ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
SCUOLA DI LINGUE E LETTERATURE, TRADUZIONE E INTERPRETAZIONE
Corso di studio in lingue, mercati e culture dell’Asia
LE TRIBÙ MEDIORIENTALI
E IL CASO DELLE FATA PACH ISTANE
PROVA FINALE IN CULTURA E LETTERATURA ARABA
Relatore: Presentata da:
Prof. GIOVANNI DOMENICO BENENATI DANIELA BACCARANI
Correlatore:
Prof. GIULIO SORAVIA
Sessione: III
Anno accademico: 2012-2013
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Alla mia famiglia,
al nonno Vincenzo.
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Sommario
Introduzione ................................................................................................................................ 6
Quale Medioriente? .................................................................................................................... 9
Le influenze islamiche e arabofone nel Medioriente ............................................................ 12
Antropologia e orientalismo ..................................................................................................... 16
Nascita e sviluppo dell’antropologia nel Medioriente .......................................................... 17
L’antropologia mediorientale oggi .................................................................................... 19
L’Orientalismo ...................................................................................................................... 19
Nomadismo, pastorizia e tribù tra realtà e stereotipi ................................................................ 22
Il nomadismo pastorale ......................................................................................................... 22
Il nomadismo pastorale oggi: ............................................................................................ 25
La tribù .................................................................................................................................. 27
La tribù come organizzazione socio-politica e il modello segmentario ............................ 27
Famiglia, matrimonio e rapporti sociali nelle tribù nomadi .............................................. 31
I Pashtun ................................................................................................................................... 36
Il caso delle FATA pakistane ................................................................................................... 40
Amministrazione delle FATA .............................................................................................. 42
FCR, the black law ................................................................................................................ 43
La giustizia nelle FATA oggi ............................................................................................... 45
Bibliografia ............................................................................................................................... 48
Sitografia .................................................................................................................................. 48
Ringraziamenti ......................................................................................................................... 50
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Introduzione Nello scegliere l’argomento da trattare in queste pagine ho tentennato più volte.
Se lasciarmi andare e imprimere i miei pensieri tra carta e penna mi è sempre risultato facile
e gratificante, altrettanto non posso dire dello “scrivere per gli altri”. Un tipo di scrittura-
questa- che non può dare interamente sfogo al Mio pensiero, al Mio modo di riempire un
foglio nella maniera e con gli argomenti che desidero.
Ho cercato quindi di giungere ad un compromesso tra le necessità accademiche e la scrittrice
viziata che abita dentro di me: ho pensato ai miei amici, a tutte le battute che mi hanno fatto in
questi anni di studio di lingua araba, cultura mediorientale e islamica. Ho pensato a tutti gli
stereotipi che io già conoscevo sul Medioriente, e a quanti nuovi ne ho incontrati grazie alle
battute che mi venivano –e tutt’ora mi vengono- fatte davanti ad una birra.
Ho pensato agli amici ed ho deciso di schiarirgli un po’ le idee mettendo a frutto quanto ho
imparato in questi tre anni, quanto ho visto viaggiando qua e là con il corpo ma soprattutto
con la mente grazie alla curiosità che mi ha spinto a cercare sempre di più tra siti internet e
libri.
Inizialmente avevo intenzione di sfatare qualche stereotipo classico sul Medioriente, poi mi
son accorta che probabilmente sarebbe stato per me un lavoro noioso in cui avrei solo ripetuto
cose già dette e ridette mille volte.
Quindi ho cambiato rotta, ho pensato di concentrarmi sul fare chiarezza nel mondo degli
stereotipi religiosi. Anche qui mi sono dovuta fermare: un po’ perché anche questa strada era
già stata percorsa in tante conversazioni, un po’ perché parlando dell’islam avrei dovuto
coinvolgere nel discorso paesi che nulla hanno a che fare con la lingua araba o la cultura
mediorientale.
Con cosa riempire allora queste pagine bianche? La terza idea è stata quella giusta… Scriverò
delle tribù del Medioriente!
Anzi! Scriverò prima di cos’è il Medioriente poi parlerò delle sue tribù. Accennerò
brevemente a come lo studio di questa parte di mondo è nato, prima di lasciare spazio alle
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protagoniste. Di loro descriverò la forma, l’economia, le famiglie, la loro grandiosità nel
passato… e quello ne resta oggi.
Attenzione però! Il Medioriente è un territorio molto vasto, ovviamente le tribù che ospita
avranno particolarità diverse da zona a zona… perciò quello che scriverò non potrà essere
troppo dettagliato ma sarà solo una descrizione generale.
Per quanto che riguarda “il particolare” scelgo invece di concentrarmi su una zona situata al
limite asiatico del Medioriente: scelgo di parlare delle Aree Tribali pachistane. Scelgo loro
poiché sono aree in cui le tribù hanno ancora un’importanza fondamentale
nell’amministrazione della zona in cui sono stanziate. Scelgo loro per curiosità personale,
perché se dei beduini dell’Egitto ne sento parlare tutti gli anni in vacanza, delle tribù Pashtun
in Pakistan non so quasi niente.
Infine scelgo loro anche per comodità: queste zone sono spesso le protagoniste delle pagine di
politica internazionale o delle denunce di Amnesty International, il materiale su cui fare
ricerca perciò non manca!
Buona lettura amici miei!
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Quale Medioriente?
Il primo impiego del termine Medioriente risale ai primi anni del XX secolo, quando gli
strateghi militari inglesi lo utilizzarono per indicare le zone di loro competenza nelle colonie.
E’ quindi un termine carico di connotazioni etnocentriche, eurocentriche e colonialistiche.
Oggi tale espressione è conosciuta ed utilizzata nell’area mediorientale ed
affianca termini indigeni che si rifanno alla religione e alla posizione
geografica: dal al harb e dar al islam ب و دار ا������م���� دار ا�rispettivamente la terra della guerra e la terra in cui regna l’islam (e quindi
la pace) hanno una connotazione islamico-religiosa mentre i sostantivi
Maghreb e Marshreq ا��������قا��������ب و indicano le direzioni in cui
il sole sorge e tramonta e sono perciò di carattere più geografico.
Il Medioriente, che nel tempo ha subito
tagli e aggiunte alle terre considerate
parte di esso, al giorno d’oggi occupa
territori appartenenti a ben tre continenti
diversi (Africa, Asia ed Europa) e si
estende lungo la fascia Rabat - Teheran
per più di cinquemila chilometri.
In aggiunta a questo vastissimo
territorio, molti studiosi considerano
parte del Medioriente anche
l’Afghanistan, il Pakistan e porzioni
dell’Asia centrale ex sovietica e
dell’India grazie alla loro vicinanza
storica, linguistica e culturale.
Figura 1
Medio Oriente nella sua accezione tradizionale
“Grande Medio Oriente” come definite dal G8
Aree a volte associate al Medio Oriente per questioni socio
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La scelta di questi confini, che come già detto è variata nel tempo, è dovuta comunque a
ragioni che spaziano dalla storia, all’economia, alla cultura, e più in particolare possiamo
identificare due principali motivazioni.
• La prima di carattere storico-territoriale: l’area medio orientale si sovrappone
approssimativamente con estensione territoriale raggiunta dai tre grandi imperi della
storia musulmana, prima l’Umayyade, poi l’Abbaside ed infine l’Ottomano.
• La seconda di carattere culturale: in questi territori usi, costumi e organizzazione
sociale hanno un’estesa base comune.
Nonostante ciò, è possibile -ed è quello che fa l’antropologo Fabietti- individuare quattro
sotto-zone che meglio definiscono i territori mediorientali:
• l’area afghano-pakistana → in essa predominano le popolazioni di origine turcomanna
nella parte afghana, mentre in quella pakistana predominano popolazioni di lingua
baluch e brahui;
• l’area turco-iraniana → vi è una massiccia presenza di popolazioni di origine
turcomanna parlanti dialetti di origine turca o persiana;
• l’area della Penisola Arabica (con annessa la ragione ad occidente della Mesopotamia,
confinante con la Penisola del Sinai ad ovest e con i monti Tauro a nord) dove la
popolazione è prevalentemente semitica, parlante lingua araba. Questa è l’area in cui,
a partire dal VII sec d.C., nacquero quei modelli culturali, politici ed sociali destinati a
dare un’impronta caratteristica e decisiva al Medioriente considerato come un’unica
grande area culturale;
• l’area nordafricana compresa tra Egitto e Mauritania → islamizzata progressivamente
fin dai primi tempi dell’espansione araba e nella quale le popolazioni provenienti dalla
Penisola Araba si sono mescolate con le popolazioni indigene. Quest’area - il
Maghreb- sfuma a sud verso il Sudan e il Corno d’Africa, dove la cultura dei popoli
nomadi entra in contatto con quella delle popolazioni nere, talvolta anch’esse
islamizzate, ma in possesso di forme di organizzazioni sociale nettamente differenti.
