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Le guerre degli italianidi Massimo Baioni
Innestandosi in parte sui risultati di ricerche già largamente note agli addetti ai lavori per il posto che occupano nel panorama della storiografia sulla prima guerra mondiale (tra le altre I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra, Padova, Marsilio, 1967; Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte, Bari, Laterza, 1970; Giornali di trincea 1915-1918, Torino, Einaudi, 1977) e sul fascismo (Intellettuali militanti e intellettuali funzionari, Torino, Einaudi, 1979; L ’educazione dell’italiano, Bologna, Cappelli, 1979), questo nuovo saggio di Mario Isnenghi {Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Milano, Mondadori, 1989, pp. 381, lire 29.000) si segnala per l’originalità di alcuni approcci tematici e per il quadro di lettura complessiva che propone. L’impianto agile e discorsivo del volume (le note sono ridotte al minimo essenziale), sostenuto dallo stile vivace e brillante dell’autore, ne fanno evidentemente un’opera destinata ad un pubblico più vasto della cerchia ristretta degli specialisti. Peraltro, questa caratteristica generale si salda con l’affollamento di problemi e di riferimenti interpretativi che non consentono una lettura distratta e rendono il libro denso di richiami alla discussione storiografica.
Nella breve premessa, Isnenghi esplicita il significato del titolo e chiarisce gli obiettivi che sono alla base della ricerca: non si tratta di una storia tradizionale degli avvenimenti o di un’analisi ravvicinata delle strategie mi
litari, bensì di un tentativo di vedere “come le diverse guerre dell’Otto e del Novecento, dal Risorgimento alle due guerre mondiali, dalle guerre coloniali alla Resistenza e alla Repubblica Sociale sono state vissute, rappresentate, ricordate, raccontate” (p. 3). Dunque, una verifica dell’impatto che le guerre hanno determinato sulla mentalità collettiva e sui processi di formazione della coscienza nazionale. L’immagine dei conflitti militari che per un secolo hanno accompagnato la storia italiana costituisce così il filo unitario della riflessione di Isnenghi, che in questo excursus ha utilizzato una tipologia documentaria alquanto diversificata, sebbene raccolta attorno alla medesima finalità di rappresentare l’evento bellico. Gli otto capitoli con cui l’autore ha inteso ricoprire gli spazi di questo vasto immaginario collettivo affrontano il discorso di guerra, i proclami, detti e parole d’ordine, il canto, le immagini (pittura, fotografia, cinema, ecc.), la stampa, la letteratura, la memorialistica, l’arredo urbano. Una pluralità di voci scelte per decodificare, tramite una selezione condotta per campioni rappresentativi, lo spaccato di una “storia mentale” rivisitata in una prospettiva duplice: da un lato “la guerra al presente, cioè quale è proposta, rappresentata, vissuta dai contemporanei”, dall’altro “la guerra al passato, cioè le trasformazioni che la distanza temporale e il mutare delle circostanze e dei criteri fanno subire all’immagine, pubblica e privata, di ogni guerra” (p. 117).
Italia contemporanea”, settembre 1990, n. 180
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In realtà, è proprio l’immagine a distanza, artefatta a scopo mitopoietico, quella che si dipana con maggiore insistenza nelle pagine del libro, poiché è prevalentemente sulle rielaborazioni e sugli ‘aggiustamenti psicologici’ operati a posteriori che si regge la diffusione propagandistica dell’ideologia nazionale.
Non è possibile naturalmente dar conto dettagliato in questa sede dell’ampio ventaglio di questioni affrontate nel volume, dei modi diversi cioè con i quali protagonisti e personaggi minori della storia politica e culturale della nazione hanno vissuto il momento della guerra o ne hanno tratteggiato la versione postuma: richiamare gli aspetti più innovativi può forse aiutare a fissare meglio le caratteristiche del libro. In particolare, i capitoli dedicati alle immagini e all’arredo urbano, unitamente alle pagine sui canti di guerra, contengono gli spunti di riflessione più stimolanti in un settore pressoché inesplorato dalla storiografia. In effetti, come emerge dalla ricostruzione complessiva, la definizione dell’immaginario bellico e la sua gestione da parte della classe politica dirigente hanno trovato in queste manifestazioni apparentemente marginali un veicolo di diffusione molto resistente nel tempo.
Il canto, ad esempio, ha occupato un posto tutt’altro che trascurabile nell’ordine delle emozioni collettive e dei comportamenti che da esse sono scaturiti: rispetto ad altre espressioni culturali studiate da Isnenghi, esso è indagato principalmente per l’impatto diretto che ha suscitato, seguito nell’evoluzione che à&W Addio del volontario (1848), dove predominano ancora i temi della “partecipazione attiva e motivata alla guerra e la separazione dal mondo e dagli affetti di prima” (p. 77), transita alla canzone d’autore d’inizio secolo, quando subentra una produzione in cui le sollecitazioni letterarie e patriottiche sono ormai sopravanzate dalle esigenze di mercato, e approda infine alle due guerre mondiali e al fascismo. La guerra di
Libia costituisce un tornante decisivo anche per la canzone, che riflette un passaggio ideologico di tono nazionalista (A Tripoli) e assiste all’introduzione di un genere nazional-popolare intriso di stereotipi ormai apertamente di destra sui quali il fascismo potrà innestare una visione esplicitamente gerarchica dei rapporti tra i popoli. Esaltando il contenuto unitario e nazionale delle canzoni del 1915-1918, il regime potrà far passare come tali anche quelle (’O surdato ’nnamu- rato, La leggenda del Piave) che in realtà rivelavano, ad una lettura meno superficiale, l’eco delle divisioni interne o sostavano sulla dimensione degli affetti familiari come pretesto per estraniarsi dalla vita di trincea. La leggenda del Piave è forse la prova più sintomatica di questa forzatura: prima di diventare canzone plebiscitaria, espressione dell’unione di Popolo e Nazione, Esercito e Stato, essa rifletteva all’origine una situazione ben più incerta, non priva di allusioni “scomode” e decisamente lontane dal concetto della guerra “collettivamente voluta e combattuta” (p. 98).
In effetti, l’intervento deformante della politica e dell’ideologia è un dato e insieme una chiave di lettura dai quali non è possibile prescindere. Quelle che vengono definite “immagini di guerra” non sfuggono a questa regola: la logica diacronica privilegiata dall’autore risponde al tentativo di “rispettare una progressione interna allo sviluppo delle varie tecniche della visione e alle proporzioni variabili della loro presenza rispetto ai singoli conflitti” (p. 118). In questo senso, ciascuna guerra ha avuto un osservatorio particolare che è mutato nel corso degli anni in relazione alla sua capacità di incidere sul piano della mobilitazione ideologica. Dalla pittura per l’epoca risorgimentale — “esiste un’Italia della tavolozza e del pennello che sa interreagire utilmente con l’Italia delle guerre di Indipendenza e delle avventure garibaldine” (p. 118) — per finire ai manifesti truci e inquietanti del fascismo di
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Salò, i diversi generi che hanno modellato l’immaginario bellico (cartoline, fotografie, cinema, riviste illustrate) sono seguiti nelle tappe della loro interrelazione con il contesto politico e culturale. Quanto Isnenghi afferma a proposito della cartolina illustrata — “chi governa lo Stato e la Chiesa, l’Esercito e l’economia, impara presto a rispecchiare se stesso e a usare a proprio vantaggio questo nuovo mezzo di rappresentazione e comunicazione di massa. Si tratta di vedere e far vedere le cose in un modo a preferenza di un altro: una città, un santo, un personaggio, una guerra, l’Italia stessa” (p. 132) — può essere inteso in realtà come il principio ispiratore che, con intensità variabile, ha guidato una concezione secolare del modo di foggiare la coscienza nazionale. Infatti, la stessa preoccupazione di fondo è ravvisabile anche nella utilizzazione della fotografia, del cinema, della stampa, che delle guerre hanno sovente dovuto proporre un’immagine imposta, vincolata alla “necessità” di esaltare di volta in volta l’aspetto eroico o evasivo, il mito o la retorica, quasi mai la cruda normalità dell’evento. Un film quale Maciste Alpino, del 1916, non è altro che “il diretto equivalente filmico del micromondo evasivo che pullula nelle cartoline del filone popolare e grottesco o, poco più tardi, di quel giornalismo popolare che risolve la guerra con l’Austria e la Germania in una serie di fatti personali, di batoste giocose e di sonore legnate, di iperboliche rivisitazioni di un atemporale teatro dei pupi” (p. 144). Ma le occasioni di raccordo tra le diverse componenti esaminate nel libro sono molteplici, ed è da questo sforzo di comparazione e di lettura intrecciata cui è invitato il lettore che emerge il quadro globale dell’immagine di guerra, quale poi si é radicata nel tessuto mentale e culturale della nazione: tra alcuni film fascisti (Camicia nera, Vecchia guardia) e i discorsi di guerra di Mussolini si può riconoscere una convergenza sostanziale laddove prevale il rifiuto di “colti
vare la memoria delle divisioni” (p. 148), per puntare invece sul concetto dell’unità nazionale e dell’armonia sociale, annacquando così la contrapposizione politico-ideologica delle origini. Se Garibaldi e D’Annunzio nella loro guerra ‘parlata’ avevano prospettato all’Italia mete di grandezza rimanendo ancorati alla loro specifica collocazione di parte, Mussolini invece, per la diversa natura del suo ruolo, abbandona la parte del capo-fazione e spinge la direzione dei suoi discorsi di guerra nel senso di una identificazione con la volontà nazionale.
Le linee di continuità che Isnenghi evidenzia nel modo tutto ‘italiano’ di porsi di fronte alla guerra, la persistenza nei decenni degli stilemi legati alla romanità, alla missione, al peso della retorica e del populismo nazionale, non cancellano le differenze, gli spostamenti interpretativi provocati dai singoli conflitti. Nell’ambito delle immagini di guerra, ad esempio, 1’ ‘asse visivo’ della memoria nazionale conosce tra Otto e Novecento un riassestamento che è insieme politico e culturale; mentre, infatti, durante il Risorgimento “la visione popolare contemporanea era stata di frequente garibaldina, se non addirittura repubblicana” (p. 134), mezzo secolo più avanti l’accento subisce una marcata deviazione in senso legalitario e monarchico. Allo stesso modo, nel sottolineare alcuni casi particolari, viene confermata la ‘diversità’ della seconda guerra mondiale: con i disastri militari che sgretolano le fondamenta del regime, diviene pressoché impossibile, al di là del rivestimento propagandistico sempre meno credibile, alimentare un immaginario bellico imperniato, come in precedenza, su miti e simboli politici. Neppure sul terreno ‘spontaneo’ della canzone riesce ad emergere un brano capace di calamitare la memoria o di riassumere il significato di un’esperienza sociale collettiva. Il capitolo dedicato all’arredo urbano attesta tangibilmente l’esaurimento di quello che George L. Mosse ha definito il “Mito dell’Espe
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rienza della Guerra” (cfr. Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma- Bari, Laterza, 1990), esaurimento al quale il declino dell’idea nazionalista ha inferto un colpo determinante. Alle due “ondate monumentali” scaturite dal processo risorgimentale e dalla grande guerra, il secondo conflitto mondiale non ha fatto seguire un contributo altrettanto massiccio. La sconfitta militare, l’impossibilità di una celebrazione comune e di una “rappresentazione interprete del volto del paese” (p. 350), hanno annegato la memoria pubblica in un “reticente e fuggevole omaggio cumulativo” (p. 351), mentre la stessa sublimazione della lotta partigiana, l’unica in grado di dare contorni monumentali al ricordo storico, ha risentito dell’assenza del “supporto istituzionale” e di “tutte le forme di legittimazione e di appoggio ufficiali di cui il suo precedente aveva potuto godere” (p. 352). Rimane il fatto che fino ad allora il “racconto pubblico cittadino”, nel quale tutto confluiva a parlare di guerra e dei personaggi legati alle vicende militari della storia nazionale, è stato un elemento importante, anche se sotterraneo, dell’ “alfabetizzazione politica di massa” . L’operazione del “fare gli italiani” è passata giorno per giorno anche attraverso la definizione di un’immagine cittadina dove “la storia si fa arredo urbano e l’arredo urbano muta con il variare delle fasi storiche” (p. 321): piazze (quando ancora svolgevano una funzione sociale decisiva), vie, epigrafi, monumenti, musei della guerra e del Risorgimento, diventano teatro di educazione politica e di dialettica culturale, costituiscono l’esempio visivo che l’unificazione nazionale
si salda con questa tendenza all’ “unificazione toponomastica” (p. 327). L’elemento epico e guerresco, in tale cornice, è stato sempre parte integrante, dal mito del Risorgimento degli anni postunitari costruito sulla rassicurante diarchia Garibaldi-Vittorio Emanuele II, al culto dei caduti del 1915- 1918, per approdare all’esasperazione bellicista dell’ideologia fascista, quando l’etica ‘doveristica’ e la statolatria portate all’eccesso impongono l’egemonia su tutti i riti della coscienza nazionale. Questo spiega il radicamento dell’esperienza di guerra nella memoria di tante generazioni di italiani, l’impatto dirompente che i conflitti hanno avuto “nel coinvolgere — volente o nolente — l’individuo nel collettivo, la microstoria privata nella storia dei grandi gruppi sociali, dei popoli e degli Stati” (p. 4). Non si può non concordare, dunque, sul fatto che lo scavo in questa direzione sia da ritenere tra i più persuasivi per integrare la conoscenza della storia nazionale e per estendere il campo delle fonti solitamente utilizzate dagli storici. Il volume di Isnenghi, oltre a proporre una prima lettura globale, offre una griglia di suggerimenti tematici che meritano di essere raccolti in sede di sviluppo monografico del lavoro di ricerca. La dinamica connessa ai fenomeni di autorappresentazione nazionale, come il saggio di Isnenghi dimostra, ha avuto un’importanza notevole nella vita politica e culturale, e questa consapevolezza può indurre la storiografia ad incentivare la discussione e lo studio intorno ad un filone di ricerca in gran parte ancora da approfondire.
Massimo Baioni
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Industria e polìtica a Firenze nell’Ottocentodi Domenico Preti
Il volume di Roberto Melchionda, Firenze industriale nei suoi incerti albori (Firenze, Le Monnier, 1988, pp. IX-452, lire 36.400), tratta deH’associazionismo imprenditoriale fiorentino nella seconda metà dell’Ottocento, e più in particolare delle vicende e dei personaggi legati alla nascita nel 1889, sul vecchio tronco della preesistente Associazione commerciale, dell’unico organismo privato destinato nella Firenze di allora a rappresentare gli interessi delle categorie economiche non agricole, e cioè l’Associazione industriale e commerciale.
Si tratta, per esplicita ammissione dell’autore, di una ricerca che, rivolta a comprendere le ragioni dell’associazionismo industriale e il contributo da esso dato allo sviluppo economico e sociale del paese, intende riscoprire e valorizzare un patrimonio ideale e culturale ritenuto assolutamente autonomo rispetto a quella ‘contaminazione’ storiografica che lo vorrebbe cronologicamente subordinato alla nascita dell’associazionismo operaio, in risposta ad esso. Un patrimonio al quale l’attuale organizzazione degli industriali fiorentini possa e debba, al fine, orgogliosamente ricollegarsi.
Inoltrandosi sulle vie maestre della sua ricerca così tracciate, l’autore palesa ben presto le sue simpatie per una visione storiografica che nella sostanza si rifà alla ben nota condanna del trasformismo (inteso come corruzione clientelare, come indebita manipolazione politica o sindacale dello sviluppo economico deviato dalle leggi naturali dell’economia) operata da Pareto e dalla italica scuola liberista. Muovendo da questa forte caratterizzazione ideologica, non stupisce che la ricostruzione dello scenario storico entro cui egli colloca lo sviluppo della protoindustria fiorentina finisca per assomigliare ad un Eden a cui avrebbe messo fine quel
la sorta di peccato originale legato al manifestarsi, verso la fine del secolo, del “ferrigno concetto di lotta di classe”.
Il rimpianto per il bel tempo andato si accompagna così ad una esplicita rivalutazione storica del pensiero e dell’azione dei moderati toscani che arriva persino a prendere sul serio l’ideologia scopertamente padronale della “societas” mezzadrile e a guardare con simpatia, sottolineandone l’originalità, alla proposta avanzata dal Lambruschini nel 1871 di dar vita, in Toscana, anche alla “mezzadria industriale” . Cosa di meglio per i gruppi dominanti locali di una realtà nella quale “Non vi era ‘lotta’ di principio tra portatori e datori di lavoro, e le controversie e gli scontri, non frequenti e per lo più non violenti, raramente richiedevano mediazioni esterne all’azienda” (p. 21) e gli operai si “accontentavano” di salari di fame perché — diciamolo — la vita contadina era incomparabilmente più dura e non c’era molto da scegliere. Cosa di meglio di una società nella quale l’egemonia moderata si dimostrava così potente e pervasiva da spingere alcuni suoi autorevoli esponenti ad incoraggiare e promuovere direttamente l’associazionismo operaio. Come è il caso del principe Tommaso Corsini che sarà il fondatore e a lungo il presidente della Società di mutuo soccorso tra gli operai di Firenze, o di Antonio Civel- li, il più importante industriale grafico della Toscana, già acclamato nel 1889 presidente del locale Circolo dei tipografi, che conosceremo come il più deciso fautore della nascita, voluta dagli industriali e avvenuta nel 1893, della locale Camera del lavoro.
La difesa dello status quo e l’indiscussa egemonia politica e culturale che si esprìme in questa politica paternalistica che, al pari del filantropismo caritativo su base rigorosamente privatistica così tipico del modo nel
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quale i moderati si ponevano di fronte alla cosiddetta questione sociale, appare chiaramente rivolta all’integrazione, in chiave subalterna agli interessi dominanti, del nascente movimento operaio, assurgono qui al ruolo di pensiero progressivo che animerebbe il mutualismo di ispirazione mazziniana, di cui l’autore rivendica quella autonomia storica suscettibile di “un originale sviluppo”, che la storiografia del movimento operaio ha il torto di avergli negato. Del resto di che pasta fossero fatti questi industriali progressisti lo si vedrà nel primo dopoguerra quando i loro veri interessi saranno messi in discussione. Allora, come si ricorda in un significativo inciso sin troppo fuggevole a proposito della parabola del già citato Crivelli, il suo passato — come scrisse un agiografo — di “liberale nel vero senso democratico della parola” , “non gli impedirà, secondo un itinerario tipico di industrialisti e progressisti risorgimentali, di dare da senatore il suo sostegno al fascismo” , (pp. 29-30).
Quest’ultima considerazione offre l’opportunità per affrontare quello che secondo noi va considerato il principale nodo irrisolto di questo lavoro, e cioè la questione della natura dell’industrialismo toscano e il suo rapporto con l’imperante modello mezzadrile. Perché se può essere vero che l’Associazione industriale rappresenterà “una faccia meno elitaria [...] più largamente rappresentativa della imprenditorialità locale” (p. 11) è pur vero che quando non si tratta dei vecchi nomi dell’aristocrazia fiorentina come i Ginori Lisci, i Cambray-Digny, i Niccolini, siamo in presenza di imprenditori territoria- lizzati (“quale benestante non possedeva allora un pezzo di terra?” (p. 15), commenta non a caso l’autore al loro riguardo) che siano essi i Pegna, fondatori dell’industria chimica locale, i Civelli già ricordati, l’industriale della paglia Cesare Conti, e tanti altri, i quali non saranno mai dei giacobini antiaristocratici ma rimarranno fortemente ancorati ai valori della società rurale e mezza
drile toscana e ai primati storico culturali di Firenze, tutt’altro che disposti a sacrificarli sull’altare dello sviluppo industriale. Cosa meglio riassume questa spuria natura dell’imprenditore toscano di quell’atteggiamento, segnalato dall’autore, che lo vedrà tentare “di conciliare l’industrialismo con il liberismo” (p. 184). E cosa meglio delle improvvise simpatie industrialiste di un personaggio come Ubaldino Peruzzi, vero simbolo della quintessenza del moderatismo, serve a comprendere un’opzione tattica che, al di là dei discorsi e delle dichiarazioni pubbliche, rientra nella sostanza in quella ben nota politica conservatrice del “cambiar tutto per non cambiare niente” , attaccata com’era ai miti del passato e ad una linea di sviluppo della realtà territoriale fiorentina legata al primato artistico e culturale della Firenze “Atene d’Italia” , il cui auspicato sviluppo terziarizzato ed artigianale si pone però in netto contrasto con le esigenze della crescita industriale, minandone le basi, tra l’altro, anche sul terreno della cultura scientifica e della organizzazione degli studi tecnicoscientifici che, a Firenze, non furono allora e sono rimasti a tutt’oggi, e forse non a caso, assolutamente carenti.
