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Semeiotica esistenziale e disvelamento del Novecento in «Addio alle armi» di
E. Hemingway.
>Giuseppe A. Perri*
1. In uno dei finali più desolanti della storia della letteratura, Hemingway fa dire al
protagonista di Addio alle Armi nell’accomiatarsi in ospedale dal corpo della sua donna morta di
parto: «fu come salutare una statua». Si tratta di uno dei segni di cui è disseminato il romanzo e che
il protagonista segnala al lettore più volte, seccamente ma consapevolmente, mettendolo al corrente
della sua progressiva decifrazione del mondo. Lo stesso Hemingway aveva detto che Addio alle
armi era la descrizione dell’educazione sentimentale del protagonista e, anche se non aveva amato
l’omonimo romanzo di Flaubert1, nella lista dei possibili titoli del romanzo c’era anche un ipotetico
«L’educazione sentimentale di Frederic Henry»2.
Benché si tratti di un opera che dà ampio spazio a una sapiente finzione letteraria, la base di
Addio alle armi è autobiografica e il protagonista del romanzo è un americano che si arruola, per un
misto di patriottismo e di ricerca della verità, nell’esercito italiano nel corso della Prima guerra
mondiale ed è ferito sul fronte, come era davvero successo all’autore. Per tutta la sua vita Ernest
Hemingway ha inseguito le esperienze-limite e i mondi “altri” poiché aveva compreso che si
trattava di condizioni essenziali per decifrare la realtà. Ora, non è forse un caso che due tra i più
grandi romanzieri del XX secolo, Proust e Hemingway, fossero figli di medici e siano dunque stati
abituati fin dall’infanzia ad una cultura dell’inferenza semiotica, a quell’apprendimento
dall’esperienza, domandante e riflessivo, che è tipico della medicina e che da Aristotele (anch’egli
figlio di medico), passando per Locke (medico egli stesso), fino a Peirce, è stato sostenuto dai
filosofi che volevano evitare le secche dell’astratta dottrina.
In modo emblematico, l’educazione sentimentale del tenente Frederic Henry, che all’inizio
del romanzo troviamo a Gorizia nell’inverno del 1917, poco dietro la linea del fronte, ha molto a
che fare con medici e la medicina: egli guida un’ambulanza, divide la stanza con un ufficiale
medico amalfitano, s’innamora di un’infermiera inglese, viene ferito a un ginocchio, passa un lungo
periodo di ricovero in ospedale a Milano, vive ore tragiche nell’ospedale di Losanna dove il parto
1Cfr. Ben Stoltzfus, Hemingway and French Writers, Kent (Ohio) 2012, p. XVII. Anche se Hemingway inserì
quest’opera nell’elenco dei libri che ogni scrittore dovrebbe leggere, redatto nel 1935. 2 Nella III Appendice dell’edizione critica dell’opera, uscita nel 2012 nella “The Hemingway Library Edition”, sono
riportati tutti le ipotesi di titolazione contenuti in un manoscritto dell’autore (Ernest Hemingway, A Farewell to Arms,
New York 2012, p. 324).
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mortale della sua innamorata viene descritto in modo dettagliato e sconvolgente. Rispetto alla
ricerca proustiana, la semeiotica di Hemingway è però tendenzialmente oggettiva e strutturale, più
esistenzialistica che psicologica.
Il protagonista di Addio alle armi è dunque un uomo alla ricerca della verità ed egli sa, forse
istintivamente, che essa va colta per segni, rimandi, decifrazioni, sperando di essere nel giusto. La
trama che l’autore ci mostra in controluce, descrivendo l’approccio che quest’uomo ha verso la
realtà che lo circonda e gli insegnamenti che egli ne trae, possiede diverse valenze ma trova la
propria unificazione in una dimensione di tipo filosofico. Una filosofia che è di carattere
esistenzialistico. Si potrebbe anzi dire che Hemingway, assieme a Heidegger, abbia introdotto
l’esistenzialismo nella cultura novecentesca. Lo stesso Sartre ammetteva il suo debito nei confronti
di Hemingway e degli altri prosatori americani. È nota l’affermazione fatta da Sartre in un articolo
del 1946 per l’Atlantic: «the greatest literary development in France between 1929 and 1939 was
the discovery of Faulkner, DosPassos, Hemingway, Caldwell, and Steinbeck.(…) The Stranger, by
Albert Camus, (…) deliberately borrowed the technique of The Sun Also Rises»3. L’influsso di
Hemingway su Camus era stato affermato anche dal diretto interessato, in una sua dichiarazione del
1945. 4 Simone de Beauvoir ha ammesso nel 1960 che lei e Sartre avevano imitato alcune delle
tecniche di Hemingway per comporre i loro primi romanzi. 5 Nell’articolo citato, Sartre percepiva la
tecnica narrativa di Hemingway in quanto basata su «short, brutalsentences» e su una «lack of
psychological analysis». Il che allontanava questi influssi americani dalla tradizione francese
dell’indagine psicologica che aveva trovato in Proust il più estremo rappresentante.
