Rassegna bibliografica
L’esercito dell’Italia liberaledi Nicola Labanca
Da non meno di un quindicennio, John Gooch ha alternato i propri studi sulla storia della politica militare britannica e la sua carica di direttore del “Journal of strategie studies” con visite in biblioteche e archivi italiani. In lingua inglese erano già apparsi alcuni primi risultati delle ricerche che stava conducendo sulla storia della politica militare italiana e sulle concezioni strategiche dei militari dell’Italia liberale (fra cui cfr. Italy before 1915. The quandary o f vulnerable, in E.R. May (ed.), Knowing one’s enemies. Intelligence assessment before the two world wars, Princeton, Princeton Univ. N.J. 1984; e Clausewitz diseregarded. Italian military thought and doctrine, 1815-1943, in M.I. Handel (ed.), Clausewitz and modern strategy, London, Cass, 1986). Così, fra gli storici dei paesi anglosassoni, poco avvezzi alle complicazioni della lingua italiana, è divenuto uno specialista delle cose militari della penisola. Qualche anticipazione degli studi storico-militari italiani di Gooch si era letto anche da noi (cfr. L ’Italia contro la Francia. I piani di guerra difensivi ed offensivi 1870- 1914, in “Memorie storiche militari 1980”,1981) . Ed una prestigiosa casa editrice italiana aveva tradotto la sua sintesi su Annies in Europe (1980, trad. it. Soldati e borghesi nell’Europa moderna, Roma-Bari, Laterza,1982) . Il suo più recente volume sull’esercito dell’Italia liberale (Army, State and society in Italy, 1870-1915, London, MacMillan, 1989, pp. 219) rappresenta un coronamento
ed allo stesso tempo un più chiaro assestamento delle sue prime ricerche.
Un giorno, in un’altra sede, converrà soffermarsi sul notevole grado di internazionalizzazione che si è potuto riscontrare nell’ultimo quindicennio di ricerche sulla storia militare italiana. È ormai un effetto non più solo di lacune e ritardi nostrani, ma anche del profondo rinnovamento degli studi storico-militari italiani. Per comprendere il crescente interesse di studiosi stranieri verso la storia militare italiana va tenuto presente che nella seconda metà degli anni settanta erano apparse importanti opere generali sulla storia d’Italia, più o meno concordi nel mettere in evidenza 1’ “esiguità delle radici liberali dello stato italiano” postunitario e liberale; e che all’incirca negli stessi anni erano state pubblicate le uniche sintesi di storia militare italiana di tutto questo dopoguerra. Le condizioni erano quindi favorevoli perché un consistente numero di studiosi stranieri guardasse con interesse alla storia militare italiana, anche come utile banco di prova di ipotesi di ricerca emerse altrove (nei più progrediti war and society studies inglesi, francesi, statunitensi). Ad oggi, fra questi studiosi (e il volume che qui si segnala lo riconferma), Gooch pare essere riuscito a strutturare l’ipotesi interpretativa più forte, capace di interloquire più approfonditamente con gli studi italiani.
L’impianto del volume di Gooch è sostanzialmente cronologico. In dieci capitoli è
Italia contemporanea” , settembre 1991, n. 184
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narrata la storia dei rapporti fra militari e politici in Italia, dalle guerre risorgimentali alla grande guerra. Fra prove militarmente non esaltanti e scopi di guerra non sempre condivisi con i politici, l’esercito piemontese divenne regio esercito italiano. La divisione fra i suoi capi, manifestatasi nelle guerre d’indipendenza, venne istituzionalizzata in un modello di rapporti fra civili e militari che Gooch definisce “disastroso” per l’autonomia professionale, perché — è la sua tesi— la presenza di alti ufficiali nei dicasteri militari e in Parlamento li “politicizzò” mentre la sudditanza al re, alla prerogativa regia ed al partito di corte ne fece dei “cortigiani” (cap. I). Con un vertice così diviso e subalterno la pur finanziariamente costosa politica di difesa, interna ed esterna, risentì dei contraccolpi parlamentari e degli interessi dei ministri militari, piuttosto che di un’accurata preparazione, sotto la Destra (cap. II) come sotto la Sinistra (cap. Ili) o sotto Crispi (cap. IV). La debolezza economica del paese non escluse comunque una politica estera velleitaria, come nel caso della politica coloniale ed eritrea (cui è dedicato un’intero capitolo), nella quale l’autonomia— e l’impreparazione — dei militari raggiunse il culmine. L’occasione per un intervento dei militari sulla scena politica avrebbe potuto essere data dalla svolta reazionaria di fine secolo: ma qui i militari, più intenti a controllare l’ordine pubblico e a mantenere saldamente nelle loro mani l’esercito al riparo da intromissioni politiche, rimasero nei confini stabiliti dai politici e dalla classe dirigente (cap. VI). Accumularono però un credito, che come Gooch spiega, fu speso nel successivo decennio giolittiano, segnato e condizionato più di quanto talora si è stati disposti a ritenere dalla presenza militare, dal riarmo, dalla guerra di Libia (capp. VII-IX). Nonostante ciò, l’apertura delle ostilità del primo conflitto mondiale trovò le alte gerarchie militari impreparate e divise (cap. X).
Come si vede, dopo le note e recenti sintesi di storia militare italiana (di John Whit- tam, Giorgio Rochat e Giulio Massobrio, Lucio Ceva) si tratta del primo volume che vada al di là di una monografia su singole fasi o temi e tenti — con andamento cronologico e organico — di ripercorrere l’intero cinquantennio dell’Italia liberale. E per quanto l’andamento del volume sia principalmente narrativo, su alcuni cardini dell’interpretazione di Gooch conviene soffermare l’attenzione. Un punto fermo dell’analisi di Gooch è lo squilibrio fra i costi dello strumento militare e le risorse del paese. La nota antitesi “guerra o finanza” — sollevata da Piero Pieri, rimarcata da Federico Chabod e poi precisata da studiosi di vario orientamento (da Alberto Monticone ad Antonio Pedone a Rochat) — rimane anche per lo studioso britannico il primo metro con cui giudicare tutta la politica militare italiana. La responsabilità, qui, è equamente divisa fra politici e militari. Notevole, poi, è la forza con cui Gooch sottolinea la frattura nel rapporto fra esercito e società civile. Nell’introduzione egli tiene a distinguere la sua interpretazione da quella del “Marxist historian Giorgio Rochat” (p. XII). Ma poi di fatto riprende gran parte delle analisi di quest’ultimo sul ruolo di classe dell’istituzione militare come tutrice dell’ordine pubblico e sociale: sino a definire il rapporto dell’esercito con il paese come quello di una forza d’occupazione, anch’es- sa sotto assedio.
Un altro punto rilevante dell’interpretazione di Gooch sta nell’accento posto sulla divisione delle alte gerarchie militari e sulla generale inefficienza dell’esercito (da qui, anche, l’emblematicità dell’immagine sulla sovraccoperta, dedicata alla catastrofe di Adua). L’evidenza della scarsa professionalità dei militari italiani è ricercata nei risultati sul campo (particolarmente nel capitolo sull’avventura eritrea), nello stentato sviluppo di una moderna concezione degli stati
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maggiori, nella scarsa diffusione fra gli ufficiali italiani dei grossi temi del dibattito tecnico-militare internazionale di quegli anni. Ciò portava ad una scarsa omogeneizzazione del corpo ufficiali. In fatto di strategia e di tattica, argomenta Gooch, persino all’approssimarsi del primo conflitto mondiale (cioè alla vigilia di una guerra di massa e totale), al di là di poche linee di massima, troppo poco era condiviso fra i più alti ufficiali e troppo era lasciato al ‘genio’ (o alParbitrio) del futuro comandante in capo: come ai tempi delle guerre risorgimentali, ben lontani dagli automatismi dei piani Sch- lieffen.
I punti sinora ricordati toccano, tutti, temi centrali nella vicenda dell’esercito dell’Italia liberale. L’interpretazione di Gooch li ricomprende in una valutazione più generale sul complesso dei rapporti fra politici e militari: una valutazione interessante anche se apparentemente contraddittoria, che a ben vedere, oltre a suggerire piste di ricerca storica, inserisce la riflessione sulle vicende militari italiane in un ambito di riflessione scientifica (di scienza della politica) di ampio respiro internazionale. Si tratta, rispetto ai modelli di relazioni militari-civili già a suo tempo proposti da Samuel P. Huntington, in The soldier and the State: the theory and politics o f civil-military relations, (Cambridge, Harvard University Press, 1957) di un’interpretazione che Gooch articola di fatto in due aspetti. Da un lato, egli sostiene con notazioni di grande interesse (non solo storiografico) che le forze armate dell’Italia liberale riuscirono a condizionare la politica militare (e la politica tout court) italiana in un grado maggiore che in altre potenze europee, senza però volere intervenire diretta- mente a livello istituzionale. Pur senza le esteriorità del militarismo prussiano o dei pronunciamientos spagnoli, l’esercito italiano condizionava infatti pesantemente la politica finanziaria, quella estera e coloniale, quella interna. Si tratterebbe di un’influenza
— ecco la singolarità del caso italiano — senza intervento. D’altro Iato, Gooch insiste più volte e anche con toni sprezzanti su ciò che gli appare “una caratteristica italiana”: la mancata informazione (e consultazione) dei militari da parte dei politici nelle questioni diplomatiche d’interesse militare, la “fretta” messa dai politici ai militari, il condizionamento della politica militare da parte dell’opinione pubblica.
Ambedue gli aspetti contengono elementi di verità. Ma appaiono evidentemente fra loro, in qualche parte, contraddittori. Il primo rimanda ad una classe politica debole e sopraffatta, l’altro ad un esercito che si fa imporre i tempi della guerra. Il primo punta l’indice verso le responsabilità dell’esercito, il secondo quasi lo giustifica: non solo per il suo ruolo di mantenimento dell’ordine pubblico e sociale, ma anche nelle sue inadempienze, nella sua scarsa professionalità, nelle sue sconfitte. A nostro parere, le contraddizioni delle valutazioni di ispirazione polito- logica dei rapporti civili-militari nell’Italia liberale si sciolgono solo se l’analisi del rapporto fra “guerra e politica” è affiancata e soccorsa dall’analisi del rapporto fra “guerra e società”: se cioè allo studio dei rapporti fra élites militari e politiche si aggiunge quello della composizione sociale delle forze armate, dell’ideologia del corpo ufficiali eccetera.
Molte sono le spiegazioni del fatto per cui Yarmy di Gooch guarda ancora — parafrasando il titolo — allo State più che alla society. Tra queste possono ricordarsi: la nobile tradizione degli studi italiani su “guerra e politica” (da Pieri, che aveva studiato Hans Delbriick, in avanti), il carattere di sintesi del volume (e quindi il suo rispecchiare lo stato della ricerca italiana), le stesse asperità della modellistica presa in prestito dalle teorizzazioni della scienza politica anglosassone che nei suoi estremi (o militari ‘irresponsabili’ o civili ‘controllori’) mal si adatta all’ennesimo ‘caso italiano’, questa
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volta militare. Rimane il fatto che è necessario superare le asperità politologiche, apparentemente insanabili: ad esempio tramite la valutazione e lo studio del grado di ‘autonomia’ di fatto goduta dagli eserciti nei confronti del controllo politico, un’autonomia (categoria presente, ma poco approfondita, già nel volume del conservatore S. Huntington, e poi meglio fondata da Morris Janowitz per il caso statunitense The professional soldier, New York, Free Press, 1960) che accompagna sempre il militarismo, ma che può comparire anche ove — formalmente — sussista un controllo politico dei militari. A ben vedere, anche da ciò prende origine la singolarità del caso italiano (influenza senza intervento militare, ingombrante presenza militare senza militarismo, o — secondo quanto aveva scritto Guglielmo Ferrerò, Il militarismo, Milano, 1898 — “nazione armata senza militarismo”).
Gooch stesso fornisce già, comunque, nel suo volume, numerose indicazioni di ricerca in tal senso: e il dato è quanto più possibile meritorio se si osserva che forse non ha potuto valersi di recenti pubblicazioni
italiane come i due ponderosi volumi su Esercito e città dall’Unità agli anni trenta. Atti del convegno di studi (Perugia 11-14 maggio 1988, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1989). Nel volume si possono quindi reperire spunti e dati sui contingenti di leva, sul reclutamento degli ufficiali, sulla provenienza di questi dai sottufficiali, sul diverso peso regionale nelle alte gerarchie, sulle varie ‘generazioni’ dell’ufficialità italiana. E, sempre in tal senso, assai interessante è la varietà e la ricchezza delle fonti documentarie prese in esame (stampa militare, archivi militari e politici, rapporti degli addetti militari britannici). Per tutti questi motivi, per il suo offrire un’interpretazione aggiornata ed un’osservazione distaccata (dall’osservatorio di una ex-grande potenza navale, militare e imperiale), per il suo fornire un assestamento delle ricerche disponibili e uno stimolo per ulteriori approfondimenti, la sintesi di Gooch merita di essere meglio conosciuta. Rimane da augurarsi che essa sia tradotta in italiano, al più presto.
Nicola Labanca
Scienza e territorio nel Tavoliere di Pugliadi Domenico Preti
Con questo volume, Scienze e governo del territorio. Medici, ingegneri, agronomi e urbanisti nel Tavoliere di Puglia 1865-1965 (Milano, Angeli, 1990, pp. 213, lire 26.000), Leandra D’Antone riprende e conclude uno studio che in larga parte era comparso nel 1988 nel bel volume curato da Piero Bevilacqua per i tipi di Laterza e intitolato, Il Tavoliere di Puglia. Bonifica e trasformazione tra X IX e X X secolo. Non si renderebbe un buon servizio all’autrice se non si ricordasse
che essendo nato questo suo scritto da una ‘costola’ del lavoro collettaneo appena citato, una sua corretta valutazione non può prescindere né dal quadro socioeconomico generale del Tavoliere che in quello si è fornito, né dal ‘taglio’ che in quel contesto è venuto emergendo e che ha portato D’Antone — come ha sottolineato il compianto Manlio Rossi Doria nella prefazione a quel volume — a studiare il territorio non considerandolo “nella sua oggettività, bensì nella
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progressiva consapevolezza che di esso ebbero i soggetti tecnici che se ne sono via via occupati” . Questo per dire che l’interesse dell’autore è stato programmaticamente rivolto ad indagare questo processo ed a ricercare i motivi che hanno portato in sequenze diverse, nel caso del Tavoliere di Puglia, medici, ingegneri, agronomi ed urbanisti ad interessarsi dei problemi del territorio fino a proporre la loro testimonianza come fonte insostituibile per chi è interessato allo studio della “scienza del territorio in Italia” e al “governo delle trasformazioni ambientali ed economico-sociali” . Ed è proprio sulla “enorme quantità di progetti tecnici elaborati in funzione della bonifica e del risanamento igienico negli anni dalla fine dell’Ottocento ad oggi”, che questo lavoro ha preso le mosse ed è stato costruito, confermandoci il vecchio e ben noto vizio che fa dell’Italia il paese dei progetti e magari delle commissioni d’inchiesta, delle attente e circo- stanziate analisi a cui però non fanno seguito interventi conseguenti.
L’atteggiamento delle ‘nuove professioni’ verso il problema centrale e storico della zona indagata, ovvero verso il problema della bonifica umana ed economica del Tavoliere, si presta naturalmente a molteplici e diverse considerazioni a seconda che esso sia espressione di gruppi dirigenti nazionali e locali. È evidente infatti che nel caso in cui i loro rappresentanti agiscano come ‘sensori’ periferici dell’amministrazione statale (sia nel ruolo di funzionari del commissariato antimalarico o in quello di medici provinciali o, ancora, in quello di funzionari del consorzio di bonifica eccetera), il loro referto si estende ad una valutazione più ampia che chiama in causa l’atteggiamento dello Stato e dell’amministrazione nei confronti dell’oggetto della loro osservazione. Diverso è invece il caso in cui le analisi provengono da ceti professionali che sono in gran parte espressione della grande proprietà latifondistica del Tavoliere. In questo caso in essi si esprimono,
come in uno specchio, i diversi concreti interessi che storicamente hanno maturato l’atteggiamento di queste classi nei confronti del problema dell’intervento sul territorio.
I medici, sotto specie di malariologi, sono i primi lettori, diciamo così, ‘ufficiali’ del territorio, alle cui puntuali diagnosi sulla eziologia malarica e sulle misure necessarie a combatterla viene dato ampio spazio, correlandole con i deludenti esiti che sia in periodo liberale che durante il fascismo hanno caratterizzato la lotta antimalarica nel Tavoliere. Anche in questo caso si ha la significativa conferma di un iter per molti versi singolare, che porterà in un breve arco temporale le classi mediche, in questo caso i medici impegnati nella lotta antimalarica, a compiere con il fascismo una drastica virata che le sposterà da posizioni radicalsocialiste verso una adesione piena al regime reazionario. Con il fascismo, sembra comunque che questo osservatorio privilegiato si oscuri. Le ragioni sono molte e passarle in rassegna porterebbe via troppo spazio. Certo, il “ridimensionamento del peso della cultura medica rispetto ad altre componenti tecniche” (pp. 68-69) che si sarebbe verificato nel corso del ventennio e a cui si fa riferimento per spiegare la “scomparsa” dei medici tra gli osservatori ufficiali del territorio, va letto nel contesto più generale dell’interventismo fascista che, sollecitando potenti interessi economici, richiede competenze tecniche ben definite, lasciando in disparte quella cultura medica che finiva per costituire una remora ed un freno al libero dispiegarsi degli interessi egoistici.
Conclusasi con il fascismo la stagione dei medici, con gli agronomi e gli ingegneri il referto sul territorio assume sempre più i contorni di una analisi circostanziata sulla convenienza economica delle trasformazioni fondiarie vista in rapporto all’assetto proprietario dominante, agli ordinamenti agrari prevalenti e alla politica agraria sostenuta dal governo fascista. Così l’ipotesi di uno
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sviluppo agrario del Tavoliere fondato sulla grande irrigazione, prima ancora che per le difficoltà tecniche e finanziarie che avrebbe comportato, fallisce perché si presenta prima di tutto come una ipotesi eversiva del latifondo, dominato dalla grande proprietà incardinata sulla cerealicoltura meccanizzata e sull’agricoltura asciutta. Con la crisi degli anni trenta, la disoccupazione rurale torna a suggerire con più forza piani di trasformazione fondiaria e di bonifica orientati a farsi carico del problema. Si ha così tutto un fiorire di progetti (De Cillis, Pan- tanelli, Curato, Carrante, Medici e Perdi- sa), tutti passati accuratamente in rassegna, attraverso i quali si è andato definendo il modello di colonizzazione interna fondato sullo sviluppo delle colture a più alto grado di attività, con l’impiego di singole famiglie su altrettante unità poderali, che in alcune plaghe del Tavoliere sarà portato avanti dall’Opera nazionale combattenti nel triennio 1939-1941. In un’area in cui Foggia, fin dall’Ottocento, si presentava come “un’appendice del latifondo cerealicolo”, sovraffollata di miseri braccianti stabili o in transito stagionale per la mietitura, non può sorprendere che il tema del popolamento delle campagne sia entrato ben presto ad animare il dibattito interno dei locali potenti gruppi dirigenti. Sono soprattutto i nuovi ceti imprenditoriali e professionali emersi dallo sviluppo delle infrastrutture civili ed urbane dei primi lustri del secolo che, alla metà degli anni venti, si fanno promotori interessati di un progetto urbanistico destinato a trasformare Foggia in una “moderna città degli affari” . Si tratta, come ci viene mostrato con ricchezza di particolari, di un “progetto unitario di edificazione del territorio urbano e rurale” , che porterà nel 1928 la locale amministrazione podestarile di Alberto Perrone — in forte anticipo su molte altre città italiane — a bandire un concorso nazionale per il piano regolatore e di risanamento della città. Più
che al piano regolatore e alle vicende della sua attuazione, l’interesse di D’Antone si rivolge al dibattito sulle borgate rurali. Dibattito rivelatore dei molteplici e contrastanti interessi che si pongono alla base delle differenti impostazioni che caratterizzeranno in questi anni i diversi piani di bonifica elaborati per il Tavoliere. La scelta politico-propagandistica dell’appoderamento segnerà la fine delle “borgate rurali residenziali, che furono sostituite nelle Nuove direttive della bonifica dai centri di servizio di grande dimensione e da piccoli borghi, entrambi senza abitazioni per le famiglie coloniche” .
Con la nuova “urbanistica rurale” arriva anche il momento degli architetti, ai quali, anche nel caso studiato delle borgate rurali del Tavoliere, viene affidata la “regia dell’immagine” e l’esaltazione simbolica dei valori politici del regime.
L’epilogo del volume ha come scenario l’Italia repubblicana della ricostruzione e del centrismo. Sono gli anni in cui la parabola del ruralismo volge rapidamente al termine non prima tuttavia di aver condizionato con il suo forte retaggio culturale i progetti destinati ad attuare in qualche misura il ridimensionamento della grande proprietà latifondistica e a dare soddisfazione, almeno parziale, attraverso la riforma agraria, all’atavica fame di terra dei contadini pugliesi. La debolezza del modello fondato sulla piccola proprietà, fatto suo come si sa in quegli anni anche dal Pei, non accompagnato da effettive trasformazioni fondiarie e da un adeguato modello agronomico, viene evidenziato con chiarezza, utilizzando come punto di forza la lucida analisi messa a punto a suo tempo da Rossi Doria. Un importante risvolto di questa debolezza lo ritroviamo sul terreno della formulazione del concetto di “civiltà contadine” , ovvero “l’ultimo inutile tentativo di separare i ceti inferiori della campagna dalla cultura della città e dalla vita associata, di legare la so
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cietà contadina ai tempi lenti della tradizione in una fase di travolgenti cambiamenti e di incontenibile propensione dei lavoratori agricoli proprio per i modelli di vita urbana” (p. 197). Un fallimento che trova un incredibile riscontro nella edilizia di riforma
attuata nel Tavoliere: una edilizia che, neanche ai tempi del fascismo, era riuscita ad essere “talmente anonima nel linguaggio architettonico ed estranea all’economia e all’ambiente circostante”.
Domenico Preti
La grande guerra come frattura epocaledi Enzo Fimiani
Il libro di Antonio Gibelli, L ’officina della guerra. La Grande Guerra e la trasformazione del mondo mentale (Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. XI-276, sip), frutto di una ricerca di ampio spessore durata circa dieci anni, è uno dei più riusciti esempi di come i metodi della storia sociale, applicati al fenomeno-guerra, possano dare frutti assai stimolanti ed aprire considerevoli spazi d’indagine per il futuro. La chiave di volta di tutto il lavoro è l’idea che la prima guerra mondiale vada vista come un traumatico spartiacque tra due mondi, quello ottocentesco ed i prodromi della modernità di questo secolo. La gigantesca esperienza collettiva della grande guerra, almeno a livello di società europea, è stata un’autentica “officina” (da cui il titolo del libro) che ha trasformato non solo la realtà, ma anche le mentalità, modificando i paradigmi dell’esperienza, il rapporto tra grande storia e ‘piccola’ storia privata, il modo stesso di guardare 1’esistenza ed i rapporti sociali. Non solo: il conflitto ha rappresentato anche una fucina di trasformazioni industriali, che hanno proiettato il mondo occidentale verso una configurazione sociale ‘di massa’, verso un lacerante ‘ingresso’ di milioni di uomini nel meccanismo intricato delle vicende storiche.
Ciò che interessa Gibelli è soprattutto comprendere come si sia trasformata la vi
sione del mondo della gente comune, rappresentata in particolare — in questo caso — dai soldati della guerra 1914-1918. Dalla ‘scoperta’ di un fascicolo datato 1916-1917 e recante il titolo Maniaci militari (contenente una raccolta di pratiche mediche su soldati colpiti da reali o presunti disturbi mentali, ricoverati nell’ospedale psichiatri- co della provincia di Genova), si è via via composto, a strati e per progressiva sedimentazione, un percorso di studio ricco di stimoli. Davanti al ricercatore si è aperto un mondo metodologico sconosciuto e affascinante, si sono articolate le prime domande pungolanti: le malattie mentali dei combattenti dipendevano dal servizio militare e dal fronte di guerra oppure no? E quali erano le risposte degli psichiatri dell’epoca? Una prima ricognizione sulle principali riviste di psichiatria di quegli anni, rivelò che la guerra era l’argomento chiave, il nodo intorno a cui ruotava tutto il dibattito scientifico di settore. A quel punto, davanti a Gibelli stava ormai “la convinzione via via più forte di essere di fronte a una grande questione, a un versante sconosciuto — o meglio dimenticato — della storia della Grande Guerra, e a sorprendenti possibilità di rivederne il profilo e la portata” (p. IX). I rapporti dei medici e degli psichiatri al fronte, esaminati in seguito, si mostrarono un sentiero fecondo di memoria
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‘colta’ che, intrecciato con tutta una serie di testimonianze di guerra, andava risalito fino in fondo.
A questo, va aggiunto l’altro grande ‘serbatoio” di fonti e di ricerca; gli scritti dei soldati, gente comune in prevalenza contadini, che hanno prodotto un’enorme quantità di documenti, dagli epistolari (lettere e cartoline nell’ordine di milioni) alle memorie, ai diari. Grazie all’utilizzo di questi materiali “La storiografia sulla prima guerra mondiale è stata attraversata da profondi mutamenti di prospettiva” (p. 4). È ormai chiaro, infatti, che esiste un vasto ‘sommerso’ di voci inesplorate delle classi subalterne, che bisogna tentare di riportare alla luce, per tornare a dar loro capacità di parlare, ed a noi capacità di comprendere. Gibelli si è mosso molto in questa direzione, ed ha avuto il merito, tra l’altro, di essere uno dei promotori di un Archivio della scrittura popolare che, lavorando in connessione con vari centri di ricerca in ambito locale, si propone di reperire e catalogare le testimonianze scritte della gente comune, e di uniformare i criteri di conservazione e lettura del materiale raccolto (pp. 211-218). Ed un primo risultato appare evidente ne L ’officina della guerra, seppur con una rilevanza quantitativa ancora relativamente esigua, ma di tale interesse da spronare ampiamente per il futuro.
