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Biblioteca richiedente: Biblioteca Ezio Raimondi del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica
Data richiesta: 20/04/2015 10:03:58
Biblioteca fornitrice: Biblioteca del Dipartimento di Storia Culture Civiltà - Scienze del Moderno. Storia, Istituzioni, Pensiero politico
Data evasione: 21/04/2015 13:48:19
Titolo rivista/libro: Rinascita
Titolo articolo/sezione: La lingua del moderno” (L'eredità culturale di Gramsci e Leopardi. Lo "Zibaldone" e i "Quaderni del carcere" come modelli di pensiero antidogmatico nella tradizioneintellettuale e civile italiana)
Autore/i: GENSINI
ISSN: 0035-5380
DOI:
Anno: 1987
Volume: 34
Fascicolo: 5 settembre
Editore:
Pag. iniziale: 28
Pag. finale: 29
. p. 28 cita • sabato 5 settembre 1987 • o. 34
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L'eredità culturale di Gramsci e Leopardi. Lo ''Zibaldone'' e i ''Quaderni del carcere'' come modelli di pensiero antidogmatico nella tradizione intellettuale e civile italiana
La lingua del Inoderno
Il posto centrale della questione linguistica segna una peculiare convergenza nella riflessione dei due autori. Un'alta tensione problematica che si afferma infasi storiche percorse da una forte crisi economica
e ideologica. Dalle considerazioni sui limiti della Rivoluzione francese ai ragionamenti sul fascismo e l'Europa degli anni Trenta. Tra spiritualismo cattolico, idealismo e marxismo volgare, il possibile profilo
di una via di uscita laica. La questione nazionale e le osservazioni sui «Costumi» degli italiani
di STEFANO GENSINI
Molto acutamente, nella relazione che ha aperto, a Napoli, le celebrazioni leopar
diane (vedila, intanto, ne l'Unità del 19 luglio 1987), Cesare Luporini utilizza la nozione di «movimento» per cogliere l'unità profonda del pensiero di Giacomo Leopardi. Se comprendiamo bene, e a rischio di forzare un poco la preziosa indicazione luporiniana, al di là dei singoli temi o contenuti, pure della massima rilevanza, che lo Zibaldone offre ai suoi frequentatori, senza innalzare barriere (e spesso senza alcuna soluzione di continuità) fra antropologia sociale e problema dello stile, fra conflitto natura/ragione e situazione culturale dei maggiori paesi dell'Occidente, fra analisi della condizione umana e critica impietosa del presente, la ragione più interna della coerenza di quel testo andrebbe ricercata nella attitudine a porsi in senso trasversale rispetto ai singoli argomenti e discipline. La sua unità risiederebbe nell'ottica problematica che consente di istituire, passo dopo passo, momenti complessivi di riflessione, senza d'altro canto mai dichiarare esaurito (et pour cause) l'oggetto della riflessione medesima. Se questa chiave di lettura ha un senso, si spiega in via analitica la diffusa osservazione che il grande diario leopardiano includa, in potenza, numerosi libri mai stesi, e insieme ci dà un motivo per cui esso chieda d'essere attraversato e gustato nella sua coerenza testuale d'insieme, anziché tramite segmentazioni contenutistico-disciplinari; desideri percorsi, itinerari mentali, piuttosto che ritagliamenti oggettuali.
Se, in tempo d'anniversari congiunti, è lecito e utile riavvicinare due grandi componenti della tradizione intellettuale italiana, come Leopardi e Gramsci, si può forse avanzare l'ipotesi che sia proprio nella natura dinamica e sperimentale dei rispettivi procedimenti di pensiero, nella loro trasversalità, abbiam detto, una ragione non estrinseca di confronto e di raccordo. Certo, diversissimi sono i contesti storici di riferimento; diversissime le esperienze e i bisogni che innescano i due testi: ma non si sfugge all'impressione che Zibaldone e Quaderni del carcere resistano nella nostra cultura, a rivendichino ostinatamente la propria necessità, in un'ideale biblioteca del «moderno», grazie appunto a un modo di costruire il discorso, a un'epistème profondamente consona ai caratteri di apertura formale oggi attivi in ogni processo intellettuale che si ponga come alternativo al pensiero dogmatico. E semmai andrà rilevato come in entrambi gli autori questo modello di ricerca si formi nell'attrito con fasi storiche contrassegnate da profonde crisi di politiche e di sistemi ideologici: da una parte la Restaurazione, con l'esau-
rirsi dell'esperienza giacobina e l'involversi dell'illuminismo; dall'altra il fascismo, con la sconfitta della rivoluzione in Occidente e l'imponente riassetto dello Stato capitalistico nell'Europa degli anni trenta.
