SCHEGGEI L G I O R N A L E D E G L I S T U D E N T I U N I V E R S I T A R I D I F O R L Ì
r e d a z i o n e s c h e g g e @ k o i n e o n l i n e . o r g A p r i l e 2 0 1 7
... di PRIMAVERA
2 SCHEGGE Aprile 2017
... dopo una lunga pausa il nostro amato Schegge è tornato! Questo numero di Aprile segna una fine quindi un inizio o, per meglio dire, un passaggio…
Non si può però pensare di costruire un futuro senza conoscere le proprie radici ed è per ciò che in questo passaggio di consegne vorrei ringraziare quanti negli anni ci hanno fatto arrivare fin qui, guidandoci nelle scelte di ogni mese. Dalla precedente caporedattrice Mariagrazia Carbotti, alla Presidenza di Koiné, fino ai singoli redattori che riempendo pagine bianche di inchiostro ci hanno informato, smentito, divertito o più semplicemente appassionato!
È con grande piacere che questo numero, arricchito di voci e pagine, vi dà il benvenuto e spera di trovare tutta la stima di voi lettori. Desidero quindi presentarvi le nuove firme e introdurvi le nuove idee che ci hanno allettato e che speriamo possano essere all'altezza delle vostre aspettative. Un'analisi scientifica in ambito sociologico, medico e biologico sarà il tessuto delle rubriche di Michele Consolini, Ludovica Borsci e Sofia Calderone. La musica e le sue note non saranno mai state così intonate e sul pezzo come ora, grazie a Michele Veneziano e Lorenzo Crippa! Resta, come da tradizione, la rubrica sui libri curata da Maria Giulia Minnucci e quella di cinema di Manuel Lambertini. Per la costante attenzione all'attualità, Leandra Borsci, Irina Aguilari, Luca Giovagnola, Luca Giro, Giorgia Miccoli, Giada Pasquettaz, Ignazio Pisanu, Sara Tanan, Agnese Zoppelli, Davide Cuoccio che ci terranno informati sulle novità locali, nazionali e internazionali. Ringrazio anche i ragazzi Erasmus che mensilmente si avvicendano nel raccontarci la loro esperienza, così come i collaboratori esterni Mar'yana Polovchuk e Kevin Carboni. Le nuove rubriche dedicate a viaggi, fotografia e poesia vogliono esplorare campi che troppo spesso vengono tralasciati o peggio, banalizzati. Ridare loro lo spazio e veste originale è lo scopo primo e ultimo della loro presenza, fortemente voluta. Infine, un grazie particolare va a chi in passato come in futuro ha personalmente e interamente curato la grafica di ogni mensile, la cui preziosa collaborazione è un vanto per questo giornalino e per tutti noi redattori. Grazie Leandra Borsci!La varietà ed eterogeneità degli articoli sono la cifra distintiva del nostro impegno… Lo sono perché vorremo che ognuno di voi possa ritrovare un pezzo di sé nelle schegge di carta… ricordandovi come, spesso, l'arma più tagliente e potente sia proprio la parola. Buona lettura!
Anna Battistella
SCHEGGE realizzato con UBUNTU&SCRIBUS&THE GIMP nelle Officine KoiNerd
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Schegge
Schegge è un giornale
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Schegge, salvo dove di‐
versamente specificato,
non implicano quelle
dell'Associazione Uni‐
versitaria Koiné ma so‐
no piena ed esclusiva
responsabilità degli au‐
tori degli articoli stessi.
SOMMARIO
A. Zoppelli ‐ Il braccio destro della moda................................................................................................................................ 3L. Borsci ‐ Made in Korea............................................................................................................................................................. 4S. Tanan ‐ IQRA............................................................................................................................................................................... 5A. Battistella ‐ Rubrica di Poesie............................................................................................................................................... 6I. Aguiari ‐ Il pane, oltre le rose................................................................................................................................................. 7A. Battistella ‐ Frida Kalho, una nuova i‐dea di bellezza...................................................................................................... 8M.G. Minnucci ‐ Riappropriamoci del nostro corpo............................................................................................................... 9S. Calderone ‐ FakeBio................................................................................................................................................................. 10L. Borsci ‐ InfoMed......................................................................................................................................................................... 11A. Badel ‐ Voce di Erasmo #1...................................................................................................................................................... 12M. Polovchuck ‐ Voce di Erasmo #2.......................................................................................................................................... 13I. Pisanu ‐ The wind of change......................................................................................................................................................14G. Miccoli ‐ Cartoline da Bruxelles..............................................................................................................................................15K. Carboni ‐ Di cosa parliamo quando parliamo di libertà di stampa?..............................................................................16G. Pasquettaz ‐ Bello Figo: il cantante più politico del momento?......................................................................................17L. Giro ‐ 25 Aprile: la Resistenza e la sua luce........................................................................................................................18L. Giovagnola ‐ I lavori che ho svolto.........................................................................................................................................19M.G. Minnucci ‐ KCB ‐ Voci dalla luna, Andre Dubus..............................................................................................................20M. Lambertini ‐ Buio in Sala: un angolista al cinema.............................................................................................................21M. Consolini ‐ Codice a Barre......................................................................................................................................................22M. Veneziano ‐ Recensioni oneste..............................................................................................................................................23
3 SCHEGGE Aprile 2017
Per gli amanti della bellezza e dello sfavillante mondo della moda ma anche per tutti i sostenitori della
città di Forlì, vorrei far conoscere ancora una volta, quello che essa nasconde. Si è tenuta, dal 25 febbraio 2017 al 19 marzo, presso il palazzo del Monte di Pietà, in corso Garibaldi, la mostra “Suggestioni, l’arte del filo”. Perché ve ne parlo? Non sono un’intenditrice di mo
da, né una fashion blogger, ma sono attratta da tutto ciò che è bello agli occhi e quello che ho visto merita un riconoscimento. Si è trattato di un’esposizione di una ventina di capi di abbigliamento come coprispalla, vestiti da sera, borse, scarpe, oltre a paramenti sacri. Tutti questi oggetti hanno in comune tra loro l’appartenenza alla stessa azienda produttrice, ”Arte e Ricamo”, situata a Forlì in via Euclide 6. È stato raccontato, a coloro che sono andati a visitare
la mostra, la storia e gli obbiettivi di questa ormai grande realtà imprenditoriale. L’azienda nasce nel 1973 e la sua fondatrice, la Signora Dina Sbaragli, forlivese, già in tenera età si è appassionata al ricamo e al cucito ispirata dalla madre sarta. La passione per l’abbigliamento e il ricamo, l’hanno portata a creare un suo campionario che ha poi girato in tutt’Italia facendosi conoscere dai maggiori stilisti del tempo. Oggi, in azienda lavorano 18 collaboratrici tra sarte, designer, laboratoriste, archiviste e la ditta vanta una nomea che ha fatto il giro del mondo. Le tecniche di produzione avanzate, l’utilizzo di macchinari altamente sofisticati, una produzione tutta al femminile con orari di lavoro adatti alle esigenze di ogni singola donna, hanno reso quest’industria all’avanguardia. Ma che cosa è il ricamo?Esso nasce in Cina, attorno al 1200 a.C, grazie alla
scoperta del filo da seta e approda in Italia tramite gli arabi. In arabo, ricamo è detto "Rakam", molto importante in passato perché indicava la classe sociale di appartenenza. Tutt’ora è (ancora) ritenuta un’arte applicata e i musei di tutto il mondo hanno spazi dedicati a questa disciplina. Di cosa si occupa “Arte e Ricamo”? Gli abiti che vediamo nelle vetrine dei più importanti
negozi, indossati dalle star di Hollywood e durante le
sfilate di alta moda, hanno tutti una storia e per alcuni di loro, questa nasce proprio a Forlì! L’azienda si occupa di fornire, ai clienti che lo richiedono, campioni di tessuto, prototipi di ricami, abiti che serviranno da ispirazione agli stilisti per confezionare il vestito vero e proprio. L’archivio al quale attingono conta più di 250mila articoli tra passamanerie e prodotti finiti come scarpe e borse, solo per fare qualche esempio. Il personale racconta che clienti e stilisti passano intere giornate tra quei corridoi, tornando alla luce di tanto in tanto. Ma come funziona? Il primo passo è l’incontro con il cliente, il quale può arrivare già con il suo progetto, può volere qualche suggerimento o può essere letteralmente in cerca di ispirazione. Nell’ultimo caso, la ricerca d’archivio è il punto d’inizio, nel primo, invece, l’agente si reca in azienda munito di disegno e da questo si passa direttamente al secondo passo, ovvero la realizzazione di un programma. Al giorno d’oggi, il lavoro a mano è assai raro perché è un dispendio di denaro e tempo, che nel mondo di oggigiorno scarseggiano. Non per questo però, il lavoro attraverso macchine deve essere visto sotto una luce negativa; anche lui ha un valore. Ritornando a noi, la creazione di un programma è una delle parti più complesse. Si tratta di realizzare un software da inserire successivamente nei macchinari per creare svariati tipi di ricami, su determinate zone dell’abito. Il programma ricorda in che punto, in che modo e in quale momento, la paillette deve essere inserita nel ricamo. In seguito, essenziale è la scelta del materiale e la sua preparazione. Hanno raccontato che le richieste dei clienti sono molteplici e se a noi può sembrare strano, una lavorazione su una pelle di razza, per loro, invece, non è una novità! Le macchine da cucire che vengono usate sono di origine giapponese, meno robuste di quelle tedesche ma più tecnologiche. Per completare il lavoro, mancano solo le fasi del controllo qualità e una questione dolente, ovvero l’applicazione dei prezzi.I prodotti di questa azienda servono il mercato
dell’alta moda e alcuni di quelli esposti in mostra sono i prototipi di vestiti poi indossati da cantanti come Laura Pausini, Adele o Rihanna. Gli stilisti che si rivolgono a loro appartengono a grandi firme come: Gucci, Armani, Celine, Ralph Lauren. Nonostante questo, la competizione con altre zone del mondo è alta. La globalizzazione e la delocalizzazione non sono state d’aiuto. Il concorrente più pericoloso è l’India. La titolare d'oggi si chiama Patrizia Gelosi, figlia di Dina Sbaragli che ringraziamo per aver offerto ai cittadini di Forlì l’occasione di averci avvicinati al mondo della moda di cui non sappiamo mai abbastanza.
Agnese Zoppelli
IL BRACCIO DESTRO DELLA MODAArte e ricamo a Forlì
4 SCHEGGE Aprile 2017
Fruire l’arte, riuscendo ad entrare in empatia con essa ed esperirla, è una delle forme più nobili di viaggia
re. Nel viaggio che stiamo per intraprendere, si vola in Corea del Sud, grazie agli scatti di Filippo Venturi, giovane documentarista cesenate. La mostra rientra all’interno del progetto Artealmonte, unitamente promossa dall’Associazione culturale Regnoli 41, che dal 2011 propone una serie di eventi culturali sul territorio forlivese, con il fine ultimo di rivalutare il centro storico della città, da diversi anni oggetto di degrado e svalutazione, e dalla Fondazione della Cassa dei Risparmi di Forlì. L’iniziativa Artealmonte, ospitata nella suggestiva location del cinquecentesco Palazzo del Monte di Pietà, in Corso Garibaldi 37, contempla l’esposizione di diversi lavori di artisti forlivesi e romagnoli, per la promozione del territorio. Il reportage fotografico Made in Korea, pluripremia
to e che vanta diversi riconoscimenti e pubblicazioni su importanti testate giornalistiche come l’Internazionale, coglie appieno i problemi che affliggono la Corea del Sud attraverso lo sguardo prostrato dei soggetti catturati, che appaiono alienati rispetto alla dimensione nella quale si ritrovano a vivere. Il malessere che affligge la popolazione sudcoreana, sapientemente immortalato da Venturi nei quarantuno scatti che compongono il suo progetto, è da ricondurre allo stravolgimento tecnologico che il Paese ha dovuto subire negli ultimi sessant’anni, passando in meno di mezzo secolo da una condizione di sottosviluppo, pressoché medievale, ad essere annoverato tra i Paesi più moderni al mondo. L’innaturale processo di ammodernamento ed il con
seguente sconvolgimento degli stili di vita, hanno cementato nella popolazione, ma soprattutto tra i giovani, un forte senso di competizione. La costante ricerca della perfezione è permeata in diversi ambiti, da quello professionale a quello estetico, sterilizzando l’esperienza giovanile, costretta in canoni e modelli di perfezione da raggiungere.
I giovani sudcoreani, il soggetto preponderante dell’obiettivo di Venturi, sono assorbiti nello studio anche per più di venti ore al giorno, spronati dall’ideale comune che una buona prestazione accademica sia la chiave per il successo lavorativo. L’investimento
sull’istruzione, alimentato dalle alte aspettative dei genitori, facendo leva sul senso del dovere filiale tanto caro agli asiatici, rende i giovani particolarmente vulnerabili al punto che, stressati dalla competizione e dall’affannosa corsa al primato, si abbandonano spesso ad azioni estreme, come l’abuso di alcool, l’isolamento sociale e, nel peggiore dei casi conducono al suicidio. Eccellere in ambito accademico è il passepartout
per il successo nel mondo lavorativo, secondo i sudcoreani, solo se però accompagnato da un bell’aspetto; invero, di per la promozione all’università, i ragazzi frequentemente ricevono in regalo un intervento di chirurgia plastica dalla propria famiglia.