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Se fin qui ho illustrato in breve cosa il Medioriente è, per completezza ora dirò cosa il medio
oriente non è:
• non è la terra dell’Islam. Sebbene la religione islamica sia notoriamente la più diffusa,
non possiamo ignorare la presenza di numerose comunità ebraiche e cristiane diffuse
su gran parte del territorio;
• non è il mondo arabo. La lingua araba (con numerosi dialetti regionali) è la più parlata
ma non è l’unica. In queste zone si incontrano diverse lingue come ad esempio il
curdo, l’ebraico, il berbero, il pashtu, il persiano, il turco, il baluchi e altre lingue
africane…
Se è formalmente errato definire il Medioriente
come terra araba e islamica, è comunque
innegabile l’importanza di queste due caratteristiche che sono state il filo conduttore e
unificatore di una base culturale e politica comune.
Figura 2
Lingue parlate nella zona mediorientale.
Dati in colonna:
-totale della popolazione parlante la lingua (espressa in
migliaia di unità).
-percentuale di diffusione di tale lingua sul totale dei fedeli
musulmani.
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Le influenze islamiche e arabofone nel Medioriente
La fede islamica è sicuramente quella che ha plasmato maggiormente la zona mediorientale
in base ai suoi canoni.
L’Islam formalmente nasce nel 622 d.C. (corrispondente all’anno 0 del calendario
musulmano) nel cuore della Penisola Araba.
L’ambiente in cui il Profeta Mohamed (nome completo م �����د����ا ��و ا
predica i suoi ( ا ����ن � ����د � ا ����ن � ����د ا�ط�����ب ا ����ن ھ������م
insegnamenti è lo stesso in cui il Primo Islam si sviluppa: le caratteristiche politiche
e linguistiche assieme alle tradizioni religioso-culturali sono inevitabilmente entrate
a far parte dell’impianto islamico.
Con l’espandersi del Credo fuori dai confini arabi, alcune di queste caratteristiche, ormai
intrinseche della fede musulmana, sono state conservate e accettate dalle nuove popolazioni
convertite. Giunta fino al sud est asiatico, la fede islamica subisce solo occasionalmente delle
variazioni (adorazione o meno di alcuni santi, riti pagani che si trasformano in riti islamici,
etc…) ma la dottrina religiosa rimane invariata poiché scritta nel Testo Sacro
.e quindi immutabile ا���آن ا�����
Parlare di espansione della fede islamica non significa solamente discutere di preghiere, fede
e riti, ma significa anche parlare un impianto legislativo che, basandosi sul Corano e sulla
Sunna ا���� (consuetudini e modi di comportarsi del Profeta e delle prime generazioni
islamiche), va a coesistere -se non addirittura a sostituirsi- con le leggi nazionali.
È per questo motivo che ancora oggi, a distanza di secoli, in stati molto distanti l’uno
dall’altro, con etnie, e climi completamente differenti, possiamo riscoprire una base
legislativa islamica comune.
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Se il contenuto del messaggio islamico ha influenzato il metodo di approccio a Dio con la
religione e il metodo di approccio agli altri uomini tramite la legge islamica Shari’a
���������, anche il messaggio in sé –ovvero il metodo di comunicare
utilizzato- ha in qualche modo influenzato la comunità.
Secondo la religione islamica Dio scelse la lingua araba per manifestarsi perché “la più chiara
e la più eloquente”. Tramite la religione l’arabo la conoscenza dell’arabo si è espansa fino ai
confini asiatici poiché ogni musulmano è tutt’oggi tenuto a conoscere, recitare e comprendere
il Testo Sacro nella sua lingua originale.
Ibn Taymiyya (1263 –1328) giurista e teologo siriano musulmano così scriveva:
<< Quando prendiamo l'abitudine di parlare in altre lingue a parte l'arabo , il quale è
simbolo dell'Islam e la lingua del Corano, al punto che diventa uso comune con i membri
della famiglia, con gli amici del mercato, nel parlare con funzionari governativi o altre
autorità, o con persone di scienza, e senza dubbio ciò, diventa una cosa detestabile Makruh
Figura 3 Applicazione della Shari’a
Stati a maggioranza musulmana e membri dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica in cui
la Shari’a non condiziona il sistema giuridico.
Stati in cui la Shari’a è coinvolta nel diritto di famiglia (matrimonio, divorzio, figli) e diritto
successorio. Le latre materie osno trattate con leggi secolari.
stati in cui la Shari’a è applicata ad ogni material giuridica.
Paesi che hanno approvato variazioni locali alla Legge.
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poiché adottiamo le abitudini dei non-arabi che sono detestabili Makruh,…
Quando i pii predecessori andarono a vivere in Siria e in Egitto, dove la gente parlava greco
bizantino, o in Iraq e Khorasan (n.d.r. attualmente una regione dell'Iran), dove la gente
parlava persiano, o nel Nord Africa (al-Maghreb) dove la gente parlava Berbero, essi
insegnarono ai popoli di questi paesi a parlare l'arabo, in modo che l'arabo diventasse la
lingua più comune del paese. Cosicchè tutte le persone, musulmane o no, parlavano
fluentemente l'arabo, senza distinzione.>>
e più avanti replicava:
<< Inoltre, la lingua araba è di per sé parte dell'Islam ed è un obbligo religioso. In effetti, è
un dovere capire il Corano e la Sunna che non possono essere compresi senza conoscere
l'arabo, quindi i mezzi necessari per adempiere a questo dovere religioso diventano anch' essi
obbligatori.>>
Oggi l’arabo è la lingua nativa di più di 250 milioni di persone residenti negli stati compresi
tra il Marocco, ad Occidente, e l'Iraq, ad Oriente. È la sesta lingua parlata al mondo ed è una
delle lingue ufficiali delle Nazioni Unite. In passato molte lingue non semitiche hanno usato
la scrittura araba, è il caso del persiano, del turco, del maltese e del wolof in Africa. Alcune
utilizzano questo alfabeto ancora oggi (persiano e altre lingue indoeuropee minori).
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Antropologia e orientalismo
Se del Medio Oriente conosciamo bene la tradizione colta, fatta di grande storia, scienza,
politica, filosofia, ben poco sappiamo della piccola tradizione, quella che pone le sue basi
sulla vita più pragmatica delle comunità locali, sulla loro organizzazione sociale e sul loro
quotidiano fatto di usi, costumi e prassi religiose ben distanti da quelli rappresentati nella
grande letteratura.
L’antropologia, che si occupa proprio di scoprire e studiare la piccola tradizione, ha fatto la
sua comparsa tra questi popoli con un discreto ritardo causato dallo scarso interesse dell’uomo
europeo verso usi e costumi appartenenti a queste zone così “barbare ed arretrate”.
Fino a metà del sec. XVIII gli unici europei che si inoltravano per queste terre lontane erano
mossi solo dal desiderio di conoscere i luoghi in cui il Cristo aveva vissuto e di cui la Bibbia
narrava.
A partire dalla metà del XVIII sec. l’Europa comincia finalmente ad interessarsi e scoprire
queste aree sotto il profilo della moda, dell’antiquariato, dell’archeologia… aree che erano,
poiché sviluppatesi in contesti storico-culturali differenti da quelli europei, ovviamente
anch’esse differenti dalle mode e dagli usi europei.
Tale differenza non venne vista come la naturale conseguenza di un ambiente diverso da
quello europeo, venne piuttosto interpretata come il risultato e il sunto di una generale
arretratezza dell’uomo mediorientale. I viaggi nel medio oriente iniziarono così ad essere una
lente attraverso cui poter vedere “noi europei” in epoche passate: viaggiare nello spazio
diventò sinonimo di viaggiare nel tempo. L’uomo europeo poteva vedere sé stesso agli albori
della sua civiltà.
<<Il viaggiatore filosofo che naviga verso le estremità della terra ripercorre in effetti il
cammino dei tempi: viaggia nel passato; ogni passo che compie è un secolo che
oltrepassa.>>1
1 De Gèrando, 1970, p.367
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Oltre a conquiste e viaggi “nel tempo”, nel XVIII secolo si assiste ad un crescente interesse
per l’esotismo. Campagne militari, resoconti di viaggiatori, reperti archeologici giunti da terre
lontane, accendono nell’uomo europeo la sete di conoscenza dell’altro. Il mondo
mediorientale inizia quindi a palesarsi agli europei rimasti in patria anche tramite la
traduzione di romanzi, opere teatrali, opere musicali e, più tardi, cinematografiche.