A ben guardare appare poi quantomai emblematico che la “svolta industrialista” del 1889 veda a capo della neonata Associazione industriale proprio uno dei maggiori rappresentanti dell’antica aristocrazia fiorentina, quell’ “eclettico” marchese Carlo Ginori Lisci, erede della ben nota manifattura di porcellane di Doccia che di lì a poco, nel 1896, quando le nuove condizioni del mercato imporranno un forte impegno per una riconversione produttiva all’azienda, cederà — con evidente delusione del nostro autore — la fabbrica proprio dell’antagonista del Nord, la Ceramica Richard, contro cui il padre Lorenzo aveva combattuto per anni in difesa del primato qualitativo dei suoi prodotti. Un episodio che al di là del caso specifico si pone, pur nel contesto dello
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sviluppo industriale del periodo giolittiano, come un segnale non trascurabile di quella progressiva perdita di peso e di quel minor controllo dei toscani e fiorentini sugli investimenti industriali e finanziari regionali che, avviatosi verso la fine del secolo, si consumerà tra i fasti del ruralismo fascista.
Illustrando i meriti di una classe dirigente che, sebbene liberista, non si dimostrò poi — a parere del nostro autore — così chiusa rispetto al problema della industrializzazione se seppe, tra l’altro, partorire dal suo seno una associazione in qualche modo “eretica” , perché protezionista, ecc., si arriva ad alludere ad una continuità tra ieri ed oggi che risulta comunque tutt’altro che dimostrata. Quel “variegato reticolo di imprese” che alla vigilia del decollo industriale di fine secolo costituirà “la forza elementare dell’economia fiorentina” , appare in realtà — caratterizzato com’era in buona parte dai mille mestieri e attività artigiane preindustriali destinati ad essere spazzati via dallo sviluppo industriale — assai lontano dall’assomiglia- re e dal prefigurare il modello di sviluppo
fondato sulla piccola impresa che si affermerà in Toscana nel secondo dopoguerra; che farà perno — come è noto — su due presupposti allora inesistenti: sulla sconfitta e sullo sfaldamento del blocco sociale dominante, con la fine della mezzadria e la conse^ guente nascita di un significativo mercato di manodopera a basso costo e di modestissime pretese; sulla mutata domanda internazionale e la nuova collocazione del nostro paese nella divisione internazionale del lavoro. I successi del “modello toscano di sviluppo” che si è affermato negli anni cinquanta, lungi dal riconnettersi ai meriti della locale classe dirigente, come si potrebbe essere indotti a supporre leggendo questo volume, appaiono invece strettamente legati proprio alla sua liquidazione. Alla fine cioè di un dominio culturale e materiale che prima con il libero scambismo, poi con l’adesione al fascismo, aveva sempre cercato ostinatamente di fermare le lancette della storia e con esse l’insopprimibile moto di emancipazione delle masse popolari.
Domenico Preti
Il cappellano della culturadi Gianpasquale Santomassimo
L’appassionata ricerca di Luisa Mangoni su don Giuseppe De Luca, protagonista ‘sommerso’ e discosto della cultura italiana del Novecento {In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1989, pp. XIII-420, lire 55.000) non vuole essere una biografia; l’intento è quello “di ricostruire una vicenda fatta di intrecci culturali espliciti o sotterranei” , con una narrazione strettamente aderente alle fonti prescelte (articoli, carteggi e produzione dia-
ristica), e che rinuncia volutamente all’uso di testimonianze. È un libro dalla scrittura densa e dalla lettura non facile — anche perché la casa Einaudi è purtroppo fuoruscita da tempo dalla civiltà delle note a pié di pagina, semplicemente indispensabili per opere di questo tipo — e che non concede molto alle legittime esigenze informative e alle possibili curiosità del lettore meno specialistico (si dà per scontata, quantomeno, la conoscenza del Don Giuseppe De Luca tra cronaca e storia di Romana Guarnieri, esauriente
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per la parte biografica, e dei molti contributi apparsi in memoria del personaggio).
Le curiosità a cui alludevamo potrebbero riguardare soprattutto il ruolo ‘politico’ di De Luca, tanto sul versante dei rapporti con il fascismo (esemplificato dal carteggio con Bottai), quanto su quello di ‘consigliere’ ed amico di esponenti democristiani, o su quel ruolo di tramite tra cattolici-comunisti, partito comunista e gerarchia cattolica che gli era stato da taluni attribuito. Mangoni ridimensiona molto questi aspetti della vicenda di De Luca, o, quantomeno, sembra ritenerli secondari rispetto alla più autentica biografia intellettuale del personaggio, nella quale la ‘politica’ entrava in effetti come elemento molto mediato, e nettamente subordinato alla vita religiosa (di qui anche un tono di polemica aperta contro la “tarantola dell’attivismo” della Chiesa di Pio XI e una riluttanza a farsi coinvolgere pienamente, in seguito, nella crociata anticomunista della Chiesa di Pio XII: due pontefici, del resto, sostanzialmente disistimati, e più il secondo del primo, pur nell’obbedienza indiscussa).
La ricerca prende le mosse dai primi anni trenta, quando per la verità la formazione di De Luca si era già compiuta, in termini originali ormai non suscettibili di grandi svolte: “prete romano”, come con apparente civetteria ma con sostanziale verità si autodefiniva, De Luca si era nutrito di una rigorosa e severa cultura “inattuale”, che poneva al servizio “dell’intera tradizione della Chiesa di Roma, accogliendo le sollecitazioni del presente, ma respingendo l’idea stessa che esse potessero o dovessero intervenire nell’interpretazione e reinterpretazione di questa tradizione” (p. X).
Mangoni si muove con l’intento di ripercorrere, attraverso De Luca, “più di una stagione del cattolicesimo organizzato e istituzionale in Italia, ma anche dell’atteggiarsi di strati consistenti della cultura italiana nei confronti di esso” (p. XII); la stagione esplorata con maggiore scavo analitico è co
munque quella segnata dall’affermazione del regime fascista, che corrisponde ad una fase nuova della cultura cattolica, sebbene ancora nutrita dai fantasmi e dalle ossessioni del modernismo, nei confronti del quale De Luca mantenne sempre un atteggiamento di condanna sprezzante e a volte violenta, che forse nasceva, come ha notato Giovanni Miccoli (Ecclesia novantiqua, “L’Indice” , a. VI, novembre 1989, n. 9, pp. 5-6), dalla consapevolezza di un comune nodo irrisolto, “un’originaria condivisione di esigenze e problemi che andava in qualche modo riscattata e cancellata con la perentorietà della negazione e dell’insulto” .
Ma il problema fortemente sentito da De Luca, al contrario di gran parte degli studiosi della sua generazione, non era tanto quello di comprendere le trasformazioni della società negli ultimi due secoli, quanto di rievocare e valutare quel che l’umanità aveva perduto in termini di spiritualità e religiosità. Di qui, all’interno della cultura cattolica fra le due guerre, quella sua “originalità tanto più interessante quanto più s’affanna[va] in un onestamente ostentato [...] tradizionalismo o estremismo” (come notava Toffanin in una lettera del marzo 1931).
Di qui una rilettura dell’Ottocento, ininterrotta e a tratti quasi ossessiva, che era di segno decisamente opposto non solo a quella della grande cultura laica, ma anche del cattolicesimo liberale, che a partire dal detestato Manzoni aveva teso a un adattamento della Chiesa al proprio tempo, anziché perseguire il contrario, contaminando e monda- nizzando una spiritualità che avrebbe dovuto fondarsi su valori immutabili ed eterni. Una posizione, come si vede, che avrebbe potuto facilmente riecheggiare gli echi estremi della reazione cattolica alla “modernità” (e i grandi reazionari dell’Ottocento francese entravano in effetti a pieno titolo nella formazione più personale e autonoma di De Luca, con una rilettura originale), ma che fortunatamente virava verso un progetto
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culturale di smisurata ambizione e lungimiranza anziché verso una trincea di resistenza politica, grazie alla scelta dell’erudizione come terreno privilegiato e fondamentale di espressione e anche, sebbene possa apparire una contraddizione in termini, di interpretazione. La ‘restaurazione’ cattolica nella società europea — credo si debba usare questo termine, anziché ‘rinascita’, perché è l’unico appropriato — che De Luca riteneva necessaria andava condotta riscoprendo e, appunto, restaurando tutti i fenomeni e i valori religiosi accantonati, rimossi o negati da una tradizione ‘laica’ ormai divenuta autoglorificazione di se stessa: tanto nell’Umanesimo (di qui le consonanze con il già citato Toffanin), quanto, soprattutto, nell’Ottocento.
Qui andavano riscoperte le vene occultate di ‘pietas’ esplicita e, soprattutto, implicita, che potevano manifestarsi anche sul terreno dell’ ‘empietà’, che era la sua faccia speculare, “sentimento dell’assenza di Dio e non della sua sostituzione” . I protagonisti “maledetti” del secolo precedente parlavano al cuore del credente assai più che lo sterile cattolicesimo borghese pacificato col mondo, e i Nietzsche e i Tolstoj erano stati il vero contraltare di Voltaire, avevano corroso alle radici le impalcature del pensiero ottocentesco, si erano posti quale “punto di partenza di una cultura che dalla insopprimibi- lità dell’esperienza religiosa prendeva comunque le mosse” (p. 137).
Questa restauratici ad integrum della fede doveva fondarsi in primo luogo su un progetto culturale ad ampio raggio della Chiesa e del mondo cattolico, e per De Luca era proprio su questo terreno che la “rinascita cattolica” in atto mostrava la corda; essa sembrava “come fondarsi sul nulla, ignara del suo lungo passato, misconosciuto non solo dai laici ma anche dai cattolici stessi” (p. 30). De Luca nelle sue lettere e nei suoi appunti conduceva una analisi decisamente anticonformista del mondo cattolico, disso
nante rispetto all’immagine che in seguito i protagonisti di quella vicenda hanno elaborato e consegnato alla storiografia. Notava la povertà di uomini capaci di un’articolata iniziativa culturale rispetto alla sovrabbondanza di spirito organizzativo propria del mondo cattolico nel periodo a cavallo del Concordato: il gruppo milanese di Gemelli, legato a una “cultura di fine secolo”, segnata dalla lotta al positivismo e al socialismo, e che con la scelta del medievalismo ad oltranza si precludeva la possibilità di rintracciare la ‘pietas’ dei secoli ‘annessi’ dalla cultura laica; i giovani fiorentini del “Frontespizio” (particolarmente vicini a De Luca nei primi anni trenta), raccolti attorno ai più anziani Papini e Giuliotti, le imprese editoriali bresciane collegate alla Morcelliana, divise tra gli influssi di De Luca e di Montini, e poi i giovani fucini che crescevano sotto la tutela di Montini e Righetti.
Come nota l’autrice, era “di per sé significativo, [...] che i due centri più attivi, Milano e Firenze, avessero come animatori dei convertiti, formatisi culturalmente al di fuori del mondo cattolico: la campagna antimodernista aveva prodotto guasti irreparabili fra gli intellettuali, coloro che il modernismo aveva maggiormente animato e coinvolto” (p. 6); di qui il delinearsi di quella che a De Luca pareva una “generazione di stranieri” , per l’eccessiva sudditanza della cultura cattolica italiana a modelli esterni, soprattutto francesi (p. 155). Era invece il momento adatto (e irripetibile) per la creazione di una cultura autonoma, grazie all’occasione offerta ai cattolici dalla fine della questione romana e dal consolidarsi del regime fascista. Si poneva finalmente fine alla scissione fra tradizione cattolica e tradizione italiana, e, soprattutto, si modificava fino a venir meno quella “atmosfera laica” che aveva dominato nel secolo precedente.
De Luca non nascondeva di essere nettamente contrario alle ideologie democratiche, e aggiungeva, in una lettera a Papini del 13
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gennaio 1931: “se potessi e dovessi pencolare da una parte, sarebbe certo verso alcune concezioni mussoliniane di politica sia interna che estera” (p. 67); ma dopo il Concordato non era più necessario prendere posizione, perché i problemi di collocazione della Chiesa erano risolti, e non c’era alcun bisogno di un intervento direttamente politico o partitico. Malgrado questo assunto, nel corso degli anni trenta (ma anche oltre, fino ai primi anni della guerra), si accentuava il filomussolinismo di De Luca, con il contorno sgradevole di volgarità nei confronti degli ex-popolari (“E mai come in questi giorni sento la fierezza di essere italiano: mentre tutti codesti sgóccioli politici del pipì ancora non vedono”). Era “dovere strettissimo” dei cattolici coadiuvare l’opera di Mussolini, che era riuscito a portare “un popolo di lattughe” ai fasti di “uno splendore perduto” (De Luca a Minelli, 17 marzo 1933): “Siamo forse a un momento in cui il pensiero e l’arte dei cattolici possono avere una miracolosa efficacia in Italia, perché Mussolini è orientato verso di noi. Sapesse quant’io prego per Mussolini” (De Luca a Papini, 15 maggio 1933). Anche il suo sentimento antiborghese si inaspriva progressivamente, con una innegabile coincidenza, stranamente non sottolineata da Mangoni, con la “campagna antiborghese” del fascismo.
Poco si dice del rapporto con Bottai negli anni della seconda guerra mondiale, già noto attraverso anticipazioni di Renzo De Felice e precedenti studi della stessa Mangoni (ma vedi ora il Carteggio 1940-1957, di Giuseppe Bottai e don Giuseppe De Luca, a cura di Renzo De Felice e Renato Moro, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1990, pp. 330, lire 70.000).
Più nuova, anche se meno rilevante nella biografia di De Luca, la puntualizzazione relativa al suo rapporto con Croce, nutrito di ammirazione intellettuale e di diffidenza teorica (“l’ultimo Croce dei frammenti di etica mi piace un mondo, e mi giova — pare
incredibile — come a cristiano e a prete. Gentile, no — scriveva a Papini il 17 marzo 1931 —. [...] Solo, non vedo perché lei lo continui a credere un nemico pericoloso. Mi pare altrimenti pericoloso Croce. [...] Cristo, per lui, non par che esista e sia mai esistito! Questo è pauroso. Discepoli di Gentile, son tornati; di Croce, non so”).
Croce restava comunque un termine di riferimento imprescindibile, in positivo e in negativo; e in De Luca, come in Gramsci, maturava non a caso negli anni trenta l’ambizione di dar vita a un Anti-Croce, non come opera autonoma, ma come progetto complessivo sul terreno dell’organizzazione della cultura e della ricerca storica (il “Giudizio” avrebbe dovuto essere nei sogni di De Luca il corrispettivo cattolico della “Critica” crociana, impresa poi realizzata in realtà attraverso la propria attività editoriale, che Mangoni definisce felicemente “casa editrice come rivista”).
Giungiamo così alla parte più duratura e non effimera della vicenda culturale di don De Luca, quella segnata dalla fondazione e dallo sviluppo delle Edizioni di storia e letteratura e dal varo della grande impresa dell’ “Archivio italiano per la storia della pietà”: la prima una casa editrice coraggiosa, rigorosa e disinteressata, che pubblicò le voci più affermate dell’alta cultura europea e offrì a giovani studiosi un’occasione altrimenti impensabile di pubblicare al di fuori delle logiche di mercato; la seconda l’impresa intellettuale di tutta una vita, verso la quale convergevano da sempre i cento rivoli della dissipazione culturale del prete lucano. Non so dire se vi sia un’enfasi eccessiva nel definirla, come fa Mangoni, “un’altra storia d’Europa” , ma indubbiamente essa era storia altra rispetto a quella della cultura ufficiale di ascendenza idealistica o tardopositi- vistica, storia che recuperava campi e ambiti di storia ‘popolare’ preclusi alla ricerca e alla sensibilità del recente passato storiografi- co. Ed era, insieme,- significativo e parados
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sale che in questa impresa De Luca registrasse consensi e collaborazioni di studiosi ‘laici’ (per tutti il nome di Carlo Dionisotti, del quale è anche opportuno rileggere il profilo di De Luca pubblicato nel 1973 presso le stesse Edizioni di storia e letteratura che lo avevano visto tra i primi collaboratori) accanto alla freddezza se non al fastidio della Chiesa di Pio XII, che guardava a lui quasi come a un disertore dalla “battaglia del giorno”, ossia la lotta al comuniSmo ateo. Anche De Luca per la verità partecipava, sia pure in posizione defilata, a questa battaglia (e in seguito si opponeva alla “svolta a sinistra” della Democrazia cristiana di Aldo Moro), ma riusciva a cogliere, su un terreno religioso, implicazioni precluse alla sensibilità ‘politica’ della gerarchia: “Il comuniSmo è più che un partito, è una religione. Una religione, non la si combatte né con l’irreligione né con la violenza, così anzi la si fa riardere più potentemente. Ma il comuniSmo è anche un partito e una politica, che non si spaventa né delle prove né della violenza. Bisogna scindere tra i due elementi: la forza religiosa dell’idea, la forza politica di chi questa idea ha monopolizzato. Questa bisognerebbe isolare e abbattere, nell’interesse stesso delle idee eccellenti, anzi ammirabili, che bisogna riconoscere nella predicazione comunista [...] Il comuniSmo ha imposto al mondo una politica, non più locale, ma mondiale. Le borghesie nazionali, irreligiose, corrotte, lussuriose e crudeli, si ritrovano all’improvviso a fronte della concezione severa, anzi tragica della vita umana” (da un appunto del 21 aprile 1947 per il cardinale Brennan).
“Religiosità” senza religione quella dei
comunisti, “religione” esteriore senza alcuna religiosità autentica quella delVestabli- shment borghese-cattolico dominante in Italia: era questo uno degli spunti che emergevano nella riflessione di De Luca nel corso degli anni cinquanta.
Con Giovanni XXIII le cose cambiavano, e giungevano anche i primi, sospiratissimi, riconoscimenti ufficiali per l’operato di De Luca. Benché la scomparsa prematura del personaggio (assistito dallo stesso pontefice) impedisca ovviamente di trarre dalle sue carte un bilancio compiuto e sereno di quel pontificato, Mangoni utilizza con grande acutezza gli spunti interpretativi, di innegabile suggestione, presenti su quella svolta della Chiesa, che De Luca delineava in coerenza con i propri antichi desideri ma, per la verità, senza grandi forzature, come l’auspicata “restaurazione” della Chiesa.
Restaurazione significava abbandono del terreno dell’agitazione e della competizione direttamente politica, della contaminazione con gli interessi dominanti, riscoperta e riappropriazione della dimensione integralmente religiosa che, nell’ottica di De Luca, era anche l’unica che consentisse una libera partecipazione politica del cattolico (al singolare): compito che la personalità del pontefice, uomo della Chiesa di un tempo lontano, era la più indicata a promuovere. Era una lettura del pontificato giovanneo ancora una volta, per linguaggio e mentalità, dissonante rispetto alle idee correnti della cultura ‘laica’ dell’epoca, ma che a distanza di trent’anni appare molto più vicina al vero di tante interpretazioni dei contemporanei.
Gianpasquale Santomassimo
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Bismarck e il suo banchieredi Giampaolo Pisu
Nel saggio L ’ascesa della Germania a grande potenza, Milano, Ricciardi, 1971, Helmut Bohme annunciava in una nota l’imminente pubblicazione di uno studio sul più ricco uomo di Berlino e forse della Germania della seconda metà dell’Ottocento, il banchiere ebreo Gerson Bleichroder, proprietario della più grande banca privata tedesca.
In realtà, a seguito del ritrovamento dell’Archivio Bleichroder a New York, il compito di scrivere la storia della Banca Bleichroder e delle vicende politico-sociali, interne e internazionali, della Germania bi- smarckiana, venne assunto, per il primo aspetto, da Davide Landes e per il secondo da Fritz Stern, la cui opera viene ora pubblicata in Italia da Mondadori nell’agile e scorrevole traduzione di Giuseppina Panzieri Saija e Davide Panzeri (L ’oro del Reich. Bismarck e i suoi banchieri, Milano, Monda- dori, 1989, pp. 761, lire 47.000). Come è noto, alle intraprese della Banca Bleichroder, Landes ha dedicato solo alcuni finissimi saggi, ma non ci ha ancora dato, per quanto è a conoscenza di chi scrive, la storia completa di essa. Nella nostra lingua, della ricerca di Landes, si è letto tempo fa un saggio su / Bleichroder e i Rotschild: il problema della continuità nell’azienda famigliare (in Aa.Vv., Studi sulla famiglia e l’impresa, Torino, Einaudi) nel quale lo storico americano, tracciando un ritratto in parallelo delle due dinastie, i Bleichroder e i Rotschild, additava nei secondi un esempio inimitabile di coesione e di continuità negli affari e nei rapporti sociali, un vivo senso della famiglia e una orgogliosa superiorità nei confronti del potere, e nei primi l’esempio opposto.
Landes condannava severamente il comportamento dei Bleichroder per il progressivo smarrimento del senso della propria origine e della propria identità: la ricchezza te
nacemente accumulata e considerata come valore supremo di accesso ai ranghi sociali più alti e come motivo di riconoscimento della propria personalità, aveva fatto perdere ai Bleichroder la consapevolezza della appartenenza alla propria razza e ad una comunità diversa da quella dei gentili.
