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SOCIOLOGIA ECONOMICA
I. Profilo storico (Carlo Trigilia)
Introduzione. Che cosa è la sociologia economica
Il campo di studio della sociologia economica è caratterizzato da un insieme di studi e ricerche volti ad
approfondire i rapporti di interdipendenza tra fenomeni economici e sociali.
DUE DEFINIZIONI DI ECONOMIA
Karl Polanyi (1977) ci suggerisce due definizioni di economia:
1) possiamo guardare all’economia come all’insieme delle attività stabilmente intraprese dai membri di una
società per produrre, distribuire e scambiare beni e servizi (questa definizione non è condivisa da tutti gli
economisti);
2) possiamo guardare ai fenomeni economici come sinonimi di “economizzare”, cioè porre l’accento su attività
che hanno a che fare con la scelta individuale di impiego di risorse scarse, che potrebbero avere usi alternativi,
al fine di ottenere il massimo dai propri mezzi (è quella che prevale nei testi di economia). Qui i soggetti
perseguono razionalmente gli interessi individuali (es. si suppone che ciascun individuo sarà propenso a
comprare più quantità di un bene se il prezzo è basso per effetto dei rapporti tra domanda e offerta, e viceversa
se il prezzo è alto). Dall’incontro della domanda dei consumatori e dei produttori sul mercato dipenderà la
quantità effettiva di beni che saranno prodotti e il loro prezzo.
Se nelle società primitive le attività economiche si svolgono nell’ambito delle strutture familiari e parentali che
regolano le modalità di produzione, nei grandi imperi dell’antichità lo stato assume un ruolo essenziale nella
regolazione delle attività economiche. Nelle società capitalistiche, che si basano sulla proprietà privata dei mezzi di
produzione, l’economia si emancipa dai controlli sociali e politici ed i mercati si “autoregolano” e l’allocazione
delle risorse e la formazione dei prezzi sono condizionati dai rapporti tra domanda e offerta.
Le definizioni dei fenomeni economici che abbiamo richiamato non devono essere considerate come alternative ma
come due modi diversi di guardare all’economia da cui discendono vantaggi e limiti che è bene conoscere.
La seconda definizione è la più diffusa tra gli economisti ed ha consentito un notevole avanzamento delle
conoscenze sui meccanismi autoregolativi dell’economia (sull’influenza dei movimenti della domanda e
dell’offerta sulla formazione dei prezzi e sull’allocazione delle risorse). Operando con pochi assunti semplici
relativi al comportamento utilitaristico degli attori, e considerando le istituzioni come un dato, l’economia ha
potuto sviluppare modelli teorici a elevata generalizzazione. Su questa base ha anche affinato strumenti previsivi e
normativi.
Tuttavia, sul piano più specificamente interpretativo, emergono difficoltà quando occorre misurarsi con contesti in
cui il mercato autoregolato ha un ruolo limitato o addirittura nullo (es. contesti precapitalistici) o quando si vuole
rispondere a domande del tipo: perché alcuni paesi si sono industrializzati prima di altri? perché alcuni paesi si
sono industrializzati prima di altri?
In questi casi presenta dei vantaggi la prima definizione la quale si apre maggiormente allo studio dell’interazione
tra economia e società ed è quindi più vicina alla prospettiva della sociologia economica ma anche
dell’antropologia e della storia economica. Tali discipline hanno un’ottica diversa dall’economia e guardano
all’attività economica come un processo istituzionalizzato (non si parte dal singolo individuo isolato ma si
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considerano le istituzioni che regolano le attività economiche). Per istituzioni si intende un complesso di norme
sociali che orientano e regolano il comportamento e si basano su sanzioni che tendono a garantirne il rispetto da
parte dei singoli soggetti. Le sanzioni possono essere:
- positive: se incentivano un certo comportamento;
- negative: se tendono ad impedire un certo tipo di azioni;
- informali: se si basano sulla disapprovazione degli altri;
- formali: se stabilite dalla legge (norme giuridiche).
Per il momento è opportuno sottolineare che il concetto di istituzione si riferisce, nel linguaggio sociologico, a un
insieme di fenomeni più ampio di quello che viene di solito preso in considerazione dal linguaggio comune (che si
riferisce alle istituzioni politiche).
