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Editore Luca Santa Maria | Direttore Responsabile Francesco Viganò 2010-2015 Diritto Penale Contemporaneo
IL CONTRASTO AI REATI DI IMPRESA
NEL D.LGS. N. 231 DEL 2001 E NEL D.L. N. 90 DEL 2014:
NON SOLO REPRESSIONE, MA PREVENZIONE
E CONTINUITÀ AZIENDALE (*)
)
di Roberto Garofoli
(*) Il testo riproduce la relazione svolta dall’Autore il 24 settembre 2015 al Convegno intitolato “Le ragioni
dell'impresa e le ragioni dell'amministrazione della giustizia” tenutasi a Roma presso il Consiglio Superiore
della Magistratura.
Abstract. Il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 e la nuova disciplina dettata dal
decreto legge 24 giugno 2014, n. 90 (convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto
2014, n. 114) hanno introdotto due meccanismi di intervento, rispettivamente del giudice
penale e dell’amministrazione, sui crimini di impresa. Si tratta di interventi legislativi
sintomatici di un’innovativa impostazione che il legislatore ha inteso imprimere al diritto
anche penale delle attività economiche in ragione di diversi fattori. Da un lato, le difficoltà
del modello punitivo-repressivo per sé solo considerato e le trasformazioni che hanno finito
per incidere sull’ubi consistam di interi fenomeni delinquenziali; dall’altro, la necessità di
fronteggiare plurime esigenze collettive legate allo svolgimento di talune attività
imprenditoriali, relative alla destinazione finalistica di talune iniziative di impresa (servizi
pubblici o di pubblica necessità) ovvero alle dimensioni delle singole strutture
imprenditoriali coinvolte o, ancora, alla consistenza del radicamento territoriale delle stesse
e ai connessi livelli occupazionali assicurati. Le ragioni appena evidenziate hanno persuaso
il legislatore dell’inadeguatezza di un sistema di contrasto affidato al solo funzionamento di
classici meccanismi repressivi e, dunque, della necessità di promuovere due linee di
intervento: il coinvolgimento dello stesso mondo imprenditoriale nell’approntare modelli
organizzativi idonei a prevenire il verificarsi degli illeciti e l’adozione di strumenti destinati
a tener conto degli interessi sovraindividuali coinvolti nell’esercizio dell’attività
imprenditoriale, nell’ambito della più generale tendenza dell’ordinamento a non trascurare
le ragioni della continuità d’impresa pure a fronte di fenomeni delinquenziali. La pluralità
delle previsioni normative che danno atto della avvertita esigenza di conciliare il contrasto
al crimine di impresa con le ragioni della continuità aziendale sollecita, peraltro, una
doverosa riflessione sull’immanenza di un principio generale dell’ordinamento, ispirato alla
logica della conservazione dei beni correlati alla operatività dell’impresa e in parte
ricavabile, sul piano penale, ai criteri di adeguatezza e proporzionalità della pena e della
misura cautelare.
2
SOMMARIO: 1. Premessa. Le due tendenze evolutive dell’ordinamento nel definire misure di contrasto al
crimine di impresa. – 2. L’insufficienza del tradizionale impianto repressivo e la necessità di una matura
collaborazione del mondo imprenditoriale: il modello delineato dal d.lgs. n. 231 del 2001. Luci ed ombre. –
2.1. Ruolo e problematicità dei compliance programs. – 2.2. Possibili evoluzioni del modello: l’approccio
incentivante o premiale per le imprese che indagano, denunciano, collaborano. – 3. La funzione
“terapeutica” delle misure di contrasto e l’esigenza di continuità nell’attività d’impresa pure interessata da
fenomeni delinquenziali: il commissariamento ex art. 15, d.lgs. n. 231 del 2001. – 4. Le misure disciplinate
dall’art. 32, d.l. 24 giugno 2014, n. 90. – 4.1. I rapporti con il commissariamento ex art. 15, d.lgs. n. 231 del
2001 e con le informazioni antimafia interdittive.
1. Premessa. Le due tendenze evolutive dell’ordinamento nel definire misure di
contrasto al crimine di impresa.
Con crescente intensità, ci si interroga su come conciliare con l’efficace
funzionamento di adeguati meccanismi di contrasto ai reati di impresa l’esigenza di
non compromettere i plurimi interessi di rilievo collettivo spesso soddisfatti
dall’esercizio di talune attività imprenditoriali. E’ un tema che merita di essere
esaminato tenendo conto di alcune linee di tendenza da tempo seguite
dall’ordinamento tutto (il legislatore, i giudici, talune amministrazioni) nel delineare
ed applicare meccanismi di reazione ai reati commessi nell’esercizio di attività
economiche.
Utile premettere alcuni cenni di sistema volti a mettere in evidenza talune linee
di tendenza che appaiono sempre più prepotentemente connotare l'evoluzione
dell’ordinamento.
La prima è quella che si esprime nell'affiancare alla sola punizione con finalità
preventive un sistema di prevenzione con eventuali conseguenze punitive, chiamando in
causa lo stesso mondo imprenditoriale nell’approntare modelli organizzativi idonei a
prevenire il verificarsi degli illeciti.
Si tratta della logica sottesa al modello introdotto e delineato dal d.lgs. n. 231
del 2001.
Una logica impostasi per plurime ragioni, talune connesse alla crisi o,
comunque, alle difficoltà del modello punitivo-repressivo per sé solo considerato, altre
correlate alle trasformazioni che, sul piano quantitativo ma anche qualitativo, hanno
finito per incidere sull’ubi consistam di interi fenomeni delinquenziali: ragioni che
persuadono dell’inadeguatezza di un sistema di contrasto affidato al solo
funzionamento di classici meccanismi repressivi.