Rivelatasi storiograficamente falsa l’asserzione per cui i contadini non hanno prodotto nulla di scritto e quindi non ci consentono di conoscere molto della loro esperienza, è fondamentale leggere l’accesso alla scrittura, per milioni di soldati analfabeti, come un’imponente trasformazione antropologica. Una grande massa di contadini, in una sorta di ‘acculturazione’ coatta sulla spinta dell’esperienza-limite del conflitto, impararono a comunicare attraverso la parola scritta, riproponendo la guerra come officina, crogiolo di cambiamenti, trauma di reazioni a catena. Per la prima volta il termine “caristia” (p. 56) viene associato,
dai contadini nelle loro lettere, non alla fame, salda nella memoria, bensì alla mancanza di carta, in un’ansia tragica di comunicazione, disarticolata, confusa, sintatticamente infantile, ma drammaticamente viva e imprescindibile, ormai, per chiunque si chini sul tentativo di capire la ‘comédie humaine’ della grande guerra. E così, per esempio, la storia di Carlo Verano (contadino ligure il cui diario accompagna il libro di Gibelli) non esaurisce certo, né sublima in sé, la storia dei contadini in guerra. Ma è indubbio, oggi, che “la storia della guerra non può fare a meno di quella di Carlo Verano” (p. 7).
E il riverbero della guerra traspare evidente dalle nebbie del linguaggio: è frequente che in una stessa lettera cozzino due cifre di scrittura completamente differenti. Nella prima parte, il soldato lamenta le proprie sofferenze, in una stesura spesso difficoltosa, con l’uso di una lingua piena di pastoie ma viva. Nella seconda, si affacciano espressioni quali “gloria”, “patria”, “dovere” , in una stereotipata conferma di una guerra più complessa, sottesa, interiore direi, combattuta nella psiche dei fanti tra i propri valori tradizionali e il concetto di patria, tra la propria storia e la grande storia, col contorno dei messaggi subliminali della propaganda, in un autentico paradigma da ‘io diviso’. D’altronde, nelle testimonianze dei fanticontadini c’è netto il riflesso di una cesura causata da un evento imponente. C’è il senso della discontinuità storica, della rottura, per esempio, del tempo lineare passato-presente-futuro, di un tempo scandito da cicli naturali, da ritmi e respiri che si erano trasformati da cronologici in interiori, in una sorta di ‘posa’ mentale che racchiudeva in sé il senso dell’esperienza, della vita e della morte. La guerra — ‘grande’, perché mai conosciuta prima in simili forme — spezza il battito ritmico dell’esistenza per milioni di uomini, portandoli a misurarsi con un’eruzione vulcanica spesso incomprensibile e in
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commensurabile, con un tempo pulsante scandito ora da altri metronomi: il tragico solfeggio dei bombardamenti, improvvisi ma ossessivi; l’annullamento della dinamica giorno/notte in un’unica striscia di guerra; i ritmi della vita di trincea, assoggettati a nuove regole spazio-temporali; la disciplina militare, traumatica e ferreamente ripetitiva; la litanìa dell’eccidio di massa, anonimo e misurabile fisicamente coi mucchi di cadaveri, che rompe la continuità stessa della morte, “spalancando un baratro tra passato e futuro” anche in questo campo (pp. 193- 206).
Nello stesso tempo, i soldati avvertono confusamente il forgiarsi dentro di sé di “un nuovo paesaggio mentale” (p. 164 e sgg.), che cambia la loro stessa percezione del mondo. Gli stimoli acustici e sensoriali dei bombardamenti li costringono a misurarsi per la prima volta con la tecnologia applicata alla distruzione. Nella memoria, gli spazi visivi e quelli sonori si lacerano: la separazione, nel corso dei bombardamenti, del fenomeno luminoso (il cannone che si vede sparare) e di quello acustico (il colpo che si ode), provoca una “scomposizione tra i due piani percettivi” . Contemporaneamente il cinema, espressione della modernità, diventa per molti il punto di riferimento delle nuove esperienze radicalmente nuove, quasi un navigare sospesi tra il reale e l’ir- Reale, prigionieri e attori di una rappresentazione mortalmente realistica, ma scompo
nibile su più piani, come in un montaggio cinematografico. A ciò si accompagnano una nuova prospettiva del paesaggio, mutato dalle granate perfino nella sua morfologia, ma soprattutto una terribile, promiscua mescolanza, nella quotidianità delle trincee, tra corpo e materia, tra “sangue, merda e fango”, tra uomini e topi semiumani, pidocchi, mosche, che sembrano anch’essi “fare le battaglie” (p. 189, dal diario di un soldato), in una nebbiosa batracomiomachia da incubo. Da tutto questo i combattenti tentano una “fuga impossibile” (pp. 122-163), attraverso i territori sconfinati e misteriosi della follia (le cui prime manifestazioni moderne, scaturite dalla guerra tecnologica, si erano già avute nel conflitto russogiapponese del 1904-1905, cui Gibelli dedica un prologo molto significativo), oppure attraverso conati volontari di autolesionismo, simulazione, diserzione, di patetiche e tragiche fughe verso spazi ignoti, ma comunque lontani dalla realtà della guerra.
Un libro, quindi, che si legge e si ‘vive’ con attenzione e pathos costanti, nella convinzione (più volte espressa in pubblici incontri dallo stesso autore) che gli storici oggi debbano discutere in pubblico del loro lavoro e delle fonti utilizzate, cercando di comunicare maggiore ‘passione’, in un approccio meno distaccato e notarile, al fine di colmare sempre più il solco con i fruitori della loro fatica.
Enzo Fimiani
Apparati fascisti e opinioni degli italiani Una ricerca elusiva
di Massimo Legnani
Sia il tema trattato (quello del consenso de- tesi su La seconda guerra mondiale e la Re- gli italiani al fascismo) che i precedenti lavo- pubblica, edita nel 1984 dalla Utet nella col- ri dell’autore (sua, tra l’altro, un’ampia sin- lana di storia d’Italia diretta da Giuseppe
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Galasso) inducono ad accogliere con particolare interesse la recentissima monografia di Simona Colarizi, L ’opinione degli italiani sotto il fascismo 1929-1943 (Roma-Bari, La- terza, 1991, pp. 418, lire 50.000). È però un interesse che la lettura, come cercherò di argomentare, lascia largamente inappagato. In parte per riserve che discendono direttamente dai contenuti del libro; in parte per questioni più generali, di carattere prevalentemente metodologico, cui il saggio si collega ed il cui irrisolto aleggiare rende singolarmente sfuggenti, e fungibili, le indicazioni che da simili indagini emergono. Sotto quest’ultimo profilo, il libro è un sintomo eloquente delle difficoltà che la trattazione del tema solleva e sollecita quindi un più esplicito confronto tra gli studiosi del regime fascista.
Com’è risaputo, va ascritto a merito specifico del quarto volume della biografia mussoliniana di Renzo De Felice (Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso 1929-1936, Torino, Einaudi, 1974) l’aver ‘imposto’ la necessità di una ricostruzione storiografica che — superando i limiti impressionistici ed ideologici connaturati alle contrapposte memorie fascista e antifascista — tracciasse un profilo attendibile dell’estensione delle adesioni raccolte dalla dittatura nelle diverse fasi della sua evoluzione. Estensione e ‘qualità’, così da costruire categorie interpretative calate nell’armatura repressiva del regime, ma attente anche a registrare, con strumenti diversi da quelli della più tradizionale storia politica, voci provenienti dalle pieghe più interne al corpo sociale. I termini della discussione che allora ne seguì (e l’influenza che essa ebbe sulla condotta delle ricerche) possono essere qui appena sfiorati. Quantomeno per sottolineare che un dato si è mantenuto costante: l’estrema difficoltà di articolare concettualmente, scomponendola, la nozione stessa di consenso e di procedere, nel contempo, a verifiche empiriche in grado di coniugare la varietà delle situazioni esa
minate con la molteplicità delle fonti e degli approcci analitici (come dimostrano anche alcuni passaggi del confronto sviluppatosi all’interno degli Istituti di storia della Resistenza: si veda Vittorio De Tassis, Il Novecento degli Istituti. Sulle tracce dei fascismi locali, in “Italia contemporanea”, 181,1990).
Nel contesto di tali difficoltà, la risposta fornita da De Felice — riassumibile nella assunzione, a metro di misura quasi esclusivo del consenso, dei giudizi espressi dagli apparati del regime — ha finito per prevalere, informando la maggior parte della letteratura e conferendo ad essa una sostanziale staticità, un grigiore ripetitivo spesso irrigidito in classificazioni ormai canoniche: il persistere, con qualche oscillazione, del sostegno borghese; la diffidenza, a seconda dei periodi venata di ostilità o di rassegnazione o di aspettative, del proletariato industriale e contadino; la egoistica ‘ragion di stato’ dei ‘poteri paralleli’ militari, ecclesiastici, economici; il manifestarsi delle più larghe adesioni nella prima metà degli anni trenta; il loro restringersi alla fine dello stesso decennio, prodromo della caduta verticale negli anni della seconda guerra mondiale. A questo schema ha sostanzialmente aderito anche Colarizi nel citato volume su La seconda guerra mondiale e la Repubblica. Tuttavia, un poco paradossalmente, l’utilizzazione da lei fatta in quella occasione delle carte di polizia per dimostrare l’inconciliabile contrapposizione tra il bellicismo del regime e il pacifismo del ‘paese reale’ (mi permetto di rimandare alle osservazioni contenute nella mia recensione, in “Italia contemporanea”, 161, 1985) rendeva evidente la forzatura insita nel passare, pressoché senza mediazioni, dalla parzialità della fonte alla ‘globalità’ e nettezza delle valutazioni conclusive. Quasi che la giustificazione di questa ‘translittera- zione’ potesse consistere nella sottintesa convinzione che qualsiasi fonte sia senz’altro ‘attendibile’ quando esprime giudizi non
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difformi da quelli della parte avversa (e tragga da ciò, per conseguenza, una sorta di legittimazione quale ‘fonte universale’).
Che si tratti di un problema non fittizio è dimostrato dal fatto che la stessa Colarizi abbia avvertito il bisogno, nell’impostare la monografia che ora si segnala, di avviare una riflessione complessiva sulla fonte, individuando alcuni dei principali riferimenti filologici e interpretativi che debbono governarne l’impiego. Partendo dall’assunto preliminare che lo spoglio delle carte di polizia non può certo proporsi di ricostruire 1’ ‘opinione pubblica’ (categoria che la dittatura si adopera a brutalmente cancellare), ma, più propriamente, servire a rendersi ragione di quanto gli apparati repressivi del regime riuscissero a cogliere nel “vastissimo campo delle opinioni informali, personali, e non pubbliche nel senso stretto del termine” (p. 5), l’Introduzione fornisce spunti assai utili per muoversi con maggiore consapevolezza nel labirinto degli infiniti rapporti, note, segnalazioni che quotidianamente si accumulavano sul tavolo di lavoro di Mussolini. Vengono così meglio illuminate le diverse origini dei materiali (dall’Ovra al Pnf, dai carabinieri alla milizia), la presunta maggiore affidabilità ‘professionale’ dei canali statali rispetto a quelli di partito (p. 18), gli squilibri circa la differente ricchezza delle informazioni passando dal centro (la capitale è sempre sovrarappresentata) alla periferia (con l’eccezione di Milano), dalle grandi città alle campagne, dalle regioni settentrionali al Mezzogiorno. Vengono inoltre sotto- lineate altre variabili di non minor peso, a cominciare dal fatto che il far coincidere l’avvio della ricostruzione con l’inizio degli anni trenta obbedisce non solo a quanto generalmente suggerito dalla storiografia sull’ingresso del regime nella sua piena maturità, ma anche a condizioni interne alla produzione della fonte analizzata, cioè al definirsi, consolidarsi e specializzarsi degli organismi che quella documentazione elaborano.
Ennesima conferma che gli osservatori incaricati di ‘ascoltare’ il paese reale sono essi stessi componente essenziale della macchina della dittatura, strumento del suo modo di porsi di fronte alla società, portatori di interrogativi ai quali cercano risposta.
Sembra allora evidente come, dentro questa cornice, due strade alternative si aprissero all’indagine: o porre al centro i caratteri della fonte appena richiamati e analizzare anzitutto le modalità della sua produzione, oppure estrarre per grandi linee le valutazioni salienti della fonte stessa e porle a confronto, incrociandole, con quanto emerge soprattutto dalla storiografia che utilizza una diversa documentazione. In realtà il volume non imbocca né l’una né l’altra via, ma, con annalistico puntiglio (ogni capitolo corrisponde all’incirca ad un biennio), fornisce una sorta di contrappunto al succedersi degli avvenimenti, compone un collage delle impressioni e dei giudizi che le diverse istituzioni convogliano al centro cercando di fissare gli umori del paese ed il loro variare. Il filo conduttore che Colarizi ne estrae (e che resta quello, sia pure con un deciso ridimensionamento della categoria del pacifismo, di una sempre più netta presa di distanza delle opinioni diffuse dal regime non appena quest’ultimo proclama volontà di potenza e di espansionismo) sconta perciò tutti gli inconvenienti che nascono dall’estrapolare, e in qualche modo ‘assolutizzare’, valutazioni che conservano valore in quanto siano riferite ad un particolare contesto. Il che non fa che moltiplicare le contraddizioni. Così, se a p. 83 si osserva che dalla fine del 1931 “inizia una fase nuova, destinata a garantire alla dittatura un decennio di stabilità che neppure lo scoppio della seconda guerra mondiale riesce nei primi tempi a compromettere”, a p. 163 leggiamo che già nella prima metà degli anni trenta si consuma la “totale delegittimazione dell’intera classe politica fascista” . Ma le insidie del modulo espositivo prescelto non si arrestano qui. Vorremmo
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fare, tra i molti possibili, almeno due esempi di come l’adesività alla lettera della fonte provochi evidenti distorsioni. Il primo riguarda gli episodi di protesta legati alla situazione economica. I rapporti degli apparati, quando riscontrano segni di difficoltà materiali, non solo li evidenziano, ma ritengono perciò stesso di escludere dalla protesta ogni motivazione di carattere politico (prefigurando semmai implicazioni politiche solo come conseguenza di massicci perturbamenti dell’ordine pubblico che da quel disagio economico traggano incentivo). Il ricercatore sa tuttavia che la traduzione della distinzione tra sfera economica e sfera politica in secca alternativa tra i due ambiti non è solo un riflesso delle rubriche in cui si suddividono i rapporti, ma anche una componente della cultura di coloro che quei rapporti redigono e che non a caso si attenua verso la fine degli anni trenta, quando il carovita incomincia ad intaccare sensibilmente anche le condizioni di vita dei ceti medi, ai quali in larga misura gli estensori dei rapporti appartengono. Il secondo esempio riguarda i comportamenti del paese di fronte all’intervento in guerra del giugno 1940. Avendo valorizzato al massimo tutte le manifestazioni di allarme — dal 1938 in poi, ma per certi aspetti anche prima, a ridosso della guerra d’Africa — per il possibile coinvolgimento dell’Italia in un conflitto generale, Colarizi, di fronte al mutare dello ‘spirito pubblico’ nelle settimane anteriori all’intervento, non può che parlare di “vera sorpresa” per un “paese che improvvisamente si scopre interventista” (p. 336). E — si tratta di uno dei rari casi in cui viene sindacata la genesi della fonte — ipotizza che “molti informatori, anch’essi preda della ubriacatura interventista, tralascino di riferire sulle ombre ancora largamente presenti nell’opinione pubblica” (p. 338). L’accenno esclusivo alla “ubriacatura” — difficile da verificare, ma in qualche misura plausibile — stupisce tuttavia perché viene a conclusione di un lungo capitolo in gran
parte intessuto sulla contrapposizione tra “partito tedesco” e “partito della corona” , visti come rispettivi poli delle aggregazioni interventista ed antinterventista. Perché allora non far posto, accanto alla “ubriacatura”, anche ad un fattore assai meno labile, cioè al fatto che anche le informazioni di polizia rientravano tra gli strumenti impiegati nei conflitti interni al regime e che questo uso viene meno nel momento in cui tutte le componenti convergono sulla (o comunque si adattano alla) scelta interventista? Altra e diversa questione è naturalmente quella della ‘reale’ predisposizione del paese, rispetto a cui l’indicazione che la fonte trasmette è poco più di una semplice ‘spia’, insufficiente a formare la base di un giudizio (come lo era, del resto, il ‘pacifismo’ rilevato in precedenza).
In entrambi i casi sembrano dunque evidenti i pericoli che nascono dal separare le valutazioni contenute nella fonte dalle circostanze per così dire politico-istituzionali che ne hanno influenzato la formazione. La rinuncia a muoversi in questa direzione avrebbe potuto essere compensata, come si è già detto, dal tentativo di correlare l’immagine del paese tratta dalle carte di polizia con ri- costruzioni storiografiche e documentarie di diverso contenuto e impostazione. Ma basta scorrere le referenze bibliografiche per accertare che il tentativo non è stato nemmeno abbozzato. I termini di riferimento restano vaghi o francamente ambigui, come quando, nell’esempio prima richiamato delle reazioni all’intervento nella seconda guerra mondiale, si conclude che “rispetto all’emozione delle ‘radiose giornate di maggio’ del 1915, il coinvolgimento della popolazione appare molto relativo” (p. 338). Dove è arduo capire se il paragone viene istituito con l’aperto, accesissimo conflitto tra interventisti e neutralisti svoltosi nel 1914-1915 (conflitto evidentemente incompatibile con l’Italia del 1940) oppure con un sostegno di massa all’intervento del 1915 che proprio le ristrette dimen
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sioni del ‘radiosomaggismo’ servono a smentire. Del resto gran parte della letteratura recente e meno recente, che pure getta luce su aspetti importanti, non è nemmeno citata: non lo studio di Piero Bevilacqua sulla Calabria tra fascismo e dopoguerra, non quello di Giuseppe Maione su ‘l’imperialismo straccione’, non Luisa Passerini su To
rino operaia, né l’epistolario di Giovanni Pirelli edito a cura di Nicola Tranfaglia. E l’elenco può essere facilmente arricchito, a dimostrazione dell’ambizione che Colarizi coltiva, ma non realizza, di considerare autosufficiente la propria ricostruzione.
Massimo Legnani
Governo italiano e immigrazione ebraica in Palestinadi Guido Vaiabrega
La volenterosa fatica di Mario Toscano, La “Porta di Sion”. L ’Italia e l ’immigrazione clandestina ebraica in Palestina (1945- 1948), Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 351, lire 40.000, potrebbe definirsi come un’ampia riepilogazione delle vicende dei trasferimenti illegali dei profughi ebrei attraverso il nostro paese negli anni che immediatamente precedettero la fondazione dello stato di Israele. Fu uno spostamento abilmente organizzato dalle strutture sioniste, che coinvolse circa ventimila persone fortunosamente giunte nella nostra penisola ed ancora più drammaticamente salpate verso la costa palestinese.
S’è usato il termine riepilogazione perché, pur valendosi di numerosi e talvolta assai interessanti documenti d’archivio, le linee generali dell’indagine non paiono discostarsi dalle rievocazioni biografiche e dalle ricostruzioni già proposte in passato da alcuni protagonisti ed in particolare da Ada Sereni con il volume I clandestini del mare (Milano, Mursia, 1973). E ciò quantunque sia passato un quarantennio dall’epoca rievocata e nonostante le molte acquisizioni intervenute nel frattempo e lo stesso maturare e mutare delle prospettive storiche. Del pari non è sembrato necessario all’autore richiamare, anche sinteticamente, i precedenti del
l’ondata immigratoria negli anni trenta con i rapporti che sin da allora si cominciarono a tessere con le autorità amministrative italiane quali non irrilevanti premesse alla situazione poi configuratasi alla fine della seconda guerra mondiale. Diremmo, in altre parole, che Toscano non ha creduto opportuno porsi di fronte ai fatti che rievoca cercando di non essere troppo partecipe: tentando cioè, di rispondere ai quesiti ed agli interrogativi che scaturiscono dal dovizioso materiale che egli stesso propone secondo un angolo visuale spassionato, vale a dire non di pregiudiziale adesione alle opzioni sioniste dell’epoca. Di contro s’è scelto di autolimitare la portata della ricerca, s’è dato molto per scontato ed accettato, finendo — voluta- mente o meno — con il valersi in modo riduttivo delle medesime disponibilità archivistiche. Sembra questo un atteggiamento che già s’è avuta occasione di rilevare in un altro autore che s’è occupato pure di analoghe questioni: ci riferiamo a Sergio I. Minerbi, Il Vaticano, la Terra Santa e il Sionismo (Milano, Bompiani, 1988), di cui già abbiamo parlato sulle pagine di questa rivista (181, 1990, pp. 780-781) e che non a caso Toscano cita sovente. Poiché forse, l’approfondimento di tali problemi metodologici e di impostazione non è molto utile in astrat-
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to, opteremo, invece, puntando all’essenziale, a verificare determinate specifiche questioni affrontate nel presente libro, anche se talvolta in maniera indiretta. Questo al fine di dar conto dell’ampiezza del nodo storico affrontato e della complessità dei retroscena.
Venendo dunque alla concretezza delle tematiche analizzate, risulta anzitutto significativo, secondo un certo ordine logico, registrare 1’ ‘uso’ che della vicenda dei profughi ebrei dell’Europa centrorientale venne messo in atto dalle organizzazioni sioniste del tempo. Fu una sorta di strumentalizzazione che appunto si intese fare di quella massa di persone travolta dalla guerra e sbandata, in cerca istintiva e confusa d’un luogo ove tentare di ricostruire la propria esistenza. Essa doveva diventare, più o meno consapevolmente, un mezzo di pressione politica, diplomatica e psicologica nella vertenza in atto con la Gran Bretagna e con gli Stati uniti e l’occasione per una insistita campagna propagandistica in tutto il mondo circa l’aspirazione del ritorno alla ‘terra dei padri’, la ricostruzione dell’antica patria, il realizzarsi del messaggio biblico eccetera. Reiteratamente Toscano torna su tali temi. Ad esempio, con una certa meticolosità e senza accorgersi, a quanto pare, di come venga ridimensionando l’impianto ideale del disegno sionista, scrive: “l’intensificazione delle partenze diveniva una condizione essenziale per alimentare le loro speranze, organizzarli, far loro accettare delle norme di comportamento senza le quali non avrebbero potuto esercitare quella pressione politica sul governo britannico che era divenuta un aspetto non secondario della strategia dell’Agenzia Ebraica. A mano a mano che passavano i mesi dalla fine della guerra, accanto alla componente umanitaria, si imponeva l’aspetto politico, ‘dimostrativo’ della aliyà bet [immigrazione clandestina], che doveva influire sul morale dei profughi e sull’opinione pubblica, specie negli Stati Uniti, in
Francia, in Italia” (p. 63). L’impiego dimostrativo delle aspirazioni dei profughi è confermato allorché si sottolinea come, ad un certo punto, l’azione sionista “mirava a scatenare un’ondata migratoria che [...] mettesse in difficoltà la politica inglese del Libro Bianco, ed eventualmente esercitasse la sua influenza anche sui governi e sull’opinione pubblica europea” (p. 172) o che “la presenza in Palestina della commissione d’inchiesta dell’Onu rendeva urgente l’invio di nuove navi cariche di profughi, che rivelassero la durezza della politica inglese e la persistente drammaticità delle sorti dei sopravvissuti agli stermini nazisti” (p. 202). Talché non c’è da stupirsi d’una dichiarazione del governo inglese che sin dal 13 agosto 1946 “denunciava il carattere politico assunto dalla immigrazione illegale, basata su un indottrinamento dei profughi, fonte di tensioni e di pericoli in Palestina” (p. 116).
In corrispondenza con l’impiego spregiudicato da parte sionista delle displaced persons, merita rilevare quello che in sostanza risulta l’analogo atteggiamento italiano in materia: una politica sin dal 1946 “comprensibilmente cauta, circospetta, silenziosa e non ufficiale, ma indubbiamente ricca di importanti e positivi risvolti per la strategia delle organizzazioni sioniste” (p. 61). Invero, nelPItalia del 1945, era diffusa per varie ragioni un’evidente disponibilità umanitaria verso quei superstiti del conflitto, ma va sottolineato come da parte almeno delle autorità si manifestasse pure un vivace interesse a vederli allontanare nei tempi più rapidi dal paese dove erano giunti senza invito alcuno: in caso contrario il loro transito avrebbe potuto essere, infatti, ben altrimenti ritardato ed inceppato.
Del pari, qualora i primi governi di Alcide De Gasperi non avessero voluto, attraverso il nodo dei profughi ebrei, esercitare una specie di pressione sulla Gran Bretagna, con la quale parallelamente era avviata una
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complicata trattativa sulle sorti delle ex colonie e sulle funzioni dell’Italia nel Mediterraneo, oppure in qualche modo ingraziarsi la rapida affermazione negli Stati uniti nell’area mediterranea (p. 115), “umanitarismo”, “benignità” (p. 49), “generosa attitudine” e “cordiale ospitalità” (p. 51) si sarebbero presumibilmente alquanto ridimensionati. Su questo ragguardevole aspetto della politica estera italiana, vale a dire sul rilievo dell’affare delle ex colonie e dello spazio mediterraneo per il nostro impegno diplomatico segnaliamo di sfuggita i saggi di Frederick W. Deakin, Marco Palla e Giampaolo Calchi Novati nella recente raccolta di saggi curata da Angelo Del Boca, Le guerre coloniali del fascismo (Roma-Bari, Laterza,1991).
Proprio tali precisi interessi determinarono da parte dei governi ed in particolare dei primi ministri, dei ministri degli Esteri, degli Interni e dei vertici della Pubblica sicurezza, dei carabinieri e del controspionaggio l’assunzione di una corposa malleveria nel- l’aver protetto, agevolato e sostenuto delle attività illegali, che tra l’altro avrebbero contribuito agli sviluppi negativi d’una tragedia mediterranea tuttora irrisolta: la formazione, cioè, d’uno Stato d’impianto europeo in Palestina a spese della popolazione araba locale, cacciata ed espulsa ed a tut- t’oggi in lotta per la reintegrazione dei propri diritti. Tuttavia, a parte le conseguenze — forse già allora non da tutti imprevedibili — resta come fatto di grande rilievo nella storia italiana contemporanea la scelta delle autorità di preferire, nella gestione delle vicende dell’immigrazione clandestina dei profughi e delle iniziative sioniste, la strada della deviazione e dell’illegalità, venendo meno, in altre parole, all’obbligo di rispettare e far rispettare le leggi. Su questo aspetto non di poco conto dell’intera vicenda Toscano, da un lato non esita a recare conferme e testimonianze, dall’altro accoglie come meritori ed ineccepibili i gesti ed i
comportamenti non solo arbitrari, ma illeciti ed illegali che viene elencando. Ciò a partire da una sorta di discutibile convergenza di interessi che è così delineata: “il ridimensionamento delle prospettive di pace per l’Italia, condizionate dagli incipienti contrasti tra le grandi potenze, e le conseguenze della politica britannica nei confronti delle aspirazioni ebraiche in Palestina, incisero sugli orientamenti delle organizzazioni sioniste così come sulle attitudini del governo e dell’opinione pubblica italiana, e concorsero a creare i presupposti d’una convergenza di intenti, magari temporanea e strumentale, tra lo Stato italiano e i promotori dell’immigrazione illegale, destinata ad assicurare risultati concreti e significativi” (p. 57. Il corsivo è mio).