E’ bene non confondere le istituzioni con le organizzazioni che sono invece le collettività concrete che coordinano
un insieme di risorse umane e materiali per il raggiungimento di un determinato fine (es. imprese, sindacati, camere
di commercio, ecc.).
Mentre a un’organizzazione possono essere imputate delle azioni, ciò non è possibile per le istituzioni.
Guardare alle istituzioni equivale a gettare un ponte tra economia e società; consente di storicizzare i fenomeni
economici. Non si parlerà dunque di economia in generale ma per esempio di economia capitalistica, feudale, delle
società primitive, ecc.
Il concetto di sistema economico acquisisce un rilievo cruciale in questa prospettiva; esso tende a sottolineare le
diverse modalità, nello spazio e nel tempo, attraverso le quali le istituzioni orientano e regolano le attività
economiche.
LA SOCIOLOGIA ECONOMICA SECONDO SCHUMPETER E WEBER
La differenza di prospettiva tra l’economia e le altre scienze sociali emerge anche da una famosa definizione di
Joseph Schumpeter (1954) che attribuisce alla sociologia economica il compito di spiegare come le persone sono
giunte a comportarsi in un certo modo (specificando che le azioni devono essere messe in rapporto con le istituzioni
che sono rilevanti per il comportamento economico: stato, proprietà privata, contratti, sindacati, ecc.). La sociologia
economica, insieme alla storia e alla statistica, è presentata da questo autore come uno strumento che l’economista
teorico dovrebbe padroneggiare.
La definizione di Schumpeter è in sintonia con quello di sociologi dell’economia che non si sofferma soltanto
sull’influenza del contesto istituzionale sull’economia, ma anche sul condizionamento inverso (es. valutare come le
strutture economiche capitalistiche abbiano favorito una conflittualità sociale e politica che ha, a sua volta, portato
a estendere l’intervento dello stato nell’economica e il ruolo del sindacato e delle relazioni sindacali). La
bidirezionalità dell’indagine – dalla società all’economia e dall’economia alla società – consente di mettere a fuoco
il cambiamento delle strutture economiche.
Anche per Max Weber una scienza economico-sociale è sostanzialmente una scienza dei rapporti di
interdipendenza tra fenomeni economici e sociali. Per Weber, mentre l’economia si concentra soprattutto sulla
formazione del mercato e dei prezzi nella moderna economia di scambio, la sociologia economica si preoccupa
principalmente di mettere in luce i fenomeni economicamente rilevanti (l’influenza esercitata da istituzioni non
economiche, come quelle religiose o politiche, sul funzionamento dell’economia) e quelli economicamente
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condizionati (mettono in evidenza come gli orientamenti politici, o religiosi, ecc., siano influenzati da fattori
economici).
Weber si confronta esplicitamente con Marx in quanto non può accettare sul piano scientifico un’interpretazione
tendente a ricondurre esclusivamente a cause economiche i caratteri di una determinata società.
La formulazione di generalizzazione, che Weber chiama idealtipi, ha specifiche limitazioni spazio-temporali ed è
essenzialmente finalizzata al miglioramento della conoscenza storica (in nessun caso deve condurre alla ricerca di
leggi generali che pretendano di individuare nessi causali tra aspetti economici e non economici al di là di un
contesto storico).
Per Talcott Parsons (1937) invece la finalizzazione delle generalizzazioni teoriche all’indagine storica costituisce
un limite allo sviluppo scientifico della sociologia che va superato.
Tuttavia, i tentativi operati in direzione di modelli teorici a elevata generalizzazione non hanno dato, in generale,
risultati soddisfacenti.
SOCIOLOGIA, ANTROPOLOGIA E STORIA ECONOMICA
Possiamo meglio mettere a fuoco in che cosa differiscano le prospettive analitiche di queste discipline
considerandone:
a) l’oggetto di studio privilegiato;
b) gli strumenti utilizzati;
c) il grado di generalizzazione teorica.
Antropologia economica
a) le società primitive;
b) l’osservazione partecipante;
c) è scarso (generalmente si parla di reciprocità come categoria per interpretare le forme istituzionali di
organizzazione economica delle società primitive).
Storia economica
a) il passato;
b) analisi documentaria;
c) l’elaborazione e la discussione di generalizzazioni teoriche esplicite è molto più limitata e spesso considerata
con diffidenza.
