno è utile, tuttavia, ricostruire brevemente i diversi contesti storici entro i quali essi si sono sviluppati. Capitolo II. -‐‑ Storia del pensiero linguistico 2.1. La Grecia e Roma Gli antichi Greci, vivendo in un’area al centro del commercio e degli scambi culturali del Mediterraneo e del Vicino Oriente, ebbero sin da subito la coscienza dell’esistenza di altre lingue (le lingue dei bárbaroi, cioè dei “balbuzienti”) e di quelli che essi consi-‐‑deravano diversi dialetti della loro stessa lingua (ionico, dorico, eolico ecc.); tale co-‐‑scienza, tuttavia, si accompagno sin da subito alla convinzione fortemente radicata dell’assoluta superiorità della propria lingua sulle altre. Fu il primo popolo in Occiden-‐‑te a sviluppare una grande tradizione letteraria e epico-‐‑mitologica (Iliade e Odissea), la quale a sua volta, grazie ai notevoli sforzi profusi nel mantenimento e nello studio del-‐‑la forma originale dei testi classici (filologia), diede allo stesso tempo un importante
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impulso alla stessa riflessione sul linguaggio; tale riflessione fu accompagnata, del re-‐‑sto, anche dall’elaborazione da parte dei Greci del primo alfabeto a funzionamento tendenzialmente fonetico, formato sulla base di un ampliamento del sistema di scrittu-‐‑ra fenicio (il quale invece comprendeva soltanto i segni per le consonanti) e l’arte dello scrivere fu chiamata téchnē grammatikḗ, cioè “arte delle lettere”, da cui, attraverso il lati-‐‑no (ars) grammatica, l’italiano grammatica. La riflessione linguistica dovette nascere già con i filosofi presocratici, ma noi posse-‐‑diamo scritti espliciti su questo problema in particolare a partire dall’epoca di Platone (427-‐‑347 a.C.). Un argomento di discussione particolarmente importante, al quale Pla-‐‑tone dedicò il dialogo intitolato Cràtilo, fu quello incentrato sull’origine delle parole: il rapporto fra una parola e il suo significato (in termini moderni, come si è visto, fra si-‐‑gnificante e significato) esiste per natura (phýsis) o soltanto per una semplice conven-‐‑zione (nómos)? Anche per rispondere a simili quesiti, in questi anni nasce e si sviluppa la ricerca etimologica, cioè lo studio dell’origine storica delle parole. Tornando alla di-‐‑scussione fra phýsis e nómos, se Platone sembra in parte prediligere la soluzione per na-‐‑tura, il suo discepolo Aristotele (384-‐‑322 a.C.) propende invece decisamente per la con-‐‑venzione, come avviene del resto per i moderni linguisti. Alcuni anni più tardi, con i filosofi Stoici la discussione si spostò invece tra fautori dell’analogia (le regole gramma-‐‑ticali non devono ammettere eccezioni) e partigiani dell’anomalia (le eccezioni sono un fenomeno naturale e ineliminabile della lingua), fra i quali furono gli stessi Stoici, rac-‐‑colti nella scuola di Pergamo; queste problematiche nacquero soprattutto a causa delle lunghe discussioni sulla ricostruzione del testo originale dell’Iliade e dell’Odissea, con la nascita della filologia. Per lo stesso motivo pratico, ad Alessandria (sede degli analogi-‐‑sti più convinti) ebbero grande sviluppo gli studi di grammatica, il cui massimo espo-‐‑nente fu Dionisio Trace; grazie a tali studi, si classificarono per la prima volta le otto parti del discorso: il nome, il verbo (entrambi già individuati da Platone), la congiun-‐‑zione (già considerata da Aristotele), il participio, il pronome, l’avverbio, la preposi-‐‑zione e l’articolo. I Romani in epoca repubblicana, con Varrone e Cicerone, attinsero a piene mani dalle conoscenze grammaticali greche, tralasciando invece le riflessioni più teoriche sull’origine del linguaggio; più tardi, il latino Donato (IV sec. d.C.) scrisse una gram-‐‑matica latina (Ars grammatica) che sarà il prototipo di tutte le opere grammaticali sino all’età moderna; egli riprende le otto categorie delle parti del discorso (partes orationis) dei grammatici greci, sostituendo però l’articolo (che in latino non esiste) con l’interiezione (o esclamazione). La grammatica di Donato è diffusa in due diverse ver-‐‑sioni: una più estesa, detta Ars maior, e l’altra particolarmente breve e schematica (di gran lunga più diffusa), organizzata come una serie di domande e di risposte da impa-‐‑rare a memoria e di relativi esempi, detta Ars minor. I risultati raggiunti dalla linguisti-‐‑ca in Grecia e a Roma, in realtà, furono per molti versi ben inferiori a quelli che attorno al IV sec. a.C. erano già stati ottenuti dai grammatici indiani (in particolare da Pànini); tuttavia, le riflessioni nate in India, straordinariamente moderne sotto molti aspetti fra i quali ad es. quello della fonetica, non raggiunsero l’Europa se non in pieno XIX secolo e dunque non poterono influire sul pensiero linguistico occidentale sino a quell’epoca.