Gli interventi, eseguiti indistintamente da uomini e donne, sono mirati al perfezionamento di occhi e bocca, per renderli più simili al taglio occidentale; l’ultima frontiera delle operazioni di chirurgia estetistica è lo smile lipt, un intervento che fissa in alto gli angoli della bocca in un sorriso perenne.La maniacale ricerca dell’eccellenza fa emergere, tut
tavia, una controindicazione latente: l’ideale comune diventa il solo obiettivo da raggiungere per tutti; così, l’idea di unicità, di distinguersi dagli altri, tutti troppo uguali, crolla su se stessa, lasciando spazio al conformismo ed al soffocamento dell’eccellenza. La mostra di Venturi ha girato il mondo, portando le
contraddizioni della società sudcoreana in città importanti come Pechino, New York e Milano; anche Forlì, hanno riscosso un enorme successo gli scatti dell’artista romagnolo il quale, durante un’intervista rilasciata alla webtv di Campus, MMP webtv, ha dichiarato di voler intraprendere lo stesso reportage in Corea del Nord, malgrado le avversità che di sicuro lo attenderanno.
Leandra Borsci
MADE IN KOREALa società sudcoreana raccontata dagli scatti di Filippo Venturi
5 SCHEGGE Aprile 2017
IQRA
Il luogo comune della donna musulmana op
pressa è ormai così radicato nell’opinione pubblica da essere considerato una legge inconfutabile. Concetti come "libertà", "autodeterminazione", "indipendenza" sono assunti in genere (e per genere) come necessariamente antitetici all’immagine della donna nell’Islam. Se si prova, infatti, a fare un veloce esperimento su Google, digitando sulla barra di ricerca "muslim women", i suggerimenti nella parte superiore della pagina web includono frasi quali: «le regole delle donne musulmane», «il codice di abbigliamento delle donne musulmane», «cosa indossano le donne musulmane?». È immediato notare quindi, quanto in realtà la donna
musulmana sia spesso accostata al suo abbigliamento o ai suoi obblighi religiosi, nonostante quegli stessi indumenti e precetti siano in larga parte finalizzati ad elevarla ad uno status superiore, a scindere la sua immagine da tutto ciò che è meramente legato al suo corpo, dandole importanza come essere autonomo, dotato di intelletto e al pari dell’uomo; tutti principi che noi oggi riconosciamo essere universalmente validi (seppur non sempre concretizzati) ma che all’epoca della nascita dell’Islam, in un mondo in cui le tribù politeiste nella penisola arabica sotterravano vive le figlie neonate perché viste come una vergogna e in Europa si discuteva se considerare o meno la donna una bestia, rappresentarono una vera e propria rivoluzione. La donna nell’Islam viene tutelata in quella che è la
sua posizione paritaria all’uomo, tant’è che il Corano si riferisce sia alle credenti che ai credenti in egual modo e allo stesso tempo, marcando l’intenzione egalitaria dell’intera Rivelazione. Di certo, nel quadro di tutta la tradizione religiosa islamica, sia gli uomini che le don
ne, seppur ritenuti uguali davanti ad Allah (Dio) per ciò che concerne la loro spiritualità e i loro diritti mondani, hanno doveri e responsabilità differenti. Uno dei più diffusi pregiudizi sulla fede islamica è che siano solo le donne ad essere soggette a regole di abbigliamento o, più in generale, di condotta. In realtà, non è così. Stando a quello che è uno dei principi cardine dell’Islam, la mode
stia, sia gli uomini che le donne sono chiamati ad ispirarsi ad essa; tanto nel modo in cui vestono quanto nel modo in cui si atteggiano. Per gli uomini musulmani è doveroso, ad esempio, indossare pantaloni non attillati e che scendano sotto le ginocchia, non indossare abiti in seta o che striscino a terra, non portare ornamenti in oro e coprire la parte che va dall’ombelico alle ginocchia con abiti larghi. Ovviamente ogni precetto nell’Islam ha una sua fina
lità pratica, una sua logica, quasi sempre volta al perfezionamento dello stile di vita di chi lo applica. Inoltre, ciascuno di essi si fonda su un valore sacrosanto dell’Islam: la misericordia. Essa deve rappresentare necessariamente per ciascun musulmano il valore (motore) unico di ogni suo gesto, sia esso rivolto verso di sé o verso il prossimo. Basandosi dunque su questo presupposto, che legitti
mazione hanno le imposizioni o le interdizioni di vario genere spesso associate all’Islam e in particolare alle donne musulmane, vi starete chiedendo voi. Semplice: nessuna. Nessuna, per lo meno dal punto di vista religioso. Se si assume come precetti basilari e fondamentali, la parità tra uomo e donna, la mancanza di costrizione all’adempimento degli obblighi religiosi, l’inviolabilità della persona, in quelli che sono i suoi diritti sociali e politici ma anche e soprattutto nella sua umanità, da dove nascono tutte queste realtà contraddittorie, fonti delle più accanite accuse islamofobe? Ancora una volta, semplice: dalla cultura. Se una cultura è patriarcale, se la società in cui vige quella cultura è composta in larga parte da persone non istruite o se istruite, non conoscitrici della loro identità, in questo caso religiosa, è ovvio che qualcosa di semplice seppur profondo come la fede, può essere facilmente mal interpretata e filtrata attraverso le lenti delle credenze popolari che nulla hanno a che vedere con una religione, l’Islam, che vuole accompagnare l’uomo verso la scoperta del principio e del fine ultimo dell’esistenza umana. Non a caso, ormai si sente spesso ripetere in seno alla
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comunità islamica, che i nemici dei musulmani sono i musulmani stessi. Anche se poi, bisogna aggiungere, non tutti i musulmani sono praticanti e non tutti sono stati formati religiosamente. Insomma, dei quasi due miliardi di musulmani, ciò
che è certo, è che solo una parte ha imparato a non confondere la cultura e la mentalità del suo popolo, con gli insegnamenti dell’Islam. Sicuramente vi è ancora molto da fare, molti miti da
correggere e considerazioni da reinterpretare, ma a questo, molti uomini, e soprattutto, molte donne, stanno la
vorando da tempo, tanto da essere annoverate da Forbes tra le donne più influenti al mondo. Basti pensare a Ibtihaj Muhammad, la prima schermitrice musulmana a competere internazionalmente per gli Stati Uniti, rompendo ogni stereotipo; a Linda Sarsour, AmericanaPalestinese, attivista per i diritti delle donne e delle minoranze, direttrice esecutiva dell’"Arab Muslim Association" di New York, ormai conosciuta in tutto il mondo per la sua tenacia e leadership; a Tawakkul Karman, attivista Yemenita, Premio Nobel per la pace nel 2011 per la sua lotta a favore della sicurezza e del riconoscimento dei diritti delle donne. Tutte palesemente donne oppresse. Oppresse, sì. Non però dal velo che portano o dalla religione che professano, piuttosto dall’ignoranza di chi giudica senza conoscere. Dunque "Iqra", leggi. Perché nulla oltre la conoscen
za richiama l’uomo all’uso dell’intelletto e nulla l’oltre l’intelletto permette all’uomo di non abbassarsi al livello delle bestie. Non a caso, è la prima parola rivelata al Profeta Muhammad nel Corano.
Sara Tanan
LA PRIMA FRASE È SEMPRE LA PIÙ DIFFICILE [Wislawa Szymborska]
PARIS AT NIGHT
T rois allumettes une à une allumées dans la nuit
La première pour voir ton visage tout entier
La seconde pour voir tes yeux
La dernière pour voir ta bouche
Et l'obscuritè tout entière pour me rappeler tout cela
En te serrant dans mes bras.
T re fiammiferi uno dopo l'altro accesi nella notte
Il primo per vedere il tuo volto intero
il secondo per vedere i tuoi occhi
l'ultimo per vedere la tua bocca
e l'oscurità completa per ricordarmi questo
Mentre ti stringo tra le mie braccia.
Jacques Prévert, poeta e sceneggiatore francese, nacque a NeuillysurSeine il 4 Febbraio 1990. Visse nella Parigi di Satre, Camus e Carné, eppure fu il poeta del quotidiano, l'uomo che fece crescere e sognare una generazione e le successive, avvicinando il mondo dell'arte e della letteratura di quell'aura sacrale e inarrivabile che incuteva soggezione, rendendole più vicine e umane. Fu e resterà il poeta che ha bisogno dei paroloni dei
professori, né del dizionario dei traduttori per essere capito. Parlava la lingua di tutti, la lingua dell'oggi. Parlava alla città, agli uccelli, alle fanciulle. Nell'immaginario comune è il poeta che meglio rac
conta l'amore, quello nostalgico, trasognato, raccontato con vivide immagini quasi cinematografiche. Non per questo, però, rimase muto di fronte al frastuono del suo secolo. In Barbara racconta la storia di una donna, di un amore e del Secolo Breve. Della guerra e dell'amore che altro non sono che una connerie.Morì l' 11 Aprile 1977 a OmonvillelaPetite.
Anna Battistella
7 SCHEGGE Aprile 2017
IL PANE, OLTRE LE ROSELo sciopero femminista in Italia e nel mondo
Il '17 sembra essere un anno propizio per le rivoluzioni e lo scorso 8 Marzo le donne di tutto il mondo, unite nella giornata di sciopero indetta in occasione della Giornata Internazionale della Donna, ne hanno dato autorevole prova. Si sono svolte manifestazioni in più di 50 Paesi a livello internazionale e in oltre 60 piazze della penisola grazie all'organizzazione dei collettivi di Non Una Di Meno, neonato movimento femminista italiano. Il primo sciopero di genere è stato un evento storico e
politico senza precedenti. Ogni organizzazione aderente ha lavorato sul proprio fronte nazionale: in Irlanda si scioperava per reclamare l'indizione di un referendum per il diritto all'aborto legale; la Polonia dopo la mobilitazione di Ottobre, è tornata a manifestare per i diritti riproduttivi e il diritto all'aborto libero e legale; il movimento femminista spagnolo è sceso in piazza in uno dei peggiori anni della sua storia recente, quello con più femminicidi documentati da gennaio; ad Istanbul si è svolta una marcia serale contro il governo turco e in solidarietà alle donne kurde; in Rojava, le donne dello YPG hanno scritto nel loro comunicato di sostegno allo sciopero: «ogni donna libera sarà un Paese libero»; in Argentina sono state le donne a scioperare per prime contro il governo Macri e le sue politiche neoliberiste e negli Stati Uniti, a poche settimane dalla Womens' March, le donne sono tornate in piazza. Sono solo alcuni esempi di come ogni Paese abbia protestato con le sue specificità e contemporaneamente in solidarietà con il resto delle manifestanti in tutto il mondo. Il percorso italiano fino all'8 marzo è stato breve ma
denso di contenuti. Il movimento "Non Una Di Meno" nasce durante l'autunno 2016 e prende il nome dagli slogan utilizzati in America Latina e Spagna contro la violenza di genere. Dopo la manifestazione del 27 Novembre, si è tenuta un'assemblea nazionale a Bologna in preparazione allo sciopero di Marzo e, fattore ancora più positivo, se ne terrà una a Roma in Aprile a dimostrazione del fatto che l'organizzazione proseguirà oltre questo sciopero. In questi mesi, le femministe hanno elaborato un dibattito che dalla violenza di genere passa alla lotta per il salario minimo e il reddito di auto
determinazione, fino alla parità salariale, dai diritti riproduttivi alla teoria "queer" ed hanno scelto lo strumento dello sciopero non solo dai luoghi di lavoro tradizionali, ma anche e soprattutto dal lavoro di cura gratuito o sottopagato che quotidianamente ricade sulle donne.
I numeri relativi alle lavoratrici in sciopero sono ancora parziali (il Corriere della Sera ha parlato di un'adesione delle lavoratrici INPS del 24%, senza riferimenti precisi), ma le immagini condivise direttamente dalle strade hanno mostrato milioni di persone coinvolte che non lasciano dubbi sul successo dello sciopero globale.
Ciò nonostante, analizzare questa giornata in base ai numeri è inappropriato. Innanzitutto perché non è rilevabile, ma è rilevante il dato della partecipazione del lavoro autonomo, precario, gratuito e nero per cui il diritto di sciopero semplicemente non esiste. In secondo luogo, perché il silenzio imbarazzante prima, dopo il 26 novembre, e l'apparente opposizione poi con l'organizzazione di assemblee sui luoghi di lavoro durante l'8 Marzo dei sindacati confederali sottolinea ancora di più il successo dello sciopero delle donne come strumento politico efficace. Se durante i primi decenni del '900 le donne al fianco
dei loro mariti lavoratori chiedevano le rose oltre al pane, lo scorso otto Marzo ha rivoluzionato anche questo. Con lo sciopero femminista le donne hanno dimostrato di poter essere interpreti del riscatto di tutt* coloro che si riconoscono in qualcosa d'altro, oltre i confini, i generi e le razze. Lo scorso otto Marzo abbiamo chiesto il pane, oltre le rose e siamo certe di non aver sbagliato.
Irina Aguilari
8 SCHEGGE Aprile 2017
Al secolo Frida Kahlo, è stata una pittrice, un'icona di stile, di vita e anche, suo malgrado, di morte.