Sociologia economica
a) società contemporanee;
b) analisi documentaria e indagine empirica basata su interviste o su raccolta diretta di informazioni trattabili
anche quantitativamente;
c) si punta maggiormente a elaborare generalizzazioni teoriche sui rapporti tra fenomeni economici e non
economici (nella pratica di ricerca prevale la formulazione di modelli teorici limitati a particolari contesti
spazio-temporali).
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LO STATUS SCIENTIFICO DELLA DISCIPLINA
Dalla discussione precedente emerge un’immagine della sociologia economica che si colloca in una posizione
intermedia tra l’ottica generalizzante dell’economia e quella più individualizzante della storia.
La concezione monista positivista dell’attività scientifica incontra dei problemi se viene applicata ai fenomeni
sociali.
Secondo tale concezione non esistono differenze qualitative tra scienze fisiche e naturali e scienze sociali:
a) esiste un solo metodo scientifico che si basa sulla formulazione di ipotesi e sulla verifica empirica;
b) l’attività conoscitiva è diretta all’elaborazione di spiegazioni causali dei fenomeni;
c) l’attività scientifica attraverso l’accumulazione delle conoscenze, tende a formulare leggi generali;
d) la differenza di oggetto tra scienze fisiche e naturali e scienze sociali comporta solo specifici problemi tecnici
per queste ultime.
Raymond Boudon (1984) attraverso l’uso di alcuni esempi smentisce le affermazioni dei punti c) e d).
La teoria economica prevede che se il prezzo di un prodotto sale, la domanda di quel prodotto scende. Ma non è
sempre così perché bisogna supporre che il secondo bene abbia le stesse caratteristiche del primo e che sia
conosciuto dal consumatore altrimenti lo stesso potrebbe scegliere di spendere di più ma continuare a comprare il
primo bene. Nella scelta individuale intervengono sempre dei margini di incertezza che ostacolano la formulazione
di previsioni generali.
Altro esempio può essere quello della formulazione di una legge del tipo: se peggiorano le condizioni economiche,
aumenta la violenza collettiva (rivolte, agitazioni, scioperi). Gli studi storici ed empirici non confermano questa
connessione, almeno nella sua pretesa generalità. Per esempio occorrono dei leader che organizzino la protesta i
quali valuteranno l’esistenza di libertà di manifestazione oppure la forza degli apparati repressivi, ecc.
Questi semplici esempi ci mostrano la difficoltà di formulare leggi del tipo “se A, allora B” nello studio dei
fenomeni sociali.
Anche la concezione dualista storicista (in base alla quale solo le scienze della natura possono stabilire nessi causali
generali ed ogni fenomeno sociale ha invece un carattere distinto e non è possibile alcuna generalizzazione di tipo
teorico) non si addice alla sociologia economica.
Lo status scientifico della sociologia economica, e delle scienze sociali in genere, può essere fondato su una
concezione diversa dal monismo e dal dualismo. L’applicazione del metodo scientifico non richiede
necessariamente la formulazione di leggi generali. Le scienze sociali possono invece aspirare alla formulazione di
modelli. Mentre le legge ha una pretesa di applicabilità generale, i modelli sono ricostruzioni ideali di situazioni
particolari, definite da specifiche condizioni che ne limitano la validità nello spazio e nel tempo.
L’individualismo metodologico cerca di spiegare i fenomeni sociali partendo dalle motivazioni individuali e si
contrappone all’olismo metodologico (es. si studia l’influenza del livello complessivo di istruzione sullo sviluppo
economico, ma non si tiene adeguatamente conto delle motivazioni degli attori).
Per trattare la società come la natura occorre in tutti i casi sbarazzarsi degli attori e ridurli a stereotipati esecutori
delle costrizioni del sistema.
IL PLURALISMO INTERPRETATIVO: SCIENZA E VALORI
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La linea di frattura tra individualismo e olismo metodologico attraversa la storia delle scienze sociali alimentando il
pluralismo interpretativo (cioè la coesistenza di diversi modelli interpretativi in concorrenza tra loro).
I due problemi principali sono dunque la complessità dell’oggetto di indagine (le condizioni che influenzano
l’azione dell’uomo sono molteplici e variano nello spazio e nel tempo) ed il margine di discrezionalità del
ricercatore che fa parte della società che studia ed ha quindi le sue preferenze ed i suoi criteri di orientamento che lo
guidano in un senso piuttosto che in un altro.