Con gli studi di Landes e ora con questo affascinante e appassionato saggio di Stern, la figura umana di Gerson Bleichroder riacquista tutta la sua dimensione di protagonista nelle vicende economico-sociali, culturali e politiche, interne e internazionali, della società tedesca dell’Ottocento, uscendo finalmente da un oblio nel quale preconcetti razziali e atteggiamenti storiografici poco inclini a scrutare l’operare quotidiano degli individui l’avevano relegata. E il primo a tentare questa operazione di occultamento dei rapporti di Gerson Bleichroder con le personalità più eminenti dell’aristocrazia tedesca, è stato proprio colui che per trent’anni mantenne un quotidiano e continuo dialogo con il banchiere Bleichroder, cioè Bismarck.
Il saggio di Stern è infatti la ricostruzione minuziosa e puntuale di questo rapporto, le cui parti, provenienti da realtà e ambienti diversi, quasi si completano e armonizzano in una leale collaborazione di scambi reciproci, di favori, di interessi, legati al mondo della finanza, del potere, della politica interna e internazionale. Si tratta però di un rapporto voluto e vissuto da ottiche e prospettive diverse, e per di più situato in un contesto socio-culturale profondamente intriso di atteggiamenti e fermenti culturali antisemiti, che, ad ogni momento, sembrano metterne in discussione l’esistenza. Se Bismarck lo valuta dall’ottica della fredda politica e della brutale necessità dei servizi che una grande banca può rendere al potere statale e suo personale, Bleichroder assapora e vive la
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quotidiana frequentazione dell’uomo più potente della Germania con l’animo teso al riconoscimento e alla completa assimilazione di sé nel mondo dei gentili.
Il banchiere Bleichròder, nell’arco di una vita durata più di ottant’anni, vive fino all’estremo questa “angoscia dell’assimilazione”, mai completamente realizzatasi nella gerarchica società tedesca. Penetrando con sottile e palpabile analisi nella psicologia tormentata e irrequieta di Bleichròder, Stern conduce il lettore a scrutare e a toccare con mano l’operare dei due uomini in una società profondamente cambiata dall’introduzione di forme avanzate di strutture capitalistiche e nello stesso tempo ancora tenacemente attaccata a forme preindustriali di rapporti produttivi e a valori etico-sociali di stampo medioevale. Ed è proprio a questi aspetti ormai divenuti anacronistici ma fortemente coltivati dalla società tedesca che si rivolge, per ottenere il riconoscimento di sé, la complessa personalità di Bleichròder, quant’altre mai dotata di rara predisposizione naturale a far propria la raffinata tecnica delle operazioni finanziarie e a padroneggiare i mille rivoli dell’andamento dei prestiti bancari, come ben sapeva Marx. Mentre, per altro verso, la mentalità aristocratica e conservatrice di Bismarck si viene nutrendo e orientando verso il mondo del denaro e della moderna società industriale della quale il banchiere ebreo gli svela meccanismi e principi di funzionamento. Sicché in questo incontro di potere e finanza, di nobiltà e borghesia, di mondo agrario e mondo industriale, il consigliere finanziario di Bismarck facilita efficacemente, come scrive Stern, la sopravvivenza di un ordine sociale precapitalistico. Ma, anche qui, con una diversa ottica prospettica da parte di Bleichròder e Bismark: se quel mondo intriso di valori etico-sociali sorpassati e pervaso da profonde trasformazioni in senso capitalistico, specie nel settore delle imprese e della organizzazione bancaria, accoglieva e fa
ceva convivere insieme ideali e forme organizzative del passato in quanto le riconosceva come risultato naturale di trasformazioni avvenute al suo interno, non per questo era disposto ad accogliere e a riconoscere come risultato di un analogo naturale processo di assimilazione chi, pur avendo contribuito a formarlo e a determinarlo, considerava per tanti versi estraneo a quell’ethos e a quella comunità.
La non ammissibilità alla comunità dei gentili, pur tra tante onorificenze che essa gli conferisce per i suoi servizi decisivi in momenti di particolare crisi delle vicende e degli affari della politica tedesca e di quella di Bismarck in primo luogo, costituisce un dato inesplicabile e incomprensibile per Ger- son Bleichròder, ma il suo rifiuto di valutare razionalmente l’atteggiamento chiuso ed esclusivista della società tedesca comporterà momenti drammatici e irrisolte tensioni nella sua determinata e sofferta aspirazione a far parte di quella comunità.
Quel rapporto e quella frequentazione tra Bleichròder e Bismarck alla fine rivelano non solo la fragilità e la diversità delle rispettive motivazioni ma sono anche la spia di un sistema, di un mondo e di una società meno ordinati e più instabili di quanto si creda. In questo ampio e vasto mondo europeo e mondiale, Stern ripercorre l’azione finanziaria di Bleichròder, e la sua fama e figura di banchiere internazionale ne risaltano in tutta la loro importanza e nettezza. Non mancando di sottolineare, infatti, le operazioni a cui prese parte, dalla raccolta di fondi per la sistemazione dell’indennità di guerra dovuta dalla Francia alla Prussia, agli investimenti in Russia, in Turchia, in Egitto, in Italia e soprattutto in Romania e di indicare i settori di intervento, e dedicando in particolare pagine di squisita sensibilità alla condizione degli ebrei in Germania, alla cultura antisemitica e al crescere, rafforzarsi, organizzarsi di forze decisamente orientate a condurre a fondo la lotta agli ebrei.
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Nel quadro di queste vicende, la personalità di Bleichròder, pur avendo costituito in vari momenti un punto di riferimento per l’assistenza e l’aiuto dati agli ebrei perseguitati, si avvia ancora di più a smarrire la propria consapevolezza di appartenenza ad un altro mondo e a perdere quasi compieta- mente la capacità di cogliere le condizioni storiche della sua vita. Sicché l’ambivalenza e l’insicurezza che avevano caratterizzato 1’esistenza operosa di Bleichròder nella società tedesca sono ancor più rese opache e
tristi dalla polemica libellista antisemita, sino al punto da apparire ormai espressione concreta di “cittadini senza patria” . Così la sua fine, non segnata dall’accettazione nel mondo dei gentili, e quella della sua azienda, avviata a inarrestabile decadenza per dissipazione e indolenza dei suoi eredi, ricchi ma privi di considerazione di sé, preannunciavano una tragedia destinata a ripetersi in forme più alte e drammatiche in un tempo a noi più vicino.
Giampaolo Pisu
Diario di un collaborazionistadi Guido Valabrega
La recente pubblicazione di Adam Czernia- ków, Diario (1939-1942). Il dramma del ghetto di Varsavia (Roma, Città Nuova, 1989, pp. 385, lire 28.000), mette a disposizione il testo degli appunti che Adam Czer- niaków, preposto dalle forze di occupazione germanica a capo del Consiglio ebraico (Ju- denrat) di Varsavia, scrisse tra il settembre 1939, allorché fu designato per quella tragica incombenza, ed il 23 luglio 1942, giorno in cui si suicidò dopo aver ricevuto l’ordine di preparare per il campo di sterminio i primi novemila delle centinaia di migliaia di ebrei rinchiusi nel ghetto della capitale polacca.
Per quanto scritte in maniera allusiva e sintetica, si tratta di annotazioni di grande interesse storico giacché recano una testimonianza diretta dal vertice di quell’ammini- strazione-fantoccio e delineano i problemi gravissimi, insolubili di fronte ai quali quotidianamente si trovava, i criteri burocratici ai quali pure faceva riferimento, i rapporti tra le autorità tedesche (i padroni) ed i servi strumentalmente sfruttati come una sorta di
paravento, di interposta persona rispetto alla massa di infelici concentrata nel quartiere ebraico. Sono altresì recate notizie ed indicazioni su molti esponenti dello stesso Ju- denrat e, in genere, su numerosi maggiorenti israeliti.
Su questi punti, quale importante integrazione della biografia e della carriera dello stesso Czerniaków (ed a conferma d’una continuità nel gruppo dirigente ebraico e della non casualità della successiva scelta del capo del Judenrat) è da ricordare subito come nel momento dello sfascio dell’amministrazione pubblica a Varsavia, a metà del settembre 1939, e dopo la fuga dalla città di molti esponenti israeliti, si costituì un Comitato ebraico di emergenza, di cui il Czerniaków era autorevole componente. Tanto è vero che il sindaco della capitale polacca lo nominerà presidente della Comunità: è in tale veste che il 4 ottobre venne fermato dagli occupanti tedeschi ed incaricato di scegliere 24 persone per un nuovo Consiglio della Comunità (cfr. pp. 34-39).
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L’elemento di maggiore importanza di questa pubblicazione, dunque, non concerne, a nostro avviso, i dati sulla persecuzione degli ebrei varsaviesi e di altri centri polacchi colà rinchiusi: di essa infatti moltissimo si sa grazie a svariate fonti, documentazioni e testimonianze. In proposito sia consentito ricordare almeno gli archivi clandestini del ghetto organizzati dallo storico Emmanuel Ringelblum e reperiti dopo la guerra: del Ringelblum, anch’egli vittima dello sterminio, fu pubblicata una raccolta di osservazioni storico-biografiche che resta probabilmente la più seria ed illuminante deposizione su quegli anni di martirio: si veda la recensione di Notes from the Warsaw Ghetto (“Il Movimento di Liberazione in Italia”, luglio-settembre 1959, n. 56), un libro che venne stampato in Italia da Mondadori nel 1962 con il titolo Sepolti a Varsavia.
Piuttosto, anche secondo l’accentuazione contenuta nella nota all’edizione italiana del volume di Ringelblum, il contributo di maggiore rilievo questo Diario lo reca alla discussione ingrata e pur necessaria e da molti anni in corso circa il senso dell’apporto delle istituzioni amministrative ebraiche impiantate dai nazisti al controllo, allo sfruttamento ed all’eliminazione fisica degli amministrati. Sorti dunque per permettere la gestione più ordinata e metodica d’un processo di depauperamento disumano e feroce, gli Ju- denrat e la problematica ad essi connessa inducono ad approfondire un capitolo significativo del collaborazionismo ebraico: in che cosa consistette, se le responsabilità furono univoche o meno, se vi erano eventualmente alternative e quali.
S’accennava ad un dibattito. Proprio per meglio inquadrare il contributo conoscitivo recato dai diari di Czerniaków giova ricordare che tale confronto d’idee ha due risvolti fondamentali: per un verso è essenzialmente storico-scientifico, per un altro è politico e si riferisce alle conseguenze ideologiche e concrete che possono derivare dalla
constatazione del cedimento durante la seconda guerra mondiale di larga parte dei dirigenti israeliti o quanto meno della loro incapacità a valutare l’evolversi delle situazioni pur trovandosi a disporre di dati ed informazioni di prima mano. È comunque noto che specie dopo il 1967 in Israele v’è una tendenza diffusa a ridimensionare le responsabilità dei capi ebrei durante la persecuzione in Europa con la trasparente finalità d’evitare il radicalizzarsi d’una critica che potrebbe puntare ad un ripensamento della politica dei responsabili del movimento sionistico di ieri e di settori dei ceti dirigenti israeliani di oggi: si veda in proposito l’intervento sintomaticamente contradditorio pronunciato nell’aprile scorso a Tel-Aviv da Yehuda Bauer del Centro internazionale di studi sull’antisemitismo in occasione dell’anniversario dello sterminio.
Lasciando da parte in questa sede la questione dei collaborazionisti ebrei in senso proprio, che come delatori, spie, manutengoli della Gestapo e banditi non furono pochi neanche a Varsavia, è evidente che per il Czerniaków si tratta d’un altro genere di collaborazionismo, analogo in modo impressionante, ad esempio, a quello dell’inge- gner Efraim Barash, capo dello Judenrat di Bialystok (al riguardo, di grande rilevanza è l’opera curata da Nachman Blumenthal, Conduct and actions o f a Judenrat, Gerusalemme, Edizioni Yad Vashan, 1962, che raccoglie molti protocolli originari e ordinanze del Consiglio ebraico di quella città tra il 1941 e il 1943.
Da tale documentazione emerge come il Barash ed i suoi colleghi si fossero illusi che nella dimostrazione delle capacità imprenditoriali e di lavoro degli ebrei consistesse l’unica garanzia della salvezza: la convenienza derivante dalla produttività delle fabbriche del ghetto avrebbe, cioè, indotto i tedeschi a procrastinare lo sterminio sino alla liberazione. Da ciò lo sforzo dei dirigenti ebrei di Bialystok per istituire rapporti intensi con i
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settori dell’amministrazione germanica incaricati dello sfruttamento del lavoro, sino all’organizzazione d’una mostra dei prodotti dell’attività economica ebraica, l’impegno a far funzionare le aziende a qualsiasi costo, il conferimento di ogni proprietà ebraica agli occupanti tedeschi, la coercizione per imporre ai lavoratori il massimo rendimento con un supersfruttamento senza limiti, la disponibilità a non fare nulla per impedire che la macchina nazista eliminasse gli elementi deboli, malati, improduttivi.
Del pari a Varsavia, nel cui Judenrat svariati erano i rappresentanti delle associazioni industriali ed artigiane (ricordiamo l’avvocato Lucjan Alberg, presidente del Consiglio per l’industria, il proprietario d’azienda Abraham Gepner, presidente dell’Associazione dei commercianti ebrei, Edward Ko- bryner, già giudice della Camera di commercio, il rappresentante degli artigiani ebrei, Leopold Kupczykier, padrone d’una fabbrica dolciaria, l’ingegner Abraham Sztolc- man, già segretario dell’Unione dei commercianti ebrei di Varsavia, Samuel Winter, commerciante in granaglie) e dove, tra gli altri, l’industriale tedesco Walter Toebbens trasse guadagni enormi, non diverso era il miraggio. Ad esempio, così testimonia il Czerniaków in data 10 ottobre 1941: “La mattina in Comunità. Poi nelle officine in via Prosta. Discorso con l’imprenditore Toebbens e con il dott. Lautz [direttore d’una fabbrica di spazzole], Toebbens domina sulle officine, ha introdotto la disciplina. Entrambi desiderano che il Consiglio ebraico badi agli operai (alimentazione, carbone, scarpe, bagni ecc.) dato che il salario pagato non copre le esigenze” (p. 257).
Con i sistemi che qui si intravedono, nonostante il dilagare della miseria, delle malattie e degli indescrivibili disagi, il capo dello Judenrat di Varsavia può annotare T11 luglio 1942: “A dicembre del 1941 l’esportazione [di prodotti ebraici per l’amministrazione tedesca fuori dal ghetto] arriva a due
milioni di zloti. A giugno [del 1942] a 12 milioni di zloti” (p. 355).
In queste scelte di sfruttamento ad oltranza Czerniaków giunse al punto, dopo che i tedeschi in pieno inverno avevano fatto spietatamente requisire tutte le pellicce, di decidere l’ulteriore fornitura di 1500 giacche di montone in cambio della liberazione dal carcere del ghetto di circa 200 prigionieri, minacciati di pena capitale: fu una scelta per la quale “bisognerà lottare e sputare sangue” (p. 293). Ma fu pure una deliberazione vivacemente contestata nei circoli della resistenza clandestina: ed anche di queste valutazioni critiche che provengono da ambienti dello stesso ghetto, singolarmente lungimiranti stante l’inutilità conclusiva del divisamente produttivistico, occorre tenere conto per un giudizio sullo Judenrat ed il suo capo. Sulla questione specifica così interveniva il foglio clandestino del Bund (partito socialista non sionista) “Der Vekker” (“La Sveglia”) il 18 gennaio 1942 sotto il titolo “Lo Judenrat di Varsavia compra giacche di pelliccia”: “Comprare delle giacche di pelliccia per i tedeschi significa armare i soldati tedeschi. E10 si fa volontariamente. In piena guerra totale, mentre Hitler e Goebbels annunziano che prima di perdere la guerra debbono sterminare il popolo ebreo, in un simile periodo11 sentimento deve scomparire davanti al ragionamento politico. Lo Judenrat salverà forse duecento ebrei, ma al tempo stesso compra per i tedeschi armi per mezzo delle quali saranno forse sterminate duemila persone. Questo è un crimine politico anche se le intenzioni sono le migliori” (in Piero Malvezzi, Le voci del ghetto di Varsavia 1941- 1942, Bari, Laterza, 1970, p. 325).
In altre parole, accanto a capi di Judenrat avventurieri, profittatori o megalomani come Monik (Moshe) Merin a Zaglembia in Alta Slesia o Mordechai Chaim Rumkowski a Lodz, accanto ad esponenti ebrei filo-nazisti di antica data come Manfred Reifer di Cernovzy, troviamo un buon numero di pre
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sidenti di formazione liberal-conservatrice come appunto Czerniaków, Barash e poi Adolf Rothfeld a Lvov, Gens a Vilna, Elkes a Kaunas, burbanzosi, ultramoderati e fautori da sempre, addirittura sotto il profilo professionale, del principio del rispetto dell’autorità, dell’efficienza, dell’ordine e della disciplina. Costoro, al livello delle vicissitudini degli ebrei, magari illudendosi da principio di cogliere un’occasione di affermazione personale, si ritrovarono immersi nell’immane catastrofe comportandosi nel medesimo modo miope, meschino ed incapace che contraddistinse larga parte dei ceti dirigenti della Polonia, dei paesi baltici, della Romania ecc., corresponsabili — quanto meno per la colossale imprevidenza — della rovina dei loro paesi.
Non è un caso quindi, ma corrisponde ad una precisa ispirazione politica se due tra i peggiori provvedimenti del Czerniaków furono il sistema di tassazione fondato sul criterio del “trattamento uguale per tutti” ovvero sulla tassazione indiretta pagata allo stesso modo dai ricchi e dai poveri, nel pieno rispetto — pur all’interno delle mura del ghetto — del principio della libera iniziativa, e l’istituzione d’una politica ebraica che rapidamente rivaleggiò in brutalità e soverchierie con nazisti ed agenti polacchi.
In rapporto con queste ultime problematiche, tra le molte figure di collaboratori che circondano Czerniaków, è forse il caso di dedicare qualche parola a due tra i più noti. L’uno è l’ingegner Marek Lichtenbaum, vicepresidente dello Judenrat, che subentrerà a Czerniaków dopo il suicidio, e che si assunse insieme ai due figli l’impresa della costruzione dei muri perimetrali del ghetto. Fu un affare che destò echi assai ostili tra la popolazione tanto che il Czerniaków si vide costretto ad istituire una commissione per veri
ficare la situazione finanziaria della Comunità: uno dei suoi componenti, lo storico Ignacy Schiper, doveva presto rivelare che sotto il profilo economico era impossibile descrivere la confusione della situazione che si era trovato di fronte, ma che, in sintesi, era lecito concludere che “i soldi della Comunità erano stati sprecati ed i suoi beni sperperati” (cfr. la testimonianza di M. Len- ski nel suo libro, La vita degli ebrei nel ghetto di Varsavia, Gerusalemme, Edizioni della Shoà, s.d., pp. 66-67).
L’altro personaggio su cui è opportuno richiamare l’attenzione è il colonnello Jozef Andrzej Szerynski, un ebreo convertito, già alto funzionario presso i comandi della polizia della capitale e di Lublino, che fu incaricato di organizzare e dirigere nel ghetto il Servizio d’ordine ebraico (Ordnung Dienst). Indubbiamente larga parte della colpa di avere fatto di tale corpo paramilitare uno strumento di violenza e rapacità odiato e temuto dall’intera popolazione, ricade precisamente su di lui. Arrestato per un traffico di pellicce, rimase vari mesi in carcere nonostante l’intenso impegno del Czerniaków per la sua liberazione. Tornato al proprio posto, restò ferito nell’agosto 1942 ad opera d’un attacco della resistenza partigiana del ghetto e si suiciderà nel gennaio 1943. La resistenza condannò a morte pure il suo successore, l’avvocato Jacub Lejkin, giustiziato nell’ottobre 1942.
In definitiva, nonostante le numerose ombre che si sono in parte cercate di rievocare, anche se di scorcio, complessivamente è forse accettabile il giudizio conclusivo che del capo del Judenrat di Varsavia dà il prefatore Israel Gutman: “era un uomo dai buoni propositi” . Ma si sa che le vie dell’inferno sono lastricate proprio di buoni propositi.
Guido Valabrega
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Italia repubblicana
Fausto Vicarelli, L a q u e s t io n e e c o n o m ic a n e lla so c ie tà i ta lian a . A n a l is i e p r o p o s te , Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 412, lire 40.000.