Nasce nel 1907 a Coyoàcan, Città del Messico e nel Messico degli anni '30 si inscrive la vicenda umana e artistica di questa donna dalla forza straordinaria che ha affrontato la morte senza maschere né armi, solo con il viso duro di chi non nega la propria condizione ma la combatte, poiché l'attaccamento alla vita è più forte di qualsiasi dolore. Infatti nel 1925, rimane vittima di un incidente che le segnerà la vita, cambiandone senso e destino. Il tram su cui viaggiava si schiantò: la ballerina dorata (così urlarono i passanti alla vista di quell'esile corpo martoriato e ricoperto di polvere d'oro da pittura) impalata, con la colonna vertebrale rotta in tre punti e con una trentina di fratture, rimase allettata per diversi anni, ingabbiata in busti e gessi. A soli 18 anni, il primo incontro con la Pelona, la morte, è dunque fatto. Negli anni a venire Frida non si farà cogliere impreparata e sapendo che le farà nuovamente visita, la aspetterà sull'uscio pronta a cacciarla ancora e ancora. L'incidente fu una condanna a morte, scontata per anni prima dell'esecuzione ma questo la costrinse ad una rinascita. Dirà di sé: «sono nata nella pioggia. Sono cresciuta sotto la pioggia. Una pioggia continua nell'anima e nel corpo» e sarà sempre così, tormentata dal susseguirsi di eventi avversi: alle sofferenze fisiche si aggiungono quelle sentimentali. Il matrimonio con l'amatissimo e odiato Diego Rivera, che la introduce nel mondo politico e culturale, nonché sulla scena artistica dell'epoca, sembrava aver placato le ire del destino e alleviato le sue pene e invece, si rivela un fallimento. I continui tradimenti, il divorzio, l'aborto, le continue operazioni, il secondo matrimonio, segneranno indelebilmente il suo animo già temprato.
Frida Kahlo non rappresenta la sua epoca, il suo paese, quel Messico colmo di colori e profumi accesissimi, coinvolto in vorticosi giochi di potere che vede la nascita
del primo Partito Comunista locale per mano proprio di Rivera. È interprete unica di se stessa, della sua vita. Attrice, aspra ed acuta critica, mai mera spettatrice! Le sue opere non rappresentano, ma sono la sua vita: la sua malattia, la sua salvezza, la sua condanna. Non è chiaro dove finisca il dipinto, la rappresentazione e dove cominci la sua pelle, la sua anima, la cruda realtà. Non rispetterà né aderirà ad alcun canone, se non quello dell'esaltazione delle vita e del disprezzo più totale della morte. Avrà come unico metodo la stretta aderenza alla realtà. Co
mincerà a ritrarsi per diletto e finirà per essere la cura per sopravvivere. Una vita plagiata dall'arte e le opere dal dolore. Mai però una sofferenza fine a se tessa, deprimente o angosciosa, bensì sempre esorcizzata, derisa. Si potrebbe pensare che del surrealismo prenda le forme immaginifiche, del Messico i colori e dalla sua vita la profondità, la prospettiva, la tragica realtà. Eppure non è esponente di alcun movimento: «Pensavano che anche io fossi una surrealista, ma non lo sono mai stata. Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni». Frida dovrebbe avere uno spazio nelle memoria co
mune come uno degli esempi più alti di coraggio e passione. Una donna che pur avvinta da mille ostacoli, non ha mai smesso di ardere per la politica, l’arte e l’amore, senza bruciarsi mai. Incarna un modello di bellezza che non è propriamente sinonimo di beltà, effimera estetica, ma di forza, di quella luce di cui brillano solo gli illusi, gli eterni e strenui combattenti. Quell'aura di cui solo gli inarrendevoli, coloro che si struggono per un sentimento o una causa, senza remore né regole, si pregiano; quel fascino proprio di chi vive tutto d'un fiato, animato da forti passioni. Proprio al suo indiscusso fascino non rimasero indif
ferenti il poeta André Breton, Lev Trockij e Tina Modotti, di cui ne attirò le bramosie e ne fu forse amante.Negli anni perse il controllo del suo corpo, mai della mente, salda e inarrestabile nella lotta contro la Pelona, quella morte che la rincorse notte e giorno e che riuscirà a prendersela solo nel 1954.Frida Kahlo avrebbe avuto mille e un motivo per non affrontare la vita, per chiudersi dentro un guscio che non fosse solo il busto che dovette sempre indossare, ma una cosa la salvò: il pieno e lucido controllo della sua mente su cui esercitò pieno potere, le permise di fare della sua vita un’opera d'arte chiamata "Frida". Una breve esistenza che racchiude una storia immen
sa: quella di chi non ha mai ceduto all'incombere del proprio destino ma lo ha strenuamente combattuto, tanto da gridare anche in punto di morte "viva la vida"!
Poi ho capito, ricordando ciò che non avevo mai saputo: che per i grandi cuori che muoiono nel corpo ma che continuano a battere nel respiro della notte, non ci sono canoni o bellezze regolari, armonie esteriori, ma tuoni e temporali devastanti che portano ad illuminare un fiore,
nascosto, di struggente bellezza.
Anna Battistella
FRIDA KAHLO, UNA NUOVA I‐DEA DI BELLEZZAFrida, come solo ai miti accade, basta un nome per essere riconosciuta
9 SCHEGGE Aprile 2017
RIAPPROPRIAMOCI DEL NOSTRO CORPOStoria di donne in palestra
WARNING: Questo articolo parla di donne e del loro corpo. Non è stato scritto da una femminista, né da una sostenitrice della superiorità femminile su quella maschile, ma da una persona che vede tutte le disuguaglianze come un male da estirpare, quella di genere inclusa.
Frequento palestre dal 2012, e lo faccio da utente medio, senza scopi agonistici ma con una certa co
stanza e passione. Non ho mai smesso di allenarmi, a prescindere dal Paese in cui mi trovassi. Mi sono allenata in Corea come in Australia, a Riccione come a Forlì. Si può dire che sia un minimo comun denominatore di me stessa. Mi fa sentire a casa, a prescindere dalla distanza fisica che c’è dal luogo in cui mi trovo ed essa. Lo dico perché quello che sto per fare è un discorso di maturità e consapevolezza, e mi rendo conto che mi è possibile farlo solo grazie al tempo che ho speso tra bilancieri e tapis roulant. E tuttavia, è importante che noi donne iniziamo a riflettere su alcuni temi.L’altra settimana mi allenavo, come sempre con le
cuffiette e senza occhiali, impermeabilizzata dal mondo esterno, e noto questa ragazza. Giovane, sui vent’anni, che cerca in maniera discreta di fare esercizio in un angolo, con scarso successo. Si guarda intorno sperduta, in mano due manubri da 2kg l’uno. Non è vestita in maniera appariscente, niente leggins in tessuto ultra moderno, niente scarpe della Nike fluorescenti. È in difficoltà, e lo noto da come si muove. Si guarda intorno, prova a fare l’esercizio, si rende conto di sbagliare, ma non sa come correggersi. Si sente non solo impacciata, ma d’impaccio per gli altri. Ha scelto un punto del corridoio abbastanza trafficato. Grossi energumeni e spocchiosi PT le passano a qualche centimetro di distanza, noncuranti del disagio che le provocano. Io solitamente in palestra mi faccio i fatti miei, però
quel giorno mi sentii in dovere d’intervenire. Mi avvicino e le chiedo se posso darle un consiglio. Glielo chiedo con discrezione perché potrebbe non gradire, potrei averne avuto un’idea sbagliata, e magari sa benissimo che fare. Ma lei, con una nota di sollievo nella voce, mi risponde che si, lo vuole sentire il mio consiglio. Le spiego velocemente come correggere gli affondi con manubri che sta facendo, le dico di non guardare per terra mentre svolge l’esercizio, di tenere l’asse della colonna vertebrale diritto e lo sguardo fisso avanti a sé, di allargare la falcata. Cose così, piccolezze. Dettagli tecnici che ho imparato guardando video su YouTube, e confrontandomi con persone competenti. Mi ringrazia tantissimo, mi chiede se quel peso va bene per «sentire che i glutei lavorano», le dico che può stare tranquilla, anche se 4kg non sembrano tanti, l’indomani avrà i suoi DOMS (Delayed Onset Muscle Soreness). Qualsiasi palestra è piena di ragazze come quella di
questa storia. Ragazze normalissime, discrete, alle prime armi, che vogliono solo “fare un po’ di movimento”, ma che si lasciano intimorire dalla preponderante com
ponente maschile di questi luoghi. Le guardo e penso che io ero uguale, e che se ora sono più sicura di me è solo grazie alle rare persone competenti incontrate negli anni. Ma sono sempre troppo poche le volte in cui i PT si accorgono di loro. Magari sono un piccolo gruppo, che fanno a turni la macchina per l’interno coscia con 10kg di carico, che si sentono più forti ad avere un’amica vicino, con cui condividere l’allenamento. Mi piacerebbe andare da ciascuna di esse e incoraggiarle, spronarle, farle sentire a loro agio, dire loro che hanno tutto il diritto di stare li, anche se ad altri il loro esercizio apparirà irrisorio e inutile.
Vorrei che noi donne, tutte le donne, riuscissimo a non farci intimorire da questi ambienti maschili. Vorrei che nel 2017 non ci sentissimo più a disagio con noi stesse e col nostro corpo, in relazione all’ambiente in cui ci troviamo. So che non è un disagio totalizzante, ma è comunque sbagliato. Mi fa rabbia vedere ragazzine di diciassette anni che non sanno dove mettersi, perché hanno paura di intralciare il superset di qualche esibizionista impegnato a correre da una macchina all’altra. Mi fa rabbia che ci siano “PT” che lo permettono. Mi fa invece schifo, e non solo rabbia, vedere che è
sempre più spesso una questione estetica: l’aiuto viene offerto alle più avvenenti e provocanti. Amiche, donne, compagne di palestra, di lezione, di studio, di caffé, so che la colpa non è nostra, ma sta a noi reagire. So che c’è ancora una classe di persone che ha il potere di farci sentire inadeguate in alcuni posti che frequentiamo, soprattutto in quelli convenzionalmente “maschili”. Dobbiamo però riappropriarci dello spazio mediante i nostri corpi e il modo in cui li vestiamo. Rendiamoci conto che si parte da noi, dalla nostra presenza e dalla sicurezza che essa emana. Non dobbiamo permettere a nessuno di farci sentire di troppo, inadeguate, ma anzi, dobbiamo imporre la nostra persona con fermezza e determinazione. Che non vuol dire invadenza né maleducazione, ma iniziare ad abbattere dogmi preistorici e riprenderci di uno spazio che non solo ci è concesso, ma soprattutto ci è dovuto.
Maria Giulia Minnucci
10 SCHEGGE Aprile 2017
«Tu credi ancora in Bio?»
«Si, perché non dovrei?»
«Non hai visto il servizio di Report? Uno dei 14 enti di certificazione biologica che opera in Italia, il CCCPB, dovrebbe controllare le 160 aziende bio più grandi d’Italia. Tuttavia, queste sono associate in un consorzio di produttori, Il Biologico, che si è scoperto essere proprietario dello stesso ente di certificazione, CCCPB. Paradossale no? Il controllore e il controllato convergono nella stessa figura».
«Si, lo so. Le aziende, così come gli enti di certificazione, sono dirette da esseri umani e, in quanto tali, sono fallibili e corruttibili. Ma non bisogna mai fare di tutta l’erba un fascio. Conosco aziende che lavorano onestamente per far fronte ai rigidi controlli degli ispettori degli enti certificatori. Quindi si, continuerò a credere in
Bio, anche pagandolo il doppio». «Perché?»
«Perché acquistando un prodotto biologico non compro semplicemente del cibo sano, ma contribuisco a tutelare l’ambiente, in quanto si tratta di una coltivazione sostenibile. Bisogna vantarsi del fatto che gli Italiani l’abbiano capito. Siamo i primi in Europa. Secondo i dati della FederBio, gli operatori biologici certificati in Italia am
montano a 62.596».
«Ma anche io cerco di comprare del cibo sano e naturale, che è diverso da quello certificato “biologico”. Ogni mercoledì al Labàs fanno il mercatino biologico di quartiere, vado sempre lì e inizio a parlare con i contadini locali, che sono gli stessi rivenditori. Mio caro, la differenza fra me e te sta nel fatto che tu hai fiducia nell’industria biologica certificata e io no. Mi fido più del biologico non ufficiale, non certificato, “clandestino”».
«Ma come fai ad essere sicuro che questi prodotti siano effettivamente coltivati secondo i canoni del biologico? È necessario un controllore, un ispettore che ti dica, in base ad analisi chimiche del terreno, se siano presenti o meno sostanze chimiche nocive. I produttori biologici, per ottenere i certificati bio, devono seguire un regolamento ben preciso e sottoporsi al controllo da parte di enti di certificazione privati. Il controllo viene fatto da ispettori che individuano eventuali irregolarità, come
l'uso di pesticidi. Vengono controllate soprattutto le fatture che devono dimostrare l'acquisto di concimi e pro
dotti per la lotta biologica, oppure di mangimi biologici».