Tutto ciò contribuirà in maniera massiccia a definire molti di quelli stereotipi che tutt’oggi
sono radicati nelle nostre menti.
Curiosità: L’esempio più conosciuto di viaggio che unisce interessi economici, militari e
scientifico-antropologici è sicuramente la spedizione che nel 1798 vide come protagonista un
Napoleone deciso a conquistare l’Egitto sia dal punto di vista militare sia dal punto di vista
intellettuale: al seguito del suo esercito viaggiavano infatti geografi, ingegneri, matematici,
naturalisti, pittori, linguisti, orientalisti.
Nascita e sviluppo dell’antropologia nel Medioriente
Come già accennato prima, l’antropologia ha fatto la sua comparsa sulla scena mediorientale
piuttosto tardi rispetto al continente africano e sud americano. Questo ritardo è dovuto in
primis alla presenza degli studi orientalistici che, basandosi sulla grande tradizione (scienza,
storia, filosofia, poesia…) hanno tralasciato le materie prettamente antropologiche della
“piccola tradizione”. Inoltre, era prassi in quei tempi che gli antropologi si occupassero dello
studio di società semplici, piccole, con una bassa differenziazione della popolazione in
termini di economia, lavoro, religione, status etc. per questo motivo la società mediorientale,
vasta e complessa, non era in grado di suscitare particolare interesse.
Il Medioriente, mosaico di culture, lingue, economie, politiche etc etc. mal si adattava allo
studio antropologico classico che mirava alla descrizione di una società tramite il suo
posizionamento entro schemi ben definiti. Fu solo a partire dagli anni 40 che gli antropologi
cercarono di compiere in quest’area gli stessi studi che anni prima furono condotti nell’Africa
nera: se le ricerche sul continente sub-sahariano furono complete e dettagliate, altrettanto non
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avvenne nel più complesso e articolato Medioriente dove gli studi furono sì dettagliati, ma
circostanziali. La complessità dell’ambiente mediorientale fu celata dietro a descrizioni che
riguardavano solo le piccole comunità, mentre le grandi culture, le grandi società furono
ignorate: al mosaico mediorientale mancavano molti tasselli.
La maggior parte degli studi che prendevano in esame le società semplici, divideva il campo
d’indagine in tre blocchi entro cui operare: le ricerche erano divise tra comunità agricole,
comunità nomadi e comunità urbane. Così ripartite, queste indagini non potevano di certo
mettere in luce tutte le caratteristiche della zona poiché la comprensione di un tipo di
comunità è spesso, se non addirittura sempre, subordinata alla presa in considerazione di tutto
ciò che la circonda. Va da sé che, nel momento in cui l’ambiente circostante viene tralasciato,
lo studio e la comprensione delle caratteristiche di una determinata zona vengono
enormemente impoveriti.
Solo quando i limiti di questa strategia furono evidenti, gli antropologi riorganizzarono le loro
indagini basandosi, questa volta, su tre modelli di ricerca.
• Il primo si interessava della sfera socio-economica: prendendo in esame un gruppo
specifico, si cercava di analizzare l’interagire del gruppo stesso con l’esterno in
termini di economia e di politica.
• Il secondo modello mirava invece ad una prospettiva più regionale: si studiavano
gruppi, comunità ed istituzioni presenti in un delimitato ambiente geografico,
cercando di capire in che modo e in che misura questi fattori fossero correlati e
dipendenti uno dall’altro.
• Il terzo modello infine consisteva nello studio delle cosiddette “interfacce culturali”
<<ovvero i punti in cui le varie componenti di una società e di una cultura entrano in
contatto, si sovrappongono e si intrecciano con le componenti di altre.>>2 Questi
punti potevano essere identificati in diversi contesti: ad esempio potevano riguardare
sia il piano spaziale (mercati e santuari) sia il piano religioso (presenza di un leader-
maestro condiviso da più comunità).
2 U. Fabietti. Culture in bilico. Antropologia del Medioriente. pag 39
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L’antropologia mediorientale oggi
<<Oggi prevale la tendenza che consiste nell’accostarsi allo studio di società dell’area
mediorientale attraverso il tentativo di individuare dei “campi d’azione” e delle “aree di
significato”, come le relazioni interpersonali, il genere, la trasmissione o la riproduzione del
sapere, i media, tutti campi al cui interno si realizza il processo di scambio sociale e
simbolico, piuttosto che mediante lo studio di determinati “sotto-settori” socioculturali
(economia, religione, politica ETC ).>>3
Non dobbiamo tralasciare inoltre l’aiuto che la tecnologia ha dato negli ultimi decenni: grazie
a televisione, internet, telefoni cellulari ecc il numero di comunicazioni è cresciuto in maniera
esponenziale, favorendo indirettamente lo studio delle culture locali.
L’Orientalismo
• Atteggiamento caratterizzato da uno spiccato interesse e da una forte ammirazione
per ciò che è orientale, per la civiltà e la cultura dell’Oriente. L’interesse formale e
contenutistico rivolto, dalla letteratura e dalle arti figurative europee, alla cultura e
agli usi orientali, rientra in senso generico nell’ambito dell’esotismo. In senso stretto
una forte corrente di gusto iniziò nei primi anni del 18° sec. in Francia con la
pubblicazione delle Mille e una notte e delle Cent estampes (1715) .
Enciclopedia Treccani
• La tendenza artistico - letteraria e la corrente di studi e ricerche nati, nei secc. 18° e
19°, dal contatto della cultura europea con le culture e le tradizioni dei Paesi orientali,
ossia con il mondo musulmano e asiatico. Tale contatto, frutto delle conquiste
coloniali e imperiali e delle esplorazioni geografiche, permise un progresso
significativo della conoscenza di storia e cultura delle società orientali, nutrendo al
3 U. Fabietti. Culture in bilico. Antropologia del Medioriente. pag 39
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tempo stesso miti esotici e romantici tesi a costruire l’immagine di un Oriente oscuro
e selvaggio. L’orientalismo rivelò in campo letterario e accademico un atteggiamento
di superiorità intellettuale e antropologica giustificante un presunto intervento
civilizzatore europeo, come ha denunziato in un saggio famoso il critico palestinese E.
Said.
Dizionario di storia - Treccani
Con la sua opera, Said volle appunto denunciare l’ideologia di questo movimento che fondava
i suoi saperi e i suoi assunti su di un confronto tra l’Oriente e il colonialismo occidentale che
era pilotato a dovere dai vertici coloniali europei.
L’intento di Said fu quello di dimostrare come il sapere accumulato sotto il termine
Orientalismo altro non era che una ricostruzione del mondo e delle conoscenze orientali viste
con gli occhi del colonizzatore occidentale, colonizzatore che in quanto tale aveva scopi e
interessi ben distanti da quelli della mera e sincera conoscenza dell’altro. Colonizzatore che
invece intendeva il sapere come fonte di potere e che probabilmente è stato causa di molti di
quegli stereotipi negativi (anche se non mancarono quelli positivi!) che tutto’ora rimangono
vivi.
Curiosità: Il governo francese intraprese una massiccia attività di ricerca in vari stati-colonie
per raccogliere quante più informazioni possibili sui territori posti sotto il suo dominio. Per
quanto riguarda il dominio anglosassone –assieme a quello francese il più presente nel mondo
arabofono- le ricerche furono molto meno intense: i loro studi si rivolsero principalmente al
subcontinente indiano.
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Nomadismo, pastorizia e tribù tra realtà e stereotipi Spesso, nell’immaginario occidentale comune, il beduino è un nomade che vive in una tribù
nel deserto allevando capre o cammelli. Nomadismo, pastorizia, tribù e beduini sono quindi
associati alle stesse scene di popoli abitanti zone aride e praticanti un’economia di
sussistenza.
Seppur quasi sovrapponibili nel nostro immaginario occidentale, i termini nomadismo,
pastorizia, tribù e beduini abbracciano sfere di significato totalmente diverse l’uno dall’altro.