La seconda linea di tendenza, in qualche modo legata sul piano concettuale alla
prima ma anche dotata di una propria autonomia, è quella che è stata indicata con il
riferimento alla funzione 'terapeutica' delle misure anche sanzionatorie previste, come
tali rivolte non già alla mera retribuzione/punizione ma sempre più alla riabilitazione
dell'attività imprenditoriale. Si tratta di opzione che il legislatore esprime sempre più
di frequente mostrando di ispirarsi, nel definire e disciplinare le misure di contrasto, ad
un approccio “terapeutico” o, forse meglio, attento alle plurime esigenze collettive
legate allo svolgimento di talune attività imprenditoriali; esigenze di volta in volta
3
legate alla destinazione finalistica delle iniziative di impresa prese in considerazione
(servizi pubblici o di pubblica necessità) ovvero alle dimensioni delle singole strutture
imprenditoriali coinvolte o, ancora, alla consistenza del radicamento territoriale delle
stesse e ai connessi livelli occupazionali assicurati.
E’ quanto è dato constatare prendendo in esame istituti la cui introduzione e
disciplina rispondono all’esigenza di tener conto degli interessi sovraindividuali
coinvolti nell’esercizio di talune tipologie di attività imprenditoriale, essendo
espressione della più generale tendenza dell’ordinamento a non trascurare le ragioni
della continuità d’impresa pure a fronte di fenomeni delinquenziali.
In questa prospettiva si pongono le misure di cui all'art. 15, d.lgs. n. 231 del
2001, e, con le dovute precisazioni che saranno svolte nel prosieguo, quelle disciplinate
dall’art. 32, d.l. n. 90 del 2014, oltre che il sistema di regole dettate dalla l. n. 190 del
2012 in funzione di prevenzione della corruzione nell'amministrazione pubblica e,
secondo una impostazione interpretativa di recente seguita dal MEF e dall'ANAC, in
talune tipologie di società pubbliche.
Naturalmente, le previsioni normative ispirate a queste logiche, inserite in un
quadro normativo articolato e spesso definito sulla base di differenti filosofie di
intervento, hanno posto e pongono anche problemi non semplici di coordinamento di
seguito segnalati.
2. L’insufficienza del tradizionale impianto repressivo e la necessità di una matura
collaborazione del mondo imprenditoriale: il modello delineato dal d.lgs. n. 231 del
2001. Luci ed ombre.
Di fronte alla crisi del modello punitivo-repressivo tradizionale, la strada
intrapresa nell’ambito del diritto penale dell’economia è quella di una nuova politica di
prevenzione.
L’avvio di questa prospettiva risale all’inizio del nuovo millennio con il d.lgs. n.
231 del 2001 e la prevista responsabilità degli enti. Il modello prescelto è stato quello
della responsabilità per l’omessa adozione delle cautele organizzative idonee ad
impedire la commissione di reati da parte dei dipendenti o degli amministratori1.
L’ente risponde per la perpetrazione del reato presupposto ad opera del vertice
aziendale o da soggetto sottoposto alla vigilanza dello stesso; non risponde laddove
abbia elaborato idonei compliance programs (mutuati dall’esperienza anglosassone).
Ebbene, gli obiettivi di prevenzione perseguiti dal legislatore, a circa tre lustri
dall’adozione della normativa, non possono certo dirsi pienamente raggiunti.
Si tralascia di dare atto delle diverse questioni interpretative ancora irrisolte,
con le conseguenti incertezze applicative che certo condizionano la riuscita del
modello.
1 A questo modello si è poi ampiamente ispirato il legislatore della l. n. 190/2012, per applicarlo, con i
dovuti adattamenti, alla prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione.
4
Si pensi, tra le altre, a quelle concernenti:
- la natura della responsabilità introdotta ed i dubbi di legittimità costituzionale
emersi con riguardo alla compatibilità con i principi di personalità della responsabilità
e di
presunzione di innocenza (in specie se si opta per la tesi che assegna natura
penale al sistema di responsabilità introdotto);
- le modalità di applicazione dei criteri di addebito all’ente della responsabilità
allorché il reato presupposto abbia struttura colposa;
- la stessa delimitazione dell’ambito soggettivo di operatività della disciplina
introdotta dal d.lgs. n. 231 del 2001 (imprese individuali, holding, società pubbliche
preposte all’espletamento di servizi o attività rivolte a soddisfare posizioni soggettive
costituzionalmente protette).
Il problema centrale, tuttavia, nel tentativo di valutare l’effettiva riuscita del
modello e della logica di prevenzione allo stesso sottesa, ruota attorno al perno
dell’intero sistema delineato dal d.lgs. n. 231 del 2001, quello cioè dei modelli di
organizzazione in funzione preventiva.
2.1. Ruolo e problematicità dei compliance programs.
Come è noto, il legislatore italiano ha introdotto una colpevolezza autonoma
dell’ente, seguendo il modello avanzato di ordinamenti come quello statunitense e non
accontentandosi di una semplice responsabilità par ricochet come nel sistema francese,
dove la responsabilità dell’ente è il semplice riflesso della responsabilità della persona
fisica che ha agito per suo conto.
La colpa deriva allora dalle concrete condizioni in cui l’ente lascia operare i
dirigenti e i sottoposti che nel suo interesse o a suo vantaggio abbiano commesso dei
reati.
La colpa organizzativa dell’ente, come tale “rimproverabile”, consegue alla
mancata realizzazione di un modello di legalità aziendale preventiva e di un efficiente
apparato di controllo in grado di indurre a considerare il reato della persona fisica
come il risultato di una non evitabile elusione fraudolenta del modello.
In concreto, nel caso in cui il reato sia commesso nell’interesse o a vantaggio
dell’ente da un soggetto in posizione apicale, l’ente risponde se non prova di aver
adottato un modello organizzativo e gestionale, idoneo a prevenire la commissione di
reati della specie di quello verificatosi, la cui efficace attuazione è affidata ad un
organismo dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo, e non prova che la
persona fisica autrice del reato ha eluso fraudolentemente i suddetti modelli, senza che
vi sia stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organo di controllo (art. 6).
