N o te e discussioni
Le donne nella seconda guerra mondiale
I lavori pubblicati in questo fascicolo fanno parte di un più folto gruppo di comunicazioni sul tema “donne e guerra”, presentate nel novembre del 1992 al seminario “Ricerche sulla seconda guerra mondiale”, (terza sessione del Seminario permanente del Novecento) organizzato dall’Insilili e dall’Istituto storico per la storia della Resistenza e della storia contemporanea in provincia di Vercelli (cfr. Gianni Sciola, Il Novecento degli Istituti. L ’Italia nella seconda guerra mondiale, “Italia contemporanea”, 1993, n. 190). Il seminario rappresentò per gli Istituti storici della Resistenza un momento di confronto e di discussione sui temi che erano più presenti alla loro attenzione, come la guerra nelle città, la rappresentazione del conflitto nella propaganda fascista, il rapporto fra donne e guerra. Quest’ultimo argomento, introdotto dalle relazioni di Penny Sum- merfield e di Anna Bravo che qui si leggono, fu sviluppato da un gruppo di studiose di vari Istituti, che avevano avviato una comune esperienza di lavoro sul tema. Essa era iniziata alla fine degli anni Ottanta, dapprima con l’attenzione e la partecipazione alle varie iniziative promosse a Torino dalla ricerca “Donne guerra memoria”, che in Italia aveva introdotto una prospettiva di genere nella storia della guerra (cfr. Anna Bravo, Donne e seconda guerra mondiale: esperienza, racconto, “Mezzosecolo”, 1989, n. 8), era cresciuta successivamente con la costituzione di un “seminario itinerante” che mirava a confrontare periodicamente ipotesi di ricerca e metodi di lavoro: vi furono incontri a Torino e a Parma nel 1991, a Napoli, Ancona e Bologna nel 1992.
Sollecitavano l’attenzione del gruppo questioni di contenuto e di metodo. Si voleva innanzi tutto capire cosa avesse rappresentato la seconda guerra mondiale per le donne italiane: ciò significava supplire al silenzio della storiografia e della stessa memoria femminile — appena sfiorato dagli studi e testimonianze sulla Resistenza — stimolando ima produzione, sia pure assai tardiva, di fonti di memoria e analizzando le disperse fonti scritte, coeve e posteriori. Inoltre, quello stesso silenzio si poneva come un problema, da esaminare riflettendo anche su quella “complicità conflittuale” di oblio e memoria di cui ha parlato Remo Bodei. Proprio al silenzio delle donne sulla loro guerra fu dedicato il seminario “Raccontare, raccontarsi: parole, memoria, silenzi delle donne”, promosso a Torino dall’Istituto storico della Resistenza in Piemonte (23 ottobre 1991). L’altro ordine di questioni riguardava l’uso delle nuove fonti e gli strumenti specifici con cui queste dovevano essere utilizzate. Nei lavori delle studiose italiane la ricerca si è rivolta alla soggettività delle donne, differenziandosi fortemente dagli studi condotti altrove, in particolare nei paesi anglosassoni, i più impegnati sul tema.
L’intervento di Penny Summerfield, che ha dato di questi un bilancio complessivo, ha evidenziato le specificità e le differenze, suscitando un confronto assai stimolante. I lavori di Summer-
“Italia contemporanea”, giugno 1994, n. 195
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field sono infatti l’espressione matura di una ricerca sulla condizione femminile nelle guerre, che nei paesi anglosassoni ha quasi un secolo di tradizione: il ruolo delle donne nella guerra civile americana era stato subito oggetto di attenzione (ricordo Woman’s work in the Civil War di Linus Pierpont Brockett, 1867), mentre la loro mobilitazione nella prima e nella seconda guerra mondiale fu sostenuta, indirizzata, osservata nel corso delle guerre stesse con inchieste e rapporti che indirizzarono la politica governativa di intervento sociale e fornirono la base documentaria di successivi studi sociologici e storici. Fonti quali il Central Office o f Information e il servizio di Mass Observation — che operò in Inghilterra a partire dal 1937, raccogliendo materiali di vario genere, come lettere, diari, rapporti — si rivelano tuttora miniere preziose per la ricerca (cfr. P. Summerfield, Mass-Observation on Women at Work in the Second World War, “Feminist Praxis”, 1992, n. 37-38). Incrociandosi col filone altrettanto ricco degli studi sul lavoro femminile, gli studiosi si sono dunque orientati verso la valutazione dei mutamenti sociali prodotti dal conflitto, in particolare dal massiccio impatto delle donne con la produzione bellica, ponendo la questione se la guerra abbia o no avuto per loro effetti di modernizzazione.
La novità della posizione di Summerfield è di rilevare la parzialità delle risposte affermative o negative, spesso viziate dai paradigmi degli studiosi su ciò che è “progressivo” per le donne, di storicizzare l’ideologia degli stessi servizi che stimolarono la produzione di quelle fonti e ne dettero le prime stime, e soprattutto di rivolgere ai documenti domande che non erano ancora state poste, riguardanti le aspettative, i desideri reali, le esperienze personali.
Ne risulta un quadro molto più articolato, in cui la categoria “donne” non viene accorpata in un unicum indistinto, ma viene disarticolata per differenze di età, stato civile, condizione sociale, razza. Tenendo conto di tali variabili, Summerfield vede nella seconda guerra mondiale una fase cruciale per il mutamento, se non dei ruoli, dei costumi e della mentalità. Le fonti personali vengono così cohiugate con quelle statistiche e quantitative, concorrendo all’indagine storica e sociologica.
Assai diversi i presupposti della ricerca in Italia, dove i dati ufficiali o prodotti dalle stesse donne sono molto più carenti per la seconda guerra mondiale che per la prima, in cui il ruolo femminile fu subito documentato e esaltato ai fini della lotta per il suffragio: nel secondo dopoguerra persino il voto, decretato dal governo Bonomi mentre il Nord della penisola era ancora sotto l’occupazione tedesca, “cadde addosso” alla maggioranza delle donne, anche quelle che combattevano nella Resistenza, come una concessione. Alla rarità delle fonti, cui non ha supplito l’attenzione della storiografia, corrisponde il silenzio delle donne stesse: si è verificato per loro la stessa rimozione soggettiva e collettiva che segregò la memoria dei reduci dalla prigionia e dalla deportazione, secondo un’assimilazione tanto convincente quanto suggestiva che Anna Bravo sta sviluppando sulla base delle sue ricerche su entrambi i terreni (il tema, anticipato al convegno “Shoah e deportazione nella didattica della storia” nell’aprile del 1993, è stato sviluppato in A. Bravo, Daniele Jalla (a cura di), Una njisura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia, Milano, Angeli, 1994). Il silenzio è stato rotto solo in anni recenti, e per sollecitazione della storia orale, del femminismo, dei media. I dati rilevabili da queste fonti sono utili evidentemente non ad accertare la condizione delle donne nella guerra, ma la loro percezione di quella e di se stesse. Nel valutarli, occorre tener conto della segregazione culturale operata dal fascismo, come del fatto che essi restituiscono la memoria di un paese diviso, occupato in ogni sua parte, percorso dalla guerra civile. Il peso del non detto (per esempio sulle violenze sessuali) come del persistente rifiuto di parlare (nel caso delle donne fasciste), deve essere adeguatamente considera-
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to. L’analisi di tali fonti parrebbe negare l’effetto in qualche modo modernizzante della guerra suggerito da Summefield, evidenziando la preponderanza di aspetti conservatori-regressivi: la memoria interrogata restituisce un’esperienza per lo più offesa, incentrata su un ruolo di protezione che ha il suo momento più esaltante nel maternage di massa esercitato l’8 settembre 1943 da donne sposate o no verso i soldati sbandati e i prigionieri fuggiti dai campi.
L’articolo di Bravo che qui si pubblica ritorna su questa ipotesi interpretativa già esposta nel suo contributo al volume Donne e uomini nelle guerre mondiali, (Roma-Bari, Laterza, 1991) e cerca di verificarla attraverso la riemergenza di tali comportamenti nelle guerre contemporanee. In tal modo questi appaiono una costante legata al riproporsi di condizioni strutturali portate dai conflitti, quali il moltiplicarsi di relazioni disuguali, la creazione di minorità nuove, che ribadiscono la tradizionale disparità delle donne, portandole a rifugiarsi in quel ruolo materno, naturale o simbolico, che costituisce tradizionalmente la loro forza. La scelta di questa chiave di lettura non esclude per Bravo che la guerra abbia prodotto dei mutamenti di mentalità e di costume: ma il silenzio al loro riguardo la induce a ritenere che essi siano avvenuti a un “livello molecolare” che non produce trasformazioni sensibili, comportamenti e valori nuovi, riconosciuti e condivisi. La pubblicazione, ormai prossima, dei risultati complessivi della ricerca “Donne, guerra, memoria” coordinata da lei e da Anna Maria Bruzzone, fornirà l’ampia casistica su cui si fondano queste ipotesi.
Altre fonti, sondate dalle studiose del “seminario itinerante” non si discostano molto da queste conclusioni. I contributi al seminario di Vercelli — alcuni dei quali già pubblicati altrove — si sono orientati in tre direzioni: l’analisi dei meccanismi della memoria, esaminati da Rosella Prezzo sulla base dell’ingente documentazione giunta nel 1991 alla Rai, in risposta all’inchiesta televisiva “La mia guerra” (R. Prezzo, La seconda guerra mondiale sul filo della memoria. Memoria e soggettività rammemorante. Il fondo “La mia guerra”, “L’impegno”, 1993, n. 1); lo studio di scritture personali coeve e posteriori alla guerra (Francesca Koch, Simona Lunadei, Laura Mariani, Ersilia Alessandrone Perona); l’incrocio di fonti orali e scritte, utilizzato per due casi significativamente diversi, quelli di Ancona e di Napoli, nei due articoli di Maria Grazia Caminetti e di Laura Capobianco e Cesira D’Agostino qui pubblicati.
Nelle lettere, nei racconti, nei diari inviati in gran parte da donne, Prezzo rileva il riemergere di ferite profonde, traumi rimossi, non elaborati come esperienze se non alla luce di un più tardo mutamento di senso prodotto dalle trasformazioni della coscienza individuale e collettiva. Attraverso l’analisi delle sue fonti, come attraverso quella di diari e memorie depositati presso l’Archivio diaristico nazionale, e gli scritti di alcune intellettuali romane (cfr. F. Koch, Lo sfollamento nella memoria femminile. Proposte di lettura di alcuni testi dell’Archivio diaristico nazionale, “L’Impegno”, cit.; Id., Una tragedia muta, S. Lunadei, Sguardi di donne sulla guerra, “Armale 1992” dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza) si ricava che per le donne “comuni” la guerra ha tempi diversi dalla cronologia ufficiale, scanditi dalle vicende che hanno sconvolto la loro esistenza; essa è sofferenza, separazione, “perdita delle coordinate fisiche e mentali” (Koch): non a caso una delle esperienze più ricordate è quella dello sfollamento. E anche quando la guerra stimola energie insospettate, nuove strategie di sopravvivenza, “ciò non comporta un salto nella modernizzazione da parte delle donne, né fa della guerra una ‘guerra femminile’” (Prezzo).
Diversi i toni, i contenuti della memoria delle donne che parteciparono alla Resistenza; ma anche nel loro caso, analizzato da Laura Mariani, si coglie il senso di una delusione, che ha indotto
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alla scrittura come a un atto di pietas, uno svelamento di storie personali o collettive mai dette (cfr. L. Mariani, Guerra e Resistenza a Bologna, Memorie e scritture delle donne, in corso di stampa negli atti del convegno “Bologna in guerra”, a cura dell’Istituto storico della Resistenza in provincia di Bologna).
I contributi di Camilletti e di Capobianco-D’Agostino concordano con tali valutazioni. La loro lettura contestuale consente tuttavia anche di rilevare importanti differenze da luogo a luogo, confermando non solo che la percezione femminile della guerra ha una sua cronologia, ma anche che le modalità di tali percezioni variano da zona a zona, secondo una geografia che è ancora tutta da rilevare. Essa è determinata non solo dal dato ovvio dell’occupazione tedesca e americana che ha diviso il territorio nazionale, ma anche dall’incrocio delle vicende militari con le caratteristiche socioculturali delle varie regioni e con le subculture locali: di qui — per scegliere solo un esempio — l’ostilità alla guerra fascista ricordata dalle donne di Ancona, legate a un sostrato di cultura politica ancora vivo in una città con forte tradizione operaia, contro il ricordo sostanzialmente positivo delle donne di Napoli, condizionate da una cultura patriarcale e gerarchica. Inoltre, all’interno delle stesse zone, si rilevano sensibili differenze tra donne di città e contadine, operaie e borghesi; ed hanno un ruolo non trascurabile l’istruzione, l’età, lo stato civile, l’appartenenza a minoranze discriminate.
Le autrici non mancano di problematizzare l’uso delle loro fonti, soprattutto di quelle orali, mostrandosi consapevoli del complesso rapporto fra soggetto interrogante e soggetto interrogato. Si potrebbe desiderare, tuttavia, un uso più chiaramente differenziato di scritture e testimonianze orali, con più riguardo dei rispettivi statuti: il “patto” che presiede a ciascun tipo di fonte è specifico, e ciascuna di esse richiede strumenti di analisi suoi propri, “malgrado l’illusione della trasparenza” che entrambe creano (cfr. D. Peschanski, Effets pervers, “Les cahiers de PLH.T.P.”, 1992, n. 21; J.P. Rioux, Individu, mémoire, histoire, in Croire la mémoire? Approches critique de la mémoire orale, Aosta, Musumeci, 1988). Rispetto alle scritture, in particolare, non si può prescindere dalle consapevolezze della critica testuale, che mentre mette in guardia dalla pretesa sincerità delle scritture personali, consente un recupero dei testi letterari all’autobiografia. Per orientarsi su questo terreno, occorre collocare chiaramente le scritture negli ambiti temporali e culturali in cui sono nate, per comprenderne intenzioni e destinazione, e decifrarne le intertestualità più o meno consapevoli (a questo era dedicato l’intervento al seminario di Vercelli presentato da chi scrive, Sincronie e diacronie nelle scritture femminili sulla seconda guerra mondiale, ora in “Passato e presente”, 1993, n. 30). Poiché sappiamo di poter ricostruire, attraverso le fonti soggettive, soprattutto la percezione femminile della guerra, per di più mediata da molte variabili, ed espressa attraverso tutti i condizionamenti della dicibilità e della scrittura, appare importante che essa si sveli nelle sue stratificazioni, mettendo in chiaro in tal modo anche gli agenti delle successive modificazioni.
Ersilia Alessandrone Perona
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Guerre e mutamenti nelle strutture di genere
Anna Bravo
Questo intervento parte da una ricerca su Donne e seconda guerra mondiale: esperienza, memoria, condotta a Torino e in Piemonte negli ultimi tre anni1. Anche se sono stati moltissimi gli spunti offerti dalla documentazione d’archivio (di organizzazioni cattoliche, di ospedali, dell’Archivio di Stato, dell’Istituto storico della Resistenza, soprattutto dell’ospedale psichiatrico di Collegno presso Torino), abbiamo puntato prioritariamente alla costituzione di un corpus di fonti narrative personali, raccogliendo circa 150 racconti biografici di donne per la maggior parte lontane da qualsiasi protagonismo sul piano politico o militare. La ricerca è ora nella fase conclusiva per quanto riguarda la raccolta di materiali, mentre il gruppo di lavoro sta ridiscutendo le ipotesi che hanno via via preso corpo in questi anni, in particolare sul rapporto fra guerra e “modernizzazione” nelle strutture di genere.
La lettura che ci è sembrato di poterne dare, e che tende a sottolineare più gli aspetti conservativo-regressivi che quelli di innovazione, è partita dal grande peso del registro materno nelle storie vissute e raccontate delle nostre protagoniste. Non che si tratti di un aspetto esclusivo: altri versanti dell’identità e altre modalità di relazione — in particolare con il maschile — sono presenti e forti2, spesso nelle medesime testimoni che as
sumono con più energia narrativa la dimensione, reale e simbolica, del materno. Ma il primato di questa cifra dell’esperienza, almeno a partire dall’otto settembre, ci è parso netto3.
Certo questo primato va visto nel suo contesto storico: l’occupazione nazista, la guerra sul territorio, il crollo delle istituzioni, la crisi delle reti di relazione precedenti; e nel suo contesto narrativo: tradizioni di racconto, femminili e non, sulla donna forte e oblativa, un orizzonte di attesa oggi molto favorevole alla valorizzazione della maternità, il desiderio di trasmettere alle più giovani un messaggio vitale, o di rivendicare l’importanza dell’esperienza delle donne cosiddette comuni, identificate quasi esclusiva- mente come madri. E naturalmente altro ancora, trattandosi di un terreno di discussione ricchissimo.
Ma in queste pagine vorrei non tanto presentare una analisi dei racconti, quanto proporre alcuni spunti di riflessione quali mi sono stati suggeriti dalle tracce che in luoghi e tempi diversi parlano della crucialità e persistenza del materno. Se si guarda alle guerre che hanno segnato la “pace” degli ultimi 45 anni — almeno a quelle a noi più vicine dal punto di vista geografico e delle possibilità di informazione — mi sembra affiorare un dato significativo: da una parte nuove figure
1 La ricerca è stata promossa dal Consiglio regionale piemontese e si svolge nell’ambito dell’Istituto storico della Resistenza in Piemonte. Vi partecipano, oltre alle coordinatrici Anna Maria Bruzzone e Anna Bravo, Eleonora Bi- sotti, Anna Gasco e Grazia Giaretto.
E avvertibile in vari racconti la componente emancipativa sottolineata da Miriam Mafai, Pane nero, Milano, Mondadori, 1987.
Oltre che come modello/risorsa di comportamento (cfr. A. Bravo, Simboli del materno e Lucetta Scaraffia, Devozioni di guerra, in A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari, Laterza, 1991), il registro materno è presente, come rimpianto per una protezione di cui si sono sentite private, nelle donne costrette alla marginalità, cfr. A.M . Bruzzone, Da Torino durante la guerra. Parole, memoria, silenzi delle donne, “Il Grande Vetro”, 1992, n. 110.
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femminili, le donne soldato israeliane, le combattenti dei movimenti di liberazione nel sud del mondo, le americane nella guerra del Golfo — oggetto, soprattutto queste ultime, di inquietudini largamente accolte dai media4. Dall’altra, e penso in particolare ai paesi del Medio Oriente, una enfasi ininterrotta sulla maternità come valore e come servizio principale che le donne devono rendere allo Stato e alla nazione.
Un’importante raccolta di testimonianze di donne palestinesi, israeliane, siriane, egiziane, conferma quanto sia difficile sottrarsi all’immagine della madre del martire, della donna “virtuosa” che offre i suoi cari alla patria, e li vive come protagonisti di una scelta eroica5.
Fra tutte le intervistate solo una vede nel marito una vittima del militarismo, un morto senza averlo voluto, e in questi termini ne parla ai figli; è anche la sola che, a dispetto delle pressioni sociali, rifiuta di viversi come eterna vedova di guerra. Per le altre, la risorsa principale per dare senso alla sofferenza è la figura della madre sacrificale. Anche molti resoconti dai territori occupati lo suggeriscono, parlando dei piccoli altari casalinghi con cui le donne ricordano i loro morti; e in un recente seminario sul rapporto fra guerra, militarismo, genere e nazione6, una giovane dirigente palestinese rivendicava il ruolo protettivo-materno delle donne nei confronti dei militanti dell’Intifada7. Davanti a realtà come queste, sarebbe evidentemente assurdo usare i nostri metri di misura, mettendo fra parentesi il fatto che viviamo in un paese dove l’unità nazionale esiste da
oltre un secolo e non è minacciata dall’esterno. Ma non può non far riflettere il braccio di ferro fra popolo israeliano e popolo palestinese per la palma della natalità, una guerra demografica nella guerra combattuta, che è ben rappresentata nel modo di dire comune: “bisogna battere il nemico a letto, non solo sul campo”. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la battaglia demografica è diffusa ben al di là dei gruppi meno acculturati e socialmente più deboli. Una collega del collettivo “Visitare luoghi difficili”, impegnato da anni a tessere rapporti con donne di tutte e due le realtà, raccontava di aver conosciuto un’americana emigrata in Israele, un’intellettuale che aveva fatto parte del movimento studentesco e di quello pacifista, sposata a un uomo della stessa formazione: avevano appena avuto il loro nono figlio.
In questi casi la propaganda, spesso violentemente nazionalista, deve aver trovato un terreno fertile nella tradizione del bacino mediterraneo, fatta di culture anche molto diverse, ma che tutte enfatizzano la maternità, e la maternità di figli maschi. Nonostante il modo in cui a volte amiamo rappresentarci, anche l’Italia è storicamente parte di quest’area; e credo che, senza dimenticare lo scarto temporale e le differenze che ci separano dai paesi della riva sud del Mediterraneo, uno sguardo comparativo potrebbe essere utile, in particolare per quanto riguarda le religioni e i capi religiosi, e gli effetti della loro pretesa a regolamentare direttamente o indirettamente la vita delle donne e la famiglia. In questa prospettiva l’attenzione di
4 Vedi l’analisi di J. Wheelwright, It was exactly like the movies! The Media’s Use o f the Feminine during the Gulf War, relazione presentata al seminario “Women at War: Images of Women Soldiers”, novembre 1991; e sul riaffacciarsi del mito delle amazzoni, V. Russo, The constitution o f a gendered enemy, in “Women at war”, cit., e Marina Cattaruzza, Le Amazzoni, o del mito rivissuto, in Donna e guerra, mito e storia, Quaderno Dars, Udine, s.d.5 Laurence Deonna, La Guerra a due voci, Milano, Mursia, 1988.6 Si tratta del seminario “Molte donne un pianeta”, Loiano, 11-18 sett. 1992.7 In termini simili si esprime Islah Gad, Dalle signore dei salotti ai comitati popolari: le Donne della Rivolta, “Inchiesta”, 1991, n. 91-92.
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tanti dirigenti politici e militari italiani a evitare un’immagine promiscua della Resistenza non sarebbe tanto un’anomalia o un residuo nell’orizzonte nordoccidentale, quanto l’espressione di un’altra area culturale, dove il corpo femminile è ritenuto impuro e pericoloso, e dove la politica è costretta, avvezza, e spesso interessata, a riconoscere alla religione una opzione sui comportamenti ritenuti moralmente rilevanti, in primo luogo quelli delle donne8.
Per quanto riguarda l’altro teatro di guerra vicino a noi, la ex Jugoslavia, mi limito a ricordare come l’aspetto più drammatico, l’esplosione violenta delle “etnie”, abbia inevitabilmente al centro maternità e corpo femminile9: come strumento e bersaglio delle politiche di “pulizia etnica”, come base per un concetto di cui non si sarebbe più voluto sentir parlare, il diritto di sangue.
Insistendo sulla pervasività del materno, non voglio farne uso per minimizzare i fenomeni assegnabili al polo dell’innovazione: le donne al lavoro in settori maschili, quelle impiegate o combattenti nei movimenti di liberazione e negli eserciti regolari; e, a titolo diverso ma ugualmente rilevante, quelle che trasgrediscono sul piano del costume, come le saudite che durante la guer
ra del Golfo hanno manifestato alla guida di automobili, contro il divieto di farlo imposto da un’interpretazione della legge coranica10.
I miei dubbi vengono dall’interno stesso dei fenomeni innovativi, dal vecchio che perdura nel nuovo. Per il lavoro di mercato, molte hanno fatto notare che le guerre di questo secolo non portano né a un riesame concettuale né a un riassetto stabile della divisione sessuale del lavoro, ma più modestamente a uno spostamento provvisorio dei suoi confini, imposto da un cambiamento dei ruoli maschili (dalla sfera produttiva a quella militare) anziché da una ridiscussione di quelli femminili11. Tanto che resta immutato quell’aspetto della divisione del lavoro che assegna alle donne i compiti domestici, di cura dei figli, di manutenzione della vita.
Tratti simili mi sembrano all’opera anche per quanto riguarda l’ingresso delle donne negli eserciti regolari. Il caso degli Stati Uniti è piuttosto chiaro. Se è vero che ha pesato la forte spinta alla parità in tutti i campi da parte delle organizzazioni femminili/femmi- niste liberal, determinanti sono stati due obiettivi di politica militare messi a punto negli anni settanta: controbilanciare la presenza crescente di giovani neri sventando la prospettiva di un esercito troppo di colore;
Manar Hasan, On Fundamentalism in Our Land', Tikva Honig-Parnass, Jewish Fundamentalism as Inherent in the Jewish-Zionist State, materiali preparatori per il seminario “Molte donne un pianeta”, cit.; Raffaella Lamberti CFerite, “Inchiesta”, cit.) ricorda come alcune militanti palestinesi, informate del lavoro svolto in Italia da giuriste e avvocate per la costruzione di un diritto “sessuato”, abbiano sottolineato la crucialità per loro di sostituire alla legge islamica una legislazione civile e di “contrastare intanto a più livelli l’asse privilegiato madre/figlio quale si configura nella loro tradizione patriarcale” .
Nella relazione su “Gender and Nation”, preparata per il citato seminario “Molte donne un pianeta”, Nira Yu- val-Davis ricorda sul piano generale come spesso “la distinzione fra un gruppo etnico e un altro sia costruita in modo centrale sulla condotta sessuale delle donne”.10 N. Yuval-Davis, The Gendered Gulf War: Women’s Citizenship and Modern Warfare, in H. Bresheeth e N. Yu- val-Davis (a cura di), The Gulf War and New World Order, Londra, Zed, 1991, pp. 219-220.
Cfr. Gail Braybon, Penny Summerfield, Out o f the Cage: Women’s Experiences in Two World Wars, Londra, Pandora, 1987; U. Frevert, Women in German History, Oxford, Berg, 1989; Margaret R. Higonnet, P.R.L. Hi- gonnet, The Double Elix, in M.R. Higonnet et al. (a cura di), Behind the Lines. Gender and the Two World Wars, Londra-New Haven, Yale University Press, 1987; F. Thébaud, La femme au temps de la guerre de 1914, Parigi, Stock, 1986. Per 1’Italia, Francesca Bettio, The sexual division o f labour. The Italian case, New York, Oxford University Press, 1988.
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sostenere il volontariato prevenendo tensioni popolari simili a quelle contro la guerra del Vietnam e, nello stesso tempo, diffondendo un’immagine del servizio militare come lavoro, e lavoro non più “sporco” di altri12. Che presto siano nati conflitti e problemi (dalle differenti opportunità di carriera alle molestie sessuali) è un invito, rivolto innanzitutto a me stessa, alla cautela nel definire vecchio e nuovo e loro rapporti.
Ma il tema del reclutamento femminile ha tali risvolti, a partire dal legame storico fra il portare le armi e la piena cittadinanza13, che richiederebbe una riflessione specifica. Quello che invece vorrei rilevare qui è che la divisione sessuale del lavoro si prolunga all’interno delle forze armate e al fronte, mentre, non diversamente che nelle guerre mondiali, al mutamento dei ruoli lavorativi extrafamiliari delle donne non corrisponde alcuna sostanziale ristrutturazione dei compiti e delle responsabilità nello spazio domestico: durante la guerra del Golfo, la cura dei bambini e della casa delle donne arruolate è ricaduta per lo più su altre donne — nonne, parenti, vicine, addette agli asili — molto di rado su uomini, e comunque come fatto temporaneo ed eccezionale14.
Che nel nuovo sia incorporata una parte del vecchio è scontato. Ma in questo caso si tratta di un carattere fondante: è nello spazio domestico che risiede il primo terreno di
organizzazione della disparità. Se il nuovo si ferma alla sua soglia, i mutamenti economici e lavorativi rischiano di non intaccare nella sostanza i rapporti di genere; le conquiste politiche di restare inerti o di essere vanificate, non esclusa quella rappresentata dal diritto di voto, sbocco classico delle guerre e delle vittorie dei movimenti di liberazione nazionale. In Algeria, con l’ultimo codice elettorale, non integralista, si è infatti tentato di inficiarlo dando agli uomini la possibilità di votare a nome delle donne. A riprova di come sia difficile preservare uno spazio politico, se non si può mettere contemporaneamente in questione quello culturale e simbolico.
È proprio l’interesse a questi aspetti e alla loro capacità di autonomia dai mutamenti strutturali che ci ha spinto a sottolineare il versante conservativo-regressivo, quanto meno per le situazioni su cui più abbiamo riflettuto, l’Italia nelle due guerre mondiali.
Ci sono nell’una e nell’altra molte e diverse tensioni al nuovo, e un nuovo che si realizza spesso portando a compimento tendenze già in atto di cui sarebbe ingeneroso non tenere conto (come sarebbe ingeneroso non chiedersi quanto il voto nel 1918 alle donne britanniche debba all’impegno pluridecen- nale delle suffragiste, oltre che alla necessità di dare riconoscimento alla mobilitazione femminile in guerra). Ma quel che regge so-
12 C.H. Enloe, The Militarization o f First Class Citizenship: Some Lessons from the Gulf War, in “Women at War”, cit.; N. Yuval-Davis, The Gendered Gulf War: Women’s Citizenship and Modern Warfare, cit. Sull’arruolamento delle donne come risposta alle tendenze alla delegittimazione dell’uso della forza, cfr. L. Sebesta, Women and the Legitimation o f Force: the Case o f the Female Military Service-, sul vantaggio economico per le donne, Elisabetta Addis, The Reality and the Image. Women and the Economic Consequences o f Being a Soldier, ambedue in “Women at War”, cit.13 Cfr. C.H. Enloe, The Militarization o f First Class Citizenship, cit., e il fondamentale Jean B. Elshtain, Donne e guerra, Bologna, Il Mulino, 1991, soprattutto la Parte prima, La virtù civica armata. Si veda anche: Gabriella Bo- nacchi e Angela Groppi (a cura di), Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1993, in particolare Vinzia Fiorino, Essere cittadine francesi: una riflessione sui principi dell’89.14 Nira Yuval-Davis (The Gendered Gulf War: Women’s Citizenship and Modern Warfare, cit.) ricorda l’intervista radiofonica di un padre inglese che, dovendosi occupare di due bambini piccoli dopo la partenza della moglie per il Golfo, confessava il suo sgomento per la mole di lavoro ed esprimeva la fervida speranza che lei tornasse al più presto e se ne facesse nuovamente carico.
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no le coordinate di fondo dei rapporti fra donne e uomini, fra statuti del femminile e del maschile, in altre parole l’impronta “patriarcale” della società, con la divisione sessuale del lavoro, il predominio maschile nelle norme e nei valori sociali, nel diritto, nel linguaggio, nella politica, dove l’acquisizione di diritti formali uguali può non intaccare affatto la marginalità femminile.
È un fenomeno ancora più significativo se si pensa che il rivoluzionamento tocca praticamente tutte le strutture politiche e sociali, dalle forme di governo ai rapporti fra paesi europei e mondi coloniali; e che è percepito anche dagli individui come svolta irreversibile. Se pure con gradazioni diverse da una guerra all’altra, le donne continuano invece a rappresentare il luogo cui l’uomo può tornare in cerca di un minimo di stabilità: forse l’unico luogo di cui si può ancora sperare che sia o torni come prima.
Ci è sembrato di poter vedere in questi esiti — qui necessariamente schematizzati — un rapporto non solo con il carattere temporaneo ed eccezionale dei mutamenti, ma anche con la qualità dell’esperienza di guerra, vale a dire appunto con la pervasività del materno, sia nei discorsi politici, ideologici, religiosi, sia nei comportamenti e nella soggettività delle donne: donne che nella nostra ricerca sono di diverse età, classi, culture, madri e non madri, e diversamente legate al registro materno sul piano psicologico e culturale.
E una maternità che spesso deborda dalla famiglia e dal privato, come quando le donne si fanno in qualche modo carico del destino di altri, sfamando, nascondendo, proteggendo qualcuna delle innumerevoli vite messe a rischio dalla guerra. La mobilitazione femminile dell’otto settembre per sottrarre i soldati sbandati all’arresto ne è un esempio forte, e credo che sia insufficiente interpre
tarlo, come ha per lo più fatto la nostra storiografia, in termini di umanitarismo, una categoria che non precisa nulla su chi aiuta e su chi è aiutato, né sul rapporto che li unisce. Mi pare invece che l’otto settembre sia all’opera una disponibilità femminile nei confronti di un destinatario ben determinato, il giovane maschio vulnerabile e dipendente, che si rivolge in quanto tale alla donna come a una figura salvifica, forte e obla- tiva, vale a dire a una madre. Per questo parlerei piuttosto di maternage di massa.
Non sottovaluto la presa della propaganda, o il ruolo della Chiesa e della religione, che con la figura di Maria offre/impone un simbolo difficilmente sorvolabile15; e neppure il peso che le forme dell’individuazione femminile hanno sulla capacità/volontà di non separarsi dall’altro, dai suoi bisogni e desideri. Ma, mentre sarebbe assurdo pensare a una “naturale” oblatività femminile, non credo neanche si debba parlare di un semplice adattamento a norme e modelli. È un’ipotesi povera, come lo è il binomio adattamento/rifiuto. Più produttivo pensare in termini di un far fronte, di una contrattazione, vale a dire di un intreccio fra riconoscimento delle norme e capacità di eluderle e di manipolarle, di crearsi spazi di autonomia nelle maglie dei codici e delle rappresentazioni dominanti.
Cos’altro spinge allora tante donne ad agire e a identificarsi nella cifra del materno, in una fase storica in cui la maternità fisica non è ormai più il solo destino possibile, in una situazione in cui protezione e aiuto sono un’impresa difficile e spesso altamente pericolosa? Ho già ricordato il bisogno e la vulnerabilità dei giovani sbandati. Ma mi sembra necessario riflettere, più in generale, sul modo in cui le guerre moderne intervengono nel modificare lo statuto degli individui e le forme di rapporto interindivi-
15Luisa Accati, Il padre naturale, “Memoria”, 1987, n. 21.
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duale. Mentre proclama l’unità di tutti i cittadini ugualmente votati alla nazione, la guerra moltiplica nello stesso tempo il campo delle relazioni disuguali, che sfuggono al modello dominante sul piano teorico nelle nostre società: quello fondato sullo scambio equivalente fra individui uguali, tendenzialmente autosufficienti e indipendenti. Stanno fuori da questo paradigma solo i rapporti tra le generazioni dentro la famiglia, rapporti disuguali che hanno al centro bisogno e dipendenza al polo del minore, protezione e cura al polo dell’adulto. Anomalo rispetto all’uno e all’altro modello, il rapporto uo- mo/donna ne intreccia in modo contraddittorio vari caratteri, realizzando un modello del tutto specifico, anche se come è ovvio storicamente variabile.
Il punto è che la guerra crea minorità nuove, intendendo appunto con questo termine la perdita della possibilità di vivere in relativa autonomia e di negoziare liberamente i limiti della non interferenza reciproca. Minorità che possono riguardare tutti, tendendo il rapporto cittadino-stato a scivolare verso quello suddito-sovrano. O possono colpire aggregati specifici: i soldati in primo luogo, la cui figura sociale acquista prestigio, mentre quella giuridica perde diritti e facoltà; ma anche gruppi e singoli perseguitati e discriminati: le minoranze razziali, i cittadini di origine straniera, gli oppositori politici, i combattenti dei movimenti di liberazione, gli sbandati, i disertori. Sia pure su basi diverse, minorità è anche la condizione di quanti la guerra priva di autonomia sul piano materiale o psicologico: feriti, mutilati, vulnerabili di ogni natura, donne e uomi
ni che siano. Ma per le donne uno statuto svantaggiato non rappresenta una novità.
Credo vada tenuto in conto l’impatto sui rapporti di queste nuove minorità, che possono saldarsi alla socializzazione femminile al materno e ai messaggi ideologici fino a determinare il maternage esplicito e la coloritura materna di molti comportamenti usuali. È un materno che può mettersi al servizio dello Stato e della nazione o avere esiti antimilitaristi, come per esempio l’otto settembre — ma va detto che nell’Italia del 1943 non era affatto chiaro dove e cosa fossero nazione ed esercito nazionale16. Si tratta in ogni caso di una modalità di esperienza e di rapporto che rappresenta bene l’intreccio fra vecchio e nuovo, e il peso del primo sul secondo: le donne sono e appaiono più forti dell’uomo, ma in quanto madri reali o simboliche, vale a dire nella sola forma socialmente accettata. Per quanto riguarda l’Italia, neppure il movimento di liberazione ha l’effetto, né si propone, di rompere questo schema: si esaltano madri e sorelle putative, si guarda con diffidenza alla femminilità delle partigiane, mentre resta quasi del tutto assente un’attenzione critica al privato, più che altro temuto come luogo del cedimento e della “perdizione”17.
Non voglio in alcun modo usare l’adesione al materno come metro di misura dell’accettazione o meno dell’esistente: la maternità è un fatto e un simbolo troppo ricco e contraddittorio per essere ricondotto a un solo significato18. Quel che temo è, se mai, altro: che il primato del materno protettivo e oblativo nelle storie vissute e raccontate, nella letteratura, nell’ideologia, finisca per
16 Come ha ampiamente mostrato Claudio Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, in particolare nel capitolo La scelta.17 C. Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralità nella Resistenza, cit., pp. 521-522. Molti spunti tuttora interessanti si trovano in A.M. Bruzzone e Rachele Farina, La resistenza taciuta, Milano, La Pietra, 1976, e in Bianca Guidetti Serra, Compagne, Torino, Einaudi, 1977.18 Sulla ricchezza e l’ambivalenza del materno, ma soprattutto sul materno come pensiero, da cui può prendere le mosse un nuovo discorso politico-filosofico, cfr. Sara Ruddick, Maternal Thinking, New York, Ballantine Books, 1989.
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cancellare altri aspetti dei comportamenti. Per esempio il calcolo, più o meno consapevole. Non mi disturba affatto pensare che le donne che peregrinavano fra comandi tedeschi e fascisti per chiedere la liberazione del marito avessero in mente anche la propria sicurezza e il proprio status. Che altre, dedite per anni alla “risocializzazione” di un marito o figlio ex prigioniero, abbiano pensato che un uomo, anche vulnerabilissimo, è meglio che nessun uomo. O, ancora, che nella duratura e rischiosa protezione offerta da tante contadine (e contadini) ai militari alleati fuggiti dai campi di prigionia italiani dopo l’otto settembre19, abbiano pesato la convinzione che i tedeschi avessero ormai perso la guerra, e la valutazione dell’aiuto che un giovane uomo poteva dare nel lavoro dei campi.
Mi sembra anzi che la capacità di calcolare e pensare avendo in mente se stesse, arricchirebbe queste figure femminili, correggerebbe lo stereotipo della donna che agisce solo per sentimento, e solo guardando agli altri. Quanto fosse forte anche lo stereotipo speculare sulla femmina perennemente calcolatrice è suggerito dal fatto che motivazioni di questo tipo sono praticamente assenti dai racconti, se non quando vengono attribuite a figure negative. Credo comunque che il “tornaconto” maggiore stia nella straordinaria autorità, nella quota di potere che si accompagnano alla maternità, tanto più alla maternità protettivo-sacrificale primeggiarne nella guerra, sull’onda di una tradizione ancora oggi inesaurita. Alla sua base preme, mi sembra, una concezione per così dire “proprietaria”, in cui il figlio, non importa se adulto, continua ad appartenere alla madre, che può darlo o rifiutarlo (all’e
sercito, a un’idea, a un’altra donna), ma sempre come cosa sua, in un rapporto governato da una sorta di diritto naturale inalienabile. Penso non solo alle madri in guerra, ma all’oggi, per esempio alle molte madri di soldati di leva che, di fronte alla prospettiva di impiego dell’esercito sul territorio, hanno minacciato in più occasioni di andare a riprendersi i figli: è stato così per il presidio italiano in Libano, e, sia pure in modo più morbido, per l’invio di soldati in Sicilia e Sardegna.