Insomma, dal momento che, come scrive Pascale Casanova «gli Stati Uniti negli anni ‘20
erano, sul piano letterario, un paese dominato che guardava a Parigi per cercare di accumulare
quelle risorse che gli mancavano»6, Hemingway giunse nella capitale francese per porsi al centro
dello spazio letterario internazionale e «risciacquare» i suoi panni letterari nella Senna, ma finì per
creare un nuovo genere letterario e un nuovo atteggiamento filosofico, gravido di scoperte e di
nuove conoscenze. Uno dei primi critici a rendersene conto fu Jean Bruneau, che nel 1948
confermò e accentuò il senso delle cose dette da Sartre, scrivendo: «l’esistenzialismo è il primo
movimento letterario francese su cui il romanzo americano moderno ha esercitato un’influenza forte
e riconosciuta»7. Per Bruneau il legame tra le due correnti sta nel rifiuto dell’analisi, di cui Bergson
3Jean-Paul Sartre, American Novelists in French Eyes, “Atlantic Monthly”, August 1946, p. 117 (l’articolo è accessibile
ancheall’indirizzo: http://www.sartre.ch/american_novelists.htm ). 4 Sull’influsso esercitato da Hemingway su Camus: Ben Stoltzfuz, Hemingway’s Influence on Camus: The Iceberg as
Topography, in J. Herbeck, V.Grégoire (a cura di), A Writer's Topography. Space and Place in the Life and Works of
Albert Camus, Leida-Boston 2015, pp. 169-181. 5Simone de Beauvoir, La force de l’âge, Parigi 1960, p. 115. 6 Pascale Casanova, The World Republic of Letters, Cambridge (Mass.) 2004, p. 42. 7 Jean Bruneau, Existentialism and the American Novel, “Yale French Studies”, 1, 1948, p. 66.
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aveva mostrato le fallacie, in favore della sintesi vitale e dunque «nell’attingere l’universalità
attraverso la mera concretezza»8.
Al di là dell’influsso sulla cultura francese e volgendo lo sguardo ai rapporti generali tra
Hemingway e l’esistenzialismo, quello che talvolta è stato notato ha riguardato l’ipotetica presenza
nella poetica dello scrittore americano di filosofemi provenienti da autori come Kierkegaard o
Nietzsche. Secondo J’aimé L. Sanders (che nel 2007 ha dedicato una tesi di dottorato a questi temi)
Hemingway e gli altri scrittori nordamericani della sua epoca si sarebbero «appropriati delle
problematiche dell’esistenza sollevate dall’esistenzialismo, traducendole in questioni e interessi
americani, (…) divenendo come dei profeti, veggenti, guaritori, per così dire, dei loro tempi»9. Se la
seconda parte di questa pista d’indagine – che solleva la questione della “americanicità” dei fini
culturali di questi scrittori – ha un indubbio interesse, l’ipotesi di un attingimento a temi filosofici
preesistenti è comunque labile, poiché non risulta che Hemingway abbia letto quei filosofi o abbia
meditato sulle loro idee; essa è anche, tutto sommato, sterile e comunque non risulta convincente,
poiché nessun rapporto effettivo è stato finora delineato tra la Kierkegaard-Renaissance (che
riguardò soprattutto la teologia protestante negli anni immediatamente precedenti e successivi al
Primo conflitto mondiale) e i primi romanzi di Hemingway, né Essere e Tempo di Heidegger può
aver esercitato un qualche influsso su Addio alle armi e tantomeno, per ovvie ragioni cronologiche,
su Fiesta (1926)10.
Molto più semplice è l’ipotesi opposta, vale a dire che Hemingway abbia dato un contributo
di primo rilievo alla formazione dell’esistenzialismo novecentesco. Da questo punto di vista, era più
vicino a tale ipotesi Killinger, il primo in ordine di tempo tra quei pochi studiosi che abbiano
sollevato la questione del rapporto filosofico tra Hemingway e l’esistenzialismo, quando ha
sostenuto una sorta di coincidenza, grazie allo spirito del tempo, del tema esistenzialistico in autori
lontani tra loro, soprattutto Hemingway e i francesi, per aver vissuto le stesse atmosfere nella Parigi
capitale mondiale della letteratura degli anni Venti e Trenta11. Ma si è già visto che il rapporto tra
Hemingway e gli esistenzialisti francesi è fatto piuttosto di un’imitazione e di un influsso che lo
scrittore americano aveva esercitato su Sartre, de Beauvoir, Camus, ecc.
Sia detto per inciso, questo nuovo sguardo a Hemingway come filosofo esistenzialista, anzi
come uno dei fondatori dell’esistenzialismo novecentesco, non deve spaventare. Lo stesso Killinger
ne era un po’ timoroso poiché dichiarava di non voler cucire addosso ad Hemingway un abito da
8Ivi, p. 68. 9J’aimé L. Sanders, The Art of Existentialism: Fitzgerald, Hemingway, Mailer and the Existential Tradition in America,
Diss. University of South Florida, Tampa, 2007, pp. iv-v. 10La Sanders deve perciò spostare l’ipotetico rapporto Hemingway-Kierkegaard all’epoca della redazione di Morte nel
pomeriggio, uscito nel 1932; cfr. ivi, p. 17. 11 Cfr. John Killinger, Hemingway and the Dead Gods: A Study in Existentialism, University of Kentucky Press 1960.
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filosofo che l’interessato sarebbe stato il primo a rifiutare. Ci si potrebbe tuttavia chiedere: erano, ad
esempio, Kierkegaard e Nietzsche dei “filosofi”? Si sentivano tali? Kierkegaard negava di esserlo,
mentre in Nietzsche rimase sempre presente la patina del “dilettante” in filosofia, che rimane di
solito attaccata a chi si volga alla filosofia perché deluso dalla disciplina in cui si è formato; nel
caso di Nietzsche, la filologia.