I modelli di organizzazione sono quindi destinati ad assumere una posizione di
assoluta centralità nell’economia dell’intero impianto legislativo: è quanto peraltro
confermato dalla circostanza che alla relativa adozione il d.lgs. n. 231 del 2001 assegna
non solo efficacia – a seconda delle differenti impostazioni- scusante, esimente o di
esclusione della punibilità (sempre che il giudice li reputi idonei a svolgere la funzione
5
di prevenzione loro ascritta), ma anche di riduzione della sanzione pecuniaria, di
sospensione della misura cautelare interdittiva.
Ebbene, perché questo innovativo sistema di prevenzione possa funzionare è
necessario evitare che il mondo imprenditoriale assuma un approccio solo
“burocratico” nell’applicazione della disciplina legislativa con traduzione solo formale
di prassi aziendali non efficaci (c.d. cosmetic compliance); è altrettanto necessario evitare
opzioni interpretative e prassi giudiziarie animate da un elevato tasso di “diffidenza”,
inevitabilmente destinate a disincentivare l’ente nell’adozione del modello realmente
efficace, generando una sorta di rassegnazione all’ineluttabilità della responsabilità
dell’ente in presenza della sola realizzazione del reato2.
Sono queste le questioni più delicate che il d.lgs. n. 231 del 2001 ha posto e sulle
quali giova brevemente soffermarsi.
Tralasciando il dibattito sviluppatosi in merito alla natura giuridica dei modelli,
giova in specie dare atto dei profili relativi ai principi da tener conto in sede di
redazione dei compliance programs e ai requisiti di idoneità e adeguatezza del modello
organizzativo e di gestione.
Quanto ai criteri di redazione dei modelli di organizzazione, il legislatore ne ha
dettagliatamente individuato le caratteristiche, descrivendo le esigenze che essi hanno
il compito di soddisfare.
Essi devono (art. 6, co. 2, d.lgs. n. 231 del 2001):
a) individuare le attività dell’ente nell’ambito delle quali possono essere
commessi reati;
b) prevedere protocolli idonei a programmare la formazione e l’attuazione delle
decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire;
c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire
la commissione dei reati;
d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo di vigilanza
sull’osservanza dei modelli;
e) introdurre sanzioni disciplinari per il mancato rispetto delle direttive
contenute nei modelli.
È questa l’ossatura del modello organizzativo.
Un livello ulteriore di determinatezza è precluso dalla oggettiva impossibilità
di anticipare a livello legislativo, cristallizzandoli una volta per tutte, i contenuti dei
programmi, che devono calibrarsi non soltanto sul tipo di reato, ma anche sulla
natura e sulle caratteristiche dell’ente, sulle sue dimensioni e sulle peculiarità delle
attività svolte.
2 Cfr. ALESSANDRI, I criteri di imputazione della responsabilità all’ente: inquadramento concettuale e funzionalità, in
A.M. STILE-MONGILLO-G. STILE (a cura di), La responsabilità degli enti collettivi a dieci anni dal d.lgs. n.
231/2001, 2013, 239; FIORELLA-SELVAGGI, Compliance Programs e dominabilità ‘aggregata’ del fatto. Verso una
responsabilità da reato dell’ente compiutamente personale, Relazione al Congresso italo-spagnolo presso
l’Università degli studi di Milano il 29 e 30 maggio 2014, in Dir. Pen. Cont. – Riv. Trim., 3-4, 2014, 115.
6
La stessa Relazione al decreto pone in luce, invero, l’impossibilità di determinare
una tantum il perfetto modello d’organizzazione e di gestione; per costruire un
programma efficace ai sensi dell’art. 6, co. 2, occorre aver presente la realtà aziendale di
riferimento.
Il legislatore richiede quindi – affidandone al giudice il riscontro - l’idoneità e
l’efficace attuazione del modello di organizzazione.
Al riguardo, a fronte dell’unanimità di opinioni circa l’impossibilità di dedurre
dalla commissione del fatto l’inidoneità del modello organizzativo adottato, si registra tuttavia
una varietà di posizioni.
In primo luogo, si pone in luce la necessità che il giudizio di idoneità sia
formulato in concreto3. Carattere a più riprese richiesto dalla giurisprudenza impegnata
nel definire i criteri guida da seguire nella valutazione dell’idoneità dei modelli.
Dalle indicazioni fornite dalla giurisprudenza del Tribunale di Milano è stato
tratto il cosiddetto “decalogo 231”4 che contiene le ragioni in base alle quali un modello
viene considerato inidoneo e offre, a contrario, un elenco di criteri in base ai quali un
modulo organizzativo può dirsi idoneo.
Secondo queste indicazioni il modello:
deve essere adottato partendo da una mappatura dei rischi di reato specifica ed
esaustiva e non meramente ripetitiva del dato normativo;
deve preveder che i componenti dell’organo di vigilanza posseggano capacità
specifiche in tema di attività ispettiva e consulenziale;
deve prevedere quale causa di ineleggibilità a componente dell’ODV la sentenza
di condanna (o di patteggiamento) non irrevocabile;
deve differenziare tra attività rivolta ai dipendenti nella loro generalità, ai
dipendenti che operino in specifiche aree di rischio, all’organo di vigilanza e ai preposti
al controllo interno;
deve prevedere i contenuti dei corsi di formazione, la loro frequenza,
l’obbligatorietà della partecipazione ai corsi, controlli di frequenza e di qualità sul
contenuto dei programmi;
deve prevedere espressamente la comminazione di sanzioni disciplinari nei
confronti degli amministratori, direttori generali e compliance officers che per negligenza o
3 Sul punto cfr. Tribunale di Milano, Ufficio G.I.P., 8 gennaio 2010, in Foro Ambr., 2010, 350: “È compito del
giudice compiere una valutazione “ex ante” per accertare in concreto se, prima della commissione del fatto, l'impresa
aveva adottato un modello di organizzazione e gestione che potesse considerarsi efficace per prevenire i reati poi
verificatisi … Il giudizio sulla responsabilità di una persona giuridica ai sensi del d. lg. 231/2001 non può
prescindere da una verifica in concreto dell'efficacia del modello di organizzazione e gestione adottato dall'impresa
sotto inchiesta poiché diversamente si sconfinerebbe in un'ipotesi di responsabilità oggettiva sorgente per il solo fatto
della commissione di un reato presupposto da parte dei vertici di una società rendendo inattuabile la causa di
esenzione di responsabilità prevista dall'articolo 6 del predetto decreto”. 4 ARENA, Il decalogo 231 del Tribunale di Milano, in www.reatisocietari.it.