Certo vale anche in questi casi il discorso sulla “minorità” del militare; certo per molti — e io sono fra questi — era opportuno fare resistenza a questo uso delle forze di leva. Ma mi ha colpito che nessuno all’interno dell’opinione antimilitarista abbia giudicato problematico il fatto che, in sostituzione di giovani adulti a tutti gli effetti, agissero le loro madri, disputandoli all’esercito come oggetti non responsabili, come eterni minorenni. Difficile non pensare a un detto italiano tuttora diffuso: “mio figlio, io l’ho fatto, io lo disfo” .
Non stupisce che della costellazione di elementi che connotano questo codice materno facciano parte due aspetti di particolare rilievo nelle guerre. Il primo è il coesistere di una netta presa di distanza dalla violenza e di una difficoltà altrettanto netta a dissociarsi da quelli che l’hanno esercitata, un sorvolare, un minimizzare, quasi un rifiuto di vedere20. Gli sbandati dell’otto settembre, i “minori” vulnerabili che le donne contendono ai nazisti come vittime incolpevoli, sono gli stessi che hanno combattuto i tre anni di guerra fascista, possono essere gli stessi che hanno invaso altri paesi, commesso crimini, tollerato che fossero commessi. Aguz
19 Anche a distanza di molti anni resta fondamentale l’analisi di Roger Absalom, Per una storia di sopravvivenze: contadini italiani e prigionieri evasi britannici, “Italia contemporanea”, 1980, n. 140.
Una contraddizione simile è vissuta da alcune madri israeliane di oggi, che “possono dire che avrebbero voluto essere pacifiste e allo stesso tempo raccontare con orgoglio che il loro figlio è in una unità scelta dell’esercito” (Y. Deutsch, Donne israeliane contro l ’occupazione e per la pace, “Inchiesta”, cit.).
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zino e figlio di mamma non sono figure incompatibili, salvo agli occhi delle madri stesse. In questo senso l’atteggiamento di molte donne — ma non solo delle donne — da un lato può aver fatto da spalla popolare ai tentativi politico-diplomatici di presentare l’Italia come sostanzialmente immune dai crimini di guerra, a cominciare dalla persecuzione degli ebrei, dall’altra non ha certo contribuito a sollecitare un’autocoscienza personale e nazionale.
Il secondo punto è la radicale desessualizzazione: si è prima madri che dorme, o anziché donne, e madri di figli maschi, secondo la tradizione mediterranea. Il sogno di Vittorini in Conversazione in Sicilia21 — una grande madre che sfama, disseta, dà asilo al soldato e infine gli offre il proprio corpo — è tutto maschile, anche se non molti uomini avrebbero il coraggio di sognarlo; ed è quello di ricomporre nella letteratura una dissociazione di lunga durata.
Nei racconti femminili che conosco la sessualità è praticamente assente (se mai compare quella maschile come minaccia), quasi fosse impossibile parlarne senza esporsi a condanne. Anche qui esiste una lunga tradizione di silenzio che arriva ancora oggi a toccare donne molto più giovani delle nostre narratrici22; anche qui bisogna porsi il problema dello scarto fra vita vissuta e vita raccontata.
Ma quel che mi interessa dire ora, è che il silenzio suggerisce quanto meno un’ipotesi: se la guerra ha prodotto mutamenti su questo piano, deve essere stato a quel livello molecolare che non necessariamente sbocca in una
trasformazione avvertibile, si concretizza in comportamenti e valori nuovi, riconosciuti e condivisi. Con il risultato che alla conflittualità fra i generi, già compressa dagli appelli e dai sentimenti di solidarietà familiare, di gruppo, di classe, nazionale, è sottratto un terreno primario: non si apre un contenzioso con un maschile filiale e pericolante, tanto meno a partire da una realtà cui è negata rilevanza.
Mi rendo conto di una mia probabile ottusità nel riconoscere gli elementi emancipativi delle guerre, forse per timore che ammettere alcuni effetti positivi di un grande male finisca per sminuirne la portata; so anche che questa posizione può far sottovalutare in alcuni casi il ruolo dell’imprevisto, attraverso il quale spesso i gruppi privi di potere fanno ingresso nella storia.
Ma se è opinione comune che ci siano vita e mutamento solo dove c’è conflitto, bisogna chiedersi che rapporto esiste fra i conflitti, dove si lotta per cambiare, e le guerre della modernità, dove si combatte per annientare. Credo che le seconde, con l’ideologia e con la violenza, scaccino i primi: annichilendoli, o accelerando il loro passaggio a forme rivoluzionarie, con i tanti esiti distruttivi che conosciamo. Per quanto riguarda i rapporti di genere, i risultati più importanti sono legati al tempo di pace, o quantomeno a forme di lotta poco militarizzate23. Mi chiedo se qualcosa di simile non valga anche per altri conflitti.
Anna Bravo
21 Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, Milano, Bompiani, 1958.22 Cfr. il n. 28 di “Memoria”, dedicato a Bambine. Racconti d ’infanzia.23 Come per esempio la prima fase dell’Intifada. Mentre, ricorda Elisabetta Donini, “il rovesciamento accaduto nel 1990 (con lo scontro spostato sempre più verso la spirale strage-reazione-repressione-vendetta-nuova strage e con una riduzione in ambito palestinese dell’impegno per l’autonomia sociale e produttiva) ha significativamente tolto respiro alle donne” (E. Donini, Che cosa resta, “Inchiesta”, cit.).
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Condizione fem m inile, produzione bellica e società in Gran Bretagna
Penny Summerfield
Fin dagli anni cinquanta, quando Stanislaus Andrzejewski elaborò la teoria del livello di mobilitazione militare e Richard Titmuss scrisse i suoi saggi War and Social Policy e The Position o f Women, gli storici e i sociologi hanno rivolto la loro attenzione al fatto che la seconda guerra mondiale ha significativamente cambiato la posizione sociale delle donne1. Andrzejewski sostenne che la guerra di massa, coinvolgendo una elevata porzione della popolazione totale, ebbe un effetto di livellamento delle differenze sociali. Titmuss sviluppò questa posizione sostenendo che il ruolo delle donne, in quanto lavoratrici dipendenti nel periodo bellico, stimolò lo sviluppo di politiche sociali che ridussero le ineguaglianze e migliorarono la condizione femminile. Egli inoltre attirò l’attenzione sui cambiamenti demografici dell’epoca che stavano modificando in modo fondamentale la posizione delle donne all’interno della famiglia e sul mercato del lavoro. La cresciuta incidenza dei matrimoni stipulati in giovane età dopo la guerra e le nascite ravvicinate nei primi anni di matrimonio di un limitato numero di bambini, significavano che le donne sposate al di sopra dei trent’anni erano divenute la principale fonte di reclutamento della forza lavoro2.
Nel 1956 Alva Myrdal e Viola Klein studiarono il trend individuato da Titmuss e sostennero la tesi del duplice ruolo delle donne nel lavoro domestico ed in quello retribuito, considerando l’impatto della guerra sulla
condizione femminile come rilevante da tre punti di vista. Innanzitutto ritenevano che “la discriminazione di sesso in fatto di lavoro era quasi scomparsa” . In secondo luogo sostennero che la ridefinizione delle condizioni di lavoro, realizzata al fine di andare incontro alle necessità delle donne lavoratrici, assumeva dimensioni tali da poter essere considerata una rivoluzione sociale. Da ultimo affermarono che nel dopoguerra si verificò una notevole riduzione del numero delle donne sposate impiegate nei lavori extradomestici, nonostante l’evidente volontà delle donne di mantenere i propri impieghi alla fine delle ostilità3. Il fondamento della loro argomentazione era che ciò che la guerra aveva provato essere possibile si era ripetuto negli anni cinquanta e sessanta: si potevano convincere le donne sposate a divenire parte della forza lavoro ed a sommare le responsabilità lavorative domestiche e extradomestiche senza effetti negativi in ciascuno dei due ambiti.
Negli anni sessanta e settanta Arthur Marwick diffuse la tesi secondo cui la seconda guerra mondiale aveva contribuito in modo significativo allo sviluppo dell’uguaglianza tra i sessi. Come Myrdal e Klein egli sostenne che le donne, durante la guerra, fecero i lavori degli uomini, ricevettero la stessa paga, e che queste furono conquiste destinate a durare. Diversamente da loro, però, pensava che la mobilitazione civile per il lavoro decretata dal governo “giocò un ruolo se-
1 La tesi di Andrzejewski è sviluppata nel volume Military Organization and Society, London, Routledge, 1954; i saggi di Richard Titmuss sono pubblicati nella raccolta Essays on ‘The Welfare State’, London, Allen and Unwin, 1958.j Cfr. R. Titmuss, Essays on ‘The Welfare State’, cit.
Cfr. Alva Myrdal, Viola Klein, I due ruoli della donna. Famiglia e lavoro, Roma, Armando, 1973 (ed. orig. 1956), pp. 81-83.
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condario nei cambiamenti della condizione lavorativa femminile” . Sostenne, inoltre, che divenne più accettabile l’idea di impiegare donne sposate come lavoratrici salariate4. Più in generale l’approccio di Marwick vedeva nella guerra un fattore cruciale di ‘modernizzazione’ della posizione della donna, perché aveva dato loro maggiore fiducia in se stesse e un ruolo pubblico più visibile nel lavoro, nella politica e nella vita sociale. Per esempio Marwick così concludeva il dibattito riguardo agli effetti della guerra sulle donne inglesi, americane, russe e tedesche pubblicato nel 1974: la partecipazione come lavoratrici allo sforzo bellico “può essere vista ovunque come un elemento di ulteriore miglioramento dello status sociale delle donne”5.
Sia Titmuss, Myrdal e Klein che Marwick sostennero l’idea che gli anni della guerra e del dopoguerra abbiano costituito “un periodo di crescente emancipazione per le donne”6. Le studiose femministe degli anni settanta non potevano accettare tale interpretazione. Era assai evidente che nel dopoguerra le donne, specie quelle delle classi lavoratrici, non erano libere dalla casa, che esse rimanevano tradizionalmente dipendenti e che si trovavano in una posizione subordinata sul lavoro. Se le donne avevano raggiunto un più elevato status durante la guerra, non sembrava che lo avessero mantenuto successivamente. Il dibattito ruotava intorno all’interpretazione dei concetti di ‘emancipazione’ e ‘status’. Myrdal e Klein non pensavano in termini di uguaglianza assoluta tra i sessi ma piuttosto ad un riconoscimento di quelle che essi consideravano attitudini spe
cifiche delle donne, che includevano sia la competenza pratica sia il senso materno. La guerra aveva chiesto alle donne di porre tali qualità al servizio della nazione, e “le donne avevano risposto positivamente a tali richieste”7. Analogamente Marwick teorizzava che entrambi i conflitti avevano provocato un passaggio dalla subordinazione a quelle che si potrebbero definire forme emancipative di femminilità: da una condizione in cui le attività delle donne erano ingabbiate entro i rigidi dettami vittoriani della modestia e del decoro alle possibilità di frequentare i pub, viaggiare, avere esperienze sessuali al di fuori del matrimonio, usare il rossetto, indossare gonne più corte, fumare in pubblico8.
Comunque negli anni settanta e ottanta le femministe acquisirono la convinzione che i cambiamenti nella morale e nelle abitudini erano dei punti di riferimento ingannevoli rispetto agli elementi realmente determinanti la posizione sociale delle donne e il loro ruolo economico nel lavoro fuori di casa ed in quello domestico. In polemica con Myrdal e Klein, le femministe avevano l’impressione che l’idea che le donne avessero speciali attitudini fosse servita a rinforzare le discriminazioni nei loro confronti. Piuttosto che approvare entusiasticamente la pratica di farsi carico di una attività lavorativa, oltre agli impegni domestici e di considerare questo come un miglioramento della condizione delle donne, le femministe chiesero perché il lavoro domestico dovesse essere esclusiva- mente identificato con i ruoli femminili e perché la manodopera femminile fosse tradizionalmente meno pagata di quella ma-
4 Arthur Marwick, Britain in the Century o f Total War. War, Peace and Social Change 1900-1967, London, The Bodley Head, 1968, pp. 291-294.5 A. Marwick, War and Social Change in the Twentieth Century, London, Macmillan, 1974, pp. 137 e 159-161.6 R. Titmuss, Essays on ‘The Welfare State’, cit., p. 101.7 A. Myrdal, V. Klein, I due ruoli della donna, cit., p. 3.8 Cfr. rispettivamente il citato saggio di A. Marwick, Britain in the Century o f Total War, p. 127 e, dello stesso autore, The Home Front: the British and the Second World War, London, Thames and Hudson, 1976, p. 138.
Condizione femminile, produzione bellica e società in Gran Bretagna 377
schile. L’emancipazione veniva ora equiparata non con il fatto che le donne fornivano il loro specifico apporto in quanto donne alla società e neppure con la loro apparente maggiore indipendenza, ma piuttosto con la totale soppressione della divisione sessuale in casa e sul lavoro.
Il problema di ciò che era successo durante la guerra rimaneva un fattore importante per la comprensione delle opportunità storiche apertesi per le donne e del come esse le avessero sfruttate. Le ricerche condotte da Juliet Mitchell, da Denise Riley e da chi scrive negli anni settanta e nei primi anni ottanta, che riguardavano la misura del cambiamento del periodo bellico ed il suo grado di permanenza, affrontavano i tre temi proposti all’attenzione da Myrdal e Klein: il ruolo svolto dalla politica sociale nel liberare le donne dalla “domesticità”, l’impatto della guerra sulla posizione delle donne all’interno della forza lavoro, e il problema delle risposte soggettive delle donne rispetto al lavoro durante e dopo la guerra.
Donne e politiche sociali del periodo bellico
In termini di politica sociale si trattava di chiarire in che misura si fosse assistito alla sostituzione delle funzioni domestiche delle donne, quali la cura dei figli, e al parallelo sviluppo di una ideologia finalizzata a legittimare tale situazione. Mitchell in Psicoanalisi e femminismo9 sostenne che si trattò di un fenomeno molto ampio che procedéva di pari passo con una temporanea trasformazione ideologica, rispetto al ruolo femminile, e che entrambivennero drasticamente eliminati alla fine della guerra per costringere le donne a far ritorno a casa. In questo la fami
glia, “una istituzione ideologica primaria”, venne successivamente destrutturata dalle pressioni sociali del tempo di guerra e, quindi, ricostruita dopo la guerra aU’interno del corpo teorico e pratico della psicoterapia sociale. Fu riaffermata la centralità delle donne rispetto alla famiglia. “Nel dopoguerra la stabilizzazione politica e la ricostruzione economica portarono alla restaurazione di forme sociali conservatrici. Le scuole materne e le mense comuni furono chiuse: laddove le donne erano state assunte nelle industrie ora le si incoraggiava a sposarsi e, se maritate, le si escludeva da quasi tutte le professioni e da molti lavori: invece che lavoratrici per la patria dovevano essere donne di casa” e soprattutto madri, il cui posto era la casa con i figli. “Lo psicologo dell’infanzia Bowlby, le cui idee venivano divulgate alla radio e sulle riviste femminili, insegnava che ogni persona succhia letteralmente la propria stabilità emotiva con il latte materno”10.
Denise Riley nel 1983 nel suo War in the Nursery11 indagò le connessioni tra le politiche sociali del periodo bellico e le convinzioni di ordine ideologico più intensamente della Mitchell e concluse per un quadro più ricco di sfumature. Esistevano contraddizioni nelle politiche sociali del periodo del conflitto che non erano tanto estese né erano state così radicalmente abbandonate successivamente, come Juliet Mitchell aveva creduto. Da un lato ci si aspettava che la madre a tempo pieno fosse una cittadina attiva, dall’altro le si chiedeva di svolgere un lavoro retribuito. Esistevano delle divergenze tra la teoria psicologica, la politica e le pratiche sociali. L’idea che “il governo del dopoguerra avesse utilizzato la teoria di Bowlby della cosiddetta ‘deprivazione materna’ per ricacciare le donne britanniche dai loro posti di lavoro fin
9 Juliet Mitchell, Psicoanalisi e femminismo. Freud, Reich, Laing e altri punti di vista sulle donne, Torino, Einaudi, 1976 (ed. orig. 1974).
Così J. Mitchell, Psicoanalisi e femminismo, cit., pp. 258 e 259.Denise Riley, War in the Nursery. Theories o f the Child and Mother, London, Virago, 1983.
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dentro le loro cucine” era errata12. Allo stesso modo, l’ideologia degli anni della guerra metteva in contrapposizione la “donna lavoratrice” con la “moglie e madre” , e nei discorsi postbellici a favore dell’incremento della natalità uno dei destini della donna era quello della madre a tempo pieno che portava la maggior quota di responsabilità per lo sviluppo fisico e psicologico dei suoi figli.Il lavoro di guerra delle donne, pure nelle rappresentazioni del loro eroismo collettivo, era lavoro svolto da donne, segnato da cima a fondo dal genere di chi lo svolgeva e conseguentemente dalla particolarità di essere limitato nel tempo perché lavoro di donne che erano madri... Tutto quanto riguardava l’impiego di donne sposate nell’indu- stria si opponeva al loro essere prese seriamente in considerazione come lavoratrici a tutti gli effetti: dal 1945 la retorica dominante fornì una contrapposizione tra il modello della madre e quello della donna lavoratrice. Il collasso postbellico degli asili di guerra sottolineò esclusivamente la ‘speciale natura’ delle concessioni temporanee alle madri lavoratrici13.
Nel mio Women Workers in the Second World War14 ho analizzato la formulazione e l’applicazione delle politiche sociali del periodo bellico nei confronti delle donne con maggiore profondità sia di Mitchell che di Riley. Ho dimostrato che vi erano visioni contrastanti sul ruolo delle donne durante e dopo la guerra, in ambiti quali la cura dei figli e della casa. Le tradizionali aspettative patriarcali riguardo alle donne entravano in collisione con le esigenze della produzione bellica che richiedeva soluzioni al problema della mobilitazione della forza lavoro femminile. Così nei ministeri quali quello del Lavoro e degli Approvvigionamenti, durante la guerra ci fu chi sostenne i metodi collettivisti
di organizzazione del lavoro domestico e li giustificò in termini di necessità nazionale e di progresso per le donne. E ci fu anche chi, all’interno di questi ministeri ed di quello della Sanità e dell’Alimentazione, fondò le linee politiche di intervento sull’idea della santità del focolare domestico e del posto della madre con il suo bambino all’interno di questo, malgrado le necessità del periodo bellico15. Lo Stato non fu guidato interamente dagli interessi del capitale e neppure da quelli patriarcali. Il risultato del conflitto di interessi fu un dibattito, senza precedenti a livello governativo, sul lavoro necessario per mandare avanti una casa, sull’organizzazione parziale e temporanea della cura collettiva dell’infanzia e l’insistenza ufficiale sul fatto che il lavoro retribuito dovesse essere organizzato sulla base del part-time per mobilitare le donne che dovevano anche mandare avanti la casa. Ma “la grande parte del lavoro domestico nel periodo bellico fu ricacciato indietro nella sfera privata delle risorse proprie di ogni donna e di quelle della sua famiglia, dei suoi amici e dei suoi vicini di casa”16. Nel settore della politica sociale c’era, dunque, poco da disfare alla fine della guerra. Gli asili nido della fase bellica furono consegnati a rigorose autorità locali che ritornarono all’orientamento prebellico di organizzare asili giornalieri per casi particolari di povertà o difficoltà piuttosto che ad un servizio per ogni donna impiegata nel lavoro. E alle donne occupate si lasciò decidere se fosse più conveniente per loro continuare con soluzioni part-time. Non ci fu una “rivoluzione sociale” scaturita dalla politica sociale bellica del tipo immaginato da Myrdal e Klein.
12 D. Riley, War in the Nursery, cit., p. 189.13 D. Riley, War in the Nursery, cit., p. 195.14 Penny Summerfield, Women Workers in the Second World War. Production and Patriarchy in Confict, London, Croom Elm-Routledge, 1984 (seconda ed. 1989).15 Cfr. P. Summerfield, Women Workers in the Second World War., cit.16 P. Summerfield, Women Workers in the Second World War, cit. (ed. 1989), p. 185.
Condizione femminile, produzione bellica e società in Gran Bretagna 379
Le donne nella forza lavoro
Per quanto riguardava la collocazione delle donne all’interno della forza lavoro, la tesi di Mitchell implicava di considerare le donne come un esercito di riserva del lavoro, che era stato immesso sul mercato durante gli anni bellici di crisi della produzione e ne era stato successivamente cacciato. Anche io ho concordato con questa tesi — assai diffusa ancora tra i sociologi — in un articolo degli anni settanta17. I dati globali sembrano confortare questa opinione. Calcolando un incremento di 1 milione e 500 mila donne nella forza lavoro tra il 1939 ed il 1943 (approssimativamente da 6 milioni e 250 mila a 7 milioni e 750 mila) si realizzò un decremento di 1 milione e 750 mila unità nell’occupazione femminile tra il 1943 e il 1947. La contrazione della fascia di età giovanile della popolazione rispetto al totale spiega parzialmente tale notevole decremento. Ma anche la percentuale di tutte le donne adulte che svolgevano lavoro retribuito crollò dal 51 per cento nel 1943 al 40 per cento nel 1947 e al 35 per cento nel 1951, analogamente al dato percentuale del 193118, che era dal 34 per cento.
La teoria dell’esercito di riserva, secondo i termini in cui l’aveva sviluppata Marx, riguardava la creazione di una riserva di lavoro da parte del capitale che assolveva una duplice funzione: comprimere i salari di coloro che erano impiegati, perché vi erano sempre possibili sostituti che aspettavano ai margini, e costituire una fonte di lavoro a basso prezzo e facilmente disponibile nell’eventualità di uno sviluppo della produzione. Marx non aveva collocato le donne specifi
camente in qualcuno dei tre settori sociali che aveva individuato: quello fluttuante (temporaneamente disoccupato), quello latente (cronicamente disoccupato) e quello stagnante (di fatto inoccupabile, ai margini estremi del mercato del lavoro). Studiosi successivi, come Veronica Beechey, pensavano che la posizione delle donne sposate all’interno della famiglia le collocava nell’ambito della manodopera latente. Esse costituivano un settore non impiegato che poteva essere assorbito all’interno della forza lavoro a bassi costi, in virtù della presenza del sostegno economico rappresentato da un marito ed essere ricacciate in una posizione subordinata quando non più necessarie, senza divenire oggetto di assunzione di responsabilità pubbliche19.
Questa spiegazione può rendere conto della posizione delle donne nella forza lavoro durante la seconda guerra mondiale a due condizioni da verificare. Una riguarda la provenienza di queste donne: se reclutate dal settore latente dell’esercito di riserva, esse dovevano essere disoccupate prima della guerra o comunque — considerata la depressione economica degli anni tra le due guèrre — manodopera giovane senza esperienza. La seconda si riferisce alla loro collocazione successiva. Finita la crisi della produzione, esse avrebbero dovuto ridiventare dipendenti dai loro mariti a casa.
Un problema direttamente connesso con tale teoria è costituito dall’ordine di grandezza della forza lavoro femminile prebellica. Più di sei milioni di donne risultavano impiegate in un lavoro retribuito nel 1939, l’ottanta per cento del dato registrato nel 1943. Sembrerebbe, dunque, che la maggior
lg P- Summerfield, Women Workers in the Second World War, “Capital and Class”, primavera 1977.Cfr. le considerazioni contenute in P. Summerfield, Women War and Social Change: Women in Britain
in World War II, in A. Marwick (a cura di), Total War and Social Change, London, Macmillan, 1988, pp. 97-98.
Veronica Beechey, Some Notes on Female Wage Labour in Capitalist Production, “Capital and Class”, 1977, n. 3, pp. 45-66.
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parte delle donne impiegate nel lavoro, durante la guerra, non possa esser considerata parte della riserva mobilitata per la produzione bellica. I dati aggregati corrispondono comunque a istantanee parziali. I sei milioni censiti sul lavoro nel 1939 potrebbero non essere le stesse donne conteggiate nel 1943.
Le indagini sistematiche sulle condizioni sociali del tempo di guerrra (Wartime Social Survey), condotte attraverso interviste ad un campione rappresentativo di 2.609 donne occupate nell’ambito dell’industria civile nel 1943, ci rivelano di più riguardo ai flussi di entrata ed uscita delle donne dal mercato del lavoro. Le donne che non avevano un impiego retribuito immediatamente prima del conflitto costituivano il 28 per cento del campione. Una minoranza (il 6 per cento dell’intero campione) aveva avuto accesso al lavoro durante la guerra direttamente dalla scuola, dunque furono nuovi soggetti ad entrare nella forza lavoro piuttosto che componenti dell’armata di riserva. Buona parte del rimanente 22 per cento aveva svolto lavori retribuiti saltuari prima della guerra, per cui non erano completamente inesperte. L’ultima occupazione retribuita di alcune era stata nella produzione di munizioni nella prima guerra mondiale20. Questo gruppo, principalmente di donne che avevano cessato il lavoro al momento del matrimonio, presenta maggiori tratti di affinità con l’esercito di riserva, ma costituì solamente una parte del totale della forza lavoro femminile.
È chiaro, quindi, che non è proficuo considerare le lavoratrici del periodo bellico in generale come un esercito di riserva del lavoro. Nondimeno, si potrebbero ancora considerare le lavoratrici di guerra sposate come componenti dell’esercito di riserva,
secondo l’interpretazione che Beechey vorrebbe proporre della teoria dell’esercito di riserva stesso. Però le indagini sulle condizioni sociali del periodo bellico dimostrano che non tutte le lavoratrici sposate erano state reclutate per il lavoro direttamente dalle loro case. Più della metà delle donne sposate che stavano nel campione analizzato nel 1943 (il 59 per cento) erano impiegate in un lavoro retribuito nel 1939 (tuttavia l’inchiesta non ci dice se esse fossero già sposate allora). Solo nel 41 per cento dei casi la vicenda di lavoratrici di guerra sposate che si trovavano ‘a casa’ prima dello scoppio del conflitto, sembra, comunque, collimare con la descrizione dell’esercito di riserva. Se le cose stessero così, ci si dovrebbe aspettare che fossero state escluse dalla forza lavoro alla fine della guerra e che pertanto la percentuale di coniugate fosse ritornata al livello prebellico. Ma il fatto è che, sebbene la proporzione delle donne sposate nella forza lavoro si sia abbassata leggermente dal picco raggiunto durante il conflitto, negli anni quaranta rimase ben al di sopra del livello degli anni trenta e ascese regolarmente nel decennio successivo, come osservarono sia Titmuss, sia Myrdal e Klein. Nel 1931 solo il 16 per cento delle donne lavoratrici erano sposate. Nel 1943 il dato era salito al 43 per cento, cadde al 40 per cento nel 1947, quindi risalì nuovamente al 43 per cento nel 1951 ed al 52 per cento nel 1959 per raggiungere il 64 per cento nel 198521. Negli anni cinquanta Titmuss analizzò i cambiamenti demografici che stavano dietro tale fenomeno. Vi era una crescente percentuale di donne sposate nella popolazione perché si ridusse lo squilibrio tra i sessi, si abbassò l’età media del matrimonio, si accrebbe l’aspettativa di vita, mentre la dimensione del
20 I riferimenti sono tratti da Geoffrey Thomas, Women at Work: the Attitude o f Working Women towards post war Employement and Some Related Problems, in Central Office of Information, Wartime Social Survey, 1944, pp. 7-10.21 Cfr. P. Summerfield, Women, War and Social Change: Women in Britain in World War II, cit., p. 100.
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le classi di età adulta imboccò un trend di discesa22. Rimane tuttavia il fatto che le donne sposate non vennero espulse dalla forza lavoro dopo la guerra come il meccanismo dentro-fuori della teoria dell’esercito di riserva vorrebbe sostenere.
La teoria dell’esercito di riserva permette, quindi, limitate possibilità di comprensione della partecipazione della forza lavoro femminile alla seconda guerra mondiale. In particolare non dice nulla riguardo alla maggior parte delle donne lavoratrici durante la guerra, sia di quelle sposate che di quelle nubili, che erano già impiegate allo scoppio delle ostilità. Le inchieste sulle condizioni sociali del periodo bellico nel 1944 rivelarono un elevato grado di mobilità dei generi di lavoro e dei settori industriali tra queste donne. Per esempio solo il 47 per cento delle addette alle macchine e all’assemblaggio nel 1943 si trovavano in tale categoria prima della guerra. Il resto proveniva da altre occupazioni: il 28 per cento erano “lavoratrici e collaboratrici domestiche” e il 6 per cento si trovavano nelle professioni amministrative e impiegatizie23. Confrontando i dati delle industrie con quelli dell’occupazione, i meccanismi di reclutamento nel settore delle costruzioni meccaniche evidenziarono i maggiori cambiamenti. Solo il 22 per cento delle donne addette al settore meccanico nel 1943 vi era impiegato prima della guerra; il 51 per cento proveniva da un altro settore di attività, il 24 per cento direttamente dal lavoro domestico ed il 4 per cento dalla scuola. In termini di distribuzione tra i settori il numero delle donne crollò in numerose delle industrie che ne avevano impiegato una larga percentuale prima della guerra, come per esempio il tessile, dove il numero delle don
ne assicurate cadde da 656.000 a 456.000 tra il 1939 ed il 1943. Una contrazione simile si verificò nell’industria dell’abbigliamento, nelle ceramiche, nella produzione di generi derivati dal cuoio, di cibo, bevande, tabacco, nella distribuzione e nei servizi al consumatore24. Dall’altro lato l’insieme delle donne crebbe nelle industrie in cui la loro percentuale era relativamente bassa prima della guerra. Per esempio, il numero delle donne nelle costruzioni meccaniche crebbe da 97.000 fino a 602.000 e dal 10 al 34 per cento dei lavoratori dell’industria dal 1939 al 1943. Notevoli incrementi si verificarono inoltre nelle industrie metallurgiche e chimiche, nel settore automobilistico, nei trasporti, nel settore del gas, acqua ed elettricità e nella cantieristica25.
Benché molto più drammatica e consistente, la ridistribuzione delle donne nell’industria durante la guerra non era in contrasto con quanto avvenuto precedente- mente. Negli anni venti e trenta l’industria tessile si contrasse e la quantità e la percentuale delle donne impiegate nei trasporti, nella chimica, nel settore automobilistico ed in quello meccanico e metallurgico crebbe anche se la dimensione dell’incremento fu contenuta. Nella meccanica, per esempio, la percentuale delle donne crebbe dal 6,5 al 10,3 per cento tra il 1923 ed il 1939. Questo non è quanto la teoria dell’esercito di riserva sostiene che sarebbe dovuto accadere in un periodo di depressione economica nel quale le donne avrebbero dovuto essere le prime a perdere i loro impieghi. Riferendosi allo stesso fenomeno negli Stati Uniti, Milkman notò che le donne nel periodo tra le due guerre erano protette dalla disoccupazione a causa della loro segrega-
42 R. Titmuss, Essays on ‘The Welfare State’, cit.Central Office o f Information, Wartime Social Survey, 1944, cit., p. 9.
J4 Central Statistical Office, Statistical Digest o f the War, London, Hmso, 1951, p. 9.G.M. Beck, Survey o f British Employment and Unemployment 1927-1945, Oxford, Oxford University Institute
of Statistics, 1951, tab. 40.
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zione occupazionale26. Le donne erano impiegate in nuovi generi di lavoro, per esempio nelle linee di produzione delle fabbriche di materiale elettrico, di macchine da scrivere e di macchine calcolatrici da ufficio. Esse erano considerate come appartenenti a settori separati di lavoro nei quali venivano corrisposte paghe più basse di quelle degli uomini27.
La guerra affrettò questo processo. Alla sua fine si verificarono dei riassestamenti che comportarono una considerevole perdita di lavoro da parte delle donne e, con il ritorno degli uomini, una diminuzione rilevante della percentuale di donne occupate nelle attività operaie e impiegatizie. Comunque, la ristrutturazione di genere nell’ambito della forza lavoro, che era cominciata lentamente prima della guerra, proseguì stimolata dall’accelerazione dei cambiamenti del periodo bellico nei processi lavorativi e nell’emancipazione femminile. Dopo la guerra i valori assoluti e le percentuali delle donne nel settore meccanico, automobilistico, metallurgico, del gas, acqua e elettricità, nei trasporti e nell’amministrazione decrebbero rispetto al dato del 1943 ma rimasero più elevati di quanto fossero nel 1939. Nel 1950 la distribuzione delle donne nell’industria era nettamente differente rispetto al 1939 come mostra la tabella seguente.
Questo trend di lungo periodo si accordava con quanto sostenuto dall’economista Leser, secondo cui “non tanto il lavoro degli uomini toccò alle donne quanto piuttosto i settori che occupavano manodopera femminile nelle industrie interessate guadagnarono a spese di quelli che impiegavano prevalentemente gli uomini”28. In altre parole, la guer-
Percentuale della manodopera femminile impiegata in alcune industrie (1939-1950)
1939 1943 1950
Ind. meccanica 10 34 34Ind. metallurgica 6 22 12Trasporti 5 20 13Pubbl. amm.ne 17 46 38
Fonte: Conrad Emmanuel Victor Leser, Men and Women in Industry, “Economie Journal”, 1952, n. 246.
ra non fece conquistare alle donne un permanente accesso ai ‘lavori maschili’ ma allargò il numero delle posizioni segregate e subordinate aperte loro in queste industrie. Simultaneamente le opportunità di lavoro si contrassero in molti dei principali settori di tradizionale impiego femminile come il tessile ed i servizi domestici. Allo stesso modo, ove si prenda in considerazione la caduta delle classi di età adulta, si verificò una globale espansione della forza lavoro femminile in rapporto al periodo prebellico. Verso il 1948, se si fosse verificato un ritorno allo status quo del 1939, “il numero delle donne assicurate doveva essere caduto di più di 400.000. Ma di fatto crebbe di circa 350.000 unità”29.
La teoria dell’esercito di riserva era un modello troppo semplicistico per spiegare questo complesso processo. Al suo posto storici come chi scrive o sociologi come Sylvia Walby svilupparono una interpretazione alternativa circa la collocazione delle donne nella forza lavoro, considerando quest’ulti- ma come determinata dall’interazione tra interessi capitalistici e patriarcali30. Per sinte-
26 Ruth Milkman, Women’s work and the economical crisis: some lessons o f the Great Depression, “Review of Radical Political Economy”, 1976, n. 1, pp. 73-97.27 Parliamentary Papers, A Study of the Factors which Have Operated in the Past and Those which Are Operating now to Determine the Distribution o f Women in Industry, cmd 3508, December 1929, London, HMSO, 1930; si veda anche W. Hobby, Women in Changing Civilization, London, Lane, 1934.28 Comad E.V. Leser, Men and Women in Industry, “Economic Journal”, 1952, n. 246, p. 330.29 C.E.V. Leser, Men and Women in Industry, cit.30 Silvia Walby, Pathriarchy at Work, Cambridge, Polity, 1986.
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tizzare, l’interesse capitalistico di formare manodopera a basso prezzo e semispecializzata, che era impegnata anche nella riproduzione del lavoro maschile e dei figli, si era come intersecato con la preoccupazione patriarcale che le donne, come forza lavoro non pagata, non sfidassero il potere del capofamiglia maschio e gli procurassero servizi domestici e d’altro genere. Tale intersezione produsse un poderoso concentrato di forze (che includevano lo stato, i datori di lavoro, i sindacalisti maschi e i mariti) che contribuì alla segregazione della forza lavoro femminile.
Così nella seconda guerra mondiale i sindacalisti delle Trade Unions non considerarono la forza lavoro femminile inclusa negli interessi dell’intera classe operaia, come somma di uomini e donne da trattare come un’unica forza lavoro con identici interessi di fronte al capitale. Essi cercarono, piuttosto, in due modi di difendere il lavoro maschile dall’intrusione delle donne che erano meno pagate. Da un lato si impegnarono in una rigida linea di difesa attraverso accordi per cui uomini e donne ricevessero la stessa paga (per difendere i livelli salariali maschili da tagli e decurtazioni) nella convinzione che le donne sarebbero state licenziate alla fine della guerra (per proteggere il lavoro degli uomini). Dall’altro lato i sindacalisti maschi cercarono di opporsi ad una classificazione del lavoro (in particolare delle numerose mansioni scaturite dai cambiamenti nei processi lavorativi durante la guerra) come lavoro femminile, che sarebbe stato pagato ai livelli salariali delle donne e quindi perso dagli uomini. Entrambe le strategie furono dettate da una concezione patriarcale e contrastate dagli interessi capitalistici. I datori di lavoro cercarono di trovare delle
soluzioni riguardo agli accordi di parità salariale per evitare di pagare le donne quanto gli uomini e per mantenerle in un ambito di lavoro poco retribuito. Il padronato rilanciò la classificazione sessuale del lavoro sulla base delle proprie percezioni del quadro nazionale del mercato del lavoro e delle proprie convinzioni riguardo alle innate capacità femminili, cosicché molti generi di attività, dallo spazzare il pavimento ai lavori di fonderia, furono ridefiniti come lavori femminili31. L’evidenza non conferma l’affermazione, citata sopra, di Myrdal e Klein, secondo cui “la discriminazione di sesso in fatto di lavoro scomparve” .
Le risposte soggettive delle donne
Nel 1986 Harold Smith presentò quella che si pensava l’estrema conseguenza della tesi appena abbozzata da Marwick, sostenendo che la guerra contribuì molto limitatamente all’incremento della dimensione della forza lavoro femminile e che non scalzò la segregazione sessuale nel lavoro32. Così egli seguiva da lontano studiosi precedenti. Egli, inoltre, pose in rilievo il problema delle risposte soggettive delle donne ai cambiamenti del periodo bellico e sostenne che le donne non avevano gradito l’opportunità fornita loro dal conflitto di svolgere un lavoro retribuito e che il lavoro stesso non le aveva lasciate scontente della tradizionale divisione sessuale dei ruoli.
Secondo Smith le donne erano ansiose di tornare alle loro abitudini di vita prebelliche, la più importante eredità della guerra per loro fu “un rafforzamento dei tradizionali ruoli sessuali, piuttosto che l’emergere dei nuovi”33.
31 Cfr. in particolare il capitolo 7 dell’edizione del 1989 di P. Summerfield, Women Workers in the Second World War, cit.
Harold L. Smith, The Effect o f the War on the Status o f Women, in Id. (a cura di) War and Social Change: British Society in the Second World War, Manchester, University Press, 1986.
H.L. Smith, The Effect o f the War on the Status o f Women, cit., pp. 56-57.
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Smith considerò che l’evidenza si configurava come sufficientemente chiara per offrire questa categorica interpretazione. Altri studiosi tra cui Myrdal e Kleine, Riley e l’autrice del presente saggio, considerarono come più problematico il dato riguardante ciò che le donne volevano dalla guerra. Myrdal e Klein citarono le inchieste del periodo bellico che avevano mostrato che “la percentuale di chi desiderava rimanere al lavoro, particolarmente tra le donne anziane, era straordinariamente alta” , ma, ad ogni modo, “con la fine della guerra la maggior parte delle donne sposate tornò a casa”34. Essi cercarono spiegazioni di questa situazione apparentemente contraddittoria in fattori esterni quali il declino della quantità di lavoratori part-time e la chiusura degli asili, e considerarono una causa anche “l’opinione che i posti di lavoro dovessero essere ‘presi dai ragazzi’ e che le donne dovessero cedere il passo”35. La risposta di Denise Riley al problema di tale, apparentemente discorde, evidenza fu di proporla come il principale esempio delle difficoltà della ri- costruzione storica. Si trattava di un aspetto del problema più profondo di scoprire “perché e come la gente fornisca formulazioni particolari riguardo a ciò che desidera”36.