2. Credo che la bibliografia accumulatasi, negli ultimi anni, su Gramsci e Leopardi, possa fornire ampia prova delle affermazioni appena fatte. Un terreno certo privilegiato per condurre l'indagine, ma finora poco calcato dalla critica (che ha preferito condurre il raffronto sugli espliciti apprezzamenti di Leopardi da parte di Gramsci) (1), è offerto dalla questione linguistica: questione, appunto, nella sua determinatezza storica, e ottica, nella sua generalità tecnica, quanto mai conformi a quel procedimento «movimentale», trasversale del pensiero di cui andiamo ricercando i segni. Ma se per Leopardi, da una decina d'anni in qua, è divenuto più facile far operare ermeneuticamente il peso dell'occhiale-linguaggio (2), il ruolo che la linguistica ebbe nella formazione e nella genesi delle centrali categorie teoricopolitiche di Gramsci stenta a entrare nel circuito delle ricostruzioni critiche complessive. Da questo punto di vista, ha avuto ragione Franco Lo Piparo (cui si deve il più ampio e compiuto studio sull'argomento), di richiamare ultimamente, con una comprensibile vis polemica, il persistente confinamento «specialistico» subìto da una fetta consistente del lavoro gramsciano, a partire dal fondamentale Quaderno 29 (3).
Pure, sia in Gramsci sia in Leopardi, l'osservatorio formato dal linguaggio e dalle lingue attraversa e mette in moto il complesso della materia fatta oggetto di riflessione, come è facile vedere, anche in rapidissima sintesi.
In Leopardi, la facoltà di linguaggio è vista come uno dei canoni costitutivi della natura umana e le lingue che ne derivano, nelle singole comunità sociali, accompagnano e si dialettizzano con l'instabile equili;.,rio fra natura e ragione attuantesi nelle epoche storiche. Posta, con Leibniz, Locke e gli idéologues, la funzione condizionante della parola sul pensiero (cfr. Zib. 1053-54, 1657 ecc.), e posto, all'inverso, l'influsso che l'insieme dei rapporti materiali di una società esercita sul linguaggio (cfr. ad es. Zib. 1215), le lingue esibiranno volta a volta, fin dentro le loro strutture formali, il livello di libertà immaginativa ed espressiva proprio di ciascuna civiltà, ovvero la cogenza della società, con i suoi vincoli politici, economici, culturali, sugli spazi di originalità consentiti allo scrittore, ma anche al singolo parlante. Grazie a questo schema concettuale, l'ottica linguistica diviene in Leopardi un c<termometro» sensibilissimo, capace di unificare il sottile rilievo glottologico e l'osservazione macrostorica, per articolare la ricerca intorno alle due grandi «Costanti» indicate da Luporini nel testo citato: la condizione umana in generale e l'epoca di crisi in cui gli toccò vivere. Delu-
sione storica e analisi dei limiti interni della Rivolo· zione francese (che aveva in fin dei conti portato-a una crescente «geometrizzazione» della cultura e del «tuono» sociale), critica della contraddizione antropologica inerente all'uomo e utilizzo dell'antinomia ragione-natura come chiave per esplorare la fenomenologia di quella contraddizione, tutte le più note formulazioni leopardiane si intridono di dati lingui· stici e mettono capo a una domanda, insieme filosofica e sociale, circa le condizioni di un pieno recupero di humanitas che coincide con la piena estrinseca· zione di facoltà espressive: una lingua appropriata alle idee «moderne», ma che serbi naturalezza; una lingua che attinga alla «conversazione», ma non smarrisca la sua «indole popolare»; una lingua che coniughi il momento «francese» della comunicazione sociale con il momento «italiano» della varietà e li· bertà dei registri e degli stili.