7
imperizia, non abbiano saputo individuare, e conseguentemente eliminare, violazioni e
reati;
deve prevedere sistematiche procedure di ricerca ed identificazione dei rischi
quando sussistano circostanze particolari (es. emersioni di precedenti violazioni, elevato
turn-over del personale);
deve preveder controlli di routine e controlli a sorpresa –comunque periodici- nei
confronti delle attività aziendali sensibili;
deve prevedere e disciplinare un obbligo per i dipendenti, i direttori, gli
amministratori di società di riferire all’ODV notizie rilevanti e relative alla vita dell’ente,
a violazioni del modello o alla consumazione dei reati. In particolare deve fornire
concrete indicazioni sulle modalità attraverso le quali coloro che vengano a conoscenza
di comportamenti illeciti possano riferire all’ODV;
deve contenere protocolli e procedure specifici e concreti.
Meritano segnalazione, in tema, le conclusioni raggiunte nell’ordinanza del
Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Milano 20 settembre 2004, n. 303825, il
quale rimarca innanzitutto che il modello deve comunque prevedere, in relazione alla
natura e alla dimensione dell’organizzazione nonché al tipo di attività svolta, misure
idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a scoprire ed
eliminare tempestivamente situazioni di rischio. Deve dunque essere concreto,
efficace e dinamico, cioè tale da seguire i cambiamenti dell’ente cui si riferisce. La
necessaria concretezza del modello, infatti, determina ovviamente la necessità di un
aggiornamento parallelo all’evolversi e al modificarsi della struttura del rischio di
commissione di illeciti. Fondamentale, dunque, in sede di predisposizione del
modello, l’analisi delle possibili modalità attuative dei reati stessi rispetto al contesto
operativo interno ed esterno in cui opera l’azienda. In questa analisi deve
necessariamente tenersi conto della storia dell’ente — cioè delle sue vicende, anche
giudiziarie, passate — e delle caratteristiche degli altri soggetti operanti nel medesimo
settore. Questa analisi consente d’individuare — sulla base di dati storici — in quali
momenti della vita e dell’operatività dell’ente possono più facilmente inserirsi fattori di
rischio; quali siano dunque i momenti della vita dell’ente che devono più
specificamente essere parcellizzati e procedimentalizzati in modo da poter essere
adeguatamente ed efficacemente controllati. Ad esempio, il momento della
presentazione delle offerte per gli enti che partecipano ad appalti pubblici; i contatti
con la concorrenza; la costituzione di ATI; le modalità di esecuzione degli appalti;
l’analisi delle attribuzioni a soggetti esterni di consulenze (con particolare riguardo al
costo ed effettività delle stesse), la gestione delle risorse economiche, le
movimentazioni di denari all’interno del gruppo etc.
5 In Guida al diritto, 2004, 69.
8
Oltre che in concreto, il giudizio di idoneità deve essere guidato –secondo parte
della dottrina6- da un criterio di idoneità ex ante. Tale evidenza, però, è affiancata dalla
preoccupazione che il dato empirico del reato effettivamente verificatosi vanifichi tale
criterio innescando un più facile ragionamento di tipo circolare improntato al criterio
della idoneità ex post. Secondo tale dottrina, proprio simile preoccupazione è alla base
della sollecitudine del legislatore a predisporre un particolare procedimento di
formulazione di modelli organizzativi da parte delle associazioni di categoria.
Invero, i modelli possono essere adottati sulla base di codici di comportamento
redatti dalle associazioni rappresentative degli enti e comunicati al Ministero della
Giustizia (art. 6, co. 3)7. La previsione ha innescato un articolato dibattito. Ci si è
interrogati, in particolare, sul rapporto destinato ad intercorrere tra i codici di
comportamento e ed i singoli modelli adottati da ciascun ente e, soprattutto,
sull’estensione dei poteri del giudice in ordine a modelli singoli conformatisi a
quelli predisposti dall’associazione di appartenenza.
Secondo una prima impostazione, il potere-dovere del giudice di accertare
l’idoneità ex ante del modello posto alla sua attenzione rimane integro: la conformità
del modello particolare alle regole comportamentali espresse dalla categoria di
appartenenza dà luogo ad una mera presunzione semplice che deve superare il vaglio
processuale.
Altra parte della dottrina8, invece, ritiene che debba pur rinvenirsi – pena la
vanificazione del comma 3 dell’art. 6 - una qualche differenza tra l’ipotesi di un
modello organizzativo conforme a codici comportamentali, redatti dalle associazioni di
appartenenza e avallate dal Ministero della Giustizia di concerto con quello
competente, e quella che invece sia frutto dell’autonoma decisione del singolo ente di
munirsi di un compliance program.
In termini di efficacia del modello, si prosegue, non può sfuggire che, se si versa
in un’ipotesi come quella descritta dall’art. 6, co. 3, il giudice ha davanti un
“paradigma forte”, in quanto risultante di un procedimento di controllo di tipo
amministrativo, sicché si ritiene “che la convalida ad opera di un organo amministrativo crei
una sorta di ‘barriera’ contro il sindacato disapplicativo del giudice di fronte a quello che è un
semplice atto amministrativo”9.