Passando ad una prospettiva di analisi femminista che associava il lavoro retribuito con la liberazione dalla dipendenza domestica e con l’emancipazione femminile, l’autrice confessò di essersi essa stessa trovata ad
oscillare tra due modelli di spiegazione: il primo sostiene che “le donne volevano realmente lavorare, che esse chiedevano degli asili nido; se leg
giamo correttamente le risposte a questi scialbi questionari, possiamo sicuramente decifrare i loro desideri; oppure possiamo scoprire l’evidenza sotterranea degli incontri pubblici, delle dimostrazioni e delle petizioni per rivelare ciò che veramente desideravano”. E il secondo che afferma che “non ci si deve meravigliare che lp donne furono, nel loro complesso, indifferenti: che altro potevano fare queste donne nel 1945, in quelle condizioni politiche e in quelle situazioni di lavoro?”37.
L’autrice rifiutò entrambi i modelli perché essi presupponevano che le donne avessero una serie di desideri e bisogni chiari e definiti che potevano essere rivelati “togliendo una patina a postfazioni e riscritture storiche”38. Benché non credesse ancora che questo fosse possibile, non aveva un approccio alternativo da proporre, malgrado continuasse a vedere come storicamente importante il problema di identificare ciò che le donne volevano.
Come Denise Riley ho esaminato minuziosamente le inchieste realizzate dal Wartime Social Survey and Mass Observation per evidenziare la volontà delle donne nel dopoguerra. Entrambe le organizzazioni asserivano che la maggioranza delle donne dopo la guerra propendevano per il matrimono e la vita domestica piuttosto che per un impiego salariato. Per esempio il Mass Observation sosteneva che “l’opinione più diffusa sembra essere che le donne vogliono tornare a casa o assumere lavori che prima della guerra erano abitualmente considerati adatti a donne in attesa del matrimonio”39. In contrasto con il consenso dato da Smith a simili interpretazioni, ho posto l’attenzione sulle contraddizioni tra i dati della statistica
34 A. Myrdal, V. Klein, I due ruoli della donna, cit., p. 53.35 A. Myrdal, V. Klein, I due ruoli della donna, cit., pp. 53-54.36 D. Riley, War in the Nursery, cit., p. 190.37 D. Riley, War in the Nursery, cit., pp. 190-191.38 D. Riley, War in the Nursery, cit., p. 191.39 Mass Observation, The Journey Home, London, John Murray, 1944, p. 66.
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stessa e le conclusioni che ne venivano tratte40. Entrambe le organizzazioni di fatto raccolsero dati che mostravano come la maggioranza delle donne interpellate voleva continuare il rapporto di lavoro retribuito part- time o a tempo pieno oppure aveva lasciato che le sue decisioni in proposito dipendessero da una serie di fattori tra cui le opportunità di lavoro, il guadagno dei rispettivi mariti e le condizioni economiche generali41. Contrariamente ai dubbi di Riley riguardo alla capacità delle risposte delle donne di rivelare ciò che esse effettivamente volevano, ho analizzato le loro risposte come indicative della perenne incertezza femminile riguardo al modo di equilibrare le esigenze del lavoro domestico con la pressione delle costrizioni economiche. Ho inoltre visto che le considerazioni degli autori dell’inchiesta su tali risposte erano il riflesso delle opinioni, sia di parte progressista che di parte reazionaria, sull’aspetto privato della ricostruzione postbellica. Qualunque cosa allora volessero, le donne non dovevano competere con gli uomini sul mercato del lavoro ma dedicarsi alle faccende di casa e ad allevare i figli42.
Le domande con le quali Riley affrontò gli orientamenti delle donne nel dopoguerra erano, come lei stessa ammise, piuttosto indirizzate. Invece di domandare perché le donne non volessero svolgere lavori retribuiti o lottare per ottenere asili nido, sarebbe stato probabilmente più efficace ridurre il peso della indagine in modo tale da permettere alle questioni realmente importanti per le donne di venire a galla. Le fonti autobiografiche, incluse quelle orali, hanno offerto
questa possibilità perché tutte portavano i caratteri di uno sguardo rivolto al passato. Nel raccogliere tale materiale per il volume che ho scritto assieme a Gail Braybon43, risultò chiaro che la decisione riguardante se lavorare o meno non era affatto la sola cosa che le donne ricordavano delle loro esperienze del periodo bellico. È possibile segnalarne altre, molte di esse comportavano sia aspetti positivi che negativi per chi le aveva vissute. Un simile elenco includerebbe la possibilità di andare in diversi ambienti di lavoro lontano da casa, di frequentare altre persone, di sperimentare la separazione; di imparare diversi tipi di lavoro e trovarvi soddisfazione o noia; di assaporare nuove opportunità nella socialità e nuove modalità di corteggiamento così come di essere oggetto di molestie sessuali; di fare i conti con la fatica e i problemi correlati alla nocività del lavoro; di confrontarsi con la penuria di cibi e vestiario e con le trasformazioni della fine della guerra; di provare la gioia di contribuire allo sforzo bellico come pure i dubbi riguardo al produrre strumenti di morte.
Era impossibile ignorare il fatto che molte donne rilevarono che la guerra comportò dei cambiamenti nelle loro esistenze e che molte la consideravano anche una fase cruciale in termini di cambiamento e di sviluppo a livello personale. Come Mona Marshall, una giovane bambinaia del Lincolnshire che divenne operaia metalmeccanica e intervistata quando era ormai settantenne nel corso del programma A people’s War trasmesso dalla rete Channel 4, riferendosi alla guerra, af-
40 Rimando rispettivamente al mio già citato saggio Women Workers in the Second World War (ed. 1989, p. 190) nonché, per una trattazione generale, ancora a P. Summerfield, Mass Observation on Women at Work in the Second World War, “Feminist Praxis”, n. 37-38, 1992.41 Central Office o f Information, Wartime Social Survey, cit., pp. 12-13; Mass Observation, The Journey Home, cit., pp. 54-63.42 Cfr. P. Summerfield, Mass Observation on Women at Work in the Second World War, cit.43 Gail Braybon, P. Summerfield, Out o f the Cage. Women's Experiences in Two World Wars, London, Pandora, 1987.
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fermò: “Per me fu un salto grandissimo. Mi fece imparare a camminare con le mie gambe, mi diede maggiore consapevolezza di me stessa”44. E Marjorie Wardle, di estrazione medio borghese, figlia di un industriale, disse che le sue esperienze di guerra nei servizi ausiliari femminili della regia marina divennero “il fondamento della mia esistenza”45. Entrambe erano giovani e nubili allo scoppio della guerra. Per una donna più matura con figli giovani come Muriel Windle, il cui marito fu inviato in Estremo Oriente nel 1941 e non fece ritorno fino al 1945, la guerra fu più che altro una prova di sopravvivenza. “Allora non si aveva proprio il tempo di pensare, la vita doveva andare avanti, ogni giorno portava la sua routine e i suoi problemi e sovente era un caso a spingerti all’impegno seguente [...] tuttavia finì ed eravamo sopravvissute”46. La testimonianza autobiografica enfatizza le diversità delle esperienze del periodo bellico così come la loro importanza per le donne.
Il problema ora è combinare un approccio al tema donne, guerra e trasformazioni sociali che abbandoni le asserzioni esagerate secondo cui la seconda guerra mondiale emancipò le donne e riconosca che la guerra fu una esperienza di significato maggiormente personale per molte donne. Allo stesso tempo è necessario destrutturare la categoria ‘donna’ e domandarsi in quali modi gli effetti della guerra furono diversi per donne le cui condizioni di vita erano differenti. Così bisogna conoscere le esperienze del periodo bellico, per esempio, di donne giovani e anziane, sposate e nubili, operaie o
appartenenti alla classe media, bianche e di colore, e in che misura i cambiamenti del periodo bellico nelle loro esistenze si sono messi in relazione rispetto alle tendenze di più lungo periodo. Le differenze etniche hanno appena iniziato ad essere studiate47. Comunque è possibile delineare le differenze nell’impatto della seconda guerra mondiale a seconda dell’età, dello stato civile, come chi scrive ha iniziato a fare qualche anno fa e dire qualche cosa riguardo alle differenze di classe come ha fatto Margaret Alien48.
Esperienze diversificate
Le statistiche, così come le testimonianze personali, rivelano l’estensione e la permanenza dell’effetto della guerra sulla collocazione delle donne sposate e più anziane nella forza lavoro. Abbiamo già notato che la guerra contribuì a determinare una permanente espansione della percentuale delle lavoratrici che erano sposate dal 16 per cento nel 1931 al 43 per cento nel 1943 e nel 1951. Inoltre salì la percentuale di tutte le donne sposate che svolsero un lavoro retribuito tra il 1931 ed il 1951 dal 10 al 22 per cento. Sfortunatamente non esistono diagrammi attendibili della percentuale delle donne coniugate impiegate nel lavoro immediatamente prima e durante la guerra. Comunque le stime per il periodo postbellico suggeriscono che la guerra determinò un andamento costantemente ascendente. Geoffrey Thomas stabilì che nel 1947 il 22 per cento di tutte le
44 A People’s War, Thames Television, Channel 4, 1985, interviste trascritte.45 Intervista rilasciata nel 1986; i materiali sonori sono in possesso dell’autrice.46 R. Windle, War and Social Change, (dattiloscritto non pubblicato), Durham University, Extra Murai Department, 1975.47 Cfr. B. Bousquet, C. Douglas, West Indian Women at War. British Racism in World war Two, London, Lawrence and Wishart, 199148 Cfr. P. Summerfield, Women, war and social change: Women in Britain in World War II, cit.; Margaret Allen, The Domestic Ideal and the Mobilization o f Womanpower in World War II, “Women’ Studies International Forum”, n. 4, 1983, pp. 401-412.
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donne sposate svolgeva un lavoro retribuito, la stessa percentuale registrata nel 195149.
Un analogo cambiamento duraturo si verificò per quanto riguarda l’età delle lavoratrici. Prima della guerra le fasce d’età più giovani prevalevano largamente. Nel 1931 il 41 per cento delle donne che lavoravano era al di sotto dei 25 anni di età. Nel contesto del massiccio reclutamento bellico delle fasce di età adulta, la percentuale del gruppo più giovane cadde fino al 27 per cento nel 1943. Ma dopo la guerra non ritornò alla sua precedente consistenza. Nel 1947 solo il 24 per cento delle donne che lavoravano era sotto i 25. Le fasce di età al di sopra dei 35 mostrarono il maggiore incremento durante e dopo la guerra: nel 1931 il 32 per cento si trovava nella fascia tra i 35 e i 59 anni; nel 1943 era il 42 per cento e il 49 per cento nel 1947. Risultava che l’età media delle donne in condizioni di impiego era più elevata nel 1947 che nel 194350.
Le due serie di trasformazioni si presentarono congiuntamente. Geoffrey Thomas, autore di statistiche sociali relative al periodo della guerra ed alla fase successiva riguardo alle donne lavoratrici, commentò che il conflitto aveva visto “una grandissima modificazione degli abituali modelli di impiego” con particolare riferimento alle donne sposate e sopra i 35 anni51. Dopo la guerra le donne più giovani, nubili o sposate, lasciarono l’industria. Esse erano il gruppo sociale più incline a considerare l’attività domestica come un’opzione full-time. Dichiaravano di lasciare il lavoro per sposarsi, per fare un figlio e per far fronte ai doveri ed al
le responsabilità della casa. Thomas applicò il test X2 di rilevanza statistica a tali ragioni, e trovò che “il matrimonio è di gran lunga il fattore più importante che dissuade le donne dal lavoro”, un fattore che supera di ben cinque volte la cura dei figli52. Sembra che l’abitudine di dedicarsi al marito ed alla casa fosse un deterrente più forte, rispetto al lavoro, della presenza di figli a dispetto dell’ideologia della maternità del dopoguerra. I bambini in età prescolare erano un ostacolo ma “le donne sposate con figli intorno ai cinque anni e più lavorano con la stessa frequenza delle donne sposate senza figli”53. In verità il gruppo che il governo credeva che più volentieri volesse lasciare il lavoro alla fine del conflitto, le donne sposate e con figli, continuò a svolgere una attività di lavoro extradomestico. Come ho segnalato precedentemente, la guerra giocò un ruolo rilevante nella transizione dalla situazione prebellica, nella quale la maggioranza delle donne che lavoravano erano giovani e nubili, a quella degli anni cinquanta quando la tipica figura della lavoratrice era una donna sposata più avanti negli anni e con figli54.
Le statistiche da sole non ci dicono nulla riguardo a come le donne sperimentarono tali trasformazioni. È vero che, come insiste Harold Smith, nel 1943 la maggioranza delle donne sposate “desiderava ferventemente di poter ritornare alle abitudini di esistenza prebellica”?55. Modificava in qualche modo le abitudini matrimoniali ed i ruoli domestici il fenomeno dell’uscita di casa per lavorare da parte di donne meno giovani, sposate e madri di figli sotto i 14 anni?
49 Geoffrey Thomas, Women in Industry: an Inquiry into the Problem o f Recruiting Women to Industry Carried out for the Ministry o f Labour and National Service, in Central Office o f Information, Social Survey, 1948, p. 8.50 Census of England and Wales, Occupation Tables 1931, London, Hmso, 1934, tab. 3; ma si vedano anche le inchieste del Central Office o f Information, rispettivamente del 1944 (p. 1) e del 1948 (pp. 6-7).51 Central Office o f Information, Wartime Social Survey, 1944, cit., p. 7.5" Central Office o f Information, Wartime Social Survey, 1948, cit., p. 10.43 Central Office o f Information, Women, War and Social Change, cit. p. 8.4 P. Summerfield, Women, War and Social Change, in A. Marwick (a cura di), Total War and Social Change, cit.
55 L. Smith, The Effect o f the War on the Status o f Women, cit., p. 225.
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La politica governativa di reclutamento del periodo bellico dà l’impressione che le donne sposate furono lavoratrici riluttanti. Essa era basata sul presupposto che le donne sposate e meno giovani non potevano essere distratte dalle solite occupazioni del lavoro domestico e della cura dei figli e che le giovani non ancora sposate, la tradizionale forza lavoro femminile, dovessero essere il principale destinatario della politica di mobilitazione. Fu solo la grave carenza di manodopera che persuase il governo ad incoraggiare le donne a lavorare, nel marzo 1941, ed a procedere alla loro precettazione nel dicembre 1941. L’operazione lasciava largo spazio a esenzioni determinate dalle idee prevalenti dell’autorità circa i doveri domestici delle donne. Per esempio la moglie senza figli di un militare in servizio non poteva essere spedita lontano a svolgere lavoro bellico finché fu considerato vitale che essa fosse disponibile per lui, nella ‘sua’ casa quando egli tornava in licenza. Soprattutto, mentre essere marito e padre non esentava nessuno da nulla, nessuna donna poteva essere chiamata nelle forze armate e nessuna mamma con un figlio sotto i 14 anni convivente poteva essere indirizzata anche solo al servizio del lavoro locale. In tale situazione il problema era che non si liberava una quantità sufficiente di forza lavoro. Nel 1943 il governo prese due misure per incoraggiare le donne meno giovani ad entrare nei servizi civili del lavoro: innanzi tutto alzò il tetto dell’età per entrare nell’amministrazione dai quaranta ai cinquanta anni; in secondo luogo iniziò ad indirizzare le casalinghe, prima dispensate, verso il lavoro part-time.
È forse quasi sorprendente che le donne sposate esprimessero dubbi durante la guerra riguardo allo svolgere un lavoro dipendente, specie nel contesto del conservatori
smo delle pratiche di assunzione del padronato che tendeva a preferire delle donne giovani, nubili, bianche e inglesi rispetto a persone più mature, sposate, reclutate altrove, per esempio irlandesi o provenienti dalle colonie britanniche nei Caraibi. Una indagine condotta nel 1941 rivelava che un terzo delle donne apparentemente disponibili non avrebbe voluto entrare nella produzione bellica a causa degli impegni domestici e dell’avversione rispetto alla prospettiva di lasciare la casa e queste ragioni dichiaravano in particolare le donne più anziane56. Le più giovani, specialmente appartenenti ai ceti medi, erano più inclini ad accettare volentieri il lavoro di guerra a causa dell’opportunità di viaggiare, frequentare altre persone e apprendere nuove mansioni. I due più piccoli e più selezionati servizi armati femminili, il Wrns (Corpo ausiliario femminile della marina) e il Waaf (Corpo ausiliario femminile dell’aereonautica), e l’Esercito territoriale femminile (Wla) erano particolarmente popolari in questo gruppo sociale. Tutto sommato le donne giovani della classe media consideravano la mobilità, se temporanea, uno status relativamente elevato e una forma di impegno preferibile (e più patriottico) rispetto al continuare per tutta la guerra nel ruolo limitativo della “figlia di famiglia”57.
Per contro i dubbi delle donne più mature, se accettare o meno di entrare in servizio, si incentravano su considerazioni pratiche riguardo al modo in cui poter trovare un equilibrio tra le responsabilità domestiche e le esigenze del lavoro dipendente (un problema con cui, come abbiamo visto, si dovette confrontare un numero crescente di donne negli anni cinquanta e successivamente). Molte criticavano la mancanza di chiarezza da parte del governo riguardo ad orari, livel
56 Central Office o f Information, Wartime Social Survey, 1941, cit., pp. Ili e 6.57 Central Office o f Information, Wartime Social Survey, cit.
Condizione femminile, produzione bellica e società in Gran Bretagna 389
li salariali, eventuali permessi per la cura di figli e per le spese. Per esempio una donna di Coventry, sposata e con figli, appartenente alla classe media, rispose all’organizzazione di ricerca sulla pubblica opinione, Mass Observation, nel 1941, che aveva inutilmente chiesto un lavoro part-time all’Ufficio di collocamento. “Ci potevano dare un lavoro a tempo pieno ma avremmo portato la guerra nelle nostre case se lo avessimo accettato”58. L’incoraggiamento ufficiale ai datori di lavoro perché organizzassero il part-time nel 1942-1943 e il tentativo di indirizzare verso di esso nel 1943 le donne meno giovani, sembra aver fatto diminuire le preoccupazioni delle donne riguardo alla gestione equilibrata degli impegni di lavoro e di casa. Il part-time certamente permise di reclutare molta manodopera: da 20.000 nel 1942 a 900.000 nel 1944. I padroni impararono rapidamente il vantaggio offerto loro visto che poterono assegnare le mansioni più monotone, sgradevoli e meno pagate alle addette al part-time senza contraccolpi negativi sull’andamento della produttività59. Anche così comunque risulta nettamente evidente che il lavoro part-time era popolare tra le donne e che, come pensavano Myrdal e Klein, se fosse stato disponibile sul mercato, esse lo avrebbero continuato anche dopo la guerra. Il Mass Observation raccolse una quantità di commenti come il seguente, espresso da una donna di 45 anni:
Vede, per me è la libertà. È un tale cambiamento dopo essere sempre stata in casa... la vecchia casa che conosci anche troppo bene. Ti fa sentire più giovane e ti fa sembrare più giovane andare al lavoro ogni giorno. Posso fare i miei lavori di casa
e le spese al mattino e lascio un po’ andare la mia casa ora. Mio marito torna a casa di sera e gli preparo una cenetta. E viviamo così. Ora non devo racimolare e mettere insieme ogni penny. Mi auguro che si continui a far ricorso al lavoro part-time60.
Non tutte le donne sposate e più anziane lavoravano part-time. Da un lato il Mass Observation rilevò che alcune sentivano di aver bisogno di un lavoro a tempo pieno a fronte dell’assenza dei mariti e della crescita dei prezzi61. Dall’altro esistevano differenze tra le classi sociali. Non era difficile per una donna della classe media evitare perfino il servizio di lavoro bellico part-time. Margaret Alien citò fonti del ministero del Lavoro per indicare esempi di donne appartenenti ai ceti medi e sposate, che resistevano ai suoi sforzi di condurle a svolgere un lavoro differente da quello che avevano svolto prima del matrimonio, abitualmente come impiegate o insegnanti62. L’inchiesta sociale del periodo bellico conferma che in pratica esisteva una notevole continuità nell’impiego tra prima e durante il conflitto per le donne che si trovavano nelle categorie “professionali, amministrative e impiegatizie”63. Alien utilizzò le testimonianze autobiografiche per illustrare la riluttanza di queste categorie ad intraprendere qualsiasi lavoro di guerra. Per esempio cita una ex stenodattilografa il cui elenco delle esperienze di guerra era il racconto della fuga dalle grinfie del ministero del Lavoro. Questa donna svolse una attività impiegatizia part-time che essa giudicava preferibile per sé rispetto all’andare “in qualunque posto l’ufficio di collocamento avesse la possibilità di mandarmi”, quindi lo abbandonò ma più tardi trovò un impiego simile “per placare
58 War Work Coventry, 18 novembre 1941, in Mass Observation-Archive, Tc 66/4/C-H.59 “Part-time women... in the engineering industry”, Pro Lab 8/634 October 1942-January 1943.60 Mass Observation, The Journey Home, cit., p. 58.6' Mass Observation, The Journey Home, cit., p. 57.62 M.V. Allen, The Domestic Ideal and the Mobilization o f Womanpower in World War II, cit., pp. 410-411.
Central Office o f Information, Wartime Social Survey, 1944, cit., table 14, p. 9.
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l’Ufficio di collocamento” . Lasciò tale impiego per prendersi cura della figlia diciottenne e rifiutò ulteriori offerte di attività part-time come segretaria: “da quando sono stata a casa a curare Joyce il Collocamento non mi ha più infastidita e sono stata perciò a posto con la legge per qualche tempo”64.
Nondimeno, l’organizzazione di un “non casuale” lavoro per donne di tipo impiegati- zio, in fabbrica e nei servizi sulla base di un criterio di part-time fu, come la partecipazione al lavoro di donne più anziane e sposate, una eredità permanente della guerra ed il mezzo più importante attraverso cui queste donne entrarono nella forza lavoro durante il conflitto e successivamente. Nel 1947 approssimativamente un quarto delle lavoratrici era assunto part-time, nel 1973 la percentuale era salita ad un terzo65. L’esempio delle donne più anziane e sposate non sembra dare sostegno alla generalizzazione di Smith secondo la quale le donne svolsero il lavoro di guerra con rassegnazione e nell’attesa ansiosa di smetterlo. Le giovani non sposate sembravano, d’altra parte, aver avuto più preoccupazioni riguardo al loro futuro dopo la guerra esprimendo ansie riguardo alle loro prospettive sia matrimoniali che di mantenimento dell’impiego66. Come indicano le statistiche di Thomas esaminate precedentemente, alla fine della guerra le donne nubili o sposate al di sotto dei 35 anni erano le categorie più pronte a lasciare il lavoro ed a dedicarsi completamente al matrimonio. Risulta tuttavia evidente che alcune alla fine si annoiarono a svolgere esclusivamente lavori domestici una volta che li ebbero sperimentati ed è, presumibilmente, da questo
gruppo che sono stati reclutate le donne sposate, più avanti negli anni e lavoratrici part- time dei decenni successivi67.
Rivolgiamo ora lo sguardo alla questione se i cambiamenti del periodo bellico verso le donne sposate e meno giovani abbiano provocato qualche scarto nelle abitudini matrimoniali e nei ruoli domestici. Smith sostiene che non ne provocarono, che non ci furono modificazioni della divisione sessuale del lavoro all’interno del matrimonio durante la guerra. Certamente i compromessi del lavoro part-time resero possibile una gestione normale della vita domestica, come la donna prima citata ha chiaramente testimoniato. Myrdal e Klein ed altri sostennero largamente il lavoro part-time perché esso non disturbava la divisione dei ruoli sessuali68. I lavori di casa e le spese potevano esser fatti “intorno” alle ore di lavoro, mariti e figli potevano fare i loro pasti principali a casa, inoltre era più facile organizzare la sostituzione della cura dei bambini più piccoli per alcune ore piuttosto che per tutto il giorno.
Il governo era quindi meno coinvolto nel trovare sostituti per la donna di casa, i datori di lavoro non dovettero far fronte a un eccessivo assenteismo e le lavoratrici non si portarono “la guerra dentro casa” come risultato della sfida ai tradizionali ordinamenti domestici rappresentata dal lavoro a tempo pieno.
Risulta tuttavia evidente che la guerra contribuì a modificare le abitudini matrimoniali, benché sia impossibile stabilire in quale misura. In numerose relazioni compare una certa insoddisfazione da parte delle donne riguardo al matrimonio durante e dopo la guerra. Per esempio il Mass Observa-
64 Margaret V. Allen, The Domestic Ideal, cit., p. 410.65 Central Office o f Information, Wartime Social Survey, 1948, cit., p. 3 ma si veda anche il lavoro di G. Routh, Occupation and Pay in Great Britain 1906-1979, London, Macmillan, 1980, p. 46.66 Mass Observation, The Journey Home, cit., p. 61.67 G. Braybon, P. Summerfield, Out o f the Cage, cit., p. 280.68 Cfr. il capitolo 10 del saggio di A. Myrdal e V. Klein, I due ruoli della donna, cit. ed i dati riportati in Political and Economic Planning, Planning, XV, n. 285, luglio 1948.
Condizione femminile, produzione bellica e società in Gran Bretagna 391
tion sosteneva che le donne rifiutavano particolarmente il ruolo della “moglie che stava legata in casa, priva della libertà di movimento e impossibilitata a provare i divertimenti della vita da single ed i piaceri esterni alle mura domestiche”69. E la testimonianza autobiografica, che ho citato altrove, mostra che perfino le donne che non intendevano continuare a fare un lavoro dipendente dopo la guerra pensavano che, dopo le esperienze del periodo bellico, non sarebbero tornate ad essere le casalinghe di prima. Zel- ma Katin dopo aver lavorato sugli autobus e i tram di Sheffield si convinse del fatto che suo marito dovesse dividere con lei il lavoro di rigovernatura dei piatti e di cura della casa; il ruolo che Nella Last aveva svolto nel servizio volontario femminile locale cambiò il suo modo di vedere il marito e le diede la sicurezza per rivendicare una stanza tutta per sé70.
Quando Zelma e Nella sostennero convinte che le mogli nel dopoguerra non avrebbero voluto essere “tenute in gabbia separata- mente nelle loro sfere separate” e che “nel mondo di domani il matrimonio sarà — dovrà essere — più che altro un rapporto tra eguali”, esse riecheggiavano una nuova ortodossia71 . I discorsi pubblici andavano progressivamente enfatizzando le nuove abitudini matrimoniali che si fondavano sul rapporto tra eguali, sulla collaborazione e sull’amicizia72. Vi era nondimeno una considerevole incertezza riguardo all’opportunità di incoraggiare abitudini matrimoniali che te
nessero le donne meno confinate nelle pareti domestiche. Alcuni attribuirono la responsabilità sia della caduta del tasso di natalità durante la guerra sia del numero crescente di divorzi durante e dopo il conflitto alla maggiore libertà delle donne all’interno del matrimonio, mentre altri si richiamarono ai modelli di amicizia e di reciprocità tra i coniugi come soluzione per entrambi i problemi. In pratica la politica fece poco per incoraggiare tali tendenze. Per esempio, benché William Beveridge mettesse in evidenza che il matrimonio era un rapporto alla pari, nelle sue proposte del dopoguerra per la sicurezza sociale la moglie era dipendente dai contributi del marito e dalle indennità che egli riceveva per lei. Le indagini degli anni cinquanta mostravano che l’ideale di un matrimonio tra compagni era più diffuso tra le donne che tra gli uomini e che era raramente realizzato nella pratica73. Malgrado tutto, questo divenne il nuovo obiettivo del matrimonio, al cui raggiungimento la guerra sembra aver dato un significativo contributo.
Per concludere, ho raccomandato un approccio al tema donne e cambiamenti sociali nella seconda guerra mondiale che eviti affermazioni perentorie sull’emancipazione o presenti un quadro inesatto di radicali cambiamenti e improvvise inversioni o una ugualmente irrealistica rappresentazione ove alla fine nulla cambia. Ho suggerito un approccio che rifiuta di prendere in considerazione la donna come una categoria
69 The State o f Matrimony, June 1947, p. 17, in Mass Observation Archive, File report 2495.Riferimenti più dettagliati in P. Summerfield, Women, War and Social Change: Women in Britain in World
Warll, cit., p. 109.Zelma Katin, Clippie. The Autobiography o f a war time conductress, London, John Gifford, 1944, pp. 49, 123;
R. Broad, S. Fleming (a cura di), Nella Last’s War: a Mother Diary 1939-1945, Bristol, Falling Wall Press, 1981, p. 255.
Una riflessione complessiva riguardo alle “nuove frontiere” del matrimonio nel saggio di J. Finch e P. Summerfield, Social Reconstruction and the Emergence o f Companionate Marriage 1945-1959 in D. Clark (a cura di), Marriage, Domestic Life and Social Change. Writings for Jacqueline Burgoyne (1944-1988), London, Routledge, 1991.
J. Finch, P. Summerfield, Social reconstruction, in D. Clark (a cura di), Marriage, domestic life, cit.
392 Maria Grazia Caminetti
omogenea, rendendo possibile identificare gli effetti dei cambiamenti della fase bellica in fasce sociali distinte. Su questo punto è necessario un ulteriore lavoro di ricerca specialmente attraverso l’indagine delle differenze etniche e di classe. Scomporre il soggetto ‘donna’ in sottocategorie consente di osservare la ristrutturazione e ridistribuzione della forza lavoro femminile anche se questa non aveva subito un rilevante incremento quantitativo né aveva usufruito di
migliori opportunità. Inoltre porta a mettere a fuoco il sorgere di nuove aspettative e di nuove norme sociali, anche se esse non furono necessariamente realizzate. In breve, mi sono convinta che vada messa in discussione la tesi che la guerra trasformò la posizione sociale delle donne, senza però gettare via l’acqua sporca con il bambino dentro.
Penny Summerfield[traduzione dall’inglese di Gianni Sciola]
Racconti delle donne di Ancona
Maria Grazia Caminetti
Ricostruire la memoria della seconda guerra mondiale, rispetto alla dimensione della quotidianità, nel racconto di donne anconetane, sia attraverso interviste sia attraverso diari coevi o memorie elaborate e scritte posteriormente, è l’obiettivo di una ricerca avviata da chi scrive con la collaborazione di un gruppo di ricercatrici1. Il lavoro si è raccordato, con intento comparativo, a quello di studiose di altre città con momenti di riflessione collettiva su obiettivi e metodologie, attraverso seminari “itineranti” sul tema, svoltisi a Torino, Parma, Napoli, Ancona, Bologna2. L’analisi si è per ora soffermata sui dati emersi dalle interviste fatte a donne della città di Ancona e della campagna circostante di età compresa tra i sessanta e i novanta anni, di diversa estrazione sociale, differente grado di scolarizzazione e diversa collocazione professionale.
Sono stati considerati elementi nodali da focalizzare: il rapporto tra percezione e memoria, tra rilevanza del ricordo e rimozione, tra soggettività interrogante e interrogata in un continuo movimento intersoggettivo. In particolare si è cercato di rintracciare negli elementi e nelle modalità della narrazione e nel non detto, segni di mutamento di identità o di diversa percezione di sé e della realtà esterna, scaturiti dall’impatto con la guerra, con tradizioni e culture diverse, cercando di “restituire soggettività”, di individuare “forme di autonomia e creatività delle donne, in relazione tra di loro e con le realtà sociali segnate dall’appartenenza al maschile”3.
Lo scenario rivelatosi più utile per questa ricognizione è stato lo spazio/tempo dello sfollamento che nel ricordo delle donne anconetane assume valenze particolari e sfac
1 Hanno collaborato alle interviste: Marisa Galeazzi Saracinelli, Rossana Mazzuferi, Maria Grazia Salonna, Francesca Saracinelli, Leonilde Speciale Totti.2 Torino ottobre 1991, Parma, Napoli febbraio 1992, Ancona giugno 1992, Bologna luglio 1992.3 Luisa Passerini, Storie di donne e femministe, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991.
Racconti delle donne di Ancona 393
cettate, a volte molto differenti da quanto emerge ad esempio nei ricordi di donne romane e napoletane4. Anche gli elementi cronologici del racconto assumono una connotazione soggettiva, che non sempre corrisponde al tempo “ufficiale”, e che per lo più coincide con immagini fortemente segnate da emozioni, con ferite dei sentimenti e della psiche. Le donne sollecitate a narrare i loro ricordi di guerra hanno mostrato disponibilità ad essere intervistate, tutte hanno dichiarato che è fondamentale ricordare perché “la guerra è una cosa terribile che non deve ripetersi più” , “perché è terribile avere ammazzato la gente senza sapere perché”, “per evitare che ci sia un’altra guerra. Quando la televisione ci fa vedere immagini di guerra, io spengo, non si può vedere il terrore. Mi fa male, non sopporto la guerra. Subire un’altra guerra non è possibile, non lo sopporterei” (A. Fallana). Sono concentrate, nell’elementarità di queste espressioni, che non hanno bisogno di orpelli linguistici, la tragicità di un’esperienza che si vorrebbe irripetibile e la paura della sua insignificanza per le nuove generazioni: “i nipoti [...] ci dicono che eravamo stupide, che non capivamo niente” , “non credono a quello che raccontiamo”, “ora hanno tutto, come fanno a credere che vivevamo in quel modo?” . Ecco allora che nelle loro speranze l’istituzione culturale, incarnata nella figura della ricercatrice, sembra simbolicamente avere l’autorevolezza per superare la barriera di incomunicabilità tra generazioni; avere un ruolo sostitutivo, operare cioè quella trasmissione di tradizioni che
per alcune avveniva nell’ambito familiare: la madre che aveva partecipato alla Settimana rossa, il padre ferroviere repubblicano e antifascista licenziato perché non aveva voluto prendere la tessera del partito fascista; mentre per altre, poche, nel partito comunista o nel movimento partigiano. Una donna di estrazione contadina ha invece dichiarato spontaneamente il proprio desiderio di uscire dall’anonimato “voglio finire in un libro” (G. Refe).
In pochi casi si è palesata inizialmente diffidenza o reticenza nel raccontare, non sempre facilmente interpretabile, e spesso riconducibili a motivazioni diverse ed incrociate: paura del giudizio e quindi autodifesa, sottovalutazione di sé e del proprio vissuto, pregiudizi ideologici, ma non, apparentemente, impossibilità ad esprimersi per una avvenuta lacerazione interiore5. Grazie alla dinamica intersoggettiva, in un primo momento giocata dalle intervistatrici sulla ricerca di agio comune, di reciproco scambio6 e sull’esplicitazione del modo di procedere (sottolineando ad esempio il valore della dimensione quotidiana e dell’“occhio” che la guarda e della parola che l’interpreta), è poi scaturito il racconto. Ne sono derivati diversi problemi rispetto alla modalità dell’interrogare, a come far interagire le diverse soggettività delle intervistatrici e delle intervistate, alla necessità di affermare il coinvolgimento e la “responsabilità” delle ricercatrici come interpreti7. È apparso fondamentale tornare ad interrogare, “forzare” la memoria, distaccarsi dalla spontaneità del ricordare, come suggerisce Luisa Passe-
4 Si vedano le relazioni presentate al convegno di Vercelli del 1992 da Francesca Koch, Lo sfollamento nella memoria femminile. Proposta di lettura di alcuni testi dell’archivio diaristico, “L’impegno”, 1993, n. 1, e da Laura Capobianco e Cesira D ’Agostino, La memoria delle donne di Napoli, qui pubblicato.
Cfr. relazione L. Capobianco, La memoria delle donne di Napoli, cit.Molto utile in proposito quanto osservato da Celia Kitzinger, The Social Construction o f Lesbianism, London,
Sage, 1987.7 Cfr. Ann Oakley, Interviewing Women: a Contradiction in Terms, in Helen Roberts (a cura di), Doing Feminist Research, London, Routledge & Kegan Paul, 1981.
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rini8. Questo ha significato riflettere su noi stesse, rivedere le nostre categorie interpretative e le aspettative ad esse connesse, esplicitarle e contestualizzarle per vedere se le donne sono state capaci di porsi come soggetti nelle modalità storicamente possibili.
La ricostruzione del vissuto nel periodo della guerra e i modi di organizzazione della memoria. Due sono gli aspetti a prima vista inconciliabili che si evidenziano nel raconto di guerra delle donne: da una parte, la ripetitività quasi monotona di alcune situazioni, che immediatamente suggeriscono l’idea di un mondo omogeneo, arcaico, chiuso all’informazione e incapace di rielaborazione9; dall’altra, attraverso lo scavo nella memoria, la pluralità di atteggiamenti e di modi di autorappresentarsi, nonché la diversa conoscenza e percezione della realtà esterna.
Per tutte la guerra non sembra iniziare il10 giugno, anche se c’è un ricordo, sia pure vago, della dichiarazione di Mussolini, immagine probabilmente restituita nel tempo grazie anche ai film luce, alle ricostruzioni televisive posteriori ecc.; o meglio sembra non esserci intervallo tra questo primo frammento e il fluire successivo dei ricordi che riporta sempre la sensazione di paura del primo bombardamento dell’ottobre del 1943 o11 dolore per la partenza del marito, per la morte della sorella, del padre, dell’amico. Attraverso la lente dei sentimenti, infatti, si percepisce la tragicità del precipitare di una situazione, c’è un’accelerazione temporale nella memoria, da fotogramma cinematografico, che prima sembrava molto rallentato su una immagine sfocata di preparativi di guerra, di stereotipi diffusi: “la guerra sembrava lontana e poi [...] dicevano che sarebbe stata una guerra lampo [...] e poi ecco da
lontano gli aerei — così, senza nessuno stacco temporale e secondo un “tempo interiore” —, “si, c’era meno da mangiare, ma eravamo incoscienti” . Il caso di un padre capocaseggiato che ha in dotazione una maschera antigas viene percepito dalla figlia ragazzina come un elemento curioso più che preoccupante. Anche nel caso di donne appartenenti ad una classe sociale più elevata, con un grado superiore di cultura e capaci di maggiore riflessione su di sé, le immagini, le impressioni non si discostano di molto “[...] il ricordo della guerra è di quello che si sentiva alla radio. Ricordo che — il 10 giugno — stavo sul balcone della nostra casa in Piazza Cavour, vedevo la gente che passava. Avevo insomma questa emozione, ma di preciso... non ho saputo chiarirla a me stessa”.
Le donne che dichiarano di essere state consapevoli fin dall’inizio dell’immane tragedia che si stava preparando sono quelle che in seguito sceglieranno la lotta partigia- na e che quasi sempre hanno un padre antifascista (tranne in un caso in cui il modello è materno), attivo nel partito comunista, che ha fatto filtrare all’interno della famiglia idee contrarie al fascismo, sia pure in una comunicazione percepita dalle figlie quasi sempre come insufficiente. Si potrebbe pensare ad una situazione legata a relazioni simboliche tradizionali, perché ad esempio nel racconto di una intervistata appare l’immagine della madre e della nonna che trattengono le lacrime a fatica alla notizia dello scoppio della guerra, mentre del padre viene ricordata la frase “perderemo la guerra, ma il fascismo cadrà e questo sarà il modo con cui ci libereremo di Mussolini” (R.D.); ma le parole di altre danno rilievo a particolari diversi, a spazi di protagonismo
8 L. Passerini, Storie di donne e femministe, cit., p. 209.9 Per la cosiddetta questione marchigiana si veda Giorgio Mangani (a cura di), L ’idea delle Marche, Ancona, Il Lavoro Editoriale, 1989.