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PARTE PRIMA
DALL’ECONOMIA ALLA SOCIOLOGIA ECONOMICA
CAPITOLO 1
ECONOMIA E ISTITUZIONI NELLA FORMAZIONE DELL’ECONOMIA CLASSICA
L’economia come disciplina nasce nel corso del 1700 quando le attività economiche si emancipano da controlli e
vincoli sociali e sono regolate dal mercato.
Karl Polanyi (1968) ci aiuterà a comprendere il rapporto tra economia e sociologia economica.
Polanyi si è valso dei contributi dell’antropologia e della storia nello studio delle economie primitive. In questi
contesti le attività economiche sono incorporate in un sistema di istituzioni non economiche con la conseguenza
che la produzione e lo scambio dei beni legati all’agricoltura, all’allevamento, alla pesca e all’artigianato possono
essere organizzati sulla base di due principi:
- reciprocità: si producono e distribuiscono beni e servizi sulla base di obblighi di solidarietà condivisi nei
riguardi degli altri membri del gruppo parentale o della tribù. Tali obblighi sono di solito legati alle prescrizioni
di una religione prevalente. Non è il guadagno individuale che incentiva il comportamento economico dei
singoli;
- redistribuzione: al principio della reciprocità può affiancarsi quello della redistribuzione (es. le norme sociali
prevalenti possono prescrivere che al capo del villaggio o della tribù vengano consegnati determinati prodotti.
Questi verranno immagazzinati, conservati e successivamente redistribuiti in occasioni cerimoniali particolari.
Il comportamento economico non è più soltanto definito da obblighi sociali condivisi, ma da specifiche regole
formali fatte valere dal potere politico, pur se di solito legittimate in termini religiosi (es. grandi imperi
burocratici come quello romano, egiziano).
Secondo Polanyi, non è possibile un’indagine sull’economia che prescinda dallo studio delle strutture politiche in
cui le attività economiche sono incorporate.
Nel contesto europeo, a partire dal Medioevo si viene costituendo uno spazio crescente e autonomo del mercato
come strumento di organizzazione dell’attività economica, a spese delle altre due forme di integrazione (reciprocità
e redistribuzione). Non bisogna comunque identificare tutti i tipi di scambio con lo scambio di mercato, ve ne sono
tre tipi:
- scambio di doni: tipico della reciprocità;
- scambio amministrato: caratterizzato da transazioni rigorosamente controllate dal potere politico (economie
arcaiche dei grandi imperi);
- scambio di mercato: in senso stretto.
Nel corso dell’Ottocento, i mercati autoregolati (che determinano i prezzi attraverso il gioco tra domanda e offerta)
diventano lo strumento primario da cui dipende la produzione e distribuzione di beni e servizi nei paesi più
sviluppati. L’ordinamento politico si limita a garantire dall’esterno i diritti di proprietà e la libera contrattazione. È
in questo quadro che si può sviluppare un’indagine economica autonoma basata sulle leggi del mercato. Polanyi
sottolinea che solo l’emancipazione e l’autonomizzazione delle attività economiche dai condizionamenti sociali e
politici rende possibile l’economia come scienza.
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Ma occorre evitare di sovrastimare il ruolo dello scambio di mercato nell’economia anche in quei contesti dove
esso è particolarmente sviluppato. Nel capitalismo ottocentesco il predominio del mercato concorrenziale non è
stato mai totale. Nelle società contemporanee, per reagire agli effetti destabilizzanti del mercato, queste società
hanno teso a reincorporare in parte l’economia cercando di sviluppare nuove forme di regolamentazione politica e
sociale delle attività economiche.
In tutti questi casi si apre uno spazio che può essere ricoperto da quella che Polanyi definiva un’analisi istituzionale
dell’economia e che noi possiamo considerare come lo spazio della sociologia economica. Essa ha il compito di
chiarire il posto delle economie nelle società ovvero si sforzerà di mostrare come le attività economiche siano
collegate alle strutture sociali.
Ma questa separazione non era originariamente così netta: l’economia classica, soprattutto nella versione di Adam
Smith, aveva una sua sociologia economica. Ed è da qui che dobbiamo partire.