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2.2. Il Medioevo e l’Età Moderna Durante tutto il Medioevo la filosofia e la teologia si occuparono talvolta della natura del linguaggio, ma la linguistica vera e propria si limitava a riprodurre gli studi di grammatica latina di Donato e di altri grammatici antichi. La grande attenzione alle opere di grammatica latina si spiega, del resto, proprio a partire da un concreto fatto linguistico: dopo la caduta dell’impero Romano d’Occidente (476 d.C.) la lingua latina classica gradualmente cessa del tutto di essere una lingua parlata e resta soltanto come lingua scritta e contemporaneamente le sue varietà popolari, già da tempo diffuse in tutto l’Impero, si possono liberamente evolvere nelle cosiddette lingue romanze (o neolatine, o volgari); oggi le più importanti fra queste, procedendo da occidente verso oriente, sono: portoghese, gallégo, castigliano (comunemente detto spagnolo), catalano, occitano (provenzale ecc.), francese, francoprovenzale, italiano, sardo, ladino e romeno. Inizialmente, nessuno si preoccupò di scrivere una grammatica di queste lingue e tra XV e XVI secolo l’Umanesimo accentuò ancora di più l’attenzione per il latino classico come lingua di cultura. Proprio in questi secoli, tuttavia, i commerci con l’Oriente e le missioni cristiane fecero sì che in Occidente ci si rendesse conto dell’esistenza di lingue e culture completamente diverse dalle nostre: così ad esempio un umanista e mercante fiorentino, Filippo Sassetti, stabilitosi in India per il commercio della seta, scoprì con grande sorpresa le somiglianze fra il latino, il greco, l’italiano e la lingua sacra della re-‐‑ligione indù (il sanscrito). Da simili intuizioni nascerà, più tardi, la linguistica moder-‐‑na. 2.3. La linguistica dell’Ottocento La linguistica moderna nasce nel momento in cui la consapevolezza dell’esistenza di questi rapporti fra lingue geograficamente lontane giunge finalmente a stimolare l’interesse del mondo scientifico; tale momento si fa comunemente coincidere con un famoso discorso, tenuto nel 1786 dall’orientalista Sir William Jones alla Società delle Indie di Calcutta, nel corso del quale l’insigne studioso britannico sottolineò come al-‐‑cune lingue europee (latino, greco, gotico, ma anche inglese e tedesco) e il sanscrito mostrassero notevoli somiglianze “nelle parole e nella grammatica” (oggi diremmo: nel lessico e nella morfologia) e come tali somiglianze si spiegassero solo con l’origine sto-‐‑rica di tali lingue da un antenato comune, ormai estinto. Negli anni successivi, se da una parte il Romanticismo si appassionò allo lo studio della cultura indiana e della lin-‐‑gua sanscrita, dall’altra allo stesso tempo le teorie di Darwin sull’evoluzione delle spe-‐‑cie sembrarono suggerire una valida metodologia di analisi anche per l’evoluzione del-‐‑le lingue, che infatti venne ricostruita da un punto di vista prettamente biologico: le lingue nascono, muoiono, improvvisamente generano un’altra lingua così come le spe-‐‑cie viventi si evolvono da altre specie per effetto della selezione naturale. Presto si co-‐‑niò un termine per indicare quella lingua, ormai estinta, dalla quale dovevano essere derivate tutte le lingue, indiane e europee, che mostravano di condividere un così grande numero di caratteristiche comuni: in Germania si propose così il nome Indo-‐‑germanisch, poi tradotto in inglese con il più generico indo-‐‑european e in italiano con in-‐‑
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doeuropeo; parallelamente, si cominciò a indicare il complesso di tali lingue come la fa-‐‑miglia indoeuropea. Alcuni continuarono a pensare che il sanscrito rappresentasse ef-‐‑fettivamente l’antenato comune delle lingue indoeuropee (Friedrich Schlegel, 1808), ma altri capirono ben presto che ciò non era possibile e che la lingua madre comune dove-‐‑va essere ormai estinta da millenni (Franz Bopp, 1816). 2.4. La scoperta delle “leggi fonetiche” L’esistenza di una famiglia linguistica indoeuropea venne scientificamente dimostrata quando alcuni studiosi riuscirono a individuare le prime leggi fonetiche di corrispon-‐‑denza fra le varie lingue indoeuropee. Così, dopo le prime osservazioni di F. Bopp, il danese Rasmus Rask (1818) e il tedesco Jacob Grimm (1822, uno dei due “fratelli Grimm” noti come autori della famosissima raccolta di favole) identificarono quella che oggi è nota come legge di Grimm o prima rotazione consonantica delle lingue germaniche (ted. Lautverschiebung), che giustamente si è soliti citare come esempio clas-‐‑sico di legge fonetica. Secondo tale legge, nel passaggio dall’indoeuropeo comune rico-‐‑struito al germanico comune ricostruito, che si ipotizza essere il progenitore delle lin-‐‑gue germaniche (tedesco, inglese, svedese ecc.), si verificarono le seguenti trasforma-‐‑zioni: le consonanti occlusive sorde passarono a spiranti sorde, le occlusive sonore a occlusive sorde e infine le occlusive sonore aspirate a occlusive sonore non aspirate. Alcuni esempi serviranno a spiegare meglio queste corrispondenze:
RADICE INDO-‐‑EUROPEA
MAGGIORANZA DEL-‐‑LE LINGUE INDOEU-‐‑
ROPEE
LEGGE DI GRIMM
LINGUE GERMANICHE
*pet-‐‑ “volare” greco pétomai “io volo” latino peto “mi dirigo” ittita pattar “ala”
[p] > [f]
tedesco Feder, ingl. feather “piuma”
*penkwe “cinque” Gr. pénte, lat. quinque, sanscrito pañca
gotico fimf, ted. fünf, ingl. five
*pisk-‐‑ “pesce” lat. piscis ant. isl. fiskr, ant. ingl. fisc, ingl. fish, ted. Fisch
*treyes “tre” gr. treîs, lat. tres sscr. traya
[t] > [θ] ant. islandese θrīr, anglosassone θrī ( > ingl. three)
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*dekm ̥ “dieci” gr. déka, lat. decem sscr. daśa
[k] > [h] [d] > [t]
got. taihun, ingl. ten
*ed-‐‑ “mangiare” lat. edo, gr. édomai [d] > [t] anglo-‐‑sass. etan inglese eat
*dhur-‐‑ “porta” gr. thýrā, lat. foris [dh] > [d] got. daur, ingl. door *ghost-‐‑is “stranie-‐‑ro”
lat. hostis “nemico” [gh] > [g] got. gasts, ted. Gast ingl. guest “ospite”
Si noti che le forme indoeuropee sono ricostruite per ipotesi ma non sono realmente at-‐‑testate da fonti scritte e perciò i linguisti sono soliti farle precedere sempre da un aste-‐‑risco, che significa “forma ricostruita”. Ci si accorse ben presto, tuttavia, che questa legge apparentemente perfetta presentava numerose anomalie ed eccezioni: così, già Grimm pensò di considerare i suoni non soltanto come isolati, ma nel loro contesto (cioè insieme ai suoni che li precedevano o li seguivano) e in tal modo egli notò che le tre consonanti p,t,k restavano immutate se precedute da s (es.: lat. stare, ted. stehen, ingl. stay) e che nei due gruppi pt e kt la seconda consonante rimaneva invariata. Rimaneva-‐‑no, però, ancora alcune anomalie, che furono invece brillantemente spiegate dal danese Karl Verner (1877 ca.), il quale prese in considerazione per la prima volta anche la po-‐‑sizione dell’accento nella parola. La legge di Verner dice che qualora una consonante occlusiva sorda interessata dalla legge di Grimm si trovi fra due elementi sonantici (cioè le vocali e le quattro consonanti r,l,m,n) e contemporaneamente l’accento non cada sulla sillaba direttamente precedente tale consonante, allora il risultato della legge di Grimm non sarà una spirante sorda, bensì una spirante sonora. In particolare, la posi-‐‑zione che l’accento doveva avere nell’indoeuropeo si ricava dalla forma greca e da quella sanscrita. Così, al latino pater “padre”, al greco patḗr e al sanscrito pitár corri-‐‑spondono nelle lingue germaniche il gotico fadar, l’anglo-‐‑sassone fæðer e l’inglese mo-‐‑derno father; invece, la consonante sorda [t] tedesco Vater si spiega con la cosiddetta se-‐‑conda rotazione consonantica. Alle ricerche di Grimm si deve anche la scoperta di due altre leggi fonetiche che rivestono un ruolo molto importante in alcune lingue indoeu-‐‑ropee, la metafonia e l’apofonia. 2.5. Le lingue come organismi viventi Le leggi di Grimm e di Verner dimostrarono ancora una volta che le lingue indoeuro-‐‑pee dovevano avere stretti rapporti reciproci e si rafforzò così l’idea che fosse possibile ricostruirne a posteriori lo sviluppo storico applicando alla storia delle lingue gli stessi criteri interpretativi utilizzati in quegli anni per lo studio dell’evoluzione degli organi-‐‑smi viventi. August Schleicher, filosofo e studioso di botanica, negli anni attorno al 1860 applicò i princìpi dell’evoluzionismo darwiniano alla ricostruzione della storia delle lingue e in tal modo propose un albero genealogico delle lingue indoeuropee (Stammbaumtheorie); il presupposto era quello che le lingue, come gli organismi viventi,