Racconti delle donne di Ancona 395
femminile, come Nedda Petrini che delinea i contorni di una scena riempita da “da donne in fila per il sussidio che — anche se non organizzate — parlano del fascismo [...], che riuscivano a portare questa voce”, anche se poi aggiunge “erano le mogli e le sorelle di quelli che più tardi furono partigiani attivi” .
Le contadine offrono, come era prevedibile, data la situazione del sistema mezzadrile marchigiano, un quadro di estremo isolamento10: non c’è radio, la giornata è tutta concentrata sul lavoro dei campi “io partivo alla mattina alle sette e tornavo alle dieci di sera [...] chi veniva nei campi ad informarci?”; non ci sono occasioni di incontri, a parte la messa la domenica, con il padre davanti e le figlie in fila dietro che emerge per esempio nel racconto di una intervistata; o spazi di socialità, tranne la cosiddetta “ve- glietta” d’inverno alla sera, quando le donne della famiglia, la “vergara”, le figlie, le nuore, le cognate, cuciono insieme il corredo. È intuibile la tentazione da parte di chi interroga di cercare, in questi momenti di relazione femminile, spazi discorsivi significativi ed in questa direzione si sta ancora lavorando. Comunque, per tutte le contadine, la dichiarazione di guerra coincide con la partenza degli uomini della famiglia, con quella frattura affettiva che vuol dire impatto repentino e violento con una realtà fino a quel momento estranea ed anche aggravio di lavoro in termini di ore e di compiti. Ma le “voci”, spie dei giudizi, attraversavano quegli spazi femminili quando una donna rievoca i fatti attraverso una curiosa sequela di espressioni e detti popolari, di cui le parole che seguono suonano come esempi indicati
vi: “quando si diceva che iniziava la guerra si diceva ‘Mussolini con Hitler, facciamo la guerra, vincere vinceremo’ allora il re gli disse ‘cosa vuoi fare la guerra che non abbiamo una camicia per uomo, cosa vuoi fare la guerra!’ E lui ‘o con l’oro o col ferro la guerra vinceremo’”; e per il periodo precedente, a proposito della guerra d’Africa “52 nazioni hanno fatto le sanzioni e il duce ‘l’Italia sa far da sé’ e gli inglesi ‘l’impero italiano è piccolo’, rispose Mussolini ‘l’ho fatto in sette mesi’” (G. Refe). Il giudizio sul regime appare contraddittorio, mediato co- m’è dai problemi legati alle condizioni di vita e c’è un’ulteriore differenza tra le donne che appartengono alle famiglie di affittuari, mezzadri o piccoli proprietari. In questi due ultimi casi infatti si insiste spesso sul fatto che “Mussolini ha fatto molto per l’agricoltura” , “con Mussolini la battitura e il concime li doveva pagare il padrone”, “è stato tradito [...] se non fosse stato tradito” , con una interpretazione lontana dalle conclusioni a cui sono giunti studiosi del sistema mezzadrile marchigiano, che sottolineano la progressiva dequalificazione del mezzadro con la perdita graduale delle sue caratteristiche principali di “comproprietario”, quasi in termini di “proletarizzazione” crescente11. Ma un’altra donna ricorda perfettamente che la propria famiglia comprò il terreno nel 1933 in un momento favorevole e che poi l’aumento del prezzo del grano, dilatato in modo spropositato nel ricordo, li ha “spezzati di debiti” . È abbastanza evidente in questi casi la mediazione e il peso del pensiero paterno, tuttavia è ancora da chiarire l’intreccio di motivazioni che portano donne
10 Paola Magnarelli, Aspetti della società marchigiana dal fascismo alla resistenza, in P. Magnarelli et al., Aspetti della società marchigiana dal fascismo alla resistenza, Urbino, Argalia, 1979: Gianfranco Bertolo et al., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Milano, Feltrinelli, 1974; Ester Fano, Problemi e vicende dell’agricoltura italiana tra le due guerre, “Quaderni Storici”, 1975, n. 29-30; Sergio Anseimi, Mezzadri e terre nelle Marche, Bologna, Patron, 1978; Giorgio Pedrocco, Storia dell’agricoltura nelle Marche dall’Unità a oggi, Urbino, Cueu, 1978.11 P. Magnarelli, Aspetti della società marchigiana, cit.
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che vivono in terreni situati a pochi chilometri di distanza a valutazioni tanto differenti. C’e tutta una gamma di giudizi, a cui si può solo accennare: alcune ricordano soltanto miseria e affermano “la colpa è tutta di Mussolini”, altre delineano un rapporto tutto sommato positivo con il padrone del terreno “non ci ha fatto mancare nulla, ci ha fatto rifugiare nella sua villa”, “la signora che sapeva il tedesco è intervenuta, ha dato lonza e vino all’ufficiale e ci ha salvato”; nei ricordi di altre, con famiglie numerose e gli uomini che partiranno tutti per il fronte, appaiono fame e fatica, ma anche tanta ingegnosità femminile. Tuttavia, come emergerà meglio in seguito, la pur degradata economia di autoconsumo sarebbe bastata a sfamare contadini e sfollati.
Anche nelle testimonianze delle donne di città, soprattutto di chi frequentava in quel periodo le scuole superiori o aveva un lavoro, il giudizio su Mussolini e il regime, alla vigilia della guerra, appare variegato e contradditorio, con un elemento però in comune: quasi tutte evidenziano la capacità di rielaborare personalmente gli avvenimenti, sia pure in fasi diverse. Emerge di frequente il conflitto tra il condizionamento a cui erano sottoposte nella scuola fascista, che si esprime magari, sia nelle più semplici che nelle più avvertite, nel piacere di ritrovarsi in divisa, insieme ad altre ragazze, per gare di diverso tipo, e l’atteggiamento critico dei genitori. Molte, infatti, appartengono a famiglie antifasciste, per una certa tradizione anarchica della città che interessava anche le famiglie benestanti; mentre va ricordato che folta era la schiera di repubblicani o anarco — comunisti impiegati nelle ferrovie o presso i cantieri navali. In ciascuna risulta complessa la ricostruzione del conflitto interiore tra due referenti autorevoli e la conquista di un proprio punto di osservazione degli avvenimenti, con un rimpianto — quasi una rabbia diffusa — che il padre, il fratello, il cognato antifascista o comunista comunicassero poco
il loro sapere e la loro esperienza. Wilma Bacchielli racconta, ad esempio, di litigate con il padre che accusava di “non capire, di non saper vedere tutte le cose che le insegnavano a scuola”, ma allo stesso tempo aveva “occhi per vedere” , per superare quel primo moto di eccitazione di fronte alla guerra sentita inizialmente come “una splendida avventura”. Ornella Tacchini racconta:il livello di informazione era a senso unico. Ricordo in occasione della guerra d’Africa che noi studenti facemmo il funerale del negus al porto, con grande partecipazione, perché le cose ci venivano presentate in una certa maniera. Quando in casa si sentiva qualcosa di diverso eravamo infastidite [...] mio padre diceva a proposito della decisione di Mussolini di entrare in guerra: ‘È come se io facessi a pugni con Camera’, frase che io mi guardavo bene dal ripetere perché forse dentro di me pensavo che fosse un po’ disfattista. Poi è cominciata la realtà della guerra.
Olide Galeazzi non può perdonare il cognato Goffredo, comunista, confinato a Ventotene di non averle fatto capire in tempo: “avrei potuto darmi da fare, diventare una staffetta” . Ma c’è anche chi — sono però casi isolati — sviluppa sentimenti di odio contro il regime per un moto di ribellione contro un’ingiustizia: è il caso di Antonietta Bertini, di famiglia fascista, che lega questo suo stato d’animo al divieto da parte del padre a lei “estroversa e amica di tutti” di frequentare tra gli altri un compagno di scuola ebreo, emarginato dopo la promulgazione delle leggi razziali. E c’è infine chi, come Marcella Palma, continua a subire il fascino di Mussolini, anche a guerra avanzata, malgrado la tragica morte della sorella durante un bombardamento, anche se molte sono le spie di un groviglio psicologico non facile da decifrare: difesa dell’autonomia della propria scelta, rivalsa di classe.
I bombardamenti. L ’identificazione del nemico. — Il processo di cambiamento è in quasi tutte evidente quando la guerra arriva davvero in città nel 1943: allarmi, bombar
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damenti continui, morti, distruzioni intere di quartieri, fame, una fame per alcune insostenibile “quando abbiamo cominciato a sentire che [...] la guerra non era una guerra di fronte, lontana da noi, ma che riguardava tutti”.
La parola che tutte hanno sulle labbra è “paura”, che sembra evocare una situazione costante in un tempo cristallizzato che solo a fatica trova una determinazione temporale (“dall’ottobre del 1943 al giugno del 1945: questa è la nostra guerra”) e che in alcuni racconti riporta, in un linguaggio spezzato ed estremamente sofferto, momenti di malattia: “sono stata in un ospedale per due anni perché mi sono andate via le mestruazioni e sono stata malissimo...” e la madre aggiunge “abbiamo finito tutti i nostri soldi per comprarle le medicine, perché niente le faceva bene...”; o scene drammatiche di morte: “l’ho cercato per otto giorni... sotto le macerie... mi hanno mandato via... all’ospizio dei vecchi dove avevano portato dei cadaveri... e poi di nuovo lì, alla stazione, dove scavavano ho visto una mano con un anello di fidanzamento... mia sorella aveva una bellissima mano... aveva vent’anni ed io ventiquattro” (M. Palma.). “C’è stato il bombardamento... c’erano quei tubi grandi... mio marito ci ha infilati dentro i tubi... quando è finito siamo scappati via col bambino... io gridavo come una pazza... c’era un carro tutto coperto. Io ero stanca, mi siedo lì... ero curiosa... sollevo la tela... e ho visto tutti i pezzi di morti che avevano già raccolto...” (R. Galeazzi), con un intreccio di tempi verbali nel raccontare, che fissa in un presente incancellato la scena.
Negli atteggiamenti è riconfermata spessissimo quella dilatazione del materno di cui parla Anna Bravo12 che, connesso ad un
sentimento diffuso di pietas che non trova cedimenti nelle donne, anzi si rinforza, ridefinisce di volta in volta il nemico, senza implicazioni ideologiche. I fascisti sono sempre peggiori dei tedeschi e se si dichiara l’odio per i tedeschi la memoria rinvia poco dopo una scena al centro della quale c’è il ragazzino tedesco in fuga pieno di paura, “che ha negli occhi la morte” o “una testa di ricci biondi allo scoperto, nel campo, staccata dal corpo e appoggiata sopra” per cui le parole gridate sono “figlio mio, te po’ trovà mamma tua!” e l’azione conseguente “sono andata nel campo, ho preso una zappa [...]”. I tedeschi che, con il passaggio del fronte, occupano le case dei contadini e rubano, “rubano per mangiare” e, nei racconti delle contadine, rubano sempre dai vicini (“che non ce l’avevano con noi, perché non era colpa nostra”) e sono “gentili” con le famiglie di cui occupano le case. “Poi siamo diventati quasi amici... ci trattavano da persone”: è la dichiarazione della stessa donna che ricorda i propri genitori non iscritti al partito fascista, che riescono a comprare un piccolo terreno, che ricorda bene i prezzi del grano, le regole mezzadrili, che aveva fatto la sesta elementare e amava leggere “La Domenica del Corriere” .
C’è come uno spostamento continuo di fatti e responsabilità, di “sentito dire”, di violenze attribuite ai tedeschi che non si incarnano mai in corpi conosciuti, in luoghi definiti, familiari e frequentati. Difesa del proprio “territorio” in senso antropologico? Parcellizzazione culturale e spaziale? Anche in questo caso bisogna vincere la tentazione di scegliere la motivazione più facile, che ha in passato prodotto da parte degli studiosi tanti stereotipi sulle donne contadine, poi smentiti dagli studi di storia delle donne13.
12 Anna Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari, Laterza, 1991.13 Cfr. ad es. Amalia Signorelli, Il pragmatismo delle donne. La condizione femminile nella trasformazione delle campagne, in Piero Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. II, Marsilio, Venezia, 1990; A. Signorelli, Dai taccuini di ricerca sulle contadine meridionali, “Memoria”, 1982, n. 6.
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Autorappresentazione. — Infatti se analizziamo i modi di rappresentarsi sia delle donne contadine sia delle donne di città, verifichiamo nel “pragmatismo” la modalità dominante, non inteso come attitudine all’adattamento, come riduzione alla sfera biopsicologica, ma secondo quanto dice Amalia Signorelli, come “il correlato culturale, il sistema di conoscenze, valori e simboli che corrisponde alla parte pressoché universalmente loro assegnata nella divisione del lavoro sociale: il lavoro della riproduzione e il lavoro della sostituzione”14.
Sono evidenti in questi spezzoni di autorappresentazioni femminili i primi segni di una coscienza che si connota come percorso soggettivo, come dialettica tra libertà e comportamenti non liberi. Si è discusso molto e in modo controverso sulla velocità del cambiamento culturale, sulle “uscite” dalla guerra delle donne, sul loro rapporto con la “modernizzazione” . Senza dubbio è in una congiuntura eccezionale, come quella bellica, che cambiano più facilmente e più rapidamente le concezioni del mondo, vengono stravolti i valori di riferimento, ridisegnati i rapporti sociali. Ora è anche evidente che in un processo drammatico e complesso non può esserci una sostituzione repentina del nuovo con il vecchio, ma ci sarà un fluire di intrecci e di interconnessioni, non semplicisticamente districabili, “di adeguatamento di ciò che è tradizionale al nuovo e di adeguatamento del nuovo a ciò che è tradizionale”15.
Nelle autorappresentazioni delle donne anconetane emergono i segni di questo percorso, le forme attraverso le quali nel periodo bellico si è realizzata la soggettività intesa come “esercizio di capacità culturali, di scelte esistenziali e di relazioni sociali”16.
Nel ricostruire la vita quotidiana in tempo di guerra moltissime delle intervistate delineano immagini di donne forti o comunque momenti in cui è significativa la loro capacità di capire la realtà e di intervenire su di essa, assumendosi anche responsabilità e compiti, che fino a quel momento non facevano parte del loro vissuto: non risulta a tal fine discriminante il grado di consapevolezza e di impegno politico. Adriana Ciasca è stata staffetta partigiana e moglie di partigiano, ma il modello di riferimento è la madre, di Comacchio, che aveva fatto il primo sciopero delle mondine, definita “una donna intellettuale che scriveva per tutta Ancona”. Con parole potenti e ancora piene di entusiamo descrive le donne di Capodimonte (uno dei quartieri di Ancona, dove più forte era la protesta popolare) che manifestavano per il pane e l’olio “andavano giù... proprio rivoluzionarie... la polizia mi prende ‘assassini, si muore di fame’. Eravamo tutte donne...”. È anche la stessa che racconta la presenza di spirito della cognata che la salva da un gruppo di tedeschi che cercavano donne, guidati da un fascista del paese dove erano sfollate (Polverigi). Il valore che si dà alla costruzione di un rapporto tra donne, alla solidarietà e al crescere di una coscienza femminile di fronte al doppio sfruttamento del padrone e del regime emerge con chiarezza nella storia di Derna Scandali, di famiglia operaia, quarta elementare, con una madre definita “più intelligente” del padre, che le fa leggere Carolina Invernizio e le poesie di Gorki; operaia presso la fabbrica di confezioni di un noto fascista della città. Tanti sono gli episodi in cui appare tutta la sua capacità di comunicare con le operaie, di conquistare la loro fiducia, anche delle più diffidenti:” durante la mensa si parlava, c’era tanto mate
14 A. Signorelli, Il pragmatismo delle donne, cit., p. 653.15 A. Signorelli, Il pragmatismo, cit.. Sul rapporto tra donne e guerra sono molti i testi usciti recentemente, vorrei ricordare fra gli altri Jean B. Elshtain, Donne e guerra, Bologna, Il Mulino, 1991.16 L. Passerini, Storie di donne, cit.
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riale da utilizzare, sul terreno concreto: la fame, i vestiti, le scarpe con le cartoline sotto [...] era terreno per far capire che il fascismo ci avrebbe portato alla guerra” . È anche la stessa, però, che rivendica, in quel coacervo complesso di atteggiamenti a cui accennavo sopra, una moralità di classe (“c’erano le impiegate che andavano con gli inglesi”)17 e che riconosce di essersi accorta della differenza tra uomo e donna non durante la Resistenza, ma dopo “mentre si diceva nel partito che l’uomo e la donna sono la stessa cosa, l’esempio dell’Unione Sovietica, tutti i raffronti, io ero ammirata, però la differenza c’era, anche tra compagni. Potevi fare dieci volte di più, però prima di fare la scalata” . Anche le donne più lontane dalla politica e dalla sfera pubblica sembrano trovare una forza e una capacità di inventiva e di mediazione con l’esterno cha va mutando, sconosciute a loro stesse: energie insospettate nel trovare cibo e surrogati, nel ricavare scarpe e vestiti da materie prime impensabili, nel fare chilometri e chilometri a piedi, spesso incuranti dei bombardamenti, magari solo per recuperare una porta nella propria casa che serviva a rendere più vivibile lo spazio occupato durante lo sfollamento; coraggio e risolutezza nell’infrangere norme sociali: “ho rubato, ho rubato anche un bicchiere e un cucchiaio al prete” , per poi dire “toccava alla donna fare questo, passava così” . Emerge anche nelle donne apparentemente più fragili una grande presenza di spirito che, in alcuni casi, ottiene il risultato di liberare i mariti restrellati dai tedeschi e avviati a costruire trincee, “È stata una mia idea, m’è venuto di andare, sono andata ed è andato tutto bene, un santo m’ha aiutata” (Margherita Leto); l’abilità e la costanza incrollabile nell’andare per uffici, nel trattare con il governo alleato, con il sindaco per strappare una casa. Ci sono su
questo racconti rallentati, pieni di particolari, che sembrano seguire passo passo le tappe di quel calvario femminile. Le immagini maschili appaiono in gran parte sfocate nei racconti, figure — forse oltre le intenzioni delle donne — deboli, spesso oggetto di pietà rude anche nella scelta del matrimonio: “quella volta se loro decidevano di sposarsi, li mandavano a casa [...] così lui si raccomandava di fare del tutto per farlo venire per sposarsi [...] io ero molto giovane [...] però per non farlo soffrire [...] comunque ci siamo riusciti a farlo venire e ci siamo sposati” (Adria Orsetti).
Il lavoro di guerra, in sostituzione degli uomini (riempiono uffici pubblici, banche, società zootecniche e portuali) è costante- mente descritto come una cosa “naturale”, che dà soddisfazione, ma per alcune è altrettanto “naturale” alla fine della guerra lasciare il posto agli uomini che tornavano dal fronte. Ma non è così per tutte e bisogna scavare maggiormente per capire quali sono le motivazioni profonde, nascoste dietro affermazioni tanto nette e riconducibili a prima vista al ripristino dei ruoli sessuali tradizionali. Tante avrebbero voluto capire subito e rimpiangono di non essere state informate e aiutate. Per alcune la memoria rinvia immagini che non piacciono, che non appartengono più, che alludono ad un sofferto percorso di cambiamento interiore: “Questo è il grave: non abbiamo vissuto profondamento le cose. Mio marito più di me, era cresciuto in una famiglia borghese dove non si parlava di politica ma solo di guadagnare quei quattro soldi [...] Allora ero passiva e oggi disprezzo queso modo di comportarmi” (E. Chiodoni). Il giudizio presente sul sé di allora appare più severo di quanto i fatti e gli episodi narrati possano far pensare e non rendono giustizia a quella giovane donna, madre di due figli, che uscita dalla
17 Anche nelle testimonianze di altre donne compare un giudizio severo sugli inglesi, che vengono descritti “sempre ubriachi, correvano come pazzi sui loro camion indifferenti alla gente investita e uccisa”.
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tragedia della guerra trova la forza di scegliere — in totale contrasto con l’ambiente familiare — di lavorare alla Camera del lavoro di Ancona, di leggere libri fino a quel momento considerati proibiti e di frequentare il partito comunista.
Lo spazio-tempo dello sfollamento. — È stato osservato come il rifugio (grotta, cunicolo, sotterraneo) muti in tempo di guerra il suo tradizionale valore simbolico, da simbolo di morte a simbolo di vita: realisticamente luogo di riparo, di socialità sia pure coatta. Nei ricordi delle donne di Ancona è “la trappola per i topi” , il cunicolo scavato a caso o la cantina che come tale può trasformarsi solo in una tomba (e lo divenne davvero proprio nel rifugio ritenuto più efficiente, presso il carcere cittadino di Santa Palazia, per tante donne e uomini, comprese centinaia di “orfanelle”, tramandata immagine di orrore). Meglio correre allora fuori città per i campi, che si caricano a loro volta di valori simbolici. La campagna, nei racconti delle donne anconetane, diventa la sopravvivenza, il rifugio-libertà del periodo dello sfollamento. Lo si può sostenere con sicurezza pur nella varietà delle situazioni evocate, legate, come è prevedibile, ancora una volta alle condizioni sociali ed economiche. Poggio, Varano, Camerano, Loreto, Ostra, Polverigi, Osimo, ma anche paesi più lontani come Corinaldo, Montecarotto, Sassoferrato, Arcevia ecc. delineano una geografia dello sfollamento spontaneo delle famiglie a seguito dei primi bombardamenti, che non coincide affatto con il piano di sfollamento preparato dalla prefettura dopo l’8 settembre, in previsione di un attacco alla
città che, con il suo porto e il suo nodo ferroviario, rivestiva un ruolo importante per l’approvvigionamento delle forze militari tedesche, schierate più a sud per bloccare l’avanzata degli alleati. Lo sfollamento doveva avvenire in più fasi e per rioni, ma di questo non c’è traccia nella memoria delle donne, anche perché la popolazione fu tenuta inspiegabilmente allo scuro del piano di evacuazione18.
Il ricordo dell’esodo inizia dopo le prime bombe alleate sganciate il 16 ottobre del 1943 sulla stazione di Ancona, il 20 dello stesso mese su quella di Passo Varano e Loreto, il 1° novembre sui quartieri più antichi e popolari nelle vicinanze del porto, che causarono migliaia di morti. L’esodo seguì direttrici legate a relazioni di parentela e di conoscenze e, solo nelle situazioni più difficili, a indirizzarlo furono il caso e la disperazione; durò quasi per tutti fino alla liberazione, nella primavera/estate del 1944. Su questi elementi concordano tutte le testimonianze. Ma, come in altre zone italiane, si ripropone un’antitesi tra due situazioni limite19: da una parte una rottura repentina con il mondo domestico, con le forme di socialità precedenti, con i ritmi e i riti imposti dal lavoro familiare ed extrafamiliare, spesso in una sorta di riduzione “allo stato di natura” che si identifica con la perdita di oggetti simbolici, della casa, quasi sempre distrutta dai bombardamenti, dei mobili e delle masserizie, che provacano spesso i ritorni a piedi in città (“chilometri e chilometri”) per una ricerca affannosa tra le macerie, tra un bombardamento e l’altro, con il rischio per alcuni/e di morire in quel tentativo di riconquista della “proprietà” . Dall’altra la crea-
18 Roberto Lucioli, “Occupazione tedesca, sfollamento e Resistenza in provincia di Ancona (1943-1944)”, tesi di laurea, 1988; Prefettura di Ancona, “Piano di sfollamento per la città di Ancona e Jesi”, dattiloscritto senza data, in archivio dell’Irsml Marche.19 Alessandro Portelli, Assolutamente niente. L ’esperienza degli sfollati a Terni, in Nicola Gallerano (a cura di), L ’altro dopoguerra, Roma e il Sud 1943-1945, Milano, Angeli, 1985; Sandra Lotti, Donne nella guerra: strategie di sopravvivenza tra persistenze e mutamenti, in Giorgio Rochat, Enzo Santarelli, Paolo Sorcinelli (a cura di), Linea Gotica 1944, Milano, Angeli, 1986.
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zione di nuove forme di comunità e socialità, di nuovi aggregati solidaristici.
Il flusso è unidirezionale, dalla città alla campagna, il nuovo spazio di vita è costituito dalla stalla, da una stanzetta in una casa di contadini, nei casi più fortunati la villa padronale che, oltre agli anconetani, accoglie a volte sfollati amici provenienti anche da altre parti d’Italia e gli stessi contadini legati da un rapporto di lavoro (coloni o mezzadri).
Il “terreno” di incontro e di mediazione è, per quasi tutte le situazioni, la famiglia estesa. Ricorrono con altissima frequenza espressioni di questo tipo: “ [...] abbiamo avuto tanta paura, ma eravamo tutti insieme (e qui segue l’elenco di tutti i familiari), si mangiava insieme, si stava bene”.
Mentre per le donne di altre città, Pesaro, Terni, Roma20, lo sfollamento è rappresentato come un periodo buio da cancellare, nel ricordo delle donne anconetane si carica di valenze positive, assume un valore liberatorio, quasi proiezione di un mondo “elementare” sognato e sospensione acronica: il cibo non manca mai, i contadini sono quasi sempre generosi, grande è la solidarietà. Così lo descrive Rossana Duca, allora studentessa liceale, attualmente medico:L’epoca dello sfollamento è stato un momento di grande solidarietà. Quella è stata la guerra per noi. Lì sì la gente era solidale, sia da parte della gente che ci ha accolto in casa sia da parte degli anconetani che non si sono fatti malvolere. Un’epoca di solidarietà in tutti i sensi: mangiare, vestire, scambio merci, lavori artigianali. E poi la gente che è stata nelle grotte... era qualcosa, un modo di essere tra persone, che poi non c’è più stato. Un momento temporaneo, finito il pericolo si riprendono i vecchi individualismi.
Se prendiamo in esame i racconti delle contadine, vediamo che non si discostano di molto.
Loro sono venuti a chiedere lo sfollamento. Noi non li conoscevamo. I rapporti erano buoni, come una famiglia, poi ci siamo rivisti in seguito, nel loro bar. Erano due, moglie e marito. Per mangiare mia suocera faceva tanto per noi, tanto per loro; il bestiame nostro c’era, e come famiglia stavamo bene, da mangiare c’era per tutti” (Adria Orsetti).
Poi gli sfollati... sono arrivati... c’era una coppia con otto figli. Sono stati nostri ospiti nella casa nostra che però era tutta rotta; c’era però una capanna. Mio padre li ha accolti, loro venivano da Posatora: sono partiti di pomeriggio e nessuno li aveva ospitati. Sono arrivati con i figli, stanchi. Nel magazzino c’erano i buchi nel pavimento. Poi ha aggiustato la capanna... per letto ci ha messo il carro con cui si trasportava l’erba... la sfollata mungeva... loro ci davano una mano per lavorare... passavamo le giornate tutti insieme (Nazzarena Fabietti).
Quest’ultima è la stessa donna che quasi grida a proposito del regime “chi veniva nei campi ad informarci?” e sembra rimpiangere, nel ricordare, il senso di comunità avvertito nella convivenza con gli sfollati.
Certo se osserviamo bene nelle pieghe dei racconti le diversità di situazioni emergono: Gina Refe (di famiglia contadina) ricorda che al Poggio si moriva di fame, che gli sfollati andavano a tagliare gli alberi dei proprietari per riscaldarsi, e che i contadini per paura dei padroni in un primo momento li fermavano, ma poi li lasciavano fare perché afferma “È brutto a pensarci bene, anche a trovarsi fuori casa, dover lasciare la casa, senza mangiare, senza niente, se gli dai un pezzo di pane, un bicchiere d’acqua è qualcosa che si può fare” . Altri frammenti di storie di donne emergono a fatica, delineando della stessa piccola frazione di Ancona un’immagine angusta, cristallizzata su una mentalità chiusa ed arcaica: Anita ha il marito in guerra, vuole il suo bam-
20 A. Portelli, Assolutamente niente, cit.; S. Lotti, Donne nella guerra, cit.; F. Coch, Proposta di lettura, cit.
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bino (“si diceva che il padre fosse uno sfollato”), ma viene cacciata dalla sua famiglia di origine e dopo aver partorito muore sola, per un’emorragia, per aver camminato tanto sotto la neve, dall’ospedale anconetano al suo paese. Storie drammatiche accanto ad esempi di frode e grettezza (“ci costringevano a Castelfidardo a mangiare i polli ammalati”), oppure il riemergere di frasi pronunciate per spaventare i bambini di allora (“Stai zitto se no ti faccio mangiare dagli sfollati... gli sfol- latacci”), ma sono ricordi sporadici, la memoria sembra nella maggior parte dei casi voler ricomporre le dissonanze.
Indubbiamente, tra le donne di città, la percezione delle madri di famiglia è diversa rispetto a quella delle figlie giovanette. Gli uomini sono quasi assenti, per cui le più anziane si assumono la responsabilità della famiglia allargata: si muovono molto per cercare il cibo, soprattutto sale, zucchero o oggetti da barattare con i contadini, affrontano lavori del tutto nuovi, nei campi, ma anche a livello artigianale (Marcella Palma ad esempio fa borse a rete che poi baratta; le sorelle Galeazzi si improvvisano parrucchiere — per le polacche però — in cambio di carne). Tutto questo contribuisce a mutare il ruolo femminile e la percezione di sé. È in questa fase che le donne mettono in campo tutta una serie di strategie di sopravvivenza che le fortifica, le attrezza anche alla contrattazione con i tedeschi, durante il passaggio del fronte e con le truppe alleate. Anche se le differenze di classe risaltano in questo periodo: “Avevo la donna che passava il fronte, andava a prendere il latte, nonostante ci fossero i tedeschi” (Laura Archibugi).
Le giovani invece sperimentano nuove forme di socialità; ricordi di spensieratezza, delle corse per i campi con i figli dei contadini, dall’allegria e dell’amicizia; nei racconti
appare anche un professore “molto simpatico, di matematica, che si muoveva da un paese all’altro con la sua bicicletta ‘puppa- tella’ per prepararle ai futuri esami” . Tra loro c’è anche chi affronta fatiche fino allora impensabili, per lo status a cui apparteneva, e che matura un diverso punto di vista sugli avvenimenti. Ornella Tacchini ricorda:
I problemi erano delle donne. Gli uomini se li vedevano [i tedeschi] li portavano via, perché razziavano tutto il bestiame che bisognava accompagnare per farlo camminare. Quindi uomini di qualsiasi età venivano presi... gli uomini dovevano stare nascosti e facevamo tutto noi donne. Ricordo le vesciche sulle mani per spingere un carretto, perché c’era un mulino fuori Ostra, aperto e dove si poteva prendere la farina. I primi tempi era un sogno il pane di Ostra, a confronto di quello con la cenere di Ancona21. Lì invece andavamo al forno e tornavamo con le pagnotte sotto il braccio. Poi, a un certo punto, non c’era più niente.
I tedeschi in ritirata, gente che era scappata dopo essere stata impegnata col fascio e che aveva in mano l’organizzazione del paese. Non c’era più niente. Ricordo quando siamo andate noi donne a prendere la farina [...] poi dovevamo spingere i carretti, tanto che ci sembrava di essere diventati proprio animali; sputavamo sulle mani [...] Andavo io, mia madre cercavo di non farla venire perché aveva un carattere molto emotivo. Io invece mi controllavo meglio. Anche con i tedeschi. Poi col fatto che avevo studiato tedesco al liceo...
Grazie alla conoscenza della lingua e alla sua determinazione Ornella riuscì a convincere un capitano viennese ad utilizzare i partigiani nascosti nel campanile della chiesa di Ostra soltanto per scavare trincee. Per un’altra, Anna Pucci, si interrompe bruscamente il periodo “spensierato” dello sfollamento quando assiste a violenze e ruberie ad opera di noti fascisti della città, lei che si era
21 Per il problema alimentare cfr. tra l’altro Luigi Cavazzoli, La gente e la guerra. La vita quotidiana del “fronte interno”. Mantova 1940-45, Milano, Angeli, 1990.
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dibattuta fino a quel momento — ed il conflitto interiore è tutto ricostruito nella testimonianza — tra sentimenti di amicizia per ragazzi ebrei e per ricchi giovani di famiglia fascista:
La seconda guerra mondiale ha fatto sentire soprattutto alla popolazione civile, che era impreparata, la tragedia generale: bombardamenti, deportazioni, pericoli di tutti i generi, smembramento delle famiglie. Mi ricordo di una famiglia in cui un figlio era andato a combattere con gli inglesi, un altro si era dovuto presentare qua, e la madre diceva che un giorno si sarebbero sparati tra di loro. Io mi auguro che non si ripeta più una cosa di questo genere, perché ha sorpreso i sentimenti di tutti, la vita di tutti è cambiata enormemente e penso che nessuno sia più tornato come prima, perché questa esperienza ha segnato tutti.
Segni di mutamento. Incontro /scontro con i partigiani. — È proprio attraverso l’esperienza dello sconvolgimento totale di un sistema morale e sociale che si avvia un processo di mutamento delle coscienze, — che significa percepire in modo diverso se stesse in relazione ad una realtà non più rassicurante e immediatamente interpretabile — e maturano atteggiamenti nuovi: per alcune si traduce nella partecipazione alla lotta partigiana, anche se sulla loro decisione (“sapevo di fare una scelta inusuale” dice Derna Scandali) pesa molto anche l’ambiente familiare di riferimento (famiglie operaie e comuniste per alcune, di tradizione socialista per altre, come Nanda Tiraboschi). La campagna diventa così il teatro d’incontro con la città non solo nella forma dello sfollamento ma anche in quella della guerra partigiana. Dice Derna Scandali: “senza contadini la guerra partigiana non si poteva fare” . Ma nei racconti di alcune donne intervistate, dove talvolta i toni diventano favolistici, i partigiani appaiono più come espressioni dell’immagina- rio che del vissuto reale, in una dimensione dai contorni riduttivi, riflesso di una perce
zione particolare; abitanti di un mondo “eroico” ma lontano, oppure oscuro, che a volte incute timore o addirittura tiranneggia, riproponendo la bipolarità della situazione dello sfollamento. L’allentamento dei vincoli sociali abituali o del rapporto con il posto di lavoro determinano in questi casi la concentrazione totalizzante sui problemi connessi alla vita materiale e alla sussistenza, pongono la centralità dell’affettività, aumentano l’isolamento, accentuano il preesistente distacco dalla sfera pubblica e si esprimono in un atteggiamento di neutralità. I frammenti di testimonianze, qui di seguito riportati, vogliono illustrare e far riflettere proprio su questo aspetto della bipolarità comportamentale delle donne:I partigiani volevano soldi e provviste, però non ci hanno fatto del male. Hanno portato via tante cose da mangiare... (Laura Archibugi).
Si stava sempre con la paura. I tedeschi sono venuti, hanno comandato, volevano da mangiare. La mattina si diceva: ‘Chi verrà stamattina a Ostra, i fascisti o i partigiani?’ (Elena Barilatti, zia di Achille, medaglia d’oro della Resistenza).
Sapevo dei partigiani. Dove stavamo c’era un nucleo di partigiani che dipendevano da S. Severino e avevano tutta la zona del monte chiamato ‘Buca d’aria’. Ne conoscevo uno di Castelrai- mondo. Lui si prendeva gioco di noi ragazzette. Un giorno è venuto — ‘dov’è tua madre?’. Lui era serio e mia madre uscì fuori chiedendo cosa volesse. ‘Devo tagliare i capelli a tua figlia perché va facendo propaganda fascista’ — ‘Mia figlia propaganda fascista? ma se è una ragazzina!’ (aveva sedici anni) — ‘Ragazzina? le cose che dice le ho sapute da fonte sicura. Su, su, dobbiamo tagliare i capelli’. È stato uno scherzo, capito? [...] Un giorno ho accompagnato mio fratello da un pastore perché l’aveva chiesto per pascolare le pecore. Un lavoro — aveva undici anni mio fratello — e tornava a casa una volta alla settimana.II contadino era un partigiano e un giorno disse ‘stasera non ti mando a casa perché è notte’. Io la notte sono rimasta lì, ma è stato tutto un corri corri di questi partigiani perché avevano preso un tedesco prigioniero e lo portavano su nella frazione Quattro Case, c’era una torre antica e l’hanno rinchiuso lì. La mattina mi hanno detto cosa era
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successo e mi hanno detto di andare a casa. Io avevo paura, perché dovevo attraversare tutto il monte e i partigiani mi avevano impressionato— i mitra, i fucili —; io non volevo andare ma mi disse ‘ho avvertito tutti, tu puoi passare, puoi andare tranquilla’. Mentre ero fuori sull’aia si avvicina un uomo e mi chiede — ‘Di dove sei?’— ‘Vengo da Ancona, sono sfollata a Crispie- ro’ — ‘Tu mi faresti comodo per fare la staffetta’ — ‘Cosa vuol dire fare la staffetta?’ — ‘Devi portare la corrispondenza da una parte all’altra del monte’. Io mi misi a piangere. Il contadino uscì fuori — ‘Lasciala perdere, perché non può fare il lavoro che dici tu’. Sono scappata. In alto alla (sic) montagna, da dove vedevo Crispiero, ho notato alcuni partigiani che mi correvano dietro. Però me la sono scampata” (M. Gherco).
“Poco abbiamo saputo della Resistenza, perché dalle nostre parti di partigiani ce ne sono stati pochi pochi. So solo che volevano dare proprio a me una tessera di partigiana perché quando sono passati gli alleati un ragazzino ha raccolto per terra un oggetto che era una bomba, l’ha buttata
La memoria delle
Laura Capobianco
Le fonti della memoria sono state utilizzate in questa ricerca per far risaltare la partecipazione delle donne al secondo conflitto mondiale. Né estranee, né innocenti simboli di pace1, le donne sono state coinvolte proprio perché la seconda guerra mondiale è stato un evento totale, combattuto all’esterno ma anche all’interno della persona, costretta in tal modo nel ruolo di combattente indipendentemente dall’età, dalla classe, dal genere. Partendo da queste considerazioni
là, passava una motocicilista polacco e per poco non l’uccide. I polacchi, non sapendo che era stato un ragazzino, hanno cominciato i rastrellamenti, hanno rallestrato anche noi e ci hanno chiuso in un campo. Io ho chiesto in inglese cosa succedeva; questi mi hanno fatto fare da interprete con le altre persone per domandare le generalità ed altre informazioni: questo interrogatorio si è protratto dalle dieci di mattina fino alle quattro del pomeriggio poi il fatto si è chiarito. Quando sono andata in paese, il giorno dopo, il Comitato di liberazione che c’era, mi ha detto che mi avrebbero dato la tessera di partigiana, io dissi che avrei dovuto chiedere in famiglia, avevo diciotto anni [...] A casa mio padre disse che io non avevo fatto niente per la Resistenza, solo un servizio ai nostri vicini e che non meritavo la tessera [...] Da noi, camuffati da partigiani, ma non lo erano... c’erano stati episodi poco felici: gente, né resistenti né partigiani (sic), ma volgari ladri, che si presentavano nelle case e si facevano dare prosciutto, olio, minacciando oscuri mali (A. Pucci).
Maria Grazia Caminetti
donne di Napoli
Cesira D ’Agostino
generali che emergono con chiarezza dai lavori di Anna Bravo, Nuto Revelli, Maria Grazia Caminetti, la ricerca analizza il nesso donne e guerra nell’Italia meridionale mettendo in evidenza, attraverso la memoria, lo sconvolgimento delle condizioni materiali, ma anche dei sistemi di valori, degli affetti, dei sentimenti. Volendo mettere alla prova, nell’area meridionale, le categorie frequentemente usate dalla storiografia sul tema, quali ad esempio il carattere modernizzante
1 Su questo tema cfr. le tesi di Anna Bravo, Simboli del materno, in A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Bari, Laterza, 1991 e di Jean B. Elshtain, Donne e guerra, Bologna, Il Mulino, 1991.