D’altra parte, se va sfatata la leggenda che vorrebbe un Hemingway scrittore “non
intellettuale”, poiché egli fin da giovane è stato «un lettore vorace, indirizzato a una rigorosa auto-
educazione artistica»12 e nei traslochi si portò sempre dietro la sua biblioteca, effettivamente le
letture filosofiche paiono essere state poco estese nella prima parte della sua vita13. Più tardi, quasi a
conferma ed affinamento della sua vocazione di osservatore delle condizioni dell’esistenza umana,
la sua biblioteca si è arricchita di opere di autori in cui s’intersecano filosofia, psicologia e
introspezione: Cartesio, Freud, William James, Santayana14. Alla fine della sua vita lo stesso
Hemingway ha confessato che la sua scrittura aveva subito un influsso plurale, non solo di natura
letteraria, ma di carattere pittorico o musicale (Bach e Mozart, Tintoretto, Bosch, Brueghel,
Patonier, Goya, Giotto, Cézanne, Van Gogh e Gauguin); Cézanne, in particolar modo, lo attrasse
all’epoca della stesura di Addio alle armi. Sul piano generale, senza entrare qui direttamente nel
merito di una teoria delle complesse relazioni tra filosofia e letteratura, ci limitiamo a notare che
semeiotica e forma-romanzo possono dare accesso, se opportunamente trattate, a disvelamenti
ontologici. Esse forniscono quella esposizione esemplare veritativa che Coleridge e Schelling
chiamavano “tautegoria”, cioè il vero che si mostra da sé, nella sua individualità emblematica.
2. Se l’esistenzialismo può essere definito, in prima approssimazione, un’analisi
fenomenologica della condizione umana che non abbia presupposti dottrinali o ideologici, fin dalle
prime pagine del libro il tenente Frederic Henry appare essere un uomo che guarda al mondo senza
le lenti di grandi “narrazioni” (religiose, filosofiche, politiche, ecc.) che egli pare non aver mai
assecondato oppure di cui sembraessersiliberato assai presto, poiché anche rispetto al patriottismo
egli dimostra di praticare una necessaria epoché. Che l’ambiente americano da cui proveniva
coltivasse il patriottismo lo dimostra una lettera di suo nonno che lo raggiunge in ospedale a Milano
e che conteneva «con notizie della famiglia, incoraggiamenti patriottici». Che la guerra,
probabilmente, abbia fatto svanire in lui un afflato di tale natura è testimoniato dal colloquio che
12Gail Sinclair, Reading, in Debra A. Moddelmog, Suzanne del Gizzo (a cura di), Ernest Hemingway in Context,
Cambridge University Press 2013, p. 43. 13Negli oltre 2300 volumi noti che Hemingway ha posseduto o avuto in prestito fino al 1940, vi sono pochi testi
filosofici: lo Zarathustra di Nietzsche, I problemi della filosofia di Russell e poco altro.Cfr. Michael S. Reynolds,
Hemingway’s Readings, 1910-1940. An Inventory, Princeton(N. J.) 1981. 14Cfr. James Daniel Brasch, Joseph Sigman, Hemingway'slibrary: a composite record, New York 1981.
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egli ha, tornato nei pressi del fronte dopo la guarigione, con Gino, il militare italiano che manifesta
un patriottismo accentuato. Si tratta di una delle pagine più importanti del libro, su cui dovremo
tornare, oltre che di una delle più intense manifestazioni di antimilitarismo che ci siano nel
romanzo:
Rimanevo sempre imbarazzato dalle parole “sacro, glorioso, sacrificio” e dall'espressione “invano”. Le
avevo udite anche in piedi sotto la pioggia e quasi fuori di portata dalle mie orecchie, quando solo le
parole strillate forte riuscivano ad arrivare, e le avevo lette in proclami incollati ai muri sopra altri
proclami, molte volte oramai, e non avevo trovato niente di sacro e le cose gloriose non portavano
nessuna gloria, e i sacrifici in realtà avvenivano come nei mattatoi di Chicago: con la differenza che qui la
carne andava in sepoltura. Erano molte le parole che non sopportavo più di sentire, e solo i nomi dei paesi
avevano ancora dignità, e certi numeri, certe date. Rappresentavano tutto quanto aveva ancora un
significato. Le parole astratte: gloria, onore, coraggio o santità sonavano come oscene rispetto ai nomi dei
paesi, di numeri delle strade e ai nomi dei fiumi, ai numeri dei reggimenti, alle date. Gino era un patriota;
così gli capitava di dir cose che ci dividevano a volte. Ma era anche un bravo ragazzo e capivo come
potesse essere patriota. Era nato così.
Se esistenziale significa anche, come Heidegger affermava, una cosa diversa da
“esistentivo”, Addio alle armi è esistenziale. Esistentivo designa la comprensione che ogni singolo
uomo ha di sé e dei problemi che lo riguardano, si tratta di una dimensione che è dunque personale
o narrativa se riferita ad un romanzo: «l’esistenza è decisa (...) da ogni singolo Esserci. (...) La
comprensione di se stesso che fa da guida in questo caso noi la chiamiamo esistentiva» (Essere e
tempo, par. 4).“Esistenziale” designa invece una determinazione strutturale dell’esistenza. Frederic
Henry ha almeno un paio di lampi esistenziali, che illuminano di luce ontologica il romanzo.
Ciò che distingue Hemingway dal vero e proprio esistenzialismo filosofico è il metodo
semeiotico. Le verità ontologiche sono, nel suo romanzo, il distillato ermeneutico del flusso vitale, i
segni generali che una vita contingente trae dalle proprie esperienze. Non si tratta di intuizioni
fenomenologiche o di analisi riflessive, come avviene nei filosofi professionali, ma del
disvelamento di strutture dell’esistenza che possono essere colte solo all’interno di momenti intensi
dell’esperienza personale. La forma romanzo ha d’altra parte il privilegio di essere tautegorica in
modo supremo, ancor più della poesia, dove gli aspetti intuitivi spesso prevalgono su quelli
narrativi, e della saggistica, che è sempre costretta a passare dal soggetto individuale a quello
trascendentale e dall’oggetto presente a quello essenziale.