LA FORMAZIONE DELL’ECONOMIA POLITICA
È solo nella seconda metà del ‘700, con i fisiocratici e con l’opera di Adam Smith, che l’idea di una sfera
economica come sistema autonomo di parti tra loro interagenti giunge a maturazione. Diventa anche più netta la
distinzione tra analisi scientifica del funzionamento dell’economia e proposte di politica economica (suggerimenti
al potere politico per interventi di regolazione).
Cercheremo di mettere in evidenza come la formazione dell’economia politica si accompagni a una riflessione
esplicita e consapevole sui rapporti tra economia e società. vi è dunque una sociologia economica che precede
quella poi sviluppatasi all’interno della tradizione sociologica, e in un certo senso ne costituisce il presupposto. Il
confronto con l’economia politica sarà infatti una componente essenziale della prospettiva sociologica.
I mercantilisti
Nel 1600 si diffonde una pratica di economia politica, cioè di analisi dei caratteri e dei problemi delle attività
economiche strettamente finalizzata agli obiettivi di rafforzamento dei nascenti stati nazionali. Con il pensiero
mercantilista si fa strada invece una valutazione più autonoma e scientifica dei fenomeni economici, soprattutto da
due punti di vista tra loro collegati (il comportamento economico viene visto come sostanzialmente guidato
dall’interesse personale in termini di guadagno; viene riconosciuto il ruolo dello scambio di mercato nel senso
prima chiarito, cioè l’influenza della domanda e dell’offerta nella formazione dei prezzi). Nel ‘600 i commerci
avvengono ormai tra gli stati nazionali e ne condizionano la potenza politica. Le monarchie europee erano
interessate a promuovere l’attività commerciale e la penetrazione coloniale per rafforzarsi nella competizione
internazionale. L’obiettivo primario era quello di garantire un afflusso di moneta metallica (oro, argento). Erano
favorite le importazioni di materie prime a buon mercato, mentre si sosteneva la produzione nazionale di manufatti
con dazi protettivi nei riguardi della concorrenza estera. Il protezionismo, tipico in generale di questa esperienza
storica, riflette una situazione di limitata emancipazione dell’attività economica.
Gli uomini che cominciano a osservare con spirito positivo le vicende economiche sono essenzialmente degli
uomini pratici, che non vendono dalle università, e si pongono un obiettivo concreto: come migliorare l’economia
nazionale. Il modello di analisi che si propongono è di tipo macroeconomico (essi verranno rivalutati da Keynes). I
mercantilisti puntano molto sulla ricchezza nazionale identificata con la moneta metallica disponibile (oro, argento)
per cui tendono a mantenere la bilancia commerciale in attivo con la politica protezionistica.
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I mercantilisti hanno un orientamento di tipo induttivo e concreto (in sintonia con l’empirismo della tradizione
culturale inglese) a differenza dei fisiocratici, deduttivi ed in sintonia con il razionalismo dominante nel contesto
intellettuale francese.
I fisiocratici
Rispetto ai mercantilisti essi formano una vera scuola scientifica in senso moderno. Il periodo di maggior influenza
della corrente fisiocratica si colloca intorno alla metà del ‘700. François Quesnay è il fondatore della scuola.
Il clima intellettuale in cui maturano le idee dei fisiocratici è quello della Francia negli anni che precedono la
Rivoluzione. Essi sono preoccupati per la situazione economica e finanziaria del paese. Le crescenti spese militari,
e quelle per il mantenimento della corte di Versailles, avevano portato ad una maggiore pressione fiscale
sull’agricoltura. I fisiocratici sostengono un progetto di riforma dell’agricoltura e sviluppano una critica severa nei
confronti delle politiche mercantilistiche. Occorreva liberare l’agricoltura da vecchi vincoli di origine feudale,
liberalizzare il commercio cerealicolo, razionalizzare il sistema fiscale con un’imposta unica. Ma il tutto doveva
avvenire senza intaccare i diritti di proprietà dell’aristocrazia e il ruolo della monarchia.
Vediamo meglio come si è sviluppata questa operazione. Fisiocrazia significa “governo della natura”. I fisiocratici
partono infatti dall’assunto che esistono leggi naturali della società simili a quelle che governano il mondo fisico.