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della guerra2, l’estraneità delle donne3, la possibilità di uscire in vari modi dalla guerra4, bisognava superare gli stereotipi e osservare da vicino come le donne ricordano il loro essere state “in prima linea” . Per ricostruire in storia il soggetto donna, sia sul piano simbolico che su quello materiale, bisogna tener conto di una molteplicità di variabili e saper rivolgere lo sguardo verso situazioni particolari che restituiscano le differenze nella differenza di genere. Da questo punto di vista il locus belli e il vissuto personale diventano variabili assai significative, tali da consentire la costruzione di cronologie e topografie differenziate. È evidente che aver vissuto nel Nord o nel Sud dell’Italia può essere stato un elemento determinante nella decisione di distaccarsi o rimanere aderenti al fascismo, come pure può aver portato ad identificazioni del nemico attraverso modalità diverse. Nello stesso Sud la guerra non è stata vissuta allo stesso modo: a Caiazzo, sede di episodi terribili come quello di Monte Carmignano, lo scontro armato si è protratto per pochi mesi e in maniera tangenziale rispetto ad altri territori; Ortona, dove si è attestata la linea Gustav nel settembre del 1943, è diventata caposaldo opposto alla pressione dell’8a Armata fino a giugno del 1944; a Ponza la guerra è arrivata solo di
rimando, senza essere accompagnata.'dagli eventi distruttivi verificatisi altrove. Le donne difficilmente ricordano eventi precisi e coincidenti con la cronologia ufficiale, anche il venticinque luglio e l’otto settembre spesso hanno poco risalto nei loro racconti. L’impressione complessiva che si ricava è che la memoria a tante voci delle donne non ricalca il calendario unico della storia perché ognuna evidenzia e sottolinea inizi e fine propri.
Diversamente che in altre parti d’Italia5, a Napoli non sono state reperite significative fonti autobiografiche scritte. Alcuni diari e racconti coevi sembrano eccezioni in quanto sono stati prodotti da donne non napoletane o con una formazione culturale diversa da quella della maggior parte delle donne di Napoli6. È possibile che molte abbiano scritto e che le loro lettere e i loro diari siano rimasti nei cassetti e nemmeno la ricerca di questi anni sia riuscita a riportarli alla luce. Per questa ragione si è deciso di prendere in considerazione il fondo “La mia guerra” ed usarlo come elemento di confronto rispetto alle testimonianze orali. Si tratta, com’è noto7, di una fonte non coeva ma realizzata nel 1990 in occasione di una trasmissione televisiva della terza rete. Il mezzo televisivo ha restituito alla memoria una sorta
2 Sull’effetto di modernizzazione delle guerre cfr.: Ernesto Galli Della Loggia, La grande guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1984 e Una guerra “femminile”, in A. Bravo (a cura di), Donne e uomini, cit.; Miriam Mafai, Pane nero, Milano, Mondadori, 1987; Gianfranco Vené, Coprifuoco, Milano, Mondadori, 1989.3 Sara Ruddick, Il pensiero materno, Como, Red edizioni, 1993, propone una tesi discutibile secondo la quale l’attività di madre produrrebbe ‘istintivamente’ e ‘naturalmente’ un pensiero pacifista e una prassi politica non violenta.4 Guido D ’Agostino, La guerra a Napoli tra tedeschi e americani, “Quale Storia”, 1990, n. 1.5 La raccolta più importante su diari inerenti la memoria della seconda guerra mondiale è presso l’Archivio diari- stico di Pieve Santo Stefano. Interessanti osservazioni a riguardo in Francesca Koch, Lo sfollamento nella memoria femminile, “L’Impegno”, 1993, n. 1.6 Ad esempio il diario-racconto di Elena Canino, Clotilde tra due guerre, Milano, Longanesi, 1956.1 I materiali raccolti per la trasmissione “La mia guerra” sono stati consegnati dalla Rai all’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e sono stati studiati da Anna Amendola, La mia guerra 1940-45: avventure, gioie e dolori degli italiani raccontati da loro stessi, Milano, Leonardo, 1990; da Giovanni De Luna, La televisione e la “nazionalizzazione” della memoria storica, in Id., L ’occhio e l ’orecchio dello storico. Le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia, Firenze, La Nuova Italia, 1993 e da Rosella Prezzo, La seconda guerra mondiale sul filo della memoria. Memorie e soggettività rammemorante. Il fondo “La mia guerra”, “L’Impegno”, cit.
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di legittimazione nel senso che esperienze soggettive fin qui tacitate e dalle amnesie dei percorsi di vita e dalla storiografia sono state autorizzate a venire in superficie, in maniera spontanea e in forma di testo autonomo. Più complesso è invece il discorso che riguarda le testimonianze, la cui raccolta è avvenuta in varie fasi, la prima delle quali sembrava far prevalere la rimozione. L’evento bellico, in alcuni casi, è stato troppo doloroso per poter essere ricordato o, almeno, alcune donne non hanno trovato le parole per raccontarlo. Si tratta — se non per la drammaticità oggettiva almeno per l’impatto soggettivo — di qualcosa di simile all’esperienza dei sopravvissuti dei lager, “un paradosso della memoria [...] impossibile da dimenticare e di cui risulta nello stesso tempo impossibile la testimonianza”8. Le parole di una ebrea napoletana diventano al riguardo particolarmente significative:
quel periodo l’ho dimenticato; fino a pochissimo tempo fa ho avuto la sensazione che non fosse vero niente di quello che mi era capitato.La guerra è proprio il Male; si abbatte sulla vita della gente ma per fortuna è una parentesi; i particolari non si possono raccontare perché sono passati, sono fatti che ci si augura di non vivere più.
La guerra, racchiusa in una tranche definita, non sembra interagire né con un prima né con un poi, non costituisce un continuum nel percorso dell’esistenza ma rimane confinata in una zona d’ombra altrimenti insostenibile. Nel complesso la maggior parte delle donne è stata disponibile ad essere intervistata, ma le testimonianze apparivano scarne, prive di partecipazione, senza spessore. In realtà, “silenzi, memoria, espressione nell’oralità e nella scrittura
hanno una fenomenologia strettamente collegata alle situazioni storiche: la volontà di dire o di non dire si confronta con la disponibilità ad ascoltare e capire da parte di un pubblico più o meno determinato”9. Da questo punto di vista le donne non racconterebbero perché non danno valore alla propria esperienza ritenendola poco importante, e addirittura senza significato. Se ciò è vero sempre vale a maggiore ragione per la guerra, accadimento che in genere divide gli uomini dalle donne; i primi, infatti, hanno a disposizione un solco, un modello narrativo entro cui possono facilmente collocare la propria memoria. Non così le donne che, legate al quotidiano, hanno spesso contribuito a far ritenere la guerra ambito strettamente maschile.
Il procedere della ricerca ha consentito il graduale superamento della diffidenza e delle reticenze grazie alla modifica delle modalità del rapporto tra le intervistate e le intervistatrici, ma anche all’effetto persuasivo e moltiplicatore dei mezzi di comunicazione di massa. Si è come aperto un varco per le molte voci che erano state compresse sin lì e molte difficoltà sono state superate. Con le donne che incontravamo si è prodotta una sorta di complicità e di interazione per cui se noi potevamo aiutare le testimoni a ritrovare parole e immagini efficaci — non esisterebbe, sostiene la Passerini a riguardo, una memoria spontanea, ma si ricorda attraverso il legame con qualcuno che ha ricordato prima o insieme — le intervistate potevano aiutarci “a rivedere le nostre categorie interpretative e le aspettative ad esse connesse”10. Si è dunque verificato, anche in questo caso, ciò che alcune storiche sostengono da tempo, che cioè le donne vivono in una doppia condizione di interno/esterno che le costringereb-
8 R. Prezzo, La seconda guerra mondiale sul filo della memoria, cit., p. 43.9 Ersilia Alessandrone Perona, intervento al Seminario “Raccontare, raccontarsi; parole, memoria, silenzi delle donne”, Torino, 23 ottobre 1991.10 Maria Grazia Caminetti, I ricordi delle donne di Ancona, qui pubblicato, p. 394.
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be ad opporsi anche a se stesse. Capire infatti le voci delle donne che incontravamo significava capire e riconoscere i nostri stessi modi di interpretare. Formate culturalmente sul modello dell’emancipazione per quanto riguarda l’essere donne e sugli ideali resistenziali per quanto attiene alla guerra, non riconoscevamo in realtà i vissuti proposti da coloro che potevamo considerare nostre madri. Si è così rimessa in moto la nostra stessa memoria, rimandandoci un passato rimasto inattuale e misconosciuto. Quei racconti li avevamo già sentiti, la nostra infanzia, la nostra adolescenza ne erano stati pieni. È stato scritto che è tipico dell’esperienza emancipativa il percepirsi in rapporto al futuro a partire dal presente, con un effetto di azzeramento del passato che si vorrebbe non esserci stato. In realtà erano stati anche i racconti di guerra delle nostre madri a fondamento delle nostre scelte di cambiamento, così come quegli stessi racconti erano serviti a loro per superare i terribili anni del dopoguerra e i lenti e faticosi anni cinquanta. Dalla guerra, le donne, come tutta la società meridionale, erano uscite all’indietro: ricostruire, per molte donne, ha significato rimettere in piedi il mondo precedente, rielaborando il vissuto della guerra attraverso modalità che consentissero, senza eccessiva sofferenza, questa operazione. Da qui pensiamo che sia nato quel modo di raccontare che appartiene alla media e piccola borghesia di quella generazione nella quale si è andata a consolidare una tradizione narrativa che è servita a dare senso ad un presente, in cui le spinte alla normalizzazione sono state forti e rassicuranti. Tradizione che si è costruita dando espressione all’esperienza che urgeva dentro e che serviva a soddisfare un bisogno elementare di autoconsiderazione e
di valorizzazione: “Noi ce l’abbiamo fatta, siamo comunque state capaci di attraversare la guerra e uscirne indenni” . Tradizione che serviva anche per uno scopo di ammaestramento, per conferire al proprio rapporto con i figli, con i giovani, un’autorevolezza volta a giustificare e a far condividere i valori del tempo fondati sulla parsimonia, sulla previsione, sull’evitare ogni forma di spreco. Gli elementi di questa tradizione, che potremmo definire di donne borghesi, si sono intrecciati e in qualche caso contrapposti con altri che appartengono ad una tradizione più antica, in qualche modo più facile per noi da organizzare ed identificare perché più distante da noi, come resa estranea da un’altra appartenenza di classe. È quella che abbiamo chiamata la tradizione narrativa delle donne del vicolo, che non hanno abbandonato mai, nemmeno nel tempo di guerra, il luogo in cui sono nate e vissute11. Si propone mediante un linguaggio materiato, proprio di chi non ricorre a forme di concettualizzazione, ma lega strettamente le parole ai corpi e alle cose, restituendo con immediatezza il concreto dell’esperienza. Alcuni elementi appartengono a tutte le testimonianze: non c’è adesione al fascismo, non certo per consapevole opposizione politica quanto per il permanere di un attaccamento alla monarchia che fa riconoscere esclusivamente nella persona del re e dei suoi familiari, oltre che nei simboli della regalità, i tratti protettivi e di riferimento. L’esasperato ricordo della fame, della mancanza di acqua e di ogni genere di elementare sussistenza, si accompagna alla descrizione, a volte divertita, a volte drammatica, degli espedienti a cui queste donne hanno fatto ricorso: saccheggi, contrabbando, piccoli commerci alla borsa nera. Anche l’individuazione del ne
11 La tradizione narrativa delle donne del vicolo è parte del lavoro del gruppo di ricerca sulla seconda guerra mondiale dell’Istituto campano della storia della Resistenza. Una ampia trattazione è stata svolta da Rosetta Gervasio al Convegno “1943. La scelta, la lotta, la speranza”, Napoli, 29-30 settembre-1 ottobre 1993. Gli atti sono in via di pubblicazione.
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mico avviene attraverso ricordi di persone concrete: la tipologia dell’americano è distinta da quella tedesca ma entrambi sono ricordati come aggressori e in quanto tali vengono riproposti con risentimento analogo. È evidente infine che il racconto si ripropone sempre nella forma dell’io e della propria capacità di garantire la sopravvivenza e i destini della famiglia insieme al sentirsi appartenenti comunque alla comunità del vicolo o del vicinato.
Tratti di una tradizione narrativa. L’immagine di Mussolini e l’entrata in guerra rappresentano per le donne una diade. Al contrario degli uomini che avrebbero rimosso gli anni della guerra fascista 1940-194312, le donne non mostrano imbarazzo nel rievocare il clima in cui vissero a Napoli i momenti iniziali della guerra. Nel complesso un’altalena di sentimenti: in molte c’è ansia e preoccupazione di fronte all’ignoto, la minaccia che urge dentro però si alterna alla festa e alla baldanza del fuori:La guerra per noi ragazze era una specie di avventura di cui non si intravedevano ancora i contorni, ma quando vidi tutti i fascisti che scendevano in strada e cantavano fui presa da un momento di esaltazione.
Si visualizza in tal modo nel ricordo un’intera collettività che conviene in un luogo che per la città ha sempre avuto un valore simbolico: la piazza del Plebiscito. Il quadro che viene delineato rappresenta tino spazio traboccante di gente, festosa e rassicurata dalla compattezza della massa; tutti attendono il discorso del duce e dalla sua voce ricavano l’orientamento, la rassicurazione e l’esaltazione che si aspettano. In queste donne in particolare è proprio la figura di Mus
solini che veicola l’accettazione della guerra. La storiografia meridionale ha dimostrato come la popolazione del Sud è andata orientandosi sempre più verso Mussolini allontanandosi dal fascismo13. Il mito del duce si è affermato con forza nel Sud, da sempre governato da un personale politico corrotto e percepito come incapace di interventi efficaci nel sociale; a lui si attribuiscono capacità concrete: è efficiente, onnipresente, insieme capo ma anche padre protettivo. Mussolini diventa per le donne una figura emblematica dal momento che hanno ancora nel Sud grande valore i nuclei sociali elementari (famiglia, parentela, vicinato) all’interno dei quali vige una forte gerarchia per quanto riguarda i ruoli sessuali che attribuisce alle figure maschili (padre, marito, sacerdote) prestigio e autorevolezza. Il duce, per queste donne, ha i tratti della figura di famiglia ma occupa un posto al di sopra di tutti; in lui si condensano le figure del padre, del condottiero e in qualche modo anche della patria:Eravamo tutte per il duce, talmente infatuate da vedere in lui un liberatore, un grande condottiero che risvegliava l’orgoglio nazionale.
È noto del resto che Mussolini ed il suo entourage erano riusciti a veicolare l’idea che la guerra sarebbe stata breve e vittoriosa:La guerra-lampo apriva alla speranza, si pensava che sarebbe finita presto e che Lui sarebbe stato capace di sedere con i Grandi al tavolo della pace per procurare grandi vantaggi agli italiani.
La guerra si sentiva perché quell’“Uomo” aveva la capacità di trascinare tutti; la voce, le parole, il modo di parlare, l’abilità nel condurre il progetto era sempre convincente. Lui ci esaltò verso la guerra.
La dichiarazione di guerra, la guerra annunciata, si propone nei racconti come una sor-
12 Di rimozione parla anche Aurelio Lepre nel volume da lui curato La guerra immaginata. Teatro, canzone e fotografia 1940-43, Napoli, Liguori, 1989.13 La tesi è sostenuta anche da Paolo Varvaro, Una città fascista. Potere e società a Napoli, Palermo, Sellerio, cfr. in particolare le pp. 55-56.
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ta di duplicato rispetto alla guerra reale, al momento in cui entra nel vissuto condizionandolo radicalmente. L’immagine positiva della guerra dichiarata non viene scalfita, si sovrappongono semplicemente gli eventi distruttivi man mano che vengono percepiti nel proprio quotidiano con tutta la loro forza dirompente. La guerra da immaginata diventa reale quando si sperimenta in prima persona la difficoltà crescente nel procurare i beni di prima necessità, quando i bombardamenti spezzano gli equilibri individuali e costringono a convivere con la paura. Si può parlare di un inizio diverso per ognuna delle donne intervistate:Cominciai a capire che c’era la guerra quando i giovani furono richiamati e cominciarono a partire. Eravamo sposati da pochissimi giorni, quando mio marito fu chiamato alle armi il mondo crollò all’improvviso.
Ma sono i bombardamenti l’elemento nuovo e dirompente per la popolazione civile:Quando cominciò l’inverno del 1941 capimmo che la guerra non era più quella che si combatteva al fronte: gli inglesi infatti avevano cominciato a bombardare anche le città.
Per molte è il terribile bombardamento del 4 dicembre del 1942 a dare inizio alla guerra vera14. Si tratta del primo attacco aereo diurno, a ondate successive non dirette su obiettivi miliari ma sul centro della città che viene colpita con particolare violenza. Sara Girosi, la testimone che ne parla, ancora oggi collega alla guerra via Monteoliveto, una strada del centro della città dove furono colpite due vetture tramviarie cariche di passeggeri, comprese lei e la madre:
Erano le quattro del pomeriggio, io ero uscita con mia madre a comprare alcune cose. Ricordo di aver sentito un rombo fortissimo, ho subito alzato la testa e mi sono ritrovata in via del Chiostro per lo spostamento d’aria. Né io, né mia madre potevamo muoverci, sentivamo i lamenti dei feriti, vedevamo gente con la faccia a terra [...] ad un certo punto l’aereo è tornato e ha mitragliato di nuovo. Quella era la guerra, la vedevo per la prima volta; da quel momento non mi sono più liberata di quei suoni, di quei rumori assordanti, di quel dolore.
Un’altra donna racconta che la sua guerra è cominciata dopo l’8 settembre, quando i tedeschi hanno cominciato a portar via gli uomini e a far sentire agli italiani il disprezzo che provavano verso di loro.Dicevano sempre con arroganza “sporchi italiani traditori” e sputavano a terra anche quando non ci facevano niente di male. Nella guerra gli italiani hanno fatto le spese dello scontro terribile tra gli inglesi e i tedeschi.
Per alcune donne infine la guerra è cominciata proprio quando a Napoli ha avuto termine; si tratta di coloro che hanno cercato di sottrarsi alla violenza dei bombardamenti dell’estate del 1943 sfollando in Abruzzo; una donna in particolare ha raccontato di aver capito che cosa è la guerra quando è ritornata al suo paese di origine, Ortona, e qui, sola, senza marito e senza parenti si è trovata sulla linea di fuoco tra l’esercito tedesco e quello degli alleati che risalivano lungo la costa dell’Adriatico.
L’inizio della guerra dunque non è uguale per tutte, ma nel racconto di tutte compaiono le limitazioni a cui si è costrette: il disagio materiale, la mancanza di viveri necessa-
14 Per i bombardamenti sulla città rimane ancora utile il testo di Aldo Stefanile, I cento bombardamenti di Napoli. Igiorni delle am lire, Marotta, Napoli, 1968. Anche le testimonianze de “La mia guerra” concordano sul carattere particolare del bombardamento in questione, il più dirompente per la vita privata e civile, tanto che la ricostruzione narrativa assume talvolta toni fiabeschi. Scrive Maria Di Maio: “ [...] ma un pomeriggio del 4 dicembre 1942, giorno di S. Barbara, c’era la squadra navale nel porto. Rientravo dal lavoro a piedi, verso S. Giovanni a Teduccio, camminavo nei pressi dei ponti dei Granili, era il tramonto, guardando il cielo vidi molti aerei che sembravano dorati; erano molto belli, proprio perché scintillavano nel sole [...] ma subito dopo cominciarono a sparare le mitragliatrici”.
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ri, la rinuncia a tutto ciò che costituiva la vita precedente, i bombardamenti, l’esperienza dei ricoveri, lo sfollamento. È l’affresco dolente del tempo della mancanza e della privazione. Per Anna la mancanza più forte è stata per i viveri:Desideravo fortemente lo zucchero, me lo sognavo ad occhi aperti [...] ero sempre affamata, aveva voglia mia madre di ricorrere a trucchi nel tentativo di saziarci; finimmo con il non sedere più a tavola, perché ci guardavamo male tra noi, in attesa di poter rubare qualche cosa dal piatto degli altri.
Per altre, il dato più doloroso deriva dalla costrizione dei movimenti:Mi sentivo costantemente prigioniera, non si poteva più uscire per fare una passeggiata, si era costretti a camminare rasente i muri solo per quelle strade dove sapevamo che c’erano i ricoveri. Ma le cose non erano uguali per uomini e donne; gli uomini durante l’oscuramento uscivano, noi non potevamo farlo.
Si avverte anche il venir meno di una possibilità di intimità, di uno spazio personale in cui poter stare da sola o con i propri fami- gliari: “Mi mancava il silenzio e la solitudine, mi mancavano i libri e la libertà di stare con me stessa” .
Per tutte le donne la guerra è straniamen- to, sospensione della quotidianità, un continuo sovrapporsi del fuori sul dentro. La sopravvivenza, il mantenere se stesse e gli altri in vita continua ad essere “affare da donna”, ma adesso si deve realizzare fuori dello spazio dzWoikos, anche quando la casa non è stata distrutta. Tutte sono costrette ad uscire, le più anziane ed esperte per procurare cibo ed acqua, le più giovani per provvedere ad altro, vestiti e scarpe, come se un residuo di senso estetico avesse fatto suddividere i compiti nel tentativo di esorcizzare la
paura e la morte: “Noi ragazze ci demmo da fare: ci procuravamo le scarpe, i calzettoni, le stoffe per i vestiti. Io mi sapevo organizzare molto bene, mi facevo perfino cappellini, ero considerata elegante” . Tutte, giovani0 anziane, sono state capaci, di fronte alla necessità, di sovvertire le regole, in qualche caso senza nemmeno riconoscere più la connotazione trasgressiva; molte dicono di aver preso parte a saccheggi come se si trattasse di azioni naturali e di tutti i giorni. Scrive Antonietta nella sua testimonianza per “La mia guerra” :Così un giorno incominciarono a svaligiare i quartieri militari [...] chi correva e prendeva quello che c’era, io corsi e presi delle tovaglie da tavola per farmi dei vestitini e mi ricordo che erano di un colore verde e bianco a quadretti piccoli.
Negli ultimi mesi del 1941 e dal dicembre del 1942 al settembre del 1943 per i napoletani la casa non può dare nessuna rassicurazione:1 bombardamenti sono continui soprattutto quando agli aerei inglesi si sostituiscono quelli americani, molto più precisi, con voli diurni volti a colpire oltre che obbiettivi militari anche i centri abitati. La guerra viola il “dentro” della persona, i suoi affetti, la sua intimità. Grazia Rattazzi così si esprime:L’impressione più tremenda l’ho provata quando sono arrivati gli aerei, li chiamavano “le vacche volanti” perché arrivando producevano un rumore pieno, sordo, possente, seguito da quello lacerante degli Stukas. L’apparecchio ti arrivava dentro, ti colpiva senza difese.
Il ricovero, lo spazio chiuso in cui costringono i bombardamenti per molte ore, a volte per intere giornate, non consente di ritrovare una forma di tranquillità personale simile a quella domestica, né fa nascere nuove forme di socializzazione basate sull’aiuto reciproco e sulla solidarietà15. C’è come un’im-
15 È noto che in altre città italiane l’esistenza collettiva assunse in guerra caratteristiche diverse. Si rimanda ad esempio al caso di Torino analizzato da Giovanni De Luna (in particolare il suo contributo A Torino, durante la guerra. Le coordinate dell’esistenza collettiva, in A. Bravo (a cura di), Donne e uomini, cit.).
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possibilità a dimensionare lo spazio, troppo ampio e incontrollabile quando si tratta delle grandi cave di tufo nella Napoli sotterranea nelle quali si sta come se si fosse in una tana. Il ricovero casalingo, a sua volta, non offre né uno spazio sicuro né più accogliente nonostante la limitatezza delle dimensioni e, in molti casi, il vantaggio di stare con persone conosciute: troppi i disagi, notevole la precarietà, evidente l’assoluta inadeguatezza di locali che mancavano di ogni attrezzature ed elementi di sicurezza16. In città esistevano ancora altri tipi di ricoveri come gli spazi sotterranei della metropolitana e i trafori cittadini; erano per lo più assai frequentati, soprattutto dal proletariato urbano che vi aveva trasferito masserizie e suppellettili. Erano diventati in tal modo luoghi di grande confusione e promiscuità, dove c’era diffidenza e ognuno temeva dell’altro, chiudendosi in un’ostinata difesa del proprio.
Si camminava al buio, nessuno si riconosceva, ognuno teneva stretta la borsa in cui racchiudeva quel poco che aveva potuto portare con sé, soprattutto le tessere annonarie [...] mia madre teneva strette a sé me e mia sorella che era già una ragazza e ci diceva di non parlare con nessuno.
Solo lo sfollamento può essere una tregua e può servire a riequilibrare parzialmente il dentro e il fuori; in alcuni racconti il periodo in cui ci si è trovati a contatto con la campagna17, senza i bombardamenti continui e in un luogo in cui le ferite della guerra sono meno visibili, viene ricordato come
una pausa, il momentaneo allentarsi della paura, la ripresa di una qualche forma di esistenza:
Sfollammo a Piano di Sorrento presso una famiglia amica; ci accolsero bene e stemmo meglio. Dalla campagna si ricavava di più e si riusciva a mangiare. La vita fu più facile.
Quando andammo fuori stemmo veramente bene: i coloni avevano tante provviste e noi facevamo con loro ogni forma di scambio. Noi ragazze — eravamo quattro sorelle — avevamo imparato a cucire e a ricamare. Per i contadini cucivamo vestiti e biancheria e loro ci davano i viveri.
In altri casi lo sfollamento ha rappresentato un’inaccettabile ritorno al passato, a modelli di vita tanto arretrati da far desiderare il ritorno in città con grande intensità; del resto soprattutto dopo l’otto settembre la reazione del mondo contadino rispetto agli sfollati diventa molto ostile, non è più possibile né solidarietà né scambio. Per alcune infine, come già detto, l’allontanamento da Napoli ha significato il ritrovarsi nel pieno della guerra, in condizioni di totale perdita, in un fuori definitivo, dove manca qualsiasi possibilità di orientamento.
Ci trovammo tra la controaerea tedesca e i cannoni e i bombardamenti degli inglesi. Fu l’inferno.
Per gli uomini l’identificazione del nemico in guerra è un’operazione necessaria: Fornari sostiene che “la colpevolizzazione dell’altro fa evitare il proprio senso di colpa che comunque la guerra provoca”18. Jean Elsthain
16 L’insicurezza dei ricoveri ritorna in tutte le testimonianze. Fernanda Ventrella ricorda: “Mentre si stava pranzando si sentì l’allarme. Mia madre, il mio fidanzato, con la sua intera famiglia, scesero nel ricovero di fortuna dello stesso palazzo. Si trattava di una specie di cantina insicura, con una parete non salda. Una scheggia colpì di striscio proprio qella parete. Crollò il palazzo e tutti rimasero sepolti sotto le macerie. I soccorsi giunsero in ritardo quando ormai per molti non c’era più niente da fare”.
Sono soprattutto le testimonianze de “La mia guerra” a rimandare un senso di liberazione e di benessere a contatto con la campagna. Scrive Mila Ambroselli: “Si mangiava bene ogni giorno, c’erano a disposizione grandi provviste, si arrostiva la carne sulla brace e la si mangiava all’aperto, accovacciati sull’erba, e i vecchi raccontavano storie come favole”.
Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 40.
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a sua volta scrive che gli uomini “combatterebbero come incarnazioni della violenza legalizzata di una nazione”19. Le donne invece0 perché eredi di tradizioni culturali che le ritengono fautrici della pace o perché costrette dall’organizzazione sociale, non si immedesimano nella figura del combattente, per cui stentano ad identificare con precisione il nemico20.
Dopo le sanzioni imposte per la conquista dell’Etiopia la propaganda fascista aveva tentato in tutti i modi di screditare gli inglesi anche attraverso slogan diffamatori. A Napoli i risultati ottenuti furono abbastanza scarsi almeno a giudicare dal fatto che quegli slogan vennero immessi nel variegato assortimento di canzoni, scherzi linguistici che circolavano tra le persone con una certa leggerezza, senza riuscire a far nascere sentimenti di grande ostilità. I racconti delle donne sono una riconferma di ciò. Nemmeno i bombardamenti hanno poi sedimentato un sentimento di odio verso gli inglesi perché, al contrario degli americani che “scaricavano le bombe alla rinfusa e non solo su obiettivi strategici” essi “non colpivano diretta- mente la popolazione e poi ci trovavamo in guerra” . Più complesse sono le considerazioni di queste donne per quanto riguarda i tedeschi: c’è sempre la consapevolezza di ciò che è accaduto in altre parti dell’Italia dopo l’otto settembre, ma a questa immagine fatta di violenza, terrore e distruzione si accompagna in parallelo quella costruita tra esperienza diretta ed immaginazione. Il tedesco spesso è rievocato come un giovane bello, guerriero ma gentiluomo, insieme affascinante e irraggiungibile:1 tedeschi erano molto disciplinati, garbati, educati e distanti.
Erano belli, biondi, molto ben vestiti; colpivano la fantasia, non incutevano paura. Del resto erano i nostri alleati e davano un senso di sicurezza. Io pensavo: i tedeschi hanno molte armi, per questo vinceremo.
Perfino Vanda Sacerdote che nel suo diario dello sfollamento in un paese al confine con l’Abruzzo ha scritto delle continue perquisizioni a cui sottoponevano la sua casa e di essere stata incarcerata per alcuni mesi perché scoperta ad ascoltare Radio Londra, propone questo tipo di giudizio:
però io non ce l’avevo con i tedeschi: quando passeggiavo con le bambine per il paese stringevo amicizia con qualche soldato tedesco: erano comandati, non avevano colpe.
Molte testimoni riconfermano la difficoltà a riconoscere il nemico, in alcuni casi si fa strada addirittura la pietà, come unico sentimento possibile in quel periodo terribile:
I partigiani stavano nascosti, gli italiani, i fascisti, cominciarono a sparare. Due soldati scapparono e furono raggiunti da vari gruppi che sparavano alle spalle. Caddero sotto il mio balcone. Mi ricordo che dissi alla mia matrigna: — come sono giovani, mi fanno pena, chissà se la loro madre li sta aspettando —.
I tedeschi dopo l’armistizio mi sono apparsi diversi, erano un pericolo. Provavo più simpatia per i partigiani, mi facevano pena tutti. Non sono nemica di nessuno, nemmeno dei tedeschi.
Nelle memorie de “La mia guerra” la condanna dei tedeschi è più marcata. Ci sono riferimenti ad episodi di scontri armati tra tedeschi ed alleati, anche se spesso le vittime appartengono alla popolazione civile. Per quanto riguarda Napoli c’è un solo riferimento alle crudeltà perpetrate dai tedeschi durante le Quattro giornate quando avreb
19 J.B. Elshtain, Donne e guerra, cit., p. 37.20 Le recenti esperienze di guerra, in particolare quella della guerra del Golfo, hanno prodotto mutamenti sostanziali anche da questo punto di vista; probabilmente è necessario ripensare il rapporto complessivo tra donne e violenza. Interessanti riflessioni a riguardo sono state fatte da Anna Maria Bruzzone nel Seminario su “Donne e guerra” tenutosi a Napoli il 19 giugno 1992 e da A. Bravo nel Seminario di Vercelli.
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bero attirato nell’Albergo dei poveri, in piazza Carlo III, la gente invitandola a portar via le vettovaglie ammassate in quel luogo, per poi sparare indiscriminatamente su tutti. La testimone Maria Di Pietro conclude comunque così il suo racconto: “Quest’ultimo episodio non l’ho vissuto, ma mi fu raccontato da chi si era salvato
Per quanto riguarda gli americani tutte riconoscono di aver avuto qualche vantaggio materiale dal loro arrivo, ma essi non sono presentati con i tratti dei liberatori; le scene di festa proposte dai cinegiornali del tempo e dai film del dopoguerra non vengono riconfermate: “Io non mi sono sentita liberata, erano andati via i tedeschi con le armi ed erano venuti gli americani con i loro atteggiamenti di falsi amici” . Si intuisce dalla narrazione il senso profondo di delusione che queste donne provarono. La guerra sembrava finita, in realtà alla fame, alla precarietà (i viveri continueranno a scarseggiare a lungo e contemporaneamente si avrà un disordinato e incontrollabile aumento dei prezzi)21, va ad aggiungersi una nuova forma di sconvolgimento, dovuto ad un impatto con forme diverse del vivere, violento per le particolari modalità con cui queste vengono proposte. Gli americani hanno uno stile di vita molto diverso da quello dei napoletani che non trovano in questo momento un modo per fare ostacolo al suo diffondersi; chi può e sa si “americanizza” ; tale scelta in realtà significa perdere i propri punti di riferimento, le proprie coordinate di vita senza per questo acquistarne altre, più moderne e significative. Napoli è dal settembre del 1943 all’estate del 1945 una sorta di
“rest-camp” dove i soldati trascorrono licenze, periodi di convalescenza e di riposo22:[...] gli americani entravano nelle famiglie [...] anche troppo
[...] era una cosa che ti stringeva il cuore; vedevi passare i soldati e la gente impazziva appresso a loro ognuno alla ricerca di qualche cosa e non solo perché non ce la facevano più a campare.
Per me gli americani sono stati un esercito invasore, ci hanno affamati perché hanno fatto salire i prezzi e tutto si è corrotto.
Al momento in cui arrivarono in città, nell’ottobre del 1943, tutti sperarono che si potesse tornare a vivere nella normalità — da qui le scene di esultanza — e gli americani sembravano poter soddisfare questo desiderio grazie ai loro mezzi; ma non fu così, né sul piano delle scelte politiche, né su quello dei valori e dei comportamenti. Con l’arrivo del colonnello Poletti la macchina del governo angloamericano si metterà in moto per riportare nella “civiltà” l’informe aggregato che era diventata la città, ma lo farà riciclando tutto il personale politico coinvolto dal fascismo. Tra il vecchio e il nuovo non si produrrà nessuna dialettica positiva: agli americani ci si poteva solo “dare” altrimenti bisognava ritrarsi:Dopo tante privazioni il fatto di poter di nuovo mangiare, di poter uscire, di poter ballare, ci faceva impazzire dalla gioia, ma loro si sono comportati male, da conquistatori.
Alleati nemici dunque che non hanno però i tratti della tracotanza propri di chi pensa di appartenere ad una civiltà superiore:Un esercito ben nutrito, con un abbigliamento costoso, ma sempre un po’ sbracati: i soldati non
21 Cfr. G. Chianese, L ‘esperienza della guerra a Napoli: storia del conflitto, storia della città, “Quale Storia”, cit.La presenza dilagante degli americani negli anni indicati è molto presente nel ricordo delle donne. Grazia Radaz
zi, Una donna a Radio Napoli, in Alle radici del nostro presente. Napoli e la Campania dal fascismo alla repubblica, 1943-1946, Guida, Napoli, 1986 ha scritto: “Gli alleati si servirono di tutto ciò che la città poteva offrire; regolarmente requisirono ciò che poteva servire” . Questa idea viene rimandata anche da libri scritti dagli stessi americani seguendo ottiche del tutto differenti. Cfr. ad esempio John Horne Burns, La Galleria. Un americano a Napoli, Milano, Baldini & Castoldi, 1992.
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avevano un’aria spavalda, ma davano sempre la sensazione di essere un po’ sbronzi.
Le foto del tempo23, lette in concomitanza con i racconti di queste donne, sono straordinariamente consonanti. I soldati americani, spesso giovanissimi e a loro modo innocenti si accompagnano con donne, giovani a loro volta, ma dal viso dipinto e artificioso. Si propone in tal modo una dinamica sofferente tra conquistatori e prede; i corpi delle donne sono offerti ma le “avances” amorose sono poi accolte passivamente, senza alcuna corrispondenza. C’è nel complesso qualcosa di patetico, sofferenze celate, senza erotismo e soprattutto senza affetto. Ciò contribuisce a spiegare la ragione del distacco con cui le intervistate parlano di questa esperienza; una linea di demarcazione distingue un “noi” che le comprende insieme alle altre donne della propria famiglia e del proprio ambiente alle quali la cultura, il decoro, il senso di sé avrebbero impedito il contatto con gli americani, e “le altre” , le signorine dei ceti popolari, che avrebbero consumato voracemente un eccezionale spazio di possibilità, inconsapevoli o incuranti della corruzione e del degrado a cui andavano incontro.
Tratti di soggettività tra vincoli comunitari e tendenze modernizzanti. L’esperienza della guerra non è solo sconvolgimento del quotidiano, ma costringe ed altera, rafforza modelli preesistenti, consolida vecchie adesioni, innesca anche nuovi comportamenti, crea spazi per aspettative diverse. Come si è già detto, la recente storiografia ha confermato che il Sud, a differenza del Nord, è uscito dalla guerra all’indietro, “in maniera non liberatoria e proiettata verso un futuro diverso, bensì con un’identità traumatizzata e
con un bisogno di tornare ‘nel guscio’”24. Questo giudizio può essere esteso anche al vissuto e al ruolo sociale delle donne. È possibile tuttavia cercare di capire come la guerra è entrata nelle loro vite, in che maniera ne ha marcato momenti importanti, quali elementi di soggettività si sono consolidati in quella esperienza. Non si possono evidentemente ricostruire percorsi chiaramente intenzionati, ma si delineano comunque tratti individuali attraverso i quali le singolarità si costruiscono, strette a volte da necessità insuperabili, altre volte proiettate in avanti da scatti improvvisi che non sempre liberano da vincoli e costrizioni. È alla guerra che Immacolata Miale attribuisce il non essersi sposata e soprattutto il non aver potuto avere figli suoi, costretta in tal modo ad accontentarsi di allevare bambini di altri per soddisfare il suo bisogno di tenerezza. Probabilmente non è vero e lei stessa ne è consapevole, ma ha bisogno di condensare in questo modo la deprivazione di un tempo fonda- mentale della vita, la giovinezza, che spesso le ragazze della sua generazione vivevano come preparazione al matrimonio (Immacolata aveva diciassette anni allo scoppio della guerra). Per molte donne, adolescenti in quegli anni, la guerra ha negato il tempo del gioco e della spensieratezza. Cecilia Bran- chini si rammarica molto di ciò.Ho perduto per sempre la visione di un mondo felice, ovattato, dove tutto è bello e non c’è la sofferenza; forse avevo letto molti romanzi rosa ma mi sono trovata all’improvviso in un mondo dominato dalla prevaricazione dei capi, del potere, e dove sono sempre i più forti, anche quando fingono di essere amici, ad avere la meglio.
La rapida maturazione a cui sono state costrette è sentita come un furto, come se fossero state defraudate per sempre.
23 Ci si riferisce ad esempio a quelle riprodotte da Sergio Lambiase e Gian Battista Nazzaro, Napoli 1940-45, Milano, Longanesi, 1978.24 G. D ’Agostino, La guerra a Napoli, cit., p. 84.
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L’adolescenza non l’ho vissuta perché la guerra mi ha fatto diventare subito adulta, sono dovuta maturare molto in fretta. Prima della guerra pensavo solo a divertirmi. Dov’è finita la serenità? Dovevamo solo cercare di sopravvivere. Abbiamo perduto qualcosa di molto importante, quattro anni della nostra vita (Anna Esposito).
In alcuni casi la guerra è stata ancora più drammatica, si tratta di donne che sono state vittime di traumi fisici o psichici, per cui la guerra non ha coordinate temporali precise, finisce addirittura con l’essere la cifra della vita:La guerra non finisce mai, è una cosa che dura sempre. Non ricordo niente di prima, per me è stata guerra dal 1935 e se pensi che allora avevo sette anni.
