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Page 1: Per Rebora

Per Clemente ReboraPer me Clemente Rebora è stato un vicino di casa.Ho vissuto per sette anni nella strada parallela dove visse con Lydia Natus, la sua compagna. Ogni volta che passavo da quella via (via Tadino 3), e ciò accadeva praticamente ogni giorno, gettavo un pensiero al poeta Clemente; quando invece nel chiuso della stanza lo leggevo, potevo sentire la vicinanza fra le nostre camere come un suggerimento, un ammonimento: che la poesia fosse di più di quella che è contenuta nella pagine dei libri.

Ma perché ricordare oggi la poesia di Clemente Rebora?

La sua materia verbale, da un lato, si pone come sintesi delle più ardue ricerche metrico-foniche del tardo ottocento e di tutta la nostra tradizione letteraria: c'è la forza di Carducci, c'è la ricchezza di D'Annunzio, la canzone libera di Leopardi... e c'è Dante con il suo plurilinguismo e la virtù morale del cantor rectitudinis... eppure Rebora non è riducibile a nessuno di questi pur grandissimi autori.

Rebora incarna nel Novecento alcuni aspetti che sono diventati patrimonio essenziale per la poesia e che persistono vivissimi, a mio parere, anche nella poesia di oggi come orizzonti di senso.

Per prima cosa, il contrasto e la ricerca formale. Rebora non è un autore risolto: è un autore delle grandi avversative, i cui risultati migliori (quelle poesie che diciamo “perfette”) sono frutto di una spasmodica ricerca che emerge in mezzo a tanti altri in cui, sì, riconosciamo la genialità della direzione, del lavoro, ma mai siamo intrappolati nella bellezza inerte e contemplante. Rebora non è un poeta del bello: ha fatto propria, in direzione opposta e complementare, l'assioma di Rimbaud: «Una sera, feci sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. — E la trovai amara.» E questo è molto nostro: non si tratta di scrivere soltanto belle poesie, ma di cercare un valore più alto: di avere il coraggio di usare la poesia come strumento e non come fine della vita.

E appunto questo è il secondo aspetto per cui Rebora è fondamentale, per tutto il Novecento e ancor oggi. Nel 1930 decide di farsi prete, con il celebre voto: «La grazia di patir, morire oscuro, polverizzato nell'amore di Cristo.» Rebora abbandona la poesia: getta tutti i suoi libri e manoscritti dalla finestra, in un giorno passato alla memoria come «il gran bel stracciare». Al di là della scelta che Rebora ha fatto, egli ci mostra che la poesia non è tutto, la poesia non può ogni cosa: ci sono dei momenti in cui la poesia deve essere abbandonata, se altri mezzi, altre direzioni si rivelano più importanti. Il destino di Rebora - la sua Verità potremmo dire - non era quella di scrivere per tutta la vita: una volta consegnatoci il suo libro, ha sentito che doveva seguire un'altra direzione: ha avuto l'umiltà di farlo, di seguire la propria vocazione, nella sua totalità, nella sua assoluta congruenza.

Questo coraggio di abbandonare, di cedere e di dirsi nella verità, troppo spesso ci manca, nella vita come nella poesia. Rebora qui si impone come un maestro, davvero un maestro: perché ha saputo abbandonare ogni pretesa individuale per lasciare a tutti noi una poesia che è materiata d'attesa, che è sempre nel presagio di un senso senza mai avere la superbia di esserne in possesso, che è colma di fiducia pur nella certezza della sconfitta.

La sua poesia è tutta «nell'immagine tesa», nell'attesa che qualcosa «verrà, forse già viene»; la poesia, quando non è esibizione di sé o compiacimento letterario, non può che accogliere, patire, per prima forse soltanto salutare il «bisbiglio» di ciò che è sempre a venire nel presente di noi.

Tommaso Di Diomaggio 2015Sala Fontana

Page 2: Per Rebora

LXXII

Son l’aratro per solcare:altri cosparga i semi,Altri educhi gli steli,altri vagheggi i fiori,altri assapori i frutti.

Son la sponda per il mare:altri assetti le navi,altri spinga le prore,altri diriga il viaggio,altri tocchi le mete.

Il mio verso è un istrumentoche vibrò tropp’alto o bassonel fermar la prima corda:ed altre aspettano ancora.

Il mio canto è un sentimentoche dal giorno affaticatole notturne ore stancò:e domandava la vita.

Tu, lettor, nel breve suonoche fa chicco dell’immenso,odi il senso del tuo mondo:e consentire ti giovi.


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