Il volume raccoglie saggi scientifici e scritti divulgativi pubblicati da Vicarelli — uno dei pochi economisti italiani autenticamente “keynesiani” — a partire dalla seconda metà degli anni settanta, secondo un progetto delineato dallo stesso autore poco prima della sua prematura scomparsa, nel 1986. Un primo blocco di scritti affronta la questione della crisi attraversata dalle economie industriali occidentali negli anni settanta, strette tra stagnazione e inflazione del periodo postshock petrolifero. Su tale tema — insistendo sulla centralità rivestita dalla crisi di accumulazione del capitale “in un momento storico in cui si presentava indispensabile per permettere alla struttura industriale di rispondere in termini di efficienza produttiva agli shocks esterni che andava subendo” — appropriata si conferma la critica di Vicarelli alle teorie che individuano nei meccanismi di adeguamento automatico del livello dei salari (la “scala mobile”) la fonte primaria di accelerazione del trend inflazionistico; in realtà Vicarelli dimostra come essa abbia anzi svolto nel corso della crisi una funzione di “pavimento” nei confronti della caduta della domanda aggregata indotta dall’adozione di politiche economiche restrittive: politiche assai sterili in relazione al contenimento dei prezzi, e purtroppo
molto efficaci nell’abbassare il livello dell’attività produttiva. In tale contesto, infatti, la prescrizione monetarista nei confronti dell’inflazione — stabilire rigidamente il tasso di crescita della quantità di moneta e rispettarlo qualunque sia il tasso di crescita dei prezzi — opera sui prezzi solo dopo aver bloccato la produzione, annullato gli incentivi agli investimenti e aumentato ulteriormente la disoccupazione. (S tru ttu ra d e g li s c a m b i in te r n a z io n a li e in f la z io n e m o n d ia le , 1975; L e e c o n o m ie in d u s tr ia li tra s ta g n a z io n e e in f la z io n e : q u a li v ie d i u sc ita d a lla c ris i, 1981). Sempre sul medesimo tema dei caratteri dell’accumulazione di capitale, spicca, per il cospicuo rilievo anche teorico, il saggio del 1981 N o te in te m a d i a c c u m u la z io n e d i c a p ita le in I ta lia . 1 9 4 7 -1963 , acuta e critica rassegna dei modi di concepire l’accumulazione prevalsi nel nostro paese tra la Ricostruzione e la crisi dei primi anni sessanta, assai utile ad inquadrare storicamente le scelte di politica economica del periodo. Al di là tuttavia di questi saggi “classici”, due appaiono i contributi più originali forniti da Vicarelli alla riflessione storica sui caratteri dello sviluppo industriale italiano. Il primo riguarda il ruolo giocato dal “vincolo esterno” nel processo di sviluppo (I l p r o c e s s o d ’in teg ra z io n e re a le -f in a n z ia r ia d e l l ’e c o n o m ia ita lia n a n e lla C e e , 1973; L ’e q u ilib r io e s te rn o : un v in co lo a llo s v i lu p p o ? , 1985): a tale proposito, Vicarelli — riprendendo un’osservazione avanzata da Hicks — sottolinea come alla base dell’elevato sviluppo degli anni cinquanta e sessanta
stesse non solo il “dollar standard”, ma una sorta di “labour standard”, ossia un’estrema stabilità dei salari nominali dovuta (nell’interpretazione di Kindle- berger) alla relativa abbondanza di manodopera. Il venir meno di queste condizioni ha posto negli anni settanta la questione dell’equilibrio esterno in un contesto nuovo, “simile per molti versi a quello che caratterizzò la situazione dei principali paesi europei all’indomani del secondo conflitto mondiale”, quando l’affidamento alle manovre sul cambio dell’onere dell’aggiustamento esterno creò l’illusione che ciascun paese, utilizzando la propria autonomia interna, potesse affrancarsi dai rapporti di interdipendenza e “perseguire con più immediatezza i propri obiettivi di lotta alla stagflazione”. Il secondo pilastro teorico deriva dall’insistenza di Vicarelli sull’importanza di indagare le interazioni tra struttura finanziaria e sviluppo economico, anche attraverso il recupero di strumenti di analisi propri della tradizione marxista (Hilferding): tanto più in un contesto come quello italiano, in cui storicamente “gli intermediari finanziari hanno svolto un ruolo decisivo nel promuovere, orientare e condizionare l’accumulazione del capitale” e “solo verso la fine degli anni cinquanta l’aumento dell’autofinanziamento da un lato e una relativa espansione del mercato dei capitali dall’altro hanno creato le condizioni per una possibile disintermediazione delle banche” (C a p ita le in d u s tr ia le e c a p ita le f in a n z ia r io ,1979). Gli innumerevoli spunti di analisi confluiscono, infine,
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in una lucida lezione di metodo, all’insegna di un empirismo che valorizza i reciproci legami tra teoria economica, analisi istituzionale e prospettiva storica.
Stefano Battilossi
Antonio Pedone (a cura di), La questione tributaria. Analisi e proposte, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 470, lire 48.000.
I saggi contenuti in questo volume hanno il pregio di mettere a fuoco da diverse angolature un problema centrale della politica economica italiana e al tempo stesso di rilanciare, con la forza delie cifre e dell’analisi scientifica, la denuncia di quello che è uno degli aspetti più scandalosi della storia nazionale degli ultimi decenni. Il fatto che i dati tecnici e quantitativi e l’analisi economica attuale prevalgano largamente su ogni tentativo di ricostruzione critica anche del passato più recente non impedisce che da questi saggi emerga efficacemente, se non l’evoluzione storica del problema, quanto meno il suo straordinario rilievo nell’Italia contemporanea.
In realtà, i nodi storici della questione tributaria, almeno per quanto riguarda l’ultimo ventennio, sono tutti ben presenti. A cominciare — non perché sia più importante, ma perché è esemplare dell’intreccio perverso tra disinteresse e mistificazione che vi è attorno al problema fiscale — dalla mancanza di rilevazioni ufficiali o ufficiose sulla distribuzione del reddito nelle diverse categorie sociali prima e dopo il prelievo tributario. Col risultato che lo studio
di Anna Marenzi sulla distribuzione del carico fiscale complessivo nell’anno campione 1984 deve basarsi non sulla lettura critica di dati contabili certi, ma su stime e ipotesi di complessa elaborazione, dalle quali comunque emerge il dato significativo che l’andamento delle imposte, lungi dall’essere progressivo, è, nell’insieme, “tra proporzionale e regressivo”. Anzi, in alcuni settori portanti appare “progressivo per le prime classi di reddito, proporzionale per quelle centrali [...], regressivo per le classi superiori” (p. 232).
L’elenco potrebbe continuare con la crescente (e quanto voluta?) disfunzione dell’ammini- strazione finanziaria, da cui discende l’abnorme dilatazione dell’evasione fiscale, che, già elevatissima secondo i calcoli precedenti il 1986, balza a livelli drammatici con la rivalutazione della contabilità nazionale, effettuata dall’Istat in quell’anno, raggiungendo addirittura il 60 per cento del dichiarato Irpef (in particolare, per i redditi di impresa e lavoro autonomo, come risulta dall’aggiornamento delle stime riportato in appendice nel saggio di Luigi Bernardi, si arriverebbe a più del doppio dell’imponibile dichiarato, al- l’incirca la metà dell’intero gettito Irpef).
Per contro, esenzioni e detrazioni accordate al lavoro dipendente risultano inferiori rispetto a quasi tutti gli altri paesi, come documenta il confronto internazionale operato da Salvatore Tutino. Tanto che nel 1986, a fronte di una quota del 46 per cento del prodotto interno lordo attribuita dai nuovi dati del
la contabilità nazionale al lavoro dipendente, quest’ultimo si accollava ben il 70 per cento del gettito globale dell’Irpef.
Accanto a questi dati significativi, che riflettono le fasi più recenti del processo, altri spunti presentano un interesse storico più diretto e consentono di mettere a fuoco le tendenze generali e i cambiamenti di maggior rilievo verificatisi nell’ultimo ventennio. In primo luogo, la crescita e la sensibile modificazione della composizione del prelievo tributario, soprattutto dopo la riforma del 1973-1974. La pressione fiscale, sostanzialmente stabile in rapporto al Pii, anche dopo la metà degli anni settanta, e nettamente più bassa in Italia rispetto a tutti i principali paesi occidentali, registra una forte impennata a partire dalla fine del decennio, portandosi nella media Ocse e anche al di sopra (benché, come emerge dalla comparazione internazionale di Giuseppe Peleggi, la revisione del 1986 l’abbia ricondotta di nuovo lievemente al di sotto). Motivo determinante di questa crescita il drenaggio fiscale da inflazione, gravante soprattutto sui redditi da lavoro dipendente, di fronte al quale l’Italia, a differenza di tutti gli altri paesi, eccetto il Giappone, si è ben guardata dall’adottare provvedimenti di indicizzazione o quanto meno di contenimento. Con la conseguenza, come scrive Salvatore Tutino, che “nel primo decennio d’applicazione dell’Irpef, a fronte del più forte incremento del reddito lordo reale, si è realizzata in Italia una crescita del prelievo fiscale medio sei volte superiore e, conseguentemente, si è venu-
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to a determinare il più elevato scarto fra reddito lordo e reddito netto disponibile” (p. 221).
Ciò significa che, dopo aver tenuto artificialmente bassa la pressione tributaria per tutta la prima fase di espansione della spesa sociale, fra la fine degli anni sessanta e la prima metà di quelli settanta, creando le premesse di una crescita incontenibile del debito pubblico, i vari governi hanno fatto ricadere soprattutto su stipendi, salari e pensioni l’ulteriore lievitazione della spesa, determinata dall’e- stendersi delle funzioni dello Stato sociale. Così evasione fiscale, indebitamento pubblico e fiscal drag sui salari si configurano come tasselli necessari di una stessa strategia, costante- mente perseguita a danno della giustizia sociale e degli interessi delle grandi masse popolari. Di fronte a questa realtà, il recupero della capacità impositiva degli enti locali e la sua concentrazione in alcuni settori essenziali, come suggerisce lo studio di Franco Osculati e Giancarlo Pola, è sicuramente un correttivo importante — anche, oltretutto, per rilanciare quelle autonomie locali, mortificate dalla riforma del 1973-1974, con conseguenze particolarmente negative per tutte le forze sostenitrici di una finanza democratica — ma ben lontano dal bilanciare le carenze di accertamento e di imposizione presenti a livello centrale.
Ancora una volta l’individuazione dello spessore storico del problema rinvia alla sostanza politica e non tecnica delle soluzioni da approntare. A meno di non contentarci di continuare a elaborare studi scientifici che
documentano a posteriori la fondatezza delle periodiche denunce avanzate in sede politica. Nel frattempo torna a calare la coltre di silenzio, gli autori delle denunce, come il ministro Guarino nel 1987, vengono rispediti a casa e si ricomincia da capo.
Mario G. Rossi
Filippo Cavazzuti, La regola e l’arbitrio. Finanza pubblica e finanza privata in Italia, Bologna, II Mulino, 1988, pp. 121, lire 10.000.Paolo Bosi, I tributi nell’economia italiana. Aspetti istituzionali e di politica economica, Bologna, Il Mulino, 1988 (nuova ed.), pp. 158, lire 15.000.
Contro la retorica dello “spontaneismo concorrenziale” dominante negli anni ottanta, Cavazzuti — docente di scienza delle finanze e senatore della sinistra indipendente — riafferma con questo suo agile pamphlet il principio che il grado di realizzazione di obiettivi socialmente rilevanti quali la piena occupazione, la solidarietà, l’uguaglianza, l’efficienza, la concorrenza, la trasparenza, dipende dal “sistema delle regole e dall’azione discrezionale esercitata tramite politiche economiche ed istituzionali che vogliono consapevolmente governare i sistemi economici”. Sebbene rivolto in primo luogo a delineare i possibili scenari futuri (soprattutto in funzione dell’unificazione dei mercati europei del 1992) di un sistema finanziario pubblico “trasparente” e di sistemi finanziari privati “regolati”, il saggio ha modo di affrontare con chiarezza alcuni nodi
cruciali della storia economica dell’Italia contemporanea. L’analisi di Cavazzuti identifica infatti i principali ostacoli sulla via della democratizzazione del sistema finanziario italiano da un lato nell’organizzazione burocratica dell’amministrazione pubblica, che frappone ostacoli alla traduzione in atto delle decisioni di politica economica (da cui i ritardi di gestione e la mancanza di trasparenza della finanza pubblica); dall’altro, in un sistema tributario e contributivo storicamente iniquo e complesso, che — a causa delle difficoltà e delle incongruenze nell’attuazione della riforma del 1973-1974 (di cui lo studio di Bosi costituisce un’ordinata e critica esposizione) — ha innescato quella sfasatura tra entrate e spese posta all’origine dell’abnorme gonfiamento del debito pubblico dell’ultimo quindicennio. In realtà, avverte Cavazzuti, per parlare di “spesa pubblica” occorre ragionare su una pluralità di pubbliche amministrazioni che svolgono compiti diversi, spesso non coordinati, ma contrapposti se non conflittuali, dotate di propri bilanci che solo le convenzioni classificatorie elaborate dall’Istat e dalla Ragioneria generale dello Stato riescono a ridurre a un unico bilancio. La questione storica di fondo, che l’autore individua con precisione, sta proprio nella inadeguatezza dell’apparato amministrativo dello Stato a gestire le nuove funzioni dell’intervento pubblico in economia: poiché “il passaggio da uno stato ‘autori- tativo’ ad uno stato che gestisce in prima persona molti servizi ha anche, purtroppo, mantenu-
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to rimpianto amministrativo introdotto in Italia nel corso dell’altro secolo [...] Dunque uno stato concepito per svolgere ben poche funzioni [...] si è trovato negli ultimi decenni a gestire con le stesse regole amministrative (tra cui quelle dell’assenza di ‘responsabilità’ dei dirigenti e di ‘trasparenza’ delle procedure) funzioni a cui non è assolutamente preparato.” Ca- vazzuti condivide quindi pienamente il giudizio di Sabino Cas- sese, per cui “la Costituzione passa sugli apparati amministrativi senza toccarli”. Analogamente, l’unico strumento legislativo — fatalmente inadeguato — in grado di operare sull’insieme dei sistemi finanziari privati è rappresentato ancora oggi dalla legge bancaria del 1936: “come la crisi della banca mista in Italia aprì un vuoto nel meccanismo di finanziamento delle imprese e ‘produsse’ la legge bancaria del 1936 e la creazione degli istituti di credito speciale, appositamente orientati verso l’intermediazione oltre il breve termine, così la lunga fase di instabilità economica iniziata negli anni settanta ha determinato un vasto processo di innovazione finanziaria, [...] come risposta della ‘finanza’ all’inflazione, alle crisi petrolifere, alle mutazioni dei prezzi relativi e nei te r m s o f tra d e , alle oscillazioni dei cambi, ai debiti esteri, alle innovazioni tecnologiche ed alle mutate condizioni della distribuzione del reddito.” È appunto l’inadeguatezza dei poteri amministrativi previsti dalla legge del 1936 ad originare l’attuale conflitto di potere strisciante tra una banca centrale (ente regolatore della
concorrenza sul mercato creditizio e garante della stabilità del sistema) che cerca di estendere l’operatività del sistema bancario verso una crescente “poli- funzionalità settoriale” (modello tedesco), depotenziando la Consob e la concorrenza degli intermediari finanziari di origine non bancaria, e questi ultimi, operanti — nei settori mobiliare, assicurativo e creditizio — in concorrenza col sistema bancario. La via d’uscita a questa situazione, conclude Cavazzuti, non può che risiedere in una rottura decisa col passato, cioè in un intervento pubblico non incardinato nell’ordinamento amministrativo dello Stato e che consenta occasioni di “partecipazione e controllo” dei cittadini, secondo la lezione di Hirschman, estromettendo l’ossessiva mediazione dei partiti.
Stefano Battilossi
P iero Roggi, S c e lte p o l i t ic h e e te o r ie e c o n o m ic h e in I ta lia n e l q u a ra n te n n io r e p u b b lic a n o , Torino, Giappichelli, 1987, pp. 163, lire 15.000.
Sotto il fin troppo esplicito influsso del suo nume tutelare, Amintore Fanfani, questo scritto di Piero Roggi — povero nella grafica quanto scarno nei contenuti — integra il discorso avviato dalla casa editrice Giappichelli con l’analogo volume di Tommaso Fanfani. Il lavoro si caratterizza per lo sforzo — a tratti affannato, più spesso quasi scolastico — di fornire una vernice di coerenza e di dignità teorica alle posizioni di politica economica espresse nei suoi documenti programmatici dal par
tito democristiano nell’intero arco del quarantennio repubblicano. In primo piano, dunque, stanno la “cultura economica” democristiana, da un lato, e i “programmi economici” dei governi, dall’altro: sull’onda di questa scelta, l’indagine si limita al gioco dei parallelismi cartacei, senza nessuna considerazione né sulla particolare forma-partito democristiana, né sulla effettiva incidenza e realizzazione dei programmi stessi. L’autore ricorre a formulazioni linguistiche originali o altisonanti, che però si riferiscono a fatti di ben poca consistenza, una volta che le si consideri con occhio minimamente avvertito. Così il “modello” degasperiano di “politica economica temperata” starebbe ad indicare l’ardita innovazione escogitata dai governi centristi, una “terza via” tra liberismo e pianificazione: che però nei fatti non va oltre il compromesso, assai elastico e poco innovativo, tra difesa della stabilità monetaria e moderata politica dei lavori pubblici, nella precedenza assegnata al risparmio rispetto agli investimenti. Protagonista attivo della realizzazione di quel compromesso sarebbe non l’influsso keynesiano, bensì l’empito sociale del “solidarismo cattolico” — incarnato dal Piano case fan- faniano, alfiere della “solidarietà tra proprietari e lavoratori promossa dall’intervento dello Stato”, e da Cassa del Mezzogiorno e Riforma agraria, che caratterizzerebbero “l’unico periodo veramente riformatore della nostra storia recente”. Davvero perciò si stenta a capire il motivo per cui, beneficiata da tanti arditi sperimentalismi,
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l’economia italiana arrivi al 1959 con una lunga fase di recessione, visto anzi che i consumi avevano fatto registrare un forte aumento — a detta dell’autore — “sospinti da un’accentuata crescita delle spese statali in corsi per disoccupati e cantieri di lavoro”! Ma ecco dunque, alla fine degli “eccellenti” anni cinquanta, giungere il boom economico a raccogliere i frutti del sostegno fornito dal governo alla domanda aggregata per tutto il decennio precedente. Tuttavia, arrivato all’improvviso, altrettanto improvvisamente il boom scompare, proprio mentre con gli anni sessanta si apre l’era del centro- sinistra e della “politica economica programmata” — che registrano entrambi l’instancabile protagonismo del celebre aretino — i cui obiettivi strategici peraltro l’autore espone con grande parsimonia, limitandoli all’incremento del reddito generale del paese e all’eliminazione degli squilibri territoriali. Del resto se l’onda del benessere si arresta, prosegue Roggi, le cause risiedono — oltre che nella crisi petrolifera — nella raggiunta piena occupazione e negli aumenti salariali che bloccano la spinta imprenditoriale agli investimenti. Inizia qui, dallo “Schema Carli” del 1964, la “conversione” della cultura economica democristiana alla “politica dei redditi” dei governi di centro-sinistra, che lega gli aumenti salariali agli incrementi di produttività e lo sviluppo degli investimenti al mantenimento del livello dei profitti (il Piano Pieraccini, 1967; il Progetto 80 del ministero del Bilancio, 1969). La fase della stagflazione
anni settanta guida dunque l’orizzonte teorico della De di Piccoli e Forlani alla conquista della centralità dell’impresa e del mercato, che si rifletterebbe nell’assoluta precedenza assegnata dai governi andreottiani di centro-destra alla competitività internazionale delle imprese italiane, minacciata dall’inflazione e dagli effetti della crisi petrolifera: quella che Roggi definisce, con formula ricca di singolari assonanze leniniste, la “Nuova politica economica” . Con i nuovi economisti — Prodi, Andreatta, sotto l’alto patronato teorico di Modigliani — tramonta così nel partito democristiano, alle soglie degli anni ottanta, l’egemonia della tradizionale politica economica di sostegno alla domanda aggregata: la favola si conclude dunque con un tradimento! Tuttavia l’autore non manca di sottolineare i pregi dell’incoerenza: “cambiare idea in politica economica vuol dire anche avere idee di ricambio”; e d’altra parte — conclude Roggi in perfetto stile ecumenico — il “deposito” della De è “riccamente assortito”. Insomma, c’è posto per tutti — per Keynes, per Ricardo, per Fanfani, naturalmente.
Stefano Battilossi
Umberto Colombo, Giuseppe Lanzavecchia, Daniele Maz- zonis, Scienza e tecnologia verso il X X I secolo. Scenario per il progetto Pirelli, Milano, Comunità, 1988, pp. 276, lire 35.000.
Il volume raccoglie un rapporto commissionato dalla Pirelli contestualmente all’avvio del progetto di questa impresa
di riconvertire l’area industriale urbana della Bicocca a Milano in “polo tecnologico integrato”. Parallelamente al progetto di ristrutturazione architettonica degli edifici industriali è stato commissionato ad un prestigioso gruppo di scienziati “un rapporto sulle prospettive della scienza e della tecnologia a livello mondiale, delle quali si dovrebbe tener conto nel realizzare il progetto Bicocca”.