Nomadismo si riferisce ad una condizione spazio-geografica dell’uomo, la pastorizia riguarda
il metodo di sussistenza (e non comporta necessariamente il nomadismo!), la tribù riguarda un
tipo di organizzazione sociale ed infine l’essere beduino descrive una particolare identità
culturale. Contrariamente a quanto molti possano pensare, non necessariamente queste quattro
condizioni devono coesistere: osservando con occhi più attenti la realtà mediorientale, ci
accorgiamo, infatti, che esistono gruppi pastorali che non sono classificati nè come tribù né
come beduini (il caso dell’Oman.); nel Marocco occidentale, in Iran e Iraq troviamo invece
tribù che durante l’anno alternano periodi di nomadismo (per far pascolare pecore a capre) a
periodi d’insediamento nei villaggi.
Cercherò in questo capitolo di fare un po’ di chiarezza sulla pastorizia nomade e sulla tribù
con le sue regolo e i suoi costumi.
Il nomadismo pastorale
Se il nomadismo indica un gruppo di persone che si muove da un posto all’altro con scopi e
mete precise, possiamo descrivere il nomadismo pastorale mediorientale come una pratica che
permette agli allevatori di cammelli, pecore e capre di sfruttare al meglio le risorse in luoghi
spesso troppo aridi per praticare un allevamento più sedentario.
Lo sviluppo della pastorizia nomade, e la sua diffusione in tutta l’area mediorientale, ebbe
origine con l’addomesticamento del cammello avvenuto verso la fine del terzo millennio a.C.
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nella Penisola Araba (svilluppo molto più tardivo rispetto all’allevamento dei primi animali).
Fu proprio allevamento del cammello, così resistente da poter sopportare i climi desertici e
così rapido da poter attraversare con facilità lunghe distanze su terreni spesso sabbiosi, che
permise ai popoli della Penisola di emergere come unità sociali e politiche definite e coese.
L’allevamento del cammello si espanse successivamente dalla Penisola a tutta la zona
mediorientale percorrendo la “Via dell’incenso” che metteva in comunicazione l’attuale
Yemen (L’Arabia Felix) con i centri urbani della regione siriaca: i grandi animali, qui
impiegati per il trasporto delle merci, arrivarono presto ad essere allevati anche nel Nord -
Arabia e nell’area della Mezzaluna fertile.
I gruppi nomadi che nel corso del tempo si sono formati vengono classificati secondo la
differente tipologia di modello migratorio: da una parte troviamo i nomadi del Nord Africa e
della Penisola Araba, dall’altra troviamo invece le popolazioni più orientali della Penisola
Anatolica, la Mesopotamia e i territori fino al Baluchistan. La sostanziale differenza tra questi
due modelli è dovuta alla morfologia dei territori e di conseguenza ai climi presenti:
• Il modello verticale, caratteristico dell’area turco-iraniana, descrive spostamenti su
aree con differenti rilievi. Questo alternarsi di diverse altitudini, assieme
all’alternanza dei climi e delle piogge, permette ai nomadi di riuscire ad ottenere
risorse sufficienti al sostentamento dei loro animali durante tutto l’anno.
• Il modello orizzontale non implica spostamenti entro aree poste ad altezza differente.
Le risorse disponibili alla pastorizia non sono influenzate da variazioni altimetriche
ma dipendono piuttosto dall’abbondanza delle piogge.
La scelta del tipo di nomadismo è determinata in primo luogo dal tipo di conformazione
geologica presente nella zona abitata, ma anche dal tipo di animali allevati: il cammello per
esempio, è un animale molto robusto, riesce a sopportare le grandi escursioni termiche
caratteristiche del deserto, è molto veloce negli spostamenti sul suolo sabbioso e può
sopravvivere diversi giorni senza mangiare e bere ma, a differenza delle capre e delle pecore,
è però un animale poco prolifico. Gli ovini invece sono animali meno mobili del cammello ed
esigono una presenza quasi costante dell’uomo poiché tendono a disperdersi facilmente; la
pecora è quella meno resistente e ha bisogno di essere abbeverata più frequentemente della
capra. Capra e cammello, infine, hanno un pascolo meno selettivo e possono quindi accedere
a più tipi di foraggio senza problemi.
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Se queste caratteristiche hanno condizionato le scelte dei pastori per diversi secoli, la recente
modernizzazione ha permesso una pastorizia meno condizionata: l perforazione di pozzi in
tutto il Medioriente ha risolto il problema delle risorse idriche mentre la motorizzazione ha
permesso l’attraversamento del deserto a greggi inadatti a terreni sabbiosi.
Generalmente le unità di nomadizzazione sono costituite da gruppi di famiglie (spesso
imparentate tra loro) che volontariamente scelgono di unirsi per gestire al meglio le risorse
idriche, i pascoli e gli animali che, essendo spesso di specie diverse ed avendo perciò
necessità diverse, richiedono una manodopera superiore a quella che una sola famiglia
potrebbe avere a disposizione.
Le dimensioni di questi gruppi variano a seconda delle stagioni e del tipo di nomadismo
effettuato: i pastori che seguono il modello orizzontale generalmente si disperdono durante la
stagione più fresca in cui è più facile accedere alle risorse idriche, per poi concentrarsi attorno
ai pozzi durante la stagione secca; i pastori che si dedicano ad un modello di nomadismo
verticale invece tendono a formare gruppi più numerosi durante la stagione fresca e a
disperdersi sui pascoli d’altura durante l’estate.
Se la motorizzazione ha garantito una più semplice capacità di spostarsi, la generale
modernizzazione ha anche ridimensionato l’importanza della tribù in quanto unità sia politica
ma soprattutto di difesa per cui oggi, indipendentemente dall’ambiente e dalla stagione in cui i
nomadi operano, oggi è difficile vedere assemblamenti composti da numerose tende.
Quindi, se il nostro immaginario collettivo occidentale vede ancora un Medioriente popolato
ovunque da pastori nomadi... dobbiamo ricrederci poiché a partire dal VIIIXX secolo si è
innescato un processo che -con tempistiche e metodi diversi nella varie zone- ha portato il
nomadismo pastorale a subire un drastico calo. Tra le cause più importanti possiamo citare:
• l’estensione delle terre coltivate è andata aumentando, facendo diminuire lo spazio
riservato al pascolo.
• nel corso del tempo il bestiame è diventato un investimento sempre meno redditizio e
ha costretto molti pastori ad impiegarsi in attività alternative.
• incentivi statali che “invitarono” molte tribù nomadi a sedentalizzarsi allo scopo di
modernizzare l’economia e il paese.
• trasformazioni politiche ed economiche a seguito della decolonizzazione
• ricchezza derivante dalla vendita del petrolio
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• forte periodo di siccità e carestia tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni
Sessanta.
Il nomadismo pastorale oggi:
... aspetti del nomadismo tipici del passato sono ormai scomparsi, come ad esempio la
funzione svolta dai nomadi nel commercio trans-sahariano, per non parlare poi di quello che
collegava regioni lontane come la Cina e il sud dell'Arabia con le coste del Mediterraneo
orientale (la via della seta, la via dell'incenso, ecc.). Anche la loro funzione di rifornitori di
animali sui mercati è largamente in declino. L'allevamento nomade condotto con metodi
tradizionali si è rivelato non concorrenziale rispetto a quello stanziale condotto con tecniche
moderne. I gruppi che sono rimasti radicati a questa forma di esistenza hanno però, almeno
in alcuni casi, saputo sfruttare le nuove opportunità offerte dai governi dei loro paesi (v.
Fabietti, 1984, 1990 e 1994), o sono riusciti a integrare le attività tradizionali con altre fonti
di reddito, praticando lavori stagionali nelle città o presso gruppi di agricoltori (v. Salzman,
1971).
Il nomadismo pastorale è complessivamente in declino ma non è morto. Non ci si dimentichi
infatti delle sue origini, che furono non solo di tipo produttivo ma anche politico. Il
nomadismo pastorale, così come si presenta oggi nelle regioni aride dell'Africa e del Medio
Oriente, continua a costituire una scelta adattiva sempre praticabile di fronte a determinate
circostanze di tipo politico.
Enciclopedia delle scienze sociali 1996: -Nomadismo
26
Nelle due immagini seguenti è espresso il tasso di urbanizzazione presente nella zona
mediorientale: è evidente come in pochi anni molte popolazioni nomadi o rurali si siano
mosse verso i centri urbani.
Figura 5
Popolazione urbana nel 2014
Figura 4
Popolazione urbana nel 2009
27
La tribù
Con il sostantivo tribù la lingua italiana indica un raggruppamento sociale autonomo, con
proprio ordinamento e proprio capo, formato da più famiglie aventi lingua, etnia e costumi
uguali.