«Io sto dalla parte di quei produttori che si rifiutano di pagare gli enti certificatori per farsi certificare il biologico, con tutti i rischi di corruzione che ne potrebbero seguire. Quei contadini del territorio che coltivano in modo naturale, per la famiglia, vendono parte della produzione anche ai cittadini residenti nel loro stesso territorio. Così, il prodotto “naturalmente bio” costa di meno rispetto a quello certificato, sia per l’assenza di costi di trasporto, sia perché non è soggetto alle restrizioni fiscali imposte alle aziende; d’altro canto, però, non beneficia dei cospicui finanziamenti dell’UE verso i produttori bio. Ad esempio, vedi il movimento Genuino Clandestino, nato a Bologna con l’idea di sottrarsi alle logiche di (super)mercato. Oggi è diventato una realtà estesa a tutto il territorio italiano. È un’alternativa per tutti quei consumatori critici che cercano un nuovo modo di far la spesa. “Genuino” perché rimanda direttamente al rapporto umano con il produttore, esorta il consumatore a visitare il terreno e i (pochi) contadini che vi lavorano per vedere, con i propri occhi, i metodi di coltivazione utilizzati. È un mercato “all’antica” basato sulla fiducia, sul rapporto umano diretto, reso possibile in quanto “a km 0”. “Clandestino” perché è un mercato che non è a norma di legge. Da un lato, perché le norme e le restrizioni italiane a riguardo non sono adeguate alle esigenze dei piccoli produttori, bensì solo a quelle delle grandi industrie. Dall’altro, perché racchiude un diverso punto di vista, quello di tutti i contadini che si rifiutano di pagare gli enti certificatori per farsi certificare il biologico, in quanto reputano tale atto un’assurdità. Questi produttori preferiscono farsi giudicare direttamente dalla gente che acquista o vuole conoscere i loro prodotti. Il consumatore, visitando i produttori, diviene egli stesso ispettore».
«Non so che dirti, avrai ragione tu quando affermi che sia assurdo per i produttori pagare gli ispettori al fine di ottenere la certificazione bio. È chiaro che il rischio corruzione c’è, come in ogni cosa. Tuttavia, per quanto l’irruzione dei mercatini biologici nei quartieri d’Italia sia un fenomeno molto affascinante, non credo che il sistema di controllo proposto sia praticabile. A tal proposito, ti chiedo quanti consumatori vanno di persona negli orti di questi venditori clandestini a constatare la genuinità
dei prodotti? E attraverso quali criteri lo fanno?»
«Il fatto che questa possibilità esista è già un evento straordinario in sé. La discussione non si può esaurire su questo punto che hai appena sollevato. Non è un obbligo per i cittadini andare direttamente nei terreni, bensì è un’opportunità che tutti noi, compreso tu, dovremmo cogliere».
Sofia Calderone
FAKE BIOTu credi in Bio? Dal biologico industriale a quello territoriale
11 SCHEGGE Aprile 2017
INFOMED
Il tema dei vaccini ormai da anni vede contrapposti la comunità scientifica, che prosegue nella ricerca e nella sperimentazione di tecniche sempre più efficaci, ed i cosiddetti “antivaccinisti”, secondo i quali i danni provocati dai vaccini sono maggiori di quelli che potrebbero causare gli agenti infettivi stessi.In medicina, la vaccinazione viene definita come la
somministrazione di microrganismi vivi attenuati o uccisi o di parte di essi all’interno dell’organismo umano, il cui sistema immunitario si attiva riconoscendo l’antigene, attivando l’immunità e portando ad un’acquisizione della memoria immunologica. Essa è nata come scoperta empirica per opera di Jenner, medico britannico vissuto tra la metà del ‘700 ed ‘800, ed è stata una vera e propria rivoluzione perché ha permesso di combattere malattie infettive molto pericolose come il vaiolo e di ridurre fenomeni come la mortalità infantile e molto altro.Nonostante i progressi e i successi derivanti da tale
scoperta, l’opinione pubblica a riguardo, ancora oggi come molto tempo fa, si divide tra coloro a sostengo delle vaccinazioni considerate come “fondamentali” ai fini della propria sopravvivenza, e coloro che mantengono fermamente una posizione avversa e considerano i vaccini “pericolosi” per la propria incolumità. Di sicuro, la troppa disinformazione e le fake news sparse qua e là per il web non aiutano in tal senso; ad esempio, molti ritengono che vi sia una stretta correlazione tra i vaccini e l’autismo, disturbo del neurosviluppo che si manifesta entro il terzo anno di età, e che comporta deficit nella comunicazione e nell’interazione sociale, spesso associato a disturbi neurologici e/o comportamentali.
Tale concezione, totalmente priva di alcuna validità scientifica, affonda le sue radici nel 1998 quando tra le pagine della rivista “Lancet”, compare un articolo redatto da un medico inglese, Sir Andrew Wakefield, nel quale dichiarava che vi fosse una reale connessione tra i vaccini contro il morbillo, rosolia, parotide e l’autismo. Ma, sebbene alcuni anni dopo lo stesso dichiarò di aver inventato i dati per semplice interesse e tornaconto personale (una decisione che gli costò la radiazione dall’Ordine dei medici), ancora oggi la sua tesi è molto in voga. Basti pensare, infatti, a personaggi come Ro
bert Jr. Kennedy, conduttore radiofonico e avvocato ambientalista, il quale dichiarò fermamente il nesso causale tra i vaccini e l’autismo, una posizione quest’ultima portata avanti da Kennedy anche grazie alla pubblicazione di alcuni testi e a numerosi discorsi pubblici sulla tematica. Egli riveniva in un conservante a base di mercurio presente nei vaccini, la causa primaria in grado di generare disturbi neurologici; nonostante ciò sia stato largamente smentito dalla comunità scientifica, per eludere qualsiasi sospetto, tale componente è stato progressivamente eliminato dai vaccini a partire dagli anni ’90.Nel 2012, l’Organizzazione Mondiale della Sanità
(OMS) ha voluto far luce sulla questione, vista la dilagante disinformazione sul tema, affermando che l’unico aspetto avverso a dosaggi contenente thimerosal si concretizzano in reazioni allergiche locali, di breve durata e di piccola entità, che si manifestano attraverso rossore o gonfiore della pelle anche se, tali manifestazioni cutanee, potrebbero essere causate in egual misura da altre sostanze presenti nei vaccini.Di recente, Kennedy è stato nominato dall’ammini
strazione Trump, anche quest’ultimo fervente sostenitore della causa “antivaccini”, con il ruolo di guida di una commissione, che verifichi e dimostri l’efficacia e la sicurezza dei vaccini, e metta in discussione l’integrità scientifica e la legislazione riguardante le vaccinazioni dei bambini.Beninteso, un vaccino non potrà mai avere un’effica
cia pari al 100%; di fatti, la differenza è fatta dal numero di vaccinati. Si parla, infatti, di “Herd Immunity” o detta anche “Immunità di Gregge”: gran parte della popolazione è immune perché vaccinata e, solo così, è in grado così di resistere all’attacco dell’agente infettivo e di proteggere anche chi non può vaccinarsi. È grazie all’immunità di gregge se, per alcune malattie, si parla non solo di eliminazione ma anche di sradicamento, intendendo nel primo caso la scomparsa dell’agente patogeno da una certa area, mentre nel secondo la scomparsa dell’agente infettivo e della malattia in modo permanente.La scoperta dei vaccini è stata una svolta fondamen
tale nel mondo scientifico perché ha permesso di ridurre la mortalità e di combattere alcune patologie considerate letali in passato. Pur tuttavia, ciò non è bastato e non basta a contrastare la disinformazione, con il rischio ormai radicato di distogliere l’attenzione dai progressi della scienza senza i quali, ad oggi, vivremmo una realtà molto differente, scegliendo piuttosto di alimentare credenze che creano panico, generano ignoranza e finiscono per essere il “vero male” da sconfiggere.
Ludovica Borsci
Vaccini: tra evidenze scientifiche e disinformazione
12 SCHEGGE Aprile 2017
ALICE BADEL, 20 ANNI, ERASMUS A FORLÌ
Hi everyone! My name is Alice Badel
and I am a French Erasmus student currently stu
dying here in Forlì. I am studying translation in Geneva and I chose to come to Italy because I wanted and needed to improve my Italian, and as Forlì holds a very good school for translators and interpreters in Italy, my choice was pretty easy. As I am studying translation, I already knew Italian before coming here, but nevertheless, I learn new Italian words every single day! So, if you want to improve your Italian, don't hesitate to come and try, nobody will judge you, I can tell you! At the time I am writing this article, I have spent one
month and a half here. Already! Time flies so fast. The first half of the semester is gone, I have met so many amazing people and I don't want my exchange to end. I really enjoy sharing experiences with people from other countries and cultures to discover what are the different customs and traditions of everyone.Obviously, Forlì is not a big city like Bologna or
even Rome and some people can find this disappointing. However, living in a smaller city also has its advantages: everything in the city centre is accessible by foot or by bike, the station is not far either, you can find everything you want in the vicinity of the centre, no need to go out of the city… Indeed, I have been very surprised to learn that a lot of other Erasmus students weren't aware that they were actually going to be here in Forlì when then made their application. They chose Bologna without knowing that there were different campuses, but if it's your case, don't worry, you will also enjoy your time here, for sure! I may not be very objective because Geneva is not a big city either, but it is at least bigger than Forlì, and I found the same advantages in both.For me, Forlì is the kind of little Italian town that I
love. Italian people often ask me if I enjoy my time here in Forlì, and when I answer them that I like this town a lot, they seem surprised because Erasmus students usually don't expect to end up in this town and feel a bit disappointed, and so do Italians! Obviously, I wouldn't live my whole life here, but for a few months, it's exactly what I was expecting for, so I try to enjoy it as much as possible! What I like a lot in Forlì are the arches in the main street, some lovely little hidden churches that you didn't expect at all, small cobbled streets, the Parco Urbano where you can see dozens of free and cute bunnies everywhere, and obviously, the main square, Piazza Saffi, which is one of the most beautiful squares I have ever seen, mostly during night time… And there are also many things to do! The Koiné association organises a lot of different activities for us Erasmus students, such as tandems, cinema evenings, dinners and, of courses, parties! I personally enjoy a lot these parties because they allow us to meet new people, both Erasmus studen
ts and Italians. Obviously, it's not like huge parties in clubs such as what you may find in Bologna, but at least you can have a good time around a few drinks. I have to say that I allow myself to go out like this also because I don't have a lot of homework here, I actually do have much more work in Geneva, so I try to enjoy my student nightlife here as well!Moreover, about the parties, there is something that
has surprised me a lot: Italians go out, whatever day of the week it is. Until then, for me, you could go out on Thursdays, Fridays of Saturdays, but here there are parties even on Tuesdays! And once you have been to one of these during the week, you get addicted, at least you feel that it is the way they live here, so why not? I think it is the main thing that struck me, as well as the sense of hospitality of Italian people. Everybody is so open and kind with you for any sort of service, it is so pleasant to live in a country where the people are nice like this to you.Another advantage of this lovely city that is Forlì is
that it is pretty easy to travel around. There are other little beautiful towns such as Cesena, Ravenna or even Rimini if you want to have a look at the sea, but you can also easily travel to bigger cities like Milan with a fast train. One thing that you must also consider is the food. It is so amazing! I already knew part of the Italian cooking, but when you have access to all the fresh and cheap products, it's even better to try and enjoy Mediterranean food. There are also lots of little cafés, snacks and restaurants where you can have a good piadina or pizza for a few euros! As well as the food, the weather is also pretty nice. In a month and a half, I think it only rained twice or maybe three times, which is also a good point, especially when you like to travel around on the weekend like I do!I also have to say that I have been very well prepa
red. The Koiné staff is so kind, I mean, they can find you an accommodation, they come and get you from the station to your apartment (having previously explained you how to reach Forlì if you come by plane for example!), they get in touch with your landlord and they explain to you all the administrative stuff… It is so pleasant to have a support like this. And thanks to them, you can also meet Italian people because the risk of the Erasmus experience is to hang out mainly with Erasmus people, and not actually meet people who are from the country you live in. It was not what I was looking for, so I found that being a part of Koiné's events was also a cool way to meet Italian people and thus practise the language if you want to improve your Italian.Lastly, I look forward to enjoying the rest of my stay
here even more with the beginning of the spring season, and in case you were wondering to coming to Forlì for a potential next Erasmus, don't hesitate, it is absolutely worth it!