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potessero nascere, riprodursi e morire. Schleicher pose al vertice del suo albero una lingua ricostruita per pura ipotesi, il cosiddetto indoeuropeo; da questo, per successive differenziazioni, si sarebbero generate le diverse famiglie linguistiche. A questo punto, i linguisti si spinsero per la prima volta a ricostruire per congettura la forma che dove-‐‑vano avere alcune parole in indoeuropeo, basandosi sull’applicazione “all’indietro” delle leggi fonetiche, e ci fu anche chi scrisse intere favole in indoeuropeo. La classifi-‐‑cazione di Schleicher però non teneva in minimo conto due fattori fondamentali: il fatto che le lingue evolvono continuamente e, non meno importante, il fatto che esse interfe-‐‑riscono di continuo l’una con l’altra; così, toccò a un suo allievo, Johannes Schmidt, proporre un nuovo modello per ricostruire l’evoluzione delle lingue. Schmidt elaborò la cosiddetta teoria delle onde (Wellentheorie), che considerava per la prima volta gli influssi reciproci di una lingua con le altre: i mutamenti linguistici, infatti, facevano sentire i loro influssi non solo nella lingua in cui si erano originati, ma anche nelle lin-‐‑gue in contatto con questa, proprio come le onde generate da un sasso gettato in uno specchio d’acqua. In seguito, altri linguisti riuscirono a individuare nuove leggi foneti-‐‑che, riducendo così al minimo le possibili eccezioni alle leggi già individuate e arrivan-‐‑do ad affermare che “le leggi fonetiche si verificano sempre e senza eccezioni”: si trat-‐‑tava del gruppo dei cosiddetti neogrammatici, fra i quali si possono ricordare Brugmann e Osthoff. Costoro ebbero anche il merito di attirare per la prima volta l’attenzione sull’importanza del concreto comportamento dei parlanti: una lingua, dunque, non era semplicemente un organismo a sé stante, ma il codice di comunicazione di una concre-‐‑ta comunità. Così, le leggi fonetiche possono includere numerose eccezioni proprio perché i parlanti sono continuamente indotti a tenere certi comportamenti linguistici da molti fattori, psicologici, fisici, culturali e via dicendo; ad esempio, un importante principio di turbamento della regolarità delle leggi fonetiche è la cosiddetta analogia. A tutti i livelli di linguaggio, infatti, l’analogia permette al parlante di applicare una singola regola a un complesso di situazioni analoghe: così, ad esempio, un parlante ita-‐‑liano analizza una serie di casi regolari in cui alla prima persona singolare dell’indicativo io canto, io salto ecc. si affianca il congiuntivo che io canti, che io salti e così via, sicché per analogia egli suppone che a io parlo corrisponda che io parli, ma anche che da io vado si debba dedurre la forma *che io vada. Allo stesso modo, al momento dell’introduzione nella lingua di un nuovo elemento, come ad esempio il sostantivo eu-‐‑ro, i parlanti reagiscono inizialmente applicando per analogia quanto accade alla mag-‐‑gior parte dei sostantivi uscenti con la stessa terminazione e dunque ipotizzano una forma di plurale *euri. 2.6. De Saussure e la linguistica del Novecento L’attività del linguista ginevrino F. De Saussure, di cui si è già discusso in relazione alla teoria del segno linguistico, ha segnato uno spartiacque fra due secoli e, allo stesso tempo, tra due diversi approcci scientifici allo studio del linguaggio; è stato infatti lo stesso Saussure a introdurre la distinzione fra linguistica diacronica, interessata alla ricostruzione delle diverse fasi dell’evoluzione storica di una lingua, e linguistica sin-‐‑cronica, che ha lo scopo di studiare il funzionamento del linguaggio umano e la strut-‐‑
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tura delle diverse lingue, comparandole le une con le altre. Il nuovo approccio sincro-‐‑nico allo studio del linguaggio è stato proposto da Saussure nel corso delle lezioni da lui tenute per alcuni anni a Parigi, alla Sorbona, prima di scomparire prematuramente nel 1913. Il contenuto di quelle lezioni è stato in seguito rielaborato da alcuni suoi allie-‐‑vi e pubblicato, a nome del maestro, nel 1916 con il titolo Corso di linguistica generale e tradotto in Italia negli anni ’50 da Tullio De Mauro. L’approccio di Saussure al proble-‐‑ma del linguaggio segna, di fatto, l’inizio dello strutturalismo, una corrente interpreta-‐‑tiva e metodologica che ha influito in vari ambiti della cultura per buona parte del No-‐‑vecento e che, fra gli altri, è stata interpretata nel campo dell’antropologia da C. Lévi-‐‑Strauss. Lo strutturalismo interpreta il linguaggio, così come ogni altra realtà culturale, come un insieme complesso di elementi che sono in continua interferenza fra loro; in altri termini, il mutamento di un singolo elemento di una lingua deve provocare altri mutamenti in altre parti dello stesso sistema, praticamente degli assestamenti. Nell’ambito del linguaggio, secondo