Questa definizione, che sembra piuttosto semplicistica, può essere ampliata e modificata
semplicemente contestualizzandola. Sarà infatti noto a tutti che tribù di vario genere sono
presenti su tutto il globo, ciò che invece può sfuggire ai meno attenti è il fatto che non vi siano
limiti precisi per descrivere una tribù in quanto tale: non esistono vincoli riguardo a
dimensioni, estensione, tipo di ordine sociale, etc. Per fare un semplice esempio basta
accennare alle diversità presenti tra tribù mediorientali e tribù sub sahariane in merito alla
percezione dell’autorità regnante: se nell’Africa Nera la maggior parte delle tribù é governata
da monarchie che man mano assorbono o sottomettono altre monarchie, nel Medioriente
invece le tribù coesistono o si oppongono all’autorità regale ma -il più delle volte- non fanno
parte di quest’ultima.
Nel panorama mediorientale le tribù hanno da sempre avuto una grande importanza sia in
termini politici sia in termini sociologici, è per questo motivo che molti studi sono stati
compiuti a riguardo.
La tribù come organizzazione socio-politica e il modello segmentario
Nonostante in Medioriente vi siano diverse ideologie socio-politiche, la maggior parte di
queste si fonda sulla consapevolezza di un’identità basata sulla discendenza parentale (quasi
sempre patrilineare) comune. È proprio da questa consapevolezza di appartenenza al gruppo-
tribù che arrivano una serie di diritti comuni a tutti i membri che riguardano l’utilizzo delle
risorse, la gestione e la difesa del territorio tribale.
Figura 4
Diramazione del lignaggi di una famiglia
28
Da un punto di vista formale la tribù, con le discendenze parentali sulle quali è basata, può
essere descritta come un albero rovesciato dove i rami -i gruppi di discendenza o lignaggi-
confluiscono nel tronco centrale.
In questa descrizione, l'antenato apicale A indica il punto di partenza per la formazione della
tribù; nel tempo i figli B, i nipoti C e i pronipoti hanno “allargato” tale tribù formando dei
sottogruppi di famigliari: i lignaggi. Ogni lignaggio è descritto come il gruppo formato a
partire dai discendenti di un individuo figlio dell'antenato: questa catena ripercorre tutto
l'albero genealogico formando -ad ogni generazione- ipotetici nuovi lignaggi fino ad arrivare
alla generazione oggi in vita (quella alla base dell'albero).
Come sostiene Sahlins, i lignaggi possono essere descritti come:
-strutturalmente equivalenti in quanto all'interno di una struttura considerata nel suo
complesso e a ciascun livello di segmentazione, essi potrebbero essere scambiati di posto
senza che per questo l'immagine formale della struttura totale venga alterata.
-funzionalmente equivalenti poiché essi svolgono le stesse funzioni a livello politico,
economico, rituale, etc...
-politicamente uguali perché a ciascun livello di segmentazioni essi non sono gerarchizzati
ma agiscono come entità autonome e indipendenti.
Tutto ciò ovviamene non vuol significare che i lignaggi siano morfologicamente uguali tra di
loro: il numero dei loro componenti può variare sensibilmente nel corso del tempo, così come
può cambiare il loro peso politico in funzione della loro ricchezza o della quantità di risorse
da essi gestita.
Il processo di formazione dei lignaggi è detto processo di segmentazione o modello
segmentario. Con il modello segmentario, descritto per la prima volta dall’antropologo
Evans-Pritchard durante gli studi compiuti sui Nuer del Sudan, è possibile descrivere dalla
piccola tribù alla società più complessa in quanto il principio alla base del processo è lo stesso
in ogni gruppo-società.
Tale modello ha permesso inoltre di sfatare il mito occidentale che vedeva le società nomadi
come società “meccaniche” e statiche: se ciascun gruppo si presenta come un'unità autonoma
ad un certo livello di segmentazione, al livello superiore si presenta come parte integrante di
un gruppo di esteso.
29
<<nella figura quando Z1
combatte Z2 nessun altro segmento
resta coinvolto. Quando Z1
combatte Y1, Z1 e Z2 si uniscono e
la loro unità è indicata come Y2.
Quando Y1 combatte X1, Y1 e Y2 si uniscono e così fa X1 con X2. Quando X1 combatte A, X1
X2 Y1 e Y2 si uniscono nell’unità B. quando A fa una razzia contro i Dinka (vicini dei Nuer)
A e B si uniscono.>> 4
Un antico proverbio in lingua araba recita
� ا#����" �&����% أ(����)ي وأ#����" وأ(����)ي �&����% ا!���� ������� وأ#����" وا!���� ������
�&�����% ا���������*
<< io contro mio fratello; io e mio fratello contro nostro cugino; io, mio fratello e nostro
cugino contro tutti.>>
Il proverbio sintetizza bene la dinamica interna della struttura sociale dove gli individui
appartenenti ai diversi lignaggi devono essere pronti a far fronte a casi mutevoli per cui un
alleato di oggi può benissimo diventare un nemico di domani e viceversa.
Va però detto che il funzionamento tribale descritto in questa figura vale esclusivamente a
livello astratto: a livello empirico capita spesso, infatti, che ogni gruppo si opponga ad altri
gruppi al fine di mantenere la propria identità, indipendentemente dal “livello” di vicinanza e
parentela.
4 Evans-Pritchard, 1995, p.199
Figura 5
Rappresentazione del modello
di Evans-Pritchard
30
Se il modello segmentario rappresenta la teoria di quanto avviene all’interno dell’albero
genealogico, ben differente è quanto accade nella realtà: le genealogie sono quasi sempre
storicamente inesatte poiché manipolate per poter legittimare determinate scelte politiche,
alleanze o conflitti.
Vi sono casi in cui la genealogia è modificata senza un’esplicita intenzione. È il caso
dell’accorciamento delle linee di successione: sappiamo che in Medioriente è d’uso comune la
prassi di attribuire al primogenito il nome di un parente (spesso padre o nonno) deceduto così
che la linea di discendenza conservi gli stessi nomi. In una situazione come questa, è facile
che con il passare del tempo più persone vengano riunite sotto lo stesso nome. Se per esempio
la linea di discendenza porta i nomi A, B, A, B, A, B… con il trascorrere delle generazioni
tutti gli A sono riuniti sotto un solo A, così come tutti i B diventino un solo B e la
rappresentazione dell’albero genealogico verrà accorciata.
<< Egli è mio figlio ma anche mio padre, dal momento che porta il suo nome. Non potrei mai
colpirlo perché sarebbe come colpire mo padre. Quando egli crescerà e io diventerò vecchio
si prenderà cura di me come se fossi suo figlio.>>5
Vi sono invece situazioni in cui la manipolazione della genealogia avviene coscientemente:
solitamente è il capo tribù (che ha conoscenze può vaste rispetto ai suoi compagni per su
quanto riguarda le genealogie e le parentele della zona in cui vive) che si occupa della politica
e delle relazioni con le altre tribù. È lui che può scegliere di “dimenticare” la relazione di
parentela che lega la sua famiglia ad un lignaggio vicino o che può inventare nuove parentele
per affermare e “regolarizzare” rapporti con lignaggi o intere tribù non consanguinee.
Per quanto riguarda la situazione odierna sul mondo tribale, scelgo di citare ancora una volta
Fabietti che con chiarezza ci spiega che: il tribalismo, spesso considerato come una
sopravvivenza di strutture di relazioni e di concezioni della società ti tipo arcaico (atavico)
nel contesto della modernità, altro non è, almeno nella maggioranza dei casi, che una
risposta al venir meno di istituzioni e ideologie unificanti che solo apparentemente si
configura come “ritorno alla tradizione”. Tale tradizione, a cui i tribalismi fanno riferimento
5 Peters, The proliferation pagg 33-34
31
nel tentativo di legittimare le differenze, la competizione e il conflitto tra gruppi, è in realtà il
più delle volte frutto di un’invenzione che, riprendendo simboli culturali avulsi dal loro
contesto, costruisce attorno ad essi un’identità nuova e tuttavia rappresentata e presentata
come autentica. Invece di costituire delle insorgenze di tratti arcaici, i tribalismi
contemporanei sono di fatto manifestazioni della concorrenza tra gruppi che tentano di
accedere a nuove risorse messe in circolazione dagli stati post-coloniali (Pakistan), dagli
interventi umanitari (Somalia) e dagli investimenti internazionali; oppure della lotta fra
gruppi emergenti al fine di occupare posizioni vantaggiose all’interno di un quadro politico
disgregato (Afghanistan).6
Famiglia, matrimonio e rapporti sociali nelle tribù nomadi
Di norma i popoli nomadi dell’area mediorientale descrivono qualunque tipo di
raggruppamento concreto in termini di tende e ad ogni tenda corrisponde una famiglia.