13 SCHEGGE Aprile 2017
Sono una studentessa all'ultimo anno della laurea magistrale SID, ucraina di origini, naturalizzata calabrese e forlivese d'ado
zione. Scrivo questo breve articolo per raccontare cosa è significato per me passare un semestre fuori dalla routine dell'UNIBO e mettermi in gioco vivendo sei mesi dall'altra parte del mondo: in Argentina.Una nazione da mille e una meraviglie che è passata
da essere un paese che mi aveva sempre affascinato, tanto da indirizzare gli studi universitari verso quell'area del mondo, ad essere quasi una parte di me. Spesso scherzando e raccontando di quest'esperienza affermo di «esser partita innamorata dell'Argentina e tornata come sua sposa». Di sicuro chi sta leggendo queste righe e ha fatto un'esperienza all'estero di questo tipo (che sia un Erasmus o un Overseas) comprenderà queste sensazioni, quella iniziale di paura seguita poi dall'innamoramento verso la meta scelta e quella di nostalgia e di gioia al ripensare a quel posto. Di qualsiasi viaggio si tratti, una volta tornati non si è più la stessa persona. L'Argentina non è solo tango, mate e asado. L'Argen
tina è tutto e tutti: un Paese nato dall'immigrazione europea e lo avverti camminando per le sue vie dallo stile europeo, osservando la loro tradizione culinaria o anche dai modi di fare un po' "all'italiana"; ma è anche un popolo con un'identità forte ed unica che ha saputo superare momenti tragici della propria storia, uscendone a testa alta. L'impatto iniziale di un forestiero/straniero che si trasferisce a Buenos Aires è forte: ti senti investito da un insieme di sensazioni e di contraddizioni che ti travolgono (e non puoi resisterle, devi accettarle e farti trasportare). In una sola giornata assisti almeno ad un paio di manifestazioni, di cortei per la strada che bloccano tutto il traffico, gente che può approfittarsi del tuo disorientamento per derubarti ma anche persone che ti aiutano nel caso ti vedano sperduto tra una calle e una avenida in cerca di una direzione. Spesso mi avvertivano gli stessi porteños (gli abitanti di Buenos Aires) di starci molto attenta, come in qualsiasi altra metropoli gli inconvenienti e pericoli erano in agguato, ma l'iniziale scombussolamento e paura erano superati dalla voglia di conoscere e sopratutto vivere quella meravigliosa città. Già dai primi giorni avevo scoperto cosa significasse prendere un mezzo pubblico (e farlo all'ora di picco non lo auguro a nessuno), che spesso le fermate degli autobus non sono ben indicate da una segnaletica bensì si tratta di fermare un autobus «vicino a quel albero lì» oppure «all'angolo di quel chiosco». Da sottolineare però come gli argentini sappiano for
mare e rispettare le file (per qualsiasi cosa: dalla fila alla fermata degli autobus a quella per entrare in banca, file che spesso possono arrivare anche a fare il giro intorno ad uno stesso palazzo o attraversare una piazza intera. In
ogni caso la fila si rispetta!). E per quanto si tratti di un paese del terzo mondo, gioivo ogni qualvolta che trovavo un WiFi libero in qualsiasi luogo pubblico: dalla metro ai parchi, dalle vie più frequentate ai caffè, alle università. Partita con una buona conoscenza di spagnolo presto
mi sono resa conto che potevo anche metterlo da parte e arrendermi al "sh" argentino al posto della "ll" o "y"; così il mio "yo me llamo" dovette trasformarsi in "sho me shamo" e così via. Il mio esser straniera traspariva non (solo) dall'accento e dai modi di fare, ma dalla mia ostinazione ad usare il "tù quieres" al posto del loro "vos querés". Devi esser pronto poi a vedere di tutto e di più per le
strade di Buenos Aires: dai bar "fighettini" nei quartieri più in della città (come Palermo, Hollywood o Recoleta) ai bimbi che giocano tranquillamente a pallone in mezzo alle vie sporche e poco frequentate come in Boca o Constitución. Buenos Aires è la "città della furia", come la battez
zó il cantante rock argentino Gustavo Cerati perchè lì «nessuno sa di te ma tu sei parte di tutto»; perché è una metropoli dal carattere cosmopolita, una città moderna che ha saputo conservare le sue antiche tradizioni trasformandosi in un posto in grado di sorprenderti e farti innamorare. Non mi bastano le poche righe concesse qui per de
scrivere tutto ciò che è Buenos Aires e nemmeno credo di averla conosciuta al cento per cento io: ogni suo angolo ha mille storie da raccontare e ti rapisce con l'odore di una medialuna appena sfornata o un richiamo melodico di Carlos Gardel, il padre del tango. Non ti stanchi mai di ricorrere la Avenida 9 de Julio, conosciuta come la via più larga del mondo, ammirare l'Obelisco che spicca nel cielo durante un tramonto, sfogliare i libri in El Ateneo, una libreriaparadiso situata all'interno di un antico teatro o sentirsi a casa grazie a quell'ospitalità e calore che emettono gli argentini. Sono ritornata in Italia portando con me i momenti,
le avventure e anche quella voglia di godermi la vita con le piccole gioie, che ho imparato a conoscere solo lì, con un nuovo motto tutto porteño «¿Qué me importa?».
Me veras volarPor la ciudad de la furiaDonde nadie sabe de miY yo soy parte de todos
Soda Stereo, 1988
MAR'YANA POLOVCHUCK, 26 ANNI, ARGENTINA
14 SCHEGGE Aprile 2017
THE WIND OF CHANGEFrammenti di Mosca
Ventotto anni fa il vento del cambiamento ha spazzato
via il muro di Berlino, ha scosso l’Europa. Il vento di Dresda e Berlino è diventato una tempesta che ha sgretolato il patto di Varsavia portandosi dietro, sotto le macerie dell’Urss, una carica di speranza e di fiducia. La fine della Guerra Fredda
ha proiettato l’Europa dell’Est e la neonata Federazione Russa nel mondo del capitale. “The wind of Change”, il vento del cambiamento, soffiava nelle piazze del Vecchio Continente, volava insieme alle note degli Scorpions e proiettava la speranza fino alla Grande Madre Russia, seguendo la Moscova, giù fino a Gorky Park.La realtà è che il crollo del Muro di Berlino e il 1991
non hanno spazzato via un mondo, non avrebbero mai potuto distruggere ogni cosa. La nuova alba, il sorgere della Russia post sovietica ha in realtà traghettato il paese in un periodo di crisi violenta e acuta. Le immagini dell’epoca raccontano di una Russia in festa, lanciata verso un nuovo mondo, verso un futuro ed una rinascita sponsorizzata dalla privatizzazione. Ma la privatizzazione di tutto ciò che apparteneva all’Urss andava di pari passo con l’esplodere della corruzione, con il rafforzamento dei legami clientelari, con l’arricchimento di oligarchi come l’attuale presidente del Chelsea Abramovich e con l’impoverimento degli strati più deboli della popolazione. È l’immagine della Russia di Boris Yeltsin, una Russia percepita – non a torto – come debole e corrotta, vittima dei capricci degli oligarchi e del nucleo di clientes costituitosi attorno alla figura dell’allora presidente. Oggi cammino per Mosca, e nei pressi di Tverskaya,
a piazza Teatralnaya, i turisti scattano foto con gli Iphone, si fanno un selfie con la statua di Karl Marx. “Proletari di tutto il mondo unitevi”, scriveva il padre del Capitale. Proseguendo verso ovest, a 800
metri da Marx possiamo pranzare da McDonald’s. Mosca mostra fiera le cicatrici del passato e il progresso del presente. L’era di Yeltsin non poteva durare a lungo ed ecco che un giovane ufficiale del KGB, dopo una rapidissima ascesa e dopo aver bypassato buona parte del cursus honorum politico, conquista la Duma e ascende al Cremlino. I sondaggi rivelano l’amore dei russi per il
loro presidente. Putin è considerato come l‘uomo capace di prendere per mano il suo paese e di accompagnarlo verso un nuovo futuro. Considerato dalla CNN “The most powerful man in the world”, il presidente russo è riuscito a cancellare le opposizioni, a sottrarre credibilità ai suoi avversari, a controllare i Mass Media. Passeggiando per il centro di Mosca, dal Cremlino alla statua del Generale Žukov, l’eroe della
“Grande guerra patriottica” fino alla Moscova, passando per Piazza Rossa e per il Mausoleo di Lenin, non si può non notare la concezione russa del potere. Un potere che resiste al tempo, che rimane tangibile nell’estetica stessa della città. Mosca è enorme, in ogni senso, da ogni prospettiva; persino i suoi colori ci raccontano qualcosa e ci traghettano dall’esplosione di vivacità della cattedrale di San Basilio al grigiore delle sterminate periferie sovietiche. Grigio è il cielo e grigio è il volto della Russia e dei russi ma rosso è il cuore e deciso lo spirito. La mia università, la People’s Friendiship University
of Russia, ospita studenti da tutto il mondo e in particolare da Cina, Africa ed ex Repubbliche Sovietiche. Gli studenti internazionali si incontrano e si scontrano con la realtà quotidiana russa. Viviamo nei “blocchi”, i dormitori dell’università, composti da mini appartamenti da 710 persone: le camere singole non esistono e il principio di internazionalità influenza la stessa composizione “etnica” degli appartamenti e delle camere. Io ad esempio condivido la camera con un ragazzo cinese e uno sudafricano: tre continenti, tre storie di vita diverse, tre modi di vedere il mondo diversi e una cinquantina di ore di volo in 20 metri quadrati scarsi. In questa notte di primavera fuori dal mio blocco ci
sono zero gradi e io cerco di raccontarvi confusamente frammenti di Russia e frammenti di Mosca, sperando di riuscire a comunicare qualcosa. Forse la confusione è lo stile più adeguato per raccontare questa città in 5000 battute dopo un mese di esperienza.Tornando agli Scorpions, il vento del cambiamento
ha veramente scosso pesantemente questo paese. La vergogna e il senso di umiliazione che la Russia prova dopo la caduta dell’Urss, dopo la fine di quello che i documentaristi della CNN chiamano “impero russo” non ha distrutto niente. La Russia di Putin ha voglia di tornare protagonista nella geopolitica mondiale e probabilmente è riuscita nel suo intento. La guerra in Cecenia, la guerra tra Russia e Ucraina per la Crimea, la voglia di giocare un ruolo di primo piano in Medio Oriente testimoniano che, anche se nel profondo l’uomo non smette mai di sperare, sono le armi e il sangue a macchiare i libri di storia.
Ignazio Pisanu
15 SCHEGGE Aprile 2017
CARTOLINE DA BRUXELLESL’incontro ravvicinato con un’Unione Europea che ha imparato ad accorciarsi le maniche
A Bruxelles il cielo grigio d’inverno pesa sui tetti a punta delle case nordiche del centro e sugli alti pa
lazzi grigi di Rue de la Loi, che sfrontati sfidano i limiti di quel confine freddo. Le vie si costruiscono tra palazzi giganteschi religiosamente definiti e rigorosamente a specchio, tanto da rendere le vie della Bruxelles del quartiere delle istituzioni indistinguibili per un’esterna come me. I locals anche se definirli così significherebbe pri
varli della loro vera origine italiana, spagnola, tedesca e così via la chiamano la “bubble”, la bolla, una sezione della capitale belga che si trasforma rapidamente anche nella capitale dell’Unione Europea, che respira superando i confini nazionali, che è costante lavoro, che è passione e che si spinge oltre per vedere in prospettiva, il futuro che spetta alla Comunità. Nella bubble sembra di allontanarci per un momento dalla quotidianità dei Bruxellois, per addentrarci a passo spedito in un mondo parallelo fatto di molteplici nazionalità, di giovani realtà, che ogni sera dopo l’ennesima giornata di tirocinio conclusa, si riuniscono in uno dei pub di Place de Luxembourg. È facile dire che qui, nel cuore pulsante, nel motore dell’Unione Europea, sembra di essere in un mondo parallelo, in un mondo a sé stante che procede non indisturbato mentre tutto il resto continua a puntargli gli occhi e gli indici addosso.Camminare per le strade di questa città a quasi un an
no dagli attentati del Marzo scorso ed incrociare amaramente le scritte “forget” e “remember” sulla facciata principale della stazione di Maelbeek, porta con se la stessa sensazione di una ferita aperta al tatto.
Che l’Europa stia soffrendo lo si percepisce dall’aria densa che si respira, ma più che abbandonarsi alla convinzione che l’Unione approcci le molteplici sfide che si trova dinnanzi con fare di sconfitta, è interessante indagare in profondità, leggere tra le righe e scoprire che la strada futura tracciata da Bruxelles è intessuta con il filo conduttore della “resilience”. Le paure degli europei, la chiusura di alcuni ideali e progetti politici, sfiorano ed incentivano le priorità di un’Unione in profonda crisi e non ne scalfiscono la volontà di ripartire. Il recente documento sulla Global Strategy, prodotto dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini, si con
centra sullo sforzo di sviluppare, per quanto possibile, una politica estera europea. Questo nel tentativo di acquietare la schizofrenia che da sempre caratterizza le relazioni esterne dell’UE, rispondendo alle calde sfide del terrorismo e dell’amministrazione Trump, che da oltreoceano invoca una maggiore partecipazione europea alla propria difesa. Le sfide che gravano sulle spalle della
Comunità non sono poche, ma è parlando con chi si trova dietro le quinte e fa funzionare l’Europa, costruendola giorno per giorno che è possibile carpire l’importanza di questo momento
per ripartire. Le volubili dinamiche del sistema internazionali permettono di valutare nuove opzioni e, al contempo, di porre sul tavolo delle discussioni temi critici, talvolta accantonati a causa della debolezza di un’UE che non può considerarsi in grado di percorrere una propria strada politica definita ed unitaria.A sessant’anni dai Trattati di Roma, gli obiettivi cen
trali che a Bruxelles si cerca di porsi sono essenzialmente obiettivi di sicurezza e di rafforzamento delle relazioni con i paesi terzi, che guardano all’Unione con meno forza ed attrattività di prima. Questo, a partire dalla necessità di riconcedere alla comunità un ruolo forte, alla base del quale si pone una rinnovata e rinforzata collaborazione tra gli stati membri per affrontare il nuovo ruolo della NATO, infiacchita dall’amministrazione Trump.Guardando all’Unione con gli occhi di chi è da poco
passato dai libri alle scrivanie degli uffici nei piani più o meno alti degli edifici nel quartiere europeo, si può toccare con mano la tangibilità dell’operato di Bruxelles. La destinazione ultima è verso nuovi orizzonti, con la presa di coscienza di quelle che sono le contraddizioni e le difficoltà che oggi più che mai caratterizzano questo percorso. Chi vive le istituzioni dai momenti di gloria, invece, soffre nel realizzare le differenze che questa Europa ha con quella del passato. Tuttavia, la speranza di un futuro più roseo è presente negli intenti e traspare dalla passione che guida le parole di chi parla, di chi pur ricoprendo posizioni di prestigio, decide di lasciarsi andare ad inviti alla riflessione e alla presa di coscienza, con una forte fiducia in quello che sarà, in quello che riusciremo a costruire nel domani, partecipando alla realizzazione di un nuovo capitolo nella storia dell’Unione Europea.