Ecco dunque un caso di quel procedere «problemi· CO» del pensiero, in cui l'ottica assunta consente !'il· luminazione della totalità, ma insieme non la esauri· sce e necessariamente rimanda ad altre ottiche, chiede d'essere integrata con queste. La linguistica leopardiana non è forse che il più nitido degli itinera· ri possibili per rappresentare questa forma, questa metodologia del ragionamento.
3. In Gramsci il linguaggio si presenta, dagli scritti giovanili in cui si risente più dappresso la lezione di Bartoli, alle famose lettere a Tania del 19 marzo 1927 e del 17 novembre 1930, fino ai Quaderni, come chiave d'accesso al «nesso di problemi» che forma l'orizzonte della sua investigazione storico-politica e della sua prospettiva presente. Scompare in Gram· sci ogni implicazione metafisica del tema linguisti· co, mentre ne viene appieno sviluppata la portata cognitiva filosofico-sociale. Quel tema «deve» essere posto «tecnicamente» in primo piano, una volta che la filosofia superi la sua separatezza specialistica e si riqualifichi come operosità collettiva, intellettua· le e materiale, tesa a trasformare il mondo (cfr. Q., pag. 1330 dell'ed. Gerratana). È, dunque, per un ver· so un'ottica ermeneutica necessaria per far risaltare nodi decisivi del rapporto dirigenti-diretti, filosofia· senso comune; per un altro verso, è una frontiera da attraversare per impadroaj_rsi della logica di quel rapporto, per modificarlo, per attivare un proccesso egemonico. Il linguaggio è, in sé, «nome collettivo•, utilizzabile per caratterizzare la fisionomia culturale di un individuo come per alludere a una totalità sociale. Ma, una volta speso nel circuito di una filosofia della prassi, esso evolve a categoria filosofica e politica per designare il processo di formazione del «conformismo linguistico nazionale unitario» (Q., 2343); illustra come le grammatiche spontanee o immanenti che operano nei singoli individui o gruppi sociali possono convergere verso una grammatica normativa tesa alla realizzazione di un clima culto-
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raie diffuso, di una comune tensione intellettuale e morale. In sostanza, la «quistione della lingua» serve a Gramsci per riscrivere la storia non nazionale popolare degli intellettuali italiani e per prospettare, con forte attenzione agli strumenti anche tecnici dell'operazione, la riconversione di quel ceto cosmopolita nella leva di un inedito intreccio fra masse popolari e Stato: la quistione della lingua è dunque appieno (per dirla con Lo Piparo) «metafora sociale», si innesta «tecnicamente» ai poli principali dell'ideario gramsciano (intellettuali-egemonia-società civile-società politica-Stato-senso comune-filosofia, ecc.) e ne esprime, da ogni angolo visuale, il funzionamento interattivo. Si ripresenta quella condizione •trasversale» del ragionamento che forma l'asse della nostra proposta interpretativa.
4. La convergenza <<epistemica» che l'ottica linguistica permette di cogliere tra lo Zibaldone e i Quaderni si rafforza se dalla considerazione generale del meccanismo del linguaggio passiamo alla discussione concreta del «Caso italiano», come Leopardi e Gramsci l'hanno esaminato nei loro scritti. Fra le citate lettere a Tania e un fondamentale passo del Quaderno 21 (del 1934-35), il «nesso» gramsciano si stringe intorno a una serie di nuclei problematici: i caratteri dello «spirito pubblico italiano», con l'idea della tradizionale separatezza degli intellettuali; la non popolarità della letteratura (secondo lo slogan di Ruggero Bonghi); l'assenza di un teatro nazionale; la questione della lingua da Manzoni in poi, ecc.