L’unità domestica, base di produzione e consumo, è rappresentata dal capofamiglia che
solitamente corrisponde al membro più anziano: è il suo nome ad indicare la tenda-famiglia e
a distinguerla dalle altre.
La famiglia è proprietaria di tutti i beni mobili di cui dispone inclusi gli animali, la gestione
dei quali è prerogativa esclusiva del capofamiglia. Contrariamente a quanto la visione
occidentale può far supporre, anche la donna nomade può possedere capi di bestiame (che
verranno gestiti assieme agli altri della famiglia).
Nelle società patrilineari come quelle mediorientali, è fortemente radicata l’usanza di
anteporre la figura maschile a quella femminile: agli uomini spettano i ruoli ritenuti più
importanti -come l’esercizio dell’autorità- e tutti i compiti che richiedono maggiori capacità
intellettuali. In linea di massima quindi sono indirizzati a mansioni che li inseriscono nella
sfera pubblica (attività connesse in modo diretto con la pastorizia e l’agricoltura laddove
questa sia praticata, commercializzazione di animali e dei prodotti da essi ricavati) mentre alle
donne è riservato un ruolo domestico, circoscritto alla sfera privata della tenda (preparazione
6 U. Fabietti. Culture in bilico. Antropologia del Medioriente. pag 92
32
degli alimenti, tessitura, confezione di abiti, tosatura degli animali, trasformazione dei
prodotti della pastorizia).
La possibilità che ha un individuo di creare un’unità famigliare indipendente è legata
essenzialmente alla capacità di disporre dei beni necessari al versamento della
“compensazione matrimoniale”. Quest’ultima solitamente varia in base alla distanza
genealogica tra i due coniugi: più elevata è la distanza di parentela, più sostanziosa sarà la
“dote” che generalmente è composta da animali, oggetti di uso corrente, gioielli e –al giorno
d’oggi- soprattutto denaro. Tale denaro, assieme agli altri beni, viene utilizzato nel quadro
dell’economia famigliare della futura sposa per acquistare beni di uso corrente e animali
oppure può essere tenuto in serbo per costituire un fondo di prelievo in vista del futuro
matrimonio di figli maschi i quali, a loro volta, dovranno pagare una dote alla famiglia delle
loro spose.
Nelle famiglie nomadi mediorientali, è radicato l'ideale culturale che auspica l'unione tra
individui facenti parte dello stesso gruppo di discendenza. I matrimoni endogamici
consentono infatti di evitare problemi riguardo alla gestione delle proprietà e soprattutto dei
figli (la cui potestà è riservata esclusivamente al padre) e della moglie (che a seconda dei casi
è tenuta ad obbedire o al marito, o al padre o ad entrambi).
La cultura nomade designa il matrimonio tra cugini paralleli (figli di due fratelli) come
miglior caso ma, sebbene il matrimonio endogamico sia il più auspicato a livello teorico, in
realtà questo tipo di unione rappresenta ormai una piccola percentuale tra tutti i matrimoni: la
diffusione generale della modernità e delle sue implicazioni hanno innescato un lento ma
costante processo di trasformazione nella concezione dei rapporti tra sessi diversi per cui oggi
si assiste sempre più facilmente a matrimoni tra individui non consanguinei.
33
34
La situazione di sostanziale indipendenza politica e amministrativa che caratterizzava le tribù
mediorientali è andata affievolendosi negli ultimi decenni. Le sedentarizzazione delle genti
tribali ha permesso agli stati nazionali di esercitare un maggiore controllo su queste
popolazioni che, se sul piano sociale si identificano ancora come appartenenti a determinati
lignaggi, su un piano più pragmatico sono membri di una comunità cittadina sottoposta a
leggi statali.
Ma cosa accade quando il processo di sedenzarizzazione –e quindi di nazionalizzazione- non
avviene su base volontaria? Cosa accade quando lo stato nazionale non è riconosciuto come
sovrano? E di conseguenza, chi o cosa è ad essere riconosciuto come autorità legittima? Ed
in che modo viene esercitato il Potere e mantenuto l’ordine?
Nelle pagine successive tratterò il caso specifico delle tribù Pashtun residenti al confine tra
Pakistan e Afghanistan, di come le loro leggi tribali sono state incluse nella Legge della zona
e dei problemi che questa “convivenza legislativa” suscita nell’intera area.
35
36
I Pashtun
I Pashtun sono il gruppo etnico di lignaggio patriarcale più numeroso del mondo: esistono in
tutto 60 tribù principali, le quali contano complessivamente oltre 400 clan e sotto-clan;
sono circa 42 milioni di persone che abitano i territori di Afghanistan e Pakistan. Nello stato
pachistano arrivano a coprire addirittura il 15% della popolazione e sono stanziati soprattutto
intorno ai centri di Mingora, Peshawar, Quetta e Karachi.
Tra tutte le etnie afghane solamente i Pashtun e i Baluchi (2%) hanno un’organizzazione
tribale, fattore che determina una minore urbanizzazione e una forte tendenza al
conservatorismo.
Tabella 1 i nomi delle principali tribù divise per zona
Come tutti i sistemi tribali,
anche le tribù Pashtun sono fondate sul concetto di solidarietà che si estende dal legame
familiare diretto alla famiglia allargata, alla tribù e infine all’intera comunità.
I matrimoni possono avvenire tra diverse tribù ma, come consueto nelle tribù a discendenza
patrilineare, sono diffuse anche unioni tra cugini.
REGIONE TRIBU’
BAJAUR
SALARZAI MAMUND
MASHWANI CHARMANG
KHYBER SHINWAR
TURI
KURRAM PAKTIA
MOHMAND MOHMAND
WAZIRISTAN DEL NORD WAZIRI
WAZIRISTAN DEL SUD WAZIRI
ORAKZAI ORAKZAI
37
La distribuzione dei Pashtun sul territorio non è omogenea ma comprende numerose enclavi
nel nord e nel nordovest pachistano che atro non sono se non il risultato di politiche di
“pashtunizzazione” praticate nel XVIII e XIX secolo dai sovrani Durrani, fondatori dello stato
unitario afghano.
Le dinastie Pashtun hanno dominato la scena politica afghana sin dalla caduta dell’impero
Mogol in India (1707) e della Casata Safavide in Persia(1722), sono stati loro a dar vita
all’identità nazionale afghana e soprattutto sono stati loro a contaminarla con tratti della
propria tradizione culturale.
Se i Pashtun non furono mai politicamente uniti fino al sorgere dell’impero Durrani nel 1747,
a partire da quella data e per ben due secoli e mezzo, riuscirono a dominare incontrastati la
scena politica afghana, (lo stato pachistano non è menzionato perché ancora non esisteva!)
svolgendo un ruolo determinante nel “Grande Gioco” tra Russia zarista e Impero britannico.
L’etnia Pashtun è stata sfruttata per secoli, in primis dall’Impero Britannico che con le sue
mire coloniali ha tentato invano l’invasione per due volte nel 1839 e nel 1878 per poi
“accontentarsi” nel 1893 di considerare queste zone come un cuscinetto tra i loro
possedimenti indiani e la Russia. Per conto di Londra, Mortimer Durand cercò di tracciare i
confini di quest’area e così facendo divise i Pashtun nella speranza di assorbire almeno parte
della popolazione nell'Impero Coloniale. Anche questo tentativo di mascherata conquista fu
vano: non rimase altra scelta se non quella di consentire una sorta di auto-governo Pashtun su
una larga fetta di territorio. Qui le leggi coloniali sono state integrate e modificate con il
Pashtunwali, il codice tradizionale dei Pashtun: si è quindi formata una grande area tribale
autogovernata.
La Legge (Frontier Crimes Regulation) inizialmente prevedeva che l’organizzazione
amministrativa della zona fosse affidata a rappresentanti del governo coloniale mentre le tribù
fossero libere di autoregolarsi nelle dispute interne secondo i loro codici.
Nonostante le successive conquiste da parte dei sovietici e le pressioni da parte del neonato
stato pachistano, le regioni autogovernate esistono tutt’oggi ma continuano a vivere in un
generale malcontento generato dalla divisione imposta dalla linea Durand (linea che tutt’oggi
38
per la comunità internazionale rappresenta il confine ufficiale tra Afghanistan e Pakistan, ma
per i Pashtun è il simbolo concreto di secoli di ingiustizie e ha la stessa legittimità del confine
che una volta separava tedeschi occidentali e orientali) e dalle tensioni di politica interna ed
estera sempre più forti.