Il racconto ritorna su quell’unico evento luttuoso, quello che ha toccato il proprio corpo e la mente tanto da mettere in ombra il resto. È così per Sara Girosi, resa invalida permanente da un bombardamento, per Anna Esposito, l’unica scampata al massacro provocato dall’esplosione di un ordigno, per Fernanda Ventrella, ferma al racconto della morte straziante della madre e del fidanzato. La paura e la malattia sono i segni di una guerra che non finisce.Io ero là; ad un tratto ho sentito una voce che mi diceva: voltati. Io mi sono girata e la bomba è esplosa.
E così che la paura è entrata nella vita di Anna che è vissuta come in uno spazio sospeso, ansioso, dall’esterno può sempre venire una minaccia.Mia madre è stata trovata cementata nel fango, il mio fidanzato gonfio, con i lineamenti deformati, irriconoscibile.
Fernanda tenta da quel momento di sottrarsi a qualsiasi manifestazione di vita. Perde il senso dell’equilibrio, vive intere giornate al buio, non può più mangiare, non vuole più muoversi. In queste donne la normalità è lesionata, la soglia sempre fragile tra la salute
e la malattia è stata varcata; l’esperienza traumatica della guerra ha agito sul presente, amputando o condizionando gravemente il futuro.
Spesso le donne hanno trovato nella struttura familiare, sia nucleare che allargata una risorsa importante; abbiamo già ricordato come negli anni in questione le donne continuano a ricavare elementi d’identità all’interno dei nuclei sociali elementari, è facile dunque intuire che ciò avvenga, a maggior ragione, durante il conflitto. Per assicurarsi almeno la sopravvivenza e una qualche forma di protezione i vincoli familiari sono necessari, in assoluta mancanza di un sociale organizzato, per il progressivo peggioramento delle condizioni di vita e il dilagare della borsa nera e del contrabbando. Donne rimaste sole per la partenza del marito sono portate a cercare le sorelle e le madri; a volte vanno a raggiungere la suocera, quasi per sostituire il marito assente, in genere si cerca la presenza rassicurante del padre. Questo bisogno di protezione viene restituito dalla memoria perché il racconto diventa più sicuro, assume un tono più equilibrato quando si può parlare dei figli, del marito, dei genitori, a conferma che la tradizione familiare costituisce un elemento fondamentale per la costruzione della mentalità e della capacità di giudizi e valutazioni. È spesso la figura paterna a orientare i processi di formazione e a rappresentare un ponte tra il micro familiare e il macro sociale. Il padre, “uomo onesto, dignitoso e scrupoloso”, esponente del Partito popolare italiano, sindaco fino al 1923 di un paese del salernitano, è ricordato da Maria Borgia come il sicuro punto di orientamento dell’intero nucleo familiare, non tanto perché suggeriva idee politiche, ma perché spingeva a prestare attenzione ed interesse verso gli avvenimenti del tempo. Lei poi si racconta come una bambina entusiasta della partecipazione all’organizzazione sociale fascista (“Io sono stata figlia della lupa, piccola italiana, ho seguito con amore,
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ho vissuto molto intensamente l’organizzazione fascista”). Il sociale è vissuto in realtà come un’emanazione della famiglia: la società gerarchizzata che il fascismo propone è la proiezione all’esterno della gerarchia interna, strutturata sulla preminenza della figura paterna, amata e idealizzata. Quasi mai per le donne è l’ideologia a spingere ad entrare in sintonia con il regime, è piuttosto la proiezione in esso, quasi una forma di prolungamento, degli elementi della propria appartenenza familiare. Una riconferma viene anche da un’altra testimone, Vera Martinelli, di origine aristocratica:
La guerra per me era davvero la bella guerra. Se ci andavi e morivi, diventavi un eroe. La morte in guerra non comportava dolore, era rapida, senza sofferenza.
Ad una tradizione più antica si sovrappongono elementi più recenti, consolidatisi nelle memorie di famiglia:
Avevamo avuto un cugino morto nella guerra d’Africa ed uno zio nella prima guerra mondiale. Siamo cresciute nel loro ricordo.
La persistenza di una cultura aristocratica, all’interno della quale è comunque il padre il modello di riferimento, ancora forte in ambiti cittadini, consente a Vera di consolidare il proprio senso di appartenenza che dà forza al sé, operando un forte distacco dagli altri.
Tutte le donne che allora erano figlie fanno risaltare, in genere, il ruolo attivo dei genitori, senza dei quali la loro vita sarebbe stata impossibile. Nel racconto di Gaetana Marconi, che allora aveva 12 anni, la madre è ricordata come corpo protettivo:
L’unico rifugio per me era il lettone di mia madre che sentivo come protettrice immediata: aveva quel corpo grande, io mi mettevo molto vicino a lei, quasi sotto... rivolgersi a Dio in quei momenti mi sembrava inutile, perché avrebbe dovuto salvare proprio me? Mia madre mi avrebbe salvata. Pensavo: lei muore io mi salvo.
In altri casi la madre è colei che sceglie che cosa è meglio per tutti:
Siamo stati sempre una famiglia molto unita, ma allora sentivamo la necessità di stare insieme, di non separarci mai. Mamma prendeva le decisioni perché aveva un carattere forte, papà era come un altro figlio per lei (Anna Esposito).
A differenza delle donne della campagna che, pur sostituendo gli uomini in tutti i lavori, continuano ad attribuire loro il ruolo fondamentale nelle decisioni, le donne della città sono disponibili a riconoscere autorevolezza anche alle figure femminili, purché collocate all’interno della famiglia. Si propone nel loro vissuto la centralità e la forza dell’unità familiare, l’obbligatorietà dello stare insieme ad ogni costo. La solidarietà, che altrove sarà il connettivo di relazioni sociali e di nuove forme di organizzazione, a Napoli si è espressa prevalentemente all’interno dei nuclei familiari, rinsaldando antichi vincoli di sangue in un contesto che rimane arcaico.
Bisogna dunque scartare del tutto ipotesi di modernizzazione e di emancipazione per le donne di Napoli, tutto al più si possono leggere momenti in cui un io di donna si affaccia e si fa strada nel mondo sconvolto. Ciò accade, ad esempio, quando lo spazio del ‘fuori’ si sovrappone a quello del ‘dentro’ e bisogna trovare un ancoraggio per impedire l’annichilimento di sé:
Nonostante tutto non ho mai voluto rinunciare ai miei libri. Quando gli altri nel ricovero si lasciavano sopraffare dalla paura, imprecavano o pregavano, io leggevo e studiavo (Cecilia Branchini).
Mi ero data delle regole, mi costringevo a svolgere ogni giorno delle mansioni in modo da mantenere delle abitudini che riempissero la giornata; speravo così di allontanare l’ansia dei bombarda- menti e soprattutto continuare ad essere guida per gli altri. Mi sforzavo di creare un’atmosfera di normalità intorno a me (Grazia Rattazzi).
Si tratta di donne che hanno piena consapevolezza di aver saputo agire su di sé per otte
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nere forme di autocontrollo che esse sentivano necessarie per rassicurare i propri familiari, soprattutto i figli. Capacità messa in risalto anche da Bianca Levi Zagari che, durante i reiterati spostamenti, quasi un lungo peregrinare, mantiene la capacità e la lucidità per dare alle abitazioni provvisorie in cui è costretta con la famiglia comunque qualche segno di decoro e di vivibilità.Mi preoccupavo subito di procurarmi le tendine, dei piccoli soprammobili, qualche cosa che servisse a togliere lo squallore e il senso di precarietà.
Che cosa propongono queste donne? Un generico e comprensibile senso di attaccamento alla vita? O si può riconoscere un’attenzione alle cose dietro la quale si ripropone la cura degli altri? Si può allora dire che anche nel tempo di guerra le donne conservano la capacità di occuparsi degli altri, di averne cura? In questo si differenziano dagli uomini?
Qualche volta la guerra, che è anche tempo di sospensione delle regole, consente ad alcune spazi di libertà: “Per la prima volta mi sono sentita importante, gli uomini mi guardavano e dai loro sguardi ho capito che ero bella”. Eugenia Gargiulo, allora sedicenne, aveva vissuto senza madre, con il padre e la sorella, un’esistenza appartata, in cui c’era stato posto solo per lo studio e la cura per la casa. La guerra le porta in casa i soldati, alcuni militari inglesi. In questo contesto, che dovette essere assai particolare, in un’atmosfera romantico-sentimentale, vive per parecchi mesi i primi corteggiamenti, il piacere di essere ricercata, infine l’amore di un ragazzo che per lei “aveva preparato un altarino di lino bianco”. Alcune donne hanno affrontato per la prima volta un’e
sperienza lavorativa fuori delle mura domestiche con l’arrivo degli americani.
Mi sono resa conto che si poteva anche vivere fuori della famiglia, anche bene e dignitosamente. Cominciai a fare lavori che prima non facevo. Ricordo che anche altre donne in quel tempo facevano cose insolite, anche le meccaniche, le idrauliche (Lucia Palermo).
“Nuovissima” — come lei stessa la definisce — è l’esperienza di Grazia Rattazzi che da Radio Napoli, l’emittente radiofonica attivata e organizzata dal Psychological Warfare Branch, fa sentire la sua libera parola25. È “il primo assaggio di libertà”, ma è anche un impegno responsabile di una donna che riesce ad istaurare con le ascoltatrici un rapporto corale, quasi portavoce dei bisogni, dei disagi, in cui si trovavano a vivere le donne di Napoli. Da questa coralità la Rattazzi si sente caricata emotivamente e mentalmente, “ricca di vita e di slancio [...] svegliata ad una realtà più ricca e complessa di quella individuale” . L’autorappresentazione di queste donne spinge a collocare la loro partecipazione al conflitto tra un rafforzamento dei vincoli familiari, e quindi dei ruoli tradizionali e la capacità/necessità di agire diversamente, saper prendere decisioni, trovare soluzioni insolite di fronte al nuovo e all’imprevisto. Né nuove né vecchie, schematizzazioni davvero inadatte, né certamente spinte verso la modernità, le donne non possono essere ricacciate in un quadro di estraneità proprio di chi non fa storia. Più adeguato ci sembra allora riportare il comportamento delle donne entro categorie che comprendono la dimensione del vissuto che i racconti propongono. Utile è allora sia quel concetto di pragmatismo che usa Amalia Signorelli26 per delineare i modi diversi entro
G. Rattazzi, Una donna a Radio Napoli, cit., pp. 287-291."6 Cfr. le osservazioni a riguardo di Amalia Signorelli, La condizione femminile nel tramonto della società rurale (1945-1960), in Paola Corti (a cura di), Le donne nelle campagne del Novecento, “Annali dell’Istituto Alcide Cervi”, 1991.
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cui si trovano a vivere le contadine quando sta per scomparire la società agricola tradizionale, sia la proposta di Anna Bravo di leggere l’esperienza in termini di “contrattazione ininterrotta”27. Il rapporto donne-evento viene calato infatti in un contesto di relazioni e mediazioni che non le schiaccia nella strettoia di scelta/non scelta ma consente di dare valore e significato anche allo scarto minimo e alle diverse dimensioni del cambiamento. Le scelte, nella maggior parte dei casi, sono state fatte all’interno di spazi circoscritti dove comunque sono in gioco strategie di sopravvivenza, spesso è alle donne che si deve l’essere rimasti in vita. Un agire fondamentale, quello delle donne, che non sarà riconosciuto come tale a guerra conclusa, in ciò il Nord e il Sud non presentano differenze significative dal momento che dovunque le relazioni tra uomo e donna rimarranno asimmetriche. Non avrebbe potuto essere diversamente, soprattutto a Napoli, dove il sostanziale trionfo
del moderatismo prodotto dalle scelte del colonnello Poletti e dei governi angloamericani, l’immediata alleanza che la Chiesa propone al potere politico e la rapida riorganizzazione capillare delle parrocchie, l’impossibilità per molte di conservare quei posti di lavoro che avevano potuto occupare in assenza degli uomini, riproporrà in forme molte nette il controllo sulle donne.
A conflitto concluso le donne di Napoli avranno lo sguardo rivolto all’indietro, come se il bisogno del nuovo, in qualche caso sperimentato, dovesse essere messo da parte rispetto alla necessità, che il contesto faceva sentire come più forte ed urgente, di normalità e protezione. Arretramenti materiali, lutti, dolori ma anche scissioni interiori, esperienze di scacco, chiusure di spazi di libertà: questa sembra l’eredità della guerra. Ma altrove è accaduto diversamente?
Laura CapobiancoCesira D ’Agostino
27 La definizione di ‘contrattazione ininterrotta’ per spiegare i comportamenti delle donne è stata proposta da A. Bravo nel saggio Simboli del materno, in Id. (a cura di) Donne e uomini nelle guerre mondiali, cit.
STUDI STORICISommario del n. 4,1994
Delio Cantimori. Gli eretici del Cinquecento e la crisi europea tra le due guerreAdriano Prosperi, “Eretici" da rileggere; Massimo Firpo, Per una discussione su Delio Cantimori e la nuova edizione degli Eretici italiani] Giovanni Miccoli, La ricerca storica come “storia positiva”', Antonio Rotondò, Alcune considerazioni su Eretici italiani del Cinquecento; Silvana Seidel Menchi, “Ein Neues Leben": contributo allo studio di Delio Cantimori', Corrado Vivanti, Intorno a Umanesimo e Riforma; Bruno Bongiovanni, Rivoluzione e controrivoluzione conservatrice, Enzo Collotti, Gli scritti di Cantimori sulla crisi tedesca-, Jens Petersen, Cantimori e la Germania; Appello per la raccolta dei carteggi di Delio Cantimori.Il presente come storiaEnzo Ciconte, Mafia, ’ndrangheta, camorra: un processo di unificazione?
Opinioni e dibattitiPietro Adamo, L’interpretazione revisionista della rivoluzione inglese.RicercheInnocenzo Cervelli, Questioni sibilline.Note criticheGiuseppe Ricuperati, In margine all’edizione delle “Opere” di Giambattista Vasco.
I l d ib a ttito sugli Is titu ti della R esistenza
Oltre la normalizzazionePer una storiografia critica (e un nuovo senso comune democratico)
Stefano Battilossi
Gli Isr: una crisi di progettualità
L’errore più imperdonabile che si potrebbe commettere discutendo — vorrei dire, finalmente — del presente e del futuro degli Istituti storici della Resistenza sarebbe certo quello di considerare la questione in un’ottica puramente interna alla vita degli Istituti stessi. Purtroppo, sempre più rare si sono fatte in questi anni le occasioni per riflettere, pubblicamente e senza inutili diplomati- smi, sul ruolo della storiografia (e degli storici) nella cultura e nella società italiane.
[...] la ragione che pretende di essere critica e perciò di assistere e avanzare il processo di emancipazione, deve confrontarsi con il senso comune, l’avversario più potente. Di fronte al senso comune che riflette la mancanza di autonomia che definisce l’esistenza quotidiana, è la ragione, protesa verso la responsabilità adulta e la liberazione dell’azione umana, che è passibile di scherno e di confutazione sul piano dell’evidenza. C’è ben poco nell’esperienza di senso comune che possa dare adito a speranza. Anzi, la totalità della routine quotidiana sembra invece rivelarne l’ingenuità e screditarne le promesse. La ragione emancipati- va, sin dall’inizio, non ha il vantaggio dell’evidenza disorganizzata e spontanea, cosa invece di cui beneficia il senso comune. Appare quindi infondata, senza radici, mutilata da tutte quelle fragilità che il senso comune, articolato nel positivismo, addita come il più odioso dei peccati che la conoscenza possa commettere — fantasia, utopismo, irrealismo [Zygmunt Bauman].1.
D’altra parte, l’importanza stessa del ruolo svolto nell’ultimo quarto di secolo dall’Istituto nazionale e dalla rete degli Istituti nel decollo, per così dire, della contemporanei- stica italiana, impone di sollevare lo sguardo al contesto politico e culturale degli anni più recenti. Senza contare poi le sollecitazioni prepotenti ad una riflessione di carattere generale che provengono dalla consapevolezza di uno spostamento deciso a destra degli equilibri politici e sociali del paese, e dalla percezione netta che dentro tale dislocazione abbiano agito con forza le trasformazioni
1 Zygmunt Bauman, Critica del senso comune. Verso una nuova sociologia, Roma, Editori Riuniti, 1982, pp. 146- 147 [An Essay on Commonsense and Emancipation, Routledge & Kegan Paul, 1976].
“Italia contemporanea”, giugno 1994, n. 195
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culturali degli anni ottanta. Credo perciò che muovere da un orizzonte più ampio di riflessione corrisponda pienamente agli obiettivi che Luca Baldissara si era proposto nel suo intervento comparso nel precedente fascicolo di “Italia contemporanea”, dando per primo voce ad una sensazione di crisi degli istituti sicuramente diffusa tra quanti in questo ambito si muovono, e però incapace finora di articolarsi in iniziative concrete e in esplicite prese di posizione.
Per parte mia, la necessità di ragionare su questa crisi si ricollega in primo luogo ad una impressione complessiva di afasia degli Istituti, di crescente marginalità della loro proposta nel panorama culturale del paese, in una parola alla percezione della loro difficoltà ad intessere un dialogo fecondo con la società e a mobilitare nuove energie intellettuali. In questi anni, mi è parso di cogliere questa difficoltà soprattutto nella incapacità di rappresentare un punto di riferimento forte per la domanda di storia contemporanea — in senso ampio, come conoscenza e coscienza delle molteplici dimensioni della contemporaneità — che, pur in forme non sempre immediatamente decifrabili e tra mille contraddizioni, hanno continuato ad esprimere le nuove generazioni. Naturalmente una notazione del genere non vuol suonare come un verdetto ingeneroso sull’esperienza degli istituti, o come un giudizio di merito sulla loro attività; né ciò implica tantomeno una sottovalutazione del ruolo di quegli istituti capaci al contrario di proporsi come presenza culturale attiva nelle rispettive realtà2.
Tuttavia di crisi si può e si deve parlare. E con maggior convinzione quanto più si rifletta, anche in chiave del tutto impressionistica, sull’analoga condizione di logoramento che in questo decennio è stata condivisa da pressoché tutte le istituzioni culturali che hanno incarnato le tante tradizioni della sinistra, e non soltanto in campo storiografi- co. Gli Istituti Gramsci, la Fondazione Feltrinelli, la Fondazione Basso, l’Istituto Ernesto De Martino, per non citare che le sigle più gloriose — ma su un diverso versante si potrebbe menzionare il caso del Centro per la riforma dello stato — negli anni ottanta hanno attraversato, e nella migliore delle ipotesi solo parzialmente superato, fasi di grave offuscamento, rendendo evidente una generalizzata consunzione delle esperienze dei centri di ricerca legati, direttamente o indirettamente, alla sinistra storica. Gli istituti — per quanto alieni da una connotazione spiccatamente partitica, ed anzi tradizionalmente caratterizzati da una robusta autonomia (un patrimonio, questo, decisivo per il futuro) situata al crocevia tra partiti, associazioni partigiane e istituzioni locali — hanno condiviso appieno questa parabola discendente, sebbene una fisionomia in certo modo più istituzionale abbia contribuito a salvaguardare in parte le condizioni materiali della loro esistenza. Si è insomma fatta strada la convinzione che sia ormai giunto a conclusione un ciclo vitale di quella rete, mai particolarmente fitta, invero di istituzioni culturali che, sull’onda della grande mobilitazione degli anni sessanta e settanta, avevano accompagnato e sostenuto il conso-
2 Chi scrive dispone di una conoscenza del tutto approssimativa e indiretta dell’attività generale della rete degli istituti, ed è dunque tra le persone meno indicate a tracciarne un bilancio. Tuttavia gli elementi di giudizio ricavabili, ad esempio, dalle più recenti Anagrafi delle attività (convegni, seminari, mostre, iniziative di aggiornamento didattico e divulgazione) per il 1991 e 1992 testimoniano, oltre al funzionamento tutt’altro che ottimale della rete — alla redazione delle Anagrafi stesse ha partecipato in media la metà degli aderenti — anche il forte addensamento delle attività in un ristretto numero di istituti, a loro volta decisamente concentrati dal punto di vista territoriale. Cfr. “Notizie e Documenti”, 1992, n. 6, e 1993, n. 7, inclusi in “Italia Contemporanea”, rispettivamente 1992, n. 186, e 1993. n. 190.
Il dibattito sugli Istituti della Resistenza 421
lidamento disciplinare della contemporanei- stica, contribuendo al radicamento di uno spiccato senso della storicità nella coscienza di una fetta non marginale della società, tradizionalmente estranea (e per ottime ragioni) alla storiografia accademica3. Per ciascuno si è posta da tempo la questione, ostica ma ineludibile, di come trasformare la crisi attuale in una fase di maturazione e di rinnovata capacità progettuale, preludio ad un efficace rilancio della propria presenza culturale: passaggio arduo e niente affatto scontato, ma che tuttavia va perseguito se si vuole — per citare una felice espressione di Giuseppe Vacca — “riannodare i fili dell’intelligenza scientifica e della decisione politica” e “ricostruire l’agenda dell’educazione alla democrazia”4. Nessuno infatti può illudersi di poter conseguire risultati di qualche spessore, e di accedere a prospettive non aleatorie di consolidamento, senza che il rilancio della capacità di iniziativa assuma con convinzione e coerenza anche, ma vorrei dire soprattutto, il profilo di una energica battaglia culturale: una scelta che, del resto, affonda le proprie radici nel codice genetico degli istituti e della stessa tradizione antifascista.
I rischi della spoliticizzazione della storiografia (e del passato)
L’appello ai valori dell’antifascismo non può tuttavia limitarsi ad un richiamo di maniera, né tantomeno chiudersi nella pura e semplice riaffermazione di un patrimonio ideale e morale. Tanto più che negli ultimi mesi, anche da pulpiti del tutto inaspettati, erano fioccati giudizi (oggi possiamo dire per lo meno improvvidi) suH’esaurimento della funzione dell’antifascismo5, mentre ora la sconfitta politica della sinistra si presenta non scevra dal rischio, prontamente denunciato, di un “riflesso conservativo di un ancoraggio consolatorio al passato, fos- s’anche il più nobile e il più ignobilmente vituperato” , come appunto nel caso dell’antifascismo e della Resistenza6. Più avanti cercherò di chiarire in che senso il patrimonio dell’antifascismo, o meglio ancora una sua rielaborazione critica, possa fornire basi solide ad un rinnovato impegno culturale. In primo luogo, tuttavia, mi preme ribadire la necessità di un recupero pieno del cuore di una tradizione che ha a lungo considerato l’impegno storiografico come un modo di declinare il rapporto tra cultura e politica,
3 Un profilo generale della crescita del “bisogno di storia” nell’Italia degli anni sessanta e settanta è stato tracciato da Massimo Legnani, L ’organizzazione delia ricerca storica: Italia, in II mondo contemporaneo, Gli strumenti della ricerca, 2, Firenze, La Nuova Italia, 1983, e Orientamenti storiografici e consumo di storia, “Movimento Operaio e Socialista”, 1988, n. 1, pp. 91-97.
Il mantenimento di una fisionomia di sede di ricerca politica, fedele alla impostazione originaria, è il tema di fondo che ha dominato la recente discussione all’interno del Centro per la riforma dello stato (costituito nel 1972 su impulso di Umberto Terracini). Altri centri di ricerca, come il Cespe (Centro studi di politica economica) o il Cespi (Centro studi di politica internazionale), hanno viceversa già maturato un netto distacco dalla loro esperienza precedente, trasformandosi da centri produttori di ricerca autonoma in fornitori di servizi e consulenze. Si vedano il panorama tracciato da Aldo Garzia e gli interventi di Giuseppe Vacca e Pietro Barrera, “Il Manifesto”, 23 ottobre1993.
Sebbene possa suonare contrario alla corrente deontologica professionale, mi piace segnalare due brevi interventi, di taglio prevalentemente politico, nei quali ho ritrovato una profondità di riflessione storica non comune e spunti critici particolarmente felici nei confronti dell’attuale cultura politica della sinistra: Stefano Rodotà, Centristi, moderati, benpensanti, “Il Manifesto”, 5 dicembre 1993; e Rossana Rossanda, Aspettando la destra pulita, “Il Manifesto”, 8 aprile 1994.
Nicola Gallerano, Antifascismo. Come eravamo, come siamo, “Il Manifesto/Il Cerchio Quadrato”, 24 aprile1994, che sensatamente conclude: “Il miglior modo di richiamarsi oggi all’antifascismo consiste nel proporre una critica serrata dei suoi limiti storici”. Un senso analogo ha l’invito di Mario Isnenghi (Come tenersi le radici senza metterle in un museo, ivi) a non costituirsi in partito della memoria.
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intesa come esercizio intellettuale e morale, come coscienza e pratica della democrazia. È noto come quella continuità abbia conosciuto alla soglia degli anni ottanta una incrinatura profonda. Qui è necessario collocare la radice dell’attuale debolezza della contemporaneistica in Italia: una debolezza che scaturisce non dall’incertezza del suo statuto disciplinare — situazione comune, oggi, ad ogni scienza sociale; del resto, ogni processo di revisione di quelli che, con una formula oscura e allusiva, siamo soliti definire statuti epistemologici, prelude solitamente ad un salto di qualità dei paradigmi conoscitivi — ma piuttosto dal declino della sua funzione sociale.
L’ultimo ventennio storiografico ha assistito ad una grande maturazione metodologica, ad una apertura tematica senza precedenti, all’instaurazione di un rapporto fecondo e originale con le storiografie straniere: un processo di arricchimento, revisione e rinnovamento, composito ma accomunato — è stato scritto — da “un’ansia di concretezza, perseguita grazie allo smontaggio di categorie astratte, di forze impersonali, dei grandi aggregati macro-sociali (si parla ora di borghesie e non di Borghesia, di operai e non di Classe Operaia, dei meccanismi e degli apparati amministrativi piuttosto che dello Stato, ecc.), un’enfasi sulla diversità, una preferenza dichiarata per l’analisi piuttosto che per la sintesi, il rifiuto di recitare la lita
nia delle Grandi Narrazioni, ma pure — punto dolente — dal “fastidio non solo per una troppo facile cedevolezza alle sollecitazioni del presente ma anche in molti casi per la stessa, inevitabile ‘politicità’ della storiografia”7. In questo processo di spoliticizza- zione della storiografia si è gradualmente dissolto quel nesso forte con la riflessione e l’elaborazione politica che aveva nutrito, con intenti legittimatori o critici, l’intera parabola della contemporaneistica italiana, dalla tradizione storicistica del gramscianesi- mo alla rottura successivamente consumata dalla storiografia della nuova Sinistra, che ha rappresentato anche, per così dire, il ramo sul quale si è innestata la nuova storia sociale8. Che questa trasformazione abbia comportato anche una perdita per la contemporaneistica, pur nel giudizio unanime sul carattere salutare del bagno anti-ideolo- gico subito dalla storiografia a partire dalla fine degli anni settanta, appare una percezione comune e sufficientemente condivisa dagli storici, anche nella diversità degli approcci e delle appartenenze generazionali. Tale consapevolezza si è in alcuni casi concentrata sulla separazione della progettualità politica dalla riflessione storiografica sulle trasformazioni conosciute dal nostro paese dalla crisi degli anni trenta al grande rivolgimento sociale e culturale degli anni sessanta e settanta9; talvolta si è soffermata a constatare le sue ricadute negative sullo status pub-
7 Nicola Gaìlerano, Storie d ’Italia. Revisione e rinnovamento, “Linea d’Ombra”, 1993, n. 88.8 Mi limito qui a rimandare, dato il taglio dell’intervento, ai riferimenti essenziali che a mio giudizio meglio di altri rendono il senso della trasformazione della cultura storiografica italiana dagli anni cinquanta agli anni ottanta: in primo luogo l’antologia Passato e presente nel dibattito storiografico. Storici marxisti e mutamenti della società italiana 1955-1970, curata da Luigi Masella (autore anche di una preziosa introduzione), Bari, De Donato, 1979; la riflessione svolta tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta all’interno della Fondazione Basso (se ne colgono gli elementi di fondo nei contributi di Alessandra Pescarolo, Storia della classe operaia e “operaismo” in Italia. Alcuni problemi interpretativi, e di Mariuccia Salvati, Cultura operaia e disciplina industriale: ipotesi per un confronto tra correnti storiografiche, entrambi in “Movimento Operaio e Socialista”, rispettivamente 1979, n. 1, e 1980, n. 1; infine i bilanci critici tracciati da Francesco Barbagallo, Politica, ideologia, scienze sociali nella storiografia dell’Italia repubblicana, “Studi Storici”, 1985, n. 4, da Nicola Gaìlerano, Fine del caso italiano? La storia politica tra "politicità” e "scienza”, e Marco Revelli, Storia e scienze sociali: una storia senza tempo per un tempo senza storia?, “Movimento Operaio e Socialista”, 1987, n. 1-2.9 A partire dalla fine degli anni settanta “la dimensione storiografica, sempre rivendicata come indispensabile stru-
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blico degli storici stessi (“una delle conseguenze più preoccupanti — è stato scritto non senza una punta di amara autocritica generazionale — della de-politicizzazione eccessivamente accelerata, è stata la progressiva scomparsa di qualsiasi altra forma di identità collettiva e di impegno sul piano pubblico, sostituita invece troppo spesso dal consolidarsi delle regole di obblighi e comportamenti di più o meno ristrette famiglie regionali, accademiche o politiche”10); mentre in altri casi ha puntato sulla denuncia del vuoto creato dalla autoemarginazione degli storici dal terreno della politica culturale e dal declino di una concezione fortemente militante del lavoro storiografico, e rapidamente colonizzato da tentativi apertamente strumentali e di corto respiro di asservire la storia alla politica11.
È stata proprio la cultura storiografica della sinistra, protagonista principale di quel rinnovamento, a subire i più duri contraccolpi di questa trasformazione. Formatesi lungo un ciclo culturale nel quale storia e politica si fondevano in un sistema organico di rimandi reciproci, varie generazioni di storici di sinistra, di fronte alla crisi di un’ispirazione “esternalista” di che viveva la ricerca storica come una prosecuzione, è stato detto, della propria militanza politica12, sembrano aver subito la cesura della fine degli anni settanta senza riuscire a rielaborare positivamente quel legame tra militanza e “mestiere” che — in modi certo profondamente differenziati nelle premesse e negli esiti — rappresentava una matrice
ampiamente condivisa. Molti hanno sposato la causa della “professionalizzazione” dell’attività di ricerca e produzione storiografica, sana reazione contro vecchi ideologismi e strumentalismi, ma che in troppi casi ha tuttavia silenziosamente oltrepassato il confine che separa il consolidamento disciplinare dalla normalizzazione accademica, per approdare infine al disimpegno e alla rinuncia a ricercare forme diffusive di socializzazione della propria attività. La de- ideologizzazione ha comportato dunque anche la spoliticizzazione della storiografia; si potrebbe dire, l’esaurimento di un’esperienza della politica vissuta prevalentemente in chiave ideologica ha affossato anche la politicità — 1’ “impegno” nei confronti della società, un “orientamento alla prassi” declinato nelle forme della battaglia culturale — come dimensione imprescindibile della pratica storiografica (ma in generale di tutte le scienze sociali). Anche nei casi che meglio di altri si sarebbero prestati ad un discorso pubblico sul passato — penso alla “celebrazione” del ventennale del Sessantotto — l’autobiografia collettiva ha avuto la meglio sull’analisi interpretativa, la memoria degli storici ha finito per sovrastare la storia stessa. Se perciò in quel caso gli storici, come è stato notato di recente da Marco Grispigni, hanno finito per ritrovarsi estromessi dal processo di formazione di una memoria comune capace di costituirsi in identità e, più in generale, faticano a trasformarsi in maitre à penser, la ragione di fondo non andrebbe ricercata tanto
mentazione del laboratorio strategico dell’area della sinistra storica, sembra uscita di scena quantomeno per quel che riguarda la ricostruzione/interpretazione dell’ultimo mezzo secolo, senza nemmeno il modesto omaggio di una citazione esplicativa”: Io ha sottolineato M. Legnani in La storia contemporanea oggi: le ragioni di una crisi, conversazione a cura di Alberto De Bernardi, “Storia in Lombardia”, 1985, n. 3, p. 93.
Queste le somme tirate da Paola Di Cori, Soggettività e pratica storica, “Movimento Operaio e Socialista”, 1987, n. 1-2, p. 89.
Cfr. Tommaso Detti, La moda dei centenari: il “caso Garibaldi’’, “Passato e Presente”, 1982, n. 2, pp. 3-7.La notazione è espressa da N. Gallerano nella conversazione con Alberto De Bernardi, La storia contemporanea
oggi, “Storia in Lombardia”, 1988, n. 3, pp. 149-150. Un punto di vista esplicitamente generazionale adotta Mariuccia Salvati, Oltre il “disagio” di un generazione, “Movimento Operaio e Socialista”, 1988, n. 1, pp. 99-103.
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nell’impaccio di dover instaurare un rapporto col passato in una società che vive nell’eterno presente causato dalla disgregazione diacronica delle proprie vicende13, quanto piuttosto in quella sorta di ipersoggetivismo storiografico, chiuso nella elaborazione della “matrice di significati” (Portelli) costruita dalla propria memoria, e dunque tutto rivolto a declinare il senso del “pubblico (la mobilitazione sociale e politica) in identità “privata”, generazionale, piuttosto che a collocare quel poderoso fenomeno in una più generale prospettiva interpretativa delle società italiana e della storia del paese14. Se di crisi della contemporaneistica si può parlare, dunque, essa va intesa come difficoltà di elaborare un nuovo rapporto con la società, come incapacità di agire positivamente all’interno dei processi collettivi di produzione di senso e di formazione delle identità culturali e sociali, e di far fruttificare in quella direzione il carattere sempre più diffuso del sapere (pregio indubbio, pur in mezzo a tante contraddizioni, dell’esperienza dell’università di massa). Una via d’uscita da questa impasse non si profila spontaneamente all’orizzonte; tuttavia essa non può essere ricercata al di fuori del recupero alla storiografia — e, vorrei aggiungere, al suo dialogo con le altre scienze sociali — di una ispirazione illuministica, “critica” e “emancipativa”15.
Sull’abbandono da parte della storiografia di sinistra (continuiamo a definirla così per intenderci) del terreno della politicità gravano pesanti responsabilità per l’affermazione di un nuovo revisionismo, programmaticamente volto alla spoliticizzazio- ne non soltanto della storiografia, ma del passato stesso. Al termine della parabola compiuta dal ruolo pubblico della storia, ci si è trovati infatti per un decennio a fare i conti con un massiccio uso pubblico della storia, una inedita dimensione della comunicazione politica che attiene soprattutto alla portata mediologica, dunque potenzialmente di massa, del discorso pubblico sul passato16. Questo nuovo discorso pubblico sul passato si è fondato sulla sua sistematica decontestualizzazione, meglio sulla ricontestualizzazione di alcuni suoi frammenti all’interno di un discorso svolto prevalentemente nella forma puramente controversisti- ca della moderna comunicazione politica. L’introduzione del passato, a partire dagli anni ottanta, in questo inedito universo co- municazionale — elemento che possiamo considerare la sedimentazione della funzione legittimante (in senso alto) svolta in passato dalla riflessione storica nei confronti delle identità politiche — si è sviluppata nel quadro di una sufficientemente chiara egemonia politico-culturale-informativa che per ora
13 Marco Grispigni, L ’infido terreno di un presente ancora da raccontare, “Il Manifesto”, 10 febbraio 1994. L’intervento, che pure forniva numerosi spunti di dibattito, è rimasto significativamente privo di interlocutori.14 Lo stesso Grispigni aveva notato in precedenza come la maggior parte della letteratura prodotta dagli storici sul Sessantotto si fosse concentrata essenzialmente sulla ricostruzione di un “clima”. Cfr. M. Grispigni, Il Sessantotto. Un ciclo incompleto di protesta, “Italia contemporanea”, 1990, n. 181, pp. 737-741.15 Innumerevoli spunti forniscono in questo senso le molte sociologie critiche con le quali, viceversa, la storiografia italiana, abbacinata dal funzionalismo anglosassone, ha rinunciato a confrontarsi: penso, ad esempio, ad Alain Touraine, Per la sociologia. La mentalità sociologica come strumento di liberazione, Torino, Einaudi, 1978 [Pour la sociologie, Paris, Editions de Seuil, 1974], oltre che allo stesso Z. Bauman, Critica del senso comune, cit.16 Nel corso dell’ormai famoso Historikerstreit tedesco, è stato Jürgen Habermas a sottolineare (in riferimento alla tesi revisionista per cui l’Arcipelago Gulag sarebbe antecedente ad Auschwitz): “Solo quando un quotidiano pubblica un articolo in questo senso, il problema delPunicità dei crimini nazisti può assumere il significato che lo rende così dirompente nel contesto dato, per noi che ci appropriamo delle tradizioni dalla prospettiva di chi è in causa. Nella sfera pubblica, per la formazione politica, per i musei e per l’insegnamento della storia, la questione della produzione in termini apologetici di visioni della storia diventa un problema immediatamente politico”: J. Habermas, L'uso pubblico della storia, in Gian Enrico Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l ’identità tedesca, Torino, Einaudi, 1987, p. 107.
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chiamerò neo-moderata, contraddistintasi, per i ripetuti attacchi, dall’intento apertamente denigratorio, alla cultura politica della sinistra storica, esercitatasi dapprima nella spoliticizzazione del fascismo (dall’atteggiamento revivalistico e consumistico proposto dalle mostre del 1982-1984 sull’economia negli anni tra le due guerre agli sceneggiati televisivi stile “duce in pantofole”17) e concentratasi successivamente nella demolizione della stessa tradizione antifascista, la cui immagine è stata schiacciata su quella del Partito comunista — a sua volta stravolta ad arte (si vedano i casi “triangolo della morte” e Togliatti-Armir) — per meglio colpirli entrambi18. Oggi ci troviamo dunque a veder maturare i frutti dell’offensiva di quelli che Mason battezzò a suo tempo “paladini della nuova compiacenza e della nuova consensualità nazionale”: offensiva amplificata a dismisura dal sistema mediologico che ha concentrato la propria potenza di fuoco, non a caso, proprio sulla tradizione antifascista, rappresentata come “sinonimo di pregiudizio, di ignoranza, di oscurantismo, di moralismo col dito alzato”, e accusata di “combattere le battaglie di ieri, [di] essere per la disunione nazionale oggi”19. Il consenso diffuso
riscosso di recente nell’opinione pubblica dalla retrodatazione della “spartizione partitocratica” alla fase del Cln e dal battage sulla “pacificazione” nazionale (avviata sin dall’autunno del 1993 e culminata nella maldestra ma rumorosa operazione “Combat Film”), soprattutto tra i giovani meno forniti di anticorpi culturali e politici autonomi e perciò più esposti ad una ricezione passiva e conformista dei messaggi provenienti dal contesto dominante, ci hanno mostrato una volta di più, nel caso ve ne fosse bisogno, i guasti procurati dalla diffusione di questo nuovo senso comune, spoliticizzato e moderato, destinato a saldarsi spontaneamente al vecchio e nuovo vizio nazionale del qualunquismo.