La condivisione di questa seconda strada interpretativa è comunque esclusa dal
dato legislativo e dalle chiare indicazioni contenute nella Relazione di
6 RODORF, I criteri di attribuzione della responsabilità. I modelli organizzativi e gestionali idonei a prevenire i reati,
in Le Società, 2001, 1301. 7 Va segnalato che la Confindustria e l’ABI hanno elaborato dei modelli che si basano sulla precisa
delimitazione delle competenze interne, sulla separazione dei compiti specie nelle funzioni finanziari,
sulla procedimentalizzazione delle fasi a rischio di commissione di reato, sull’adozione di sanzioni per
l’inosservanza delle direttive interne anche se non è stato commesso alcun reato. 8 RUGGIERO, Brevi note sulla validità della legge punitiva amministrativa nello spazio e sulla efficacia del modello di
organizzazione nella responsabilità degli enti derivanti da reato, in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 2004, 988. 9 RUGGIERO, Brevi note sulla validità della legge, cit., 1000.
9
accompagnamento al decreto: non si rinvengono argomenti né testuali, né teleologici
che possano fondare un’efficacia “tombale” dei modelli cui ci si sta riferendo.
Per una terza e compromissoria opzione, “con un giudizio da condursi ex post, il
giudice dovrà considerare che la fonte di provenienza esterna ingenera il ragionevole
affidamento che il rispetto di quelle cautele consentirà di evitare il prodursi di una situazione
finale a carattere criminoso. Il che … significa che la soglia di prevedibilità (da valutarsi sempre
oggettivamente) subirà un sensibile innalzamento”10.
Analoga divergenza d’opinioni può registrarsi in giurisprudenza. In alcuni
arresti della giurisprudenza di merito11 è stata ascritta efficacia rilevante al tempestivo
uniformarsi ai codici di disciplina ed alle linee guida adottate dalle Istituzioni o dalle
Associazioni ed Organizzazioni di categoria. Più di recente, va segnalata una differente
presa di posizione della Corte di Cassazione in una nota vicenda giudiziaria in cui la
società, chiamata a rispondere dell’illecito amministrativo derivante dai reati di false
comunicazioni sociali e di aggiotaggio, era stata assolta nei primi due gradi di giudizio,
essendo stata valorizzata, tra i parametri di adeguatezza, la conformità del modello
predisposto dall’ente incolpato alle linee guida della Confindustria (elaborate
recependo i principi del codice di autodisciplina di Borsa Italiana e approvate dal
Ministero della Giustizia). Orbene, la suprema Corte ha annullato con rinvio la
decisione assolutoria, poiché ha affermato che le linee guida non hanno il “crisma della
incensurabilità, quasi che il giudice fosse vincolato a una sorta di ipse dixit aziendale e/o
ministeriale”12. Per tale impostazione, dunque, i criteri di redazione del compliance
program indicati dalle associazioni di categoria sono giusto una piattaforma di
riferimento, dovendo poi ogni modello organizzativo “essere ‘calato’ nella realtà aziendale
nella quale è destinato a trovare attuazione”13.
10 Ibidem. 11 Si v. Tribunale di Milano, Ufficio G.I.P., 8 gennaio 2010, cit.: “La decisione dell'organo dirigente della società
sotto inchiesta di uniformarsi tempestivamente ai codici di disciplina e alle linee guida indicate da Borsa Italiana e
Confindustria è un dato fondamentale per affermare l’idoneità del modello di organizzazione e gestione, a maggior
ragione in assenza di precedenti in una materia di assoluta novità per la giurisprudenza e la dottrina nazionali, quale
era quella della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche all'epoca dei fatti”. 12 Cass., sez. V, 18 dicembre 2013, n. 4677. 13 In dottrina, nel condividere questa impostazione, PALIERO, Responsabilità degli enti e principio di
colpevolezza al vaglio della Cassazione: occasione mancata o definitivo de profundis?, in Le società, 2014, p. 475
ss., ha cura di evidenziare che sarebbe stato opportuno da parte del Supremo Collegio chiarire se dall’ente
“era esigibile ‘qualcosa di più’ di un recepimento adattativo di quelle direttive alla realtà aziendale singola” (al di là
del valore contingente del giudizio positivo dei giudici di merito, legato al momento storico dello stesso, in
base alla conformità alle linee-guida).
10
2.2. Possibili evoluzioni del modello: l’approccio incentivante o premiale per le imprese che
indagano, denunciano, collaborano.
Si tratta, all’evidenza, di questioni di non agevole soluzione e che suggeriscono
di valutare le proposte, da più parti avanzate, volte a promuovere un’evoluzione del
modello delineato dal d.lgs. n. 231 del 2001.
Un’evoluzione possibile del sistema delineato dal d.lgs. n. 231 del 2001 è quella
volta a far sì che lo stesso poggi, in una prospettiva di ulteriore rafforzamento della
logica di prevenzione allo stesso sottesa, non solo su meccanismi sanzionatori per
l’ipotesi di non adozione o non efficace attuazione dei modelli, ma anche su misure di
tipo incentivante o premiale, volte a motivare gli agents privati a comportarsi nel modo
più corretto. Gli incentivi dovrebbero essere diretti sia a promuovere l’impegno delle
organizzazioni nella prevenzione dei reati anche mediante meccanismi che favoriscano
l’auto-denuncia allo Stato di fatti illeciti da parte dell’azienda o dei suoi dipendenti, sia
ad incoraggiare il rispetto delle regole societarie da parte di manager e dipendenti,
favorendo la segnalazione degli illeciti anche all’interno dell’impresa stessa.