39
40
Il caso delle FATA pakistane Ricoprendo una striscia di terreno di 27mila chilometri quadrati situati in territorio pachistano
tra il confine con l’Afghanistan e la Provincia di Khyber Pakhtunkhwa (KPK), le Aree Tribali
di Amministrazione Federale (Federally Administered Tribal Areas da cui l’acronimo FATA)
sono un esempio di coesistenza (non necessariamente pacifica!) tra uno stato sovrano (il
Pakistan) e le tribù locali Pashtun in regime di semi-autonomia.
Le FATA comprendo sette distretti tribali :
• Bajaur • Mohmand • Khyber
• Orakzai • Kurram
• North Waziristan • South Waziristan
e sei territori di frontiera
• Peshawar
• Kohat • Bannu • Lakki Marwat
• Tank • Dera Ismail Khan
I territori di frontiera sono delle piccole aree di transizione che separano i distretti tribali e il
KPK. La sostanziale differenza tra distretti tribali e territori di frontiera sta, oltre nelle
dimensioni delle aree, nella diversa amministrazione di questi ultimi. Se l’amministrazione
dei distretti tribali avviene, come vedremo di seguito, tramite Agenti Politici per procura del
presidente dello stato, i territori di frontiera sono amministrati direttamente dal FATA
Secretariat.
Figura 6
L’area FATA sul confine Pakistan - Afghanistan
41
Figura 7
Costituzione del Pakistan art.1
Secondo l’articolo 1 della costituzione pakistana, le FATA sono a tutti gli affetti parte dello stato
pachistano.
Pur essendo rappresentate con 12 membri nell’Assemblea Nazionale e con 8 membri nel Senato, le
leggi in vigore su tutto il territorio nazionale non sono applicate nelle Aree Tribali di
Amministrazione Federale senza una specifica approvazione del Presidente dello Stato, che ha il
compito di regolare tutte le direttive per mantenere la pace ed il buon governo nelle zone tribali.
L’intera area FATA è controllata a livello amministrativo dal Governatore di KPK, che esercita
il suo potere per conto del Presedente dello Stato.
Se fino al 2002 gli affari riguardanti le Aree ad Amministrazione Tribale venivano condotti dagli
uffici del Dipartimento dello Sviluppo di KPK, a partire da quell’anno tali funzioni vennero
integrate nel FATA Secretariat e furono divise nei seguenti dipartimenti:
• Dip. della Legge e dell’Ordine: (in collaborazione con gli Agenti Politici, esercito,forze
paramilitari e rappresentanti delle tribù) emana decreti legge, provvedere alla sicurezza degli
abitanti delle tribù, prende in carico le lamentele dei cittadini, amministra la giustizia tramite
i tribunali, si occupa di emergenze e calamità naturali.
• Dip. di Amministrazione e Coordinazione: si occupa della generale amministrazione delle
FATA, della sicurezza dell’apparato decentralizzato e di tutto il suo staff.
1 The Republic and its territories
1. Pakistan shall be a Federal Republic to be known as the Islamic Republic of Pakistan, hereinafter referred to as Pakistan.
2. The territories of Pakistan shall comprise: • the Provinces of Balochistan, the Khyber Pakthunkhwa, the Punjab
and Sindh ; • the Islamabad Capital Territory, hereinafter referred to as the Federal
Capital; • Federally Administered Tribal Areas; and • such States and territories as are or may be included in Pakistan,
whether by accession or otherwise.
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• Dip. della Finanza, delle Pianificazione e dello Sviluppo: questo dipartimento fu unito al
FATA Secretariat solo nel 2006.
Amministrazione delle FATA
Di fatto, a seguito di accordi firmati tra i rappresentati delle tribù
(Malik) e l’appena nato Pakistan tra il 47 e il 51, alle regioni tribali
fu confermato lo speciale status di cui già godevano sotto il
dominio coloniale inglese.
Oggi l’amministrazione delle FATA è ancora retta su tre
pilastri fondamentali (gli stessi su cui si basava l’amministrazione di quest’area sotto dominio
coloniale): l’agente politico, i capi tribù e il Frontir Crimes Regulation (FCR).
Ogni area è amministrata da un agente politico, ovvero un ufficiale federale scelto dal governatore
del KPK, alle dipendenze di quest’ultimo e del presidente dello stato.
In base alla grandezza della zona da amministrare, l’agente politico può essere coadiuvato da più
assistenti facenti parte delle tribù e delle forze dell’ordine locali.
Giudice supremo nella sua zona di competenza, ha il compito di mantenere i contatti tra l’area
tribale, il FATA Secretariat e il Ministero degli Affari Tribali; sovraintendere il lavoro svolto nei
vari dipartimenti amministrativi locali; risolvere le dispute che si creano tra le varie tribù in merito
alla distribuzione e all’impiego delle risorse naturali disponibili; sorvegliare gli scambi tra le varie
tribù e con le altre regioni. È inoltre il supervisione di tutti i progetti di sviluppo attuati in zona. In
sostanza nelle sue mani sono racchiusi poteri esecutivi, legislativi e giudiziari.
L’intermediario tra l’agente politico e le tribù è il malik. In ogni tribù o sotto tribù è presente un
malik che si occupa di avvisare l’agente politico quando la sua figura si rende necessaria. Il malik è
responsabile in prima persona del rispetto delle leggi e dell’ordine nella zona a cui appartiene, è lui
che si occupa della nomina dei khasaadar: uomini presenti in ogni tribù che, sebbene non
necessariamente organizzati, addestrati o pagati (ma spesso armati di kalashnikov), fungono da
polizia nell’area.
Figura 8
Emblema delle FATA
43
Rispettati e stimati in quanto uomini di valore ma soprattutto in quanto dotati di molte armi e
“amici” disposti ad utilizzarle al bisogno, i malik sono oggi come un tempo remunerati dagli agenti
politici: questa pratica comune spesso è causa di corruzione all’interno della pubblica
amministrazione.
Il Frontier Crime Regulation (FCR) è un insieme di leggi che furono emanate dal regime coloniale
inglese a fine ‘800 nelle terre dell’India del NordOvest abitate dai Pashtun. Come già accennato, il
FCR è tutt’ora è in vigore nelle aree FATA e si basa sui costumi tradizionali locali e tribali7 e su
procedure atte a risolvere i conflitti in corso ed assicurare la legge e l’ordine.
La prima stesura del FCR risale al 1848, seguirono importanti modifiche nel 1873 e ancora nel 1876
fino ad arrivare alla forma del 1901, stesura attualmente valida e applicata (negli ultimi anni sono
state approvate varie modifiche, le ultime risalgono al 2011).
FCR, the black law
Il Frontier Crimes Regulation è oggi definita “black law” a causa del disinteresse che dimostra
verso la protezione e la sicurezza dei cittadini a cui è indirizzato. Il rispetto dei diritti umani
internazionali –anche i più basilari- è spesso tralasciato da questo codice di leggi che prescrive pene
severe a uomini condannati senza giusto processo e senza diritto di appello.
Il FCR rispecchia ancora l’intento coloniale britannico di mantenere le zone intorno alla Linea
Dourand sicure: sebbene la costituzione pachistana dichiari nulle tutte le leggi che non assicurano il
rispetto dei diritti umani, nella black law sono ancora prescritte e attuate pratiche che violano la
sicurezza personale, la sicurezza dei detenuti durante il periodo di detenzione, le proprietà private
dei cittadini e il rispetto della loro dignità. Di seguito sono elencati alcuni dei punti più critici del
FCR. 7 . Un importante codice da cui attinge il FCR è il Pukhtoonwali, insieme di norme basate su onore, ospitalità e
vendetta che regolano e determinano l’ordine sociale e le responsabilità degli appartenenti alle tribù Pashtun. Spesso i
comportamenti previsti da questo codice sono in contrasto con le norme sharaitiche ma, essendo di più antica
applicazione, difficilmente vengono messi in discussione.
44
• Ai cittadini non è concesso il diritto di appello alle sentenze, è negata la possibilità di avere
un rappresentante legale e di fornire prove a loro favore.
• la clausola della punizione collettiva (n.21), che consiste nell’estensione della pena ai parenti
(consanguinei e non) e a qualsiasi altra persona appartenente alla tribù del condannato.
• la stessa clausola prevede inoltre la confisca delle proprietà e l’arresto di un individuo senza
regolare processo e ne proibisce l’ingresso e la permanenza ai distretti abitati nelle aree
tribali.