Saussure gli elementi del sistema possono intrat-‐‑tenere fra di loro due tipi principali di rapporti: così, ad esempio, in italiano l’articolo determinativo il e il sostantivo cane nella frase il cane hanno fra di loro un rapporto in presenza (o sintagmatico), mentre nello stesso enunciato la parola cane potrebbe essere sostituita con molti altri sostantivi maschili singolari che richiedono l’articolo il, come ad esempio gatto o procione, con le quali essa intrattiene un rapporto in assenza (o pa-‐‑radigmatico). Tutti i discorsi sul linguaggio possono, in realtà, riguardare due differen-‐‑ti realtà: da un lato, infatti, esiste la langue, cioè il linguaggio inteso in senso astratto come codice linguistico (ad esempio la lingua italiana o quella francese), dall’altro la parole, cioè il concreto atto linguistico che si realizza ad esempio quando due soggetti comunicano fra di loro. L’approccio strutturalista all’analisi del linguaggio viene proseguito nel corso del No-‐‑vecento da vari studiosi, tra cui R. Jakobson, il principale esponente del Circolo Lingui-‐‑stico di Praga, al quale si devono la teoria della comunicazione, che si è esposta in pre-‐‑cedenza, e l’elaborazione della teoria fonologica, con la teorizzazione del fonema, di cui si tratterà fra poco. Parte III -‐‑ Elementi di fonetica, fonologia, morfologia, sintassi e semantica 3.1. Fonetica e sue suddivisioni La fonetica si occupa dello studio e della classificazione dei suoni emessi dall’apparato fonatorio umano (detti foni) nel processo di comunicazione verbale. Si è soloiti distin-‐‑guere una fonetica articolatoria, che studia la produzione e l’emissione dei foni, una fonetica acustica, che ha per oggetto la propagazione dei suoni nell’atmosfera dall’emittente verso il ricevente e la natura fisica di tali suoni, e infine una fonetica udi-‐‑tiva, che analizza la percezione dei suoni da parte del soggetto ricevente. Fonetica articolatoria: l’apparato fonatorio umano. (vedi FOTOCOPIA n. 1) L’apparato fonatorio umano comprende numerosi organi, tutti coinvolti nel processo di fonazio-‐‑ne: polmoni, bronchi, trachea, laringe (o glòttide), faringe, ùgola (o velo pèndulo), cavi-‐‑
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tà nasali, velo palatino (o palato molle), palato duro, alvéoli, denti, labbra, lingua. I polmoni producono un flusso d’aria diretto verso l’esterno dell’apparato fonatorio: tale flusso attraversa praticamente tutti gli organi sopra elencati e può trovare in ciascuno di essi un ostacolo che produce una determinata vibrazione: l’indicazione del luogo preciso dove si genera tale vibrazione permetterà la classificazione dei foni, come si vedrà più avanti. Nella laringe, in particolare, si trovano due membrane mobili che possono restringere o allargare a piacere il passaggio per l’aria e che sono dette pliche vocali (comunemente note come corde vocali). Classificazione dei foni. Se l’aria prodotta dai polmoni non incontra alcun ostacolo, essa ovviamente esce dalla cavità orale senza produrre nessun fono. Gli ostacoli, inve-‐‑ce, sono raggruppati in due gruppi: si parla infatti di ostacolo inferiore (o laringéo) se questo è prodotto dalle pliche vocali presenti nella laringe, di ostacolo superiore in tutti gli altri casi. Un fono che è prodotto con il solo ostacolo inferiore, cioè con la sola vi-‐‑brazione delle pliche vocali, è detto vocòide (comunemente vocale): ad es. in italiano [a], [i] e [u]. Qualora, invece, sia presente un ostacolo superiore, il fono prodotto sarà invariabilmente un contòide (comunemente consonante); in più, se nella produzione di un contoide vi è contemporaneamente anche un ostacolo inferiore, allora si parlerà di un contoide sonoro, mentre qualora non esista altro ostacolo se non quello superiore verrà prodotto un contoide sordo. Esempi di contoidi sordi presenti in italiano sono [f] e [p], mentre contoidi sonori sono [v] e [b]. I vocoidi. (vedi FOTOCOPIA n. 2) La classificazione dei vocoidi si basa anzi tutto sulla posizione della lingua all’interno del palato nel momento della produzione del fono. In italiano, in particolare, si utilizzano in posizione tònica (cioè accentata) sette diversi vo-‐‑coidi (non tutti identificabili dalla scrittura, perché i diversi segni per le vocali presenti nell’alfabeto italiano sono solo cinque). Si parla di vocoidi aperti (o inferiori) se la lin-‐‑gua rimane bassa nel palato (e la bocca aperta) e chiusi (o superiori) se la lingua si alza (e la bocca si chiude): ovviamente, le posizioni della