Questa potrebbe essere la sfida sulla quale cimentarsi nei prossimi anni,
stimolando una profonda riflessione sul sistema degli incentivi, per esempio con
l’introduzione di meccanismi premiali che escludano o attenuino la responsabilità
dell’impresa in considerazione dalla cooperazione con le autorità penali, dell’efficacia
delle investigazioni condotte in ambito aziendale, dell’adeguata tutela dell’attività di
whistle-blowing.
3. La funzione “terapeutica” delle misure di contrasto e l’esigenza di continuità
nell’attività d’impresa pure interessata da fenomeni delinquenziali: il
commissariamento ex art. 15, d.lgs. n. 231 del 2001.
Come indicato in premessa, una seconda linea di tendenza, da tempo emersa
nella disciplina relativa ai meccanismi di contrasto al crimine di impresa, è quella che è
stata indicata con il riferimento alla funzione “terapeutica” di talune misure anche
sanzionatorie previste. Le stesse non sono rivolte alla mera retribuzione/punizione ma
sempre più alla riabilitazione dell'attività imprenditoriale e al suo reinserimento nel
circuito dell'economia pulita.
Di tale approccio del legislatore e dell’ordinamento costituiscono conferma i
meccanismi delineati dagli artt. 15, d.lgs. n. 231 del 2001, e 32, d.l. n. 90 del 2014, tanto
più se considerati nel raffronto, rispettivamente, con le sanzioni interdittive previste
dallo stesso d.lgs. n. 231 del 2001, e con le informative antimafia interdittive e gli effetti
che alle stesse riconnette l’art. 94, co. 3, d.lgs. n. 159 del 2011. La pluralità delle
previsioni normative che danno atto della avvertita esigenza di conciliare il contrasto al
crimine di impresa con le ragioni della continuità aziendale sollecita, peraltro, una
doverosa riflessione sull’immanenza di un principio generale dell’ordinamento,
ispirato alla logica della conservazione dei beni correlati alla operatività dell’impresa e
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in parte ricavabile, sul piano penale, ai criteri di adeguatezza e proporzionalità della
pena e della misura cautelare.
Quanto alla prima delle due citate ipotesi applicative, l’art. 15, d.lgs. n. 231 del
2001, prevede che, a certe condizioni, acclarata la responsabilità dell’ente, il giudice
debba disporre, in luogo della prevista sanzione interdittiva, la misura del
commissariamento14.
Invero, nei casi più gravi di responsabilità dell’ente e dipendente da reati
commessi nel suo interesse o per suo vantaggio, è prevista l'applicazione di sanzioni
interdittive che possono anche comportare l'interruzione della sua attività. Ciò al
duplice fine di non consentire che l'ente possa conseguire comunque vantaggi dal
compimento di illeciti e di impedire che un'organizzazione con particolare propensione
all'illecito possa continuare ad operare senza emendarsi15. Ove ricorra l'esigenza di
anticipare alcuni effetti della decisione definitiva che riguarda l'ente è prevista
l’applicazione delle misure interdittive in sede cautelare per assicurare l'effettività
dell'accertamento giurisdizionale.
Laddove l'ente svolga un pubblico servizio, anche non essenziale, o un servizio
di pubblica necessità la cui interruzione possa arrecare un grave pregiudizio alla
collettività ovvero, tenuto conto delle sue dimensioni e delle condizioni economiche
del territorio in cui è situato, avere rilevanti ripercussioni sull'occupazione, è previsto
nel comma 1 dell'art. 15 che il giudice possa disporre la prosecuzione dell'attività
sostituendo la sanzione inibitoria con la nomina di un commissario giudiziale per un periodo
corrispondente alla durata della sanzione stessa, sempre che sussistano i presupposti per
l’applicazione di una misura interdittiva.
Sul piano strutturale la nomina del commissario si pone come una sanzione che
surroga le sanzioni interdittive, finalizzata ad evitare che, in determinate situazioni,
14 Art. 15, d.lgs. n. 231 del 2001 – “1. Se sussistono i presupposti per l'applicazione di una sanzione interdittiva che
determina l'interruzione dell'attività dell'ente, il giudice, in luogo dell'applicazione della sanzione, dispone la
prosecuzione dell'attività dell'ente da parte di un commissario per un periodo pari alla durata della pena interdittiva
che sarebbe stata applicata, quando ricorre almeno una delle seguenti condizioni:
a) l'ente svolge un pubblico servizio o un servizio di pubblica necessità la cui interruzione può provocare un grave
pregiudizio alla collettività;
b) l'interruzione dell'attività dell'ente può provocare, tenuto conto delle sue dimensioni e delle condizioni economiche
del territorio in cui è situato, rilevanti ripercussioni sull'occupazione.
2. Con la sentenza che dispone la prosecuzione dell'attività, il giudice indica i compiti ed i poteri del commissario,
tenendo conto della specifica attività in cui è stato posto in essere l'illecito da parte dell'ente.
3. Nell'ambito dei compiti e dei poteri indicati dal giudice, il commissario cura l'adozione e l'efficace attuazione dei
modelli di organizzazione e di controllo idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Non può compiere
atti di straordinaria amministrazione senza autorizzazione del giudice.
4. Il profitto derivante dalla prosecuzione dell'attività viene confiscato.
5. La prosecuzione dell'attività da parte del commissario non può essere disposta quando l'interruzione dell'attività
consegue all'applicazione in via definitiva di una sanzione interdittiva”. 15 PANETTA, Responsabilità da reato degli enti: più certi confini per l’applicazione in sede cautelare del principio di
frazionabilità delle sanzioni interdittive e nomina del commissario giudiziale, in Cass. Pen., 2011, 3536 e ss.
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l'accertamento della responsabilità dell'ente si risolva in un pregiudizio per la
collettività16.
Si tratta di una misura alternativa che conserva il carattere afflittivo come si desume
dalla durata della misura, equiparata a quella della sanzione che sostituisce, e dalla
previsione della confisca dell’eventuale profitto prodotto dalla gestione commissariale (art. 15,
co. 4), avente la precipua finalità di impedire che l’ente benefici degli esiti di un’attività
dalla quale è stato estromesso.