• Nelle sezioni 22 e 23 del FCR l’intero villaggio è ritenuto responsabile di omicidio nel caso
un cadavere venga ritrovato nella zona. Tutti i suoi membri sono sottoposto alle sanzioni per
i crimini commessi da un solo abitante. Nel caso di mancato pagamento di una sanzione i
beni del responsabile o della sua famiglia potranno essere venduti per compensare
l’ammontare della somma.
• le proposte di sentenza emanate dai tribunali locali (Jirga) non vincolano in alcun modo la
decisione finale dell’agente politico, eliminando di fatto qualsiasi distinzione tra potere
esecutivo e potere giuridico nelle FATA.
• l’agente politico e i suoi assistenti godono di poteri illimitati sia esecutivi che giuridici. Non
è presente nessun organo di controllo sugli abusi di potere che spesso sfociano in gravi
violazioni dei diritti umani. Sebbene la FATA dipendano formalmente dal Presidente del
Pakistan, l’agente politico ha sempre governato la regione con potere assoluto grazie al
FCR. Egli è quindi oltre la portata della legge, ne è al di sopra.
Le ultime riforme apportate al FCR sono state approvate nel 2011. Tra i più importanti fanno
sicuramente parte i seguenti:
• clausola della responsabilità collettiva: esclusione delle donne, dei ragazzi sotto i 16 anni e
degli uomini sopra i 65 anni dalle condanne. Divieto di estendere l’arresto ad un’intera tribù.
• Per quanto riguarda i processi: ammessa la possibilità di ridiscutere un processo e di
rivederne le pene assegnate, fissato un tempo limite entro cui un processo deve concludersi.
45
• Introduzione di ispettori per sorvegliare il rispetto delle (poche) norme carcerarie;
risarcimenti per chi è stato perseguitato ingiustamente.
In realtà queste riforme hanno portato a ben pochi cambiamenti: se effettivamente si può notare un
piccolo miglioramento nelle condizioni di giusti processi, arresti e detenzioni, va anche detto che il
potere delle autorità di trattenere gli individui in detenzione preventiva e il regime di punizione
collettiva continuano ad essere applicati a discapito del rispetto di diritti umani.
La giustizia nelle FATA oggi
Tutte le persone intervistate da Amnesty (vittime di violazioni da parte dello stato o abusi inflitti da
talebani o altri gruppi armati, avvocati e semplici membri delle comunità) hanno espresso poca
fiducia nella capacità dello stato di protegge i loro diritti. La pratica di detenzione arbitraria, molti
casi di tortura e maltrattamenti, sparizioni forzate e morti in custodia, sommati alla mancanza di
efficace giustizia stanno mandando il messaggio che lo stato continuerà ad agire con la stessa
impunità dei talebani invece che cercare di porre fine a questa escalation di violenze.
“O n the one side is the army they enter houses without any warnings and arrest people without any
reason. They are behaving very harsh with the people. On the hand everyone in terrified on the
Taliban, at any time they might kidnap you or kill you. Everyone was saying that the army will
come and improve the situation in Bajaur (tribal agency), but instead people are as frightened of
the army (as they ware of) the Taliban.”
Rostum Khan, abitante dell’Area Bajaur
Il sistema delle Jirga (tribunali locali) in cui il giudizio è affidato ai membri anziani delle tribù e al
malik, è spesso corrotto e di parte. Alcune interviste rivelano come sia semplice per i cittadini
conoscere l’esito di un processo ancora prima che questo avvenga, semplicemente conoscendo i
membri che giudicheranno l’imputato.
46
Come accennato prima, il forte potere discrezionale lasciato ai membri della Jirga è comunque
sottomesso alla volontà dell’agente politico. Nel caso questo ritenesse che la sentenza e la pena non
fossero appropriate, potrebbe esercitare una sorta di veto mediante il quale il consiglio della Jirga
verrebbe sciolto. Successivamente sarebbe costituito un nuovo consiglio con compito di riesaminare
il caso, proporre una nuova sentenza e una nuova pena. A causa di questa procedura l’agente
politico può condizionare l’esito del processo e allungarne notevolmente i tempi.
Negli ultimi anni la corruzione e i tempi di processo molto lunghi hanno portato sempre più
cittadini ad abbandonare le Jirga per rivolgersi ai tribunali sharaitici dei Talebani in forza nelle aree
FATA.
Il FCR non fornisce nessuna salvaguardia riguardo le condizioni dei detenuti . La Black Law
stabilisce solamente che il governatore ha il compito di decidere le procedure e le modalità di
detenzione. Per quanto noto ad Amnesty le autorità non hanno ancora prescritto nessuna procedura
di internamento, pertanto non esistono salvaguardie rispettose degli standard internazionali sui
diritti umani.
Va inoltre ricordato che le leggi internazionali sui diritti umani richiedono che i detenuti abbiano il
diritto di informare famiglia ed amici riguardo i loro stato e abbiano accesso ad un avvocato e a cure
mediche. I detenuti hanno anche il diritto di essere visitati e corrispondere con membri della propria
famiglia e di comunicare col mondo esterno in generale, anche in situazioni di conflitti armati. Il
FCR non contiene alcuna garanzia di questa natura e ci sono diverse prove che questi diritti siano
sistematicamente ignorati.
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Bibliografia • A. Bausani, Islam, Milano, Garzanti, 1999
• D. F. Eickelman, Popoli e culture del medio oriente. Torino, Rosenberg & Sellier, 2003
• G. Ragazzini, Il Ragazzini 2007, Dizionario inglese-italiano italiano-inglese, Bologna, Zanichelli, 2006
• G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano. Torino, Einaudi, 2002
• R. Traini, Vocabolario arabo-italiano, Roma, Istituto per l’Oriente, 2004
• U. E.M. Fabietti, Culture in bilico. Antropologia del Medio Oriente. Milano, Mondadori
Bruno, 2011
• U. E.M. Fabietti, Nomadi nel Medio Oriente. Una analisi dell'organizzazione sociale. S.l., Loescher, 1983
Sitografia • http://fata.gov.pk/
• http://gulf2000.columbia.edu/maps.shtml
• http://pakistansurvey.org/
• http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Religioni/ISLAMISMO.html
• http://www.amnesty.org/
• http://www.deagostinigeografia.it/
• http://www.fatareforms.org/
• http://www.tolearnarabic.com/
• http://www.treccani.it
• http://www.understandingfata.org
• https://www.yu.edu.jo
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Ringraziamenti Un ringraziamento particolare va al Prof. Benenati che non solo mi ha seguito, ma che
soprattutto mi ha interessato ed appassionato in questi anni di università con i suoi
aneddoti e racconti in prima persona; un secondo ringraziamento va al Prof. Soravia, per
la sua disponibilità e la sua gentilezza.
Un enorme grazie va ai miei genitori. Per avermi dato l’opportunità di scegliere di
studiare, e dopo tre anni per avermi lasciato scegliere di studiare qualcos’altro. Per l’aiuto
che mi hanno dato durante tutto questo tempo, per l’avermi supportato e sopportato
durante i momenti di incertezza. Per la vacanze in Egitto da cui è nato tutto il mio
interesse.
Grazie mille!
Infine grazie a tutti quelli che in un modo o nell’altro mi sono stati vicini in questi anni… In
particolare ai tanti che, dandomi della matta per quello che ho scelto di studiare, mi ha
motivato ad andare avanti; ad Ale per tutte le volte che mi ha accompagnato a Bologna e
per il panino al prosciutto al ritorno dal Libano; a chi mi ha ospitata in Libano e a chi mi
ha detto di non andarci perché mi avrebbero rapita ☺; a Riky a Bubba e a tutti quelli che
non hanno perso occasione per farmi battute sulle stranezze del mondo arabo, a chi mi ha
promesso che prima o poi mi regalerà un burqa.
A chi con la pallavolo mi ha regalato un buon motivo per distrarmi (probabilmente anche
troppo!) dallo studio, alla Cri e alla Fede diventate soprattutto compagne di serate e bevute
oltre che di lavoro; a B. che mi ha tradotto un sacco di cose con la lente d’ingrandimento e
che mi ha sopportato in questo ultimo periodo; a tutti gli amici che per un motivo o per
l’altro ho un po’ perso di vista ma che, lo so, ci sono ancora e ovviamente alla sister vera e
a quella acquisita che mi sceglieranno un vestito adatto per il giorno della laurea che
finalmente vedo arrivare… Grazie!
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