Dopo una premessa di Umberto Colombo, coordinatore del Comitato scientifico promosso dalla Pirelli, vengono sviluppati temi relativi all’organizzazione attuale della ricerca scientifica. Nel primo capitolo dedicato a scienza e tecnologia si mostra come tra scienza e tecnica, superati prima gli steccati del periodo ottocentesco e poi le derivazioni della prima metà del Novecento, si sia sostanzialmente arrivati ad una situazione dove i confini tra le due discipline risultano sempre più labili e come ciò renda sempre più difficile una distinzione tra i due comparti. Questa situazione si deve soprattutto alla realizzazione delle tecnologie intelligenti che prescindendo “dalle capacità e dalla creatività dell’uomo intervengono anche direttamente ed autonomamente su alcuni problemi chiaramente formulati” (p. 21).
Segue poi un ampio capitolo molto tecnico dedicato alle scienze (chimica, fisica e biologia) ed alle tecnologie (elettronica, informatica, telecomunicazioni, automazione, tecnologie di processo, biotecnologie, materiali e trasporti) che sono alla base della rivoluzione tecnologica.
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L’argomento del terzo capitolo riguarda le risorse materiali: vengono fissati dei criteri per una periodizzazione storica che prenda le mosse dal loro uso nel corso dei secoli; molto schematicamente si è individuato un primo periodo caratterizzato dalla raccolta delle risorse già esistenti in natura e dalla loro lavorazione; a questo segue un secondo periodo di moltiplicazione delle risorse attraverso la coltivazione, l’allevamento e la trasformazione della materia ed infine un terzo periodo, l’attuale, dove le conoscenze scientifiche consentono “l’invenzione e la conseguente esplosione delle risorse”, sempre che esistano le capacità inventive di metterle in luce.
L’ultimo capitolo affronta il tema molto attuale relativo alle conseguenze della rivoluzione tecnologica vista soprattutto attraverso l’ottica imprenditoriale: l’informatizzazione dellaproduzione non ha messo fuori gioco solo delle quote di manodopera più o meno professionalizzata, ma anche numerose imprese irrimediabilmente inserite in settori in liquidazione (ad esempio siderurgia) o riconoscibili per marcate rigidità strutturali (ad esempio aziende particolarmente specializzate); l’avvenire sembra essere di quelle aziende flessibili e meno rigidamente specializzate.
Questo ‘status’ sarà senz’altro agevolato dall’informatizza- zione che renderà disponibili tutti gli elementi conoscitivi utili in grado di far assumere all’impresa le decisioni più adeguate rispetto ad una determinata scelta, favorendo le imprese che operano nei servizi: esse finiran
no per assumere le decisioni un tempo proprie del settore primario e secondario.
Giorgio Pedrocco
Angelo Dina, Roberto Bennati, Aldo Enrietti, Alberto Merini, Emilio Rebecchi, II r o b o t f a t t o a m a n o . I n n o v a z io n e te c n o lo g ic a e re s is te n ze a! c a m b ia m e n to n e l l ’o r g a n iz z a z io n e p r o d u t t i v a d e l C o m a u , Torino, Rosenberg & Sellier, 1988, pp. 204, lire 18.000.
Il volume si apre con una panoramica di Aldo Enrietti sui mutamenti organizzativi del comparto delle macchine utensili della Fiat dal 1974 — anno in cui la Fiat Mts (Macchine speciali Torino) costituì con alcune imprese del gruppo Morando reduci dall’impresa di Togliattigrad la Comau (Consorzio macchine utensili) — al 1987, quando la Comau risulta ormai un gruppo perfettamente internazionalizzato ed in grado di operare nei settori dell’impiantistica più sofisticata come quello della robotica.
L’orizzonte produttivo iniziale per il costituendo consorzio era stato suggerito nel 1974 alla Fiat dall’esperienza della realizzazione dell’impianto automobilistico costruito negli anni precedenti a Togliattigrad in Unione sovietica: si trattava cioè di fornire ai clienti impianti meccanici “chiavi in mano” unificando a monte progettazione, acquisti e razionalizzando la divisione del lavoro produttivo consorziando “istituzionalmente” una serie di imprese che avevano concorso autonomamente alla realizzazione dell’impresa.
Le successive modificazioni della ragione sociale avvenute tra il 1974 e il 1986 dipendono da un lato dalla crescita dell’egemonia Fiat all’interno del consorzio e dall’altro dall’internazionalizzazione dello stesso consorzio attraverso combinazioni con imprese straniere come la Bosch per inserirsi nell’avveniristico campo dei r o b o t .
Di rilievo, anche se le notizie sono sommarie, il capitolo dedicato alla dinamica degli addetti che vedono nel complessivo declino dell’occupazione (da 3.901 a 3.179 unità) una prevedibile forte caduta del numero degli operai (da 2.469 a 1.781) e una relativa stasi quantitativa di impiegati e di dirigenti (rispettivamente da 1.354 a 1.309 e da 79 a 89). Interessanti anche i dati relativi alla ripartizione delle quote delle diverse qualifiche nel corso degli anni: in sintonia con l’andamento dell’occupazione operaia diminuiscono gli impiegati tecnici e aumentano quelli addetti genericamente ai “servizi vari”, segno di una articolazione nuova delle funzioni che deriva dall’informatizzazione del lavoro impiegatizio che stenta ad essere classificato secondo i criteri correnti.
Il saggio di Angelo Dina, P ro g e tta z io n e e p r o d u z io n e d i s is te m i a u to m a tic i, steso probabilmente con l’obiettivo di approfondire gli aspetti operativi di Comau, risulta per l’estrema frammentarietà delle informazioni ed il ricorso ad una terminologia tecnicistica riservato alla lettura di pochi esperti.
L’ultima ricerca che appare nel volume (Alberto Merini, Emilio Rebecchi, O r g a n iz z a z io n e d e l la v o r o e s o g g e t t iv i tà d e i
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la v o r a to r i) presenta invece i risultati di un’indagine sociopsicologica tra i lavoratori Co- mau. L’indagine commissionata dalla Fiom ad un gruppo di medici dell’istituto di psichiatria “P. Ottonello” di Bologna riaffronta, attraverso la creazione di piccoli gruppi di operai e di tecnici, il problema dell’organizzazione del lavoro ponendo ai partecipanti ai gruppi queste due elementari domande: cosa pensano i lavoratori del modo in cui è organizzato il loro lavoro e come desidererebbero che fosse organizzato. Si trattava quindi per i gruppi di affrontare i problemi dell’organizzazione del lavoro non solo dal punto di vista ambientale, ma anche da quello professionale. Emerge ancora una volta come la Fiat, assumendo la gestione dell’impresa, abbia sostanzialmente svuotato la professionalità dei lavoratori creando un grosso disorientamento non solo dal punto di vista politico-sindacale, ma anche professionale; inoltre si colgono, leggendo i frammenti di discorsi operai, evidenti segnali di difficoltà per la perdita di capacità contrattuale dei lavoratori, determinata da un lato da fattori oggettivi (il decentramento produttivo) e dall’altro dall’intervento diretto Fiat. Riemergono dei dati che con le grandi lotte dell’autunno caldo erano completamente scomparsi, e che dagli estensori della ricerca sembrano completamente sottovalutati, la paura reale di partecipare all’attività sindacale (che qui viene superficialmente scambiata con una sorta di “colpa persecutoria”), la capillare politica di ritorsioni
che la Fiat stava già allora attuando e che non a caso sarà denunciata nel 1989 con l’esplosione del caso Molinaro per iniziativa di un soggetto extrasindacale, il Pei, mentre il sindacato rimarrà tutto sommato alla finestra.
Giorgio Pedrocco
Sergio Mellina, L a n o s ta lg ia n e lla va lig ia . E m ig r a z io n e d i la v o r o e d isa g io m e n ta le , Venezia, Marsilio, 1987, pp. 327, lire26.000.
L’autore, psichiatra, affronta il tema di un corso integrativo di storia dei movimenti sindacali, tenuto presso la facoltà di scienze politiche dell’università statale di Milano nell’anno accademico 1983-1984. Il libro è centrato sulla psicopatologia dell’emigrazione economica per un “approccio interdisciplinare” alla materia e per offrirne un nuovo impianto problematico; si fonda sull’esperienza professionale dell’autore, sull’analisi medica di numerosi casi clinici e rimanda al percorso individuale di degenti in manicomio che hanno vissuto l’esperienza migratoria con riferimento particolare al secondo dopoguerra.
In rilievo è la stretta connessione tra il disagio psichico e lo sfruttamento del lavoratore emigrante, tra il disturbo mentale e la solitudine, la nostalgia di chi è sradicato dal proprio ambiente originario e proiettato in un contesto diverso e conflittuale di cui perde o non acquista il senso e nel quale si muove lacerato, privo di diritti sociali, politici, affettivi.
L’autore si contrappone alle tesi di alcune scuole psichiatri- che che nell’alienazione mentale vogliono trovare l’origine della scelta emigratoria, richiama criticamente gli studi scientifici americani che avrebbero dimostrato i nessi tra l’emigrazione e la malattia mentale per ribadire “la figura dell’emigrante tarato in partenza”. Per l’autore la sofferenza psichica è indotta dalla povertà e dalla marginalità sociale, è “il punto finale di un percorso fallito” che rimarca uno scacco irrisolto dell’esistenza; egli pone il problema del “come capita di ammalarsi andando a lavorare all’estero”, e con ciò dà rilevanza al malessere, alla precarietà, alla lontananza, allo sfruttamento, tutti come problemi individuali legati alla realtà sociale. “L’indecifrabile volto della follia” legato al doloroso sentimento della lontananza, della frustrazione, della perdita, la migrazione e la malattia mentale come “due moduli dell’esistere povero” richiedono di necessità il riferimento alla realtà storico-econo- mico-sociale; “la mera fenomenica clinica” è insufficiente.
Come perciò la storia dell’emigrazione è storia delle classi subalterne, per l’autore la psicopatologia dell’emigrazione è “la rappresentazione ultima di come la dura realtà dell’emigrazione entri nella dimensione della malattia mentale”. Diventa così decisiva la comprensione delle ragioni politiche, economiche e sociali che spingono all’esodo, delle cause di condizioni umane e lavorative al limite, di un mercato dell’occupazione che si modifica e si sposta di continuo tra diversi e nuovi poli
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di attrazione, delle cause e degli effetti dell’ignoranza del ruolo produttivo sostenuto dagli emigranti per l’accumulazione della ricchezza.
Con ciò l’autore ribadisce la tesi delle masse emigranti come esercito industriale di riserva, “volano dell’economia dei paesi più ricchi”, l’impossibilità di una neutralità scientifica rispetto all’emigrazione e alle patologie psichiche che ne sono connesse. In tale direzione si richiama all’intervento della medicina e della psichiatria iniziato quando massicci flussi immigratori di stranieri sono apparsi di minaccia potenziale agli indigeni, e alla legislazione americana che già negli ultimi decenni dell’Ottocento imponeva controlli per sbarrare l’ingresso ai malati mentali coinvolgendo gli epilettici e i sospettati di comportamenti anomali.
“In altri ospedali psichiatrici ho incontrato altri ex emigrati ed ho potuto verificare in tutto il suo spessore la dolorosa frammentazione sociale di un breve arco di vita lavorativa della povertà che si era concluso con la follia. Più tardi ho imparato a riconoscere che le radici lontane di questo tipo di follia, sono radici politiche, economiche, sociali, etiche, spesso erose già fin dall’origine dal cancro dell’indigenza” (p. 22). “Noi, medici della migrazione, ci imbattiamo spesso in gente cui non è stata resa giustizia; che è stata resa infelice e sconfitta da un sogno di lavoro infranto, per cause extrapersonali. Noi psichiatri ci troviamo spesso di fronte a persone che hanno ormai perso la coscienza del loro fallimento, essendone state travolte” (p.
178). Non sono queste considerazioni marginali nel contesto del libro, ma i presupposti umani e culturali che connettono il lavoro nelle sue parti ed hanno orientato lo sforzo documentario dell’autore che chiarisce così anche la propria scelta di campo rispetto alle questioni sociali della malattia e dell’emigrazione.
Franca Modesti
P iergiorgio Corbetta, Arturo Parisi, Hans M.A. Scha- dee, Elezioni in Italia, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 562, lire60.000.
L’ultimo lavoro nato nell’ambito dell’Istituto Cattaneo è un contributo di notevole rilievo agli studi elettorali italiani. L’ “esplicita continuità” (p. 8) con la prima ricerca del Cattaneo — coordinata da Giorgio Galli e pubblicata sul finire degli anni sessanta — e la caratteristica di “approdo di un itinerario intellettuale” (p. 7), gli danno una connotazione di sistematicità alquanto originale nell’attuale panorama politologico e ne fanno un punto di riferimento ineludibile per successive sintesi sulla storia elettorale del secondo dopoguerra.
Il lavoro è articolato in quattro sezioni. Nella prima, che ha per oggetto le caratteristiche sistemiche delle elezioni svolte dal 1946 al 1983, si privilegia un approccio sincronico e tipologico individuando quattro consultazioni segnate da forte discontinuità; le elezioni di “mobilitazione” del 1948 e 1976, con l’accentuarsi del bi
polarismo Dc-Pci, e le elezioni di “smobilitazione” del 1963 e 1983, caratterizzate da “scelte espressive più che strumentali” (p. 57).
Nella seconda sezione si esamina, attraverso un approccio diacronico, la vicenda elettorale dei singoli partiti lungo l’arco temporale 1968-1983, valorizzando la lettura del voto come “risposta ad una proposta” e mettendo quindi a confronto la singola proposta avanzata dal partito per ogni elezione con la specifica risposta dell’elettorato. Emerge così un più preciso identikit dei partiti e un quadro ricco sia di nuove suggestioni che di conferme ad ipotesi già note.
Nella terza sezione, invece, si affrontano aspetti del sistema partitico elettorale più diretta- mente comparabili con gli omologhi delle altre ‘democrazie’ occidentali, mentre nella quarta— dedicata alle ultime consultazioni politiche del 1987 — si fornisce una sorta di aggiornamento e verifica delle ipotesi e del modello costruiti nelle tre sezioni precedenti.
Gli autori si pongono, tra l’altro, l’esplicito scopo di sottoporre a puntuale verifica empirica l’ampia serie di interpretazioni avanzate sul versante politico-elettorale del “caso italiano”, svolgendo in particolare— accanto ad un continuo chiarimento terminologico e concettuale — un puntiglioso confronto con le analisi dei partiti e dei media frequentemente basate su considerazioni impressionistiche.
Il metodo adottato si sviluppa con linearità attraverso successive fasi: si pone un quesito teorico; si sintetizzano le rispo
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ste fornite dalla letteratura politologica — non solo italiana — e dalla pubblicistica; si confrontano queste risposte con la verifica empirica svolta. Si affrontano in questo modo alcune questioni di notevole rilevanza, tra cui è possibile appena ricordare la presunta staticità del comportamento elettorale italiano dalla fine degli anni cinquanta all’inizio degli anni settanta, che risulta ad uno sguardo più ravvicinato alquanto ridimensionata; la nozione di spazio politico, che è ridefinita in ambito italiano attorno all’anomalo posizionamento della De, capace di alimentare interscambi di voto con tutti i partiti lungo il c o n tin u u m sinistra/cen- tro/destra e quindi di occupare il c e n tro secondo una modalità ‘diffusiva’; la presunta dissoluzione del legame tra voto e appartenenza di classe, da più parti invocata come esito necessitato dello sviluppo delle società industriali avanzate e sostanzialmente smentita dalla verifica svolta sulle ultime consultazioni italiane; l’ipotesi di un nuovo ciclo elettorale, di “smobilitazione”, che inizia alla fine degli anni settanta a partire dal venir meno del dualismo Dc-P- ci, un bipolarismo che pur attraverso diversi passaggi ha contraddistinto trenta anni della storia repubblicana.
Le verifiche empiriche, su cui fanno perno molte delle novità o delle conferme interpretative sono condotte incrociando l’approccio ecologico — con la tradizionale ripartizione in zone geopolitiche formulata dal Cattaneo — con la considerazione del voto per comuni distinti secondo classi di ampiezza demo
grafica, e affiancandovi l’analisi dei “flussi” elettorali, vale a dire dei reali interscambi di voti che si sviluppano tra i partiti nella dinamica elettorale, una tecnica sulla cui validità non vi è uniformità di opinioni all’interno della comunità scientifica, ma che dagli autori è applicata solo su un ristretto campione di città, senza che le conclusioni siano estese meccanicamente ad ambiti più vasti.
Riccardo Vigilante
Lamberto Mercuri, L ’e p u ra z io n e in I ta lia 1 9 4 3 -1 9 4 8 , Cuneo, L’Arciere, 1988, pp. 275, lire 32.000.
Questo volume inaugura la collana “L’altra storia” diretta da Aldo Alessandro Mola essendo l’epurazione, della quale viene qui tracciato un quadro generale, uno degli argomenti meno studiati in Italia contrariamente agli altri paesi europei che pure subirono l’invasione durante la seconda guerra mondiale. Già negli anni ottanta il compianto Enzo Enriques Agnoletti denunciava lo scarso interesse della storiografia italiana “per l’epurazione dei fascisti dalle leve di comando dello Stato, uno dei nodi fonda- mentali del passaggio dal fascismo al postfascismo [...] come se si volesse liberarsi dal tema con poche osservazioni o col silenzio” (E p u r a z io n e e s ta m p a d i p a r t i to 1 9 4 3-1946 , Napoli, E.S.I., 1982, p. 6). Lo scarso interesse era dovuto, senza dubbio, anche alle difficoltà pratiche di consultare le fonti archivistiche esistenti sull’argomento codificate dal Dpr del 30 set
tembre 1963. Esso, è noto, stabiliva che i documenti di carattere riservato relativi alla politica estera e interna e quelli relativi a situazioni puramente private di persone, divenissero consultabili cinquant’anni dopo la loro data, mentre i documenti dei processi penali settant’anni dopo la loro conclusione. Il fatto poi che il decreto in questione precisasse che “per motivi di studio” la consultazione dei documenti di carattere riservato poteva essere autorizzata dal direttore dell’Archivio di Stato competente, non sollecitava certo gli studiosi ad intraprendere una ricostruzione organica della storia delle sanzioni contro il fascismo. Anche per questo motivo, quindi, le riflessioni offerte dall’autore in questo volume hanno una rilevante importanza storiografica. Esso infatti, pur non colmando la lacuna esistente sull’epurazione, è un contributo originale “al dibattito civile, giacché illumina il lettore, giovane e meno giovane, sulle ragioni profonde del mancato avvento di quella ‘democrazia compiuta’ la cui realizzazione torna ad essere riproposta da quanti non si rassegnano ‘alla finzione della democrazia’”. L’autore, noto studioso dei problemi del secondo dopoguerra, prendendo in esame una vastissima documentazione, italiana e straniera, a stampa e di archivio reperita presso i ministeri degli Interni, degli Esteri, della Marina, presso la Presidenza del consiglio, l’Alto commissariato per l’epurazione e, all’estero, presso il National Archives di Washington e il Foreign Office di Londra, evidenzia come, sia “la ricostruzione” che “la Re
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pubblica” risultarono profondamente condizionate dai modi nei quali venne compiuto il passaggio dal regime fascista alla democrazia. Nei primi capitoli analizza il rapporto tra il personale politico italiano e gli angloamericani, i quali nelle province conquistate cominciarono subito una certa attività epurati- va sospendendo molti funzionari e rinchiudendo in campi di internamento un buon numero di fascisti ritenuti pericolosi. Tuttavia il comportamento degli alleati non fu esente da contraddizioni sia perché, pur avendo previsto nei loro piani la defascistizzazione delle leggi italiane, premessa necessaria ed indispensabile all’epurazione, in effetti essa non fu un problema primario nei piani dell’occupazione militare; sia per il “cauto favore” con cui videro la Resistenza deprecando, a volte, un mutamento di cose troppo radicale nel nostro paese. A questo proposito è forse utile ricordare l’atteggiamento personale di Churchill avverso al movimento partigiano che egli reputava mosso da quel “vento del nord” che gli faceva caldeggiare per l’Italia una “restaurazione” piuttosto che una “liberazione”. Tuttavia, se i primi provvedimenti organici del governo Badoglio sulla defascistizzazione dell’amministrazione dello Stato apparvero nella “Gazzetta Ufficiale” del 29 dicembre 1943, la legislazione di questo periodo, come dice Roberto Battaglia, fu così tumultuosa che per regolare le attività di un solo organo e cioè dell’Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo furono emanati ben undici decreti (G iu s tiz ia e P o li t ic a ,
in D ie c i a n n i d o p o . 19 4 5 -1 9 5 5 , Bari, Laterza, 1955, p. 333). Secondo l’autore, dunque, il fallimento del processo epurativo era già implicito nelle sue origini e il momento decisivo va ricercato, in accordo con Claudio Pavone {A u to n o m ie lo c a li e d e c e n tr a m e n to n e lla R e s is te n za , in R e g io n i e S ta to d a lla R e s is te n z a a lla C o s t i tu z io n e , Bologna, Il Mulino, 1975, pp. 49- 65); Marcello Flores { L ’E p u r a z io n e , in L ’I ta lia d a lla L ib e r a z io n e a lla R e p u b b lic a . Atti del Convegno internazionale organizzato a Firenze il 26-28 marzo 1976, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 413-467); Roberto Battaglia {S to r ia d e lla R e s is te n za ita lia n a - 8 s e t te m b r e 1943-25 a p r ile 1 945 , Torino, Einaudi, 1964) e David W. Ellwood (L ’a lle a to n e m ic o . L a p o l i t i c a d e l l ’o c c u p a z io n e a n g lo -a m e r ic a n a in I ta lia 1 9 4 3 -1 9 4 6 , Milano, Feltrinelli, 1977), che però non cita, nelle deliberazioni legislative del secondo governo Bonomi il quale svolse un ruolo di acceleratore dei tempi di ricostruzione del vecchio apparato statale. L’autore evidenzia inoltre la sperequazione relativa ai soggetti epurabili e alla gravità dei reati creata da quei numerosi decreti legge, sopra ricordati, che smussarono progressivamente l’iniziale severità e sotto- linea la responsabilità avuta nell’intera vicenda dalla burocrazia “padrona dei Ministeri e in grado di far sparire le carte” (p. 105). Nell’ultima parte del libro, in cui esamina il comportamento della magistratura non esente da gravi responsabilità, secondo anche i commenti di Di Vittorio, Neppi Modona, Calamandrei ecc., sostiene che la
principale responsabile della situazione era la classe politica antifascista la quale, lasciando agli organi inquirenti un margine troppo ampio di discrezionalità, permise di fatto che andasse perduta una grande occasione di adeguamento delle istituzioni alle attese dei cittadini e specialmente di coloro che, a prezzo della vita, si erano impegnati per la democratizzazione del paese. Nell’appendice Mercuri ha riportato venti testimonianze secondo l’ordine cronologico con cui gli sono state rilasciate da autorevoli protagonisti dei fatti narrati e vissuti in campi politici diversi come, tra gli altri, Riccardo Bauer, Leo Valiani, Giulio Andreotti, Carlo Ludovico Ragghiami, Umberto Terracini e Max Salva- dori.