lingua sono virtualmente infinite e infiniti potrebbero essere i diversi foni prodotti, ma grazie alla caratteristica discretezza del linguaggio umano essi vengono percepiti in numero limitato. Si parla, poi, di vo-‐‑coidi velari (o posteriori) se la lingua arretra verso il velo palatino e di vocoidi palatali (o anteriori) se al contrario essa avanza verso la parte anteriore del palato. In più, i vo-‐‑coidi possono essere o meno labializzati (o prochèili), qualora le labbra si spingano ver-‐‑so l’esterno come nel gesto di un bacio; ancora, essi possono essere o meno nasalizzati, qualora una parte dell’aria venga indirizzata verso le cavità nasali. I sei vocoidi dell’italiano sono: [a] anteriore aperto, [ɛ] anteriore semi-‐‑aperto (es.: bello, cielo, è), [e] anteriore semi-‐‑chiuso (es.: sera, pera), [i] anteriore chiuso, [ɔ] posteriore semi-‐‑aperto labializzato (es.: toro, corpo, uomo), [o] posteriore semi-‐‑chiuso labializzato (es.: torre, voce), [u] posteriore chiuso labializzato. I vocoidi anteriori labializzati non esistono, in-‐‑vece, in italiano, ma sono comuni in francese, in tedesco e anche nei dialetti italiani set-‐‑tentrionali di Lombardia e Piemonte; il francese fa anche largo uso dei vocoidi nasaliz-‐‑zati. I contoidi. (vedi FOTOCOPIE n. 3 e 4) La classificazione dei contoidi, oltre che sulla di-‐‑stinzione già descritta fra contoidi sordi e sonori, si basa soprattutto su due criteri, che
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sono rispettivamente il modo di articolazione del fono e il luogo di articolazione dello stesso. Per quanto concerne il modo di articolazione, per i foni utilizzati in italiano si distinguono questi gruppi principali: contoidi occlusivi (o plosivi, o momentanei) se l’aria prodotta dai polmoni raggiunge un certo livello di pressione a causa di un’occlusione del canale di uscita, per poi essere improvvisamente rilasciata provo-‐‑cando una sorta di “esplosione” che produce un fono momentaneo (quindi non pro-‐‑lungabile nel tempo; contoidi nasali, se l’aria è incanalata verso le cavità nasali; contoi-‐‑di vibranti, dove la lingua provoca una vibrazione continua con il passaggio del flusso d’aria; contoidi fricativi (o spiranti, o continui) dove, a differenza di quanto avviene nei contoidi occlusivi, il suono è prodotto in maniera continua; contoidi laterali, se l’aria passa ai lati della lingua e infine contoidi approssimanti (o glides), che si collocano a metà strada fra le consonanti e le vocali e perciò sono detti anche semiconsonanti o se-‐‑mivocali. Per quanto riguarda, invece, il luogo di articolazione, i contoidi si dividono in: bilabiali, se entrambe le labbra si avvicinano; labiodentali, se il labbro inferiore tocca le punte degli incisivi superiori; dentali, se è la punta della lingua a toccare le punte degli incisivi superiori; alveolari, se la lingua tocca gli alveoli; postalveolari, se la posi-‐‑zione della lingua è leggermente arretrata; palatali, se la lingua tocca il palato duro; ve-‐‑lari (o gutturali) se la lingua arretra in direzione del velo palatino (o palato molle). Le altre lingue europee, così come alcuni dialetti italiani, conoscono anche altri modi di ar-‐‑ticolazione (monovibranti e laterali-‐‑fricativi) e altri luoghi di articolazione (retroflessi, uvulari, faringali, laringali). In italiano, i contoidi ulitizzati sono i seguenti: [p] occlusi-‐‑vo bilabiale sordo (es.: pane, pollo), [b] occlusivo bilabiale sonoro (barile, abate), [t] oc-‐‑clusivo alveolare sordo (tana, topo), [d] occlusivo alveolare sonoro (denaro, addestra-‐‑mento), [k] occlusivo velare sordo (cane, scherzo), [g] occlusivo velare sonoro (gatto, sgherro), [m] nasale bilabiale sonoro (mamma, amico), [n] nasale alveolare sonoro (not-‐‑te, anno), [ɱ] nasale labiodentale sonoro (anfibio, invano), [ŋ] nasale velare sonoro (an-‐‑che, angolo), [r] vibrante alveolare sonoro (ratto, arrivo), [f] fricativo labiodentale sordo (festa, affare), [v] fricativo labiodentale sonoro (vita, avviare), [s] fricativo alveolare sordo (sano, spiare, cassa), [z] fricativo alveolare sonoro (sbaglio, sgarro), [ʃ] fricativo palatale sordo (ascia, scena), [l] laterale alveolare sonoro (luna, colla), [ʎ] laterale pala-‐‑tale sonoro (aglio, paglia), [j] approssimante palatale sonoro (ieri, iodio), [w] approssi-‐‑mante velare sonoro labializzato (uomo, uovo). L’italiano conosce anche alcuni foni doppi, chiamati affricati: [tʃ] di cielo, cena, acciaio; [ts] di azione, zio; [dʒ] di gelo, gio-‐‑co, agire; [dz] di zaino. Fra i