Giorgia Miccoli
16 SCHEGGE Aprile 2017
Un anno fa, il 4 di maggio, le pagine online di alcuni tra i maggiori quotidiani nazionali riportavano tito
li di questo genere «Pino Maniaci accusato di estorsione» oppure «L’antimafia sporca del direttore di Telejato». Per quanti non conoscano questi nomi si aprirà una necessaria parentesi, nel tentativo di presentare gli attori e l’ambientazione di questa serie all’italiana.La Sicilia, in particolare la provincia di Palermo, può
sembrare una luogo simile a molti altri. Paesaggi stupendi, mare, ottimo cibo, amministrazioni che saltano, opere incompiute, corruzione, attributi normali in un Paese come il nostro. La particolarità, sconosciuta da chi non hanno vissuto questo territorio intimamente, si trova nella cultura, nelle abitudini e nella “normalità” quotidiana dei suoi abitanti. Perché, se nelle teorie democratiche l’individuo cede il proprio diritto all’uso della forza allo Stato, in cambio della salvaguardia dei propri diritti e della libertà, in questa realtà lo Stato sembra aver avuto le idee confuse. Non solo acconsentendo allo sviluppo di poteri alternativi ad esso, ma consegnandogli la forza coercitiva della violenza impunita, tanto da arrivare, tra il 1992 e il 1993 a subire undici attentati che coinvolsero innocenti e funzionari della Repubblica. Lo stato dentro lo Stato palesa la sua esistenza e lo Stato risponde, apparentemente sconfiggendo questo potere criminale. Dopo venticinque anni, è chiaro come questa vittoria non abbia eliminato il problema e come le persone che vivono sul suolo siciliano siano ancora soggette a logiche e angherie mafiose. In questo contesto, nel 1999, un Signor Nessuno rile
va una piccola televisione commerciale nel comune di Partinico (PM) con un’idea ben precisa in mente: un telegiornale in cui dire nomi e cognomi dei mafiosi e dirli nella terra dell’omertà. Pino Maniaci, sbrigativo, inventore di insulti coloritissimi e una faccia di bronzo che porta a chiedersi come possa non essere già sotto terra. Nei successivi diciotto anni Telejato svolgerà sostanzialmente un servizio pubblico, farà giornalismo antimafia d’inchiesta e i suoi risultati arriveranno all’attenzione di Reporter sans Frontières e della CNN.
Sembra quasi una storia a lieto fine quando, dopo undici anni, finalmente l’Italia si accorge di questo lavoro grazie ad un intervista di Pif ne “Il testimone”. Il titolo del
la puntata in questione è “Gli Scassaminchia”, al secolo, i Rompicoglioni. In effetti il lavoro dei giornalisti di Telejato rompe parecchio, non solo negli ambienti mafiosi ma anche all’interno delle forze dell’ordine locali, dei consigli comunali e della società civile, perché nel lavoro di giornalisti non si deve aver paura di dire tutto ciò che si sa, tutto ciò che il pubblico deve sapere e chi lavora a Telejato, non ha mai avuto paura di questo. Nel 2015 un’inchiesta avviata proprio da qui, porta a scoprire un giro criminale che coinvolgerà circa venti persone tra funzionari, giudici e avvocati del Tribunale di Palermo, accusate di aver utilizzato beni sequestrati alla mafia per accrescere la propria ricchezza e posizione, invece di restituirle alla comunità. L’inchiesta, in sintesi, svela come amministratori giudiziari nominati per il recupero di imprese tolte al controllo mafioso, si facessero assegnare decine di casi per poi portare al fallimento le aziende in questione, incassare le liquidazioni e spartirle tra i complici. Il cosiddetto “Caso Saguto” verrà seguito anche da “Le Iene” che andranno a chiedere spiegazioni direttamente alla presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Rosy Bindi. Lei non gradirà la visita. Tutto ciò ad ottobre 2015, a novembre le pagine web di alcuni giornali titoleranno più o meno così «La Corte Europea vuole chiudere Telejato, disturba le frequenze di una rete di Malta». La notizia ha dell’assurdo, gli stessi giornalisti si chiedono che logica ci possa essere dietro queste notizie, però nella sede della televisione a Partinico, gli agenti incaricati arrivarono per davvero, pronti a disconnettere e sigillare i server necessari per la messa in onda del palinsesto, bloccando il tutto fino a data da destinarsi. Grazie alla resistenza dello staff della televisione, dopo appena due settimane, questa non ben definita “Corte Europea” sembra scordarsi di Telejato e Pino e gli altri vengono rassicurati dalle autorità competenti che non c’è nessun conflitto di frequenze e che le trasmissioni possono continuare regolarmente. Però i dubbi restano su cosa possa essere realmente accaduto. Sul significato di questo tentativo di chiusura. Chi? Perché? E come mai in due settimane sembra essere finito tutto?Maggio 2016, i siti internet di alcuni dei maggiori
quotidiani nazionali pubblicano un collage di intercettazioni e video, preparato dai carabinieri di Partinico. Il soggetto è Pino Manici che parla con una presunta amante, che da dello stronzo al presidente del consiglio, che parla con il sindaco di un comune limitrofo chiedendogli 466 euro. Il titolo del video è «Pino Maniaci l’eroe dell’antimafia accusato di estorsione». Tralasciando il fatto che dare dello stronzo al presidente del consiglio nel proprio privato non è estorsione, né lo è avere un’amante o vantarsi con lei o anche la cifra assurda da estorcere 466 euro precise, non 470, non 450 ma 466, l’attenzione va focalizzata sul quando questo
DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI LIBERTÀ DI STAMPA?Lui, l’antimafia e l’amante, tragedia in tre atti
17 SCHEGGE Aprile 2017
Bello Figo è un nuovo fenomeno del web. Vive a Parma ma è originario del Ghana. Da un mese a
questa parte tutti lo conoscono e tutti ne parlano, bene o male, poco importa.Ha iniziato pubblicando delle sue canzoni su Youtu
be, un rap “trash”, nonostante avesse comunque notevoli visualizzazioni, non aveva acquisito la fama che lo distingue ora. Le sue ultime canzoni “No Pago Affitto”e “Referendum Costituzionale” lo hanno portato ospite della trasmissione su rete 4, “Dalla vostra parte”, un salotto in cui indignazione e buonismo dilagano; capro espiatorio di tutti le persone presenti ed in particolare di Alessandra Mussolini, la quale ai suoi insulti è stata dabbata dal sopracitato. Offese e minacce sono state la diretta conseguenza a seguito dell'andata in onda del programma.
Tre concerti annullati, il primo a Brescia alla Latteria Molloy, poi la sera di Capodanno a Mantova (Borgo Virgilio) e il terzo a Legnano al Land of Freedom. Nonostante il 21 gennaio Bello Figo sia riuscito a fare un Sold out all'Astoria (Torino), le minacce non si sono placate. Iniziate come commenti offensivi sugli eventi
di Facebook sono giunti, come nel caso di Mantova e più recentemente a Roma, a striscioni razzisti. Il 4 febbraio, infatti, il cantante italoghanese ha tenuto un concerto agli Ex Magazzini di Roma, ma gli esponenti di Azione Frontale, estrema destra, lo hanno minacciato settimane prima della data e avevano mandato “una diffida tramite raccomandata agli organizzatori di tale evento”.I suoi testi sono provocatori, cavalcano gli slogan dei
populisti applicandoli allo stereotipo del migrante, di colui che non paga l'affitto che il governo gli cede, colui che “ci” ruba il lavoro e le “nostre” donne bianche. Ironia che molti non hanno compreso e a cui hanno saputo solo rispondere con insulti e minacce. Altri, invece, utilizzano queste canzoni come inni per rispondere ai corirazzisti, come è avvenuto a Milano durante un corteo di Forza Nuova, in cui un gruppo di quindicenni in risposta a “Italia agli Italiana, la Patria prima di tutto” hanno messo a tutto volume “No pago affitto” e hanno dabbato davanti ai manifestanti. Questi ultimi hanno cacciato malamente dalla manifestazione il gruppo di giovani. Sicuramente non si può paragonare Bello Figo a
Giorgio Gaber e altri artisti che hanno urtato il sistema politico, ma sicuramente sta facendo smuovere la destra xenofoba e ignorante e al contempo sta scoperchiando le falle presenti in una sinistra che non sa come rispondere.
Giada Pasquettaz
BELLO FIGO: IL CANTANTE PIÙ POLITICO DEL MOMENTO?Tre concerti annullati e minacce ai successivi
video viene pubblicato su scala nazionale. Un giorno prima che all’imputato fosse consegnato l’avviso di garanzia.
Non serve una laurea in Mass Media e Politica per capire che ci troviamo davanti a un piano diffamatorio costruito ad hoc. Anche il tentativo di chiusura di novembre 2015 assume una connotazione chiara, fungeva
da scappatoia, un modo per chiudere onorevolmente, senza scandali. A Pino viene vietato il domicilio a Partinico, la sua casa, il suo lavoro. Praticamente viene trattato come un ultras violento che prende il daspo. Da allora chiunque sia passato per la bocca di Pino o per gli articoli di Telejato ha incominciato a querelare lui e la televisione. «Siamo sommersi di querele, non possiamo più lavorare» così si leggeva sul sito di Telejato il 4 aprile u.s. «Ebbene, così andando avanti chiudiamo noi», «Chi ci ama ci scusi, è stato bello». Mentre il mondo parla di post truth e fake news, l’Ita
lia continua ad essere al 77° posto per libertà di stampa. Individui che lottano contro le carenze strutturali del nostro Stato, sopperendo alla sua mancanza di attenzione e amore, vengono stremati nelle forze e nello spirito dallo stesso Stato che essi sostengono. Chissà perché poi.
Kevin Carboni
18 SCHEGGE Aprile 2017
25 APRILE : LA RESISTENZA E LA SUA LUCE
La Festa della Liberazione non è una ricorrenza riassumibile in un
unico romanzo. Per l'enorme complessità del tema e il suo intreccio prospettivistico, non racconterò in queste righe i fatti dal 1943 al 1945 come un manuale di storia, perché la Resistenza non è una sola storia, ma una grande famiglia di racconti che non si possono raccogliere tutti insieme. Il lungo e doloroso processo che ha portato alla Liberazione ha una data di inizio, l'8 Settembre e l'entrata in vigore dell'armistizio di Cassibile, e si conclude, simbolicamente, con la proclamazione dello sciopero generale del futuro presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini, che presiedeva il CLNAI, ai cittadini e lavoratori milanesi: «contro l'occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire». Nel mezzo ci sono storie di partigiani, di vite spezzate e molte ambiguità, che anche attraverso la memoria, quella frutto di studi e confronti, non soltanto “di stato” o imposta dalle istituzioni, siamo chiamati a non dimenticare giacché la vera lotta, direbbe Pasolini, si svolge «nell'intimo delle nostre coscienze» prima che nelle piazze. La ricorrenza del 25 Aprile non si può riassumere in
un romanzo, non in uno soltanto, quindi credo che ognuno possa sentire come proprio questo giorno, condividendone i principi nazionali di unità, di riscatto totale di una nazione (compresi coloro che non hanno preso parte a tale conflitto, primariamente civile e poi di classe, per chi non ha parteggiato, per chi è rimasto odiosamente indifferente o ha abbracciato la parte repubblichina), di ritorno alla democrazia dopo il ventennio fascista. Eppure è grazie anche alla letteratura italiana e alle testimonianze dirette se siamo riusciti ad ascoltare altri racconti lontani, a partire dal commovente esordio “Il sentiero dei nidi di ragno” (1947) di Italo Calvino, dove il punto di vista del bambino nel mondo dei grandi gappisti spegne tutte le voci che, previste dall'autore con grande lungimiranza, hanno cercato di dipingere gli ideali partigiani come criminosi. Lo stesso Calvino, sentendo la responsabilità di testimone speciale di tale periodo storico, quindi il dovere imperativo di pubblicare un romanzo lontano dagli eroismi e circondato di monelli e vagabondi, rispose alle polemiche: «Anche chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un'elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere!». Forse questa sentenza dovremmo annotarcela per le prossime discussioni con un negazionista qualsiasi, perché il significato ulti
mo dell'opera è il “ricordo”, quello che vince su ogni ideologica messa in dubbio futura, quest'ultima destinata ad appiattire le ragioni storiche di tale conflitto fratricida, accomunando i morti perché “tutti uguali”, tacciando ogni motivazione per la quale si sono combattuti in vita, se per una repubblica democratica o per una dittatura. Primo Levi, che più di tutti concentrò la morale della sua opera sulla memoria, già nel dopoguerra si preoccupò di chi l'avrebbe persa sugli eccidi e di chi si sarebbe autoassolto con «Queste cose (i lager) le hanno
fatte loro, non noi», rafforzando così il mito degli «italiani brava gente» e dimenticando che il nazismo è stata «una metastasi di un tumore che è nato in Italia e che ha poi condotto vicino alla morte l'intera Europa». Complice il colpo di spugna dell'amnistia Togliatti del 1946, pensata in ragione «dell'impossibilità di processare un intero paese», ha ottenuto una pacificazione nazionale per favorire il processo costituente, e allo stesso tempo una scarcerazione indifferenziata anche per criminali di fatto: dunque la giustizia sacrificata in nome della ragion di stato.Se l'anniversario della Liberazione appartiene ad una
famiglia di racconti e ricordi, il mio più umile e personale, in base agli studi e ai legami con la terra d'origine, sarebbe una vecchia foto: era il 28 Aprile a Venezia, le trattative di resa con i tedeschi terminarono e il CLN proclamò lo “sciopero generale insurrezionale” e le calli e i campi furono percorsi in lungo e in largo da gruppi di partigiani e gente comune che si accoda a loro; la foto ritrae la folla veneziana in piazza San Marco, per la prima volta dal Marzo 1848, che occupa un luogo aperto con la stessa gioia risorgimentale del secolo precedente, la stessa ansia di giustizia e libertà.Per questo, ancora oggi è necessario il 25 Aprile: la
storia siamo noi, un popolo di oppressi che si sono liberati, come dopo un lungo sonno nella loro quinta guerra d'indipendenza, atto finale del nostro risorgimento. E mai co
me oggi serve lottare con tutte le armi del sapere perché i nuovi oppressi siano liberati dai nuovi muri. E ancora risuona, nella sua pura luce di speranza, il monito di Calamandrei nella sua Lapide ad ignominia: «Ora e sempre, RESISTENZA».
