La musica dai miti dell’antica Grecia al melodramma
L'importanza della musica nella cultura si può scoprire attraverso lo studio delle mitologie, dei riti,
delle filosofie di diversi popoli. Nei miti dell’antica Grecia ad esempio la musica riveste spesso un
ruolo quasi da protagonista, segno che la cultura greca attribuiva enorme importanza alla musica,
tanto da considerarla materia di studio nelle scuole perché capace di “addolcire” l’animo umano.
Alla musica gli antichi greci hanno dedicato anche studi sia di carattere scientifico (come nasce il
suono e quali caratteristiche ha) che filosofico (la musica e la sua influenza sull’uomo). Traccia di
questa enorme considerazione verso la musica si può riscontrare in numerosi miti greci del
passato, molti dei quali venivano divulgati in rappresentazioni teatrali (Tragedia e Commedia)
dove recitazione, danza, canto e musica erano gli ingredienti fondamentali.
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Il mito di Orfeo ed Euridice
Orfeo, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto, che non aveva eguali tra
uomini e dei, era, figlio del re di Tracia e della musa Calliope (o secondo altri di Apollo e di
Calliope).Il Dio Apollo un giorno gli donò una lira e le muse gli insegnarono a usarla e divenne talmente abile
che: «Alla musica dolce di Orfeo, cessava il fragore del rapido torrente, e l'acqua fugace...perdeva il
suo impeto ... sugli alberi gli uccelli... commuovendosi nell'ascoltare il dolce canto, perdeva(no) le
forze e cadeva(no) ... e perfino le belve accorrevano dalle loro tane al melodioso canto (...)». Ogni
creatura amava Orfeo ed era incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma Orfeo aveva occhi
solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride, che divenne sua sposa. Il destino però non
aveva previsto per loro un amore duraturo infatti un giorno la bellezza di Euridice fece ardere il
cuore del pastore Aristeo (fratello di Orfeo) che si innamorò di lei e cercò di sedurla. La fanciulla
per sfuggire alle sue insistenze si mise a correre ma ebbe la sfortuna di calpestare un serpente
nascosto nell'erba che la morsicò, provocandone la morte istantanea.
Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa decise di
scendere nell'Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Convinse con la sua musica Caronte
a traghettarlo sull'altra riva del fiume Stige (che collegava il regno dei vivi con quello dei morti)...e i
giudici dei morti a farlo passare e nonostante fosse circondato da anime dannate che tentavano in
tutti i modi di afferrarlo, riuscì a giungere alla presenza di Ade e Persefone dei degli inferi.
Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a suonare e a cantare la sua disperazione e solitudine
e le sue melodie erano così piene di dolore e di disperazione che gli stessi signori degli inferi si
commossero... Così fu concesso a Orfeo di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che
durante il viaggio verso la terra la precedesse e non si voltasse a guardarla fino a quando non
fossero giunti alla luce del sole.
Durante il viaggio, un sospetto cominciò a farsi strada nella sua mente: pensando di condurre per mano un'ombra e non Euridice, dimenticando la promessa fatta si voltò a guardarla ma nello stesso istante in cui i suoi occhi si posarono sul suo volto Euridice svanì, e Orfeo assistette impotente alla sua morte per la seconda volta.
Racconta Ovidio nelle Metamorfosi: « Ed Ella, morendo per la seconda volta, non si lamentò; e di che cosa avrebbe infatti dovuto lagnarsi se non d'essere troppo amata? Porse al marito l'estremo addio, che Orfeo a stento riuscì ad afferrare, e ripiombò di nuovo nel luogo donde s'era mossa». Invano Orfeo per sette giorni cercò di convincere
Caronte a condurlo nuovamente alla
presenza del signore degli inferi ma questi
per tutta risposta lo ricacciò alla luce della
vita. Si rifugiò allora Orfeo sul monte
Rodope, in Tracia, trascorrendo il tempo in
solitudine e nella disperazione. Alcune
versioni del mito raccontano della morte di
Orfeo per mano delle Baccanti (donne
seguaci del dio Bacco), che istigate dallo
stesso dio Bacco, decisero di ucciderlo
durante un rituale.