È in questo ambito che acquistano spazio e peso gli interventi al di fuori delle leggi degli organi di sicurezza, come aveva rivelato a suo tempo Ada Sereni e, come ora riconferma Toscano, dai contatti e dalle intese ai massimi vertici — il capo della polizia Ferrari, il vice capo De Cesare o il capitano del controspionaggio Fienga (p. 98) — agli interventi di prefetti, questori e funzionari periferici. Più specificatamente, nell’estate del 1946 “la partenza [illegale] delle tre navi in rapida successione nell’arco di una settimana rivelava che gli accordi stabiliti da Ada Sereni erano divenuti operanti e che l’attività della base [clandestina] di Bocca di Magra godeva dell’appoggio delle autorità italiane” (p. 109). Ciò è tanto vero che il 1° agosto l’ambasciatore britannico a Roma chiedeva a De Gasperi “di essere rassicurato a proposito di notizie giuntegli circa istruzioni impartite ai questori dei porti interessati di non interferire nella partenza delle navi” (ancora p. 109): una richiesta addirittura ovvia se si tiene presente che il 24 dello stesso mese un appunto della Direzione generale degli Affari politici del ministero degli Esteri dichiarava senza mezzi termini che “le nostre Autorità aiutavano di sottomano” gli emigranti
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clandestini (p. 117). Un altro episodio di quella che si può definire la connivenza italiana si ha a proposito della partenza clandestina della nave Bruna nel luglio 1947 sul quale Toscano si dilunga e che si può così riassumere: non è possibile “sottovalutare il fatto che, nello stesso momento in cui le autorità italiane invitavano il Mossaci le alìyà bel [Centro per l’immigrazione clandestina] a sospendere le partenze dalla penisola, poteva effettuarsi un imbarco clandestino che non sfuggiva però né all’attenzione degli organi della pubblica sicurezza, né, secondo la denuncia britannica, alla stampa locale” (p. 204). Un ulteriore caso non solo di omertà, ma di favoreggiamento è quello della nave Maria Cristina che partiva I’l l dicembre 1947 dalla base di Pescia Romana, “prescelta in accordo con ‘alti ufficiali della marina’” (p. 265).
Si può dunque dire, sulla scorta di quanto Toscano appura, che per il successo dell’azione propagandistica e della pressione psicologica su scala mondiale intorno alla sofferenza dei profughi, basilare non risulterà la capacità dei sionisti a muoversi nell’ombra: senza che nel libro ve ne sia precisa consapevolezza, in verità, tutte le loro mosse clandestine erano perfettamente conosciute e tollerate dalle autorità italiane. Fu invece decisiva la disponibilità italiana ad accettare tutto ciò in cambio di determinati vantaggi politici: l’allontanamento dei profughi (il minore tra tutti, a nostro avviso), l’avvio d’una politica mediterranea, anche in vista delle sorti della Libia, differenziata da quella inglese, ringraziarsi gli ambienti filosionisti degli Stati uniti che alla fine risulteranno vincenti. Insomma quello italiano è un orientamento “del doppio binario che ufficialmente ignorava il problema, si asteneva dal frapporre ostacoli reali [...] ed ufficiosamente forniva un tacito avallo ad una attività che accanto ai valori umanitari aveva il duplice pregio di allontanare dall’Italia decine di profughi e di intralciare la politica in
glese nel Mediterraneo” (p. 68). Si arriva così, di caso in caso, da parte delle organizzazioni sioniste “a saggiare direttamente gli orientamenti delle autorità italiane e a ricercarne il tacito appoggio” che è di portata essenziale. Infatti “il concorso di questi fattori era indispensabile al buon esito dell’operazione” come rivelò l’episodio di Merano e Cassere: le basi “erano rapidamente individuate dalle autorità italiane” (p. 158). Tanto è vero che, quando occasionalmente l’appoggio italiano viene meno, l’iniziativa sionista si trova immediatamente in difficoltà: “la realtà era ugualmente difficile per gli operatori del Mossaci le aliyà bet, in seguito alle esplicite richieste formulate dagli italiani per far fronte alle pressioni inglesi di una momentanea sospensione dell’immigrazione” (p. 199).
Tralasciando altri riferimenti di questo genere che potrebbero continuare numerosi, preme sottolineare un altro punto, anche grazie alle notizie che Toscano fornisce, pur non dando a vedere di valutarne appieno il significato: la connivenza del governo italiano non solo sulla questione dei profughi, che si presentava, almeno apparentemente, carica di significati umanitari, ma, specie nel 1948, su non meno sostanziose e delicate prospettive di esclusivo interesse militare. Ricca è l’informazione su questo punto a partire dalle ammissioni dei dirigenti sionisti Carlo Alberto Viterbo e Raffaele Cantoni nel gennaio 1948 circa l’impegno a raccogliere armi e munizioni ed a trasferirle in Palestina (p. 280). Tanto che gli inglesi, in una delle loro consuete quanto inincisive proteste, poco dopo lamentavano lo scandalo dei “traffici illegali verso la Palestina che ora si estende alle armi ed alle munizioni oltre che all’immigrazione clandestina” (p. 292). La inutilità della pressione britannica scaturiva dal fatto che il governo italiano si era esplicitamente impegnato proprio a permettere quel tipo di traffici: in un incontro con De Gasperi il 4 o 5 aprile, Ada Sereni
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otteneva “l’estensione della tolleranza del governo italiano anche nei confronti del traffico clandestino delle armi” (p. 305): una tolleranza che si prolungava, secondo una nota del ministro degli Esteri Carlo Sforza, ai transiti clandestini di aerei da considerare “con una certa larghezza” (p. 317) e che si protrasse almeno sino al giugno 1948 allorché 1’ “Italia rispose positiva- mente all’appello del Consiglio di Sicurezza dell’Onu [...] per impedire il passaggio di armi e combattenti diretti in Israele durante la tregua. Ma in verità le autorità italiane continuarono a chiudere un occhio ogni volta che ciò era possibile” (p. 338).
A questo punto, solo per inciso si può rimarcare che né Toscano, né altri azzardano alcunché sui guadagni derivanti da tali traffici, sulla loro eventuale incidenza sulla ripresa produttiva del paese, su chi fossero i venditori e gli intermediari eccetera. Si tratta, invero, di elementi non irrilevanti perché nel clima del periodo non stupisce l’emergere, peraltro, di vari punti oscuri, probabilmente la vetta d’un iceberg, sul quale nessuno ha mai osato la scalata. Il libro, però, resta qui troppo nell’indefinito, quasi si gettasse, per un verso, il sasso, evitando, per un altro, di azzardare conclusioni. Si va, così, dall’individuazione, ma sempre in termini inconclusivi, dell’intervento in Italia degli attivisti dell’estrema destra sionista delVIrgun Zvai’ Leumi’ (Organizzazione militare nazionale) e del Betar di Menahem Beghin impegnati in vere e proprie azioni terroristiche (cfr. pp. 144-145) e talvolta confusi con un fantomatico terrorismo comunista (cfr. p. 247), all’ipotesi, circa la presenza tra i profughi, di figure equivoche di fascisti o di criminali di guerra infiltrati: “Troppi fascisti si confondono con gli ebrei clandestini” scriveva 1’“Avanti!” nel maggio 1947 (p. 177), oppure, settembre 1947, l’intera stampa italiana si domandava se i fuggiaschi sui quali stava indagando la polizia italiana fossero “fascisti, ebrei o ameri
cani” (p. 239). Del pari si passa dalle vaghe ricostruzioni sugli intrighi dei vari servizi segreti inglesi o americani che in certe occasioni non disdegnavano — sembra — di utilizzare “personale specializzato già appartenente alla X Mas attualmente al bando e disoccupato per motivi d’epurazione” (p. 291), sino allo sconfinare, di conseguenza, in quelle misure preventive di sicurezza assai discutibili in quanto dirette alla sconfitta elettorale degli avversari del 18 aprile 1948, sulla legittimità delle quali ancora si discute e che costituirono una grave violazione nei compiti di determinati settori ministeriali ed amministrativi: “Non si trattava — si legge alle pp. 275-276 — solo di sporadici articoli di giornale, ma anche di preoccupate analisi delle forze dell’ordine che paventavano le ripercussioni della presenza dei profughi sull’ordine pubblico e i varchi offerti dai loro campi all’infiltrazione di gruppi eversivi e alla predicazione comunista... Indubbiamente, dopo le prime manifestazioni di preoccupazione o ostilità, anche le tensioni della guerra fredda cominciavano a diffondere i propri veleni, alimentando le paure di pericolose infiltrazioni eversive e di subdole ingerenze straniere” . In breve, è la tematica su cui già s’è avuto occasione di riflettere riferendosi anche alle traversie dell’emigrazione clandestina ebraica dopo il 1945, nell’articolo Servizi segreti israeliani e strategia della tensione in Italia (“Calendario del popolo” , n. 482, novembre 1985).
Quale ultima osservazione vorremmo notare come Toscano, verso la fine dell’opera, dischiuda una pagina di grande significato, ancorché, un poco sorprendentemente, non cogliendone che in modo assai parziale le implicazioni. Sin dall’aprile 1948, Giacomo Silimbani, console italiano a Gerusalemme, non mancava di informare tanto dei solidi successi militari ebraici in Palestina, quanto della ormai dilagante tragedia dei profughi palestinesi, una tragedia, per l’esattezza,
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che mai risolta e di continuo aggravatasi tuttora impedisce qualsiasi sviluppo positivo nel conflitto israeliano-palestinese. In un telespresso il console si esprimeva infatti in questi termini: “Le razionali e favorevoli operazioni militari delle forze armate Ebraiche create per mezzo della coscrizione obbligatoria e l’inopinato abbandono degli Inglesi hanno gettato il panico tra la popolazione araba, sostenuta da scarse e disorganizzate forze volontarie, determinando l’abbandono di quartieri completi ed un forte esodo verso i Paesi limitrofi” (p. 307). Per quanto, dunque, mancassero tante notizie ed informazioni, il governo italia
no era con tutta probabilità pienamente in grado di giudicare: se appoggiò delle operazioni illegali, se chiuse gli occhi su gesti terroristici e traffici di armi, se non mutò linea di fronte all’evolversi del conflitto in Palestina il cui esito era evidente molto prima della proclamazione dello stato di Israele, lo fece a ragion veduta. Con le carenze, le illusioni ed i reiterati silenzi, con la certezza — ormai poco convincente — del buon diritto a qualsiasi violenza da parte sionista, il lavoro di Toscano risulta una stringente conferma di tale conclusione.
Guido Valabrega
L’autorappresentazione delle donnedi Luana Mattesini
“In quella che viene chiamata Storia, le donne non compaiono se non a titolo di grandi amanti, di intriganti o di avvelenatrici. La storia delle donne si svolge a letto, si legge in orizzontale. Al contrario, quella dei grandi uomini — si parla solo da poco degli uomini comuni — viene insegnata in verticale [...]. Non è stato conservato niente sulle donne che, dacché esiste la loro oppressione, si sono sollevate contro la condizione che era loro destinata. Appena un trafiletto canzonatorio, peggio ancora il silenzio”. In un famoso numero di “Les Temps Modernes” (aprile-maggio, 1974) — quasi un manifesto del femminismo francese contemporaneo — intitolato Les femmes s ’entêtent, veniva rilevato polemicamente (Annie et Anne, Lutte des femmes et revolution) il fatto che la storia ufficiale avesse misconosciuto il valore di qualsiasi ricognizione esperienziale ed investigazione biografica della soggettività femminile, quasi che alle donne, per secoli uniche custodi della sfera privata, si addicesse
soltanto l’eterna condizione di “escluse dalla storia”, per riprendere il titolo di un celebre volume di Sheila Rowbotham, Escluse dalla storia. Trecento anni di lotte della donna per la sua liberazione, Roma, Editori Riuniti, 1977 (London, Pluto Press, 1974).
L’intento primario del volume curato da Angiolina Arru e Maria Teresa Chialant II racconto delle donne. Voci autobiografie f i gurazioni (Napoli, Liguori, 1990, pp. 275, lire 30.000), è anzitutto quello di restituire una dignità ed una collocazione ben precisa alle diverse modalità autorappresentative delle donne — siano esse testimonianze d’archivio, prodotti letterari esplicitamente autobiografici, o anche pseudoautobiografie. E ciò in un’ottica che, pur muovendo da discipline ed approcci metodologici differenti, si proponga comunque di ‘rileggere’ la storia, rifuggendo da quella retorica e da quelle costruzioni stereotipe di cui si è spesso avvalsa l’iconografia tradizionale per descrivere la soggettività femminile. Il libro consta
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di due parti: interesse centrale della prima, intitolata “Voci e autobiografie”, è anzitutto un’analisi della scrittura autonarrativa, da sempre modalità privilegiata dell’espressione femminile. Quella delle lettere, dei diari, delle autobiografie, delle biografie di altre donne ha rappresentato infatti per molti secoli, la scrittura femminile per eccellenza, come ha notato ne Le donne e la letteratura. Scrittrici eroine e ispiratrici nel mondo delle lettere (Roma, Editori Riuniti, 1984), anche Elisabetta Rasy, la quale definisce appunto l’autobiografia come “un momento chiave della ‘venuta alla scrittura’ delle donne”. Sia che l’intento autobiografico venga dichiarato apertamente, travestito sotto le spoglie del romanzo o anche celato in rare note in margine ai libri, la scrittura dell’io ha permesso infatti alle donne di giungere ad un primo momento pubblico di comunicazione ed affermazione della propria individualità. E questo riguarda non soltanto le donne di classe alta o media, ma anche — sia pure in modo diverso — quelle che appartengono ai ceti popolari: le autobiografie di prostitute ne rappresentano un esempio significativo, anche quando si tratta di ‘redènte’ che scrivono, in apparenza, per testimoniare la propria espiazione, come nel caso della ‘pupilla’ di Josephine Butler, Rebecca Jarrett o quello di Angiolina B., la cui storia di vita è stata di recente scoperta e pubblicata da Annarita Buttafuoco (“Memoria” , 17, 1986). Esemplare in questo senso è il caso di Rosa — raccontato da Andreina De Clementi ne L ’America di Rosa — la quale, emigrata negli Stati uniti dopo un’infanzia ed un’adolescenza trascorse nell’entroterra milanese, impara a “non aver paura” e fa assurgere pertanto l’America a simbolo di un’autonomia e di un’uguaglianza che le erano state negate in patria. Essendo analfabeta, Rosa si trova a dover commissionare ad una sua amica, Maria H. Ets (Rosa. The Life o f an Italian Immigrant, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1970), la trascrizione
delle proprie vicende esistenziali, e ad appagare in tal modo il suo desiderio di autoaffermazione, ponendo le proprie esperienze in funzione pedagogica ed esemplare ad uso delle altre donne che le avrebbero lette.
Il saggio che apre il volume, “Nel carattere scortese, nel comportamento impertinente e sfrontata”. Racconti di serve tedesche nell’Ottocento, si deve ad Angiolina Arru, la quale da anni ormai studia con grande sensibilità e rigore i lavoratori domestici, mettendo in luce le dinamiche dei rapporti tra ser- vi/serve e padroni/padrone. In questo saggio Arru analizza alcune memorie di domestiche a servizio nelle zone alpine all’inizio dello scorso secolo, dimostrando, ancora una volta, il valore assunto dal lavoro e dalla ‘carriera’ nella percezione di sé di queste donne. Particolarmente importante, per la fonte del tutto inconsueta utilizzata, è la lettura che Clara Gailini fa dei graffiti incisi sui muri dalle detenute del carcere di Torino, raccolti da un autorevole esponente del potere istituzionale maschile come Cesare Lombroso, Palinsesti femminili dalle carceri e dal sifilicomio di Torino 1889-1892. In essi Gailini coglie i segni di uno specifico femminile “vivo nonostante la condizione di chi l’ha espresso e l’operazione mortuaria che su di esso tenta lo scienziato positivista” . Come rileva infatti Marina Vitale (Una donna dalla memoria lunga: la scrittura auto- biografica dal basso), sulle donne appartenenti ai ceti sociali più bassi pesava e continua a pesare una duplice interdizione alla scrittura. Un’interdizione che affonda le sue radici, oltre che nella discriminazione sessuale, nella storica mancanza di fiducia delle donne nel significato intrinseco della propria esperienza di vita, considerata come priva di valore esemplare e pertanto trascurabile. Singolare è quindi il fatto che alcune di loro — non importa se detenute o proletarie — riescano a rompere questo silenzio.
Non sempre, tuttavia, le donne si sono avvalse delle forme ‘canoniche’ per ordinare le
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loro ricognizioni memoriali, ma hanno spesso finito per investire di sé anche il linguaggio della finzione narrativa e, in epoca più recente, quello storico, critico o sociologico. Il saggio di Paola Splendore, La difficoltà di dire “io”: l’autobiografia come scrittura del limite, coglie bene queste strategie autorappresentative di “scrittura dai margini”, le quali hanno contribuito a far sì che “la memoria e l’identità personale diventassero base e filo conduttore di ogni pratica discorsiva” . Questa, in sostanza, è la tesi di fondo che permea la seconda sezione del volume, denominata non a caso “Figurazioni”, e nella quale confluiscono interventi riguardanti testi e generi eterogenei come la narrativa e la dimensione linguistica ed etimologica, o incentrati su produzioni massmediali quali gli sceneggiati televisivi.
In tutti i contributi di questa parte appare evidente, ancora una volta, la centralità del discorso autonarrativo, condotto spesso da un personaggio fittizio, come avviene in The Bell Jar di Sylvia Plath (analizzato nel puntuale saggio di Daniela Daniele L ’autoritratto come macabro strip-tease: “The Bell Jar” di Sylvia Plath), o in The Yellow Wallpaper di Charlotte Perkins Gilman (per cui si rimanda all’intervento di Eleonora Rao, Senso, nonsenso, desiderio: “The Yellow Wallpaper” di Charlotte Perkins Gilman) o, in modo più indiretto, negli scritti narrativi di George Eliot, Èva Figes, Charlotte Brontë o Christine Brooke-Rose, analizzati rispettivamente da Marina Lops (Femminile, flusso e forma in George Eliot), Maria Teresa Chia- lant {La voce narrante come coro femminile: i romanzi di Èva Figes), Ady Mineo (Identità femminile tra quotidianità e mito in “Shelley” di Charlotte Brontë) e Maria Del Sapio (Christine Brooke-Rose o del plurilinguismo). Quest’ultima riporta un intervento della scrittrice ginevrina — Self-Con- frontation and the Writer — pubblicato su un numero monografico della “New Literary History” (1, 1977) dedicato all’autobio
grafia. In tale saggio viene ancora una volta palesata la difficoltà per chi scrive — e ciò vale soprattutto per le donne che si muovono in un universo linguistico già precostituito — di confrontarsi con se stesso e di tracciare una propria identità definita. Diventa allora indispensabile non intrappolare la scrittura autonarrativa in un “io” univoco per affermare invece la plurivocità del soggetto; plurivocità sentenziata dalla frase “/ am the others” che conclude emblematicamente l’articolo di Brooke-Rose.
Il racconto drammatico televisivo poi, appare ugualmente caratterizzato — secondo Lidia Curti, Figure dell’io femminile sul piccolo schermo — da cliché ed elementi connotativi che ruotano spesso sul binomio donne-indecifrabilità, scaturito in primo luogo dall’impossibilità che hanno queste ultime di porsi come soggetti assoluti ed univoci; prerogativa che connota invece l’universo maschile. Sul piano pratico questo si traduce, negli sceneggiati televisivi, in una proliferazione di figure femminili che alludono apertamente alle nozioni di diversità — e nel contempo di uguaglianza — tra donne.
Questa mancanza di universalità è da imputarsi — secondo Cristina Vailini {Davanti allo specchio: etimologia e femminilità) — al fatto che il linguaggio, e con esso l’entità simbolica propriamente racchiusa nella parola “io”, sorga come creazione maschile: è evidente pertanto il carattere secondario del femminile a livello linguistico ed etimologico. A tale proposito la studiosa propone di far derivare dallo stesso racconto biblico la relativa semplicità del genere maschile e delle sue strutture rispetto alle corrispondenti femminili: il mito della donna estratta dal corpo dell’uomo giustifica infatti il carattere di “derivato” assunto da quest’ultima rispetto alla “base” e pone nel contempo, per la prima volta, il problema della differenza nell’identità sessuale.
Luana Mattesini
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Italia liberale
Simonetta Soldani (a cura di), L ’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, Milano, Angeli, 1989, pp. XXII-570, lire 35.000.
Il volume raccoglie gli interventi al convegno su Le donne a scuola. L'educazione femminile nell’Italia dell’Ottocento (Siena, 5-7 marzo 1987), oltre alla conferenza tenuta da Mario Alighiero Manacorda all’apertura di una mostra dedicata al medesimo tema. In una osservazione della curatrice si ritrova uno dei principali fili conduttori di questa ampia raccolta di studi. Con riferimento ai problemi dell’istruzione nell’Italia postunitaria, Simonetta Soldani scrive che “come per il popolo, così per le donne, l’ammissione — per la prima volta nella storia — allo sconfinato territorio della cultura scritta, da sempre patrimonio pressoché esclusivo di chi era partecipe di un qualche ‘potere’, implicò il pagamento di un pedaggio non proprio irrilevante: quello di dover sottostare, come del resto accadeva ovunque, ad una ossessiva ‘educazione alla soggezione’, vista come un succedaneo obbligato per chi, dall’interno di questi grandi spezzoni della società civile, superava il livello minimo di scolarità, che in vaste zone dell’Italia meridionale e insulare costituiva un miraggio per quattro donne su cinque ancora nel 1901, e che, anche quando veniva garantito, non era in grado di assicurare, spesso, neppure il possesso stabile degli strumenti più elementari
per leggere, scrivere e far di conto.” (Premessa, p. Vili). Una assimilazione, dunque, tra specifico disagio della componente femminile e più generale problema delle classi subalterne; è peraltro noto come la sordità dei ceti dirigenti tardo ottocenteschi per i problemi della donna derivasse in buona parte dalla scarsa sensibilità complessivamente dimostrata verso la questione sociale italiana.
Premesso ciò, risulta esemplare l’intervento di Manacorda, Istruzione ed emancipazione delta donna net Risorgimento. Riletture e considerazioni, che comincia col ricordare l’esistenza e lo sviluppo — prima e dopo le vicende risorgimentali — di “una serie quasi infinita di squallidi luoghi comuni, sostenuti e diffusi con gran pompa di argomentazioni, ma talmente lontani da ogni ragionevolezza da dissuadere da ogni loro considerazione in chiave storicista: sono in sé immoralità e stucchevolezze che lo storicismo può spiegare [...], ma non può in alcun modo giustificare” (pp. 1- 2). Primo tra tutti, quello delle cosiddette differenze di natura, che reca con sé l’immagine della donna “naturaliter sottoposta all’uomo” (p. 2).
Gli argomenti affrontati nel convegno spaziano tra pre e postrisorgimento, e coprono un ventaglio piuttosto ampio di questioni. Nei contributi dedicati all’Italia unita, trovano un certo approfondimento temi quali la lotta contro l’analfabetismo femminile, la situazione particolarmente svantaggiata delle donne nel Mezzogiorno, il ruolo sociale e culturale delle maestre elementari, il successi
vo e graduale obiettivo — almeno per le donne dei ceti benestanti — di una istruzione postelementare fino alla battaglia per l’accesso femminile all’università; ma emerge soprattutto la notevolissima diffusione di posizioni conservatrici e reazionarie che, in materia di istruzione femminile, finiscono col penalizzare anche coloro che, dall’interno dell’establishment liberale, mostrano qualche moderata disponibilità di segno riformista (efficace in questo senso la relazione di Mauro Moretti su Pasquale Villari deputato, ministro e professore, Pasquale Villari e l ’istruzione femminile: dibattiti di opinione e iniziative di riforma) e i funzionari che prendono alla lettera la politica scolastica laica ufficialmente professata dal governo centrale (su ciò va visto il contributo di Valeria Calvino Manacorda su Salvatore Calvino, provveditore agli studi nell’Italia meridionale degli anni settanta, Testimonianza di un provveditore sull’educazione femminile ne! Mezzogiorno). Particolarmente interessante, tra gli altri, il contributo di Daniele Marchesini sull’analfabetismo femminile nei primi decenni dell’Italia unita, L ’analfabetismo femminile nell’Italia dell’Ottocento: caratteristiche e dinamiche, volto a evidenziare come i progressi dell’alfabetizzazione registrati in quel periodo siano più apparenti che reali, soprattutto se si riflette sulla donna come “anello debole della catena alfabetica” (p. 43). Sulle contraddizioni della politica scolastica postunitaria insistono con osservazioni incisive anche Silvia Franchini (Gli educandati nel
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l ’Italia postunitaria), Simonetta Soldani (Il libro e la matassa. Scuole per "lavori donneschi” nell’Italia da costruire), Carme- la Covato (Educata ad educare: ruolo materno e itinerari formativi), Marino Raicich (Liceo, università, professioni: un percorso difficile), Gaetano Bonet- ta (Igiene e ginnastica femminile nell'Italia liberale), e i già citati Moretti e Calvino Manacorda. Ma al di là dei pochi spunti che lo spazio consente di ricordare, va sottolineato come in questo volume siano efficacemente affrontati temi importanti della storia istituzionale, culturale, sociale dell’istruzione italiana: delle Italie preunitarie come di quelle postrisorgimentali.
Francesco Casadei
Fulvio Cammarano, Il progresso moderato. Un’opposizione moderata nella svolta dell ’Italia crispina (1887-1892), Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 262, lire 30.000.