Il cosiddetto minimalismo di Hemingway non è quindi un anti-intellettualismo, ma una
forma espressiva adatta a rappresentare efficacemente le verità tautegoriche, che non hanno bisogno
di orpelli, di dimostrazioni o di analisi, poiché esse si mostrano e si dimostrano da sé, come
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Aristotele diceva dell’esistenza della realtà o dei principi logici fondamentali. Certo, non c’è in
Hemingway una dottrina esplicita e consapevole della tautegoria e della letteratura-filosofia. Ma
non si può negare che egli l’abbia praticata di fatto e che tutta la sua opera (come la sua esistenza)
sia stata rivolta alla scoperta disincantata del vero esistenziale. Se c’è una tautegoria
hemingwayana, essa è d’altronde sintetica e secca, secondo la nota tecnica narrativa “dell’iceberg”
sostenuta dallo stesso Hemingway. Già in Morte nel pomeriggio (1932), alla fine del XVI capitolo,
Hemingway aveva fatto una digressione teorica significativa:
Se un prosatore sa bene di che cosa sta scrivendo, può omettere le cose che sa, e il lettore, se lo scrittore
scrive con abbastanza verità, può avere la sensazione di esse con la stessa forza che se lo scrittore le
avesse descritte. Il movimento dignitoso di un iceberg è dovuto al fatto che soltanto un ottavo della sua
mole sporge dall’acqua.
Questa dottrina era stata da Hemingway ribadita in un’intervista pubblicata nel 1958, tradotta in
italiano per i tipi de “Il Melangolo”15. Sull’origine di questa tecnica, che ha un rapporto diretto con
gli esiti esistenzialistici della scrittura di Hemingway, sono da segnalare soprattutto gli influssi di
Sherwood Anderson16, lo scrittore americano mentore del giovane Ernest e autore dei racconti-
romanzo Winesburg, Ohio, una sorta di Antologia di Spoon River più sofisticata, concisa,
indirettamente corale. D’altra parte, Hemingway fu precocemente consapevole della necessità di
dare a questa tecnica un esito che non fosse soltanto in relazione con le procedure estetiche
decostruttive delle avanguardie letterarie e figurative (dadaismo, cubismo, ecc.), ma che
rappresentasse un originale metodo per invitare il lettore a collaborare nel dare un senso alla
narrazione17.
Anzi, le tecniche narrative di Hemingway sono al tempo stesso decostruttive e cooperative.
Spingono il lettore a farsi carico del disordine che circonda ogni fatto e ogni personalità, disordine
che noi cerchiamo costantemente di sostituire con un ordine qualsiasi che gratifichi i nostri bisogni
di (falsa) stabilità e prevedibilità. Sembra quasi che Hemingway abbia meditato e fatta sua la
citazione pseudo-erodotea di Mark Twain, l’autore più stimato dallo stesso Hemingway e da altri
grandi scrittori della sua generazione come Faulkner. Nei ringraziamenti anteposti ad A Horse’s
Tale (1907), Twain aveva scritto: «Herodotus says, "Very few things happen at the right time, and
the rest do not happen at all: the conscientious historian will correct these defects"». Il lavoro di
15 Ernest Hemingway, Il principio dell'iceberg. Intervista sull’arte di scrivere e narrare, a cura di G. Plimton, Genova
1996. 16Cfr. Kim Moreland,Just the Tip of The Iceberg Theory: Hemingway and Sherwood Anderson’s “Loneliness”, “The
Hemingway Review”, 19, 2,2000, pp. 47-56. 17Cfr. Dennis Ryan, ‘A Divine Gesture’ : Hemingway’s Complex Parody of the Modern, “The Hemingway Review”, 16,
1, 1996, pp. 1-17.
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Hemingway procede nella direzione opposta dello “storico coscienzioso” e introduce elementi di
dubbio e di straniamento rispetto a quella che sembra essere la realtà consolidata. Gerry Brenner ha
individuato tre tecniche di straniamento gnoseologico hemingwayano, adoperate soprattutto nei suoi
racconti, ma all’opera anche nei romanzi, sebbene con modalità ridotta: perplessità testuali
(situazioni ambigue che il protagonista non riesce a comprendere, ma che il lettore può
decodificare), rebus lessicali (uso di termini da parte del narratore che ne indicano altri), inversione
extra-testuali (le aspettative del lettore su un certo personaggio, basate su stereotipi impliciti, sono
drammaticamente sovvertite)18.
Si tratta di un percorso che è parallelo al decostruzionismo di Nietzsche, ma che è condotto
con tecniche molto diverse rispetto alla prosa iniziatica e a tratti esaltata del pensatore tedesco e
che, soprattutto, ha un esito diverso. Quello che resta dopo lo straniamento decostruttivo
hemingwayano non è l’universo energetico-prospettico della “volontà di potenza” nietzschiana
bensì quello esistenzialistico, asciutto, poco vitalistico e quasi “minerale” che fa da sfondo ad Addio
alle armi.
3. Sul piano narrativo, Addio alle armi è un’epopea negativa, la storia di un disertore e del
suo fallimento. Benché il romanzo sia venato di antimilitarismo e mostri di essere in sintonia con lo
spontaneo pacifismo popolare, seppure sia stato dimostrato che Hemingway subisse l’influsso dello
scrittore francese Henri Barbusse19, un progressista militante, Addio alle armi non descrive un
uomo in rivolta contro il sopruso sociale né è soprattutto un romanzo sulla guerra o contro la guerra.