Esiste un “ordine sociale naturale” che può essere conosciuto per mezzo della ragione. Quanto più la società si
organizzerà in modo confacente a queste leggi, con l’aiuto della scienza, tanto più potrà aumentare sia il benessere
individuale che quello collettivo. Non è il commercio e l’afflusso di moneta a creare ricchezza, e nemmeno la
manifattura, ma solo l’agricoltura ha la virtù di dare, con i suoi raccolti, un reddito aggiuntivo rispetto alle risorse
in essa investite.
Questo è il punto su cui si concentreranno maggiormente le critiche successive, a partire da quella di Smith.
Mentre verrà apprezzato, rispetto al mercantilismo, lo spostamento di ottica dall’analisi degli aspetti monetari a
quelli “reali” della produzione della ricchezza nazionale, si considererà ingiustificato il ruolo attribuito
all’agricoltura a scapito di quello dell’industria.
Se si esclude il ruolo particolare attribuito all’agricoltura, sono dunque presenti, e più o meno sviluppati, nella
fisiocrazia una serie di elementi che confluiranno nel patrimonio dell’economia classica:
- l’idea di leggi naturali dell’economia studiabili autonomamente;
- l’identificazione del comportamento economico come motivato sulla base del guadagno;
- le positive conseguenze, economiche e sociali, attribuite al libero perseguimento dell’interesse individuale
attraverso il mercato;
- un ruolo delle istituzioni politiche che, a differenza di quanto ipotizzavano i mercantilisti, deve limitarsi a
garantire il diritto di proprietà e la sicurezza dei traffici.
LA “GRANDE SINTESI” DI ADAM SMITH
Per i fisiocratici, il libero perseguimento dell’interesse individuale è in grado di conciliare “naturalmente”, per
mezzo del mercato, benessere individuale e collettivo.
Per Smith non è così (nonostante uno stereotipo diffuso ne abbia fatto il paladino del laissez-faire, ma tale
espressione non gli appartiene), la ricerca dell’interesse individuale e il funzionamento del mercato possono
favorire il benessere collettivo solo se sono controllati da precise regole istituzionali (socioculturali, giuridiche,
politico-organizzative). Lo studio di tali vincoli istituzionali è parte integrante, per Smith, dell’indagine sulle
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“cause della ricchezza delle nazioni”. Economia e sociologia economica sono pertanto strettamente collegate nella
sua opera.
Adam Smith (1723 – 1790) nasce e si forma in Scozia e per più di dieci anni insegna filosofia morale
nell’Università di Glasgow.
Pubblica La teoria dei sentimenti morali (1759).
Dopo un viaggio in Francia, nel quale ebbe contatti con esponenti dell’illuminismo e con i fisiocratici, torna in
Scozia e scrive Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776).
Nel contesto scozzese (influenzato dal filosofo Hume) nasce una prima concezione sociologica dell’azione umana
come un’azione istituzionalizzata e cioè influenzata dai valori e dalle norme che prevalgono storicamente in una
determinata società (distaccandosi dall’uomo naturalmente egoista di Hobbes e anche dall’uomo naturalmente
guidato dalla ragione di Locke e dei fisiocratici).
I fondamenti sociali dell’azione economica
Il perseguimento dell’interesse individuale è per Smith una molla importante del comportamento umano ma tende a
essere regolata da norme condivise dai membri della società (il termine simpatia che usa Smith si avvicina a quello
che oggi possiamo chiamare processo di socializzazione).
Il comportamento economico non può essere per Smith spiegato con una naturale tendenza alla ricerca della
ricchezza ma è influenzato dalle norme sociali (il guadagno individuale non deve essere considerato un fine in sé,
come un obiettivo naturale dell’uomo, ma piuttosto uno strumento per ottenere approvazione sociale). Il desiderio
di migliorare le proprie condizioni appare come un dato permanente del comportamento umano, ma esso è
alimentato dal bisogno di approvazione sociale.
Che l’azione economica motivata dalla ricerca del massimo guadagno abbia origini non economiche è anche
confermato dall’analisi dello sviluppo capitalistico nelle campagne che Smith proporrà nel libro III della Ricchezza
delle nazioni: le grandi proprietà terriere di origine feudale non erano condotte in modo efficiente in quanto non vi
erano gli stimoli al miglioramento produttivo (il grande proprietario bada più agli ornamenti che soddisfano la sua
fantasia che ad un profitto di cui non ha bisogno; non ci si può inoltre aspettare un interesse al miglioramento
produttivo della terra da parte dei lavoratori ridotti a servi della gleba).