Luca Giro
19 SCHEGGE Aprile 2017
I LAVORI CHE HO SVOLTOStoria semiseria di un laureato che si arrangia
Vorrei scrivere un articolo che sia pieno di consigli sul mon
do del lavoro, ma per farlo ho bisogno di farvi passare attraverso la mia rete di esperienze, che disegnano la mappa della mia vita. Durante tutto il periodo di studi, ho svolto attività parallele di tipo lavorativo che considero alla stregua di un “libero tirocinio”: cercavo di capire come funzionassero gli strumenti usati dai liberi professionisti per la rilevazione statistica, che mi permettevano d'integrare gli studi universitari. Da un giorno all'altro mi sono trovato senza soldi, così mi sono chiesto «Cosa posso fare da domani per poter comprare del cibo?». È stata la domanda che mi ha cambiato la vita, perché avevo bisogno sin da subito di trovarmi qualcosa che potesse sostenermi, avevo bisogno di soldi per estinguere le mie esigenze primarie. All'inizio vendevo oggetti che ottenevo accompa
gnando dei magazzinieri che sgomberavano cantine e soffitte; poi con i soldi accumulati ho iniziato a comprare e vendere partite di quaderni o elettrodomestici. Una volta ho acquistato una partita che nel 2010 sarebbe valsa almeno 400 euro; solo dopo ho scoperto che l'usato elettronico oggi diminuisce il suo valore sul mercato di quasi il 50% in sei mesi e me la sono cavata dando fondo a tutti i risparmi per compensare la perdita. Con il tempo ho capito quali tipi di beni avessero sempre un valore economico e quali non valeva la pena comprare se non sapevi a chi venderli; ciò nonostante spesso sono andato alla ricerca di categorie nuove di oggetti che ora giacciono inutilizzati in qualche deposito. Ho imparato sulla mia pelle che la libera impresa è
sempre un rischio, che quasi sempre vale la pena provare ma soprattutto che è importante riuscire. Lavorare ti dà delle skills pratiche che poi puoi applicare in situazioni diverse, ti obbliga ad essere sempre aggiornato. Il fatto di avere capacità che siano sempre efficienti, se legato alla situazione di dover collaborare in modo proficuo con altre persone in ufficio, dovrebbe portare la persona a migliorarsi ogni giorno, e per me questo ha significato essere sempre sul pezzo. Per imparare ad essere sempre aggiornato, fare il ghostwriter è stato utile perché, nonostante la paga scarsa, apprendi molto; in redazione passano domande su nuove app e arrivano notifiche che parlano di nuovi investimenti fruttuosi. Dopo un po' di tempo che sei costretto a comprendere
il funzionamento di app ed investimenti, il passaggio a fare il trader è breve e, se fatto oculatamente, fruttuoso. Essere sempre sul pezzo è importante come l'empatia, l'educazione ed avere buon senso. In ogni azienda si collabora con persone che vengono da realtà diverse e
che fanno lavori diversi, per cui bisogna anche abituarsi all'idea di vedere lavori degli altri che sono l'opposto di tutto ciò che noi riteniamo tale e bisogna accettare che questo può anche ottenere un discreto suc
cesso. Sopravvivere a tutto questo è formativo soprattutto
perché ti evita la paura del "senza esperienza imbottito d'idee" su come
dovrebbe essere un ambiente di lavoro, che non ha mai fatto nulla e non sa cosa accade o come ci si comporta. In particolare, durante le prove che seguivano i colloqui, mi trovavo avvantaggiato perché sapevo come comportarmi rispetto a dei ragazzi che avevano la laurea quinquennale e non avevano lavorato un solo giorno. Ciò mi ha portato ad interessarmi di più alla questione del lavoro in Italia: dopo la crisi del 2008 si presenta in una situazione frammentata dove esistono zone in cui il lavoro scarseggia perché legate a sistemi di lavoro non più sostenibili oggi, ed altre situazioni in cui, invece, il lavoro cresce perché cresce l'economia locale, essendo ben gestita. Da questo tipo di attività, ho iniziato a cercare annunci di lavoro dove gli indicatori segnalavano le zone più virtuose, e così ho iniziato a trovare lavoro ad amici e parenti. Per comunicare, però, è necessario tenere allenate an
che le due forme comunicative fondamentali: convezioni formali ed empatia. Le prime le ho apprese facendo il PR. In questi casi, devi essere competitivo, ed io ho rinunciato per paura ed esasperazione di dover sempre competere con i colleghi nelle relazioni dirette con il pubblico, attività per la quale sono meno dotato rispetto all'uso del computer. Questa mia debolezza mi faceva passare la notte in giro per casa con una boccetta di Ansiolin sotto il braccio, finché un giorno non ho resistito più ed ho mollato. Il nostro Paese ha un forte bisogno d'imprese e non
d'impiegati, perché ogni impresa che riesce a sopravvivere alle banche, alla burocrazia e alla mala politica ed intercetta fette nuove di mercato, è destinata ad avere successo, soprattutto in questo momento storico dove è in atto una vera rivoluzione tecnologica. Il punto è: quante persone sono davvero disposte a portare avanti le loro idee affinché tutti le riconoscano come affermate?
Luca Giovagnola
20 SCHEGGE Aprile 2017
La prima volta che lo vidi in scaffale, mentre spolveravo svogliata
mente in libreria in un afoso pomeriggio di agosto, Andre Dubus non mi fece nessun particolare effetto. Non sono una di quelle lettrici che sceglie i libri in base alle recensioni, io. Come le persone, anche le letture per me sono questione di pelle, di chimica, di quel brivido di curiosità che ti smuovono involontariamente. E tra me e Andre, nulla. Lo spolvero per bene, e lo ripongo al suo posto, delicatamente e con distacco. Per me era già finita.Capita poi che passano le stagioni, e
mi ritrovo da cliente in quella stessa libreria dove in estate mi guadagno qualche soldo, ed eccolo di nuovo lì. Voci dalla luna mi stava aspettando, credo sapesse che avevamo un conto in sospeso, io e lui. L’avevo giudicato troppo frettolosamente, ed era pronto a farmi ricredere. Leggendo la quarta di copertina, capisco che forse ero stata troppo affrettata, e lo acquisto. Sono passati un altro paio di mesi prima che fosse il suo turno, ma poi, complice una riunione particolarmente tranquilla del KCB, anche Dubus riesce a farsi spazio tra le assegnazioni del club, e di conseguenza tra le mie letture della settimana. Voci dalla luna è un sogno onirico pericolosamente
reale e concreto. Parte da un fatto di vita quotidiana, quasi un pettegolezzo. C’è un padre divorziato con due figli, e c’è come sempre una storia d’amore pretestuosa, quella della ex moglie di uno dei due figli con il capofamiglia. C’è lo scandalo, la discussione, i rapporti strappati. C’è Richie, che a 12 anni si domanda come farà a rimanere cristiano in una famiglia ingarbugliata come quella, e che coltiva segretamente il desiderio di entrare in seminario, e ancor più segretamente – e inconsapevolmente – un’attrazione adolescenziale verso una vicina di casa, che profuma «di rossetto e sigarette». In uno scenario empio, Dubus costruisce un racconto
breve pieno di dignità. Grazie alla dimensione ciclica del racconto – un capitolo per ciascun personaggio, ciascuno un momento diverso della storia – Andre Dubus mette su carta un dramma con la discrezione di ogni grande autore. La sua mano si perde dietro i protagonisti, e la si nota solo nell’umana dignità che conferisce al suo racconto. In Voci dalla luna nessuno urla, strepita, piange, ma tutti si confrontano con il loro io più profondo, e fanno i conti con la situazione in cui si sono cacciati o sono stati trascinati. Lo fa il capofamiglia, Greg, che si domanda dove questo amore improbabile per Brenda lo porterà e quanto questo farà male a Larry e Richie, i figli. Lo fa Larry, che dopo un divorzio straziante dalla stessa Brenda, s’interroga sul perché vederla con un altro uomo gli faccia ancora male, e su che dirit
to possa ancora avere sulla sua ex moglie. Lo fa Brenda, che capisce il perché si sia innamorata di Greg, e che semplicemente si rende conto di non poter fare a meno di questo sentimento, un misto di sicurezza, tranquillità e maturità. Lo fanno Joan e Richie, madre e figlio separati dal primo, più tragico, divorzio di quest’ultima da Greg, che l’ha portata ad abbandonare il figlio, a doverlo guardare rientrare a casa solo, dopo un weekend passato assieme, mentre si domanda che razza di madre sia e cosa abbia fatto per partorire un ragazzino così incredibilmente maturo per la sua età. Ma soprattutto Richie, vero perno del racconto, vera anima del libro, voce profonda nel mare in tempesta, come la corrente fredda
che ti morde i polpacci quando fai il bagno al largo in mare, che scorre inesorabile sotto la superficie increspata dell’acqua. Lucido e sognatore assieme, Richie sa essere incredibilmente ironico e tragico. La sua dolcezza commuove e intenerisce il lettore: il ragazzo è preoccupato che i costumi “dissoluti” della sua famiglia lo portino lontano dalla strada verso il sacerdozio, non rendendosi minimamente conto che il pericolo si cela dietro la sua attrazione per la coetanea Melissa, e lo fa con un candore e con una tenerezza che ti fanno sorridere.Peter Orner di Voci dalla luna, scrive: «È uno di quei
libri che, una volta terminati, ti spingono a concentrarti con più forza sul tuo respiro, perché ti senti più vivo. Perché ti sei ricordato, ancora una volta, che hai a disposizione solo un numero finito di respiri. Capita soltanto a me? Oppure anche tu passi la maggior parte delle tue giornate in un volontario diniego? Io cerco di risolverlo leggendo – così non posso dimenticarmi che un giorno il mio cuore malconcio smetterà di pompare». No, caro Peter, è capitato anche a me. Voci dalla luna ti permette per un attimo di vedere al di là del varco, di scorgere il montaliano "oltre" di cui si parla ne La casa dei doganieri. «Il varco è qui?». Il confine tra fiction e realtà, tra pettegolezzo e vita vissuta, tra scandalo e dignità, tra sogno e veglia. Voci dalla luna è lo strappo sulla tela che per un secondo ti permette di vedere cosa c’è dietro, come un Fontana della letteratura. È un attimo fugace, solo 128 pagine per capire che «il nostro compito non è vivere grandi vite, il nostro compito è capire e portare avanti le vite che abbiamo». Ed è esattamente questo che t’insegna il libro: la dignità che serve per vivere. «Ma tu non ricordi la casa di questa mia sera. Ed io non so chi va e chi resta».