Il romanzo scritto in trincea da Barbusse, Le feu, viene citatodall’anziano conte Greppi in Addio alle
armi, mentre nell’albergo di Stresa colloquia e gioca a biliardo col tenente Henry. Lo stesso
Hemingway, nella presentazione dell’antologia Man at War (1942), scrisse:
L’unico buon libro di guerra che uscì durante l’ultima guerra fu Under Fire di Henri Barbusse. Fu il
primo a mostrare, anoi ragazzi che andammo in guerra direttamente dal college o dall’università, che non
si poteva protestare in altro modo che con la poesia, contro il gigantesco inutile massacro e contro la
mancanza di intelligenza elementare che in genere aveva caratterizzato la condotta di guerra degli Alleati
dal 1915 al 1917.20
18Cfr., Gerry Brenner, From ‘SepiJingan’ to ‘Mother of a Queen’:Hemingway’s Three Epistemologic Formulas for
Short Fiction, in Jackson J. Benson (a cura di), New Critical Approaches to the Short Stories of Ernest Hemingway,
Durham 1990, pp. 156-171. 19Cfr., William Dow, 'A Farewell to Arms' and Hemingway proteststance: to tell the truth without screaming, “The
Hemingway Review”, 15, 1, 1995, pp. 72-86. 20Ernest Hemingway (a cura di), Men at war, New York 1942, p. 9.
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D’altra parte, questa antologia curata da Hemingway, dedicata a grandi scrittori che avevano
descritto la guerra, non era anodina o pacifista e anzi faceva parte di uno sforzo generale teso a
giustificare l’entrata degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale. Più forti furono le parole di
Hemingway scritte per la presentazione dell’edizione del 1948 di Addio alle armi: «dal 1933 è forse
chiaro perché uno scrittore deve interessarsi di quel perpetuo e oppressivo, sporco delitto che è la
guerra»; e aggiungeva che le guerre «le dirigono, le hanno provocate e iniziate rivalità economiche
precise e un certo numero di porci che ne approfittano. Sono convinto che tutta questa genia pronta
ad approfittare della guerra dopo aver contribuito alla sua nascita, dovrebbe venir fucilata il giorno
stesso che essa incomincia a farlo». Il finale di questa introduzione si rivela meno netto e lascia
qualche inquietudine: «l’autore del libro, si incaricherebbe molto volentieri di queste fucilazioni se
legalmente ne avesse la delega. (…) Se ci fossero prove che ho contribuito anch’io a provocare la
nuova guerra (…), accetterei benché malvolentieri che il medesimo plotone d’esecuzione fucilasse
anche me»21. Affiora qui, probabilmente, il ricordo della partecipazione “segreta” di Hemingway
alla Seconda guerra mondiale e una sorta di confessione della sua mancanza d’innocenza. Sappiamo
infatti che egli partecipò ai combattimenti attorno a Parigi assieme a partigiani francesi e i servizi
americani vollero tenere segreta la cosa, istigandolo a mentire sotto giuramento22. Se si deve credere
a quello che scrisse in alcune lettere, egli avrebbe anche ucciso molti tedeschi, alcuni in circostanze
che configurerebbero il crimine di guerra (uccisione di prigionieri); ma William E. Coté ed altri
critici ritengono che si tratti di esagerazioni che a loro volta sono sintomi di quella depressione che
lo porterà al suicidio.
In ogni caso, né Hemingway né il tenente Henry sono “innocenti”; ed è impressionante,
rispetto alle citate vicende vissute da Hemingway nella seconda guerra mondiale, come il
protagonista di Addio alle armi si sia macchiato di una colpa grave in guerra, avendo ferito
gravemente un sergente che cercava una via di fuga personale invece di aiutare il gruppo a cui si era
unito nel corso della convulsa ritirata di Caporetto. Frederic Henry non è privo di colpe e non è
neanche un uomo che si sacrifichi o sappia davvero cos’è il sacrificio, anzi è la sua donna che
accetta di seguirlo nell’avventura di risalire di notte, in barca a remi, il lago Maggiore per sfuggire
all’arresto inevitabile per un disertore quale lui diventerà dopo la ritirata. Lungi dal rappresentare
quindi un eroe, per caso o per scelta, del pacifismo, il protagonista e la sua storia trovano un riscatto
solo su un piano ontologico e indiretto, poiché Henry è in grado di cogliere una porzione del senso
21 Ernest Hemingway, Prefazione a Addio alle armi, traduzione di Fernanda Pivano, Milano 2010, pp. 5-6. 22Cfr. William E. Coté, Correspondent or Warrior?:Hemingway'sMurky World War II "Combat" Experience, "The
Hemingway Review", 22, 1, 2002, p. 88.Sull’interrogatorio a cui fu Hemingway fu sottoposto nella sede della Terza
armata, durante un’inchiesta su eventuali violazioni delle regole di comportamento dei giornalisti al seguito delle truppe
americane, che impedivano la loro partecipazione al conflitto, cfr. James H. Meredith, Hemingway’s US Third Army
Inspector General Interview During World War II, “The Hemingway Review”, 18,2, 1999, pp. 91-101.
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esistenziale di ciò che gli accade, forse semplicemente nell’illustrarlo con ciò che gli succede. E qui
si torna in qualche modo all’esempio di Barbusse, che secondo Hemingway nel suo libro«aveva
imparato a dire la verità senza urlare»23, descrivendo cioè con accuratezza la tragedia della guerra,
che così parlava da sola.
4. Ortega y Gasset ha efficacemente precorso una parte dell’atteggiamento esistenziale,
affermando, nel 1914, che «io sono io, più la mia circostanza»24. Aggiunge Ortega:«circum-stantia!