La ricerca prende le mosse da un interesse per la Federazione Cavour, una forma di aggregazione tra i circoli monarchici-liberali e le associazioni costituzionali di impronta moderata, che sembrava costituire l’embrione di una organizzazione politica del moderatismo italiano e lasciar trasparire la consapevolezza del problema del partito: un elemento tutt’altro che trascurabile nel quadro dell’interesse per il problema della “forma partito”. Di fatto, attraverso il procedere dell’indagine, questo fenomeno organizzativo — di cui si ricostruisce
qui il percorso ideativo e la realizzazione nel corso del 1889, che rappresenta comunque un passaggio politico di rilievo in quanto segnale di nuove esigenze e di una aspirazione a modelli politico-organizzativi inediti all’interno del mondo liberale — risulta poi sostanzialmente ridimensionato dalla incapacità di formulare, tra costanti polemiche e divisioni, un dettagliato programma operativo del partito. Ne consegue la scissione operata nel maggio 1890 dal gruppo di Di Rudinì che vota alla Camera la fiducia al terzo ministero Crispi. Essa si ripercuote sulla realtà extraparlamentare implicando tra l’altro il tramonto dell’ipotesi di un nuovo congresso delle associazioni costituzionali, insistentemente annunciato nei mesi precedenti.
L’interesse del lavoro va ricercato dunque — al di là della questione del partito — nella delineazione di una strategia di opposizione moderata al metodo di governo Crispino, di una risposta a quella che l’autore definisce 1’ “ingegneria politica” crispina, intesa come tentativo di incidere sul tessuto politico e sociale per realizzare una “Italia nuova”, utilizzando a fondo le leve del potere statale. Cammarano muove pertanto dalla ricostruzione del progetto politico crispino, interpretato come interno ad una logica di ammodernamento autoritario, espressione di settori sociali ed economici eterogenei, ma concordi nell’istituzionalizzare l’intervento statale nei processi di sviluppo della società civile; una prospettiva volta a coniugare progresso e modernizza
zione attraverso l’appoggio offerto alle emergenti forze economiche nazionali e in alternativa alla sfida democratico-socialista, nella convinzione “per la prima volta teorizzata, che la politica non sia il prodotto della naturale esplicazione dei fattori sociali ma al contrario sia il terreno della progettazione dei mezzi attraverso cui adeguare una società al turbolento corso della ‘storia’ o alle esigenze della ‘scienza’” (p. 44). Su questa base Cammarano passa ad enucleare ed analizzare i temi dell’opposizione moderata, attraverso una lettura attenta dei dibattiti parlamentari, della pubblicistica coeva, e l’utilizzazione anche di parecchi carteggi privati tra cui quello di Giovanni Codronchi, e con il rammarico tuttavia di non aver potuto avvalersi delle carte di due personaggi centrali per la vicenda in esame quali Ruggero Bonghi e Carlo Alfieri di Sostegno. Fondamentale a questo fine si rivela la possibilità di identificare un raggruppamento parlamentare non esclusivamente sulla base dei curricula ideologici e delle dichiarazioni elettorali, ma attraverso l’adesione formale ad una organizzazione nazionale — la Federazione Cavour appunto — che “rende in qualche modo oggettiva, anche se certamente non vincolante, la posizione dei singoli” (p. 139): si tratta di ventisette deputati e tre senatori che costituiscono un gruppo abbastanza compatto, contraddistinto da una considerevole presenza di settentrionali dotati di cultura ‘positiva’, scientifica ed imprenditoriale, più consoni e vicini ai valori della produzione e
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della scienza che a quelli della mediazione e della cultura umanistica. Cammarano ricostruisce i comportamenti politici del gruppo anche attraverso una fonte fino ad ora troppo poco usata quale i risultati delle votazioni nominali in aula.
I principali nodi teorici che sostanziano le posizioni dell’opposizione moderata sono individuati nella difesa del ruolo del Parlamento di fronte all’ingerenza dell’esecutivo, nell’esigenza cioè di recuperare una funzione dibattimentale e inquisitiva della Camera, in grado di porre un freno all’impazienza del progetto riformatore Crispino; nella critica alle scelte concernenti la finanza pubblica, che assume un carattere spiccatamente politico ispirato al tema dei limiti dell’intervento dello Stato nella sfera sociale; nella critica alla interpretazione ‘aggressiva’ che il presidente del Consiglio dà alla politica estera, più che alle sue linee portanti, che lascia trasparire una concezione dell’espansione coloniale come risultato di una rigogliosa condizione economica che si traduce in investimenti produttivi. Tutti elementi che contribuiscono a delineare una strategia politica intesa come alternativa ad un progetto considerato nel suo complesso ‘estremista’, proprio perché incline ad avallare un esplicito esperimento di integrazione in campo sociale facendo leva anche sul richiamo alla legittimazione rivoluzionaria e al patriottismo.
II radicalismo e giacobinismo crispino rappresentano dunque l’elemento di contrasto in grado di offrire un banco di prova e di verifica alla prospettiva poli
tica che si considera erede del liberalismo cavouriano, in opposizione ad un progetto di modificazione della società attraverso gli strumenti dell’ ‘ingegneria politica’. L’opposizione moderata a Crispi, concependo l’ingresso delle masse nella vita pubblica attraverso un lento processo di assimilazione ed educazione, e ponendosi come catalizzatore delle forze ‘sane’ della borghesia, rappresenta l’esperienza in una dimensione nazionale di un fenomeno a carattere europeo, ossia di quel processo generale di ripensamento delle ‘strategie della legittimazione’ che caratterizza la riflessione politica ed intellettuale della classe dirigente liberale nell’ultimo trentennio del secolo scorso. In questa capacità di inserire quello che potrebbe apparire un episodio di scarso rilievo della vita politica e parlamentare italiana in un quadro assai più vasto e comparato di riflessione sulla scienza della politica, sta il pregio, a mio avviso, del lavoro di Cammarano. Quella che egli definisce “megalomania” crispina e “politica massaia” del moderatismo settentrionale diventano così veramente i corni di una dialettica interna al sistema politico italiano nel quadro però di una riflessione sulla ‘scienza della politica’ comune a tutta l’Europa del periodo: “se cioè l’arte del politico fosse la manipolazione della realtà in nome dei grandi fini e progetti disvelati da una qualche filosofia o se essa fosse l’arte dell’equilibrio da realizzarsi prima nella società e da trasporre poi nella politica” (p. 8).
Emma Mana
Istituto per la scienza dell’amministrazione PUBBLICA, Le riforme crispine, Volume primo, Amministrazione statale, Milano, Giuffrè, 1990, pp. XVIII-948, lire 90.000.Id ., Le riforme crispine, Volume secondo, Giustizia amministrativa, Milano, Giuffrè, 1990, pp. XVIII-734, lire 70.000.Id ., Le riforme crispine, Volume terzo, Amministrazione locale, Milano, Giuffrè, 1990, pp. XVIII-1014, lire 100.000. Id ., Le riforme crispine, Volume quarto, Amministrazione sociale, Milano, Giuffrè, 1990, pp. XVIII-729, lire 70.000.
Con questi volumi, che riuniscono numerosi saggi raggruppati in otto sezioni strettamente correlate tra loro, l’Isap pubblica i risultati di vaste ricerche incentrate sulle riforme amministrative realizzate tra il 1888 ed il 1890, ma che prendono in considerazione un periodo ben più ampio a cavallo di quegli anni. Con il proposito di pubblicare interventi analitici su uno dei prossimi fascicoli della rivista, riteniamo intanto utile segnalare l’articolazione interna dei volumi, ciascuno dei quali presenta in apertura l’Introduzione generale (pp. VII-XIII) di Ettore Roteili, direttore generale dell’opera.
L'Amministrazione statale si articola in una sezione su I ministeri ed in una riguardante Le prefetture. Nella prima Vlntro- duzione del coordinatore Guido Melis (pp. 3-14) è seguita dai saggi di Paola Carucci, La Presidenza del consiglio dei ministri (pp. 15-79), Fabio Grassi, // ministero degli Esteri: la diplomazia (pp. 81-165), Vincenzo
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Pellegrini, Il ministero degli Esteri: l ’organizzazione (pp.167-269), Daniela Frigo, Il ministero degli Esteri: le colonie (pp. 271-325), Manuela Caddi, Il ministero degli Interni: i funzionari (pp. 327-413), Luisa Montevecchi, Il ministero degli Interni: gli archivi e le informazioni (pp. 415-446), Giovanna Tosatti, Il ministero degli Interni: le origini del Casellario politico centrale (pp. 447-485), Giuseppe Arcuri, Il ministero delle Poste e Telegrafi: l ’istituzione (pp. 487-518), Maria Giannetto, Il ministero delle Poste e Telegrafi: l ’organizzazione (pp. 519-581), Stefania Rudatis, L ’istituzione dei sottosegretari di Stato (pp. 583-621). Nella seconda sezione, dopo l’Introduzione del coordinatore Pietro Aimo (pp. 625-645), sono pubblicate le monografie sulle prefetture di Milano (di Anna Rita Ostinelli, pp. 647-696), Brescia (di Riccardo Johnson, pp. 697- 744), Mantova (di Lorena Leoni, pp. 745-783), Roma (di Maria Guercio, pp. 785-854), Catania (di Marcello Saija, pp. 855-895) e Siracusa (di Giuseppe Astuto, pp. 897-935).
Il secondo volume, sulla Giustizia amministrativa, comprende VIntroduzione di Umberto Allegretti (coordinatore), pp. 1- 42 e gli studi di Piero Gotti, La legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E, nella giurisprudenza del giudice ordinario (pp. 43- 75), Alfredo Corpaci, La giurisprudenza del Consiglio di Stato (pp. 77-164), Marina Gigante, I conflitti di attribuzione nella giurisprudenza del Consiglio di Stato (pp. 165-219), Andrea Pubusa, Il dibattito dottrinale prima delle leggi del 1889-
90 (pp. 221-264), Alfonso di Giovanni, L ’iter parlamentare della legge istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato (pp. 265-344), Carlo Maviglia, L ’istituzione della Giunta provinciale amministrativa (legge 1° maggio 1890, n. 6837) (pp. 345-440), Enrico Follieri, La legge 31 marzo 1889, n. 5992, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato (pp. 441-496), Vincenzo Cerulli Irelli, Le questioni di giurisdizione nella giurisprudenza della Cassazione di Roma (pp. 497-532), Bernardo Sordi, L ’influenza tedesca (pp. 533-574), Luca Mannoni, L ’influenza francese (pp. 575-616), Laura Ammannati, Il dibattito dottrinale dopo le leggi del 1889-90 (pp. 617-683) e Giorgio Rebuffa, Il dibattito dottrinale dopo le leggi del 1889-90: Stato di diritto e Stato sociale (pp. 685-717). Ricordiamo inoltre che sul tema trattato in questo volume l’Isap ha pubblicato recentemente anche lo studio di Piero Aimo, Le origini della giustizia amministrativa. Consigli di prefettura e Consiglio di Stato nell’Italia napoleonica (Milano, Giuffrè, 1990, pp. XXXIII-457, lire 45.000).
Il terzo volume si articola in una sezione dedicata a Profili di città, coordinata da Cesare Mozzarella ed in una riservata a Profili speciali, coordinata da Fabio Rugge. La prima riunisce saggi su Bologna (di Aurelio Alaimo, pp. 3-80), Como (di Ivana Pederzani, pp. 81-191), Genova (di Fernanda Mazzanti Pepe, pp. 193-285), Lucca (di Marina Brogi, pp. 287-372), Mantova (di L. Leoni, pp. 373- 433), Modena (di Euride Fre- gni, pp. 435-513), Pavia (di Al
berto Liva, pp. 515-555), Rieti (di Agostino Attanasio, pp. 557-622), Siena (di Saverio Car- pinelli, pp. 623-693) e Udine (di Laura Casella, pp. 695-776). Nella seconda, F. Rugge introduce (pp. 779-788) i contributi di L. Leoni, Il personale elettivo (pp. 789-857), Mariapia Bi- garan, Il personale burocratico (pp. 859-892), Paolo Frascani, Le entrate (pp. 893-929), Giuseppe De Luca, Le funzioni urbanistiche (ppi 931-955) e Alessandro Polsi, Il catasto (pp. 957-1001).
L’ultimo volume, dedicato all’Amministrazione sociale, si articola in sezioni su Le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, Le casse di risparmio e L'organizzazione pubblica della sanità, rispettivamente coordinate da Paolo Cavaleri, Marcello Clarich e Claudia Pancino. Nella prima, a\\’In- troduzione di P. Cavaleri (pp. 3-21) seguono i saggi di Romilda Scaldaferri, Il dibattito parlamentare (pp. 23-47), P. Cavaleri, La legge 17 luglio 1890, n. 6972, nella giurisprudenza (pp. 49-148), Stefano Sepe, L ’esercizio del controllo in applicazione della legge 17 luglio 1890, n. 6972 (pp. 149-228), Edoardo Bressan, I cattolici milanesi di fronte al nuovo ordinamento (pp. 229-261), Amelia Belloni Sonzogni, I cattolici milanesi dopo la legge 17 luglio 1890, n. 6972 (pp. 263-290) e Valeria De Bartolomeis, L ’applicazione della legge 17 luglio 1890, n. 6972: il caso di Teramo (pp. 291-329). La sezione sulle casse di risparmio comprende, oltre all’Introduzione (pp. 333-337) e alle Conclusioni (pp. 473-478) di M. Clarich, gli studi di Enri-
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co Gustapane, L ’evoluzione antecedente (pp. 339-399), M. Clarich, La portata innovatrice delia legge 15 luglio 1888, n. 5546 (pp. 401-429) e Domenico Iaria, I controlli e la natura giuridica (pp. 431-472). Infine, nella sezione riservata alla sanità, l’Introduzione di C. Pancino (pp. 481-493) è seguita dagli studi di Fiorenza Tarozzi, L ’ordinamento prima della legge 22 dicembre 1888, n. 5849 (pp. 495-527), Giovanna Ognibeni, L ’iter parlamentare della legge 22 dicembre 1888, n. 5849 (pp. 529-566), Anna Parma, L ’amministrazione centrale (pp. 567- 595), C. Pancino, L ’amministrazione periferica e locale (pp. 597-649), Marco Soresina, Il dibattito nelle associazioni mediche (pp. 651-687) e Carla Gio- vannini, Le inchieste (pp. 689- 714). Non si può, infine, fare a meno di notare la mancanza di un indice dei nomi, sicuramente utile in una pubblicazione di questo genere.
Paolo Ferrari
Nunzio Dell’Erba, Il socialismo riformista tra politica e cultura, Milano, Angeli, 1990, pp. 172, lire 20.000.
Un merito importante, forse il principale, di questo volume risiede nel presentare in forma sintetica e convincente alcuni temi di storia del movimento socialista (dalle origini alla seconda guerra mondiale), attraverso quella che, fondamentalmente, è una rassegna di figure rilevanti di tale vicenda. Interessante, tra gli altri, è il primo capitolo, in cui si ricostruiscono i prodromi del socialismo italia
no, le influenze internazionali che su esso agiscono e le stesse diversificazioni interne del periodo risorgimentale; viene inoltre ricordato il ruolo che ebbe, ai fini della prima diffusione degli ideali socialisti, una figura come quella di Giuseppe Garibaldi. Le altre parti del lavoro si addentrano nella storia del socialismo come movimento politico dell’Italia unita: emblematica, a tale riguardo, la vicenda di Francesco Saverio Merlino, giovane avvocato di idee anarchiche che col tempo matura l’adesione ad un socialismo dalle sempre presenti venature libertarie, fino ad essere protagonista del dibattito (italiano e internazionale) sulla revisione del marxismo. Dell’Erba richiama l’attenzione anche su un personaggio come Achille Loria, solitamente trascurato dalla storiografia, ma che godette presso i contemporanei di notevole prestigio accademico, scientifico e politico. Compagno di studi, nella Bologna degli anni settanta, di Filippo Turati, Loria esercita una notevole influenza, negli ultimi due decenni del XIX secolo, sul dibattito ideologico ed economico che agita la sinistra democratica e socialista. Tra i temi esaminati spicca quello della “teoria del valore”; a questo proposito Dell’Erba ricorda opportunamente come tale dibattito abbia avuto tra le sue sedi, negli anni novanta, riviste importanti quali “Critica sociale” e la “Rivista critica del socialismo”.
Efficaci appaiono anche le pagine dedicate ad un dirigente di spicco come Claudio Treves, volte a delineare le tappe principali della carriera politica e
giornalistica del riformista torinese; emerge infatti con sufficiente chiarezza la scelta del socialismo gradualista come ‘bussola’ fondamentale che guida Treves dalla crisi di fine secolo fino all’avvento del fascismo, attraverso vicende quali l’età giolittiana, la guerra di Libia, la crisi del riformismo all’interno del Psi, il primo conflitto mondiale, il biennio rosso. Un Treves impegnato sia nella lotta politica tra le correnti socialiste, sia nella battaglia politica nazionale, in Parlamento come nella stampa; dirigente che risulta sempre impegnato in difesa delle libertà fondamentali e che sviluppa battaglie civili importanti come quella per il suffragio universale. Quanto ad Angiolo Cabrini (pp. 115-134), ne viene ricordato il ruolo di organizzatore socialista e di sindacalista riformista, promotore di importanti iniziative in tema di legislazione sociale (da ricordare, a tale proposito, un discorso alla Camera nel maggio 1901 su Leggi sociali e lotta di classe), di tutela dell’emigrazione italiana, di difesa dei diritti dei lavoratori della terra. In Cabrini (come in Treves e in altri dirigenti riformisti) è assai forte l’ostilità verso il sindacalismo rivoluzionario e l’uso politico, da esso propagandato, dello sciopero generale; il riformista monzese è anche fautore, sul declinare dell’età giolittiana, di un progetto di “Partito del lavoro”, accogliendo così alcuni spunti dell’elaborazione bonomiana e bissolatiana.
Piuttosto interessanti sono le riflessioni su Eugenio Colorni, attraverso le quali il lettore è introdotto ad alcuni fondamenta
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li problemi del periodo tra le due guerre mondiali. Laureato in filosofia (Dell’Erba sottolinea il ruolo svolto dagli interessi filosofici nella formazione politica del socialista milanese), Colorni si avvicina a Giustizia e libertà e, in seguito, al partito socialista, diventando uno dei massimi dirigenti del Centro interno. Promotore di un dialogo critico col partito comunista italiano, solleva all’interno del Psi la questione del superamento di impostazioni classiste care a Rodolfo Morandi e propugna una maggiore attenzione verso le classi medie. Nel 1941, Colorni, confinato a Ventotene, è autore — con Altiero Spinelli e Ernesto Rossi — del Manifesto per l ’Europa libera e unita. “Quel programma, cui Colorni rimane fedele per il resto della sua breve ma intensa esistenza, si propone la realizzazione di una società basata sul decentramento regionale e sull’autogoverno locale [...]” (pp. 146- 147). È un progetto, quello federalista di Colorni, in cui viene sottolineato il ruolo delle masse sia per la conquista dell’unità europea sia per promuovere una società caratterizzata da maggiore giustizia e libertà. Tali saranno i suoi orientamenti anche nel vivo della Resistenza e della lotta clandestina. In un ultimo capitolo Dell’Erba ripercorre alcune tappe del rapporto tra “Storiografia e socialismo riformista”, soffermandosi su ciò che è stato prodotto tra gli anni trenta (si parte infatti dagli studi di Nello Rosselli, senza dimenticare l’uscita di alcuni saggi — di carattere memorialisti- co — che il regime consentì di pubblicare alla Laterza di Bene
detto Croce) e la ripresa postbellica (l’autore non affronta gli sviluppi della storiografia italiana tra gli anni settanta e i giorni nostri). È anche, questo excursus, l’occasione per una rapida rassegna di alcuni temi della storia socialista tra Ottocento e Novecento e delle riflessioni a tale proposito svolte da Gaetano Salvemini, Carlo Rosselli, Pietro Nenni; ma è anche l’occasione per indicare alcuni opportuni spunti di ricerca.
Francesco Casadei
Domenico Scacchi, Abbasso le maschere. Democrazia e gari- baldinismo a Roma (1881- 1883), Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1990, pp. 161, sip.
Edito dal Comitato di Roma dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, “Abbasso le maschere” è un saggio che mette a fuoco un fenomeno politico piuttosto singolare della seconda metà del secolo deci- monono, finora poco e mal indagato, vale a dire quello che già allora veniva definito il “ coccapiellerismo”. Domenico Scacchi, profondo conoscitore della politica italiana ottocentesca ed in particolare dei movimenti di opposizione, rivisita gli anni di maggior successo di quel Francesco Coccapieller che nei primi anni ottanta mise a soqquadro l’ambiente politico romano e nazionale. Ex dragone pontificio, ex aiutante di Garibaldi — almeno secondo il suo dire —, tribuno, polemista, poi deputato, Coccapieller assurse ai fasti della cronaca prima come collaboratore
dell’ “Eco dell’operaio” e successivamente come fondatore e direttore del foglio “Ezio II”. Da questi due giornali egli intraprese una campagna di denuncia moralistica che ben presto divenne opera sistematica di calunnia e di diffamazione nei riguardi dei personaggi più in vista del movimento democratico della capitale. Le agitazioni pubblicistiche, il ‘sovversivismo’ moralistico, la virulenza antimassonica, i toni aspri ed accesi di un antagonismo viscerale verso i democratici gli procurarono una vasta notorietà, che non solo fece facile e naturale proselitismo fra le fasce popolari, ma suscitò consensi di rilievo anche negli schieramenti e negli ambienti cattolici, fino a suscitare l’approvazione della “Civiltà cattolica”. La repentina fama, oltre a portarlo alla Camera, suscitò financo interessi ‘scientifici’, quali quelli di Cesare Lombroso, che gli dedicò un breve saggio nell’opera Due tribuni studiati da un alienista (Roma, 1883).
La critica storiografica ha sempre dato di Coccapieller, come ricorda Scacchi, una “descrizione per certi versi stereotipata: personaggio del sottobosco del giornalismo della capitale” che accidentalmente si è insinuato nei due giornali romani e dove si è distinto solo per lo scandalismo e le diffamazioni continuate. Valutazione non del tutto adeguata e sicuramente parziale. Infatti, essa non spiega come una persona tanto screditata e squattrinata come Coccapieller sia riuscita a fondare il giornale (“Ezio II”) e a sostenere la sua vincente campagna elettorale. Scacchi va
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proprio alla ricerca di queste ragioni e le trova nell’appoggio che Coccapieller potè godere da parte di Depretis ed in particolare di Ricciotti Garibaldi. 11 ‘padre’ della Sinistra e presidente del Consiglio se ne servì per impedire una affermazione radicale a Roma nelle elezioni politiche dell’autunno del 1882. Il secondogenito di Garibaldi, alla scomparsa del padre, utilizzò lo stravagante Coccapieller per spianarsi la strada verso la conquista della leadership del garibaldinismo e quindi della democrazia italiana. Difatti, alla scomparsa dell’ ‘eroe dei due mondi’, per Ricciotti Garibaldi raccogliere l’eredità paterna fu un impegno d’onore ed in fondo l’unico modo per sopravvivere politicamente. La via che scelse fu quella di devastare il composito mondo democratico proprio grazie alla stampa diffamatoria e ricattatoria di cui si rese protagonista Coccapieller. L’obiettivo di Ricciotti Garibaldi si può dire fu raggiunto solo in parte e per breve tempo. Diventato deputato nel 1883 per il rotto della cuffia (a causa delle dimissioni di Leopoldo Torlo- nia), con una vita parlamentare piuttosto anonima, non riuscì nemmeno lontanamente ad accreditarsi come leader del garibaldinismo e del mondo democratico in genere. Coccapieller riscosse senz’altro molto di più del suo mentore e protettore. Fu più volte deputato, anche se con carriera parlamentare piuttosto breve, saltuaria e grama, ed ebbe fama ed onore negli strati sociali più popolari. Sempre inviso alle classi politiche dirigenti e liberali, accanto alla gloria, però, conobbe pure, e a
più riprese, il carcere, ove più volte venne ospitato a causa delle code giudiziarie alle sue iniziative diffamatorie.
Gaetano Bonetta
Enrico Resti, Ferdinando Bocconi, Milano, Egea, 1990, pp. XI-124, sip.
La biografia di Ferdinando Bocconi, che possiamo senz’altro considerare uno dei principali esponenti della vita economica milanese e italiana tra il 1870 e il 1890, è il tema di questo libro accurato e documentato, redatto da Enrico Resti, direttore amministrativo dell’università Bocconi e studioso della storia dell’istituto. A lui si deve la riscoperta, avvenuta nel 1976 durante un’ispezione nei magazzini sotterranei dell’ateneo, di un bassorilievo bronzeo, dimenticato negli scantinati per quarant’anni. In esso campeggia un motto che sintetizza i motivi che spinsero Ferdinando Bocconi alla fondazione dell’università, nel nome del figlio caduto: “Munificentia patris, filio sacrificio”. La munificenza del padre a ricordo del sacrificio del figlio.
Come scrive Giovanni Spadolini nell’introduzione, se Piero Gobetti avesse conosciuto l’intera parabola di Ferdinando Bocconi, lo avrebbe collocato, insieme a Giovanni Agnelli, tra i “solitari eroi del capitalismo”. Nato a Milano nel 1836, Bocconi aveva iniziato la sua attività quale venditore ambulante di stoffe. Nel 1865, valendosi di una schiera di artigiani a domicilio, aveva creato, insieme al
fratello Luigi, un magazzino di abiti confezionati, “reagendo ad una mentalità conservatrice che allora imperava in fatto di abbigliamento”, mentalità per la quale gli abiti confezionati venivano comprati soltanto dai rigattieri, dagli acquirenti in difficoltà economiche. Alla bottega di via Santa Radegon- da, primo negozio a sperimentare l’illuminazione elettrica, era seguito il “Magazzino livornese” di corso di Porta Nuova (1870-1877) dove, insieme ad abiti e cappotti confezionati, si vendevano biancheria, calzature e stoffa per arredamento e l’emporio “Aux villes d’Italie”, poi “Alle città d’Italia” (1877- 1889), primo esempio italiano di grande magazzino, con stabilimento di produzione e succursali nelle principali città italiane e a Parigi. Presto anche questo magazzino doveva rivelarsi insufficiente, per cui nel 1889 veniva inaugurato, tra via Santa Radegonda e via San Raffaele, il Magazzino fratelli Bocconi che avrebbe poi preso l’attuale denominazione “La Rinascente”, proposta da Gabriele D’Annunzio. Quest’ascesa era contrassegnata da alcuni conflitti di carattere sindacale (già nel 1880 il magazzino contava trecento dipendenti) quali, ad esempio, la contestazione, da parte delle organizzazioni operaie, dell’apprendistato gratuito per un anno, dell’orario di lavoro stressante, delle paghe scarse e della mancata osservanza del riposo festivo, problema quest’ultimo risolto nel 1883.