Diversa è la situazione nelle città che nel periodo medievale hanno visto consolidarsi le libertà comunali: quando
gli uomini sono sicuri di godere i frutti delle loro attività, cercano naturalmente di migliorare la loro condizione
(crescono dunque le attività commerciali e manifatturiere cittadine).
Iniziano così a diffondersi i beni di lusso che spingono i grandi proprietari terrieri a procurarseli e quindi ad
introdurre cambiamenti rilevanti nell’organizzazione produttiva delle campagne.
Secondo la teoria dei quattro stadi di Smith vi sono quattro stadi dello sviluppo storico che si succedono nel tempo
e che sono caratterizzate da un tipo di organizzazione economica prevalente:
- caccia
- pastorizia
- agricoltura
- commercio
Ne consegue che le istituzioni che governano la società cambiano storicamente; l’azione economica è socialmente
determinata e storicamente variabile.
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Smith è quindi molto lontano sia dal razionalismo astratto dei fisiocratici che dall’utilitarismo individualistico che
attribuisce al singolo una naturale propensione a massimizzare il proprio interesse.
C’è chi vede una contraddizione tra la teoria dell’azione presente nella prima opera di Smith e quella di tipo
utilitaristico che sarebbe invece al centro della Ricchezza. Ciò è dovuto al fatto che nel primo lavoro egli mette a
punto una teoria del comportamento individuale come socialmente condizionato e nella seconda invece esplora le
conseguenze economiche che discendono dal diffondersi dei nuovi comportamenti.
Produzione dei beni e distribuzione dei redditi in una “società commerciale”
In una società commerciale l’attività economica non è più regolata in maniera prevalente dalla reciprocità e dalla
redistribuzione ma dallo scambio di mercato.
Ma in che modo la cura del proprio interesse in un contesto di libero mercato porta a risultati ordinati e prevedibili
dal punto di vista economico?
Come risposta possiamo esaminare due aspetti:
- la determinazione della quantità di beni prodotti: se si suppone che vi sono molti venditori, che le informazioni
circolino liberamente, che le risorse di capitale e di lavoro possano essere spostate da un impiego all’altro,
allora la quantità di beni prodotti tenderà a corrispondere alla domanda effettiva esistente per tali beni. Smith
distingue tra prezzo di mercato (riflette le oscillazioni di breve periodo della domanda e dell’offerta) e prezzo
naturale (si afferma nel lungo periodo e riflette il costo di produzione).
- la determinazione dei redditi distribuiti ai partecipanti all’attività economica: si suppone l’esistenza di un
prezzo definito dal mercato per salari, profitti e rendite:
- salario: vi sono dei meccanismi che spingono il prezzo di mercato verso un prezzo naturale che tende a
coincidere con il salario di sussistenza (teoria dei salari di sussistenza di Malthus). Gli operai spingono per
ottenere salari sempre più alti mentre i datori di lavoro per diminuirli. Prevalgono questi ultimi perché sono
riescono più facilmente a coalizzarsi essendo in numero minore e resistendo più a lungo. Se i salari
scendono al di sotto del livello di sussistenza interviene un meccanismo demografico che porta attraverso il
calo delle nascite allo ristabilimento dell’equilibrio. Smith fa un uso molto cauto di questa teoria dicendo
che vale soprattutto per gli strati sociali inferiori. Egli ritiene in generale che i salari sono destinati a
crescere per effetto dello sviluppo economico, che fa aumentare la domanda di lavoro;
- profitto: anche i profitti sono determinati dal rapporto tra domanda e offerta del mercato (il mercato degli
impieghi di capitale);
- rendita:
Perché possa avvenire tutto questo occorre che il quadro istituzionale della società si modifichi diventando una
società capitalistica in cui:
- vi è una classe di lavoratori salariati le cui condizioni di vita dipendono dalla vendita del loro lavoro sul
mercato;
- si affermi una classe di capitalisti che abbiano le risorse per avviare il processo produttivo e le cui condizioni di
vita dipendono dal profitto conseguito con l’investimento del capitale;
- che i proprietari terrieri traggano a loro volta il sostentamento dalla possibilità di affittare la terra ai capitalisti
agrari che la coltivano pagando loro una rendita.