Le cose mute che stanno nei nostri più prossimi dintorni!»25. Questa relazione dialettica con la
circostanza è il destino dell’individuo: «il senso della vita consiste nell’accettare ciascuno la propria
inesorabile circostanza»26. Frederic Henry ha saputo imparare dalla sua circostanza, anche se ciò
che ha compreso è terribile. C’è riuscito perché ha capito che occorreva “togliere” e non
“aggiungere”. E c’erano allora pochi uomini in Europa che fossero nello stato d’animo di Henry-
Hemingway: schegge di un tranquillo Ottocento americano, che Cfossero in grado di togliere invece
che aggiungere, di perdere certezze invece di assumere quelle agitate dagli europei o di cercare di
imporre loro nuove narrazioni wilsoniane27. Uomini che non fossero disposti a credere, neanche per
un istante, ai bluff della storia, quale Hemingway giudicherà nel ’23 essere Mussolini28. In ogni
epoca ci sono sempre pochi uomini che hanno questa capacità. Per inciso, Barbusse ha invece
continuato ad “aggiungere” schemi ideologici a schemi ideologici, fino a diventare un agiografo di
Stalin.
Un primo elemento esistenziale che emerge nel libro di Hemingway è quella che Heidegger
chiama Verfallenheit o “deiezione”, vale a dire l’inautenticità da cui nessun individuo è esente.
Quando il tenente Henry spara ai due sergenti che stanno disertando e si allontanano poiché si
rifiutano di aiutare gli altri a disincagliare dal fango l’automobile, egli manifesta il riflesso
condizionato del soldato della Prima guerra mondiale, abituato all’inflessibilità e all’uso di
punizioni estreme da parte dei comandi al fine di mantenere l’ordine nella truppa. Una quotidianità
che non è quella anonima della “chiacchiera”, come in Heidegger, poiché le condizioni in guerra
sono estreme e le abitudini che vi si contraggono non sono quelle della banale vita borghese. A
causa del carattere estremo di tali condizioni, in questo episodio l’inautenticità è per giunta una
23Ernest Hemingway (a cura di), Men at war, New York 1942, p. 9. 24 José Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, in Id., Obras completas, vol. I, Madrid 1957, p. 322. 25Ivi, p. 319. 26 José Ortega y Gasset, Prologo para alemanes (1958), in Id., El tema de nuestro tiempo, Madrid 2006. 27 Sulla presentazione satirica della retorica wilsoniana fatta dal giovane Hemingway, cfr. Craig Carey, Mr. Wilson’s
War: Peace, Neutrality, and Entangling Alliances in Hemingway’s‘In Our Time’, “The Hemingway Review”, 31, 2,
2012, pp. 6-26. 28 Cfr. Ernest Hemingway, Mussolini, Europe'sPrize Bluffer—an excerpt (The Toronto Daily Star, January 27, 1923), in
Seán Hemingway (a cura di), Hemingway on War, New York 1996, pp. 256-257.
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grave colpa poiché l’esito dell’azione di Henry è la morte di uno dei sergenti, anche se il colpo
finale è sparato da uno degli autisti di Imola,socialisti e “pacifisti”, in fuga dagli austro-tedeschi
assieme al tenente americano. D’altra parte, è stato notato che nome e cognome del protagonista del
romanzo sono intercambiabili, il che fa pensare a una sua duplicità ed ambiguità di fondo29.
Alla deiezione e alla colpa si affianca l’errore fatale, che nel romanzo si manifesta in
almeno due casi: è il tenente Henry a suggerire durante la ritirata al suo gruppo di imboccare quella
strada secondaria in cui la loro autovettura resterà impantanata, mettendoli nelle condizioni di poter
subire la catturada parte degli austro-tedeschi: «era colpa mia. Li avevo condotti io da quella parte».
Poco dopo, in un episodio di probabile “fuoco amico”, uno dei due autisti, Aymo, mentre cerca di
attraversare il terrapieno su cui è posta la strada ferrata, viene ucciso da un colpo partito da un
boschetto dove c’erano forse dei soldati della retroguardia italiana. Si tratta di uno dei “segni” e
degli episodi “istruttivi” su cui il protagonista tornerà alla fine del libro, anche se già nel primo
momento di riposo dopo questo episodiodice a se stesso: «la morte era venuta improvvisa e
irragionevole».
Si sa che la morte è la principale protagonista dei romanzi di Hemingway; ma mai come in
Addio alle armi la consapevolezza dell’heideggeriano essere-per-la-morte emerge nella coscienza
del personaggio-narratore, che alla fine del romanzo riflette, davanti alla sua Catherine morente: «è
la sorte morire, e non si ha tempo d’imparare il perché; vi buttano nella vita dandovi un mucchio di
doveri, e appena siete indifesi vi assassinano gratuitamente come Aymo, o prendete la sifilide come
Rinaldi, e alla fine vi uccidono sempre. Potete esserne certi, è questione di tempo». Questa
consapevolezza si unisce, in Addio alle armi, anche per le vicende narrate, a qualcosa di più di una
venatura schopenhauriana poiché il generare, il ritrovarsi ad essere padre, comunque il vivere, sono
da Henry definiti una “trappola biologica”. Egli risponde infatti a Catherine che gli comunica di
essere incinta e teme che lui si possa sentire incastrato: «ci si sente sempre un po’presi in trappola,
biologicamente». Ed il parto lo definisce, mentre sta nella sala d’attesa in ospedale: «la fine della
trappola».