Chi si dia a percorrere il diario di Leopardi, tenendo d'occhio le tessere di tale intreccio, vedrà, passo dopo passo, grosso modo fra l'autunno del 1821 e il 1823-24, ricomporsi il mosaico. Leopardi gioca l'opposizione politico-linguistico-culturale dell'Italia e della Francia sull'assenza, nel nostro paese, di una capitale che esprima una norma di costume, di «tuono» sociale e di linguaggio; sull'inesistenza di una «società stretta» a livello delle classi dirigenti che consenta una vera «conversazione» fra le città e fra i ceti; sulla «Separazione» degli affari politici e istituzionali rispetto al popolo e alla nazione, sul «muro» levatosi a partire dal Seicento «fra i letterati e il popolo»; sulla carenza di «società civile» (così in Zib. 2129) che vieta un reale rapporto fra lingua parlata e lingua scritta. E, nell'ancora poco studiato Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani, solitamente attribuito al 1824, Leopardi fissa i tratti di un nodo concettuale che i lettori di Gramsci e, prima ancora, di Graziadio Isaia Ascoli, non potranno non sentire familiare: «Lascio stare che la nazione non avendo centro, non havvi veramente un pubblico italiano; lascio stare la mancanza di teatro nazionale, e quella della letteratura nazionale moderna, la quale presso l'altre nazioni, massime in questi ultimi tempi, è un grandissimo mezzo di conformità di opinioni, di gusti, costumi, maniere, caratteri individuali, non solo dentro i limiti della nazione stessa, ma tra più nazioni eziandio rispettivamente [ ... ]. Ma lasciando tutte queste e quelle (sci/. cagioni), e ristringendosi alla sola mancanza di società, questa opera naturalmente che in Italia non havvi una maniera, un tuono italiano determinato( ... ]. Ciascuna città italiana non solo, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé».
Ciascuno dei termini leopardiani, come del resto quelli utilizzati dal grande linguista goriziano Ascoli in una fonte riconosciuta di Gramsci, il «Proemio» all'Archivio glottologico italiano del 1873, sembrano preludere alle categorie concettuali della teoria dell'egemonia dei Quaderni, ove beninteso ciascun lemma (società civile, nazione-popolo, conformità linguisticà, ecc.) tornerà risemantizzato in un'ottica complessiva squisitamente politica (nel senso assai ampio e articolato che questa parola ha per il fondatore del Pci). Non si sfugge comunque a un paio di interrogativi di fondo: come si spiegano tali convergenze di analisi e persino di terminologia? In che misura esse possono raccordare e unificare, senza forzature, pensieri e progetti intellettuali così distanti nel tempo e così diversamente atteggiati nella società?
5. Secondo chi scrive più che ragioni filologiche (del resto non facilmente adducibili, almeno per il periodo del carcere) (4), occorre invocare, a spiegare le assonanze tra i due testi, una ben più lunga e diversificata catena di pensiero, di cui sia Gramsci sia Leopardi, e in piena indipendenza, furono insieme tributari e partecipi. Alludo a quella trama ricchissima di riflessioni che da Dante al Settecento, con Muratori, Genovesi e Algarotti, con Beccaria e Baretti e Denina, per giungere al secolo seguente, con Foscolo e Manzoni, con Cattaneo e Tenca e Ascoli, aveva nei secoli definito in modo inequivoco lo specifico del caso italiano: fin dal De vulgari eloquentia i nodi critici di quel caso - l'assenza di un'aula politico-statale e la conseguente disgrega-
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zione del ceto intellettuale - erano stati messi in viva luce; e in ogni fase della questione della lingua, come del resto Gramsci riafferma lucidamente, si era riproposto con energia il problema di identità delle classi colte, si erano riaffacciate le incognite della loro collocazione rispetto alle popolazioni «minute» come rispetto al potere politico, agli strumenti istituzionali della comunicazione e della cultura.
Sarebbe facile (e in parte è stato fatto, nelle ricerche degli ultimi anni) allineare le concordanze di questo coro intellettuale: che si dispone, vale la pena aggiungere, a dare corposità e immagine a una vera e propria linea di riflessione filosofico-linguistica italiana, in cui il ragionamento sulle dinamiche generali delle lingue (il meccanismo semantico, il fondamento sociale e storico, la dialettica di conservazione e innovazione permanente in ogni assetto comunicativo) si intreccia a fondo con un'impietosa diagnosi della dislocazione del nostro paese in Europa, della frattura fra scritto e parlato, della separatezza endemica degli intellettuali, delle difficili prospettive di riconversione politica dello strumento linguistico. Di questa linea Leopardi e Gramsci sono parte integrante, così come molti altri che hanno incontrato il tema linguistico in forme non professionali, ma, forse proprio per ciò, fecondamente critiche, e ne hanno fatto una specola decisiva per la propria ricerca. Non è un caso se le correnti storiche della linguistica (viziate spesso da un resistente limite di accademismo) hanno ignorato figure del genere, limitando la portata della «scuola italiana» alla diatriba linguistico-letteraria aperta da Bembo e soprattutto senza valorizzare la portata precisamente filosofica del pensiero non solo di Gramsci e Leopardi, ma di Vico e Genovesi e tanti altri in fatto di lingue e linguaggi.