Alle implicazioni di questa evoluzione si è prestata purtroppo, negli anni passati, un’attenzione assai inferiore al necessario20. Essa riporta prepotentemente alla ribalta l’urgenza di riflettere in generale sul ruolo degli intellettuali in un’epoca in cui la trasformazione dei sistemi sociali di comunicazione pone all’ordine del giorno la questione — come è stato scritto — della “colonizzazione delle menti”, e dunque obbliga a “considerare diversamente le questioni della libertà e della democrazia [poiché] la
17 Vedi, tra l’altro, Nicola Tranfaglia, Fascismo e mass media: dall’intervista di De Felice agli sceneggiati televisivi, “Passato e Presente”, 1983, n. 3, pp. 135-148; e Tim Mason, Il fascismo “made in Italy”. La mostra sull’economia italiana tra le due guerre, “Italia Contemporanea”, 1985, n. 158 pp. 5-32. Mason per primo ha insistito sugli aspetti di “apoliticizzazione della coscienza storica” e di “compiacenza postuma” (riprendendo un’espressione usata da Nello Ajello) e sulla denigrazione dell’antifascismo come componenti organiche del progetto craxiano di “socialismo tricolore”.18 Nulla può essere aggiunto a tale proposito alle lucide notazioni di Gianpasquale Santomassimo, Tradizione comunista e azzeramento della storia, “Passato e Presente” , 1990, n. 22, pp. 9-18; di Guido Crainz, Il conflitto e la memoria. “Guerra civile” e “triangolo della morte”, e Salvatore Lupo, La grande tempesta e la grande bonaccia. A proposito del caso Togliatti, “Meridiana”, 1992, n. 13, pp. 17-78.19 L’espressione fu stata, con riferimento al revisionismo “afascista” (defeliciano, ma non solo), da T. Mason, Il fascismo “made in Italy”, cit., p. 24, che concludeva: “La storiografia italiana dal 1946 in poi, ci viene spiegato in Tv [...] è stata viziata dalla prospettiva della Resistenza” . Vedi a tale proposito anche le lucide osservazioni di M. Legnani, La storia contemporanea oggi, cit., pp. 88-91; e di N. Gallerano, Critica e crisi del paradigma antifascista, “Problemi del Socialismo”, 1986, n. 7, pp. 123-125.80 “Oggi paghiamo la sottovalutazione del revisionismo come soggetto politico capace di egemonia”: questa la sconsolata ammissione emersa dal colloquio tra Alberto Burgio e Pier Paolo Poggio, Il revisionismo storico ultima deriva del senso comune, “Il Manifesto”, 30 novembre 1993.
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libertà politica non si limita al diritto di esercitare la propria volontà, ma obbliga ad interrogarsi su come tale volontà si è formata”21. “Ogni potere — ha ricordato recentemente Alfonso Berardinelli, riprendendo alcune magnifiche pagine della sociologia critica di Charles Wright Mills — per reggersi, ha bisogno di una cultura e del suo potere di seduzione. Ne ha tanto maggiore e costante bisogno il potere moderno di tipo liberale e democratico, che si regge più sul consenso che sulla coercizione. Ma ogni consenso, anche quando esclude la coercizione, ha bisogno di un uso strumentale della cultura. Ha bisogno di usare la cultura, o almeno una parte di essa, come semplice mezzo di autodifesa apologetica”22, come strumento essenziale di conservazione della stabilità sociale. Ciò non deve implicare tanto la restaurazione di una visione apocalittica, vete- ro-foucaultiana del potere demoniaco dei “manipolatori” delle coscienze — magari calando Berlusconi nelle braghe totalitarie (esageratamente ampie rispetto alla gracilità del personaggio) del Grande Fratello orwel- liano — quanto piuttosto interrogarsi sui molteplici, e talvolta contraddittori, piani di
produzione, formazione e sedimentazione di un “sentire” pacificato, sempre più norma- lizzato e opaco (un “senso comune”, appunto) che prepara il terreno ad un “consenso” — verso un modello culturale e sociale, in primo luogo, basato sul privatismo e sul consumismo politico23 — capace poi di tradursi, all’occasione, anche in consenso elettorale24.
Norma, normalità, normalizzazione: la “modernità” come ideologia del revisionismo italiano
È possibile rintracciare una matrice culturale omogenea nella costruzione di questo “discorso pubblico” moderato e pacificato sull’Italia contemporanea? La questione appare ovviamente troppo complessa per poter essere sciolta in poche battute. Quel che è certo, tuttavia, è il fatto che sulla bandiera issata dalle truppe, regolari e mercenarie, che da oltre un decennio combattono questa battaglia, campeggia a lettere di fuoco il motto: Modernità. La Modernità è infatti senza dubbio il logo, il marchio distintivo
21 Armand Mattelart, Come resistere alla colonizzazione delle menti, “Le Monde Diplomatique/Il Manifesto”, 2 aprile 1994, p. 2.22 Alfonso Berardinelli, C’era una volta... La critica della cultura, “Linea d’Ombra”, 1993, n. 88, p. 23.23 Illuminanti, e in qualche modo profetici, gli avvertimenti lanciati in piena era craxiana da Tim Mason, Moderno, modernità, modernizzazione: un montaggio, “Movimento Operaio e Socialista”, 1987, n. 1-2, pp. 57-58: “occorre ancora polemizzare con forza con chi [...] considera la smobilitazione politica come un elemento essenziale della maturità civile e il disinteresse per la vita pubblica un risultato positivo della modernità. L’anti-giacobinismo post-factum è particolarmente esplicito negli studiosi di scienza politica conservatori negli Stati Uniti [riferimento esplicito a Seymour M. Lipset] [...] ma tendenze simili possono essere rintracciate in tutti i paesi europei, special- mente in Italia, dove i modernizzatori stanno tentando apertamente di trasformare la partecipazione politica in puro consumo politico. [...] Questo aspetto del problema sembra essere completamente trascurato dai commentatori democratici e di sinistra, che hanno la tendenza ad ammettere [...] che i vantaggi della modernizzazione costituiscono un insieme indivisibile e che si consolida reciprocamente; che la riduzione del ribellismo e del clientelismo condurrà, non si sa come, ad una crescita della partecipazione democratica e delle virtù civiche. Niente di più ingenuo. Molte specie di civiltà vanno perfettamente d’accordo con l’apatia politica, il consumismo politico e il rifugio nel privato, e molti influenti studiosi, uomini politici e responsabili dei media ritengono che così le cose dovrebbero andare. Non è un paradosso [...] osservare che a Craxi e Berlusconi l’appello [...] ai valori civili e al civismo attivo deve apparire come un pericoloso arcaismo”.24 Riflessioni di grande interesse, assai ricche di spunti problematici, ho trovato nella conversazione tra Luisa Passerini e Claudio Pavone, Sentire/consentire: conversando di mass media e di libertà, “Problemi del Socialismo”, 1988, n. 1 pp. 142-158.
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del revisionismo nostrano: un revisionismo, occorre dire, mai approdato alla fondazione di una corrente storiografica, o all’elaborazione di una proposta interpretativa coerente — invano si cercherebbe su giornali e riviste la solidificazione di un Historikerstreit italiano — ma rimasto per così dire allo stato gassoso, diffuso e sfuggente al tempo stesso, “senso comune” in grado di conquistare senza grande clamore l’opinione media.
Di questo “clima culturale” si possono tuttavia enucleare alcuni elementi fondativi sufficientemente chiari. Senza dubbio, proprio dall’orecchiamento di alcune categorie interpretative mutuate dalla sociologia della modernizzazione Renzo De Felice, negli ormai lontani anni settanta, trasse spunto per costruire (con l’aiuto interessato di molti) intorno alla famosa Intervista sul fascismo il primo media-event storiografico dell’Italia contemporanea, riuscendo ad accreditare come operazione di innovazione culturale un’opera, la famosa biografia mussoliniana, segnata viceversa, come è stato notato da più parti, da una decisa regressione storicistica (la convinzione dell’unicità e individualità dei fenomeni storici, la diffidenza per l’approccio comparatistico delle scienze sociali) e dalla ricaduta nel peggior positivismo doumentario25. Fu in realtà il suo intento esplicitamente polemico nei confronti della vecchia e nuova storiografia di sinistra ad essere percepito da molti — specie da quegli
intellettuali che sull’abiura pubblica e rumorosa della precedente militanza comunista hanno costruito le proprie fortune di opinion-maker — come la rottura di una sorta di tabù culturale, un vero e proprio atto liberatorio. Così proprio le ben note debolezze concettuali di De Felice — l’uso puramente evocativo e incoerente della “modernità” del fascismo; la cancellazione sia della realtà politica del regime reazionario di massa, sia della dinamica dei conflitti sociali nell’Italia tra le due guerre; la demolizione del fascismo come problema storico (il nodo del rapporto tra regime autoritario e sviluppo del capitalismo italiano) fino alla sua banalizzazione e dissoluzione nei tanti “fascismi” personali26 — hanno rappresentato probabilmente, e in modo solo apparentemente paradossale, il miglior viatico di successo: proprio perché sul piano della banalizzazione, della semplificazione del messaggio, dell’allentamento dei vincoli della coerenza espositiva, la falsa acribia dello storico “afascista” si è potuta incontrare spontaneamente con l’esperienza autobiografica e l’opinione moderata tipica di quella maggioranza grigia e silenziosa che, assolvendo in parte anche se stessa, aveva già rimosso e metabolizzato l’esperienza del fascismo come “una dittatura all’acqua di rose” (Galle- rano).
Non sorprende dunque che qualche anno più tardi proprio sulla difesa di De Felice dal “tentativo di scomunica” messo in atto
25 II testo fondativo del revisionismo defeliciano resta la famosa Intervista sul fascismo, a cura di Michael A. Le- deen, Bari, Laterza, 1975. Per capire i suoi referenti culturali — dai sociologi americani della modernizzazione ai teorici del totalitarismo, fino all’influenza evidente del primo Nolte (quello del fascismo come “rivoluzione conservatrice”) — può risultare utile una lettura attenta dei giudizi disseminati nelle pagine de Le interpretazioni del fascismo, Bari, Laterza, 1977 (I ed. 1969), in particolare pp. 83-153. Notevoli discussione suscitò anche l’intervista su fascismo-antifascismo concessa da De Felice al “Corriere della Sera”, del 27 dicembre 1987.26 Per una critica all’impostazione defeliciana cfr. le osservazioni di M. Legnani, La storia contemporanea oggi, cit., pp. 95-96, e di N. Gallerano, Critica e crisi, cit., pp. 110-120, che parlano di un rapporto col passato “revivalistico, nostalgico, interamente pacificato”, richiamando la nota espressione di Le Goff sul “disincanto degli uomini di fronte alle asperità della vita vissuta”. Sul presunto “totalitarismo incompiuto” del regime fascista rispetto al “totalitarismo realizzato” del nazismo, cfr. la replica di Enzo Collotti, Lo stato totalitario, in Guido Quazza, E. Collotti, M. Legnani, Marco Palla, G. Santomassimo, Storiografia e fascismo, Milano, Angeli, 1985, pp. 25-40.
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dalla storiografia politicizzata di sinistra abbia preso le mosse il violento attacco di Ernesto Galli della Loggia (che per l’occasione depose gli abiti di opinionista e polemista politico, per indossare quelli — certo per lui meno usuali — dello storico) contro “la fondazione ideologico-polemica della storiografia contemporaneistica italiana”: un attacco tutto giocato appunto sulla constatazione di un rapporto “tormentato” con la modernità, di una “radicale sordità” opposta dalla cultura nazionale all’ “avvento del moderno e della sua epoca” e di una inveterata incapacità di “approntare gli adeguati strumenti critici e conoscitivi per affrontarlo”27 28. E appunto questo appare, in realtà, la basilare ragion d’essere del revisionismo italiano: la demolizione e la delegittimazione della tradizione culturale della sinistra storica, e in primo luogo dell’esperienza comunista. In questo ampliamento alla sfera culturale delle movenze denigratorie del “duello a sinistra” , modernizzazione si è rivelata la parola chiave concetto la cui forza riposa proprio nell’indeterminatezza, nel carattere allusivo, nella capacità di fungere da sinonimo di categorie generiche quali trasformazione e cambiamento^, ma con un surplus normativo che ne fa un’arma ambigua e particolarmente efficace29. Proprio sull’uso prevalentemente normativo del concetto di modernizzazione si è retta l’ossatura di base del revisionismo nostrano. Niente sembra in effetti adattarsi al contesto italiano meglio
della notazione secondo la quale “quanti scrivono di modernizzazione in generale danno giudizi di valore sul passato e dichiarano il loro impegno nei confronti del futuro: vogliono che il loro lavoro intellettuale contribuisca ad una particolare forma di progresso culturale e politico”30. La modernizzazione ha giocato insomma un ruolo cruciale in quanto base di una “retorica dell’intransigenza” (Hirschman) che ha rovesciato la tradizionale attribuzione di segno politico tra destra e sinistra: nel nuovo quadro di riferimento, alla prima è infatti spettata la palma dell’innovazione, del cambiamento, della maturità, laddove la seconda è stata confinata nell’arretratezza e nella conservazione. Questa duplice dimensione della modernizzazione, come categoria interpretativa e come norma, ha agito anche all’interno della distinzione operata da Cafagna tra modernizzazione attiva e passiva: laddove la prima è presentata appunto come “modernizzazione-progetto”, relativa essenzialmente alla dimensione politica, che comporta la presenza di un attore politico e sociale “che accolga la ‘sfida’ e articoli la ‘risposta’”31. Quello che ha preso corpo in questi anni appare dunque un universo complesso e in larga parte autoreferenziale, un campo fitto di rimandi e cortocircuiti. Come categoria interpretativa applicata alle trasformazioni sociali del paese, la lettura in chiave di modernizzazione (prevalentemente come trascinamento passivo del paese in un mainstream interna-
27 Ernesto Galli della Loggia, Una storiografia indifferente, “Il Mulino”, 1986, n. 4, pp. 594-599, nel corso del quale l’autore, forse nell’intento di regolare alcuni conti in sospeso, parla con inconsueto livore della storiografia “di sinistra” in termini di “eccesso di veemenza, eterogeneità di motivi, frequente elusiva capziosità dell’argomentazione”.28 Vedi, oltre a T. Mason, Moderno, modernità, modernizzazione, cit., pp. 45-51, anche le considerazioni di Carla Pasquinelli, Il posto della tradizione, “Problemi del Socialismo”, 1988, n. 2-3, pp. 70-72.29 Sulla forte carica normativa della categoria di modernizzazione, oltre ai contributi già ricordati, vedi anche Hans U. Wehler, Teoria della modernizzazione e storia, Milano, Vita e Pensiero, 1991, pp. 103-104 [Modernisie- rungstheorie und Geschichte, Gottingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1975].30 T. Mason, Moderno, modernità, modernizzazione, cit., p. 52.31 Luciano Cafagna, Modernizzazione attiva e modernizzazione passiva, “Meridiana”, 1988, n. 2.
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zionale32) è stata infatti vissuta a sua volta come modernizzazione della cultura italiana e cesura rispetto alla tradizione storicista- marxista (si è parlato giustamente di un uso esplicitamente polemico del comparatismo come contestazione degli assunti della storiografia egemone e nazionalizzante, dunque come una sorta di contro-storia nazionale33); al tempo stesso, utilizzata come idealtipo, essa è venuta tracciando il profilo di un modello — economico, sociale, politico — alla cui realizzazione puntava programmaticamente, normativamente, la stessa cultura modernizzante. Su questa ambiguità, interpretativa e prescrittiva, della modernizzazione si è giocata larga parte della più recente riflessione sulla tradizione antifascista e comunista, e per estensione sulla storia dell’Italia repubblicana.
Questo discorso eminentemente politico — una vera e propria critica dell’antifascismo in quanto base di legittimazione dei grandi partiti di massa protagonisti della vita pubblica nel dopoguerra — è stato recentemente portato ad una esasperazione radicale da Cafagna e Galli della Loggia. L’uno ha dedicato un agile pamphlet a demolire ogni singola pietra della tradizione politica dei comunisti italiani: assimilando la critica gramsciana della democrazia all’“agitazioni- smo intellettuale” dei Papini e dei Prezzolini; enfatizzando nel patrimonio culturale del Pei la continuità col peccato originale della radice soreliana (la politica come “mito” opposta alla politica democratica “dell’interesse e dello scambio”), dunque “la irresistibile propensione di adottare una logica della guerra, della rivoluzione, della dittatura”;
bollando la linea delle “riforme di struttura” come puro artifizio retorico rivolto alla mobilitazione permanente, basata sulla “amplificazione delle aspettative” e finalizzata al mantenimento del carattere “bellico” del partito; teorizzando infine come le fortune dei grandi partiti di massa — comunista e democristiano — siano dipese nel dopoguerra dalla loro capacità di occupare lo “spazio autoritario” lasciato vuoto dalla caduta del regime: interpretazione geniale, ancorché scarsamente argomentata, che gli consente in un sol colpo di smontare la mitica coppia antifascismo-comunismo e di dimostrare le origini autoritarie della partitocrazia34. L’altro ha rivolto i suoi sforzi (divisione del lavoro davvero esemplare!) a far piazza pulita della tradizione azionista, anzi del “gobetti- smo” e del “giellismo” torinese (Bobbio, Foa, Galante Garrone), erede anch’esso di quella “ideologia italiana” — “il paradigma mazziniano-desanctisiano, con i successivi innesti orianeschi, soreliani, vociani” — votata alla mobilitazione delle energie morali e sociali, alla saldatura tra intellettuali e “popolo” , “al di fuori e ‘oltre’ i normali canali della rappresentanza e la dimensione ordinaria della politica democratica”, dunque colpevole di aver elaborato un’interpretazione “asimmetrica” della democrazia (il “fondamentalismo antifascista” e la “opzione per un rapporto privilegiato con l’esperienza comunista”), di flirtare con i nemici mortali della democrazia (“pas d ’ennemis à gauche”), di “scimmiottare tutti i consiliarismi, proteggere tutti gli spontaneismi, auspicare tutte le socializzazioni di attività economiche e tutte le democrazie dal basso, [...] tut-
3~ La notazione è espressa da Mariuccia Salvati in un intervento (Società e politica nella storia d ’Italia di Paul Gin- sborg, “Quaderni Storici”, 1990, n. 74, pp. 611-612) a margine del libro di P. Ginsborg, Storia d ’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989 [A History o f Contemporary Italy. Society and politics 1943-1988, London, Penguin Books, 1990],
Cfr. Mariuccia Salvati, Storia contemporanea e storia comparata oggi: il caso dell’Italia, “Rivista di Storia Contemporanea”, 1992, n. 2-3, pp. 502-503.
Luciano Cafagna, C ’era una volta... Riflessioni sul comuniSmo italiano, Venezia, Marsilio, 1991.
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te le cose che non c’entravano nulla con qualsiasi supposta ispirazione liberal-demo- cratica o liberal-socialista”, di aver perpetuato insomma sin dentro l’Italia degli anni settanta “una temperie ideale e culturale da entre-deux-guerres” e “alimentato in modo decisivo e costante entro il campo democratico da essi influenzato, la tendenza a interpretare perennemente i movimenti sociali, nonché il ciclo e gli attori politici della scena repubblicana, in funzione della triade fasci- smo-antifascismo-comunismo: quasi che solo queste fossero le forze primigenie della storia contemporanea”35.
Se ho scelto di dilungarmi nell’esemplificazione, per quanto episodica, dei temi portanti di questa letteratura, è perché da questa emerge senza inibizioni l’atteggiamento revisionistico di fondo, vorrei dire il rovesciamento di segno che in questi ultimi anni ha dominato in Italia il discorso pubblico sul passato repubblicano ed ha accompagnato la transizione dalla prima alla seconda repubblica (e mi si perdoni l’uso, per bieca comodità, di questo luogo comune). Sarebbe tuttavia unilaterale un’interpretazione che guardasse a questo passaggio esclusivamente come una sorta di “rivela
zione” postuma dell’anticomunismo in quanto autentica base di legittimazione della repubblica: problema che conserva beninteso una sua corposità36, e che sotto certi aspetti si lega anche alle ripercussioni degli avvenimenti del dopo 1989, in una senso che esula peraltro dai confini nazionali per assumere una dimensione europea37. Più che combattere a viso aperto una coerente battaglia culturale, questo revisionismo ha occupato gli spazi abbandonate da una sinistra, assediata dalla sua stessa impotenza politica, che in questi anni ha silenziosamente consumato la rottura con la propria tradizione, ha rinunciato a ripensare e riscrivere la propria storia38, ha introiettato anch’essa l’orizzonte della modernizzazione con una valenza evocativa (anche qui modernizzazione suona espressione dai contorni indefiniti, sinonimo di “tradizione occidentale” , “socialismo europeo”, “riformismo”, “democrazia di tipo liberale”) e un impeto normativo e discontinuista spesso non inferiore a quello dei suoi avversari, seppure orientato in questo caso ad adeguare la propria cultura politica al “compromesso socialdemocratico”, alla logica dello scambio politico39. Qui la riflessione storica
35 E. Galli della Loggia, La democrazia immaginaria. L ’azionismo e V “ideologia italiana”, “Il Mulino”, 1993, n. 2. Per dovere di completezza, va aggiunto che Galli della Loggia aveva già da tempo iniziato a regolare i suoi conti col Pei descrivendo la cultura nazional-popolare come adattamento italico di uno zdanovismo impastato con Croce e Gramsci, e attribuendo la “crescente politicizzazione e socializzazione degli intellettuali” e l’impegno “a sinistra” della cultura alla trasformazione impressa alla figura degli intellettuali dal fascismo: cfr. E. Galli della Loggia, Ideologie, classi e costume, in Valerio Castronovo (a cura di), L ’Italia contemporanea 1945-1975, Torino, Einaudi, 1976, pp. 398-404.36 L’ha ricordato lo stesso Norberto Bobbio nella sua corrispondenza con Gian Enrico Rusconi, Lettere sull'azio- nismo, “Il Mulino”, 1992, n. 6, p. 1024.37 Cfr. le recenti notazioni di Jürgen Habermas sul ruolo svolto dall’anticomunismo nella Germania di Adenauer come mezzo per creare una falsa continuità della storia tedesca, espresse nel corso di una lunga conversazione con Adam Michnik: J. Habermas, A. Michnik, Overcoming the Past, “New Left Review”, 1994, n. 203, pp. 9-10.38 Vedi l’intervista di Marcello Flores a Enzo Collotti, Il Pei fra tradizione e rinnovamento, “Problemi del Socialismo”, 1985, n. 6.39 Numerosi potrebbero essere i riferimenti in proposito. Mi limito qui a segnalare Leonardo Paggi, Massimo D ’Angelillo, I comunisti italiani e il riformismo. Un confronto con le socialdemocrazie europee, Torino, Einaudi, 1986, in particolare il capitolo dedicato alle “modernizzazioni del Pei”; Gianfranco Pasquino, Il concetto di modernizzazione e il caso italiano, “Problemi del Socialismo”, 1988, n. 2-3; e il corposo saggio dedicato da Massimo L. Salvadori, Il fondamento unitario della “doppiezza” di Togliatti, apparso sull’ “Avanti” dell’l l marzo 1991, la cui tesi di fondo si riassume nella conclusione per cui “l’essenza dell’eredità storica del togliattismo è quella di aver
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sul “sistema politico bloccato” , sull’incapacità della sinistra di assumere il governo del paese, a partire dalla crisi della politica del compromesso storico ha trovato il proprio centro di gravitazione nell’universo concettuale della scienza politica, anzi nella sublimazione di una “storia della politica”40 che è si fatta appunto storia della modernizzazione della politica, e rivolge la propria attenzione quasi esclusivamente ai sistemi politici e alle loro regole, ai modelli organizzativi, al comportamento elettorale41, con una inclinazione giuridico-formale e costituzionale che traduce sul piano storico una cultura politica autoconfinatasi all’interno del sistema politico, una vera e propria monocultura istituzionale.
Non è difficile cogliere, in questo passaggio, un intento di omologazione culturale che si fa progetto politico di una nuova legittimazione. Non a caso, il riflesso storiografico di questo spostamento culturale, di questa ricerca di una “normalità” negata dalla propria storia si è manifestato di recente nel peso preponderante assunto dal problema dell’identità nazionale 42, concentratosi sui limiti dell’integrazione della società nello Stato attraverso i partiti e sul
conseguente atteggiamento di “distanza, passività, attesa” dei cittadini nei confronti dello Stato, in virtù del quale la atavica cultura nazionale del non impegno ha “assunto le vesti moderne della diffusa accettazione del sistema dei partiti” (Salvati). Di qui la denuncia della mancanza di un comune senso di nazione “affidato alla sedimentazione di culture e di atteggiamenti morali, ideali e culturali che in questo paese, negli ultimi cinquant’anni, non sono stati edificati e, dove c’erano, sono stati smantellati”43. Di qui anche le critiche alla modernizzazione italiana incompiuta, “strozzata, abortita” (Lana- ro), incapace di realizzare una piena “società industriale” (Sapelli) e di trasferirsi dal terreno della crescita economica e tecnologica a quello dello “sviluppo sociale e civile”44, e l’affannosa ricerca delle cause della “perdita dell’identità nazionale nell’Italia del dopoguerra”, ricercate di volta in volta nell’eredità del fascismo e della guerra, nel- l’intoriezione del concetto di sovranità limitata (quindi derivante dalla collocazione internazionale), nel carattere universalistico dei grandi partiti di massa (De e Pei), nella pratica del consociativismo. Di qui infine anche le considerazioni sull’ostacolo frappo-
costituito un ‘residuo* assai corposo sul cammino della modernizzazione del sistema politico e dei rapporti sociali in Italia”. Ad esso ha replicato con pacatezza e lucidità Aldo Agosti, Tradizione comunista e ",modernizzazione”. A proposito di un intervento su Togliatti, “Studi Storici”, 1991, n. 2.40 Piero Bevilacqua, Storia della politica o uso politico della storia?, “Meridiana”, 1988, n. 3.41 Sposa con disinvoltura questa programmatica riduzione del campo di indagine Maurizio Ridolfi, Storia sociale e “rifondazione” della storia politica, “Italia Contemporanea”, 1993, n. 192, pp. 529-536, che esemplarmente identifica nel Centro ricerche di storia politica di Bologna il demiurgo del più recente rinnovamento della storia politica italiana.42 Cfr. H.U. Wehler, Teoria della modernizzazione e storia, cit., pp. X-XI.43 Così l’intervento di Silvio Lanaro nella tavola rotonda svoltasi presso il Dipartimento di storia dell’Università di Firenze nel novembre 1992, con la partecipazione di Paul Ginsborg e Pietro Scoppola: cfr. la registrazione in L ’Italia repubblicana: tre autori a confronto, “Passato e Presente”, 1993, n. 29, pp. 19-20.44 Alcuni temi di fondo sviluppati da Lanaro nella recente Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, Venezia, Marsilio, 1992, tra cui quello della snazionalizzazione e della mancata costruzione di una identità nazionale, si trovano enucleati anche nella sua opera precedente, L ’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, Torino, Einaudi, 1988, soprattutto nel capitolo conclusivo Senza più patria?. Di contrapposizione tra “stato senza società” e “appartenenze senza stato” parla anche Mario Isnenghi, Dalle Alpi al Lilibeo. Il “noi” difficile degli italiani, “Meridiana”, 1993, n. 16, pp. 41-59. Cfr. anche Giulio Sapelli, L ’Italia inafferrabile. Conflitti, sviluppo, dissociazione dagli anni cinquanta a oggi, Venezia, Marsilio, 1989, che parla di “incompiuto sviluppo qualitativo”, di “precaria cittadinanza industriale” , di carente “integrazione funzionale”.
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sto alla integrazione tra società e Stato dalla carica antiformalistica propria sia della cultura cattolica sia di quella comunista (entrambe, si è detto, scuole di democrazia, veicoli basilari dell’adattamento del paese alle istituzioni democratiche, ma accomunate dalPantiformalismo, l’una in nome del diritto naturale contro quello positivo, l’altra in nome della democrazia reale contro quella formale), e l’affermazione della necessità del passaggio della cultura politica della sinistra dal terreno del conflitto a quello della cittadinanza, ovvero dall 'etica della convinzione all’etica della responsabilità*5. Come si vede, per questa generazione di “storici-testimoni” (la definizione è di Raffaele Romanelli) che, osservando l’intreccio tra continuità e innovazione, va puntando il fuoco dei riflettori “sui caratteri della trasformazione che si ritengono insoddisfacenti, ovvero non rispondenti ad un modello atteso, o prefigurabile, di modernità”45 46, il tema dell’identità spesso si è tradotto davvero in “un labirinto di segnali, analogie, allusioni”47:
meno riflessione sul passato e più sintomo della reazione di una generazione di intellettuali ad una “crisi di identificazione” culturale e della ricerca di un rapporto di questi storici con il proprio passato, a conferma di una “vicinanza ambivalente” tra identità culturale e identità nazionale (ciò che consente di rintracciare una “comunità interiore” e di tenere separati la nazione e lo Stato), al punto di spingere Balibar a chiedersi “se la nozione di identità culturale non [sia] oggi nient’altro che la metafora dell’identità nazionale? ”48ossia non solo una sua rappresentazione ma anche, e soprattutto, spostamento, fuga in avanti.
Una nuova storiografia critica, una diversa militanza culturale
L’offensiva che gli Istituti si trovano oggi a fronteggiare rappresenta dunque l’approdo di un lungo percorso attraverso gli anni ottanta, e rispetto al quale non vi sono facili
45 Cosi M. Salvati nell’intervento a margine del libro di Ginsborg, cit., pp. 612-614, nel quale è svolta la seguente breve digressione hirschmaniana esemplare di questo atteggiamento: negli anni ottanta “è cresciuta (nell’area cattolica come nell’area comunista, anche al di là dei pochi che già la praticavano) la consapevolezza che contro questo disinvolto e ben poco nobile ‘antiformalismo’ non valga tanto un richiamo ai ‘valori’, alla democrazia ‘reale’ (il che rappresenterebbe ancora una sorta di exit o defezione dalle ‘responsabilità’ attuali) quanto una convinta protesta per il rispetto della correttezza formale e della coerenza giuridica in quelle che si pretende (e vogliamo che sia) uno Stato di diritto. Il segno della fine della cultura che ha dominato il ‘lungo dopoguerra’ sta nella consapevolezza di questo cambiamento anche da parte di chi di quella cultura aveva fatto parte” .46 Così si è espresso, cogliendo a pieno nel segno, Raffaele Romanelli, Lanaro gioca in contropiede. A proposito di ‘Storia dell’Italia repubblicana’, “XX Secolo”, 1993, n. 7-8, p. 45, che scrive: “Poiché oggi tocca a una generazione di cinquantenni dare i primi rendiconti del mezzo secolo di storia repubblicana, è inevitabile che la ricerca di una identità collettiva rechi tracce di autobiografismo. [...] Come storici-testimoni ci accingiamo a documentare i profondi mutamenti avvenuti durante il cinquantennio in una società che in ogni senso si è ‘modernizzata’, ma i dati sono così presenti nella nostra biografia che stentiamo ad esporli [...], ciò che ci urge è il commentarli, e gridare una delusione”.47 G.E. Rusconi, Identità, “Laboratorio Politico”, 1982, n. 5-6, p. 158.48 “Non è significativo che la nozione di identità culturale sia invocata di preferenza in congiunture di conflitto o di ‘crisi’? L’identità non è mai tranquillamente acquisita: è rivendicata come garanzia contro una minaccia di annientamento. [...] L’identità è un discorso della tradizione. E uno dei nomi privilegiati della tradizione, nelle società contemporanee, è precisamente ‘cultura’. In realtà, non c’è perciò una identità o più identità, ma solamente identificazioni: sia con l’istituzione stessa, sia con altri soggetti tramite l’istituzione. O, se si vuole, le identità non sono che l ’ideale perseguito da processi di identificazione, il punto d’onore, di certezza o di incertezza, della loro coscienza, quindi il loro referente immaginario”: Etienne Balibar, Cultura e identità, “Problemi del Socialismo”, 1989, n. 3, pp. 17-19 e 27.
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vie di fuga. Non stupisce perciò che, nell’attuale dibattito massmediologico (più simile, a dire il vero, ad un confuso corpo a corpo) destinato presumibilmente a preparare il terreno per le celebrazioni del cinquantennale della Liberazione, le argomentazioni — e tanti protagonisti (i Colletti, i Melograni, i Guerri) — siano gli stessi di dieci anni fa, con quel più di arroganza conferita loro dalla favorevole congiuntura politica49. Ben più grave mi pare, oggi, il segnale che proviene dalla reazione di coloro che all’orizzonte ideale dei valori della Resistenza e dell’antifascismo hanno continuato a richiamarsi: una reazione puramente difensiva, di arroccamento, tutta racchiusa nella riaffermazione di quella cultura dell’antifascismo profondamente radicata nella grande mobilitazione democratica della metà degli anni settanta, fortemente debitrice del clima dell’unità nazionale contro 1’eversione neofascista e il terrorismo brigatista — la continuità del patto antifascista sottoscritto dalle forze politiche nella Resistenza, la Costituzione come cemento unitario dello stato repubblicano — recuperando quasi integralmente quella dimensione patriottica e nazionale che i movimenti degli anni sessanta e settanta avevano contestato in nome di una visione spontaneista o classista, in ogni caso anti-i- stituzionale, della lotta di liberazione.
Occorre dire perciò che difendere la pro
pria identità non basta. Anche senza voler cedere al catastrofismo d’occasione, i più recenti avvenimenti politici hanno dimostrato fino a che punto quel sentimento collettivo e unitario si sia venuto sfibrando nel corpo della società italiana; così come la memorabile e generosa risposta popolare del 25 aprile non può alimentare facili illusioni sulla possibilità di superare d’un sol colpo l’eredità culturale di un decennio di disgregazione e di traumi ideali e sociali. Lo aveva già segnalato, quasi dieci anni or sono, Nicola Gallerano: “la critica diffusa del paradigma antifascista segnala il logoramento della funzione cui esso aveva assolto nel quarantennio repubblicano, di fondamentale strumento di legittimazione del sistema dei partiti uscito vincitore dalla Resistenza”50; ciò appare oggi tanto più vero quanto più la crisi dei partiti della sinistra storica ha abbattuto definitivamente molti argini interiori, mentre molta nuova intellettualità di sinistra guarda oggi alla propria tradizione con disincanto laicistico, con cinismo e talora persino con insofferenza, come ad un impaccio di cui sgravarsi nel modo più indolore. Di fronte al rischio di limitarsi alla riproposizione dell’antifascismo come schieramento, “connotato conservatore di legittimazione [di un] ordine politico dominante” (Revelli) ormai consunto, occorre perciò recuperare all’ispirazione della proposta culturale degli
49 Fu allora che dalle pagine del “Corriere della Sera” Lucio Colletti pronunciò la famosa sentenza (poi ripresa in innumerevoli ossasioni) secondo cui, mentre la democrazia doveva considerarsi sempre antifascista, vicerversa non sempre l’antifascismo poteva considerarsi democratico. Per avere un’idea del clima generale intorno al quaranen- nale della Liberazione basta scorrere la rassegna stampa curata da Massimo Legnani, Paola Pirzio e Chiara Rober- tazzi, “Italia Contemporanea”, 1985, n. 159, pp. 135-141.
N. Gallerano, Critica e crisi del paradigma antifascista, cit., pp. 128-129, che denunciava anche il silenzio e la latitanza della sinistra antifascista, politica e intellettuale, bloccata da una pavidità culturale recalcitrante di fronte all’idea di affrontare apertamente luoghi comuni e tabù della propria tradizione: tra questi Gallerano ricordava “l’immagine ortodossa di un antifascismo unanimistico e appiattito sul terreno patriottico”, la “rimozione del lacerante e contraddittorio processo vissuto dalla coscienza collettiva per liberarsi dalle sue compromissioni con il fascismo”, il problema della violenza e della “guerra civile”, augurandosi infine che la crisi del paradigma antifascista rappresentasse l’occasione per sciogliere quei nodi irrisolti. A quasi dieci armi di distanza — e pensando anche al paradossale effetto sortito, a livello di dibattito pubblico, dalla pubblicazione dell’opera di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1981 — quei nodi appaiono sempre più irrimediabilmente inestricati.
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istituti l’orizzonte di una cultura dell’antifascismo, basata su una concezione della democrazia radicale, partecipata, sociale, antagonistica, aperta al conflitto e alla sfida tra democrazia dal basso e organizzazione del consenso51, ma anche sul rifiuto del razzismo e della cultura dell’esclusione, sul pacifismo e la solidarietà tra i popoli. Solo una cultura antifascista che si faccia portatrice di una coscienza critica della struttura gerarchica della società, dei poteri forti, dei livelli di dominio palesi e occulti può replicare con successo ad una cultura dominata dal funzionalismo, dal rispetto dell’ordine e delle norme compatibili con i meccanismi sociali dominanti, dalla percezione del conflitto come disordine, patologia sociale, radice di disgregazione52. Solo una cultura politica democratica basata suH’ampliamento e sull’arricchimento dei contenuti della cittadinanza, sull’auto-organizzazione e sull’autogoverno della società, può contrastare culturalmente un ciclo politico che si preannuncia dominato da forze che, legittimate dalla devastazione operata dal cinquantennio di potere democristiano — un welfare particolaristico e clientelare, un mercato del lavoro segmentato e inefficiente, un sistema formativo scle- rotizzato — disegnano senza infingimenti un percorso a ritroso, di restringimento della cittadinanza53.
Alla costruzione di questa nuova cultura critica la storigrafia deve saper partecipare con grande intensità. Sul terreno storiografi- co, una rinnovata consapevolezza della poli
ticità intrinseca del sapere storico non potrà che alimentarsi costruttivamente della tensione, ormai consolidata nella contempora- neistica, tra microstoria e macrostoria, tra soggettività e oggettività, spazio all’interno della quale può maturare il contributo più originale della storiografia alla conoscenza critica delle società capitalistiche contemporanee. Per questo, il futuro programma di ricerca degli istituti — ché questo mi pare un passaggio ineludibile per il rilancio dell’attività — non potrà che porre al centro della propria riflessione, e in tutta la sua latitudine, la questione della “democrazia” (“realtà e apparenza della democrazia” recitava nel 1972 il programma della appena costituita “Rivista di storia contemporanea”) elaborando nuove categorie interpretative e coniugando la prospettiva, dei governati — una storia della cittadinanza, come critica dei potere e storia dei diritti civili e sociali — a quella istituzionale dei governanti — il “doppio stato”, le riforme mancate.
Contro ogni tentazione di smobilitazione intellettuale, contro il rischio di far vincere una cultura passiva della democrazia, il rilancio degli istituti può costituire inoltre l’occasione di una inconsueta mobilitazione culturale. La via da tentare mi pare quella di una “militanza intellettuale”, capace di trovare il proprio referente non più nel moderno Principe decaduto, ma nella autonoma capacità di raccogliere, organizzare, promuovere ad una dimensione attiva e partecipativa nuove energie intellettuali. Per
51 Ha felicemente riassunto questo orizzonte Marco Revelli, Fascismo e antifascismi, “Italia Contemporanea”, 1990, n. 179, pp. 307-311.52 Dello struttural-funzionalismo come di una “filosofia sistemica perennemente preoccupata anch’essa dell’ordine e dell’equilibrio in ossequio alla sua vocazione ideologica” parla giustamente Maria Caterina Federici nella voce Conflitto, in Marina D ’Amato, Nicola Porro, Sociologia. Dizionario tematico, con una prefazione di Franco Fer- rarotti, Roma, Editori Riuniti, 1985.53 Sulla divaricazione tra l’ottimismo evoluzionistico di T.H. Marshall, che considera la cittadinanza come acquisizione irreversibile, e viceversa la contestazione di questo carattere di necessità e irreversibilità dei processi di estensione della cittadinanza da parte non solo dei sociologi neomarxisti, ma anche di autori come Giddens, aperti all’influenza teorica del marxismo, cfr. la concisa ma efficace voce Cittadinanza, curata da Nicola Porro, in M. D’Amato, N. Porro, Sociologia, cit.
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questo credo che si imponga alla discussione anche una profonda revisione del modello associativo degli istituti, con l’obiettivo di farne — oltre che centri promotori di ricerca e di progettazione culturale — anche organismi capaci di costituirsi in comunità scientifica e intellettuale, di mobilitare la parteci
pazione attiva e propositiva di quella intellettualità diffusa prodotta dall’università di massa, e che rappresenta una risorsa latente e spesso non sfruttata solo per mancanza di punti di aggregazione e di riferimento.