La morte di Catherine e del figlio appena nato (forse nato morto a causa del cordone
ombelicale che gli si era stretto attorno al collo) rappresentano il senso di quello che potremmo
definire, in similitudine-opposizione a Jaspers, un naufragio senza trascendenza, né una
trascendenza dell’essere à la Heidegger né una trascendenza teistica à la Jaspers. Che l’essere si dia
«in quanto cifra e quindi non mai come oggetto, ma in certo modo trasversalmente ad ogni
oggettività» (Jaspers, Filosofia, 1932) è qualcosa che troviamo anche nell’esistenza di Frederic
29 Cfr. Craig Kleinman, Dirtytricks and wordyjokes: the politics of recollection in 'A Farewell to Arms', “Hemingway
Review”, 15, 1, 1995, pp. 54-71.
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Henry. D’altra parte, per Jaspers sono proprio lo scacco ed il naufragio provocato dalle esperienze
insormontabili (prima fra tutte la morte) che rivelano la trascendenza imperscrutabile dell’essere
rispetto all’esistenza, attutendone perciò l’apparente assurdità.Viene da chiedersi: è questo che sente
Frederic? Scorge davvero la trascendenza dell’essere oltre il corpo simile a «un coniglio scuoiato»
del suo bambino nato morto e oltre la statua minerale che è diventata la sua donna, morendo?
Sembrerebbe di no. Comunque Hemingway resta, in questo, un romanziere e probabilmente, anche
in ossequio al suo metodo minimalista, lascia la soluzione di questo nodo alla sensibilità ontologica
del lettore. Da grande illustratore qual era, egli si limita a darci delle immagini raggelanti dello
scacco e del naufragio. La stessa scena finale di Henry che torna sotto la pioggia in albergo, non è
chiaro se stia a simboleggiare il carattere plumbeo di un fallimento totale oppure un provvisorio
lavacro manzoniano della “peste” di vivere.
Un flebilissimo spiraglio si intravvede nel romanzo quandoFrederic risponde all’anziano
conte Greppi, nella conversazione che si sviluppa nel corso di una stucchevole partita a bigliardo
nell’albergo di Stresa poco prima della sua fuga in Svizzera, di essere credente solo «quando è
buio». D’altra parte, uno dei personaggi più importanti del libro è il giovane cappellano militare
abruzzese-molisano (di Capracotta), che è il vero interlocutore di Henry tra tutti coloro che egli
conosce durante il suo servizio nell’esercito italiano. Egli riconosce che il prete è portatore di una
conoscenza della vita superiore, sebbene non direttamente esperita da lui ma legata alla sua
funzione: Henry così commenta la sua amicizia col cappellano prima che tutto accada, prima di
Caporetto, prima che la sua educazione esistenziale abbia corso: «aveva saputo sempre, lui, quello
che non sapevo e anche dopo che l’imparai restai pronto a dimenticarlo; e ancora non lo sapevo
allora, dovevo impararlo più tardi». In ospedale, poi, durante il colloquio in occasione di una visita,
il cappellano spiega fugacemente a Henry il senso dell’amore: «quando si ama si vuol far qualche
cosa per il proprio amore, sacrificarsi per esso, servire». Un fondo di spiritualità religiosa, di senso
del sacro, è stato sottolineato da diversi interpreti e biografi di Hemingway, che ne hanno messo in
luce anche l’attrazione per il cattolicesimo30, sebbene quello di Hemingway sia stato un
cattolicesimo emozionale, che si limitava ad avvicinare di più al mistero del mondo di quanto
facesse il congregazionalismo liberale tipico della sua famiglia e dei suoi luoghi natali (Illinois).
5. C’è però un dato storico, che è al centro del romanzo e che aggrava il pessimismo
esistenziale e oscura anche il flebile sentimento della trascendenza notturna. Si tratta di quello che si
potrebbe denominare il disvelamento del Novecento e della modernità, di cui la Prima guerra
30 Cfr., ad esempio, Matthew C. Nickel, Hemingway’s Dark Night: Catholic Influences and Intertextualities in the Work
of Ernest Hemingway,Wickford (RI) 2013.
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mondiale è stato il luogo di manifestazione. Hemingway sembra rendersi conto che quella guerra
non era stata soltanto una “strage inutile”, una parentesi di irrazionalità universale, ma egli sembra
cogliervila rivelazione della fredda razionalità distruttiva ed autodistruttiva del Leviatano moderno.
Aveva scritto Il’ ja Ehrenburg (che Hemingway conobbe in Spagna durante la guerra civile) ne La
tempestosa vita di Lazik (1927): «quando passeggia per la strada la storia al cento per cento,
all’uomo comune non resta altro che morire con l’entusiasmo negli occhi». Nella prosa dello
scrittore ucraino Vasyl Barka, la mostruosa macchina statale che egli aveva visto all’opera nelle
campagne sovietiche all’epoca della loro collettivizzazione prende le forme di un mostro biblico-
barocco dai tratti modernisti «un personaggio dallo sguardo penetrante e sicuro; è fatto, sembra, di
oro massiccio, con dei riflessi rossastri, porta una strana corona e dei vestiti sontuosi. È immenso.
Solo la parte superiore del suo corpo, che si direbbe riflessa da uno specchio deformante, è visibile.
Le sue costole assomigliano a una griglia aperta nella quale, salendo dal basso dell’immagine,
irrompe una fila infinita e ininterrotta di persone, povera gente, che si spingono fino alla cassa
toracica-griglia del mostro e vi spariscono. Come delle pecore al mattatoio!»31.