Dipinto che ritrae il viaggio di ritorno dagli inferi di Orfeo ed Euridice la sua sposa
Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e
sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nel fiume Ebro.
Scrive il poeta Virgilio (Georgiche, IV): «(...) Anche allora, mentre il capo di Orfeo, spiccato dal
collo bianco come marmo, veniva travolto dai flutti, "Euridice!" ripeteva la voce da sola; e la sua
lingua già fredda: "Ah, misera Euridice!" chiamava con la voce spirante; e lungo le sponde del
fiume l'eco ripeteva “Euridice"».
Quale che fosse il modo come Orfeo morì è certo che ogni essere del creato pianse la sua morte, le
ninfe indossarono una veste nera in segno di lutto e i fiumi si ingrossarono per il troppo pianto.Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo e ancor oggi,
in quel luogo, il canto degli usignoli (4) è il più soave che in qualunque parte della terra.
“La testa di Orfeo”
Gustave Moreau 1890
Il mito di Pan
Sono numerose le leggende che si narrano attorno alla figura del dio Pan. Alcuni affermano che
fosse figlio di Zeus e di Callisto altri di Ermes e della ninfa Driope (o Penelope) che, subito dopo
averlo messo al mondo, lo abbandonò tanto era rimasta inorridita dalla sua bruttezza. Era infatti
Pan, più simile a un animale che a un uomo in quanto il corpo era coperto da ispido pelo; dalla
bocca spuntavano delle zanne ingiallite; il mento era ricoperto da una folta barba; in fronte aveva
due corna e al posto dei piedi aveva due zoccoli caprini. Ermes, impietosito da questo bambino al
quale la natura non aveva certo fatto dono di alcuna grazia, decise di portarlo nell'Olimpo al
cospetto degli altri dei, dove, nonostante il suo aspetto, fu accolto con benevolenza. Pan infatti
aveva un carattere gioviale e cortese e tutti gli dei si rallegravano alla sua presenza(2). In
particolare Dioniso lo accolse con maggior entusiasmo tanto che divenne uno dei suoi compagni
prediletti e insieme facevano scorribande attraverso i boschi e le campagne rallegrandosi della
reciproca compagnia.
Pan era fondamentalmente un dio dei boschi che amava la natura, amava ridere e giocare. Amò e
sedusse molte donne tra le quali la ninfa Siringa, (figlia di Ladone, divinità fluviale) della quale si
innamorò perdutamente. La fanciulla però non solo non condivideva il suo amore ma quando lo
vide fuggì inorridita, terrorizzata dal suo aspetto caprino. Corse e corse Siringa inseguita da Pan e
resasi conto che non poteva sfuggirgli iniziò a pregare il proprio padre perchè le mutasse l'aspetto
in modo che Pan non potesse riconoscerla. Ladone, straziato dalle preghiere della figlia, la
trasformò in una canna nei pressi di una grande palude.
Pan, invano cercò di afferrarla ma la trasformazione avvenne sotto i suoi occhi. Afflitto, abbracciò
le canne ma più nulla poteva fare per Siringa. A quel punto recise la canna, la tagliò in tanti pezzetti
di lunghezza diversa e li legò assieme. Fabbricò così uno strumento musicale al quale diede il nome
di "siringa" (che ai posteri è anche noto come il "flauto di pan") dalla sventurata fanciulla che pur di
non sottostare al suo amore, fu condannata a vivere per sempre come una canna.
Flauto di Pan
o Siringa
Narra Ovidio (Metamorfosi): «Pan che, mentre tornava dal colle Liceo, la vide, col capo cinto d'aculei di pino, le disse queste parole...». E non restava che riferirle: come la ninfa, sorda alle preghiere, fuggisse per luoghi impervi, finché non giunse alle correnti tranquille del sabbioso Ladone; come qui, impedendole il fiume di correre oltre, invocasse le sorelle dell'acqua di mutarle forma; come Pan, quando credeva d'aver ghermito ormai Siringa, stringesse, in luogo del suo corpo, un ciuffo di canne palustri e si sciogliesse in sospiri: allora il vento, vibrando nelle canne, produsse un suono delicato, simile a un lamento e il dio incantato dalla dolcezza tutta nuova di quella musica: «Così, così continuerò a parlarti», disse e, saldate fra loro con la cera alcune canne diseguali, mantenne allo strumento il nome della sua fanciulla».