L’esigenza del legislatore e dell’ordinamento di coniugare con l’approccio
sanzionatorio, che si esprime nella previsione delle misure interdittive, quello attento
alle ragioni anche di interesse collettivo che ruotano attorno all’esercizio dell’attività di
impresa, in specie quando di utilità pubblica o di spiccate dimensioni, si manifesta non
solo nella astratta previsione della misura del commissariamento ma anche nella
concreta conformazione dello stesso.
Giova, al riguardo, considerare che con la previsione del commissario
giudiziale si ammette lo spossessamento gestionale in conseguenza di un mero e
singolo fatto-reato attribuito ad un’impresa, peraltro ontologicamente lecita17.
A monte, la sanzione interdittiva rischia di investire l’impresa nella sua
interezza, nonostante sia inflitta a seguito di procedimento nel quale è accertato un
reato presupposto commesso nello svolgimento di uno solo dei rami di attività o
comparti produttivi che concorrono ad integrare il complesso aziendale.
E’ tuttavia necessario tenere conto, al riguardo, che l'art. 14, d.lgs. n. 231 del
2001, in tema di scelta delle sanzioni interdittive, prescrive al giudice di far riferimento
al parametro della frazionabilità.
Il comma 1 stabilisce che le sanzioni interdittive hanno ad oggetto la specifica
attività alla quale si riferisce l'illecito dell'ente. La necessità di evitare una
indiscriminata penalizzazione di tutte le attività svolte dall'ente risponde ai principi
fondamentali di proporzionalità e adeguatezza nella determinazione delle sanzioni. Le
sanzioni, per quanto possibile, devono colpire il ramo di attività in cui si è sprigionato
l'illecito, in omaggio ai principi di economicità e di proporzione, tenuto conto della
dinamicità dell’attività d’impresa e della frammentazione dei comparti produttivi.
Sul piano operativo il principio si riflette nel secondo comma dell'art. 69, d.lgs.
n. 231 del 2001, che impone al giudice, in caso di applicazione delle sanzioni
interdittive, di indicare sempre le attività o le strutture oggetto della misura, in
maniera da risolvere in anticipo i dubbi che potrebbero sorgere in sede di esecuzione18.
La giurisprudenza ha ritenuto applicabile il comma 1 dell'art. 14 anche in sede
cautelare. Il giudice deve propendere per una applicazione circoscritta della sanzione
ogni qualvolta è possibile individuare i comparti di attività dell'ente che hanno dato
origine al reato. Si è così previsto, con riguardo al divieto di contrarre con la pubblica
16 PANETTA, Responsabilità da reato, cit. 17 SGUBBI-GUERINI, L'art. 32 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90. Un primo commento, in questa Rivista, 2014. 18 PANETTA, Responsabilità da reato, cit.
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amministrazione, la frazionabilità di questa sanzione, che potrà avere ad oggetto alcuni
contratti o riguardare solo alcune amministrazioni.
Cass., sez. VI, 31 maggio 2010, n. 20560, è andata oltre, sostenendo che “la
valutazione sulla frazionabilità della misura non è condizionata dalla differenziazione
dell'attività dell'impresa in quanto anche ad un ente che svolge un'unica attività può essere
applicata una misura limitata solo ad una parte dell'attività stessa”. In ossequio dunque al
principio della frazionabilità delle sanzioni interdittive, la Corte sostiene che “dinanzi
alla forte invasività delle sanzioni interdittive nella vita dell'ente il legislatore ha voluto che il
giudice tenga conto della realtà organizzativa dell'ente sia per ‘neutralizzare il luogo nel quale
si è originato l'illecito’, sia per applicare la sanzione valorizzandone l'adeguatezza e la
proporzionalità, nel rispetto del criterio dell'extrema ratio”19. Ne consegue che anche il
giudice della cautela è tenuto a valutare l'incidenza della misura sulla specifica attività
alla quale si riferisce l'illecito dell'ente, limitando, quindi, ove possibile, la misura solo
ad alcuni settori dell'attività dell'ente; ebbene - conclude la Corte- la suesposta
valutazione va fatta anche nel caso in cui si provveda alla sostituzione della misura
interdittiva con la nomina del commissario giudiziale.
4. Le misure disciplinate dall’art. 32, d.l. 24 giugno 2014, n. 90.
L’art. 32 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni
dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, ha introdotto misure avanzate sul fronte della
prevenzione e del contrasto dei fenomeni corruttivi, definite “misure straordinarie di
gestione, sostegno e monitoraggio di imprese”.
Si tratta di misure che, disposte a fini anticorruzione, sono dalla legge finalizzate
esclusivamente alla completa esecuzione delle prestazioni oggetto del contratto
pubblico, in relazione al quale sono emerse le fattispecie di reato o gli altri
comportamenti illeciti. Ad una logica analoga risponde la previsione dell'art. 32,
comma 10, d.l. n. 90 del 2014 che consente di irrogare le predette misure anche alle
imprese colpite da informazione antimafia interdittiva. Anche in questo caso la previsione
legislativa è volta ad assicurare il completamento dell'esecuzione contrattuale o la sua
prosecuzione quale mezzo per soddisfare interessi pubblici di rango più elevato,
tassativamente elencati dalla norma, e cioè la continuità di funzioni e servizi
indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, la salvaguardia di livelli occupazionali,
l’integrità dei bilanci pubblici.