Nel 1896 intanto Ferdinando Bocconi era colpito da una tragedia: la morte del figlio Luigi
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nella battaglia di Adua, dove si era recato sotto la veste di corrispondente de “La Riforma”, in realtà quale volontario. Luigi Bocconi è descritto dall’autore come uomo sensibile alle questioni sociali, a disagio per la propria posizione economica privilegiata e per il fatto che i ceti popolari dovessero sopportare gli oneri del servizio militare mentre i ricchi potevano evitarli. Era questa la molla che lo doveva spingere a partire per l’Abissinia. Scelta questa che, considerata la premessa, lascia un po’ perplessi, in quanto effettuata mentre tutte le forze progressiste si battevano contro la spedizione africana. Sempre molto sensibile ai problemi dell’istruzione, Ferdinando Bocconi aveva sempre avvertito la necessità di un’organizzazione scolastica che avviasse i giovani all’esercizio del commercio. Il dolore per la morte del figlio lo portava a concepire una realizzazione che, perpetuandone la memoria, intitolasse a suo nome “un’istituto universitario per dare rigore scientifico agli studi ed alle tecniche commerciali”. Sorgeva così, con l’aiuto di Leopoldo Sabbatini, allora segretario della Camera di commercio e grazie ai consigli ed ai suggerimenti dei più importanti operatori economici dell’epoca, l’università Luigi Bocconi, la cui istituzione in ente morale doveva essere approvata dal R.D. 29 settembre 1902, n. 365. Resti riporta nel volume le interpellanze favorevoli e contrarie al provvedimento. Tra le prime ricordiamo quella di Maino, presentata anche a nome di Mangiagalli, Turati e Ca- brini, il cui consenso era moti
vato dal fatto che la scuola non costava “un centesimo al bilancio dello Stato” e rendeva “grandi servigi alla cultura del Paese”. Ferdinando Bocconi moriva poi nel 1908, dopo essere stato nominato senatore nel 1906.
Le varie tappe della sua vita sono considerate dall’autore nel quadro della situazione economica italiana, caratterizzata, dopo la stagnazione succeduta all’unità d’Italia ed alla guerra d’indipendenza del 1866, dai primi fermenti di ripresa registrati nell’Italia settentrionale nel decennio 1880-1890. All’Esposizione nazionale del 1881, “manifestazione voluta dalla borghesia produttiva milanese per fare il punto sulle conquiste economiche, tecniche sociali e culturali del Paese in un periodo storico di intensi cambiamenti”, i fratelli Bocconi partecipavano non solo quali espositori ma quali organizzatori e finanziatori della mostra. Il volume è corredato da numerose illustrazioni di carattere storico utili per integrare le notizie fornite dal testo.
Franco Pedone
Mario Genco, Il Delegato, Palermo, Sellerio, 1991, pp. 117, lire 12.000.
“Questo non è un libro di storia” avverte l’autore nella “Notizia” in cui dà conto delle fonti bibliografiche ed archivistiche sulle quali il suo volumetto — che non è di storia — è però “tutto costruito”. E questo equivoco tra scienza e non scienza, tra sapere alto e sapere medio si ripresenta nel libro a
partire dalla stessa “Notizia” in cui, accanto alle buste dell’Archivio centrale dello Stato o dell’Archivio di Stato di Palermo, accanto a La Sicilia ricostruita nel volume curato da Maurice Aymard e Giuseppe Giarrizzo per la Storia d ’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi (Torino, Einaudi, 1987), viene segnalato, con mossa tra ingenua ed anticonformista, L ’esame di Storia di C. Monti, uno dei classici manualetti Bignami. Più serio e non privo di conseguenze l’equivoco sulla natura scientifica degli scritti di Antonio Cutrera, delegato di polizia, che vive nei decenni a cavaliere tra Otto e Novecento in una Sicilia animata dai moti socialisti, non meno che dal banditismo e dalla mafia. Cutrera associa ai suoi doveri di funzionario un’attività di studioso ‘poligrafo’. Inizialmente — tra il 1896 ed il 1911 — le sue opere (i suoi “opuscoli”, come altri diranno) riguardano gli oggetti stessi del suo ufficio: la malavita palermitana, la mafia, il banditismo, la prostituzione. Poi nel delegato cresce il risentimento per i troppo scarsi riconoscimenti che dall’ufficio gli vengono e sino al 1938, anno della morte, dimentica le sue prove di sociologia criminale riversando ogni vena creativa in una “miscellanea febbrile” di storia, architettura, scultura, pittura.
Che rango attribuire a questa produzione — o almeno alla prima, alla quale Cutrera verosimilmente dedicò le migliori energie e connesse le più legittime ambizioni? Lo studio del 1896 sullo sfruttamento della prostituzione a Palermo (I Ri- cottari) ebbe recensioni favore
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voli, tra cui quella de “La scuola positiva” di Enrico Ferri (della qual rivista, peraltro, Outrera era stabile collaboratore); La mafia ed i mafiosi, uscito allo scoccare del secolo, fu elogiato sulla “Rivista popolare” da Napoleone Colajanni ed entrò nel novero dei classici sull’argomento, citato da celebri autori stranieri; lo studio su la Storia della prostituzione in Sicilia ha più recentemente fatto scrivere a Massimo Ganci che addirittura Cutrera vi “anticipa la moderna storiografia di tendenza sociale”. Ma se si interpella l’oracolo burocratico, quella piramide gerarchica alla quale insistentemente Cutrera si rivolse perché le sue opere venissero riconosciute meritevoli di procurargli un avanzamento di carriera, la risposta sul rango di quelle opere è di tutt’altro segno. Nel 1896, 1’ “opuscolo” / Ricottati, inviato per via (e con benedizione) gerarchica al direttore generale della Pubblica sicurezza con lo scopo di sollecitarne una “adeguata gratificazione”, non ne viene ritenuto degno; qualche anno più tardi, nel 1908, al delegato che pretende di far valere le proprie pubblicazioni come titolo di merito, una decisione del Consiglio di stato oppone che “il giudizio sulle medesime” non può spettare all’autore; infine, all’infaticabile funzionario-studioso non verrà neppure risparmiato, alle soglie ormai del pensionamento, l’ultimo più infamante sospetto, ventilato in un rapporto del prefetto di Messina, quello di plagio.
Si dirà che una direzione generale di polizia non è certo istanza d’elezione per il ricono
scimento dei meriti scientifici, tanto più se questi si coniugano con uno spirito non sufficiente- mente modesto. Ed è sicuro che negli scritti di Cutrera si ritrovano facilmente giudizi severi sull’operato dei superiori in vicende spinose come erano allora banditismo e mafia — una circostanza che non dovette ben disporre quei superiori ad una positiva valutazione dell’attività ‘sociologica’ di Cutrera. Si approda così, del tutto logicamente, ad una doppia verità: quella del mondo scientifico, in cui Cutrera trova apprezzamento e addirittura protezione (ad esempio da parte di personaggi come Vittorio Emanuele Orlando o Gaetano Mosca) e quella del mondo burocratico, che ci presenta un funzionario opaco, eternamente qualificato come “buono” (ovvero, nel lessico degli uffici, come mediocre), a stento promosso vicecommissario. Proprio la verità del mondo burocratico potrebbe allora costituire una delle chiavi di lettura de II Delegato. È una verità che si svolge parallela ad altre: che mantiene in vita il brigante Varsalona altrove morto, che fa di ragazzi e vecchi arrestati per le strade di Tripoli dei prigionieri di guerra, che fa di un segugio di socialisti un socialista. Accanto a questa chiave di lettura altre però se ne potranno proficuamente applicare, meno letterarie, meno pirandelliane. Il volumetto diviene allora un breve, ma succoso saggio, con utili spunti di storia della sociologia e del banditismo, soprattutto con frammenti di estremo interesse per la comprensione degli svolgimenti reali della vicenda amministra
tiva italiana: dalle condizioni economiche dei funzionari, alle interferenze dei deputati; dal significato delle onorificenze, al paper flow tra autorità periferiche e centrali. Il tutto nelle volute di una narrazione ben congegnata che sa prestare ad un brano di storia la seduzione di una story.
Fabio Rugge
Nicla Capitini Maccabruni, Liberali, socialisti e Camera del Lavoro a Firenze nell’età giolit- tiana (1900-1914), Firenze, Ol- schki, 1990, pp. 438, lire52.000.
Con questo ampio studio l’autrice intende fornire un quadro analitico dello sviluppo delle lotte politiche in Firenze dall’inizio del Novecento allo scoppio della prima guerra mondiale, privilegiando l’esame dell’attività della locale Camera del lavoro, nata nel 1893, e del partito socialista che la guidava. Emerge evidente il contrasto iniziale tra la maggioranza municipale liberalmonarchica, che non considerava la Camera del lavoro quale unica rappresentante degli interessi operai, e il ristretto gruppo socialista, per il quale essa era al contrario il principale strumento di organizzazione operaia e un elemento di intermediazione tra il Comune e le richieste del proletariato. Soltanto l’indebolimento della giunta, causato dall’inefficienza dei suoi membri e dal crescente anticlericalismo, permise nel 1907 la conquista del municipio da parte del ‘blocco popolare’, costituito da socialisti, repubblicani e democratico
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sociali. Nei tre anni in cui si mantenne alla guida della città, furono considerate in modo più ampio le funzioni municipali, così da consentire a fasce sempre più larghe della popolazione fiorentina di usufruire dei principali servizi pubblici (istruzione, trasporti urbani, edilizia popolare, assistenza ai lavoratori, igiene pubblica, eccetera), senza perseguire con accanimento, come aveva fatto invece la precedente giunta, l’equilibrio del bilancio. Uno degli obiettivi principali fissati dal gruppo socialista fu l’estensione della municipalizzazione a nuovi settori (trasporti tranviari, illuminazione, eccetera), politica da sempre avversata dalle forze moderate.
Minuziosa è la ricostruzione delle lotte interne al ‘blocco popolare’ fiorentino tra il 1909 e il 1910 (abbandono da parte dei democratico-sociali, tendenza all’autonomia dei repubblicani, propaganda astensionista dei socialisti sindacalisti), che favorirono la riconquista liberale del Comune. Ulteriormente danneggiati dal fallimento dello sciopero generale contro la guerra di Libia e dall’apparizione dei cattolici nella vita politica dopo il patto Gentiioni, i socialisti uscirono definitivamente dalla giunta municipale dopo le elezioni del gennaio 1915.
Il lavoro di Nicla Capitini Maccabruni, realizzato prevalentemente attraverso lo spoglio di numerosi giornali cittadini, degli atti del Consiglio comunale e dell’Annuario statistico (mancando quasi del tutto, come nota l’autrice nella premessa, materiale archivistico) è sicuramente accurato ed estrema
mente ricco di notizie particolari, anche se spesso prevale in esso la scrupolosità cronachistica, a danno della vivacità complessiva della discussione e della rappresentazione dinamica della vita cittadina. Molto interessanti sono infine le appendici riguardanti lo sviluppo industriale di Firenze nell’età giolit- tiana e l’entità delle forze organizzate dalla locale Camera del lavoro.
Èva Del Fabro
Lucio D’Angelo, La democrazia radicale tra la prima guerra mondiale e il fascismo, Roma, Bonacci, 1990, pp. 488, lire48.000.
L’autore, che ha trattato già il radicalsocialismo in un bel testo di qualche anno fa (Radicalsocialismo e radicalismo sociale in Italia 1892-1914, Milano, Giuffrè, 1984), ripercorre la storia dei radicali mettendone in luce le varie linee politiche, le divisioni interne, le aspirazioni ideali, in una ricerca che si fa apprezzare per la puntualità della ricostruzione e per il vasto apparato documentario impiegato. Il partito radicale non solo era diviso in ‘correnti’, ma denunciò sempre una scarsa coesione tra deputati e direzione centrale. Questa mancata unità era dovuta anzitutto ai diversi interessi tra queste due componenti del partito: i deputati erano interessati alla riconferma del mandato parlamentare e perciò orientati a seguire una strategia di clientele e linee politiche personali, la direzione era invece attenta a stabilire indirizzi generali che corrispon
dessero ai propri ideali riformisti e democratici. Ma vi era un altro elemento che rendeva debole la formazione radicale: la struttura di partito ancorata a un modello ottocentesco in un momento in cui, invece, si stavano delineando i partiti di massa. Una struttura, quindi, poco adeguata ai tempi e poco idonea a sostenere le prove elettorali con la proporzionale e lo scrutinio di lista. Questi elementi di divisione e di debolezza furono costanti nei radicali e a poco valsero i ripetuti tentativi di riorganizzazione interna. Auspicata, richiesta e decisa più volte, tale riorganizzazione, che doveva portare il partito ad essere più adeguato ai tempi, fu sempre rinviata o ‘dimenticata’ o superata da nuove fratture. Essa doveva servire al partito a mantenere l’unità, a dare maggiore omogeneità alle sezioni e a fronteggiare i partiti di massa con più efficacia.
Accanto ai problemi di ordine ‘interno’, i radicali si trovarono alle prese con le difficoltà ad allargare la propria base elettorale ed a stabilire ‘alleanze’ con altre formazioni politiche. Da un punto di vista elettorale, i ceti medi dovevano essere la base sociale dei radicali, ma il partito non offriva sufficiente affidabilità politica a una classe sociale in quel periodo così inquieta. Da un punto di vista politico, la linea democratica, antirivoluzionaria e favorevole alle riforme, poteva essere meglio perseguita, secondo molti esponenti radicali, con alleanze di tutto lo schieramento democratico. Ma anche in questo caso l’obiettivo sfuggì per molto tempo: soltanto alla fine
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del 1921, infatti, si costituì il gruppo parlamentare di democrazia sociale e, nell’aprile del 1922, l’omonimo partito, nel quale si ricrearono le divisioni così come la debole struttura organizzativa.
Ricco di brillanti individualità, il partito radicale non riuscì, insomma, ad essere un partito vero e proprio. Tra i suoi principali esponenti emerse, tra gli altri, la figura di Meuccio Ruini, che fu tra i più attivi a riportare il partito sulla strada delle riforme (particolarmente interessante è il paragrafo dedicato a quelle istituzionali). Questa strada fu comunque ostacolata dalla frammentarietà dell’iniziativa del partito e alle contraddizioni a cui esso era esposto, la più evidente delle quali fu la tolleranza, quando non l’aperta simpatia, di alcuni membri radicali, e poi demosociali, verso il fascismo, fino a votare la fiducia a Mussolini e a partecipare al suo governo.
Marco De Nicolò
Storia generale e di altri paesi
Marcello Flores, L ’immagine dell’URSS. L ’Occidente e la Russia di Stalin (1927-1956), Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 434, lire 60.000.
A spiegare quale sia il contenuto di questo libro serve più il sottotitolo del titolo. Protagonista, infatti, non è l’Unione sovietica di Stalin bensì l’Occidente di fronte ad essa. O, per meglio dire, al centro dell’attenzione dell’autore è l’atteg
giamento di scrittori giornalisti viaggiatori emigranti europei e nordamericani, dei quali vengono seguiti i percorsi intellettuali, individuali e di gruppo. Si tratta perciò di una storia delle risposte che l’Unione sovietica sembra dare ai problemi dell’Occidente, storia intessuta di aspettative speranze disillusioni e delusioni.
Costruito su una base bibliografica a tutto campo, il saggio ha un nucleo centrale che copre l’arco di tempo dalla fine degli anni venti allo scoppio della guerra; una lunga premessa ed un lungo epilogo esaminano la fase precedente e quella successiva fino al XX congresso. Come nasce il mito dell’ottobre? È questo il primo interrogativo e, nel rispondere ad esso, Marcello Flores stabilisce la linea interpretativa di fondo. Fin dall’inizio il mito è assai meno conseguenza di un’adesione ideologica all’Unione sovietica che risposta ai bisogni della società occidentale: in un primo momento bisogni di solidarietà, di palingenesi, di una società nuova e così viva. È un vizio di origine, questo, al quale pochi riusciranno a sottrarsi. Da esso deriva una particolare attenzione, una sensibilità che farà da filtro all’osservazione della realtà sovietica. Se già sul finire degli anni venti si comincia a guardare all’Unione sovietica con curiosità ad ampio raggio, è soprattutto il crollo di Wall Street, il simbolo della crisi morale dell’Occidente, a dare nuova linfa al mito dell’Ottobre. Di fronte all’apatia, alla perdita di slancio morale, allo scoramento che un’ampia fascia di intellettuali colgono nelle società occi
dentali, il marxismo rappresenta la nuova religione e il carattere etico appare come la nota fondante dell’esperienza sovietica. In molti l’adesione tende a diventare militante, si manifesta con un “impianto di giustificazione” particolarmente evidente di fronte al fenomeno dei processi staliniani. A questo punto, come nota Flores (p. 276), l’esigenza di cogliere dall’interno la realtà sovietica viene meno quasi completamente, e a ciò contribuisce in maniera sensibile la progressiva impermeabilità della società russa.
Nella seconda metà degli anni trenta la guerra di Spagna prima e il delinearsi della minaccia nazista poi dirottano l’interesse per l’Unione sovietica in altre direzioni, legate soprattutto a ragioni di politica internazionale, quelle ragioni che di lì a poco creeranno l’immagine di Uncle Joe, dell’alleato nella lotta contro il nazifascismo. Sul finire degli anni trenta siamo dunque ad un momento di svolta, ad un vero e proprio spartiacque nella storia che Flores racconta: come egli precisa, per gli intellettuali dell’Occidente il problema non sarà più quello di capire il sistema sovietico; essi piuttosto si dedicheranno “a smascherare la falsa coscienza [di coloro che] avevano aderito al comuniSmo” (pp. 326-327). Siamo, dunque, all’epilogo, per così dire all’uscita di scena degli intellettuali come osservatori ed interpreti della realtà sovietica. L’analisi di Flores si ferma sostanzialmente qui. Il rovesciamento dell’immagine dell’Unione sovietica nel passaggio dall’alleanza antinazista alla guerra fredda è fe
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nomeno con cui gli intellettuali hanno poco a che vedere. Sono, mi sembra, i diplomatici, le comunità di intelligence a svolgere ruoli di primo piano. Ma questa, com’è ovvio, è un’altra storia.
Giampaolo Valdevit
Mary Berg, Il ghetto di Varsavia. Diario (1939-1944), Torino, Einaudi, 1991, pp. 289, lire22 .000.
Scampata fortunosamente all’inferno del ghetto di Varsavia durante la seconda guerra mondiale, in quanto protetta dal passaporto statunitense ed in virtù d’uno scambio tra prigionieri, l’autrice, allora ventenne, ha potuto pubblicare questo diario ancora avanti il termine del conflitto. Edito adesso per la prima volta nel nostro paese, va detto che a tanti anni di distanza spicca tuttora per la puntualità nell’informazione, per il quadro complessivo della tragedia ebraica in Polonia che sostanzialmente giunge a dare con grande equilibrio e per le descrizioni significative ed incisive di figure e figurine, di avvenimenti ed episodi della vita quotidiana che vengono registrati mese dopo mese. Invero Mary Berg, grazie alla posizione della sua famiglia, di partenza agiata, potrà avvantaggiarsi di qualche beneficio che ne favorirà la sopravvivenza: ad esempio, il padre, un tempo ricco antiquario, riuscirà a diventare nel dicembre 1942 portiere della casa ove abitano. E tuttavia essa non può non constatare gli abissi di miseria e squallore che la circondano, la precarietà
dell’esistenza, l’immane gorgo in cui un’intera popolazione viene ineluttabilmente trascinata.
Per le notevoli capacità d’osservazione (lo snodarsi delle vicende della vita rivelano in Berg una personalità dotata di sensibilità figurativa e musicale) è così rappresentata un’umanità bramosa di vita, pur in un universo di morte, un susseguirsi di amiche, compagni di scuola, poliziotti ebrei, mendicanti, borsari neri, insegnanti assetati d’una melodia, della vista d’un fiore, alla caccia disperata d’un tozzo di pane, d’una buccia di patata. Talché particolarmente struggenti si manifestano l’ansia con cui coloro che per una coincidenza di casi hanno evitato il massacro seguono da lontano, con estrema apprensione, le ultime vicissitudini del ghetto ed il senso di smarrimento, quasi l’avvertire un’ingiustizia imperscrutabile, per essere sfuggiti alla sorte comune.
Guido Valabrega
Loris Gallico, L ’altro Medi- terraneo tra politica e storia, Chieti, Vecchio Faggio, 1989, pp. 290, lire 26.000.
Ad alcuni anni dalla scomparsa di Loris Gallico vengono ora ristampati in volume alcuni dei suoi saggi più significativi, che hanno come epicentro i popoli che vivono sulla sponda araba del Mediterraneo. “Ciò che oggi appare chiaro a tutti, — fa rilevare Maurizio Valenzi nella prefazione — non lo era fino a pochi anni or sono, quando Loris è stato tra i pochi
ad avvertire il pericolo derivante dall’insensibilità di molti politici italiani ed europei verso le vicende drammatiche dei popoli islamici e dal conseguente ritardo a prendere coscienza del peso sempre più grande che questa parte dell’umanità andava assumendo nella politica mondiale”. Gallico possedeva tutti i requisiti per poter svolgere una profonda e lucida analisi degli avvenimenti accaduti nei paesi del Maghreb. Nato a Tunisi nel 1910, aveva frequentato le locali scuole italiane sino al liceo, sperimentando di persona gli effetti nocivi della propaganda fascista che tendeva a sovvertire l’ordine in Tunisia, da anni rivendicata dal regime. Antifascista, direttore a 26 anni del settimanale “L’italiano di Tunisi”, si era iscritto al partito comunista tunisino, ancora illegale, ed a fianco dei militanti arabi si era impegnato a fondo per accelerare il tramonto della presenza coloniale in Tunisia. Confinato dal governo fascista di Vichy nei campi di concentramento di Sbeitla e di Le Kef, durante la seconda guerra mondiale, ancora una volta aveva condiviso le sofferenze e le speranze dei comunisti arabi. La sua conoscenza del mondo arabo (per due anni aveva anche frequentato l’università di Algeri prima di laurearsi in legge a Lione) era dunque diretta, vasta, approfondita. E l’aveva ulteriormente arricchita tra il 1964 e il 1969, quando “l’Uni- tà” lo aveva mandato ad Algeri come corrispondente.
I grandi mutamenti nel nord Africa tra il 1930 e il 1980 trovarono perciò in Loris Gallico uno fra gli osservatori più at-
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tenti e sensibili, scrupolosi e rispettosi. I suoi saggi sull’Algeria, la Tunisia e la Libia, anche a distanza di anni restano validissimi ed utili. “Il suo contributo e le sue sollecitazioni — sottolinea giustamente Guido Valabrega, uno dei curatori del libro — si qualificheranno subito per il rigore espositivo e lo sforzo di inquadrare sempre l’avvenimento specifico nei precedenti storici e in riferimento alle condizioni socioculturali indispensabili per la conoscenza del Maghreb, quanto sovente trascurati dai compilatori meno attenti e preparati”.
L ’Algeria a nove anni dall’indipendenza, scritto nel 1971 per “Politica ed economia”, è, ad esempio, un saggio estrema- mente ricco di dati e di osservazioni acute. Il bilancio che Gallico presenta dell’Algeria alla fine della guerra contro la Francia è semplicemente catastrofico. Ottomila villaggi rasi al suolo; tre milioni di algerini sradicati dai loro focolari; sei- centomila ettari di foreste incenerite dal napalm; il patrimonio bovino annientato e quello ovino più che dimezzato; le frontiere con la Tunisia e il Marocco trasformate in una trappola mortale a causa degli immensi campi minati. Non fossero bastati questi danni, la ricostruzione del paese era fortemente rallentata da due particolarità della struttura sociale algerina: l’emigrazione in massa verso la Francia del proletariato indigeno e l’assenza di una borghesia nazionale in grado di rimpiazzare, nei posti di responsabilità, le centinaia di migliaia di francesi che erano precipitosamente rimpatriati. “Con la fuga dei
francesi, — scrive Gallico — l’Algeria si libera di una forza d’urto e di un presidio anche fisico della dominazione coloniale. Ma il reddito non si riversa automaticamente sugli algerini; al contrario se ne disseccano le fonti. [...] La produzione diminuisce del 70 per cento”. 11 decollo dell’Algeria era inoltre reso difficile dall’incapacità dei governanti di realizzare una riforma agraria generalizzata e dalla mancanza di capitali per favorire l’industrializzazione del paese.
Nella critica e nell’elogio Gallico è sempre misurato. Non trancia mai giudizi, si sforza invece di capire e di trasmettere agli altri, nella forma più piana, il risultato delle sue osservazioni. Inoltre non ha mai una visione eurocentrica degli avvenimenti, ma la giusta apertura verso popoli che hanno già anche troppo sofferto per l’incomprensione e la superficialità di frettolosi cronisti. Un altro tema caro a Gallico è quello dell’Islam e dei difficili tentativi per conciliare questa religione con gli sviluppi capitalistici del mondo, con le conquiste della scienza, col moderno laicismo e col pensiero marxista. Affrontando questo tema Gallico sfata molti luoghi comuni e demolisce altrettanti pregiudizi. “L’Islam, di per sé, non ostacola né riforme né movimenti rivoluzionari; — scrive nel saggio Aspetti dell’Islam odierno — non vi è versetto o hadith che sembra rifiutarli, ai quali non si possa contrapporre un versetto o hadith che invece li giustifichi. Si comprende così come i popoli che presentano, forse, ancora la più intensamente vis
suta religiosità nel mondo siano anche tra quelli che, tenendo conto del punto di partenza, dopo una lunga stagnazione endogena e una soffocante dominazione esogena, si sono posti con passo più deciso di molti altri sulla via della ricostruzione economica e del progresso sociale”.
Angelo Del Boca
Michel Dreyfus, Pcf. Crises et dissidences, Bruxelles, Editions Complexe, 1990, pp. 286.
Negli ultimi anni sono venuti moltiplicandosi gli studi — anche di parte comunista, ma più sovente ad opera di ex comunisti o di ricercatori estranei anche quando non ostili all’universo mentale del Pcf — che hanno gettato luce su momenti o aspetti particolari della lunga vicenda del comuniSmo francese. Una vera e propria storia del partito comunista francese, tuttavia, resta ancora da scrivere. È nella consapevolezza della persistenza di questa lacuna che l’autore, con questo volume, ci dà un contributo ben calibrato alla comprensione di un fenomeno che se scandisce le fasi successive della presenza del partito nello spazio politico della Francia contemporanea, costituisce anche un eccellente rivelatore del suo modus operandi: le crisi che hanno di volta in volta condotto alla rottura col partito di questo o quel gruppo, di questa o quella personalità di rilievo.