contoidi presenti in altre lingue europee, si possono ricor-‐‑dare [θ] dell’inglese think, [ð] dell’inglese that, [ç] del tedesco ich, [x] del tedesco Buch e infine [h] dell’inglese house e del tedesco Haus. Dittonghi e sillabe. L’unione di un fono approssimante con un vocoide prende il nome di dittongo. L’apice di intensità fonatoria in un dittongo si situa sempre sul fono voca-‐‑lico, sicché è possibile identificare due tipi di dittonghi: ascendenti, se l’approssimante precede il vocoide (ad es. [ja] [wo]), e discendenti, nel caso contrario (come [aw] [ew]). Possono fungere da apici sillabici anche alcuni contoidi, in particolare nasali e vibranti, come avviene ad esempio nello sloveno Trst “Trieste”, o krk “chiesa”. La sillaba, a sua volta, è costituita da uno o più foni raggruppati intorno a un singolo picco di intensità:
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essa, dunque, può identificarsi con un singolo vocoide o con uno o più contoidi seguiti da un vocoide (sillaba aperta, come a, ba, tra ecc.), oppure in lternaticon un vocoide se-‐‑guito da uno o più contoidi e facoltativamente preceduto da uno o più contoidi (sillaba chiusa, come can, ar). 3.2. Fonologia Da quanto si è sin qui descritto, risulta ormai chiaro che, da un punto di vista teorico, una lingua potrebbe utilizzare un numero impressionante di foni diversi, dato che le capacità dell'ʹapparato fonatorio umano sono tali da permettere a ogni individuo di produrre centinaia di foni differenti. Tuttavia, nessuna lingua naturale sfutta questa possibilità e ogni singola lingua "ʺsceglie"ʺ, per così dire, un numero ben contenuto di fon,i sufficiente a distinguere tutti i diversi segni linguistici che ne costituiscono il lessi-‐‑co, secondo il ben noto principio dell'ʹeconomia linguistica (che altro non è, ben inteso, che un ulteriore esempio del principio del massimo risultato con il minimo sforzo). Co-‐‑sì, ad esempio, nella lingua italiana i contoidi fricativi sono meno numerosi che in in-‐‑glese: quest'ʹultima lingua, infatti, conosce anche il contoide fricativo dentale sordo [θ], presente ad esempio nel suono iniziale di think, e il suo corrispondente sonoro [ð], co-‐‑me in that. Dunque ogni comunità linguistica seleziona alcuni foni e ne tralascia altri; come risultato, in un determinato repertorio lessicale un certo fono sarà "ʺutile"ʺ per di-‐‑stinguere più parole, e dunque i diversi significati attribuiti a quelle parole, mentre altri foni saranno "ʺinultili"ʺ, in quanto non inseriti nel sistema. Così, ad esempio, in italiano il fono [t] permette di distinguere parole dal significato differente, come tana, rana, sana e via dicendo: infatti, sostituendo t con r si passa da tana a rana e il significato cambia no-‐‑tevolemente. Questi foni che in una determinata lingua hanno la capacità di distingue-‐‑re i diversi significati sono chiamati in linguistica fonemi e perciò si può definire un fonema come "ʺil più piccolo segmento linguistico dotato di valore distintivo"ʺ. La teo-‐‑rizzazione dei fonemi e della branca della linguistica che li studia, cioè la fonologia, si deve principalmente a N. Trubeckoj e alla scuola linguistica di Praga. Non tutti i foni, come si è visto, svolgono in una lingua la funzione di fonemi e in alcu-‐‑ni casi la scelta tra un fono e l'ʹaltro è semplicemente lasciata alle abitudini fonatorie del singolo parlante. Ci si troverà di fronte, in questi casi, a varianti libere di un medesimo fonema, come nel caso della cosiddetta "ʺerre francese"ʺ, foneticamente il contoide vi-‐‑brante uvulare [R], che molti parlanti utilizzano al posto del più comune contoide vi-‐‑brante alveolare [r] senza per questo mutare il significato delle parole che essi pronun-‐‑ciano: dire [rana] o [Rana] non cambia infatti alcunché, a livello di significato; lo stesso discorso vale per la cosiddetta "ʺgorgia toscana"ʺ, cioè per la tendenza diffusa in buona parte della Toscana centro-‐‑settentrionale a sostituire in certe posizioni il contoide oc-‐‑clusivo velare sordo [k] con la laringale sorda [h], passando così da [kane] a [hane]. In ultimo, bisogna notare come in altri casi la scelta non dipenda dall'ʹarbitrio del parlante, ma piuttosto dal contesto fonetico, cioè in particolare dai foni che seguono o precedono quello in esame: così, ad esempio, in italiano i diversi tipi di contoide nasale si trovano utilizzati solo in determinati contesti fonetici, come si è visto nel paragrafo precedente, e in questo caso si parla di varianti combinatorie di un unico fonema.