Misure, quindi, introdotte non tanto con finalità “terapeutica” dell’impresa
quanto, piuttosto, con la finalità di salvaguardare - attraverso una conformazione della
libertà d'impresa - la realizzazione di interessi pubblici superiori messi in pericolo da
situazioni di contiguità o agevolazione mafiosa, ascrivibili a responsabilità dell'impresa
e dei soggetti capaci di condizionarne l'andamento: è quanto confermato dalla
circostanza che si tratta di presidi a garanzia di uno specifico "contratto"- quello in
19 In senso conforme, Cass., sez. VI, 28 settembre 2011, n. 43108.
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relazione al quale vengono in evidenza le esigenze individuate dall'art. 32 - e non della
totalità delle commesse pubbliche acquisite dall’impresa al momento dell'adozione
della misura.
Venendo al contenuto delle misure, il citato art. 32 prevede una graduazione
delle stesse in ragione della gravità della situazione riscontrata a carico dell'operatore
economico e, quindi, dell'entità degli interventi che devono essere messi in campo per
assicurare che la prosecuzione del contratto possa avvenire in condizioni di ripristinata
legalità nei rapporti con la pubblica amministrazione ovvero di assenza di contiguità o
collusioni, anche solo agevolative, con ambienti della criminalità organizzata.
La più lieve delle misure – da disporre nei casi ritenuti meno gravi, ossia quelli
in cui le indagini riguardino soggetti diversi dagli organi sociali, coinvolgendo figure
societarie apicali ma diverse dagli organi di amministrazione in senso proprio- consiste
nell'inserimento nell'impresa di un “presidio” composto di esperti in numero non
superiore a tre, allo scopo di ricondurne la gestione su binari di legalità e trasparenza
(art. 32, co. 8).
Nei casi diversi da quelli di lieve entità il richiamato art. 32 prevede due distinte
misure.
La prima consiste nell'ordine di rinnovare la composizione degli organi sociali,
sostituendo il titolare o componente che risulta coinvolto nel procedimento penale per
fatti di corruzione o al quale sono ascrivibili le altre situazioni anomale o di
collusione/contiguità mafiosa. Arduo ritenere che l'ordine di rinnovazione degli organi
sociali non vada riferito all'intera organizzazione aziendale ma soltanto a quella sua
parte impegnata nell'esecuzione del contratto in relazione al quale è stato adottato
l'ordine stesso.
L'altra misura prevista, da applicarsi nei casi più gravi o in quelli di
inottemperanza all'ingiunzione di rinnovare gli organi, consiste nella straordinaria e
temporanea gestione dell’impresa appaltatrice, limitatamente alla completa esecuzione
del contratto d’appalto oggetto del procedimento penale, con la nomina di uno o più
amministratori.
4.1. I rapporti con il commissariamento ex art. 15, d.lgs. n. 231 del 2001 e con le informazioni
antimafia interdittive.
Non agevole la ricostruzione della linea di demarcazione tra le misure
disciplinate dal citato art. 32, quelle del commissariamento ex art. 15, d.lgs. n. 231 del
2001, e delle informazioni antimafia interdittive.
Quanto ai rapporti con l’istituto del commissariamento previsto dal d.lgs. n. 231
del 2001 – come visto attivabile già in sede cautelare - è stato ritenuto che la misura
della straordinaria e temporanea gestione se ne distinguerebbe ontologicamente,
essendo volta a sottoporre a controllo quella parte dell'impresa impegnata nello
specifico contratto pubblico per cui viene ravvisata l'esigenza di intervenire, non anche
– come il commissariamento - a realizzare un integrale e radicale "spossessamento" dei
poteri gestori (ANAC, Seconde Linee Guida per l’applicazione delle misure straordinarie di
15
gestione, sostegno e monitoraggio di imprese nell’ambito della prevenzione anticorruzione e
antimafia, 27 gennaio 2015). Impostazione interpretativa la cui bontà merita tuttavia di
essere apprezzata tenendo conto degli esposti orientamenti giurisprudenziali che,
anche con riferimento all’istituto del commissariamento ex art. 15, d.lgs. n. 231 del 2001,
impongono al giudice penale che lo dispone di tener conto del principio di
frazionabilità, inteso come corollario di quelli di proporzionalità ed adeguatezza. In
caso di interferenza, allora, la natura giudiziale della misura ex art. 15, d.lgs. n.
231/2001, dovrebbe indurre a ritenere la prevalenza della stessa rispetto a quella ex art.
32, d.l. n. 90/2014, che è quanto può trovare una base giuridica nel comma 5 dello
stesso art. 32, a tenore del quale “Le misure di cui al comma 2 sono revocate e cessano
comunque di produrre effetti in caso di provvedimento che dispone la confisca, il sequestro o
l'amministrazione giudiziaria dell'impresa nell'ambito di procedimenti penali o per
l'applicazione di misure di prevenzione”.
Quanto ai rapporti tra le misure disciplinate dal citato art. 32 e le informazioni
antimafia interdittive, giova considerare che l'art. 32, comma 10, prevede che le misure
straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio dell'impresa trovino applicazione
“ancorché ricorrano i presupposti di cui all'articolo 94, comma 3” del d.lgs. n. 159/2011.
Ne deriva che, presenti le condizioni previste dal citato art. 32 e riscontrata
quindi la necessità di salvaguardare i particolari interessi pubblici indicati al
richiamato comma 10, il Prefetto dovrà necessariamente fare luogo all'applicazione
delle predette misure straordinarie, tanto nel caso in cui, essendo stata l’impresa
colpita da interdittiva, sia la stessa soggetta alle conseguenze di cui all’art. 94, comma 2
(revoca e recesso), quanto nel caso in cui la stazione appaltante abbia espresso la
necessità di continuare nel rapporto contrattuale, in quanto l'opera è in corso di
ultimazione, ovvero l'impresa, fornitrice di beni e servizi ritenuti essenziali per
l'interesse pubblico, non sia sostituibile in tempi rapidi (art. 94, comma 3). Si tratta di
soluzione agevolmente spiegabile se si considera che il citato art. 94, comma 3,
consente di proseguire nel rapporto contrattuale senza introdurre alcuna forma di
controllo o di "presidio di legalità" nell'impresa che risulta essere infiltrata.