Nicla Capitini Maccabruni
Giampaolo Fissore, L a cu ltu ra o p e ra ia n e i g io rn a li d i f a b b r ic a a T o rin o 194 3 -1 9 5 5 , Torino, Provincia di Torino - Assessorato alla cultura (Quaderno di cultura e documentazione n. 4), 1987, pp. 221, s.i.p.
La ricerca condotta da Giampaolo Fissore sui giornali di fabbrica, tradottasi in questo bel volume voluto dall’assessorato alla Cultura della provincia di Torino, si raccomanda alla lettura di chi voglia conoscere più da vicino la realtà del mondo operaio in un grande centro industriale negli anni cinquanta. Anche se giustamente l’autore muove dalle prime esperienze di stampa clandestina collegata alla fabbrica a partire dalla fase
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resistenziale, riconoscendo in essa l’antecedente necessario delle esperienze successive, non va taciuto che questa stampa fino a tutti gli anni quaranta è il prodotto di soggetti politici e sindacali (le federazioni o le organizzazioni territoriali dei partiti, i sindacati di categoria) che interpretano la fabbrica, ma non ne sono l’espressione diretta. È ovvio che anche questa stampa più eterodiretta presenta motivi di interesse indubbi per la ricostruzione storica del periodo, ma certamente non rende che in modo molto marginale la voce degli operai. Non così sarà la vera e propria fioritura di giornali di fabbrica che a partire dal 1951-1952 fino alla metà degli anni cinquanta, con qualche eccezione che si spinge di qualche anno più avanti, vedrà quasi ogni fabbrica di un certo rilievo dotarsi di uno strumento di informazione, con margini di autonomia molto più ampi. Nascono attorno alle testate dei veri e propri comitati di redazione che si sforzano di dare volto e spessore alla specificità di ogni fabbrica. Fissore analizza con attenzione la struttura di questi giornali a partire dagli esperimenti meglio riusciti, che presentano maggiore continuità e ricchezza di contenuti oltre che un buon livello tecnico. Arricchisce il quadro un buon numero di testimonianze e soprattutto un ricco materiale iconografico che rende con efficacia il clima esistente nelle fabbriche e nella città. Un lavoro, insomma, che supera la particolare angolazione con cui viene avvicinato il mondo operaio anche grazie ad un confronto ravvicinato con una
nutrita bibliografia e che presenta notevoli potenzialità di fruizione, non ultima quella di un uso didattico del materiale presentato. Esso ripropone anche alcune domande di fondo a cui non è facile dare risposta: ad esempio, quali siano le ragioni di una fioritura così intensa di stampa operaia e per converso quali le ragioni del suo rapido declino. Indubbiamente gioca la necessità di ricorrere a strumenti che contrastino il senso di accerchiamento che il movimento operaio patisce in questa fase. Nel quadro di un periodo caratterizzato dall’accentramento politico ed organizzativo una maggiore apertura all’espressione dal basso sul piano politico culturale può essere visto come un utile contrappeso. La brevità della stagione va imputata probabilmente a due ordini di ragioni: una più immediata, che l’autore suggerisce, e che risale allo stravolgimento che ristrutturazione produttiva e repressione padronale inducono nella struttura organizzativa aziendale coinvolgendo le redazioni dei giornali di fabbrica. Ma probabilmente pesa anche un fattore di ordine più generale ed è la rapida obsolescenza dello strumento giornale di fronte alla rapida trasformazione delle forme della comunicazione di massa. Se il giornale operaio può contrastare con una certa efficacia il predominio della stampa di altra ispirazione, esso risulta spiazzato dall’affermarsi proprio in quegli anni della televisione. Si apre qui un problema nella gestione della comunicazione a cui il movimento operaio non riuscirà a dare risposte adeguate, visibile segnale (è il
caso di dirlo) della svolta ‘epocale’ che il paese conosce negli anni cinquanta.
Claudio Dellavalle
Giuseppe Avolio, L ’utopia dell ’unità - l ’azione della sinistra per una nuova società, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 172, lire20.000.
Nella memorialistica sugli anni della Repubblica spicca la narrazione di quest’uomo politico e sindacalista, proveniente dal Mezzogiorno, ora noto come presidente della Confcolti- vatori. Queste pagine sono utili anzitutto come fonti per la storia del movimento operaio e contadino in Campania (pp. 20- 22, 25-31, 38-44). Più inediti i dati su alcune vicende interne del “primo Psiup” e del Psi dal 1945 al 1963: Avolio fu un esponente della cosiddetta corrente bassiana, che ebbe parte rilevante nel mondo socialista, in varie vesti, sia quando Lelio Basso fu segretario del Psi (1947-1948), sia nel lungo periodo di opposizione interna contro la maggioranza filosovietica, e infine durante e dopo il congresso di Venezia (1957), che rivendicò l’autonomia del partito. Le pp. 99-109 sono un breve e denso saggio sul pensiero dello stesso Basso, questa volta in stile non memorialisti- co. La storia del “secondo Psiup” (1963-1972), del quale Avolio fu importante esponente, è altresì molto documentata (pp. 67-88). Una lettera inedita di Fernando Santi (p. 76) testimonia della convergenza dei socialisti di vario schieramento,
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tra di loro e con la posizione ufficiale del Pei, contro l’ala filo- brezneviana del Psiup (Vecchietti-Valori) a proposito della liquidazione della cosiddetta primavera di Praga (agosto 1968).
L’ultima parte del libro è di attualità politica, e sarà in futuro citata come una delle fonti del sincero interesse anche di alcuni socialisti iscritti al Psi per la “fase costituente” avviata dalla svolta del Pei ai giorni nostri. Il libro è utile, sempre a livello di fonte, anche per i moltissimi nomi annotati, per varie informazioni su di essi e per intrecci di vicende umane e politiche. Quando si scriveranno note biografiche o vere monografie su alcuni di questi uomini della politica e della cultura, socialisti, comunisti, ma anche demo- cristiani, si dovrà partire anche da qui. L’autore, talvolta aspro nella lotta politica, appare pervaso qui da una sorta di benevolo ecumenismo di sinistra, che lo porta a “smussare gli angoli” e ad esprimere giudizi talvolta a nostro avviso perfino troppo benevoli su alcune persone; tralasciando i viventi, segnaliamo per esempio una sopravaluta- zione di Guido Mazzali, esponente socialista milanese (p. 49).
Emanuele Tortoreto
Nicola Tranfaglia (a cura di), C ris i so c ia le e m u ta m e n to d e i va lo r i. L ’I ta l ia n e g li a n n i se s sa n ta e s e t ta n ta , Torino, Tirre- nia Stampatori, 1989, pp. 294, lire 25.000.
Il volume raccoglie una serie di lezioni, tenute da vari studio
si, all’interno del corso universitario di Storia contemporanea condotto da Tranfaglia nell’anno accademico 1988-1989. Oltre agli interventi del curatore troviamo quelli di Luigi Bonanate, Gian Carlo Jocteau, Paride Ru- gafiori, Sergio Scamuzzi, Elisa- betta Benenati, Maurilio Guasco, Giovanni De Luna, Lidia De Federicis, Luisa Passerini, Gianni Rondolino, Peppino Ortoleva, Marco Revelli. Gli argomenti spaziano dai problemi economici a quelli internazionali, dalla crisi dei partiti e dei sindacati all’emergere di nuove soggettività e al ricomporsi della struttura sociale, dall’analisi delle trasformazioni di alcune istituzioni ‘forti’, come la magistratura o la chiesa, a quella sul ruolo dei media, cinema e televisione, in questa congiuntura storica.
Il volume si apre con un intervento di Tranfaglia sul sessantotto e gli anni settanta nella politica italiana, per chiudersi, alla fine di uno stimolante percorso di ricerca con due saggi, di Ortoleva e di Revelli, sulle due ‘generazioni’ che caratterizzano gli avvenimenti politici e sociali italiani dell’ultimo ventennio: quella del sessantotto, contrapposta a quella del setttantasette.
Alcune rapide osservazioni proprio su questi interventi, pur tenendo conto che essi rimandano a lavori già effettuati o in corso. Le tesi di Tranfaglia sulla nascita del sessantotto e il suo legame con l’esaurirsi dell’esperienza politica del centro-sinistra sono note. Certo è che questa chiave interpretativa sembra in contraddizione con quanto lo stesso Tranfaglia afferma nella premessa del libro. Sottolinean
do l’assenza dell’aggettivo politico nel titolo del volume afferma che: “è nostra convinzione che la caratteristica centrale della crisi che stiamo ancora attraversando sia proprio quella di una ‘rivoluzione’ che avviene malgrado la paralisi o meglio l’immobilismo del sistema politico” (p. 9). Questa affermazione, che personalmente mi sento di condividere in pieno, appare però sminuita dall’attenzione, in alcuni casi esclusiva, rivolta agli attori politici p a r ex ce llen ce , partiti, sindacati, nelle loro dinamiche di potere e di elaborazione di strategie. Indubbiamente Tranfaglia parla di una profonda cesura che, a metà degli anni settanta, introduce a una fase di totale divaricazione tra l’agire politico e le trasformazioni nel sociale e nell’economi- co. Quello che però mi sembra non messo sufficientemente in luce è la preesistenza di pulsioni, comportamenti, rivendicazioni che poi, in Italia, hanno la loro prima grande manifestazione pubblica nel movimento del set- tantasette. Questa centralità degli strumenti di analisi di tipo politico, a mio parere, risalta anche nell’approccio al problema del terrorismo e del suo rapporto con il sessantotto e i movimenti sociali conflittuali. Quello che qui posso solamente accennare è che non bastano le pur corrette analisi sulle differenze politiche abissali, tra la scelta della lotta armata e quella del movimento del sessantotto. Senza altre categorie interpretative, sociologiche, antropologiche e psicologiche, si perde l’intreccio estremamente profondo tra una parte della cultura dei movimenti e la violenza armata. Nessuna
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derivazione meccanica, cara a tanti ‘contestatori pentiti’, ma il problema di un patrimonio culturale e comportamentale comune esiste realmente e come tale andrebbe studiato.
Saltando alla parte conclusiva del libro, un problema di fonda- mentale importanza per la storiografia contemporanea viene affrontato: l’utilizzo e quindi la chiarificazione concettuale della categoria “generazione”. Ortoleva lo affronta direttamente, mentre Revelli lo fa in modo obliquo, cogliendo alcune delle novità nei comportamenti dei partecipanti al movimento del settantasette. Non è questa però la sede per affrontare un nodo teorico di tale portata, rispetto al quale, questo libro offre sicuramente spunti di riflessione fecondi, che si inseriscono in un più ampio dibattito.
Marco Grispigni
Diego Novelli e Nicola Tran- faglia (a cura di), Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Milano, Garzanti, 1988, pp. 402, lire 26.000.
Il volume riunisce, con i saggi introduttivi di Diego Novelli e Nicola Tranfaglia, le storie di vita di diciotto ex terroristi già appartenenti a Prima linea, uno dei gruppi terroristici della seconda generazione composto per lo più da giovanissimi, e alle Brigate rosse. Raccolte nel seminario svolto da Tranfaglia dall’agosto 1985 al dicembre 1987 nel carcere torinese delle “Nuove”, le testimonianze si propongono di ricostruire le esperienze politiche dapprima compiute da alcuni tra gli attori
del partito armato e “le ragioni che hanno contribuito al passo definitivo in direzione della violenza organizzata” (p. 227).
Taluni nodi e non poche questioni restano insoluti o sono lasciati tra parentesi dai partecipi alla lotta armata, sebbene i loro interventi aiutino a far capire il clima socioculturale all’origine del fenomeno terroristico, nonché i legami e le ascendenze che i militanti nell’area dell’Autonomia avevano con il movimento operaio, con l’ideologia e le parole d’ordine dei gruppi di estrema sinistra formatisi nei primi anni settanta. Diego Novelli (sindaco di Torino dal 1975 al 1985, e attualmente deputato del Pei alla Camera) ammette di essersi rifiutato, al verificarsi delle prime gesta delle Brigate rosse, “sbagliando (come tanti comunisti), di considerare di sinistra gli autori di quelle operazioni”, aggiungendo anzi di avere continuato a definirle come giornalista “le cosiddette Brigate rosse” che “di rosso non hanno proprio niente” (p. 41).
Il rosso invece si addiceva a frange e gruppi politicamente cresciuti nel partito comunista, nel fronte variegato delle organizzazioni sindacali confederali e degli stessi lavoratori cattolici o socialisti. La tecnica di azione sul sociale adottata dai gruppi extraparlamentari e dell’autonomia operaia costituisce almeno alPinizio la radicalizzazione di una prassi di attacco che si rivolgeva contro i tradizionali bersagli dei partiti e movimenti di sinistra, cioè contro i fascisti, il padronato sordo ai costi sociali assai elevati della tumultuosa crescita economica degli anni sessanta, e le forze reazio
narie genericamente intese. Ha sostenuto Marco Fagiano (esponente fino al termine del 1976 di Lotta continua, poi passato all’area dell’Autonomia, che a Torino si identifica nel giornale “Senza Tregua”): “I riferimenti politici diventavano: la minoranza operaia, i cortei interni che spazzavano i reparti di Mi- rafiori, le ‘ronde proletarie’ nei quartieri, gli espropri nei grandi magazzini [...]. L’immagine di cosa intendo credo possa essere rappresentata dal corteo di10.000 studenti a Torino, durante il quale vennero incendiati l’Associazione monarchica e l’Hôtel Suisse di via Sacchi. La pratica della violenza era diretta contro i fascisti e quindi l’approvazione, la legittimazione, sembravano naturali” . Dai cortei armati si trascorre nel 1977 “ai discorsi più progettuali, che affiancavano alla spontaneità un livello più organizzato dove prendevano corpo operazioni dirette contro obiettivi che venivano scelti in quella fase a ridosso delle grandi mobilitazioni. [...] Si cercava di legare l’operazione del piccolo gruppo alle tensioni sociali esistenti” (pp. 292-293).
Accanto agli stravolgimenti di un antifascismo svuotato delle idealità originarie e piegato a copertura della lotta armata contro un nemico sempre e ritualmente tacciato di fascista si affaccia con Vescalation terroristica il referente marxista-leninista. Le Brigate rosse si rifanno in particolare al leninismo, da esse riletto come ideologia di lotta armata finalizzata ad abbattere lo stato imperialistico delle multinazionali, cominciando con il colpire quei diri
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genti politici e industriali, giornalisti, magistrati, alti funzionari o servitori subalterni dello Stato che assolvano con intelligenza, senso del dovere, con dignità compiti e ruoli scelti o loro assegnati. Così va dato atto alle masse lavoratrici di non avere ceduto alle scorciatoie illusorie dell’attacco al cuore dello Stato e di avere respinto s lo g a n s metodi e obiettivi della lotta armata.
Bisogna infine apprezzare, senza dimenticare le responsabilità del passato, l’esigenza di recupero espressa da Fagiano e da molti altri suoi compagni per i quali la dissociazione ha significato “il rifiuto di logiche totalitarie” e la conquista tormentata di una nuova consapevolezza di sé e degli errori commessi. Il seminario condotto alle “Nuove” da Nicola Tranfa- glia e il libro che ne è scaturito in collaborazione con Diego Novelli testimoniano di una volontà di confronto e di socializzazione dei giovani ex terroristi che va correttamente interpretata e favorita.
Giancarlo Bergami
Giuseppe Fiori, V ita d i E n r ic o B e rlin g u e r , Bari, Laterza, 1989, pp. 532, lire 30.000.
Con questo volume Giuseppe Fiori, già autore di una V ita d i G ra m sc i (Bari, Laterza, 1966) e di Emilio Lussu (I l c a v a lie re d e i R o ss o m o r i. V ita d i E m ilio L u s su , Torino, Einaudi, 1987), ha completato una trilogia di uomini della Sardegna che, diversi tra loro ma uniti da un fine comune, hanno svolto un ruolo
importante nella storia del nostro paese. Basandosi su una ricca e variegata quantità di fonti archivistiche e bibliografi- che, di numerose testimonianze di protagonisti delle vicende narrate in cui l’analisi prevale sul racconto, di un diario inedito di una zia di Enrico Berlinguer, Ines Siglienti, usate con equilibrio e con la rara capacità dello scrittore di razza, che tutti gli riconoscono, Fiori collega il ‘personale’ di Berlinguer con i dibattiti, i contrasti, le posizioni politiche che si intrecciarono con la sua esperienza storica dalla quale non emerge però la complessità dei problemi che erano all’origine di quei dibattiti, di quei contrasti e di quelle posizioni politiche. I primi capitoli riguardano l’infanzia e l’adolescenza di Enrico e ci introducono nella Sardegna degli anni quaranta, la cui agricoltura arrivò al collasso nel novembre del 1943 quando l’isola, separata sia dai tedeschi che occupavano l’Italia centrosettentrionale, Roma compresa, sia dagli angloamericani che avevano liberato il Mezzogiorno, doveva badare a se stessa e ai “più di150.000 soldati non sardi che vi si trattenevano come ingabbiati” . E fu appunto, nei primi giorni di gennaio del 1944 che avvennero a Sassari i “tumulti per fame” di cui fu ritenuto “istigatore e maggiore responsabile” Berlinguer, segretario del movimento comunista giovanile, che venne arrestato. Era figlio di Mario, noto penalista, discendente da una famiglia della piccola nobiltà agraria e professionale sarda, il quale, ex deputato dell’Unione amendolia- na nel 1924 e leader del Pda,
era rimasto in contatto con l’ambiente romano dove vivevano numerosi suoi parenti ed amici che si incontravano ogni venerdì nel salotto della sorella (zia Ines), sposata all’avvocato Stefano Siglienti (zio Fanuccio), vice direttore del Credito fondiario sardo. A quegli incontri settimanali partecipavano anche noti intellettuali il cui antifascismo, seppure “nutrito più di dignitosa estraneità che di solerte opposizione al regime”, costituiva però l’elemento naturale in cui crescevano i ragazzi Berlinguer che si ritrovavano a Roma durante le vacanze estive. Enrico trascorse la fanciullezza in una casa “marcata dal dolore” per la grave malattia della madre che perse a 14 anni e che rese difficile la sua formazione: scarso rendimento scolastico fino alla terza liceo; passione per il gioco delle carte ed amicizie “con uomini fatti, dal passato di confino e di galera”.