Non è neanche un caso se, con imbarazzo di qualcuno, Tullio De Mauro ha potuto a buona ragione concludere che lo specifico di questa corrente di pensiero sta proprio nella sua vocazione a intrecciare l'ottica linguistica con quella civile e politica (5), a esibire i livelli necessari di intersezione che, al solito, «attraversano» le discipline e ne rimodellano gli oggetti senza lasciarsene intieramente assorbire.
In questo quadro, far notare gli aspetti di continuità e oggettiva convergenza tra personaggi certamente distanti, come Leopardi e Gramsci, non dovrebbe - crediamo - indurre a paventare forzate «gramscizzazioni», che sarebbero poi motivate da gretti interessi di parte, anzi di partito (comunista), di intellettuali «europei» e «tragici» come il recanatese. È questa la critica che ci muove Antonio Negri in un libro recente, Lenta ginestra (Sugarco, Milano 1987), peraltro interessante e disposto a comprendere il carattere non settoriale ma teorico-complessivo della riflessione linguistica in Leopardi. Ben al contrario di quanto (con accenti un po' velenosi) scrive il Negri, l'intento è esattamente quello di rilevare la portata autonomamente critica della concezione linguistica di Leopardi (e altrettanto si potrebbe fare con Dante, con Manzoni o, poniamo, Pasolini!) nel quadro di un filo di pensiero plurisecolare. Su questa linea d'uso della questione della lingua come rivelatrice dei nodi storici della cultura italiana, con buona pace del Negri, si colloca, con una personalissima capacità di torsione teorica, anche Antonio Gramsci. Piuttosto, chi oggi di Gramsci voglia raccogliere l'eredità, deve porsi il problema di capire quanto della sua lezione sia stato tralasciato ad esempio relativamente al ruolo ((di primo piano» che, volendo trasformare una società, occorre riservare alla questione linguistica.
6. Avendo lavorato fin qui sulle analogie del ((movimento» di pensiero che si esercita nello Zibaldone e nei Quaderni, sarà necessario indicare il punto in cui i percorsi cominciano a dividersi. Come è stato ampiamente illustrato dal Carpi, Leopardi costruisce la sua analisi della situazione italiana in margine al sofferto rapporto con la cultura borghese del suo tempo, e in particolare con l'offerta di integrazione professionale fattagli dal Vieusseux. Ma mentre questi tende a impegnare il lavoro intellettuale sui limiti storici della cultura nazionale per dare loro soluzioni organizzative e strumentali, Leopardi (che pure lucidamente disvela quei limiti) mira a ricercare, nella società nuova che emerge, gli spazi e le condizioni della originalità e libertà linguistica. Certo, nulla di populistico in Giacomo (basti pensare allo scarsissimo interesse per i dialetti), nessuna concessione a scorciatoie fra «intendenti» e «popolo»; ma insieme, ed è pur sempre questo un passaggio da valorizzare, la percezione del rischio di omologazione culturale e linguistica (uniformazione, schiavitù, geometrizzazione, com'egli si esprime) connesso all'affermarsi della forma borghese (aggiungerei: moderato-borghese) di organizzazione sociale. Di qui la
sua insistenza sulla «Varietà» del linguaggio, nel tempo e nello spazio, nella disponibilità stilistica dello scrittore come nella immaginatività e metaforicità espressiva delle lingue comuni: un'insistenza che non può non tornare di grande attualità (indipendentemente dal Leopardi storico) in un'epoca in cui nel concreto si pone la necessità di salvaguardare la gamma straordinaria di individualità storiche e linguistiche aggredite dalla moderna società tardo- o post-industriale.