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Il mito di Marsia
Racconta il mito che un giorno la dea Atena, per riprodurre il lamento delle Gorgoni (mostri che
rappresentavano le profondità marine) quando Medusa (loro sorella) fu decapitata da Perseo,
inventò uno strumento a fiato, l’aulòs, un flauto a doppia canna. Qualche tempo dopo, al termine di
un banchetto degli dei, la dea per compiacere Zeus e gli altri convitati, prese il suo strumento ed
iniziò a suonare. La musica era piacevole, ma ciò nonostante Era e Afrodite scoppiarono a ridere,
prendendosi gioco di lei. Offesa, Atena fuggì dall'Olimpo, fermandosi nei pressi di un lago; qui
riprese a suonare lo strumento, ma vedendo il suo volto riflesso nell’acqua capì il motivo dell’ilarità
delle due dee: soffiando nelle canne del flauto, infatti, il viso della dea si gonfiava, arrossava e
deformava. Adirata, Atena gettò via lo strumento musicale maledicendo chiunque l’avesse raccolto.
L’aulòs fu trovato e raccolto da Marsia, un satiro originario della frigia, che esercitandosi divenne
abilissimo nel suonarlo. La bravura e la fama di Marsia crescevano sempre di più, tanto che un
giorno il satiro osò lanciare una sfida ad Apollo, dio della musica, certo di poterlo battere. Il dio
accettò e chiamò le Muse a giudicare la contesa.
In un primo momento la giuria rimase
molto colpita dalle melodie dell’aulòs di
Marsia; Apollo quindi – temendo una
sconfitta – iniziò a suonare la sua lira e a
cantare contemporaneamente, sfidando il
rivale a fare altrettanto: chiaramente, la
natura stessa dello strumento a fiato del
satiro non gliel’avrebbe consentito, e così
la vittoria fu assegnata al dio. Come
punizione per aver osato sfidare un dio,
mettendosi in competizione, Apollo sottopose Marsia ad una tortura atroce legatolo ad un albero,
lo scorticò vivo. Satiri, ninfe e fauni accorsero per piangere un ultima volta il compagno, e dalle loro
lacrime nacque un fiume che prese il suo nome.
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Il Melodramma
Nel Rinascimento, in seguito alla riscoperta della cultura classica-ellenistica, il teatro greco-antico
ha influenzato, prima in Italia e poi nel resto d’Europa, la nascita di una nuova forma d’arte che
integra in sè diverse espressioni: il Melodramma, o dramma in musica, dal greco melòs (musica) e
drama (azione/avvenimento). Ancora oggi il Melodramma è una forma di spettacolo teatrale tra le
più diffuse ed apprezzate al mondo, il motivo di tanto successo sta negli argomenti rappresentati
che sono universali, cioè riconosciuti e condivisi da tutti ( i sentimenti, i vizi, le virtù dell’essere
umano). Altro motivo di successo è l’utilizzo contemporaneo di diverse espressioni artistiche che
concorrono alla realizzazione dell’opera. Danza, musica, canto, recitazione, scenografia e costumi
rendono questa forma di spettacolo molto accattivante e ricca di fascino. Il primo melodramma fu
rappresentato in occasione delle nozze di Maria de' Medici, figlia del granduca di Toscana
Francesco I de' Medici, con Enrico IV di Francia, celebrate nel Duomo di Firenze il 5 ottobre del
1600. Il titolo dell’opera era “Euridice” ispirato all’antico mito greco di Orfeo (e la sua sposa),
l’autore del melodramma fu il musicista Jacopo Peri, che insieme all’autore dei testi, Ottavio
Rinuccini, apparteneva al gruppo di studiosi fiorentini che si dedicarono alla riscoperta della
cultura greca-antica denominato “Camerata de’ Bardi”.