Soltanto gli studi universitari, intrapresi nel 1940, riaccesero i suoi interessi culturali e riportarono l’equilibrio nella sua vita disordinata. Forse fu una nuova concezione della lotta politica più che “l’impegno esclusivo” dello studio di cui parla Fiori, a impedirgli di intervenire sul primo numero del periodico pubblicato dal “Comitato unitario di concentrazione antifascista” che uscì alla macchia il 3 giugno 1943 per iniziativa di suo padre, e a fondare, nel novembre, quel movimento giovanile comunista che la questura ritenne responsabile dei “tumulti per fame”, per i quali venne arrestato. I cento giorni di detenzione nel carcere di San Sebastiano (uscì il 23 aprile 1944) lo riconferma
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rono nel proposito “di fare del lavoro nel partito”, come disse a Togliatti che incontrò fuggevolmente nel giugno a Salerno dove era suo padre nominato da Badoglio “Alto commissario aggiunto per la punizione dei delitti fascisti” e che, per la morte a Sassari dell’altra sorella (zia Lidia), si trasferì definitivamente a Roma nel settembre. Enrico cominciò allora il proprio apprendistato politico e burocratico come segretario nazionale del Fronte della gioventù che rappresentò al Festival della Federazione giovanile comunista internazionale di Berlino nell’agosto del 1951. Fiori segue il suo cursum honorum e ne evidenzia sia le qualità umane: fede negli ideali comunisti, concezione alta della politica, lealtà verso gli avversari e i compagni di partito; sia le difficoltà che incontrava mano a mano che si avvicinava al vertice del partito. Infatti, nonostante la posizione centrista assunta di fronte agli avvenimenti internazionali ed al polarizzarsi del contrasto nel partito fra una sinistra ed una destra facenti capo rispettivamente a Pietro In- grao e a Giorgio Amendola, dopo l’ottavo Congresso (1957), quando uscì dalla Fgci, non entrò a far parte del quadro dirigente rinnovato. Gli venne affidata, invece, la direzione della scuola di partito alle Frattoc- chie e, successivamente, la segreteria regionale di Cagliari. Con la sua nomina a vicesegretario del partito (15 febbraio 1969) e subito dopo a segretario generale, a cui Fiori dedica la maggior parte del libro, la biografia diventa storia del Pei vista però dal vertice, secondo
l’ottica del suo segretario che ha saputo coniugare impegno politico con capacità di analisi e intuizioni tali da renderlo protagonista della vita politica italiana nei drammatici anni settanta e nei primi anni ottanta dei quali l’autore fornisce una cronaca ampia e docunrentata secondo la prassi del migliore giornalismo anziché quella della storiografia professionale. La narrazione e la ricostruzione degli avvenimenti, di alcuni dei quali Fiori svela retroscena inediti, gli servono per mettere a fuoco la personalità del suo eroe: un “comunista atipico” che non ha potuto mai dare prova di sé nel governo del paese, un fine che ha tenacemente perseguito sia con il “compromesso storico” che con “la questione morale” dopo che l’assassinio di Moro e la morte di La Malfa interruppero quella breve stagione di comunicazione e di intesa con i comunisti. Appare perciò evidente l’intento dell’autore di sottolineare l’irreperibilità e la linearità di una vita improvvisamente interrotta il 9 giugno 1984: Berlinguer fu infatti colpito da un ictus cerebrale mentre pronunciava un discorso in difesa della democrazia e delle istituzioni democratiche “ferite dai tagli alla scala mobile per decreto del governo Craxi”, l’uomo che per timore del “sorpasso comunista” aveva fatto vivere mesi di grande tensione all’ “antisocialista settario”, ripetutamente fischiato I’l l maggio 1984 alla festa in onore di Craxi, segretario e presidente del Consiglio dei ministri.
Nicla Capitini Maccabruni
Franco Pedone, Novant’anni di pensiero e azione socialista attraverso i congressi del Psi 1984-1987, vol. VI, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 500, s.i.p.
Il sesto volume di questa nota opera racconta altri due congressi del Psi, il 43°, Verona 1984, e il 44°, Rimini 1987. Le date sono recentissime; vi è continuità fisica e politica di quasi tutti i protagonisti degli eventi di allora e di oggi; vi è il mancato oggettivo scioglimento di molti problemi (lo documentano, non foss’altro, le tesi congressuali, pubblicate rispettivamente alle pp. 17-101 e 228- 289). Pedone riesce tuttavia a sistemare questi elementi ‘antistorici’, adottando lo stesso utile stile dei primi cinque volumi, che parlavano invece di congressi antichi o comunque ridisegnati dal tempo.
Ma se la narrazione e i resoconti sono obiettivi, ogni giudizio del lettore trasborda inevitabilmente dall’uso storiografico al giudizio politico. L’assenza di un vero dibattito congressuale emerge dalla ripetitività anche lessicale dei discorsi, nonché dalla genericità di molte motivazioni e proposte. Anche questi atti congressuali, dunque, come gli altri documenti politici, sono fonti su cui è necessario esercitare rapidamente la critica fondata su fatti, ad incominciare da quelli coevi compiuti dallo stesso Psi e soprattutto dal suo segretario.
Emanuele Tortoreto
Fulvio De Giorgi, La storiografia di tendenza marxista e la
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s to r ia lo c a le in I ta lia n e l d o p o g u erra . C ro n a c h e , vol. I, Milano, Vita e pensiero, 1989, pp. XIV-180, lire 28.000.
L’interesse della storia di tendenza marxista per la storia locale (“quell’ambito — scrive l’autore — che si colloca al di sotto del livello nazionale, ma al di sopra dell’individuo o della famiglia”, di cui si può far storia come di una cellula di un organismo più complesso o indagandolo in se stesso, “nella sua vita interna, nelle dinamiche storico-sociali endogene”) è l’occasione per una puntuale e profonda riflessione storiografica, che è qualcosa di più di una “cronaca culturale” di un quarantennio, come De Giorgi definisce il suo lavoro.
L’intero dibattito storiografi- co, non solo l’opera degli storici maggiori, è qui proiettato sullo sfondo della vicenda complessiva, culturale, politica e sociale dell’Italia repubblicana. Ne vien fuori un ottimo esempio di “storia sociale della storiografia”, di una “storia della storiografia dal basso”. Nell’ambito di questo percorso di ricerca e sempre assumendo il fulcro problematico della storia locale, De Giorgi individua tre periodi: gli anni 1945-1956, di grande fioritura delle ricerche di storia locale (si pensi all’attività della rivista “Movimento operaio” e alla pubblicazione della ricerca di Ernesto Ragionieri su Sesto Fiorentino); il 1956-1958, dell’eclisse del tema, a vantaggio della storia delle strutture e dello Stato; e, infine, il ritorno alla storia locale, a partire dagli anni settanta, nell’ambito della crisi del marxismo e, più in generale, della ‘ragionestorica’.
In quest’ultima fase, la grande fortuna della storia locale, non solo nella forma della microstoria, è dovuta per l’autore alla possibilità che essa offrirebbe alla storiografia di cui tratta per una “indolore fuoriuscita di sinistra dal marxismo” . È una fase questa, di nuova attenzione per la storiografia sociale (si pensi da un lato a “Quaderni Storici”, dall’altro a “Movimento operaio e socialista”). All’interno di questa scansione cronologica De Giorgi distingue due filoni principali. Il primo, “socialista” o ra d ic a i, caratterizzato da un’attenzione forte per le classi subalterne, per la loro vita e la loro cultura, assume la dimensione locale come costitutiva; il secondo, “comunista”, esprimerebbe prevalentemente una storiografia ‘dall’alto’, in cui la storia locale non è che “verifica empirica, nel piccolo, dello schema generale”.
Gli scenari più recenti, entro i quali si delinea una nuova eclisse della storia locale, tra “rimozione” del marxismo e più generale crisi dello storicismo, sono scenari di “ragione storica debole”, fondata sul lavoro storiografico come professione, ma “con un secco deficit etico politico”, commenta De Giorgi; scenari — aggiungiamo noi — tra i quali non è difficile scorgere i segni non equivoci di nuove ideologie.
Saverio Russo
Claudio Tonel (a cura di), T ries te e la su a s to r ia , Trieste, Dedalo, 1989, pp. XV-206, lire20.000.
Frutto del quarto seminario tenutosi nell’estate 1985 presso
l’Istituto di studi comunisti Emilio Sereni, questo volume raccoglie contributi articolati su un arco di tempo limitato e svolti intorno ad un tema specifico: i rapporti tra i comunisti e le altre forze democratiche (partiti ed associazioni) dagli anni dell’immediato secondo dopoguerra fino alla nascita, nel 1975, di una delle più note liste civiche d’Italia (la “Lista del Melone”). In questo caso la riflessione è condotta in larga parte da intellettuali ed uomini politici non comunisti, che non di rado sono stati protagonisti di primo piano delle vicende narrate: un segnale positivo in una città in cui — stando alle stesse parole di uno dei relatori (Fabio Marchetti, C a tto lic i e c o m u n is ti a T ries te : 1945-1975) — la cultura della separatezza e della contrapposizione frontale è tuttora quella che meglio attecchisce. La paura di aprire un confronto troppo radicale, tuttavia, serpeggia: non per nulla anche in questa circostanza il dibattito svoltosi nel corso del seminario non è trascritto, bensì sunteggiato da Claudio Tonel (pp. V-XV) che ribadisce con forza il punto di vista dei comunisti triestini, con un corredo di accuse e difese che hanno il sapore d’altri tempi.
A metà strada tra la testimonianza e l’impegno per una ricostruzione storica più complessa, le relazioni svelano comunque scenari nuovi e spesso inesplorati. Penso soprattutto al contributo di Marchetti ed a quello, quasi complementare, di Stelio Spadaro, C o m u n is ti e c a tto l ic i a T ries te : 1 9 4 5 -1 9 7 5 : per concorde giudizio di entrambi, quel rapporto conosce nella Trieste
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del secondo dopoguerra, ritmi e modalità diverse rispetto al resto d’Italia. Della sensibilità e della preoccupata attenzione verso la “questione cattolica” presente nelle elaborazioni di Gramsci e di Togliatti, nulla viene ereditato dai comunisti giuliani: è una storia di “reciproche sordità” — scrive Spa- daro — che ha radici profonde nella stessa cultura di tipo laico e liberale largamente diffusa tra tutti gli strati sociali del centro urbano (pp. 64-65).
Il mondo cattolico con la rete delle sue organizzazioni e sotto la guida di un’imponente figura vescovile acquista rilievo infatti — osserva giustamente Marchetti — solo nel corso del secondo conflitto mondiale e soprattutto a partire dal 1945 quando esso diventa “punto di riferimento e guida nella città” anche sul terreno della lotta anticomunista e della battaglia patriottica e nazionale: di certo non si tratta di un fenomeno isolato nell’Italia d’allora, singolare è semmai la profondità del divario con la precedente realtà della presenza cattolica a Trieste. Il ruolo di prestigio così acquisito segna per lungo tempo anche l’identità del mondo cattolico locale: solo attraverso una lunga serie di lacerazioni interne esso sarà in grado di affrontare nuovi percorsi (F. Marchetti, p. 23 e passim).
Al riguardo è significativo il fatto che il primo grave colpo alla monolitica unità cattolica sia stato inferto non tanto da problematiche di carattere religioso od ecclesiale (sono gli anni del concilio Vaticano II) quanto piuttosto dalla mai ri
solta “questione nazionale”: nel 1965, la Curia giunge a sconfessare apertamente l’operato della De per aver accettato — nel quadro degli accordi per la formazione del centro-sinistra a Trieste — l’ingresso di un esponente politico sloveno nella Giunta comunale (v. allegato n. 2 di p. 46). Sullo sfondo di questa realtà sociale, politica e culturale “da trincea” (le voci diverse sono poche: cfr. l’esperienza della rivista “Trieste”, ricordata, forse in modo troppo riduttivo, da Giorgio Cesare), la tardiva nascita, nel 1965, del centro-sinistra nella città giuliana viene indicata come un momento decisivo di svolta.
Nel suo saggio, I l C e n tro -s in is tra a T r ie s te , Guido Bùtteri, che in quegli anni fu segretario provinciale della De, parla di “strategia alternativa” rispetto alla linea della tradizione libe- ral-nazionale volta a “perpetuare lo scontro nazionalistico”. Si tratta di una valutazione capace di accendere ancora polemiche nel “pianeta comunista” (ricordo la premessa di Tonel al volume): alcune sollecitazioni a non formulare solo sentenze di condanna e di rifiuto (v. la relazione di Spadaro) aprono tuttavia la strada ad un giudizio più equilibrato, sulla scorta di quanto la storiografia locale più avveduta ha già da tempo messo in evidenza (cfr. Giampaolo Valdevit, D e m o c r a z ia c r is tia n a e q u e s tio n e n a z io n a le : d a l “b lo c c o n a z io n a le ” a l c en tro -s in is tra , in Aa.Vv., N a z io n a lism o e n e o fa sc ism o n e lla lo t ta p o l i t ic a a l c o n f in e o r ie n ta le 194 5 -1 9 7 5 , Trieste, Editoriale Libraria, 1977).
Anna Maria Vinci
Claudio Tonel (a cura di), S to r ia e a t tu a li tà d i T rie s te n e lle r if le s s io n i d e i c o m u n is ti , s.l., Salemi, 1985, pp. XII-464, lire12.000.
A partire dal 1981 e fino al 1986 si sono svolti con scadenza annuale, presso l’Istituto di studi comunisti Emilio Sereni di Cascina (Pisa), cinque seminari sulla società triestina ed in particolare sulla storia del partito comunista a Trieste dalla sua fondazione al secondo dopoguerra. Ne è stato promotore Claudio Tonel, dirigente comunista giuliano e già vicepresidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, che non solo è riuscito a coinvolgere militanti, studiosi ed esponenti di prestigio del partito (o comunque afferenti all’area comunista), ma anche ad aprire un dibattito a più voci, con interlocutori di diverso orientamento ideologico.
La pubblicazione di ben sette volumi, che fanno perno su quella iniziativa, rappresenta già di per sé un evento politicoculturale col quale il confronto è d’obbligo, qualunque sia la valutazione storiografica che si voglia poi formulare sul complesso dell’opera.
Il libro che qui si presenta completa, secondo le affermazioni del prefatore Claudio Tonel, la “trilogia” interamente dedicata al partito comunista a Trieste: segue infatti a C o m u n is t i a T ries te . U n ’id e n ti tà d i f f ic i le , Roma, Editori riuniti, 1983 ed a D a lla L ib e ra z io n e a g li a n n i ’80 . T rie s te c o m e p r o b le m a n a z io n a le , s.l., Salemi, 1984, che in questa sede possono essere solo brevemente richiamati. Da un semplice esame degli indici
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appare tuttavia subito evidente che nessuna organica ripartizione di argomenti, né secondo un ordine temporale né secondo una gerarchia di problematiche, è stata decisa in rapporto alle tre pubblicazioni. Esse riflettono innanzitutto il lavoro seminariale che sta a monte, senza la preoccupazione di giungere ad una sistematica ricostruzione degli eventi: a maggior ragione, perciò, la mancata trascrizione del dibattito svoltosi nel corso delle giornate di studio si avverte come un’assenza ingiustificata.
L’impegno — si sottolinea nella premessa al terzo volume (p. 4) — è di spezzare con l’aiuto della ricerca storica e dell’a- gire politico quel processo di “pietrificazione” del passato che nella città giuliana, da più parti, continua ad essere alimentato: “[a Trieste] ci si trova— scrive Claudio Magris con felice intuizione (Itaca e oltre, Milano, Garzanti, 1982) — in un ‘collage’ in cui niente si è trasferito al passato [...] in cui tutto è presente, aperto e acerbo [...]: impero asburgico, fascismo e Quarantacinque”.
In realtà, sono i grossi nodi problematici irrisolti, sopravvissuti a vicende quanto mai laceranti, a creare la sensazione del “non-tempo triestino”. La cultura della convivenza tra italiani e sloveni, ad esempio, resta ancora pura ipotesi verbale: essa non può nascere del resto— suggerisce Tonel (p. 3) — sul terreno di una memoria offuscata.
La relazione di Fausto Mon- falcon, Aspetti del neofascismo a Trieste nel dopoguerra, restituisce appunto il clima di quella “guerra di religione” che, ap-
appena voltate le spalle all’esperienza nazifascista, spacca la città in due schieramenti contrapposti. Da una parte stanno “i difensori dell’Italianità e della Patria”, cui si aggregano ex collaborazionisti ed ex fascisti, passati indenni attraverso i processi di epurazione, e le nuove leve di giovani neofascisti: di tale violenta forza d’urto (da far pesare sul tavolo delle trattative di pace) non pochi democratici sono insieme pronubi e vittime. Sull’altro versante si pongono “gli slavo-comunisti”, “Panti-Ita- lia” : non c’è (e non si cerca) lo spazio per voci diverse, come quella pur flebile ed isolata dell’antifascismo democratico ancora operante (p. 239).
Il contributo di Franco Del Campo e Stelio Spadaro, I comunisti e le organizzazioni culturali della sinistra a Trieste: dalle separatezze alla cultura della convivenza, ricorda — attraverso una rassegna delle iniziative culturali promosse dai comunisti e dalla minoranza slovena — la storia di altre lacerazioni: principalmentequella provocata nel 1948 dalla risoluzione dell’Ufficio informazioni del Cominform con la recisa condanna del partito comunista jugoslavo. Sul piano locale non si trattò — sostengono gli autori (pp. 176-177) — di approvare una decisione che riguardava un paese lontano: “allora, la spaccatura a sinistra passò dentro i circoli, le famiglie, gli amici, mise in contraddizione e toccò le convinzioni più profonde, sul piano politico-ideologico e su quello emotivo”. Nel saggio affiora (p. 181) tuttavia anche
il dubbio (che potrebbe rivelarsi una feconda ipotesi di ricerca) che tale contrapposizione non sia stata un semplice “affare delle sinistre”, ma abbia inciso a largo raggio, approfondendo vieppiù in quegli anni arroventati il solco di divisione tra italiani e sloveni nella Venezia Giulia.
Con l’articolo di Sergio Ranchi e Marina Rossi Contributo per una storia de “Il Lavoratore": dalla conquista del suffragio universale alla crisi del riformismo austro-marxista (1907-1914), la macchina del tempo si sposta ancora all’in- dietro per far capire come il travaglio della questione nazionale sia componente essenziale della storia giuliana fin dal tardo Ottocento. Con un lavoro di ricerca molto attento e preciso, gli autori ricostruiscono i percorsi culturali, i convincimenti ideologici, le battaglie e le contraddizioni dei socialisti triestini di inizio secolo alla ricerca di soluzioni e di idee da opporre alla marea montante dei nazionalismi.
Nelle relazioni (Silvano Ba- cicchi, Mezzo secolo di partecipazioni statali nella Venezia Giulia-, Mario Colli, Come si è arrivati alla costituzione della regione autonoma Friuli Venezia Giulia) che si occupano del problematico rapporto tra Trieste e la realtà statuale italiana e delle vicende relative al declino economico del territorio giuliano, i temi del dibattito politico prevalgono sullo sforzo d’analisi storica: non ci sarebbe ovviamente nulla da obiettare se esse non fossero a volte troppo succubi del noto adagio “heri dicebamus” e se non usassero strumentalmente
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— come in qualche momento avviene — i frutti di una ben più articolata ricerca storiografica ai fini di proposte politiche date per buone in partenza. Interessanti infine, per quanto tutti già editi, i documenti raccolti alla fine di ogni saggio.
Anna Maria Vinci
Claudio Tonel (a cura di), T ries te c o s ì c o m ’è , Trieste, Dedalo Libri, 1988, pp. 244, lire20 . 000 .
Il volume comprende, per la maggior parte, i saggi discussi al quinto seminario organizzato nel 1986 presso l’Istituto di studi comunisti Emilio Sereni. I contributi sono raggruppati intorno a tre aree tematiche distinte: impressioni su Trieste a trent’anni dal ritorno allTtalia; la cultura della convivenza tra italiani e sloveni nella Venezia Giulia; Trieste vista “dall’esterno” e cioè dagli altri della regione, gli udinesi, i camici, i pordenonesi, i goriziani. L’obiettivo di provocare la discussione “fuori dai miti, dalla retorica e dai luoghi comuni” mi pare sia stato messo a segno in questo caso più e meglio che negli altri: della “storia e della cronaca di Trieste” emergono infatti interpretazioni assai differenziate che mettono a nudo anche motivi di scontro politico.
Sulle cause del decadimento economico della città, ad esempio, a partire dagli anni del governo militare alleato e fino ai giorni nostri, tra il sindacalista Roberto Treu, P e rc h é se m p re è tu t to p iù d if f ic i le e l’imprenditore Federico Pacorini, L a s p e
ra n za le n ta m e n te s i f a re a ltà il dissenso è evidente: suscita polemiche soprattutto il ruolo giocato dall’imprenditoria privata in rapporto all’iniziativa industriale delle partecipazioni statali ed in relazione alle politiche governative messe in atto per risanare l’economia giuliana. Se ne traggono utili informazioni e si viene a conoscenza dei progetti per il futuro sui quali i punti di contatto tra i due relatori sembrano essere più numerosi: l’unico rammarico è che l’intera vicenda non venga commisurata con le trasformazioni economiche (si veda, ad esempio, la ristrutturazione del settore della cantieristica e della navalmeccanica) che negli anni cinquanta e sessanta si verificano su scala ben più ampia di quella regionale. Il rischio della “lamentazione localistica”, nonostante il gran parlare di una dimensione nazionale ed internazionale del “problema Trieste”, è infatti sempre in agguato anche per gli osservatori più attenti e guardinghi.