Michel Dreyfus, forte di una familiarità, attestata da numerosi contributi apparsi nelle sedi più svariate, con le peripezie del
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comuniSmo e del socialismo francese ed europeo tra le due guerre, è particolarmente ben attrezzato per trattare il tema con la dovuta informazione e con la capacità di sfruttarne le potenzialità euristiche. Delle crisi attraversate nei suoi primi anni di esistenza fino a quelle succedutesi ad un ritmo vieppiù incalzante nel corso degli anni ottanta, vengono individuate con sicurezza tanto le invarianti, che non son poche, quanto i tratti specifici legati alle diverse fasi di sviluppo del partito e al mutare del suo collocarsi rispetto alla società francese ed al comuniSmo internazionale. L’autore è particolarmente attento a valutare l’incidenza differenziata che le singole crisi hanno avuto sulle varie componenti dell’universo comunista e sulle sue successive evoluzioni. Esemplare, in questo senso, l’analisi della crisi affrontata nel settembre 1939 a seguito della firma del patto germano-sovietico. A prima vista tutto la designa come la crisi più traumatica e come quella che più avrebbe inciso sui destini del partito tanto a breve quanto a lungo termine. E come tale senza dubbio essa fu percepita dai protagonisti. Le cifre, d’altronde, che Dreyfus ricorda sulla scorta di studi recenti, sembrerebbero confermare una siffatta lettura: i 280.000 iscritti dell’agosto 1939 scendono a 5.500 all’inizio dell’estate 1940, 26 deputati su 76 e 114 consiglieri municipali della regione parigina sui 725 che il partito ivi vantava abbandonano il partito. Eppure, a partire dal giugno 1941, il Pcf si sarebbe rivelato perfettamente in grado di cogliere l’oppor
tunità che la nuova congiuntura internazionale gli offriva e, grazie al ruolo svolto nella Resistenza, avrebbe rimontato rapidamente la china tanto da raggiungere alla fine della guerra l’apice della potenza e dell’influenza. Certo, dietro questa spettacolare rimonta non è lecito sottovalutare il duplice carisma conferito al partito dal sacrificio dei suoi militanti nei combattimenti clandestini e dalle vittorie militari sovietiche sul fronte orientale. Come non convenire, però, con l’autore quando ci fa osservare che la crisi del 1939-1940, per quanto avesse toccato ampiamente la massa degli iscritti, la sfera degli amministratori comunali e provinciali, la cerchia parlamentare e una parte del mondo intellettuale (esemplare il caso di Paul Nizan), lasciò pratica- mente intatto il nucleo dirigente e l’apparato burocratico permanente del partito (un solo membro dell’Ufficio politico e tre membri del Comitato centrale su 55 defezionano) così come l’immensa maggioranza dei quadri sindacali?
L’emergere stesso di un nucleo dirigente omogeneo, incondizionatamente fedele alla direzione staliniana della Terza internazionale, saldamente unito intorno alla figura carismatica di Maurice Thorez e forte di un apparato burocratico ben rodato (tutti elementi che nel 1939-1940 permettono al partito di sopravvivere alla più grave delle crisi fino ad allora attraversate prima di tramutarsi in epoca poststaliniana in un formidabile ostacolo a qualsiasi evoluzione ed adattamento e di essere quindi all’origine di nuo
ve crisi) era stato a sua volta il punto d’approdo di una lunga catena di crisi che avevano scandito la vita del partito nel corso dei primi dieci della sua storia. Gli anni venti, in effetti, avevano visto l’abbandono, forzato o volontario, del partito da parte di ben quattro segretari generali ed erano andati di pari passo con l’esclusione o l’autoesclusione di quasi tutti i fondatori del comuniSmo francese: Ludovic-Oscar Frossard, Paul Louis, Alfred Rosmer, Boris Souvarine, Albert Treint, Henri Sellier eccetera. Seppure accompagnate da un costante declino del numero degli iscritti (dai 110.000 dell’inizio degli anni venti ai 20-30.000 del 1933) e da un forte calo elettorale, tutte queste rotture sarebbero state lette dalla memoria ufficiale del partito come altrettanti scotti da pagare alla bolscevizzazione ed alla formazione di un partito di tipo nuovo rispetto alle tradizioni del socialismo francese. Alla luce della crescita successiva nel contesto della crisi eco- nomico-sociale degli anni trenta e della crisi nazionale degli anni quaranta, esse sarebbero state lette retrospettivamente come altrettante crisi di gioventù o di crescita. Difficile, ovviamente, appare invece interpretare in questa chiave le crisi che son venute succedendosi a partire dalla seconda metà degli anni settanta. Ad esse l’autore dedica ampio spazio, attento a coglierne al tempo stesso l’analogia — per i settori del partito di volta in volta coinvolti e per l’incapacità (vera costante della lunga vicenda del partito e all’origine dell’impossibilità per esso di elaborare una propria
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storia) da parte del gruppo dirigente di trattarle e di renderne conto — con le crisi del passato e la irriducibile novità. Si ha l’impressione che il partito, in questi ultimi anni, ripercorra in senso inverso il cammino intrapreso all’inizio degli anni venti: “...De 1920 à 1930 le Pc s’est bâti en éliminant tout ce qui lui semblait hétérodoxe. Il continue aujourd’hui d’éliminer toute manifestation contestataire même virtuelle mais dans le contexte plus général d’une évolution toute différente: cette répression se fait au détriment de l’organisation ce qui ne l’empêche pas des persévérer dans une voie apparemment suicidaire...”.
Certo, e su questo concluderò consapevole di aver presentato solo alcuni dei punti sollevati da un lavoro ricco di suggestioni, Dreyfus sa perfettamente che a monte dell’involuzione e del declino (sulla cui irreversibilità o meno del resto l’autore è molto prudente) recente del Pcf non sta solo la fossilizzazione di un modo di essere in quanto partito che a suo tempo aveva assicurato la sua forte presenza nello spazio politico francese. Un ruolo per lo meno altrettanto importante lo occupano la crisi del comuniSmo internazionale— rispetto ai cui destini dopo averli a lungo sposati incondizionatamente sembra ora voler navigare controcorrente— e i cambiamenti strutturali profondi che la società francese ha conosciuto a partire dagli anni settanta. Ma questa è un’altra storia.
Antonio Bechelloni
P ier P aola Penzo, Parigi dopo Haussmann. Urbanistica e politica alla fine dell’Ottocento (1871-1900), Firenze, Alinea, 1990, pp. 238, lire 30.000.
Se la Parigi del prefetto Haussmann ha impegnato molti studiosi e mobilitato ricerche dal taglio diverso, molto meno si sa del periodo immediatamente successivo di cui invece si occupa l’autrice di questo volume. Si tratta pur sempre di una fase di grande interesse se, come ci viene ricordato, è proprio a fine secolo che Parigi recupera il ritardo accumulato rispetto alle città statunitensi relativamente alle infrastrutture e ai servizi urbani. Basta accennare al fatto che intorno all’anno 1900 la futura metropoli si trova dotata di una nuova rete fognaria, di un servizio ramificato di tramvie elettriche e dei primi tronchi della metropolitana. Tuttavia è un periodo che è stato certamente più trascurato dalla ricerca, forse, così si suggerisce qui, proprio in quanto momento di passaggio, non ben definibile nei suoi caratteri, tra l’epoca d’oro dei grands travaux haussmanniani, tutta ottocentesca, e i primi contributi francesi alla nascente disciplina urbanistica, che risalgono invece ai primi dieci anni del Novecento, agli interventi di Eugene Henard e di Toni Gamier.
In linea generale si può dire che non si tratta di una fase dominata, come le due che l’attorniano, da prefetti di grande spessore o da ponderose figure di urbanisti, quanto piuttosto da una dialettica intensa che corre tra i funzionari dei Lavori pubblici, in prima linea Adol
phe Alphand, ex collaboratore di Haussmann e massimo responsabile delle opere pubbliche fino al 1891, e i consiglieri municipali parigini, attori sociali per molti versi nuovi, entrati in scena con la prima elezione a suffragio universale dell’assemblea municipale nel 1871. Di qui la scelta dell’autrice, che, a giudicare dallo stato degli studi, in materia è molto meno ovvia di quanto possa sembrare, di focalizzare l’obiettivo di questa ricerca di storia urbana proprio sul consiglio municipale parigino, sui dibattiti e le decisioni di quest’ultimo in materia urbanistica, e di conseguenza sul rapporto cruciale che intercorre tra urbanistica, politica e amministrazione.
Il libro ha il pregio di mettere in evidenza problemi finora poco noti, di sollevare parecchi interrogativi sul modello centrali- stico di cui la Francia è in qualche modo il simbolo e non da ultimo di offrire indirettamente degli spunti comparativi con la situazione coeva di Roma capitale; tuttavia porta i segni della indubbia complessità del compito, soprattutto in una certa schematicità delle ipotesi che lo percorrono. Da un lato sembra evidente e condivisibile l’immagine di uno spostamento lineare, graduale ma costante, nel trentennio considerato, degli obiettivi di intervento dei poteri pubblici; in estrema sintesi diciamo che dalle opere di viabilità, eventualmente collegate al- l’enfatizzazione prospettica dei luoghi monumentali, ci si orienta sempre più verso la realizzazione dei servizi tecnici urbani, mentre si allarga il tiro dai quartieri del centro all’insieme
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della città. Fungono da scansioni periodizzanti e da forte pungolo alle realizzazioni i grandi Expo internazionali che in quel periodo Parigi ospita con scadenze all’incirca decennali. Meno lineare e univoco di quanto si sottolinei appare invece il ruolo reciprocamente svolto, in questa opera di modernizzazione del volto urbano, dalle autorità centrali, strette tutrici del governo della capitale, e dall’élite localmente eletta. I due poli istituzionali sviluppano, nella fase tipica del municipalismo diffuso, una notevole carica di conflittualità che si appunta in modo particolare sui tempi e sulle modalità di gestione di quel processo di intervento. È un conflitto che attraversa e anima il dibattito politico del tempo, con risvolti di notevole interesse, ma i cui fili conduttori, insieme alle ragioni delle parti e agli esiti stessi del contendere, presentano numerose sfaccettature e richiederebbero forse un’analisi più ravvicinata. Si assiste in ogni caso, e ciò emerge con chiarezza nel volume aprendo una prospettiva di indagine poco battuta dagli studiosi francesi, alla nuova mobilitazione di una rappresentanza locale composta essenzialmente di imprenditori, di commercianti e di professionisti parigini che gradualmente introducono, in un’azione che in via generale rimane appannaggio dell’autorità governativa, le proprie esigenze e i propri punti di vista.
Carlotta Sorba
J on C. Teaford, The Rough Road to Renaissance. Urban
Revitalization in America, 1940-1985, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 1990, pp. 383, sip.
L’autore è uno storico che giunge a misurarsi con il tema della grande città statunitense del tempo presente dopo un ‘tirocinio’, che si è spinto ben oltre gli studi su questo secolo e sulla fine di quello scorso richiamati in quarta di copertina. Avendo, oltre a questi ultimi, pubblicato già nel 1975 un libro dal titolo The Municipal Revolution in America. Origins o f Modera Urban Government, 1650-1825, (Chicago, University of Chicago Press), e, nel 1979 City and Suburbs the Political Fragmentation o f Metropolitan America, 1856-1970 (Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press), Jon C. Teaford può in realtà guardare all’ultimo mezzo secolo di storia da un osservatorio che contempla un arco cronologico ben più esteso di quello che egli considera in questo lavoro. Un certo orgoglio di storico egli manifesta, del resto, con qualche franca stoccata nei confronti dei social scientists che si sono dedicati al suo tema, affrontandolo con quella loro “inclinazione alle generalizzazioni” in cui Teaford intravede il fomite di “affermazioni grossolanamente generiche”. Rispetto ad esse egli rivendica alla propria ricostruzione — e non a torto — una minore ansia di costringere gli avvenimenti nella camicia di Nesso delle spiegazioni monocausali ed univoche.
A ben vedere, è proprio questo ‘scetticismo storiografico’ a fornire a Teaford lo spunto nar
rativo (o polemico) per il proprio racconto; il quale sembra svolgersi in un contrappunto, a volte esplicitamente divertito, tra le vicende complicate e a volte dolorose delle older centrai cities statunitensi e l’enfatico, perentorio annuncio della loro rinascita, ricorrentemente formulato da amministratori, politici, opinion leaders, sempre pronti a proclamare un “grande ritorno” di questa o quella città o della città più in generale. Dagli anni cinquanta in poi — scrive Teaford — “nelle pagine del ‘Time’ e di una miriade di altre pubblicazioni, le vecchie grandi città son state accreditate di più ‘ritorni’ di una star hollywoodiana sulla via del tramonto” . Quest’ulti- ma frase, peraltro, dice già quale sia il bilancio tratto dall’autore: i quattro decenni che egli analizza rimangono, nonostante ogni tentativo di palingenesi, un’età di tramonto, nella quale le older central cities, le vecchie ‘capitali’ del Nordest e del Midwest, si allontanano inesorabilmente dalla loro “posizione stellare” nel paesaggio nordamericano: la rinascita è “una meta che non si lascia raggiungere”.
Cionondimeno, a dispetto cioè della smentita infetta dai fatti alla parola d’ordine della rinascita — e della puntuale raccolta di tali fatti che il volume ci offre — Teaford non manca di prendere sul serio i reiterati proclami di una renaissance. Ciò non solo perché quei proclami hanno pur sempre avuto un qualche fondamento reale, per quanto limitato nella consistenza e nella durata, ma soprattutto perché essi hanno
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costituito un importante momento della stessa strategia di ‘rivitalizzazione’ urbana messa in atto dai governi locali: annunciare che la città viveva o stava per vivere un nuovo momento di splendore sembrava poter innescare un circolo virtuoso, che, attraverso il ritorno alla città dei residenti benestanti, degli investitori immobiliari, della grande distribuzione, dei flussi turistici poteva davvero ricondurre infine allo splendore annunciato. Gli annunci della rinascita rappresentano insomma un elemento di quello che si può senz’altro definire l’oggetto principale del libro: le politiche con le quali i governi municipali hanno tentato di fronteggiare alcuni aspetti più clamorosi del declino delle città in questione. Teaford considera dodici centrai cities: New York, Chicago, Philadelphia, Detroit, Baltimore, Cleveland, Boston, Saint Louis, Pittsburgh, Buffalo, Cincinnati, Minneapolis. Si tratta — come si vede — di città con strutture socioeconomiche tra loro differenti, ma accomunate, rispetto alle ‘capitali’ della Sunbelt o ad alcuni centri suburbani, da trend di crisi inequivocabili: un calo demografico costante, un impoverimento della popolazione col conseguente inaridirsi delle fonti tributarie, una crisi fiscale persistente che trova il suo episodio emblematico nel 1975, con la “bancarotta” dell’amministrazione municipale di New York. Accanto a queste, vi sono circostanze accessorie non meno impressionanti: il ridursi drastico dei dipendenti dell’industria residenti nelle città, drammatico sia in termini asso
luti che in rapporto alle particolari tradizioni di alcune delle ‘capitali’ considerate (vedi Detroit); oppure Io spettro perennemente incombente della violenza e della criminalità — il quale fa dire a Teaford che, negli anni settanta, le central cities non potevano dirsi “morte [...ma] molti dei loro abitanti erano sicuramente spaventati a morte” !
Questi tratti negativi non dominano però incontrastati la scena riprodotta dal libro, nella quale compaiono invece, ben in vista, alcune tendenze positive: ad esempio, un tasso costante di attivismo civico, che, prescindendo dalla politica di partito, prende ora le forme della responsabilizzazione del business nei confronti della rinascita urbana (soprattutto nella prima parte del periodo in esame), ora quelle delle iniziative di quartiere a sfondo antirazzista o ambientalista (soprattutto negli anni sessanta e settanta). Tuttavia, a contrastare i trend negativi sono in primo luogo i governi municipali. Essi intraprendono una serie di progetti che, in buona parte, possono dirsi riusciti: così per la lotta all’inquinamento atmosferico — con la quale si vuol rendere meno svantaggioso il confronto tra qualità della vita urbana e suburbana; così per la lotta alla crisi fiscale, condotto attraverso la differenziazione dei tributi e severe riduzioni delle spese correnti ovvero forti diminuzioni del personale. In questa direzione, l’analisi di Teaford non trascura nemmeno alcuni dettagli istruttivi, come le iniziative di promozione pubblicitaria dell’immagine cittadina o l’af
fannoso inseguimento dei mayor nei confronti di prestigiose squadre di football o baseball in fuga verso località più ricche di strutture sportive e/o più generose di finanziamenti. Ma gli inseguimenti non sempre riescono e, d’altra parte, gli interventi, anche i più coraggiosi e costosi, mostrano spesso effetti inattesi — anche se forse non imprevedibili. Accade dunque che le reti di expressways, costruite negli anni cinquanta per favorire il movimento verso la città, determinino, secondo il principio per cui ogni strada può esser percorsa nei due sensi di marcia, un ulteriore flusso centrifugo. Analogamente, quando le città, per elevare lo standard dei propri servizi rispetto a quelli del suburb, intraprendono lo sviluppo di grandi impianti a rete quali acquedotti, fogne, eccetera, sono poi obbligate da intuibili ragioni economiche ad estendere la fruizione di quei servizi ai centri suburbani, vanificando il vantaggio che su quelli avevano inteso conseguire.
Come si vede una vicenda complessa, anche se narrata in modo da intrattenere il lettore con un lessico eclettico e spumeggiante. Protagonisti e vicende sono trattati spesso con ironia, quasi sempre con equilibrio. Certo, nel libro si percepisce una inequivocabile simpatia per le ricette fiscali severe ed un’altrettanto esplicita antipatia per le “influenze politiche” sui bilanci, soprattutto per quelle esercitate dai sindacati dell’impiego municipale, espressamente accusati di aver tenuto “in ostaggio”, verso la fine degli anni sessanta, i ma-
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yor e le rappresentanze locali. Ma si tratta di valutazioni che anche l’intellettuale europeo — costituzionalmente, e per definizione, liberal — troverà più stuzzicanti che eccessive.
Fabio Rugge
Max H astings, La guerra di Corea 1950-1953. Un conflitto “inutile” che ha segnato il corso della storia, Milano, Rizzoli, 1990 (ed. orig. London, 1987), pp. 549, lire 60.000.
Segnaliamo con piacere questo nuovo libro sulla guerra di Corea, che non intende sostituirsi alle relazioni ufficiali né ai grossi studi di diverso taglio provocati dalla guerra, bensì offrirne una descrizione d’insieme attenta sia ai problemi politici e militari, sia alle vicissitudini dei combattenti. L’autore, giornalista britannico in Vietnam e in altre guerre minori, conosce e utilizza la migliore produzione storiografica, ha condotto ricerche proprie negli archivi di Londra e Washington e interrogato oltre 150 reduci inglesi e statunitensi, ma anche cinesi e sudcoreani. Non pretende di scoprire novità particolari, né di dare spiegazioni originali, ma nella sua sintesi inserisce una serie di note interessanti e vive sull’esperienza dei combattimenti e dei reduci sentiti. Siamo quindi dinanzi ad una sintesi di alta e corretta divulgazione, sempre chiara e leggibile (e ben tradotta), che parteggia dichiaratamente, ma non acriticamente, per gli angloamericani, e anzi offre molti spunti di riflessione e apertura.
Rimangono ugualmente limiti di fondo pesanti: malgrado ogni sforzo di obiettività, la sorte dei militari angloamericani caduti prigionieri è vista con sensibilità ben diversa da quella dei prigionieri cinesi e nordcoreani, pur descritta crudamente. Ma in complesso il volume si legge bene e con profitto, anche perché non pretende di dare più di quello che ci si attende da una sintesi di 500 pagine di vicende drammatiche, complesse e ancora da noi scarsamente note.
Giorgio Rochat
Cambogia. Capire il dramma cambogiano, a cura di Enrica Collotti Pischel, Alessandria, Wr editoriale, 1988, pp. 268, sip.
Il volume contiene gli atti del convegno omonimo svoltosi nella facoltà di Scienze politiche dell’università di Milano nell’aprile 1987, sotto gli auspici dell’Istituto di diritto e politica internazionale dell’università degli studi di Milano, dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria, del Cespi di Milano, di Mani tese, del Cogis e della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli. Il convegno ha avuto il merito di mettere a fuoco la situazione di un paese che, nel corso degli anni settanta, è stato dapprima devastato dalle bombe americane ed in seguito sottoposto all’allucinante esperienza dei Khmer rossi che, dopo avere svuotato le città, hanno costretto la popolazione ad un progetto di comuniSmo rurale
forzato che si è trasformato in un vero e proprio genocidio.
Le due relazioni centrali dal titolo La Cambogia e il Vietnam nel contesto dell’Asia sudorientale. Una prospettiva storica e Le interferenze del fattore internazionale sul dramma cambogiano sono state svolte rispettivamente da Krzysztof Gawlikowski e da Enrica Collotti Pischel. La prima fa un’ampia storia della Cambogia dall’antichità all’Ottocento, ricordando come quest’ultima fosse divenuta, fin dalla fine del Cinquecento, terreno di scontro tra i due potenti vicini: la Thailandia ed il Vietnam. Situazione questa che aveva indotto i governanti cambogiani ad accettare, verso la metà dell’Ottocento, la protezione francese. La seconda svolge una particolareggiata relazione sugli avvenimenti intercorsi tra la conferenza di Ginevra del 1954 ed il rovesciamento del regime di Pol Pot da parte dei vietnamiti nel 1979. Essa rileva nella conclusione come i nuovi governanti cambogiani si fossero trovati, da allora, davanti ad “un assedio economico internazionale” mai attuato, almeno a quel tempo, “nei confronti di paesi nei quali le contraddizioni interne sono state affrontate con l’intervento militare”. Non bisogna infatti dimenticare che, in seguito all’influenza degli Stati Uniti e della Cina, l’Onu ha continuato a riconoscere il cosiddetto governo di coalizione presieduto dal principe Sihanouk nel quale i Khmer rossi hanno un ruolo determinante. Riconoscimento questo che costringe la Cambogia a pagare, dopo tante stragi e lutti, le con
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seguenze delle rivalità internazionali.
Non possiamo condividere l’impostazione alquanto giusti- ficazionista nei confronti dei Khmer rossi presenti nella relazione di Emilio Sarzi Amadè Comunisti cambogiani ecl intervento vietnamita. Riprendendo le idee già espresse nel suo libro L ’Indocina rimeditata (Milano, Angeli, 1983) egli infatti considera il genocidio attuato da questi ultimi non come “frutto di una ‘variante impazzita’ nel quadro delle forze rivoluzionarie, o della interpretazione del marxismo o di nuove dottrine, o di una deliberata volontà di uccidere ed eliminare fisica- mente”, ma come “il portato inevitabile, in prima istanza, di una lotta politica tra fazioni diverse, di interpretazioni diverse del modo di difendere l’indipendenza, di porre basi solide allo sviluppo di una nuova società, lotta politica che si esprimeva alla fine nei modi tradizionali della Cambogia.” Sarzi Amadè si sofferma poi sulla polemica relativa al numero dei morti, se cioè si sia trattato di mezzo milione, di un milione, di due o tre milioni. Ma come scrive giustamente Enrica Collotti Pischel nell’introduzione “non è il numero delle vittime che determina la natura del crimine” . Lo stesso relatore afferma che nel 1978 il regime di Poi Pot aveva cominciato a dare segni di apertura, sia in campo interno, con la fine delle discriminazioni nei riguardi di alcune categorie, tra le quali quella degli intellettuali (ma quanti ne erano rimasti vivi?), sia in campo internazionale mediante accordi di amicizia o di coopera
zione con la Romania e la Jugoslavia. Ma quale credibilità poteva avere un regime che si era macchiato di tali crimini?
Ed a quest’ultimo proposito basta leggere la relazione di Onesta Carpenè, Sette anni di Vietnam. Una testimonianza diretta. Recatasi in Cambogia nel 1980, quale rappresentante di un gruppo di organizzazioni cattoliche, la relatrice ha avuto modo di studiare da vicino la situazione prima e dopo l’intervento vietnamita. Tra gli episodi dei quali essa è venuta a conoscenza ricordiamo quello di due bambini legati ai cavalli e trascinati attraverso i campi fino alla morte, soltanto perché colpevoli di aver raccolto alcune spighe, e di una donna, già membro attivo della resistenza antiamericana, uccisa a bastonate per avere giustificato quei due bambini. Questa relazione, come anche le altre su La cultura come elemento di identità e di autonomia di Giovanni Giubati, e Un’esperienza di aiuto non governativo in Cambogia di Rosario Lembo, ci danno un quadro esauriente dell’opera di ricostruzione compiuta dal governo di Heng Samrin, insediatosi nel 1979 dopo l’invasione vietnamita, nei campi dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria, dell’industria, dell’arte e della cultura, ricostruzione tanto più meritoria in quanto esplicatasi in “un paese esangue” ed in “un contesto internazionale ostile”. Si pensi soltanto al ripopolamento di Phnom Penh, passata, in pochi anni, dal deserto assoluto a 700.000 abitanti e ad alcune industrie ricostruite, racimolando vari pezzi di macchine negli angoli delle strade.
Completano il volume le relazioni La società cambogiana dalla dominazione francese all ’intervento americano di Francesco Montessoro, che si sofferma in particolare sui caratteri del colonialismo francese; Le prospettive di una soluzione negoziata di Paolo Beonio Brocchieri; La neutralità impossibile di Valerio Pellizzari che tratta della possibile funzione di mediazione che potrebbe avere in futuro il principe Sihanouk; L ’intervento umanitario secondo il diritto internazionale e il caso cambogiano di Gabriella Venturini. Quest’ultima, di prevalente carattere giuridico, illustra in modo problematico i vari aspetti di diritto internazionale derivati dall’invasione vietnamita della Cambogia, senza giungere ad una conclusione finale. È da augurarsi che la distensione intervenuta tra Est e Ovest porti ad una soluzione concordata dei problemi del paese, facendolo finalmente uscire da una situazione di provvisorietà e dall’incubo di un possibile ritorno dei Khmer rossi ai quali la confinante Thailandia continua a dare, in violazione della neutralità, un sicuro rifugio, e nei cui campi di profughi, controllati in massima parte dagli stessi Khmer rossi, si riproducono, sia pure su scala minore, alcuni dei crimini che hanno contrassegnato il regime di Poi Pot.
Franco Pedone
Ralf Dahrendorf, 1989. Riflessioni sulla rivoluzione in Europa. Lettera immaginaria a un amico di Varsavia, Roma-
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Bari, Laterza, 1990, pp. 136, lire 15.000.