Stefano Battilossi
Dagli istituti “militanti” agli istituti “scientifici”
Stefano Magagnoli
È oramai risaputo da tutti coloro che operano a contatto con gli istituti storici della Resistenza che intorno ai grossi nodi della vita organizzativa ed associativa (attività storiografica, organizzazione interna e rapporti federativi nella rete, prospettive organizzative terminata la celebrazione del Cinquantesimo, ecc.) sta cominciando ad articolarsi un dibattito serrato, reso probabilmente più sentito in questa fase dagli avvenimenti politici nazionali, ma che trova all’interno degli istituti i punti principali di partenza. A tale dibattito si vuole offrire un contributo con queste note, convinti della necessità di portare alla superficie con solerzia tutti gli interrogativi di fondo, ragionando e discutendo approfonditamente le possibili opzioni. Certo la forte disomogeneità esistente tra i vari istituti — sotto il profilo statutario, dei referenti finanziari, degli ambiti e dei livèlli della loro attività — costituisce un energico richiamo alla realtà: e come tale deve agire, evitando affrettate generalizzazioni e mantenendo dunque l’intera discussione in equilibrio tra riflessioni di natura generale e considerazioni attinenti ad ogni specifica realtà locale. L’intervento dunque si interrogherà su temi ed aspetti generali della vita degli istituti, la cui origine va però ricercata, al tempo stesso, nel portato e nelle esperienze
maturate nel caso locale (quello dell’Istituto di Modena). Ma intende essere anche intervento di sollecito — di pressante sollecito — affinché le discussioni e le proposte, le ipotesi e le perplessità, finora mormorate a mezza voce, si trasformino nelle voci di una discussione collettiva da cui non disgiungere, peraltro, i caratteri dell’urgenza avvertita e manifestata pressantemente da più parti, che su questi temi invita a confrontarsi quanti si “riconoscono” nel ruolo e nell’attività svolti dagli istituti.
Istituti, Resistenza e storia d’Italia: il “nodo delle origini”
La comprensione dell’intera parabola di nascita e di sviluppo degli Isr non può essere compiutamente articolata senza calarla nel contesto storico-politico nel quale essi presero forma e la cui cornice racchiude il quadro di profonde lacerazioni — percepibili tanto sul piano politico quanto su quello morale — che caratterizzò la nazione italiana nell’immediato dopoguerra. La volontà, dunque, di ricostruire i collegamenti e gli strumenti per l’unità, prima ancora che politica, morale tra gli uomini che in prima persona avevano posto in campo la propria soggetti
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vità vivendo attivamente l’esperienza resistenziale, costituì l’intelaiatura primaria del pensiero dei primi ideatori e sostenitori della fondazione dell’Istituto nazionale nel 1949.
Al centro del proprio programma di attività — programma che per certi versi rappresenta la più autentica dichiarazione di identità — l’Insmli si prefisse il compito di documentare gli eventi resistenziali, attraverso la raccolta di materiali archivistici (ma non solo), soggetti altrimenti al rischio di dispersione o all’inglobamento nelle strutture statali, con i conseguenti vincoli alla consultabilità che ne sarebbero conseguiti. Non di sola raccolta si trattò, però, bensì anche della creazione delle condizioni per avviare la ben più rilevante opera di documentazione/ interpretazione critica che si andò successivamente consolidando. A ben vedere, tuttavia, le motivazioni che spinsero sulla via della documentazione della Resistenza furono in realtà più complesse, sottilmente intrecciate fra loro a costituire una valenza non univoca e tuttavia, nella logica dei “fondatori” — ben venga il bisticcio —, armoniosamente logica.
Proporsi di documentare la Resistenza significava così affermare — sottolineando l’affermazione col tratto rosso di un concreto operare — la centralità nella dialettica politica dei valori fondanti e pervasivi della Resistenza, che venivano posti come elementi determinanti e discriminanti nella costruzione e nell’affermazione di un sistema politico democratico antifascista. E al tempo stesso si creavano le condizioni per affermare la legittimità politico-culturale di coloro che nella Resistenza avevano investito pienamente il proprio impegno — identificando con essa il proprio destino — rivendicandone il ruolo di nuova classe dirigente del Paese. Intrinseca peraltro a quell’obiettivo e strettamente collegata alle altre valenze, si celava 1’“eresia storiografica” fondativa degli Istituti: la rivendicazione, avanzata dagli storici più sensibili, della piena legittimità di fare storia anche degli avvenimenti recenti.
L’acquisizione, in altre parole, sul piano metodologico, del presente come oggetto storico, derivato da un passato così vicino da apparire quasi — come tanto a lungo apparirà — un ingombrante presente.
Fissato tale presupposto si trattava di identificare i criteri metodologici di lavoro, gli strumenti con i quali filtrare una così delicata operazione storiografica. La scientificità documentaria, il rigore filologico, l’onesta — e dichiaratamente “militante” — interpretazione degli avvenimenti furono i presupposti con cui lo studio della Resistenza venne avviato, affermando lo schietto e preciso rifiuto di una storia presuntamente neutrale, “anodina”; acquisendo e valorizzando così i principi ispiratori dell’antifascismo. Momento della ricerca e momento della militanza civile in questo modo coesistono e si fondono, armonizzandosi in un unico e bivalente programma di attività. L’intreccio tra impegno civile e storiografia appare dunque come parte essenziale e costitutiva del patrimonio degli istituti: si rivela in sostanza elemento genetico della loro presenza e nella loro attività. Parte essenziale e, direi, qualificante sotto il profilo del loro rapporto con la società, ma soprattutto diversificante rispetto all’opaca “neutralità” delle Deputazioni di storia patria o di un mondo universitario che in modo particolare negli anni cinquanta appare ancora totalmente calato nel più paludato “accademismo”.
Tale intreccio comunque fu portatore anche di embrionali nuclei di contaminazione, che avrebbero manifestato in seguito i propri tratti di ambiguità. Ma in che modo? Quando nel 1958 Giampaolo Pansa mosse un’articolata critica a determinati aspetti dell’attività dell’Insmli, fotografò uno dei due elementi latenti di insidia. Egli, infatti, sottolineò l’esistenza di una frattura generazionale tra una corrente di giovani, che non avevano potuto vivere gli eventi resistenziali e che a distanza di quindici anni stavano riscoprendo l’esperienza della lotta di libera
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zione tentando di rielaborarla sul piano della storiografia, e certi protagonisti che stavano attardandosi in una terra di nessuno, ubicata fra memorialistica e storiografia, senza partecipare chiaramente né al primo, né al secondo di questi settori. Pansa coglieva, cioè, una delle prime contraddizioni che la genetica costitutiva dell’Insmli, e più in generale degli Isr periferici, stava provocando sul piano dell’attività e dell’elaborazione scientifica. Questa contraddizione in seno all’Istituto nazionale, tra repliche e polemiche, avrebbe trovato tuttavia una soluzione con l’affermazione di una nuova leva di storici professionali in grado di condurre l’attività fuori dalle secche denunciate da Pansa. Tutto ciò però si rivelò sovente ben più difficile da risolvere per gli istituti periferici, i cui indirizzi di ricerca e la cui produzione scientifica sarebbero stati influenzati anche in seguito dagli effetti della demarcazione debole tra storiografia e memorialistica e da cui anche i lavori di taluni giovani studiosi locali — dunque non protagonisti dell’esperienza resistenziale — sarebbero stati inficiati.
Il secondo aspetto dell’“ambiguità” sta nell’irrisolto nodo del richiamo ai valori dell’antifascismo, i cui concetti di fondo necessitano oggi di un’operazione di precisazione e di puntualizzazione. Per sgomberare il terreno da eventuali equivoci, vorrei anzitutto premettere che le riflessioni che avanzerò non vogliono in nessuna maniera avallare le tesi di coloro che nella Resistenza, e nel successivo e conseguente processo di impianto e di sviluppo dei partiti politici — tesi che invero hanno trovato in anni recenti fortuna crescente —, hanno creduto di rinvenire il gene maligno della nazione italiana, P“arca delle alleanze” perverse in cui si sono celate ed annidate tutte le cause dei disagi politici del dopoguerra. Il nostro è semmai un tentativo di riflessione, disincantato quanto l’appartenere ad una giovane generazione può consentire, ma pur solidale sul piano delle
affinità politico-culturali con i tratti distintivi delle scelte fondative. In altre parole, è possibile un’operazione capace di precisare e articolare il concetto del richiamo alla Resistenza ed all’antifascismo, in modo tale da rendere più fluide — e comprensibili — le variegate sfumature che in esso si intersecano e che concorrono alla sua coesione?
In primo luogo, mi sembra irrinunziabile operare una salutare disincrostazione dei sedimenti agiografici sulla Resistenza che gli stessi Isr — non in tempi recenti che anzi sono stati testimoni dell’avviarsi della ricerca e della produzione bibliografica su ben altri sentieri, ma in un passato però nemmeno troppo lontano — hanno concorso a produrre. L’antifascismo è stato propulsore e cemento coesivo del movimento di liberazione, sta nelle radici stesse degli ideali della Resistenza, ma non si esaurisce, né appare circoscritto al solo biennio armato, pervadendo sin dagli anni venti fasce significative, ancorché minoritarie, della società italiana. È, poi, nella lotta di liberazione che esplicita il proprio potenziale migliore, la propria espressione più alta, manifestando attraverso forme violente di lotta ma anche attraverso l’elaborazione di un paradigma propositivo sul piano politico, economico e istituzionale per il dopo-liberazione, la propria effettiva consistenza e il proprio radicamento. L 'antifascismo si presenta come testimonianza ed affermazione di un pensiero antifascista (la tautologia non è casuale), che del fenomeno e dell’esperienza fascista rigetta totalmente le implicazioni della violenza assunta a strumento di azione e di potere, dell’assenza di dialettica politica e culturale, della censura del pensiero libero, dell’arbitrio e dell’esercizio della coercizione nei rapporti sociali e politici; che “riconosce [...] il carattere intimamente oppressivo del fascismo come fattore costitutivo e non solo degenerativo, nei confronti di ceti, classi, idee, individui determinati [...]”, perché si tratta di un regime nel quale “la distruzione dello
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stato di diritto non è un fatto accidentale o incidentale [...]; è un fatto costitutivo dell’ideologia e della pratica del fascismo”1.
Quasi per paradosso, però, tali valenze dell’antifascismo possono essere astratte dall’esperienza resistenziale del 1944-1945, poiché per quanto caratterizzata da essa in profondità, non ne fu però la culla esclusiva2. Sono persuaso, infatti, che al concetto di antifascismo vada attribuita una valenza specifica trascendente i poli cronologici della Resistenza (da ciò consegue l’acquisizione consapevole che il processo di documentazione degli eventi di guerriglia deve trasformarsi da soggetto della militanza a oggetto di studio). Tale valenza però è necessario che sia profondamente radicata in mature forme di pensiero democratico, di cui la dialettica, la tolleranza, l’autonomia, il rifiuto dei sistemi autoritari ed il diritto al dissenso costituiscano l’articolazione primaria. È, allora, l’assunzione di questa discriminante antifascista il topos caratteristico degli Isr, e con essa l’affermazione dei valori di unità nazionale, politica e culturale, al riparo delle contaminazioni pregne di carica nazionalista e razzista delle quali la cronaca di oggi è testimone; è, infine, il riconoscimento della dialettica e dell’autonomia come valori e patrimonio fondamentali (rifuggendo tuttavia da quella logica “ciellenistica” di ricerca di equilibrio e compensazione che troppo a lungo ha caratterizzato la vita di taluni istituti, anche quando finiva per tradursi in immobilismo o inerzia). In queste proposizioni sta la testimonianza più autentica e disincantata dei valori trasmessi dall’esperienza resistenziale: un patrimonio ricco e fecondo che oggi — proprio oggi che assistiamo ad un preoccupante rigurgito di tendenze razziste ed autoritarie — deve comunque stare alla
fondamenta dell’identità primaria degli Isr. Peraltro, ponendo l’analisi su questo binario si è condotti a concordare con le opzioni che prevalsero negli anni quaranta e cinquanta, nelle quali il fatto stesso di dare vita e garantire il funzionamento degli istituti della Resistenza rappresentava la dimostrazione più solida di un impegno etico-civile. Ma la prospettiva si offusca negli anni a venire, quando cioè — in un contesto sociopolitico in trasformazione che incideva in profondità sui meccanismi del confronto e del pensiero, erodendo profondamente gli stessi “valori di appartenenza” a Resistenza e ad antifascismo — gli interessi e le attività degli istituti virarono di rotta, passando dalla documentazione e dallo studio della resistenza armata all’ampliamento del proprio orizzonte cronologico, aprendosi allo studio dell’intero Novecento italiano. Tutto questo però avvenne senza che si intervenisse sulla elaborazione del nesso scientificità engagement, precisandone i fili che lo attraversano.
È dunque condizione necessaria che oggi si operi per ridefinire questo nesso, per precisare gli spazi ed i livelli della sua consistenza. Che si discutano, cioè, le diverse opinioni che stanno emergendo sul modo di intendere tale rapporto che, nella quarantennale presenza degli Isr, ha in ogni modo concorso a caratterizzare l’intera esperienza degli istituti, attraverso la quale si sono delineati metodi ed opzioni di fondo. Nella frammentazione di un quadro esplièativo che va ricomponendosi a fatica, soltanto per accenni e sottintesi, filtra con chiarezza però quale legame, sottile ma resistente, unisca stretta- mente la “società civile” alla polimorfa presenza degli Isr. Un legame inscindibile e — aggiungerei — irrinunziabile, ché se nel primo termine si riassume e trova testimonian
1 Enzo Collotti, Fascismo e fascismi, Firenze, Sansoni, 1989, p. 166 e p. 24.2 Con quest’ultima riflessione non si vogliono evidentemente riproporre le tesi di un’automatica continuità tra le esperienze dell’antifascismo e della Resistenza su cui la storiografia ha già formulato e documentato giudizi esaustivi e convincenti.
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za la quarantennale attività degli istituti, nel secondo si sostanzia la convinzione della assoluta necessità della loro esistenza. Gli Isr hanno attinto dalla società energie, risorse e proposte; hanno svolto ruoli di supplenza alle istituzioni statali — o comunque pubbliche — laddove esse apparivano poco meno che latitanti (salvaguardia del patrimonio archivistico; costruzione di un rilevante capitale scientifico; formazione e sostegno ai ricercatori); hanno concorso con la propria attività nel campo storiografico all’affermazione della dignità epistemologica della con- temporaneistica, contribuendo, in quello della didattica alla divulgazione scolastica degli avvenimenti storici recenti, giocando un ruolo essenziale per il loro inserimento nei programmi ministeriali. E gli Isr hanno sostanziato il proprio ruolo di istituzioni culturali proprio su questi terreni impervi, attraverso alterne congiunture, subendo talora condizionamenti anche profondi nelle proprie attività. Eppure nel legame con i vari segmenti della società non si ravvisano elementi di casualità: il rapporto è frutto di un’opzione consapevole che, per quanto disomogenea nelle diverse realtà locali, ne ha rinsaldato la reciprocità, caratterizzandosi, nel presente, come tratto fisiognomico essenziale. Ma proprio per ciò, proprio per quella sensibilità dimostrata dagli Isr nei confronti della società, le alterne congiunture socio-politiche che l’hanno attraversata nella storia repubblicana hanno influito su obiettivi, attività e dibattiti maturati nel loro seno. Non è evidentemente questa la sede per dettagliare e documentare i vari momenti ed i vari snodi di tale dialettica: di certo vi è che si è trattato di un’influenza forte che ha continuativamente attraversato vita ed attività degli istituti. Ebbene proprio da ciò mi sembra che discendano parte dei disagi e delle preoccupazioni che investono nell’attuale fase politica coloro che alPinterno degli Isr (in modo particolare di quelli locali, che proprio dalle istituzioni pubbliche trag
gono le proprie maggiori risorse finanziarie) svolgono la propria attività di dirigenza o di collaborazione scientifica. Infatti, ha oramai assunto le dimensioni di un convincimento collettivo la convinzione che l’opera di delegittimazione e destrutturazione dei cardini della fase storico-politica, originata dai processi storici dei quali fanno parte Resistenza, patto costituzionale e l’associazionismo partitico, possa finire per identificare nella rete degli Isr un frutto maturo di quei fenomeni, se non addirittura una delle loro espressioni associative. Caduta perciò quella “rete di protezione” che nel passato era stata rappresentata dai soggetti politico-istituzionali; venuto meno o affievolitisi — o in via di divenirlo — il sostegno delle associazioni partigiane o dei partiti politici, gli istituti verrebbero così a trovarsi “in mezzo al guado” delle celebrazioni del Cinquantesimo senza ottimistiche né rassicuranti previsioni in merito agli eventi successivi. Quanto di vero vi sia in tutto ciò e quanto, invece, rappresenti un’impropria trasposizione di termini dello scontro politico nelle questioni degli istituti non intendiamo stabilirlo attraverso queste note. Tuttavia la formulazione di ipotesi sul futuro cui gli Isr stanno andando incontro, proiettati nella “seconda repubblica” si potrebbe affermare in vulgata giornalistica, sulle modalità con cui affrontare gli irrisolti nodi fisiologici e con cui rapportarsi alle trasformazioni esterne, è un’esigenza che appare assolutamente indifferibile
Gli Isr tra “militanza” e “scientificità”: quale futuro?
Il tornante delle celebrazioni del Cinquantesimo della liberazione dovrebbe rappresentare — secondo un’opinione relativamente diffusa tra chi lavora, o che semplicemente collabora, all’interno degli istituti — un passaggio delicato e determinante per la loro vi-
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ta: c’è chi vi vede la possibilità di una svolta capace di consentire loro un incremento quantitativo e qualitativo dell’attività e c’è chi, invece, vi percepisce fondati timori per la loro stessa sopravvivenza. Due poli antitetici, difficilmente conciliabili, che muovono tuttavia dalla periferia del medesimo evento e che — nei fatti, se non sempre nelle intenzioni — evidenziano la profonda necessità di un ripensamento delle identità degli Isr, della loro organizzazione e dei loro indirizzi di lavoro, determinando di fatto — aprendo la discussione sui risultati di tali riflessioni — l’avvio di un processo di trasformazione. Ma quali sono i connotati, e i contenuti, da immettere nell’articolazione di un dibattito capace di coinvolgere tanto le singole realtà locali, quanto di investire più complessivamente l’intera rete nazionale? Quali le modalità con cui avviare il processo?
Sono persuaso, e con ciò condivido le notazioni di Luca Baldissara apparse sul precedente numero di “Italia contemporanea”, che l’approfondita riflessione sul bilancio dei quarant’anni di attività degli istituti debba rappresentare il punto di decollo dell’intero dibattito, cogliendo e filtrando tutte le esperienze che da essi sono state acquisite; ragionando sugli obiettivi raggiunti; valutando con onestà intellettuale e spirito critico successi conseguiti ed errori commessi. Ne sono persuaso per il motivo più ovvio: per la necessità, cioè, di dare respiro e prospettiva alle riflessioni che si svilupperanno nel dibattito, evitando l’eccessivo condizionamento di visuale derivante da un’acquisizione troppo rigida e schematica delle trasformazioni avvenute — ed ancora in corso — nella società come unico elemento di pressione e di condizionamento sulla vita degli Isr. Con queste trasformazioni è necessario fare i conti, beninteso, evitando tuttavia di vederne coincidere pienamente gli effetti con la crisi degli istituti (e poi: è lecito argomentare di crisi? O non sarebbe più opportuno parlare di disagi, di vischiosità?), con il
risultato di attribuire a patologie esogene la causa di taluni vizi fisiologici. Il bilancio critico, perciò, deve poter divenire l’attributo primario della discussione propedeutica alla formulazione di proposte sui futuri indirizzi di lavoro degli Isr; al tempo stesso può contribuire alla “rivitalizzazione” (così la definisce Baldissara) di quella specificità degli Isr — racchiusa nel binomio scienza-militanza, che sta alla radice delle motivazioni della loro fondazione, e che sono convinto debba anche per il futuro caratterizzarne l’attività.
Se dunque assumiamo l’apertura di tale dibattito come passaggio preliminare, viene naturale interrogarsi anche su quali forme e quali sedi ipotizzare per il suo sviluppo. Ritengo naturale che se, in un primo momento, la sede più ovvia possano essere proprio le pagine di questa rivista, come dei numerosi altri periodici che gli istituti pubblicano, si debba però in un secondo momento convogliarne gli esiti entro le strutture dirigenti dei vari istituti, operando affinché queste riflessioni assumano i caratteri di riflessione collettiva, densa di contributi ed aperta alle proposte di tutti. Inoltre, proprio in considerazione dei forti vincoli che gli Isr hanno sempre mantenuto con il proprio “esterno” — cioè la società —, mi sembra che nell’apertura e nell’avanzamento delle riflessioni sia estremamente importante che la dialettica Isr/società sia mantenuta presente, se possibile rafforzata, filtrando con il proprio patrimonio autonomo le proposte e le aspettative che da quest’ultima dovessero provenire. Il radicamento di ogni istituto locale nel proprio contesto politico-culturale è difatti uno degli elementi più caratteristici e peculiari; con esso l’interscambio di proposte e di attività deve essere non solo gestito nell’esistente, ma perseguito e rafforzato sempre più. Taluni istituti già si sono avviati in questa direzione, con l’offerta, da una parte, di una pluralità di “servizi” atti a legittimare un proprio autonomo ruolo di “istituzioni culturali”, accreditando, dall’al
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tra, la propria presenza come “soggetto culturale” in grado di rispondere ad esigenze le più differenziate negli ambiti specifici di attività degli Isr.
Va dunque incentivata e rafforzata quell’attenzione catalizzata all 'interno degli istituti nel gestire e nell’offrire alla consultazione i propri archivi e le proprie biblioteche con quella liberalità e flessibilità che ne caratterizza la diversità rispetto alle istituzioni pubbliche: una ricchezza da valorizzare attraverso il loro pieno utilizzo ed attraverso l’acquisizione di fondi destinati altrimenti a possibile dispersione. Eppure tutto ciò, che già rappresenterebbe una positiva acquisizione qualora efficacemente articolato, non esaurisce del tutto le potenzialità che gli Isr hanno di caratterizzarsi, come istituzioni culturali, nel campo di quei “servizi” ora accennati. La loro collocazione “sociale” può e deve essere connotata in modo ben più articolato. Alfieri dell’inserimento della storia contemporanea come materia di insegnamento nelle scuole superiori3, gli Isr dovranno investire larga parte delle proprie risorse nel campo della didattica, stringendo con la realtà scolastica del contesto territoriale nel quale sono calati rapporti e collaborazioni ancor più solide di quanto già oggi non sia dato constatare. Corsi di aggiornamento per insegnanti, realizzazione di unità didattiche, interventi diretti nelle scuole — che in un certo senso fanno parte di un patrimonio e di una prassi relativamente diffusi — dovranno così venire affiancati da nuove ipotesi di intervento capaci, ad esempio, di coniugare attività di ricerca e didattica. Tutto ciò configura, evidentemente, la creazione di una sorta di “laboratorio” didattico-storio- grafico permanente, che se da una parte consentirà agli Isr di stringere maggiormente i propri rapporti con insegnanti e studenti —
e complessivamente con il mondo della scuola —, potrà permettere un rafforzamento dei legami con le istituzioni pubbliche locali come naturali referenti anche finanziari degli Isr, ridestando interesse per le sorti degli istituti che in non pochi contesti è venuto affievolendosi. E ciò al tempo stesso, configura altresì il rinsaldamento dei legami tra gli istituti locali ed il Landis, la cui attività ed i cui contributi diverrebbero in questo modo determinanti nell’elaborazione progettuale degli obiettivi ora suggeriti. Ma la costruzione di un nuovo rapporto con la città ed i suoi soggetti culturali prospetta anche altre opportunità di attività, il cui ventaglio si presenta ampio e diversificato.
La frequente assenza degli Isr dal panorama del dibattito politico-culturale locale — laddove la loro specificità nel campo della cultura storica del Novecento consentirebbe invece di intervenire con legittimità — mi sembra vada assunta come un negativo segnale di “lontananza” , interpretabile certo sotto una pluralità di aspetti, ma dai quali non sono assenti gli elementi di una “debolezza d’immagine” che colloca gli Isr ai margini della vita politico-culturale. Ed è proprio attraverso il rafforzamento dei propri campi di interesse, della propria disponibilità, della propria intraprendenza, che determinati “vizi” di lunga data — ormai sedimentati, almeno in determinate realtà — potrebbero essere rimossi. E tutto ciò appare doppiamente significativo se abbinato alle riflessioni sugli aspetti della “militanza civile” degli Isr: temi quali l’immigrazione, il razzismo, le riforme degli assetti istituzionali potrebbero infatti consentire loro di intervenire in materia, coerentemente con la loro specifica identità e con la valorizzazione delle loro competenze scientifiche. Telaio della programmazione dell’attività degli Isr deve
Luca Baldissara, Massimo Legnani, Michele Pedrolo, Storia contemporanea e Università. Inchiesta sui corsi di laurea in storia, Milano, Franco Angeli, 1993.
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dunque divenire l’intreccio continuo con la progettualità e le espressioni culturali della città, proponendo un’autentica valorizzazione della propria specificità, filtrata attraverso un’opera costante di sovrapposizione tra rigore scientifico e partecipazione sul piano della “presenza civile” .
Il terreno, tuttavia, che costituisce il cardine principale della loro presenza, assorbendo una quota di progettualità e di risorse probabilmente non sempre adeguata alle reali necessità, è quello della ricerca. Un terreno, si è ricordato, nel quale gli istituti — talvolta — hanno lungamente ricoperto (come d’altronde per certi versi tuttora ricoprono) un ruolo di supplenza delle insufficienze manifestate da enti istituzionalmente prepostivi. La constatazione di tutto ciò non deve però allontanare la consapevolezza che nella loro quarantennale attività in tale direzione gli Isr si sono dimostrati capaci di assolvere a ben più di un semplice ruolo suppletivo, elaborando e sviluppando una “propria” storiografia che, in più di un’occasione, è stata caratterizzata dall’originalità degli approcci e dei metodi. Significativa al riguardo la querelle con le interpretazioni del fascismo di Renzo De Felice, la cui lettura del fascismo in chiave di semplice svolta autoritaria, di “accentuazione illiberale dei tratti autoritari dello stato liberale nella tradizione italiana”4, del tutto scollegata nella sua presunta “unicità” dal fenomeno generale del fascismo in Europa, è stata in modo deciso criticata e delegittimata dall’attività storiografica di coloro che hanno trovato un proprio retroterra aH’interno degli Isr. L’attività svoltasi negli Isr nel campo della ricerca si
è peraltro caratterizzata con l’affermazione di un proprio metodo di lavoro, che ha consentito a giovani studiosi in formazione di condividere con gli storici professionali e con gli accademici interi percorsi di ricerca: dalla progettazione degli impianti, alla socializzazione delle acquisizioni e dei risultati emersi.
Eppure nella fisiologia dell’organizzazione della ricerca degli Isr sono ravvisabili tratti fortemente criticabili, vischiosità, ipertrofie, la cui sedimentazione finisce per ostacolare a volte pesantemente l’articolazione dell’attività di ricerca o per connotarne negativamente i risultati. Un’attenta e critica osservazione della produzione storiografica sviluppata in particolar modo dagli istituti periferici della rete pone infatti in rilievo resistenza della fortissima connotazione “loca- listica” delle opere prodotte, ottenuta attraverso un processo di moltiplicazione esponenziale dei lavori la cui unica delimitazione appare costituita dall’esaurimento degli spezzoni territoriali su cui indagare. Si è così sviluppata una produzione di ricerche volte a moltiplicare all’infinito le indagini su questo o quell’aspetto della storia nazionale, ricercandone legami o dissonanze su scala — a volte — talmente “micro” che la sproporzione di essa rispetto ai temi indagati appare palese ancor prima di averne verificata concretamente la consistenza attraverso la ricerca. Gli studi sull’età giolittiana a San Leo5 si sono così sviluppati in quantità probabilmente eccessiva, riportando agli onori della cronaca l’estrema attualità dei suggerimenti proposti da talune riflessioni sulla storia locale6 che — in certe realtà territoriali —
4 E. Collotti, Fascimo e fascismi, cit. p. 42.5 Esempio portato come paradigma di contestualizzazione forzata, prodotto da “quel mostriciattolo della storia locale tradizionale” , da Mario Ciani ed Ercole Sori (Ancona contemporanea, Ancona, Clua, 1992). La recensione da cui ho tratto spunto è di Paola Magnarelli, Le sorprese della normalità: a proposito di una ricerca di storia locale contemporanea, “Storia e problemi contemporanei”, n. 12, 1993.6 Guido D ’Agostino, Nicola Gallerano, Renato Monteleone, Riflessioni su “storia nazionale e storia locale”, “Italia contemporanea”, n. 133, 1978.
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paiono essere transitate senza aver quasi lasciato traccia di sé. Una salutare riapertura dei temi del dibattito storia locale/storia nazionale appare perciò come passaggio obbligato per lacerare la maglia “localistica” di taluni impianti di ricerca, sulla cui trama rigidamente identificata territorialmente nella circoscrizione amministrativa, viene subordito lo sviluppo dell’analisi storiografica. Tale modo di procedere rischia di annullare le complessità e le rilevanze, appiattendo e piegando l’indagine storiografica entro scansioni precostituite che non di rado finiscono per oscurare o nebulizzare i risultati conseguiti.
Concretamente, ciò che ritengo sia possibile proporre, è dunque la riapertura — da un lato — di quel dibattito che, sia attraverso oramai collaudate formule seminariali, sia trovando sede nel corpo delle iniziative di studio e di confronto impiantate dall’In- smli (penso ad esempio al Seminario permanente del Novecento), potrebbe produrre utilità non marginali nel processo di ridefinizione dell’assetto delle ricerche degli Isr. Dall’altro lato, il tema del “locale” non può oggi sottrarsi alla “sprovincializzazione” degli ancoraggi territoriali che sul piano dell’economico, dell’istituzionale, del politico, ecc., recenti acquisizioni di ricerca sono venute teorizzando, ipotizzando — ma anche documentando — la necessità di indagare su segmenti territoriali che manifestino affinità od omogeneità, utilizzando criteri di selezione del tutto indipendenti dalla rigida suddivisione amministrativa7. Ripensamento, quindi, delle rotte di ricerca da cui non può essere assente la ricerca di un confronto scientifico all’“esterno” della rete, infrangendo quel sigillo di “autarchia” (di “auto- referenzialità”?) che troppo frequentemente è ravvisabile negli impianti delle ricerche de
gli Isr. Ed è proprio in tali direzioni che gli Isr hanno le strumentazioni e le potenzialità per muoversi, impegnandosi e coordinandosi alTinterno della rete su progetti di ricerca comuni, finalizzati allo studio di problematiche storiche che, per loro naturale specificità, implichino l’assunzione di un’angolazione prospettica “interprovinciale” . Un compito senza dubbio non agevole (in termini finanziari e di coordinamento), ma che non poco gioverebbe al superamento di certe angustie localistiche dalle quali parte delle ricerche degli istituti locali non sembra ancora essersi liberata, consentendo peraltro una migliore gestione delle varie risorse impegnate, evitando, infine, quella parcellizzazione delle indagini che, se in profondità hanno consentito la scomposizione dei quadri generali in unità più piccole, rinviano, tuttavia, il momento della loro ricomposizione in una prospettiva analitica di più ampio respiro.
L’incamminarsi in questa direzione comporta una più stretta — e pianificata — collaborazione tra gli istituti locali, da realizzare non tanto sul piano di una maggior divulgazione nella rete degli studi prodotti, quanto su quello di una “volontà programmatrice” comune; costantemente ravvivata da un agire ed un pensare paralleli. Tutto ciò, naturalmente, porta anche ad interrogarsi sulla fisionomia e sul funzionamento della “rete” , l’analisi delle cui modalità relazionali e collaborative, unita ad un attento vaglio critico delle attività comuni, diviene perciò un passaggio estremamente significativo delle riflessioni. Un aspetto di questa “volontà programmatrice” potrebbe esplicitarsi, in primo luogo, nel ripensare e riprogettare i canali di divulgazione delle proprie attività: le riviste degli istituti. La loro estrema atomizzazione e polverizzazione, che induce
Acute, a tale riguardo, le osservazioni di Pier Paolo D ’Attorre, Aspetti economici e territoriali del rapporto centro /periferia, “Italia contemporanea”, n. 184, 1991.
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ogni istituto locale che ne abbia le possibilità a dare corso ad una propria pubblicazione, non fa sorgere perplessità sulla portata di tale fenomeno, nel quale ogni esperienza editoriale appare conchiusa e del tutto impermeabile rispetto alle altre? Probabilmente, però, tale situazione altro non è che una proiezione maggiormente visibile del fenomeno più generale dell’“autosufficienza” (o dell’“isolamento”) in cui operano i vari Isr; una parziale soluzione potrebbe essere contenuta nell’ipotesi di realizzare riviste che, su scala regionale o comunque capace di accorpare una pluralità di istituti, si proponessero, sotto il profilo delle attenzioni territoriali, un respiro più ampio ed articolato. Ciò consentirebbe, peraltro, una maggiore e più diffusa “visibilità” degli istituti, il cui esito più immediato si tradurrebbe in una conseguente maggior “spendibilità” dei propri lavori, coinvolgendo, in tal modo, una più ampia fascia di interessi.
Nel quadro complessivo delle proposte che sono venute sin qui articolandosi non può evidentemente essere assente una riflessione sulla questione dei comandi degli insegnanti distaccati nei vari istituti. Da sempre fonte primaria di energie, essi costituiscono una risorsa fondamentale per l’intera rete, garantendo in non pochi contesti la sopravvivenza stessa del locale istituto, soprattutto laddove l’esiguità delle risorse finanziarie impedirebbe qualsiasi soluzione alternativa. Il ruolo del comandato è così venuto adeguandosi alle necessità degli istituti, assumendo frequentemente di fatto i tratti e le funzioni caratteristici della dirigenza scientifica. Tale meccanismo ha tuttavia scomposto la valenza specifica del distacco dalla scuola all’Isr: l’essere cioè un’esperienza qualificante ma transitoria di un insegnante, finalizzata all’acquisizione di metodi e strumentazioni particolari nel campo storico, la cui destinazione principale deve però essere lo stesso mondo scolastico di origine, al cui interno tutte quelle acquisizioni debbono es
sere riportate per una loro effettiva fruizione. L’inceppamento di tale meccanismo, comprensibilissimo e nient’affatto stigmatizzabile, determinato proprio dalla centralità acquisita dai comandati negli Isr, ha però impedito che si creasse l’automatico e costante interscambio di esperienze tra mondo della scuola ed istituti. Ciò evidentemente nulla toglie al fatto che il “prestito a lungo termine”, divenuto non per scelta ma per necessità tratto caratteristico dei comandi Isr, abbia contribuito ad ovviare a carenze e ad insufficienze di varia natura da sempre prerogativa degli istituti; ed ancor meno sottrae al lavoro degli insegnanti comandati, che hanno senza alcun dubbio acquisito e filtrato ben di più di una semplice “esperienza qualificante” . Tuttavia, mi sembra necessario che anche su questi aspetti si soffermi la discussione e che esperienze quali quelle recentemente praticate dall’istituto di Modena (selezione del comandato per concorso da una commissione interna presieduta da un accademico esterno; durata del comando quinquennale eventualmente rinnovabile per una sola volta) possano finire per prevalere sulle consuete procedure di cooptazione e di gestione.
Il bilancio complessivo non può però essere ancorato alle singole esperienze; così come neppure la proposta di discussione di uno snodo così importante tra Isr e mondo della scuola può essere impostata sul presupposto che l’esperienza dei comandi si traduca in un prestito forzoso unidirezionale dalla scuola verso gli istituti. Ed è proprio su questo tema, allora, che lo sforzo di tutti — comandati in testa — deve tradursi in una riflessione aperta, che salvaguardi le specificità ed i meriti dei singoli, ma che non perda di vista la questione più generale.
Tassello dopo tassello, il quadro che si è venuto sin qui componendo appare estrema- mente sfaccettato, percorso da innumerevoli fili intrecciati fra loro; ciò che tuttavia mi sembra sia visibile con chiarezza è la duplici
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tà degli aspetti in discussione: da una parte si riferiscono all’organizzazione interna degli Isr; dall’altra alla loro interazione con l’esterno. Le riflessioni e le proposte qui indicate si interessano sia dell’uno che dell’altro aspetto, ritenendo quanto mai necessario che, nell’aprire un dibattito sul futuro degli Isr, i due piani siano tenuti uniti per ricercare e per valutare risposte e soluzioni all’altezza dei problemi.
La caduta del quadro di riferimento socio-politico nel quale gli Isr erano sorti e nel quale essi hanno operato ha senza dubbio accelerato l’avvio del processo di ripensamento critico sul loro ruolo e sulla loro attività; ad essa tuttavia non possono essere ricondotte fisiologie preesistenti entro gli Isr e la soluzione dei problemi non può passare attraverso un azzeramento del proprio patrimonio genetico, operazione che avallerebbe— di fatto — la fondatezza di quel senso comune che ravvisa negli Istituti della Resistenza una filiazione diretta del “patto dei partiti” stretto nel dopoguerra. Ad esso vengono fatti risalire tutti i vizi dell’Italia repubblicana e gli Isr avrebbero rappresentato— secondo questo pensare comuhe — il “braccio storico-culturale”, caratterizzato ed “infettato” dalle stesse patologie.
È dunque partendo dall’acquisizione consapevole del proprio Dna che gli istituti debbono ripensare e riprogettare la propria fisionomia ed il proprio ruolo: Dna da sempre caratterizzato dalla coniugazione tra scienza e militanza, tra storiografia e presenza eticocivile. Alla luce di tutto ciò sono dunque persuaso che ogni ipotesi di rinnovamento, orientata a trasformare gli Isr in istituti di servizi o di ricerca tout court, prospetterebbe una soluzione inaccettabile, introducendo, da una parte, una profonda saturazione della loro identità e imboccando, dall’altra, una pista che rivelerebbe immediata
mente la propria inconsistenza. Del resto, una cosa è ipotizzare un innalzamento del tono e del respiro complessivi delle attività, attraverso una limitazione del peso decisionale dei soggetti politici (associazioni parti- giane in modo particolare) ed un parallelo innalzamento di quello della direzionalità scientifica; un’altra perseguire il totale distacco tra i due momenti, con l’affermazione di un’ipotesi di lavoro “equidistante” e “asettica” .
Certo gli Isr debbono oggi fare i conti con una molteplicità di fattori mutati che impongono una riprogettazione critica del loro ruolo. Oggi non è più automatica l’identificazione tra impegno di ricerca ed impegno etico-civile, possibile nel passato; le trasformazioni avvenute all’interno degli istituti e nella società determinano la “ridiscussione e la rifondazione” della loro fisionomia culturale e della loro stessa specificità. Il terreno di una militanza rinnovata sta nella “riscoperta” (fatta di indagini e di analisi) delle nuove forme di fascismo, “che si definiscono nei comportamenti collettivi di società private di un solido sistema di valori, di solidarietà, di ammortizzatori sociali abbattuti dalla trionfante foga liberista”, come ha scritto Luca Baldissara. Di qui muovono i fili della discussione. Di qui, prestando la massima attenzione a che il modello non diventi quello di una “debole militanza di risposta”, originano le prospettive future degli istituti, i quali, proprio nelle frenetiche attività del Cinquantesimo, dovranno trovare ed alimentare le energie necessarie per “ridiscutersi” e “ripensarsi”, creando le condizioni migliori per la costruzione, intorno a sé, di una più vasta rete di relazioni e di referenti, garanzia di un continuo interagire con la società.
Stefano Magagnoli