Spregiudicata, d’altro canto, la relazione di Giuseppe Petronio, In te lle t tu a li f u o r i d a lla s t o ria?: essa prende di mira senza mezzi termini non solo il “mito della triestinità” di cui per anni si è fatta portabandiera la ben nota “Lista del Melone” — alimentando “fumose brume culturali” associate ad un profondo qualunquismo politico —, ma anche quella visione nostalgica e decadente della realtà triestina che le bellissime pagine di Claudio Magris hanno reso famosa in Italia ed all’estero (p. 19).
Petronio, usando volutamente espressioni non più di “grido” (ma ancora ricche di molte
potenzialità), sottolinea invece innanzitutto l’importanza di una storia della cultura che spieghi fenomeni non puramente e semplicemente letterari ed in secondo luogo l’urgenza di una “politica culturale” che apra discussioni e confronti ai più diversi livelli della società locale: solo così Trieste potrà liberarsi dal “pesante cadavere” e dagli evanescenti spettri del suo passato.
I rapporti tra italiani e sloveni, visti da angolature diverse ed interpretati con strumenti metodologici inconsueti, costituiscono il tema centrale della seconda parte del libro: una rilettura psicoanalitica dell’incomprensione e dell’odio alimentato nel tempo tra le due etnie (Paolo Fonda, L ’a llu c in a z io n e n e g a tiv a o v v e r o il v is su to d e l p e r ic o lo ) precede una testimonianza quanto mai originale sui valori (ma anche sui pregiudizi e sulle incrostazioni di un vecchio modo di sentire) intorno ai quali, oggi, si costruisce l’identità nazionale degli sloveni in Italia (Ivan Vere, C o m e e sse re s lo v e n i o g g i in I ta lia ) .
Sulla questione nazionale e sui problemi legati a “nazioni e nazionalismi” (p. 113) si sofferma invece Stelio Spadaro, C o m e esse re ita lia n i o g g i a T rie s te , tentando una riflessione più articolata sulla base del dibattito teorico ormai molto avanzato sull’argomento. Nel passaggio da considerazioni generali all’analisi del particolare caso giuliano l’autore, tuttavia, lascia in sospeso non pochi interrogativi: i modi e i termini in cui, ad esempio, viene recuperata nel secondo dopoguerra dalle forze democratiche locali e dai comu
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nisti, l’eredità del socialismo austro-marxista che sulle tematiche del nazionalismo aveva fornito contributi spesso di alto livello (si pensi, nell’ambito della cultura italiana, all’opera di Angelo Vivante). Allo stesso modo andrebbe riconsiderato il significato e la valenza di una categoria come quella dell’ “internazionalismo” (p. 128 e sgg.) negli anni della guerra fredda, segnati dal consolidarsi dell’e- gemonia staliniana sui partiti comunisti fratelli.
Dell’ultima parte del volume si può dire che alcune relazioni (Gianfranco Ellero, U n a c a p ita le r i f iu ta ta e Tito Maniacco, I l F r iu li p u ò s ta r e se n z a T ries te , m a T rie s te n o n p u ò s ta r e se n z a il F riu li) , con il loro puntiglioso rendiconto dei disagi e delle incomprensioni nei rapporti tra Trieste (emblema del modo di vivere cittadino) ed il Friuli (mitico simbolo della campagna), fanno pensare all’urgente necessità di una cultura della convivenza estesa a tutte le diverse “isole” regionali. Tale scelta è d’obbligo perché — osserva acutamente Vere — “il futuro conosce solo due possibilità: o barriere sempre più insormontabili o superamento degli steccati a tutti i livelli” (p. 162).
Anna Maria Vinci
Claudio Tonel, R a p p o r to co n T ries te , Trieste, Dedalo Libri, 1987, pp. X-306, lire 25.000.
Con questo volume, Claudio Tonel raccoglie una numerosa serie di interventi pubblici dei massimi dirigenti del Pei sulla “questione triestina” dal 1941
al 1986. Nella Trieste “città aspra... e maliosa” dei Saba, degli Svevo, degli Slataper c’è il rischio — argomenta l’autore — che tutto si trasfiguri in mito ed immagine letteraria. Non che la letteratura sia incapace di “leggere” la storia, tutt’altro: certe angolature prospettiche, certi scorci di realtà spesso sono colti solo dall’occhio del poeta. Il rischio, tuttavia, è che ogni cosa diventi passione e sofferenza individuale: “fare storia”, significa invece — secondo Tonel — ripensare e riscoprire un passato di travagli e difficoltà collettive, ritrovare un ordine nel succedersi degli eventi, stabilire una gerarchia di cause, darsi e dare delle spiegazioni razionali, al di là del rancore. Tutto ciò per modificare il presente e per suscitare anche a Trieste, inguaribilmente malata di nostalgia, la “voglia di futuro”.
Tale impegno politico che diventa anche interpretazione del passato rappresenta un po’ il filo rosso che percorre tutti i volumi fin qui esaminati: in questo, alcuni nodi vengono al pettine, anche a causa — direi — di una lettura troppo riduttiva e meccanicistica del pensiero gramsciano. Sembra infatti che, senza scegliere, l’autore resti fermo ad un bivio: da una parte il desiderio di condurre a fondo e con spirito critico la ricerca e l’analisi sul movimento operaio e sull’organizzazione comunista a Trieste; dall’altra la convinzione di dover studiare gli errori e le sconfitte del passato come “prezzi inevitabili” sulla strada della vittoria e del progresso di quella stessa forza politica.
D’altro canto, nel ripercorre
re sinteticamente la storia del partito comunista a Trieste dal periodo resistenziale, attraverso il concitatissimo dopoguerra e fino agli anni sessanta, Tonel pubblica gli interventi (per altro tutti già editi) dei più alti esponenti del Pei (di Togliatti in particolare, ma anche di Lon- go, Scoccimarro, Berlinguer, Lama...) come esempi di una linea politica assolutamente coerente e di una visione sempre limpida degli eventi: un confronto con altre ipotesi storiografiche o anche una lettura più attenta delle stesse fonti citate, avrebbe in realtà suggerito maggior prudenza. Un solo esempio: l’autore cita la presa di posizione molto netta dei ministri comunisti del governo Bonomi sull’ “indiscutibile italianità di Trieste” fin dai primi giorni del maggio 1945 (p. 39). Tale indicazione, tuttavia, si sovrappone ad altre, più volte ripetute (si vedano i documenti in allegato) dai vertici del Pei, per una strettissima cooperazione con le forze di liberazione jugoslave al fine di realizzare anche nella Venezia Giulia nuove forme di democrazia popolare: ne conseguivano — come il dibattito storiografico ha già messo in rilievo — direttive politiche che si prestavano in loco a letture ambivalenti. Tant’è che i comunisti giuliani da anni ormai abituati (p. 40) a riconoscere (al di là di ogni costrizione) alle forze antifasciste jugoslave un ruolo egemone ed attratti dal fascino di quella esperienza politico-militare, finiscono con Faccettare di buon grado anche le rivendicazioni annessioniste avanzate da Tito per Trieste e la Venezia Giulia.
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Poco produttivo quindi pensare alla storia del partito comunista a Trieste dal 1945 al 1948 come ad una singolare anomalia: nel fuoco delle travagliate vicende giuliane del secondo dopoguerra, la dimensione locale è strettamente connessa, infatti, a quella nazionale (la tanto discussa “doppiezza” della linea togliattiana trova qui un importante banco di prova), su un orizzonte segnato da problematiche di carattere internazionale. Allo stesso modo, sulle gravi lacerazioni aperte dalla nota risoluzione del Cominform nel giugno 1948, la citazione (p. 63) del giudizio lucido e critico di Alessandro Natta sembra in realtà chiudere perentoriamente un percorso di ricerca appena iniziato: la condanna, per quanto necessaria, per la violenza di quell’atto, infatti, non basta più. Resta il problema di capirne le conseguenze sia all’interno della vita del partito comunista in sede locale (e nazionale) sia all’esterno, nel quadro più ampio della “questione di Trieste” in quegli anni.
Se dunque rievocare il passato per agire correttamente nel presente rappresenta una scelta non certamente contestabile per il suo significato etico e politico, rimane da valutare a quale presente serva una rievocazione così “addomesticata”.
Anna Maria Vinci
Il cinquantesimo del 10 giugno 1940 sui quotidiani italiani
A partire dall’estate 1989, in coincidenza con il cinquantesi
mo dell’inizio della seconda guerra mondiale, la maggior parte dei quotidiani italiani ha ospitato servizi rievocativi (testimonianze, ritratti del ‘come eravamo’, interviste e messe a punto di storici e protagonisti) che hanno avuto un seguito nella primavera di quest’anno (sul passaggio dellTtalia dalla non belligeranza all’intervento) e presumibilmente si prolungheranno sino al 1995. La ricorrenza, va da sé, sprigiona forti capacità di richiamo, a loro volta accentuate dalla congiuntura internazionale (i rivolgimenti nei paesi ex comunisti dell’Europa orientale) e dal riflesso di episodi ‘interni’ che hanno avuto una discreta risonanza giornalistica (valga per tutti il riferimento agli infelici esiti della commissione ministeriale d’inchiesta sulle stragi naziste di Leopoli). Si tratta comunque di un materiale relativamente abbondante, i cui contenuti andranno dettagliatamente esaminati, classificati e posti a confronto, oltre che con i servizi ospitati dai periodici, con quanto diffuso dagli altri mezzi di comunicazione di massa.
In attesa di ricomporre il quadro complessivo, sembra utile soffermarsi in modo specifico sulla data dell’intervento italiano e fornire una prima indicazione circa gli echi che la ricorrenza ha sollevato sui quotidiani. Il presupposto è naturalmente quello di verificare se e in qual misura l’occasione sia stata messa a profitto per valutazioni di ordine generale o, quantomeno, per richiamare al pubblico dei lettori il rilievo della data entro il percorso complessivo delle vicende na
zionali in questo secolo. Sotto questo profilo, l’attenzione è stata molto limitata tanto nel numero che nella collocazione e nella qualità dei testi. Taluni quotidiani (come “Avvenire”, T “Avanti!”, “Il Manifesto”) non vi hanno nemmeno fatto cenno; altri (da “Il Giornale” a “Il Messaggero”, da “l’Unità” a “Il Popolo”, da “Il Sole-24 ore” a “L’Osservatore romano”, da “La Repubblica” a “La Gazzetta del mezzogiorno”) hanno confinato la ricorrenza nelle pagine interne, non di rado segnalandola più con note di cronaca (e di colore) che con contributi intesi a fornire un inquadramento storico dell’avvenimento; altri quotidiani ancora, una netta minoranza (citiamo a titolo di esempio “Il Giorno”, “Il Resto del carlino”, “Secolo d’Italia”) hanno sotto- lineato l’anniversario con maggiore evidenza, senza tuttavia addentrarsi in riflessioni di particolare impegno. Giano Accame ha affacciato sul “Secolo d’Italia”, senza tuttavia formulare risposte, il problema della mancata risposta degli italiani all’appello mussoliniano (evocato nei termini della lotta delle nazioni giovani contro la ‘plutocrazia’); Guglielmo Zucconi e Arrigo Petacco hanno riproposto su “Il Giorno” e “Il Resto del carlino” la dicotomia/con- trapposizione tra le velleità dell’imperialismo fascista e la passività dell’opinione pubblica. Quest’ultimo filo conduttore lo si ritrova del resto in altri quotidiani e costituisce una sorta di leit motiv che, almeno in parte, può spiegare il disimpegno della stampa. Il 10 giugno 1940 trova posto solo come controprova
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delle sciagurate ambizioni mus- soliniane e dei lutti infiniti che queste avrebbero recato al paese. L’omogeneità delle titolazioni è in proposito esemplare: “Quella tragica illusione di vincere senza sparare” (Marco Nozza, “Il Giorno”); “Una decisione precipitosa, un intervento tragico e disastroso” (Domenico Sassoli, “Il Popolo”); “L’abbaglio del facile trionfo” (Mario Cervi, “Il Giornale”); “La grande illusione perduta” (Aurelio Lepre, “Il Mattino”). Tutti o quasi, come si vede, richiamano una immagine nella quale, accanto alla ‘grande storia’ della follia fascista, trova posto la ‘piccola storia’ di un popolo che, per ignoranza e assenteismo, si lascia prendere al laccio da quei miraggi e si accinge a scontare, come mai avrebbe creduto, la illusoria prospettiva della grande potenza. In definitiva, ma su ciò i quotidiani non fanno altro che riflettere la convinzione comune, una guerra che ebbe la sola paternità del duce e che fu a contraggenio combattuta da un popolo profondamente estraneo alle motivazioni del conflitto. Si dirà, ed è vero, che questo luogo comune rientra appie- na in quei canoni della oleografia nazionale che dipingono la partecipazione alla prima guerra mondiale come “compimento del risorgimento” e la resistenza armata del 1943-1945 come moto spontaneo di tutto un popolo che scende in campo contro la dominazione nazifascista. Ma proprio per questo la ricorrenza del 10 giugno 1940 poteva essere una occasione fruttuosa per scalfire i più abusati luoghi comuni. Special
mente in un periodo in cui il tema della identità nazionale fornisce facili, e facilmente manipolabili, spunti alle improvvisazioni di politici, studiosi e giornalisti. (m.l.)
Libri ricevuti
Pietro Alberghi, II fascismo in Emilia Romagna. Dalle origini alla marcia su Roma, Modena, Mucchi, 1989, pp. 675, lire 90.000.
Yves Amiot, I diamanti delle Ar- gonne, Milano, Il Mandarino, 1989, pp. 167, lire 9.000.
Gaetano Andrisani, Appunti sui Borbone. L ’esilio di Pio IX , Firenze, Edizioni “Città di vita”, 1988, pp. 382, lire 40.000.
Giuseppe Aragno, Siete piccini perché siete in ginocchio. Il “Fascicolo dei lavoratori”. Prima Sezione Napoletana del P.S.I. (1893-1894), Roma, Bulzoni, 1989, pp. 125, lire13.000.
Archivio di Stato-Caltanisetta, Il Cholera morbus a Caltanisetta. Istituzioni e società (1837). Mostra documentaria, a cura di Claudio Tor- risi, Caltanissetta, Tipo-litografia Bartolozzi, 1988, pp. 131, sip.
Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Milano, Edizioni di comunità, 1989 (I ed. 1963), pp. 340, lire 42.000.
Carlo Alberto Augeri, Testo, segni e mentalità. La letteratura nella storiografia delle “Annales”, Lecce, Milella, 1988, pp. 161, sip.
Giuseppe Avolio, L ’utopia dell’unità. L ’azione della sinistra per una nuova società, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 172, lire 20.000.
Carrol Baker, Una storia romana, Milano, Il Mandarino, 1989, pp. 252, lire 20.000.
Piero Baroni, Obiettivo Mediterraneo, Reverdito editore, 1989, pp. 221, lire 22.000.
Era Barontini, Vittorio Marchi, Dario Ilio Barontini, Livorno, Editrice Nuova Fortezza, 1988, pp. 271, lire 30.000.
Barrington Moore jr, Riflessioni sulle cause sociali delle sofferenze umane e su alcune proposte per eliminarle, Milano, Edizioni di comunità, 1989 (I ed. 1974), pp. 236, lire30.000.
Adolfo Battaglia, Roberto Valca- monici, Nella competizione globale. Una politica industriale verso il 2000, Laterza, 1989, pp. XXI-462, lire 25.000.
Silvio Bertoldi, La chiamavamo patria, Milano, Rizzoli, 1989, pp. 286, lire 26.000.
Sergio Bozza, 90 uomini in fila allineati sul mirino della "37”, Milano, Greco & Greco, pp. 233, lire15.000.
Gian Piero Brunetta, Buio in sala. Cent’anni di passioni dello spettatore cinematografico, Marsilio, pp. XXVIII-404, lire 50.000.
Aurelio Bruzzo, Economia e intervento pubblico. Analisi critica delle recenti tendenze neoliberiste, Padova, Cedam, 1988, pp. 103, lire 11.500.
Mario Capanna, Arafat. Intervista al presidente dello Stato palestinese, Milano, Rizzoli, 1989, pp. 191, lire 22.000.
Guido Carli, Pensieri di un ex governatore, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1988, pp. VIII-212, lire25.000.
Maurizio Caselli, L ’inquinamento atmosferico, Roma, Editori Riuniti, 1989, pp. 169, lire 10.000.
616 Rassegna bibliografica
Paolo Cecchini, La sfida del 1992. Una grande scommessa per l ’Europa. Ricerca sul “Costo della non- Europa” promossa dalla Commissione delle Comunità Europee, Milano, Sperling & Kupfer, 1988, pp. 234, lire 19.500.
Centro studi finanziari e assicurativi, Professione risparmio, Milano, Il Mandarino, 1989, pp. VI-290, lire 28.000.
Raffaele Colapietra, Fucino ieri, L’Aquila, Ente nazionale di sviluppo agricolo in Abruzzo, 1989 (I ed. 1977), pp. 347, sip.
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Giovanni Spadolini, La riforma del Senato nell'Italia unita. Fra Depre- tis e Giolitti. Con un’antologia degli scritti più significativi sulla “Nuova antologia”: 1882-1916, Firenze, Le Monnier, 1987, pp. VII-162, lire 25.000.
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STORIA CONTEMPORANEASommario del n. 3, giugno 1990
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Note e discussioni
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Recensioni
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Note e segnalazioni
Spoglio dei periodici italiani 1989a cura di Franco Pedone
È stato effettuato lo spoglio dei seguenti periodici (sono riportati la sigla, il titoto per esteso, la sede della redazione e il luogo di edizione): AE, “Affari esteri” (Roma); A, “Africa” (Roma); AS, “Analisi storica” (Lecce-Brindisi); AAC, “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” (Roma-Bologna); AFBr, “Annali della Fondazione Giacomo Brodolini” (Milano); AFB, “Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso” (Roma); AFE, “Annali della Fondazione Luigi Einaudi” (Torino); AIG, “Annali dell’Istituto storico italo-ger- manico” (Trento); AUL, “Annali dell’Istituto Ugo La Malfa” (Roma); ASI, “Annali di storia dell’impresa” (Milano); Ba, “Balcanica” (Roma); Be, “Belfagor” (Bari-Roma); BMS, “Bollettino del Museo del Risorgimento” (Milano); CC, “Civiltà cattolica” (Città del Vaticano); Ci, “Civitas” (Roma); C, “Clio” (Napoli); Co, “Comunità” (Milano); CM, “Critica marxista” (Roma); Cst, “Critica storica” (Napoli-Firenze); DD, “Democrazia e diritto” (Roma); IM “Incontri meridionali” (Messina-Catanzaro); IC, “Italia contemporanea” (Milano); JEEH, “The Journal of European Economie History” (Roma); Me, “Meridiana” (Roma); MC, “Mondo cinese” (Milano); MOS, “Movimento operaio e socialista” (Genova); Mu, “Il Mulino” (Bologna); NS, “Nord e sud” (Napoli); NA, “Nuova antologia” (Firenze); NRS, “Nuova rivista storica” (Roma); Pa, “Padania” (Ferrara); PP, “Passato e presente” (Firenze); PEM, “Il pensiero economico
moderno” (Pisa); PeP, “Il pensiero politico” (Perugia); Poi, “Polis” (Bologna); PD, “Politica del diritto” (Bologna); PI, “Politica internazionale” (Firenze); P, “Il Politico” (Pavia); Po, “Il Ponte” (Firenze); PS, “Problemi del socialismo” (Roma); QC, “Quaderni costituzionali” (Bologna); QSoc, “Quaderni di sociologia” (Milano); QdS, “Quaderni di storia” (Bari); QS, “Quaderni storici” (Genova- Bologna); RSR, “Rassegna storica del Risorgimento” (Roma); RS, “Ricerche storiche” (Firenze-Napoli); R, “Risorgimento” (Milano); RSC, “Rivista di storia contemporanea” (Torino); RSdC, “Rivista di storia della Chiesa” (Roma); RSE, “Rivista di storia economica” (Torino); RSPI, “Rivista di studi politici internazionali” (Firenze); RISP, “Rivista italiana di scienza politica” (Bologna); RSI, “Rivista storica italiana” (Napoli); SeS, “Società e storia” (Milano); So, “Sociologia” (Roma); SD, “Sociologia del diritto” (Milano); SC, “Storia contemporanea” (Bologna); SPE, “Storia del pensiero economico” (Milano); SS, “Storia della storiografia” (Milano); SRI, “Storia delle relazioni internazionali” (Firenze); SU, “Storia urbana” (Milano); SE, “Studi emigrazione” (Roma); SSt, “Studi storici” (Roma).Lo spoglio non comprende gli ultimi numeri di alcuni periodici che, al momento della stampa, non erano stati ancora pubblicati. Sono invece inclusi alcuni numeri arretrati che, per lo stesso motivo, non erano ancora stati presi in considerazione.
Italia contemporanea”, settembre 1990, n. 180
622 Rassegna bibliografica
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