Certo, si deve pur prendere atto del fatto che a scrivere sugli eventi del 1989 che hanno scardinato il blocco dei paesi comunisti siano soprattutto coloro che hanno sempre aborrito il socialismo o lo hanno visceralmente temuto, possedendo comunque al riguardo una teoria e una chiave interpretativa negativa oggi esaltata dallo svolgimento delle ultime vicende. Quando però a farlo sono intellettuali e scienziati sociali del calibro di un Dahrendorf si va oltre il piano rivendicativo, sterile e rivelatore di pericolose angustie mentali, e si ha almeno l’occasione di confrontarsi con idee non rozze e, pur dissentendo se del caso, si può avere l’opportunità di stimoli fruttuosi per autonome analisi e considerazioni sui processi storici e politici che stanno cambiando la mappa, geopolitica e ideologica, dell’intera Europa. Scegliendo, per comporre e trasmettere le sue Riflessioni sulla rivoluzione in Europa nel “portentoso” 1989, un genere in auge nel tardo Settecento inglese e francese presso i suoi ‘modelli’ prediletti (federalisti e liberali, alla Burke), la “lettera immaginaria” a un amico coinvolto ma lontano, questo affabile e colto reinventore continuo del liberalismo (non liberista, né, tantomeno, neoliberista) pone cruciali domande sul senso e sulle prospettive del postcomunismo. In particolare, mi piace segnalare che il suo punto di partenza è già in qualche misura una sorta di risposta al peggiore ‘sillogismo’ evocato da analisti e
commentatori intenti solo a dichiarare la morte di ogni alternativa al capitalismo. “I paesi dell’Europa centro-orientale — avverte Dahrendorf — non si sono sbarazzati del loro sistema comunista per abbracciare il sistema capitalista (qualunque cosa esso sia); si sono sbarazzati di un sistema chiuso per creare una società aperta, la società aperta, per essere esatti, perché mentre ci possono essere molti sistemi c’è soltanto una società aperta” (p. 34).
L’antitesi è dunque tra sistemi (quello capitalistico non meno del socialista, incluse le varianti, o ‘terze vie’ di tipo socialdemocratico, o le utopie a vario titolo e genere in quanto alternative globali distruttive) e società aperta, dagli infiniti futuri possibili, dagli esiti incerti perché in continua costruzione e dalle peculiari, specifiche e nazionali configurazioni, caso per caso. Tale nucleo dell’elaborazione di Ralf Dahrendorf, tedesco di nascita, perseguitato con tutta la famiglia di appartenenza dal nazismo e con genitori di onesti spiriti socialdemocratici, ben si intreccia con quello che può assumersi come il ‘manifesto’ del proprio credo liberale. In questo senso l’autore precisa che la sua posizione è quella di un “liberalismo costituzionale che nella sfera della politica ordinaria è fautore di riforme radicali [...] la vecchia politica è finita. Liberalismo costituzionale e riforma sociale devono costruire una nuova alleanza [...e questo] è un problema europeo che dobbiamo risolvere insieme” (p. 63).
Beninteso, la “lettera” contiene spunti e temi anche com
piutamente sistematici e assai pertinenti al soggetto, soffermandosi sull’anatomia dei processi rivoluzionari, con il loro procedere e trapassare, in pratica obbligati e dolorosi, da una fase all’altra, sul nesso tra democrazia, socialismo e capitalismo, sulla transizione dal socialismo — modernizzazione forse necessaria per i ritardatari — alla società aperta e sul ruolo giocatovi dall’intreccio tra politica costituzionale e politica ordinaria. qui in particolare elementi di grande interesse e suggestione, allorché si delinea un “percorso” possibile (ma non ordinato in sequenza cronologica) centrato sull’ora dei legisti, l’ora del politico e l’ora del cittadino. Costruzione costituzionale, che può realizzarsi in tempi assai brevi; economia sociale di mercato (sul modello della Germania federale postbellica), per la quale occorrono anni; e società civile autonoma, multi- centrica e capace di far conto su se stessa, da coltivarsi per decenni: questi i termini e gli ingredienti dell’avventura verso il mare aperto che si sta vivendo, secondo Dahrendorf, a Budapest e a Praga, a Berlino, Varsavia e Bucarest.
E pagine altrettanto ispirate l’autore dedica infine al rischio della regressione fascista che incomberebbe sui paesi dell’Est, all’incognita della Germania unita e alla nuova architettura d’Europa. Si tocca qui la questione scottante della portata, psicologica prima ancora che politica ed economica, dell’unificazione delle due Germanie, dei suoi contraccolpi sugli stessi tedeschi, in primo luogo, e nel contesto della marcia verso
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l’Europa in cui sembrano volersi miscelare autonomie regionali e istituzioni sovranazionali, ma da cui non vogliono svanire patria e nazione.
In proposito Dahrendorf nota che “alla Germania piace l’Europa, ma nella sua vita politica l’Europa non ha la priorità e soprattutto la realtà che i sermoni domenicali dei suoi leader sembrano attribuirle” (p. 113). E riguardo alla casa comune europea avverte: “vivere in una casa solida è una prospettiva piacevole. Un villaggio bene ordinato e sicuro delle sue difese dà agli abitanti un senso di sicurezza e la possibilità di badare ai propri affari. Ma il villaggio fa parte di un paesaggio molto più vasto di insediamenti umani. Ciò che accade in uno di essi influisce su ciò che accade in tutti gli altri [...]. In definitiva, non saremo liberi e sicuri finché gli abitanti di tutti i villaggi e le città del mondo non saranno cittadini” (p. 131).
Guido D’Agostino
Saad Kiwan - Riccardo Cristiano, Saddam Hussein. L ’altro muro: l ’Occidente e il mondo arabo, Roma, Edizioni Associate, 1991, pp. 140, lire16.000.
Tra le non poche, né poco fastidiose elucubrazioni strategi- co-militari ammanniteci giornalmente dalla televisione, ci è toccato pure ascoltare una sorta di classifica e relativa assegnazione di Oscar per le armi viste in azione nel Golfo. Propongo invece — da inguaribile pacifista — di assegnare un Oscar im
maginario a questo breve ma assai incisivo e informato volume curato da Saad Kiwan, giornalista libanese, e Riccardo Cristiano (Gr 3), con introduzione di Guido Moltedo (de “Il Manifesto”). Tale polemica assegnazione non solo intende ribaltare una logica perversa, quale quella messa in mostra dall’entusiasta cronista guerrafondaio, ma vuole anche segnalare i grossi guasti prodotti da una informazione tutta appiattita sul presente, preda di malintesi imperativi sensazionalistici e incapace di — o non interessata a — contribuire all’acquisizione di idee meno povere e imprecise sugli eventi in corso. Le 140 pagine di Saddam Hussein. L ’altro muro: l ’Occidente e il mondo arabo sono in effetti soprattutto questo, uno strumento per capire. I lucidi capitoli dedicati all’Occidente e al mondo arabo di fronte all’invasione del Kuwait, ai moventi e alle ragioni dell’uno e dell’altro, o al partito socialista panarabo (Baath) con le sue divisioni interne tra militaristi e politici, alla figura di Saddam e alla galleria di protagonisti (personaggi, paesi, popoli, gruppi tutti presenti sulla scena e variamente coinvolti), alla sequenza inarrestata di accadimenti culminati nella campagna dei primi dell’agosto 1990, non possono leggersi senza interesse e utilità.
L’opera non è solo ineccepibile sotto il profilo della costruzione e della struttura essenziale e insieme puntuale (il tutto è corredato da una cronologia aggiornatissima e da una bibliografia di riferimento), ma si raccomanda perché informa e coopera alla formazione di giu
dizi e idee sul tema senza prevaricare e senza premere con schieramenti pregiudiziali. Eppure si tratta sicuramente di un libro orientato e, per certi versi, ‘a tesi’, dove però ciò su cui vuol portare l’attenzione dei lettori è la complessità, la molteplicità degli elementi in gioco, l’intreccio inestricabile di fattori esterni e interni, economici e politici. Insomma, Resistenza di un altro ‘muro’, dopo quello crollato nel 1989, e assai più resistente: il muro che oppone Occidente e Oriente, America e mondo arabo, Nord e Sud del mondo. Sulla scorta di autorevoli testimonianze, di politici e di intellettuali, ciò appare con la maggiore evidenza: due universi materiali e mentali sono venuti a collisione, senza che tra loro vi sia stata né prima né durante né presumibilmente dopo il terribile impatto, la possibilità di incrociare linguaggio, logica, senso comune. Non sfuggono, evidentemente, agli autori i dati materiali e immateriali del conflitto: il petrolio e il dominio all’interno del sistema capitalistico mondiale, non meno che le aspirazioni egemoniche dei paesi stessi del Golfo, ma anche il tramonto dell’equilibrio bipolare, l’emergere di un bipolarismo Nord-Sud e del dominio monopolare del mondo da parte degli Usa, a fronte della sempre più urgente e essenziale ricerca di una nuova distribuzione delle risorse. Nel- I’indicarli, gli autori ci offrono il supporto prezioso della storia, dell’onda lunga degli eventi (i secoli di dominio turco nell’area, ad esempio), come di quella più breve (le vicende del colonialismo europeo e della de
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colonizzazione più o meno forzata).
Per quanto si è detto in principio circa un presente costante- mente riferito come una dimensione senza spessore e senza profondità, si dovrà convenire sulla giustezza sostanziale dell’approccio praticato in questo libro, nel quale si trova pure una sezione dedicata al dibattito italiano attorno alle vicende politiche e militari di questi ultimi mesi, con le sue povertà e i suoi sotterfugi, le sue omissioni e i suoi falsi. In definitiva, uno sforzo riuscito di restituirci il ‘versante arabo’ della crisi, quello più oscuro per tutti noi, ma con la speranza che ai lati opposti del nuovo muro vi siano orecchie disposte all’ascolto reciproco, e si trovino uomini non alieni dal porre le proprie ragioni a reagire con quelle degli altri. Più che una speranza, questo deve essere l’impegno di coloro dei quali una volta si diceva che fossero dotati di ‘buona volontà’. E il mondo ha sempre più disperato bisogno di imparare a ‘vincere la pace’.
Guido D’Agostino
Strumenti
P rogetto archivio storico F iat, Le carte scoperte. Documenti raccolti e ordinati per un archivio della Lancia, Milano, Angeli, 1990, pp. 492, lire50.000.
In una fase in cui la cosiddetta business history conosce in Italia un’espansione e un interesse crescente, il volume si propone all’attenzione per al
meno tre buone ragioni: per essere uno dei primi risultati del progetto di riordino dagli archivi della Fiat, progetto di notevoli ambizioni e interesse date le dimensioni e il ruolo dell’azienda di Torino nella storia dell’impresa, dell’industria e più in generale della società italiana; per il grado di consapevolezza metodologica con cui è stato condotto il riordino dell’archivio di cui si tratta nel volume; infine per il taglio originale scelto nel proporre e presentare alcuni percorsi possibili all’interno delle carte riordinate.
Non è qui possibile discutere i problemi attinenti più stretta- mente ai metodi ed alle procedure di archiviazione seguite nel caso specifico, ma indubbiamente esse risultano particolarmente attente al dibattito che nel corso degli anni ottanta si è sviluppato con continuità, consentendo uno scambio e un confronto di esperienze che ha coinvolto pubblico e privato. Questo dibattito è ben presente a Bruno Bottiglieri e Giancarlo Subbrero che tracciano il profilo dell’Archivio Lancia, cercando di far cogliere al lettore dove e quando il modello seguito offra garanzie di solidità e dove viceversa i problemi risultino ancora in via di definizione. Conviene forse soffermarsi, anche se rapidamente, sulle connessioni che Bottiglieri, responsabile dell’intero progetto di riordino degli archivi storici Fiat, coglie tra esigenze dell’operatore d’archivio e quelle della ricerca, questione che ha spesso visto su sponde opposte archivisti e storici. Senza pretese esaustive il modello praticato nel caso Lancia ha cercato di te
ner conto delle due esigenze: da un lato salvaguardando la specificità di un archivio riordinato sulla base dell’evoluzione organizzativa dell’azienda, dall’altro suggerendo delle strade di fruibilità delle carte. L’efficacia di questa impostazione ci pare positivamente verificata attraverso una ricostruzione sia pur sommaria delle principali vicende che hanno caratterizzato la vita dell’azienda dagli esordi nel 1906 all’assorbimento da parte della Fiat nel 1969, secondo un approccio economico in certo senso più tradizionale, curato da Franco Amatori (si tratta di una prima traccia per una ricerca in via di attuazione). A questo necessario, anzi indispensabile, profilo si agganciano quattro percorsi che utilizzano parti organiche della documentazione per ampliare la comprensione della realtà dell’azienda. Un primo approfondimento, curato da Alga D. Foschi, analizza i bilanci sia come fondamentale indicatore per la ricostruzione della storia dell’azienda, sia, attraverso un sofisticato processo di analisi e riclassificazione, come strumento indispensabile per tentare di comparare l’evolversi dell’azienda con l’andamento del settore in cui essa si inserisce, per misurarne la vitalità nel confronto con le altre aziende concorrenti e più in generale con il sistema economico. Gli esempi portati sembrano notevolmente convincenti e particolarmente promettenti per lo sviluppo della ricerca.
Antonello Barocci affronta invece le linee di sviluppo degli stabilimenti Lancia sotto il profilo architettonico e urbanistico, sviluppo che avviene da un
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lato per aggregazioni successive, sotto la pressione di urgenze immediate e quindi con scarsa o nulla capacità di pianificazione, dall’altro, in certe fasi di più netta espansione, con interventi notevoli di razionalizzazione. Così nella ‘stratificazione’ degli stabilimenti affiora a tratti una cultura industriale, in senso architettonico, tutt’altro che provinciale, capace di tradurre soluzioni di avanguardia in un complesso che pure cresce simbioticamente, almeno per la sua parte più antica, con il borgo San Paolo, borgo torinese operaio per eccellenza.
Non degli oggetti, ma delle immagini si occupa la sezione che Roberta Vaitorta dedica all’archivio fotografico Lancia, assumendolo con un elevato grado di consapevolezza critica, come fonte autonoma, e non solo come un supporto estetico per una storia dell’azienda. Le suggestioni e le scoperte sono molte e tali da fornire un contributo interessante al dibattito sui limiti intrinseci alla fotografia come fonte storica. Infine, Maria Teresa Scupolito offre un’analisi assai interessante su quella parte dei dipendenti Lancia costituita dagli impiegati. L’elaborazione elettronica della massa di dati ricavata da oltre 4.500 cartelle personali, offre un’identità interessante di questa categoria (dati socioanagrafici, istruzione, carriera, retribuzione, fine rapporto) poco studiata e per un arco di tempo rilevante (dal 1937 al 1969). Una base solida per una analisi che voglia passare dal piano quantitativo a quello qualitativo.
Claudio Dellavalle
Banca Commerciale Italiana. Archivio Storico, Società Finanziaria Industriale Italiana (Sofindit), a cura di Anna Forni, Guido Montanari e Francesca Pino Pongolini, Milano, Banca Commerciale Italiana, 1991, pp. LI-236, ili., fuori commercio.
Con questo secondo volume della collana Inventari l’Archivio storico della Banca commerciale italiana compie un altro passo verso l’obiettivo di mettere a disposizione degli studiosi uno strumento di fondamentale importanza per le indagini di storia economica sull’Italia contemporanea. L’inventario del fondo Sofindit non comprende infatti solo la documentazione prodotta dalla finanziaria che gestì fra il 1931 ed il 1933 le partecipazioni azionarie della Co- mit: a questa raccolta, che costituisce ovviamente un segmento centrale di questo fondo, si aggiungono le documentazioni relative agli uffici tecnici (sia di tipo finanziario che di gestione industriale) istituiti dalla Comit fin dal 1907; uffici che fornirono in buona misura i quadri che presero attivamente parte all’esperienza Sofindit. Nel saggio introduttivo di Guido Montanari si sottolinea come la costituzione di Sofindit sia, nonostante la presenza di un partner pubblico, la Banca d’Italia, un’esperienza ispirata dalla Commerciale: una sorta di “canto del cigno” della banca mista, come hanno osservato Franco Bonelli e Antonio Confalonieri intervenendo a Milano alla presentazione dell’inventario.
L’archivio Sofindit si articola su 420 cartelle (microfilmate per
la consultazione) suddivise in sei sezioni. Non è questa la sede per un censimento analitico del vastissimo impero industriale Comit di cui esiste una qualche documentazione all’interno del fondo: basterà ricordare nomi come Terni, Oto, Ilva, Sip, Chatillon, Mira Lanza, Italgas, Cantieri riuniti dell’Adriatico per farsi un’idea sia pur approssimativa del materiale disponibile. Ci pare pertanto più opportuno parlare brevemente dell’organizzazione del fondo, in particolare delle tre sezioni principali. La prima, “Carte di Ferdinando Adamoli e dell’Ufficio tecnico finanziario della Banca commerciale italiana” (cart. 1-157), raccoglie il materiale elaborato nel corso di oltre un ventennio da Ferdinando Adamoli, che aveva lavorato nell’Ufficio tecnico industriale (1907) e nell’Ufficio tecnico finanziario (1928) ed era inserito in qualità di consigliere o sindaco nei consigli di amministrazione di alcuni dei più importanti gruppi industriali legati alla Commerciale. In questa sezione si concentrano le documentazioni più antiche, risalenti ai primi anni del Novecento. Nella seconda sezione (cart. 158-237) sono organizzate le carte della “Segreteria industriale” (1929), guidata da Giorgio Di Veroli, futuro direttore generale di Sofindit. Fu questi ad ideare la divisione dei materiali via via prodotti in dieci sezioni, ognuna delle quali corrispondeva ad un diverso comparto industriale: siderurgia, meccanica e cantieri, imprese elettriche e telefoniche, chimiche e così via. Una suddivisione mantenuta anche nella
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terza sezione (cart. 238-362) “Archivio Sofindit: documentazione relativa alle società”; all’interno di essa, di grande interesse è la raccolta dei “gialli”, dossier sintetici che offrono una rapida visione d’insieme delle partecipazioni Sofindit. L’ossatura della sezione è comunque rappresentata dagli studi condotti da Sofindit negli anni della propria attività autonoma e nel periodo in cui i suoi uomini continuarono a lavorare, sotto la denominazione di “Iri-Ispettorato tecnico”, alla sistemazione delle società controllate dall’ente pubblico, in particolare Ilva, Terni, Ansal- do-Cogne, Sip, Unes.
Fabio Degli Esposti
L ’Archivio della Federazione Comunista Senese, Siena, Asmos, 1990, pp. 138, sip.
11 fatto che nel secondo dopoguerra Siena sia stata “la provincia comunista per eccellenza [in cui] non solo le percentuali di voto, ma anche quelle degli iscritti rispetto al totale della popolazione erano le più alte d’Italia” (cfr. Tamara Gasparri - Renzo Martinelli, Il Partito Comunista Italiano: appunti per una ricerca, in La ricostruzione in Toscana dal Cln ai partiti, Vol. II: I partiti politici, a cura di Ettore Roteili, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 854), evidenzia l’importanza del presente inventario che costituisce una fonte primaria non solo per la storia del Pei, ma anche per la storia d’Italia e “per gli studi politologici, economici, sociologici, antropolo
gici”, come afferma Luigi Berlinguer nella prefazione. L’esigenza di ordinare questa notevole messe di materiale nacque nel 1983, quando Vasco Calo- naci, ex segretario della federazione senese cominciò, insieme ad altri compagni, a raccogliere le testimonianze di vecchi dirigenti e militanti (serie XIII dell’archivio) ed “il lungo e paziente lavoro di Roberta Bone- chi e Antonella Cutillo, aiutate dalla collaborazione di Giuliano Catoni, noto archivista e storico senese al quale si deve l’introduzione, di Ugo Pasqua- letti, di Fiorenzo Giannetti, di Mauro Marucci, di Marino Mazzi, di Remo Carli e di Giuseppe Marzucchi, si concluse nel 1988 con la creazione dell’ Archivio storico del movimento operaio e democratico senese (Asmos)”.
La Federazione provinciale senese nacque a Poggibonsi il 30 gennaio 1921, pochi giorni dopo la costituzione del Pcd’i e a poco più di un mese di distanza dall’assalto e dalla distruzione della Casa del popolo di Siena per mano dei fascisti i quali, insieme alle forze dell’ordine, sfondarono il portone, addirittura, a cannonate (cfr. Mario Bracci, Testimonianze del proprio tempo. Meditazioni, lettere, scritti politici 1943-1958, a cura di E. Balocchi - G. Grotte- nelli de Santi, Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 448-489. Bracci nel 1944 aderì al Pd’A; divenne rettore dell’ateneo senese, ministro nel primo governo De Gasperi e, nel 1955, giudice della nascente Corte costituzionale). Il primo segretario della federazione fu Aurelio Rugi, un falegname di Poggi
bonsi; nel settembre del 1921 la sede fu trasferita a Colle Val d’Elsa ed un colligiano, il meccanico Guglielmo Dondoli, ne divenne il segretario. Le prime sezioni furono costituite dagli operai di Colle e di Poggibonsi, di Abbadia San Salvatore, di Siena e dintorni, di Sovicille, Monticiano e Chiusdino e da gruppi di operai, di alcune zone della vai di Chiana. Con il passaggio al Pei della Federazione giovanile socialista, le sezioni comuniste furono costituite anche in alcuni piccoli centri, sia capoluoghi di comuni agricoli, come Casole d’Elsa, sia grandi o piccole frazioni come Abbadia di Montepulciano, San Lorenzo a Merse o Sant’Andrea, alla periferia di Siena. Dopo che si fu costituita la Federazione giovanile comunista divenne segretario il muratore Vittorio Bardini che cominciò così la sua battaglia antifascista fino all’esilio di Parigi, alla guerra civile spagnola, alla scuola leninista di Mosca e al campo di concentramento di Mauthausen (cfr. Vittorio Bardini, Storia di un comunista, Rimini-Roma, Guaraldi, 1977). Nel 1923 la federazione si trasferì a Siena e proprio quando i suoi dirigenti erano riusciti, dopo molte discussioni sulle posizioni di Bor- diga e di Gramsci, a nominare Fosco Mazzoncini delegato al congresso di Lione (arrestato a Domodossola), avvennero gli arresti e l’invio al confino di altri militanti. Nel 1927 continuarono arresti e confino, ma ciononostante “il partito rimase un punto di riferimento dell’opposizione popolare al regime e quando nel 1944 esplose come partito di massa si pose come
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continuatore dell’esperienza e della tradizione socialista”. Anzi, proprio a questo si deve l’egemonia nel movimento partigiano dei comunisti che divennero, come un po’ dovunque in Toscana, “l’unica forza disposta a raccogliere le istanze del mondo mezzadrile...” (cfr. P. Taddei, Cinque anni di lotte contadine in Valdelsa: 1945- 1950, in “Miscellanea storica della Valdelsa”, A. LXXVII- LXXIX, 1971-1973, p. 64; Sandro Orlandini - G. Venturini, Padrone arrivedello a battitura. Lotte mezzadrili neI senese nel secondo dopoguerra, Milano, Feltrinelli, 1980).
Alla fine del 1946 il Pei aveva45.000 iscritti ed una presenza organizzata non solo in ogni comune, ma in ogni fattoria, come ebbe a rilevare il segretario Bardini al V Congresso nazionale del partito. Bardini, nominato segretario regionale, successe a Rineo Cirri, maestro vetraio di Empoli, uno dei più tenaci costruttori del “partito nuovo”, prima in Valdelsa, poi in vai di Chiana e infine, appunto, segretario provinciale dal 1948 al 1961. Le trasformazioni dell’ultimo trentennio hanno sollecitato la discussione dei nuovi compiti di un partito volta a volta antagonista, riformista o forza di governo. L’archivio è stato suddiviso in tredici serie aperte, le prime dieci delle quali presentano, con le loro sottoserie e classi, la struttura funzionale della federazione invece che burocratico-am- ministrativa, la quale ha proceduto nel tempo a continui mutamenti nei settori operativi e a frequenti ridistribuzioni dei ruoli. Le varie serie si riferisco
no perciò a nuclei di attività e si articolano seguendo le empiriche competenze che costituivano la fisionomia originaria del fondo. Ad esso sono state aggiunte tre appendici che raccolgono fotografie, opuscoli, volantini ed altro materiale di propaganda, giornali e ritagli di stampa.
Nicla Capitini Maccabruni
Bruna Bocchini Camaiani - Daniele Menozzi (a cura di), Lettere pastorali dei vescovi della Toscana, Genova, Marietti, 1990, pp. XLII-363, lire85.000.
“Nell’ambito contemporaneo, così poco sorretto dalle consolidate tradizioni di studi e di supporti strumentali delle grandi scuole della filologia e delle ricerche medievistiche e modernistiche, la storiografia religiosa ed ecclesiastica, ancora lacerata e divisa tra il suo essere disciplina storica a pieno titolo e i condizionamenti teologici e apologetici della sua configurazione originaria, avrebbe più che mai bisogno di cimentarsi con i problemi della costruzione di un apparato documentario sufficientemente ricco ed articolato per offrire punti di riferimento di analisi e di discussioni meno arbitrariamente legati agli orientamenti e alle predisposizioni del singolo studioso.” Così si esprime Giovanni Miccoli nella prefazione alle Lettere pastorali dei vescovi dell’Emilia Romagna (a cura di Daniele Menozzi, Genova, Marietti, 1986), che apre la collana “Fonti e materiali per la storia
della chiesa italiana in età contemporanea”, di cui si presenta ora il secondo volume. Nonostante le non indifferenti difficoltà che si incontrano in un simile lavoro di ricerca, non ultime l’accesso agli archivi diocesani e il loro stato di conservazione ed ordinamento, questo repertorio delle pastorali dei vescovi della Toscana evidenzia la volontà di costruire con sistematicità un apparato di fonti per la storia religiosa e della Chiesa in Italia adeguato al notevole incremento degli studi, sia su figure di singoli vescovi che su profili complessivi di chiese locali, apparsi, non a caso, dal Concilio vaticano II in poi. Il periodo cronologico preso in esame inizia con l’ultimo ventennio del Settecento, per terminare negli anni immediatamente successivi alla conclusione del Vaticano II e il censimento delle lettere, per ciascuna delle quali è indicato il titolo accompagnato dal sommario dei temi più rilevanti, è suddiviso per diocesi. Inoltre tutta una serie di dati biografici sulla provenienza, formazione e carriera dei vescovi, nonché sulla frequenza della sinodalità in Toscana nello stesso periodo, fanno intravedere interessanti e molteplici itinerari di ricerca che sono oggetto di una prima stimolante analisi, anche di tipo quantitativo, nell’introduzione di Bruna Bocchini Camaiani, mentre ben sei indici, fra cui spicca quello tematico, agevolano la consultazione della documentazione proposta. Infine è doveroso ricordare i quattro giovani ricercatori, Roberto Barducci, Claudio Bonanno, Metello Bonanno e Luciana
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Pellegrini, che hanno redatto il repertorio.