Per Camerata de' Bardi - o Camerata Fiorentina, si intende quel gruppo di studiosi che verso la fine
del XVI secolo si incontravano per discutere di musica, letteratura, scienza ed arti. È nota per aver
elaborato le idee che avrebbero portato alla nascita del melodramma o "recitar cantando". Prende il
nome dal conte Giovanni Bardi, nella cui dimora di Firenze, oggi Palazzo Bardi, si tenevano le
riunioni. Alla rappresentazione dell’opera era presente Claudio Monteverdi il maggior musicista
italiano dell’epoca, invitato insieme al suo signore, il Granduca di Mantova, ai festeggiamenti per le
nozze di Maria de' Medici.
Lo stupore suscitato dall’ascolto e dalla visione di questo nuovo genere di spettacolo, insieme alle
insistenze del suo signore e mecenate, indussero Monteverdi a comporre una nuova versione del
mito di Orfeo. Il risultato fu la nascita di uno dei primi capolavori di questo genere musicale, tanto
che ancora oggi in molti teatri viene rappresentato sia in versione originale che con adattamenti più
moderni dei costumi e delle scenografie. Basata sul mito greco di Orfeo, l’opera parla della sua
discesa all'Ade, e del suo tentativo infruttuoso di riportare la sua defunta sposa Euridice alla vita
terrena. Fu composta da Monteverdi nel 1607 per essere eseguita alla corte di Mantova nel periodo
carnevalesco. Il successo dell’opera indusse alcuni intraprendenti personaggi dell’epoca ad aprire
teatri a pagamento aperti al pubblico che, pagando un biglietto d’ingresso, poteva assistere agli
spettacoli. Il primo teatro pubblico fu il San Cassiano aperto nel 1637 a Venezia.
Approfondimenti
https://winckelmann.wordpress.com/2015/04/02/i-teatri-perduti-di-venezia-il-san-cassiano/
Quando Venezia era una città, era una città di teatri. Erano ovunque, quelli per l’opera e quelli per la commedia, per la farsa e persino per i burattini, alcuni costosissimi, accessibili solo a un pubblico molto selezionato, altri a buon mercato, per fare cassa. Quasi nessuno di loro sopravvive oggi, e se anche ogni tanto succede che lo sguardo corre su un nisio’eto che ricorda un’antica presenza, pochi sanno di cosa si tratta e tirano dritto.
Calle del teatro vechio c’è scritto, fidatevi. Bene, forse non tutti sanno che in questo posto è successa una cosa che ha fatto la storia del teatro. Qui sorgeva infatti il teatro Tron (dal nome della nobile famiglia che ne era proprietaria) di San Cassiano, eretto nel Cinquecento e poi ricostruito nel secolo successivo. Qui, una sera del 1637 si rappresentò L’Andromeda di Francesco Manelli o Mannelli, musico e cantante di origine laziale che si era da poco trasferito a Venezia. Non era la prima opera che scriveva e rappresentava, ma quella volta ebbe un’idea: invece di cercare le grazie di qualche principe o cardinale che rappresentasse il lavoro nel proprio palazzo, prese in concessione un teatro e lo aprì al pubblico in cambio dell’acquisto di un biglietto d’ingresso. Quella sera del 1637, a Venezia, nacque il teatro d’opera moderno, gestito da un impresario e pensato per un pubblico pagante, dai gusti certamente meno raffinati di quelli di dame e cavalieri di una corte, ma anche un enorme stimolo per compositori, librettisti e scenografi a creare spettacoli sempre più avvincenti e coinvolgenti, con trame sempre più complesse, decine di personaggi e un apparato scenico che doveva soprattutto destare meraviglia. In questa piccola calle, insomma, è nato il teatro moderno e se dell’Andromeda di Mannelli non resta credo che il libretto, chi ha bisogno di un piccolo brivido in più può pensare che sempre qui, appena quattro anni dopo, fu rappresentato per la prima volta un capolavoro che ancora oggi vediamo sulle nostre scene, “Il ritorno di Ulisse in patria” del divino Claudio Monteverdi. Pensiamoci quando l’occhio cade su quello scrostato nisio’eto.