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3.3 Morfologia La morfologia è quella parte della linguistica che studia la forma e la struttura delle pa-‐‑role. L’unità minima presa in considerazione dalla morfologia prende il nome di mor-‐‑fema, che si può definire come il più breve segmento linguistico dotato di significato; esso infatti, se preso singolarmente ed astratto dal contesto, è comunque in grado di fornire un’informazione minima sufficiente per avere un’idea del significato di base di una certa parola oppure per conoscerne gli aspetti grammaticali. In una lingua come l’italiano o il francese, la maggior parte delle parole è formata da due o più morfemi, anche se il numero delle parole costituite da un unico morfema (per lo più si tratta di parole funzionali, come ad es. gli articoli il e la) è comunque degno di nota. Così, la pa-‐‑rola italiana cavallo è costituita da due morfemi e può essere suddivisa in cavall-‐‑o, dove il primo morfema cavall-‐‑ ci fornisce le informazioni di base a livello semantico, cioè di significato della parola (tant’è che basta considerare questo morfema per avere un’idea generale di che cosa stiamo parlando, appunto di un “cavallo”, maschio o femmina che esso sia), mentre il secondo morfema –o ha lo scopo di informarci sulla natura gramma-‐‑ticale di quella stessa parola, specificando in questo caso che si tratta di un sostantivo di genere maschile e di numero singolare; il primo morfema è dunque di tipo lessicale, mentre il secondo è grammaticale. Com’è evidente, in una lingua come l’italiano l’insieme dei morfemi lessicali è aperto ed esso può continuamente essere arricchito dall’inserimento di nuovi morfemi nel patrimonio lessicale della lingua stessa, come avviene ad esempio nel caso dei prestiti (computer, blog, stage ecc.) e dei neologismi in genere (vallettopoli, scudare ecc.); al contrario, l’insieme dei morfemi grammaticali è un insieme teoricamente chiuso, che comprende un numero decisamente minore di ele-‐‑menti che però ricorrono nell’uso linguistico con una frequenza assai maggiore rispetto a quella con cui compaiono i singoli morfemi lessicali. Un terzo tipo di morfema, che si utilizza ogni volta che si crea una parola derivata a partire da un’altra parola, è quello derivazionale, che compare ad esempio in termini come cavall-‐‑in-‐‑o, stanz-‐‑ett-‐‑a e via di-‐‑cendo. A seconda che esso si presenti insieme a un altro morfema o meno, ogni mor-‐‑fema può essere libero, come ad es. il, ma, che, menù ecc., oppure legato, come nel caso dei due morfemi di cavall-‐‑o. Se un morfema, grammaticale o derivazionale, viene aggiunto dopo il morfema lessica-‐‑le a cui si riferisce, esso può essere definito suffisso, mentre se precede il nome sarà detto prefisso: è il caso, ad esempio, dei prefissi di in-‐‑giust-‐‑o, af-‐‑fatic-‐‑are e dei suffissi di corr-‐‑ono, giust-‐‑issim-‐‑o ecc. Alcune lingue utilizzano anche degli infissi, cioè morfemi aggiunti all’interno della parola, come ad es. nel filippino sulat “ragazzo” e su-‐‑mu-‐‑lat “ragazzi”. Qualora infine per indicare una certa categoria grammaticale si aggiungano contemporaneamente un suffisso e un prefisso si avrà un circonfisso, come avviene per la formazione del participio passato dei verbi regolari in tedesco, per cui mach-‐‑en “fare” passa a ge-‐‑mach-‐‑t “fatto”. Un singolo morfema, nel momento in cui entra a far parte della catena fonica di una parola, può subire delle alterazioni a livello fonetico per meglio adattarsi al contesto dei foni con cui si trova in contatto; le varianti di fonema che in questo modo si forma-‐‑
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no vengono definite allomorfi. Un tipico caso di allomorfia in italiano è costituito dai morfemi liberi utilizzati come articoli determinativi, per cui diversi allomorfi (ad es. il, lo, l’) ricorrono in diversi contesti fonetici (ad es. il soltanto davanti a parole inizianti per consonante); in inglese, ancora, si possono citare i tre allomorfi del morfema grammaticale che indica il plurale dei sostantivi: -‐‑s [s] dopo consonante sorda o vocale, come in cat-‐‑s, bone-‐‑s ecc.; -‐‑s [z] dopo consonante sonora ad es. in dog-‐‑s,