Maria Giulia Minnucci
KCB – KOINÉ CLUB DEI BIBLIOFILI
VOCI DALLA LUNA, ANDRE DUBUS
21 SCHEGGE Aprile 2017
Nel commentare l’ultima opera di Jim Jarmusch si avverte quella
forma di imbarazzo che dovrebbe sfiorarci ogniqualvolta ci troviamo costretti a spiegare il senso di una poesia. Ad un primo sguardo, Paterson potrebbe sembrare il regno della ripetitività, o magari il malinconico omaggio ad una provincia americana in cui il tempo scorre con monotonia e la vita procede senza riservare emozioni; ma guai a non cogliere l’invito ad aguzzare la vista – e a rinnovare lo sguardo – che trapela dai piccoli particolari e dai tanti doppi significati di cui è disseminata la storia.Il primissimo bagliore poetico del
film lo vediamo rifulgere nel titolo: Paterson (Adam Driver) è un giovane autista di autobus – un driver, appunto – che è nato e vive nell’omonima città di Paterson, in New Jersey. La routine che scandisce ogni sua settimana gli impone di svegliarsi presto per guidare la linea 23 tra le vie della contea di Passaic, assecondando amabilmente le velleità artistiche di un’incantevole moglie persiana, Laura (Golshifteh Farahani), e rendendo quotidiani servigi al suo dispettoso bulldog inglese, Marvin (Nellie). Le vite degli altri passano accanto a quella di Paterson senza lasciare tracce visibili, filtrano attraverso il ronzio delle conversazioni che sente sull’autobus o le liti di cui è testimone al bar di Doc (Barry Shabaka Henley), dove si ferma ogni sera per una birra prima di rientrare dalla passeggiata con Marvin.Di questo microcosmo e di qualche mancanza si ali
mentano le poesie che Paterson annota su un taccuino nei ritagli di tempo. Laura vorrebbe che le pubblicasse e gli fa promettere che nel weekend andrà a fotocopiarle, ma un infausto evento – con un responsabile ben identificato – vanifica per sempre tutto il suo lavoro. È dunque in un momento di estremo sconforto che Paterson si reca nel suo posto preferito, le Grandi Cascate del Passaic River, dove viene avvicinato da un ignoto giapponese (Masatoshi Nagase) che dimostra di conoscere assai bene l’opera di William Carlos Williams, celebre poeta vissuto in città. L’incontro sembra dargli tutta la forza di cui ha bisogno per riempire con altro inchiostro le pagine di un nuovo quaderno.Il realismo asciutto e intimista che Jarmusch aveva
già da tempo elevato a personale cifra stilistica qui sovverte anche i ritmi accelerati del cinema, conformandoli al fluire ordinario e cadenzato del tempo della vita. Il minimalismo delle poesie di Paterson, che possono partire da una scatola di fiammiferi per abbracciare sentimenti universali, fa il paio con la caccia al tesoro imbastita da Jarmusch, un’autentica chiamata alla ricer
ca della bellezza nelle piccole cose. Un gioco di simmetrie e contrasti che è ben raffigurato anche dal bianco e nero con cui Laura colora ogni cosa sulla quale metta mano, dall’arredamento della casa ai biscotti che cucina, dagli abiti che indossa alla chitarra da aspirante cantante country che ha comprato su internet.Trattandosi di Golshifteh Farahani,
un’attrice che ho incontrato nel mondo reale prima di poterne apprezzare le doti sul grande schermo, sento che mi sarà perdonata la condivisione di un ricordo che definirei “monocolore”. Correva l’anno 2013, l’episodio ebbe luogo durante la 70ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia: animato dal proposito di attirare le in
vidie di molte teenager, stavo seguendo la delegazione del film La Jalousie di Philippe Garrel per fare un selfie con il figlio del regista, Louis Garrel, che fin lì non aveva dato prova di particolare affabilità. Sospesi l’operazione, a malincuore, nel momento in cui lo vidi prendere per mano una ragazza dai capelli ondulati avvolta in un bel vestito bianco, verginalmente bianco. Restai poi sbalordito quando mi accorsi che si trattava di lei, la giurata iraniana della sezione Orizzonti che fino a quel giorno avevo visto in abiti sempre eleganti, ma mai così vistosi: la graziosa attrice esiliata dal regime di Teheran che aveva già lavorato con i più grandi registi del suo Paese – da Bahman Ghobadi ad Asghar Farhadi, da Abbas Kiarostami a Marjane Satrapi – e che era apparsa in un action movie di Ridley Scott, Nessuna verità (2008). Il suo garbo si rifletteva anche negli autografi che generosamente accettava di rilasciare, corredati dal disegno stilizzato di un piccolo volatile al posto della “G” di “Golshifteh”.Per la cronaca, tra lei e Louis non durò. Nel momento
in cui scrivo, Garrel fa coppia fissa con Laetitia Casta e Golshifteh è sposata con lo psicoterapeuta Christos Dorje Walker. Il tempo passa, talvolta più velocemente di quanto non accada in Paterson. Volgendo un ultimo sguardo a quattro anni fa, tuttavia, ricordo come l’obbedienza che lui le dimostrava facesse credere a molte delle donne presenti che la dolce fidanzata lo avesse «addomesticato». Una condizione che, plausibile o meno, sarebbe difficile non considerare per i suoi aspetti più piacevoli e – perché no? – poetici.
Manuel Lambertini
BUIO IN SALA: UN ANGOLISTA AL CINEMAPATERSON
22 SCHEGGE Aprile 2017
CODICE A BARRE
Lettere e riflessioni di sociologia e rapTraccia 1: 2017, Odissea nello Specchio durata (di lettura): 4'10''
«Parlo sempre di me perché so troppo pocoe cerco di scoprire da chi mi nascondo quando sono da solo»Vieni ViaMecna Lungomare Paranoia, 2017
Chi sono? Cosa faccio? E perché lo faccio? Sono domande ancestrali, imperiture, a cui nessuno sa dare
una risposta. Ma qualcosa è cambiato. Eh già, perché in passato a queste questioni irrisolvibili vi era data una risposta. Vera o falsa, resistente o duttile. Era pur sempre una risposta. Risposte brevi, come queste frasi. Sequenziali, come queste frasi. Logiche.Arriva un momento, però, in cui l'essere umano inizia
ad averne abbastanza di affermazioni preconfezionate di religiosi o filosofi i quali spesso coincidevano nel ruolo. Queste risposte sanno di stantio, della stessa muffa che si accumula sui polverosi scaffali dei monasteri. Quando la bomba "Illuminismo" viene sganciata, nessuno è più al sicuro. Il cogito cartesiano divampa come il fuoco di Caparezza in "Sono il Tuo Sogno Eretico" e da un tocco di freschezza. Ma ora? A cosa ci ha portato questo processo?Ebbene sì, oggigiorno siamo immersi in una realtà
fluida, liquida. Ci guardiamo attorno cercando un appiglio, uno scoglio o riparandoci nel porto petrarchesco, un porto che non esiste più o del quale la posizione è ignota. Non ci conosciamo più. E no, non parlo di Noi con gli Altri, ma di Noi con Noi. Il nostro inconscio è perso nel labirinto dell'insicurezza, della perdita di ogni valore fondante la nostra vita, quegli stessi valori che un tempo per lo meno davano una direzione all'azione umana, l'ago della bussola che si poteva decidere di seguire oppure a cui voltare le spalle con convinzione. La perdita del Padre teorizzata da Lacan, Padre riferito come l'Ideale portatore di senso, come Dio o come crisi genitoriale crescente dagli anni '80, ci ha fatto perdere quella mano che stringevamo nel buio cosmico della mente umana. Quella mano che dava una sicurezza, apriva una via luminosa, nonostante la sua fallacità. Ormai la conoscenza di se stessi è diventato un imperativo per cercare il vero senso della vita. O forse solo per essere determinati a perseguire i propri obiettivi. «That's why! Knowledge of Self, Determination» di
ceva il grandissimo Talib Kwali. Ma questa conoscenza di sé è davvero utile? Le grandi patologie psicologiche del nuovo millennio riguardano l'inadeguatezza a certi standard imposti da un mercato che ci vuole "turboconsumatori" e gioca sulle nostre paure, sulle nostre insicurezze e, soprattutto, sulla nostra conformazione ad un format precostituito; tutti i nostri pensieri sono veicolati
da questa idea. Lo spettacolo tanto caro a Debord ha portato alla disfatta della società attiva a discapito di una società frammentata, insicura, suscettibile e passiva, pronta per essere pilotata in ogni sfaccettatura: dal cibo al corpo, dalla moda all'intrattenimento. Mezzosangue direbbe «Le TV accese, le anime spente».Così la bellezza occidentale diventa un dogma, le pa
lestre si popolano fino ad esplodere per mettere in mostra ciò che si ha, cogito ergo ho. Il fenomeno viene chiamato "Spornosexuality" in quanto la mancanza di una direzione psichica stabile ha condotto soprattutto i giovani ad identificarsi con la fisicità del proprio corpo e con l'immagine del corpo data da sportivi e pornoattori. La prestazione, la prestanza. Tutto viene valutato con un criterio di riuscitanon riuscita e chi fallisce viene tagliato fuori in gergo sociologico: left out . In questa rincorsa all'approvazione pubblica e all'accettazione privata, un dubbio sorge. «Chi sono io? Ma non Io in senso essere umano. Figurati, già tanto se so cosa mangiare stasera e se riesco a sopravvivere a questa sessione. Ma no, dico io io, quello che costituisce questa immagine nello specchio, questo confusionale incontro di persone, esperienze, casualità, volontà, paranoie e attese». Panico.Ogni giorno si cambia idea su tutto. Sul mondo, sulle
persone, sugli affetti, su ciò che ci piace mangiare, ascoltare. Su ciò che consideriamo sacro, speciale o profano, quotidiano. Scelte piccole diventano dubbi amletici, i dubbi amletici diventano così tanto astratti e metafisici che un nuovo paio di scarpe ci aiuta ad alleviare quell'ansia di esistere. E lo sappiamo. Sappiamo che è una certezza inutile. Ma se snobbiamo le certezze e non vogliamo navigare nelle incertezze, come si sopravvive a questa guerra? «Non c'è la grande guerra tranne quella contro il niente che ci ingoia», fate una statua a Mistaman.La soluzione rimane semplice. Prenderne atto. Forse
ancor più di conoscere noi stessi dobbiamo osservare il quadro della consapevolezza attraverso l'amore, l'apatia, la stanchezza, la speranza. Una guerra che combattiamo in casa nostra, nella nostra mente. Aprite gli occhi di fronte alla realtà. Ecco, ben fatto. Benvenuti a Sarajevo."Non voglio star da solo ma nemmeno stare assiemenon voglio candidarmi né salvare le balenenon voglio bere ma bevoné lavorare ma devoogni mattina apro gli occhi, è Sarajevo "Non chiedere di me, non ho voglia di parlarneFunk Shui Project ft. Willie PeyoteFunk Shui Project, 2014
Michele Consolini
23 SCHEGGE Aprile 2017
RECENSIONI ONESTE, SPASSIONATE, POLITICAMENTE E GRAMMATICALMENTE SCORRETTE
La consocrazione alcolica di Thundercat ‐ Drunk (2017, Brainfeeder)
Ok, mi rendo ben conto che Thundercat non sia proprio
un artista che suoni familiare alle orecchie di tutti. Nonostante ciò, ci sono svariati motivi per cui dovreste iniziare ad amarlo, a partire da questo preciso istante. Prima fra tutte è la sua faccia simpatica che non può non farti venire voglia di berti una birra con lui (più di una magari), magari mentre indossa uno dei suoi pittoreschi costumi cui sembra calzino a pennello. Se poi magari vi interessa anche la musica allora il discorso diventa un filo più complesso ma decisamente più interessante. È vero che il nome di Thundercat (Stephen Bruner
all’anagrafe) è rimasto per molto tempo conosciuto solo agli appassionati, ma dal 2015 con l’uscita dell’ep The Beyond / Where the Giants Roam e quel pezzo micidiale di Them Changes (*Stevie Wonder approves*), la sua fama è decisamente aumentata ed è arrivata anche a persone non avvezze a certe sonorità. Stephen è un musicista ecclettico e talentuoso che non si è mai dato degli schemi rigidi nella sua vita artistica. Ciò lo ha portato a collaborare con i più svariati progetti musicali (dai Suicidal Tendencies, a Kimbra passando per Childish Gambino). È impossibile non provare un piacevole stupore nel leggere i nomi di Pharell Williams, Flying Lotus, Kendrick Lamar, Kamasi Washington, Wiz Khalifa tra le collaborazioni dei 23 brani che compongono Drunk. Con questo disco Thundercat si conferma essere uno degli artisti più importanti della scena black, sperimentale, fusion, neosoul, e tutto quel nuovo sound americano jazzy che sta rendendo le nostre giornate senza ombra di dubbio meno noiose, meno pop nelle sonorità ma non nell’attitudine. Un vero e proprio paradosso di cui avevamo decisamente bisogno. La cosa veramente importante però rimane la profonda coerenza di questo artista, che riesce ad essere credibile qualsiasi cosa decida di fare.Drunk è un disco che si descrive da solo, fin dal tito
lo. Non ci lascia dubbi di nessun tipo. L’ebbrezza è il sentimento che permea i brani e che ne rappresenta il vero e proprio significato. La sensazione di essere esageratamente ondeggianti, completamente consapevoli e incoscienti nello stesso momento, come quando mandi un messaggio alla tua ex completamente sbronzo in mezzo a una festa, poi il secondo dopo sei a ballare con una biondina che hai conosciuto mentre aspettati il tuo gin tonic, ti siedi e inizi a parlare col primo ragazzo che passa di quanto sia ingiusta la guerra. Tutto sembra non avere il benché minimo senso a primo impatto e invece,
quando ci ripensi il giorno dopo, il senso arriva. E tu sei quasi contento (anche se la tua ex ti ha risposto «se mi riscrivi ti denuncio per stalking»). Ascoltare Drunk significa passare attraverso questi stati d’animo. I brani scivolano leggeri e ballerini. A volte si nascondono dietro un' illusoria semplicità, altre volte non hanno assolutamente paura ad imporre tecnicismi, in modo quasi beffardo, e detto tra amici, con non poco stile. La mano di Stephen «po esse fero e po esse piuma», e a volte pure tutte e due le cose contemporaneamente. Ca
rissimi, fatevi un favore una volta tanto e dategli un ascolto.Ps: vi sfido onestamente ad ascoltare Friend Zone e
provare a non muovere le vostre belle chiappe.
Consigli Tre dischi che dovresti ascoltare mentre fai finta di studiare:
GOMMA Тоска (2017, V4VRecords / Believe Digital): Perché siamo tutti emo e punk dentro, e perché ci ricordano tanto i Distanti, che sono una delle cose più belle che Forlì abbia prodotto.
SAMPHA – Process (2017, Young Turks): Perché il suo R&B elettronico ci ha fatto raggiungere livelli di misticismo mai provati prima.
GIORGIO POI – Fa Niente (2017, Bomba Dischi): Perché la Bomba Dischi dopo Calcutta doveva decidere se cadere nel dimenticatoio o azzardare. Ha azzardato bene, con un pop a tratti psichedelico che cattura.
Michele Veneziano