Questo mostro, che ingoia i suoi stessi membri, che tratta i concittadini come farebbe (e
aveva fatto nei decenni precedenti) un esercito d’occupazione coloniale, Frederic Henry l’aveva
dapprima intravistonelle decimazioni indiscriminate, seguite dall’ostracismo che cadeva sull’intera
famiglia del fucilato:
C’era anche lei, Tenente, quando non vollero uscire dalla trincea e ci fu la decimazione? - - No. - -
Hanno fatto sul serio. Li hanno messi in fila e ne han preso uno ogni dieci. Sono stati i carabinieri a
fucilarli. - - I carabinieri - disse Passini, e sputò per terra. - Ma quei granatieri! Tutti alti più di un metro e
ottanta, e non volevano uscire. - - Facessero tutti così - disse Manera. - Finirebbe la guerra. - - Ma loro
non ci pensavano a questo. Avevano solo paura. Sfido, gli ufficiali sono tutti della nobiltà. - - No,
qualche ufficiale è andato avanti da solo. - - Ma un sergente sparò su due ufficiali che non volevano
muoversi. - - Anche dei soldati sono andati avanti. - - Quelli non han passata la decimazione. - - Uno
dei fucilati era mio paesano - disse Passini. - Un pezzo d'elegantone, proprio un tipo di granatiere. Sempre
a Roma, tutto per le ragazze. E per i carabinieri. - Rise. - Davanti a casa sua, adesso, c'è la sentinella con
la baionetta, e nessuno può andare da sua madre né dal papà né dalle sorelle. Il papà ha perso i diritti
civili, non può votare. Non hanno più la legge che li difende. Si può rubargli tutto.
Il “principe giallo” era poi apparso distintamente a Frederic Henry sul Tagliamento, sotto le forme
della polizia militare che attendeva le truppe in ritirata per fucilare gli ufficiali. La sua conseguente
fuga e la diserzione, quella che lui chiamerà la sua «pace separata» è anche un atto di diserzione
dalla Storia e dal Novecento.
31Vasyl Barka, Le prince jaune, (trad. francese) Parigi 1981, p. 364.
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Già Aimee L. Pozorskiha tracciato un interessante parallelo tra il bambino nato morto di
Henry e le tragedie storiche a cui Hemingway aveva assistito, non solo la Grande guerra ma anche
la guerra greco-turca e le notizie sul genocidio armeno, che per la sensibilità disincantata di
Hemingway finivano per inficiare ogni ottimismo rispetto alle pretese sorti progressive della
modernità32. Ma non si tratta solo di questo: intanto Hemingway, in una frase che abbiamo già
citato relativa alle riflessioni che il patriottismo del commilitone italiano generava in Henry, aveva
intuitivamente colto un elemento della macchina mortale novecentesca; pensava infatti Henry, dei
sacrifici chiesti dalla “Patria”: «i sacrifici in realtà avvenivano come nei mattatoi di Chicago: con la
differenza che qui la carne andava in sepoltura». Il mattatoio, un prodotto della tarda modernità, con
la sua metodica produzione in serie di abbattimenti animali,una vera e propria fabbrica della morte
per gli animali, è effettivamente stato un punto di riferimento inconscio per la distruzione
sistematica degli esseri umani che i totalitarismi hanno messo in atto nei decenni centrali del XX
secolo. Si tratta di un parallelo su cui si è ad esempio soffermato Enzo Traverso nel suo La violence
nazie. Une généalogie européenne (2002).
Hemingway poi coglie il carattere lucido, razionale, calcolistico della violenza
indiscriminata novecentesca, priva di mete predefinite, senza un nemico chiaramente identificabile:
Vedevo come funzionava il loro cervello dato che ne avessero uno. Erano dei giovani ufficiali e
pensavano di salvare il paese. Bisognava ricostituire la Seconda Armata al di là del Tagliamento:
fucilavano tutti gli ufficiali superiori che trovavano senza i loro uomini, e sbrigavano pure, in maniera
sommaria, gli “agitatori” tedeschi in uniforme italiana. Portavano l'elmetto. Solo due tra noi avevano
l'elmetto. Anche qualche carabiniere l'aveva. Gli altri carabinieri portavano il cappello enorme che
chiamavamo “aeroplano”. Ci tenevano in piedi sotto la pioggia e ad uno ad uno ci avrebbero tolti dal
gruppo, interrogati e fucilati. I giudici avevano quel bell'attaccamento, quella devozione rigida alla
giustizia che è familiare a chi dispensa impunemente la morte. Ora stavano interrogando un grosso
colonnello di fanteria. Altri tre ufficiali si erano appena aggiunti a noi.
6. Le origini del totalitarismo di Hanna Arendt è tutt’ora una della analisi più lucide del
“mostro novecentesco”, nonostante sia stato concepito e scritto alla fine degli anni Quaranta,
quando molte fonti archivistiche erano inaccessibili e mentre gli uomini non volevano pensare al
passato prossimo della Seconda guerra mondiale, dei campi di sterminio. Il testo si chiude con una
nota di speranza, che intende anche contrapporsi al pessimismo ontologico heideggeriano, che
aveva sì intravisto la condizione transeunte dell’essere umano, il cui essere è per-la-morte, ma
aveva trascurato la categoria storico-esistenziale della natività, che portava la Arendt a sostenere
che ogni nuova nascita, col suo carico di speranze e possibilità, è un nuovo inizio e una sfida alla
32Aimee L. Pozorski, Infantry and Infanticide in ‘A Farewell to Arms’, "The Hemingway Review", 23, 2, 2004, pp. 75-
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perversione totalitaria del controllo totale dell’uomo. In Addio alle armi tuttavia non c’è neanche
questo; come dice stoicamente ma disperatamente Catherine a Frederic, poco prima di morire: «Non
preoccuparti caro. Non ho nemmeno un filo di paura. Ma è stato un imbroglio. Un cattivo
imbroglio».
*Giuseppe A. Perri, Cierl/Université Libre de Bruxelles (Ulb).
Filosofia e nuovi sentieri /ISSN 2282-5711
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