Silvano Priori
Popolo e Comune 1848-1889. Il paese reale verso le istituzioni a cura di Pietro Albonetti e Maurizio Ridolfi, Milano, Nuova Editoriale Aiep, 1989, pp. 326, sip.
Questo elegante volume introdotto da Renato Zangheri è il catalogo dell’omonima mostra realizzata con le collezioni documentarie (libri, opuscoli, giornali e fotografie) della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli in occasione del centenario di “Imola, primo Comune d’Italia a guida democratica e socialista (1889-1989)”. Il fatto che la sua vicenda storica sia stata per molti versi esemplare rispetto alle origini delle prime amministrazioni comunali popolari dell’Italia liberale, ha indotto i curatori a ripercorrere tutti quegli avvenimenti che nei decenni precedenti avevano fatto maturare nelle forze popolari la determinazione di conquistare, per la prima volta nella storia del nostro paese, le amministrazioni locali. Il filo conduttore della mostra è il “popolo” (che assume significati diversi nella pubblicistica dei vari periodi), attraverso la guida ideale di Carlo Cattaneo, nel periodo compreso tra il 1848 ed i primi anni postunitari, e di Andrea Costa negli anni dell’Ottocento fino alla conquista del Comune di Imola (1889). Tra il primo (“avversario degli accentramenti imposti che soffocavano la spontaneità delle forze locali”, il quale visse il fallimento del
1848 all’interno della classe dirigente e si rese conto che l’avere respinto il popolo aveva inaugurato un’epoca di conservazione che venne accentuata dal processo unitario), e il secondo (fondatore nel 1881 del partito socialista rivoluzionario di Romagna, il cui programma prevedeva T “impadronirsi dei Comuni mediante viva partecipazione alle elezioni amministrative e trasformare a vantaggio del popolo e dell’autonomia comunale, l’attuale ordinamento amministrativo”, cfr. Ernesto Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1967) si snodano le dieci sezioni della mostra. In esse viene documentato come l’interesse per i problemi del Comune andasse diffondendosi spontaneamente come effetto di una maturazione politica delle correnti più avanzate del movimento operaio.
Nonostante la storiografia degli anni sessanta abbia insistito sulla crisi definitiva del decentramento e del Comune alla fine del primo decennio unitario e che quella recente abbia dato un rilevante contributo alla storia municipale dopo l’unità, lo studio degli enti locali in realtà regionali tanto diverse tra loro, deve essere ancora approfondito. Le condizioni di vita delle grandi masse popolari presentavano caratteristiche di immobilità tali da permettere allo storico di utilizzare i dati sull’Italia del 1870 anche per il decennio precedente e, con poche variazioni, per gli anni ottanta. Su questa immobilità e arretratezza, con nette fratture fra mondo urbano e rurale, si mise in moto la prima modernizza
zione industriale, commerciale, culturale e politica. Toccare però quella realtà con strumenti di potere nuovi e aggiornati (fiscalità, leva, prefetti, carabinieri eccetera) significò anche produrre reazioni e repressioni violente ed allontanare ancor più la possibilità di rimuovere le antiche differenze e di far sentire al cittadino il beneficio del nuovo Stato. Dopo la riforma elettorale del 1882, cominciò a farsi strada l’idea che il Comune avrebbe potuto essere il luogo di profonde trasformazioni sociali, il primo nucleo di una nuova società, contrapposta e in lotta con lo stato borghese, se fosse stato allargato anche il suffragio amministrativo e fosse stata trovata una linea d’intesa con quelle forze democratiche e popolari che, nel caso della Romagna già dagli anni settanta, avevano puntato alla conquista dei comuni. È merito degli organizzatori di questa mostra averlo richiamato in modo da divulgare la conoscenza che fu proprio a Forlì che, con l’iniziativa presa da Saffi nel 1883, si costituì un apposito comitato inteso a promuovere e coordinare “l’agitazione” nazionale a favore del suffragio universale amministrativo. Quando l’8 luglio 1883, Costa parlò ad Imola, rivendicando il valore dell’agitazione popolare e cercando di non incrinare l’unità delle forze politiche che tanto faticosamente si era costituita intorno a quell’agitazione, rilevò che lo stesso Depretis era tutt’altro che convinto della perfezione della legge comunale e provinciale del 1865, tanto che egli stesso, nel 1880, aveva presentato un progetto di rifor
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ma che contemplava l’allargamento dell’elettorato amministrativo ai limiti dell’elettorato politico. La sua riforma prevedeva anche l’estensione del suffragio amministrativo alle donne e che le cariche di sindaco e di presidente delle deputazioni provinciali fossero rese elettive. Così, dunque, mentre il movimento per i comuni andò trasformandosi da campagna di propaganda in espressione della società civile, anche il governo ritenne opportuno arrivare alla riforma della legge comunale e provinciale. Crispi, però, “fece entrare decisivi contrappesi di controllo aH’allargamento del suffragio”. Costa tuttavia, che “non si illudeva, ma non rinunciava”, affermò che “si poteva governare con astuzia in materia di tasse [...] che potevano essere migliorate l’igiene, la be- neficienza, la previdenza, l’ordinamento delle opere pie, dei lasciti, lo sfruttamento dei beni comunali e i servizi di politica comunale”. Egli non potè assistere alla vittoria a Imola delle liste in cui era insieme ai suoi compagni, essendosi rifugiato a Parigi per evitare il carcere. Quando però, tornò in Italia, parlando ad una massa enorme di popolo dal balcone del municipio di Imola disse fra l’altro: “La povera gente, gli operai e i contadini non saliranno più gli scalini di Palazzo per le loro pratiche amministrative, trepidanti e sospettosi, ma vi entreranno come si entra nella casa di tutti, nella casa del popolo” (cfr. Anseimo Marabini, Prime lotte socialiste, Roma, Edizioni Rinascita, 1950, p. 150).
Nicla Capitini Maccabruni
Guido Alberini (a cura di), Il primo Maggio di “Brescia Nuova”, Brescia, Luigi Micheletti, 1990, sip.
La Fondazione Micheletti, in occasione della festa dei lavoratori, le cui origini sono sinteticamente illustrate nella presentazione da Guido Alberini, che sottolinea come la sua prima celebrazione in Italia abbia coinciso, di fatto, con la nascita del partito socialista, ha ristampato i numeri dedicati al Primo maggio dal 1897 al 1922, dal settimanale socialista “Brescia Nuova’. Questa testata, infatti, nata nel 1880 come periodico democratico, mutò più volte il titolo per riprenderlo il primo novembre del 1896, dopo essere diventata “il simbolo riconosciuto del socialismo bresciano” e proseguì le pubblicazioni fino al fascismo. La presente raccolta, ampiamente introdotta da Pier Paolo Poggio, oltre ad evidenziare la grande importanza che ebbe, per i lavoratori e per le loro famiglie, la festa del lavoro, nella quale stavano già innestandosi temi molto più antichi e stratificati nella mentalità collettiva, documenta le difficoltà con cui il Primo maggio riuscì ad imporsi nel calendario ufficiale sconfiggendo i divieti delle autorità statali che culminarono nel 1898, come nel resto d’Italia, con lo scioglimento di tutte le organizzazioni operaie. Per il giornale socialista però, il Primo maggio del 1898 rappresentò l’occasione per rinnovare la propria veste tipografica nella cui testata campeggiava una figura femminile con in mano una fiaccola e il sole sullo sfondo. I numeri del 1899 e del 1900
riflettono sia l’atmosfera di speranze e di entusiasmo con cui era celebrata la festa, sia le posizioni contrapposte dei riformisti e dei rivoluzionari. Questi ultimi, infatti, tra il 1904 e il 1905 acquistarono maggiori consensi all’interno della Cdl e nella provincia; pubblicarono un proprio giornale, “L’Allarme socialista”, e nell’aprile del 1907, un loro rappresentante, Gino Müller, divenne segretario della Cdl la quale cominciò a pubblicare un giornale proprio, dal titolo “Le lotte del lavoro”. Il numero del 1909, però, indica che i riformisti avevano ripreso il controllo del movimento sostenendo la necessità dell’abolizione del dazio sul grano che era la parola d’ordine della Cgdl dopo il fallimento dello sciopero agrario di Parma diretto, come è noto, dai sindacalisti rivoluzionari. Il numero del 1910 è impostato sulla richiesta del suffragio universale che l’anno successivo fu affiancata da una serie di interventi a favore di una definitiva separazione tra Stato e Chiesa. In questi anni i socialisti parteciparono al governo della città dirigendo l’assessorato del Lavoro, ma la crisi provocata dalla guerra di Libia all’interno del partito, segnò una svolta di rilievo anche nella vicenda di socialisti bresciani. Nel numero del primo maggio del 1912 vengono esplicitamente affermati infatti i diritti dei contadini ai quali la Cdl dedicò un numero unico e viene accentuata la polemica con gli esponenti cattolici. Il numero del primo maggio del 1915 “celebra un tragico Calendimaggio” ed è significativo che nello stesso giorno in
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cui l’Italia entrò in guerra (la città e la provincia furono dichiarate zone di guerra) sia uscito anche l’ultimo numero del giornale. Nel 1919, dopo che l’economia bresciana era stata “letteralmente trasformata dalla guerra”, anche il primo maggio trascorse in un clima più di mobilitazione che di festa: “i socialisti sentivano il pericolo, ma era difficile ammettere e confessare anche a se stessi che stavano per fallire sia la palingenesi rivoluzionaria, sia la lenta ma immancabile marcia di avvicinamento al grande ideale che la Festa del lavoro aveva contribuito a prefigurare per milioni di lavoratori”. Nell’ultimo Primo maggio, quello del 1922, viene esaltata l’inaugurazione della Casa del popolo, che pochi mesi dopo fu occupata e saccheggiata dai fascisti i quali riuscirono anche ad impedire la diffusione del numero di “Brescia Nuova” stampato clandestinamente a Milano nel marzo del 1924, e ad appropriarsi della testata della quale fecero uscire due numeri in quegli stessi giorni. Il fatto dimostra che perfino i fascisti attribuivano un importante valore simbolico al giornale, in cui era raccolta la storia del socialismo bresciano delle origini; così la loro abolizione della festa del lavoro “caricò la giornata del primo maggio di un significato decisamente antifascista”.
Nicla Capitini Maccabruni
Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, Tribunale speciale per la difesa
dello Stato. Decisioni emesse nel 1934, Roma, Ufficio storico Sme, 1989, pp. 478, lire 18.000.
Il volume prosegue, senza variazioni nell’impostazione, la serie dell’Ufficio storico, curata da Floro Roselli, che prese l’avvio nel 1980 con la raccolta relativa alle decisioni del 1927. La prima parte raccoglie le sentenze per attività sovversiva emesse dal Tribunale speciale, dalla Commissione istruttoria e dal giudice istruttore. Nella seconda, invece, vengono pubblicate le sentenze “relative ai reati di spionaggio” e l’unica “relativa a fatti diretti a provocare la devastazione e la strage”. Dal quadro riassuntivo redatto dallo stesso tribunale si ricava la distribuzione regionale dei condannati, con forti squilibri tra le diverse aree così come rispetto agli anni precedenti.
Tralasciando di indicare i personaggi più noti sottoposti a giudizio nel 1934 o le sentenze di maggior rilievo, vale forse la pena di segnalare alcune caratteristiche dell’edizione. Le decisioni sono completate da notizie ricavate dai fascicoli di esecuzione e da alcuni articoli del regio decreto 25 settembre 1934, n. 1511, relativo alla concessione di amnistia e indulto, mentre la consueta articolazione degli indici rende agevole la consultazione del volume e comprende, tra l’altro, la raccolta dei dati per regione e secondo l’attività lavorativa svolta dagli imputati. Dal momento che alcune decisioni sono pubblicate per estratto, si deve infine notare la mancanza di indicazioni riguardo ai criteri seguiti così come sul contenuto —
che avrebbe almeno potuto essere fornito in sintesi — dei brani non compresi nel volume.
Paolo Ferrari
Luigi P onziani, Due secoli di stampa periodica abruzzese e molisana, Teramo, Interlinea, 1990, pp. 258, lire 30.000.
Introdotto da un breve saggio storico {Per una storia della stampa periodica abruzzese e molisana 1792-1985) ed accompagnato da un’ampia bibliografia, il catalogo dei periodici abruzzesi e molisani posseduti dalla biblioteca provinciale Delfico di Teramo costituisce la parte centrale e più corposa di questo vasto repertorio. L’opera risulta particolarmente apprezzabile non solo per la ricchezza dei dati forniti su ogni testata (che comprendono, oltre alle informazioni su titolo, sottotitolo, luogo di pubblicazione, periodicità, direzione, data dell’eventuale cessazione e consistenza della collezione, anche riferimenti bibliografici specifici ed ampie note storiche sul contenuto e le vicende dei periodici più importanti), ma anche, fatto non secondario in pubblicazioni di questo genere, per l’agilità e la chiarezza dell’impostazione grafica. Al catalogo dei periodici della biblioteca teramana fa seguito un indice dei 580 periodici abruzzesi reperibili altrove, che, rinviando alle collocazioni alternative nelle biblioteche dell’Aquila, Chieti, Pescara e Giulianova, costituisce un indispensabile complemento per il ricercatore. Da segnalare, infine, i tre pre
Rassegna bibliografica 559
ziosi indici generali: cronologico (in base alla data di fondazione delle testate), delle località (luogo di pubblicazione) e dei nomi.
Mauro Maffeis
Marziano Brignoli - Danilo L. Massagrande, Bibliografia degli scritti su Carlo Cattaneo (1836-1987), Firenze, Le Mon- nier, 1988, pp. 109, lire 20.800.
Risale al 1950 la prima proposta, dovuta a Norberto Bobbio, di giungere alla compilazione di un’aggiornata bibliografia su Carlo Cattaneo, e solo oggi, a quasi quarant’anni di distanza, il Comitato italosviz- zero per la pubblicazione delle opere di Cattaneo può dichiarare assolto un impegno sul quale hanno pesato difficoltà e ritardi di ogni genere. Alla base di questi problemi è stata proprio la permanente, diffusa vitalità dell’attenzione verso Cattaneo (giurista, educatore, economista, filosofo) in ogni strato della società e della cultura italiana, che ha reso indispensabile condurre la ricerca praticamente “su tutto ciò che si stampa”: dalle riviste, alle storie generali, alle monografie, escludendo unicamente gli scritti d’interesse decisamente effimero o strettamente locale, la maggior parte delle voci enciclopediche e quant’altro prescindesse comunque da una pertinenza diretta e significativa con il pensiero e l’attività di Cattaneo. Ne è scaturita una bibliografia segnaletico-selettiva, che da una parte indica solo i caratteri esterni degli scritti (autore, titolo, luogo di pubblicazione, edi
tore, anno di edizione, pagine, escludendo note storiche, esplicative o critiche di qualsiasi genere) e dall’altra ne garantisce (con maggiore elasticità per il periodo 1836-1900, quando i contributi su Cattaneo sono diffusi su pubblicazioni più eterogenee) la specificità ed una certa omogeneità di carattere e di rilevanza.
Le circa 1200 schede bibliografiche, disposte in ordine alfabetico per autore (cognome con iniziale del nome, sciolta, non si sa perché, “solo nel caso delle autrici”), o per titolo nel caso di scritti anonimi. Da segnalare infine la mancanza di indicazioni sulla reperibilità delle opere censite.
Mauro Maffeis
Fumetti giocattoli e arti grafiche. Fonti storiche non tradizionali (fine ’800-prima metà del ’900), a cura di Serafina Bueti, Grosseto, Ministero per i Beni culturali e ambientali, Archivio di Stato di Grosseto, 1989, pp. 150, sip.
L’Archivio di Stato di Grosseto si è fatto promotore, nella primavera del 1989, di una mostra di “oggetti apparentemente eterogenei” (come vengono definiti da Serafina Bueti, direttrice dell’archivio stesso e curatrice di questo volume) prodotti tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento; tavole originali di fumetti dei migliori disegnatori italiani, preziosi giocattoli prodotti in vari paesi del mondo, scatole di dolciumi decorate, manifesti e cartoline pubblicitarie, figurine. Se
l’eterogeneità e la quantità del materiale, tratto da collezioni private, hanno reso impossibile la pubblicazione di un catalogo generale, non si è voluto rinunciare a fornire al pubblico interessato una chiave introduttiva alla storia e all’evoluzione dei vari oggetti e dei segmenti di costume, di società e di cultura che essi in qualche modo rappresentano. Il corpo del volume è quindi costituito da una serie di rapidi e interessanti interventi sui tre principali generi di materiali esposti (fumetti, giocattoli e arti grafiche) curati direttamente dai collezionisti e dalla stessa Bueti, che illustra anche, nell’introduzione, la tematica complessiva delle “fonti storiche non tradizionali” e della loro collocazione in una moderna e vitale concezione del lavoro archivistico. Un piccolo ma attento contributo di storia sociale, insomma, che, nato da una sede periferica e da un’iniziativa di dimensioni limitate, si raccomanda ad un pubblico più vasto per l’originalità della materia e per la freschezza espositiva. Completa il volume una serie di tavole fotografiche a colori sui più interessanti oggetti esposti.
Mauro Maffeis
Libri ricevuti
Aa.Vv., Gestapo operazioni segrete, 2 voli., La Spezia, Fratelli Meli- ta, 1988, pp. 253-253, lire 48.000.
Aa.Vv., Il Politecnico di Milano nella storia italiana 1914/63, 2 voli., Milano-Roma-Bari, Cariplo- Laterza, 1989, pp. 756, lire 40.000.
560 Rassegna bibliografica
Giorgio Agosti - Livio Bianco, Un ’amicizia partigiano. Lettere 1943-1945, Introduzione e cura di Giovanni De Luna, Torino, Albert Meynier, 1990, pp. 495, lire 40.000.
Paolo Alatri, Le occasioni della storia, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 702, lire 70.000.
Michel Albert - Jean Boissonnat, Crisi, disastro, miracolo. L ’Europa nel gioco a rischio dell’economia mondiale, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 215, lire 16.000.
Giovanni Altamore, Anni di lotta. Esperienze sindacali e municipali nel latifondo siciliano (1948-1962), Catania, Cuecm, 1990, pp. 310, lire24.000.
Amministrazione provinciale di Arezzo, Guerra di sterminio e resistenza. La provincia di Arezzo 1943-1944, A cura di Ivan Tognari- ni, Roma-Napoli, Esi, 1990, pp. 422, lire 55.000.
Arianna Arisi Rota, La diplomazia del ventennio. Storia di una politica estera, Milano, Xenia, 1990, pp. 204, lire 20.000.
Alessandra Baldini - Paolo Palma, Gli antifascisti italiani in America (1942-1944). La “Legione” nel carteggio di Pacciardi con Borghese, Salvemini, Sforza e Sturzo, Firenze, Le Monnier, 1990, pp. XVII-376, lire 40.000.
Egidio Baraldi “Walter”, Il delitto Mirotti. Ho pagato innocente. L ’omicidio, il processo, il carcere (1946-1935), Reggio Emilia, Tecnostampa, 1989, pp. 125, lire 15.000.
Christian Bernadac, Sterminateli! A do lf Hitler contro i nomadi d ’Europa, La Spezia, Fratelli Melita, 1988, pp. 283, lire 24.000.
Christian Bernadac, Tra i morti viventi di Mauthausen, La Spezia,
Fratelli Melita, 1988, pp. 381, lire28.000.
Claude Bertin (a cura di), La seconda guerra mondiale. La sconfitta del Giappone, La Spezia, Fratelli Melita, 1988, pp. 253, lire 24.000.
Silvio Bertoldi, Hitler la sua battaglia, Milano, Rizzoli, 1990, pp. 296, lire 28.000.
Maria Luisa Betri - Alberto De Bernardi - Ivano Granata - Nanda Tor- cellan (a cura di), II fascismo in Lombardia. Politica, economia e società, “Storia in Lombardia” numero speciale, Milano, Angeli, 1989, pp. 520, lire 40.000.
Bruna Bocchini Caimani - Daniele Menozzi (a cura di), Lettere pastorali dei vescovi della Toscana, Genova, Marietti, 1990, pp. XLII-369, lire 85.000.
Gisela Bock, Storia, storia delle donne, storia di genere, Firenze, Estro, 1988, pp. 75, lire 13.000.
Gaetano Bonetta, Corpo e nazione. L ’educazione ginnastica, igienica e sessuale ne/TItalia liberale, Milano, Angeli, 1990, pp. 473, lire 40.000.
Andrea Bosco, Lord Lothian. Un pioniere del federalismo 1882-1940, Milano, Jaca Book, 1989, pp. 347, lire 33.000.
Francesco Brioschi - Luigi Puzzacchi - Massimo G. Colombo, Gruppi di imprese e mercato finanziario. La struttura di potere dell’industria italiana, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1990, pp. 204, lire32.000.
Rosy Candiani (a cura di), Cronaca milanese in un epistolario del Settecento. Le lettere di Giuseppe De Necchi Aquila a Giovan Battista Corniani (1779-1782), Milano-Ro- ma-Bari, Cariplo-Laterza, 1988, pp. LV-465, sip.
Antonio Canovi, Il mattone della concordia. Dopoguerra a Reggio Emilia. Le case e la città. L ’amministrazione e la politica, Reggio Emilia, Comune di Reggio Emilia - Assessorato alla cultura, 1990, pp. 118, lire 22.000.
Giuseppe Capobianco, La giustizia negata. L ’occupazione nazista in Terra di Lavoro dopo T8 settembre 1943, Caserta, Centro Corrado Graziadei, pp. 169, sip.
Angelo Carello, I valdostani la regina Margherita e il cavalier Benito. La vallee dalla Belle epoque al Fascismo, Quart (Aosta), Musumeci, 1989, pp. 155, lire 32.000.
Roberto Cartocci, Elettori in Italia. Riflessioni sulle vicende elettorali degli anni Ottanta, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 234, lire 26.000.
Antonio Casali - Marina Cattaruz- za, Sotto i mari del mondo. La Whitehead 1875-1990, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 328, lire 45.000.
Mario Casella, Igino Giordani. “La pace comincia da noi”, Roma Stu- dium, 1990, pp. 265, lire 26.000.
Jean Charbonnel, Edmond Michelet, Paris, Beauchesne, 1987, pp. 294, franchi 120.
Donatella Cherubini, Giuseppe Emanuele Modigliani. Un riformista nell’Italia liberale, Milano, Angeli, 1990, pp. 438, lire 44.000.
Marinella Chiodo (a cura di), Geografie e form e de! dissenso sociale in Italia durante il fascismo (1928- 1934), Cosenza, Pellegrini, 1990, pp. VI-326, lire 35.000 (Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dellTtalia contemporanea).
Mario Caciagli, La lotta politica in Valdelsa dal 1892 al 1915, Castel- fiorentino, Società storica della Valdelsa, 1990, pp. 323, lire 30.000.
Spoglio dei periodici italiani 1990a cura di Franco Pedone
È stato effettuato lo spoglio dei seguenti periodici (sono riportati la sigla, la sede della redazione e il luogo di edizione): AE, “Affari esteri” (Roma); A, “Africa” (Roma); AS, “Analisi storica” (Lecce-Brindisi); AAC, “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” (Roma- Bologna); AFE, “Annali della Fondazione Luigi Einaudi” (Torino); AUL, “Annali dell’Istituto Ugo La Malfa” (Roma); ASI, “Annali di storia dell’impresa” (Milano); Ba, “Balcanica” (Roma); Be, “Belfagor” (Bari-Roma); BMR, “Bollettino del Museo del Risorgimento” (Milano); CC, “Civiltà cattolica” (Città del Vaticano); Ci, “Civi- tas”, (Roma); C, “Clio” (Napoli); CM, “Critica marxista” (Roma); Cst, “Critica storica” (Napoli-Firenze); DD, “Democrazia e diritto” (Roma); IM, “Incontri meridionali” (Messina-Catanzaro); IC, “Italia contemporanea” (Milano); JEEH, “Journal of European Economie History” (Roma); Me, “Meridiana” (Roma); MC, “Mondo cinese” (Milano); MOS, “Movimento operaio e socialista” (Genova); Mu, “Il Mulino” (Bologna); NS, “Nord e sud” (Napoli); NA, “Nuova antologia” (Firenze); NRS, “Nuova rivista storica” (Roma); Pa, “Padania” (Ferrara); PP, “Passato e presente” (Firenze); PEM, “Il pensiero economico moderno” (Pisa); PeP, “Il pensiero politico” (Perugia); Poi, “Polis” (Bologna); PD, “Politica del diritto” (Bologna); PI, “Politica internazionale” (Firenze); P, “Il Politico” (Pavia); Po, “Il Ponte” (Firenze); PS, “Pro
blemi del socialismo” (Roma); QC, “Quaderni costituzionali” (Bologna); QSoc, “Quaderni di sociologia” (Milano); QdS, “Quaderni di storia” (Bari); QS, “Quaderni storici” (Genova-Bologna); RSR, “Rassegna storica del Risorgimento” (Roma); RSP, “Ricerche di storia politica” (Bologna); RSSR, “Ricerche di storia sociale e religiosa” (Roma); RS, “Ricerche storiche” (Firenze-Napoli); R, “Risorgimento” (Milano); RSC, “Rivista di storia contemporanea” (Torino); RSdC, “Rivista di storia della Chiesa” (Roma); RSE, “Rivista di storia economica” (Torino); RSPI, “Rivista di studi politici internazionali” (Firenze); RI- SP, “Rivista italiana di scienza politica” (Bologna); RSI, “Rivista storica italiana” (Napoli); SSS, “Sanità, scienza e storia” (Milano); SeS, “Società e storia” (Milano); So, “Sociologia” (Roma); SD, “Sociologia del diritto” (Milano); SC, “Storia contemporanea” (Bologna); SPE, “Storia del pensiero economico” (Milano); SS, “Storia della storiografia” (Milano); SRI, “Storia delle relazioni internazionali” (Firenze); SU, “Storia urbana” (Milano); SE, “Studi emigrazione” (Roma); SSt, “Studi storici” (Roma).
Lo spoglio non comprende gli ultimi numeri di alcuni periodici che, al momento della stampa, non erano stati ancora pubblicati. Sono invece inclusi alcuni numeri arretrati che, per lo stesso motivo, non erano ancora stati presi in considerazione.
Italia contemporanea”, settembre 1991, n. 184
562
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