All'altro polo, almeno come direzione di pensiero, Gramsci: il cui modello di «conformazione» linguistica muove permanentemente, nella fase matura, dallo spontaneo per giungere al cosciente, dal molteplice per giungere all'unità, dalla grammatica immanente per giungere a quella normativa, intesa come «atto di politica culturale». C'è anzi probabilmente da registrare un'evoluzione, uno spostamento d'accento, fra il Gramsci giovane, antimanzoniano e filopascoliano, tutto proteso sulla poliedricità della società civile, e il Gramsci dei Quaderni, in cui il problema linguistico si riscrive al livello dello Stato e l'obiettivo della riforma intellettuale di massa suggerisce di studiare i tramiti di una convergenza tra i processi spontanei del sociale e l'intervento pedagogico ed egemonico del partito o della società politica nel suo insieme. E anche in Gramsci, come in Leopardi, con una più netta sottolineatura politico-culturale, si avvertono una valutazione limitativa dello spazio del dialetto e una sfiducia verso una possibile autonomia delle forme espressive popolari che, mentre risultano perfettamente omogenee al suo schema teorico, rischiano di attagliarsi con difficoltà allo specifico del «caso italianoi>.
Chi si proponga di ripensare in termini attuali questi due modelli teorici o loro singole parti li troverà probabilmente diversamente disponibili alle domande dell'oggi. Ciò si spiega, e non deve, a mio avviso, costituire un problema. L'importante è che il «prelievo», comunque fatto, sia attento alla complessità e all'unità delle forme di pensiero in cui ogni singola affermazione si collocò.
In tal senso, non credo sia utile, come a proposito di Gramsci propone l'amico Lo Piparo, cercare di liberare la sua formazione liberal-linguistica dalla «superficialissima crosta» marxista (6). Mi pare (restando ai termini di un noto saggio di Badaloni) che non si apprezzi Gramsci senza capire la ((sintesi delle fonti» ch'egli cercò, angolandola attraverso una prospettiva genialmente trasversale, tutta mirata al compito politico di lungo periodo che gli stava di fronte, in cui non a caso la componente linguistica trova ampi spazi di fungibilità. Semmai, è tutto da valorizzare un marxismo che, nel contesto di una durissima crisi strategica, interna e internazionale, si ri-forma rendendo operanti e reciprocamente integrabili ottiche problemiche diverse, solo misurabili sulla analisi della realtà e sulla possibilità di intervenire efficacemente in essa.
Il discorso potrebbe ripetersi, a maggior ragione, per Leopardi: ogni attualizzazione spiccia, ogni unidirezionale enfatizzazione tematica (oggi è di moda quella «francofortese») sarebbe riduttiva di quella capacità di investimento globale, pervasivo, delle tematiche che si regge sull'ipotesi conoscitiva, sul segno unitario e trasversale del suo pensiero, maturato anch'esso in un tempo di crisi, dinanzi allo scacco dell'illuminismo e alla sclerosi aggressiva dei modelli culturali aristocratico-feudali.
Si trattava, in entrambi i casi, di trovare una via d'uscita da modi diversi di pensiero dogmatico: quello cattolico-spiritualista (ma anche astrattamente razionalista) nel caso di Leopardi; quello idealista e marxistico-volgare nel caso di Gramsci; una via d'uscita laica da forme «forti» di filosofia, senza tentazione alcuna di cedimenti irrazionalistici.
(I) Vedi soprattutto U. Carpi, fl poeta e la politica. Leopardi, Belli, Montale, Liguori, Napoli 1978, pp. 261 segg. e S. Timpanaro, Antileopardiani e neomodera ti nella sinistra italiana, ETS, Pisa 1982, pp. 287 segg.
(2) Per un quadro, anche bibliografico, d'insieme mi permetto di rimandare alla mia Linguistica leopardiana, Il Mulino, Bologna 1984, spec. pp. 13 segg.
(3) Vedi lo scritto Studio del linguaggio e teoria gramsciana, in «Critica marxista», 25, 1987, 2-3, pp. 167 segg. Le tesi del Lo Piparo sono esposte e ampiamente documentate in Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci, pref. di T. De Mauro, Laterza, Bari 1979.
(4) Cfr. Timpanaro, op. cit. , p. 288. (5) In Idee e ricerche linguistiche nella cultura italiana,
Il Mulino, Bologna 1980, spec. pp. 5-25. (6) Studio del linguaggio, cit., p. 175.