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In un contesto capitalistico, il prezzo naturale delle merci viene determinato da un calcolo dei costi di produzione
che oltre al salario del lavoro deve includere anche il profitto e la rendita.
Lo sviluppo economico e le istituzioni
Perché le istituzioni del capitalismo possono assicurare efficienza economica e consenso?
La concorrenza determina un’allocazione efficiente delle risorse all’interno di una determinata attività, perché
spinge i prezzi ad avvicinarsi ai costi di produzione e perché spinge capitale e lavoro a spostarsi verso gli impieghi
più vantaggiosi, riducendo così le differenze di rendimento.
Gli economisti sono stati comprensibilmente affascinati dalle capacità ordinatrici di questa “macchina” per cui ogni
singolo soggetto “mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile a perseguire un fine che
non rientra nelle sue intenzioni ………… perseguendo il suo interesse egli spesso persegue l’interesse della società
in modo molto più efficace di quanto intende effettivamente perseguirlo”.
Smith oltre all’efficienza statica del mercato e cioè alla ripartizione efficiente di risorse date in cui le istituzioni
sono un dato, era interessato anche all’efficienza dinamica e cioè alla creazione di nuove risorse in cui le istituzioni
diventano una variabile.
Il mercato può avere una funzione dinamica, può sostenere lo sviluppo economico, se è regolato da istituzioni
appropriate.
Per Smith è particolarmente importante la divisione del lavoro perché aumenta la produttività cioè la quantità di
lavoro che lo stesso numero di persone può svolgere (perché accresce l’abilità di ogni singolo operaio; perché si
risparmia tempo a non passare da un lavoro all’altro; perché si facilita l’invenzione di macchine che riducono il
tempo di lavoro).
La divisione del lavoro varia con l’entità degli investimenti (+ investimenti + concorrenza + specializzazione
produttiva).
Per comprendere il ruolo delle istituzioni nello sviluppo economico possiamo ricordare due temi toccati nella
Ricchezza:
1) i vantaggi del capitalismo concorrenziale su quello monopolistico nelle manifatture e nel commercio: Smith
critica le politiche protezionistiche e di incentivazione del mercantilismo e pensa che, una volta eliminate le
barriere istituzionali dovute a politiche economiche errate, la società civile sia spontaneamente in grado di
produrre un’imprenditorialità diffusa, tale da alimentare mercati concorrenziali. Supponiamo che sia diffusa
una situazione di capitalismo concorrenziale: perché per Smith questa è superiore ad una situazione di
monopolio? Perché:
a) nel monopolio non vi è una efficiente allocazione delle risorse per cui il consumatore ha a disposizione
quantitativi inferiori di merce ad un prezzo più alto;
b) con la concorrenza si abbassano i tassi di profitto con conseguente stimolazione dell’imprenditorialità del
singolo capitalista per far crescere la produttività introducendo innovazioni tecnologiche (quindi impegno
diretto del capitalista e contrarietà al modello impersonale delle società per azioni);
c) Smith considerava negativamente l’organizzazione sindacale (per i rischi di distorsione del mercato del
lavoro) e riteneva opportuna, per migliorare la produttività, una politica unilaterale di alti salari da parte
degli imprenditori. Salari più alti rendono gli operai più attivi e svelti e, come dimostra l’esperienza
nordamericana, incoraggiano gli operai ad impegnarsi per diventare proprietari egli stessi;
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2) il ruolo dello Stato nello sviluppo economico: abbiamo già visto che per Smith per il formarsi ed il riprodursi
del capitalismo concorrenziale sia necessario che lo stato:
a) assicuri la libertà commerciale;
b) garantisca la proprietà privata;
c) limiti il suo intervento nell’economia rinunciando alle pratiche mercantilistiche;
d) assicuri la difesa nazionale;
e) garantisca l’amministrazione della giustizia;
f) provveda ad opere pubbliche necessarie per l’attività economica e l’istruzione.
È importante sottolineare che Smith si preoccupava, non solo di quello che lo stato non avrebbe dovuto fare per
sostenere l’economia, ma anche di ciò che avrebbe dovuto fare, e del modo migliore di farlo. Per Smith
l’efficienza delle istituzioni pubbliche è dipendente dalla capacità di organizzare l’attività di chi vi lavora sulla
base di meccanismi di responsabilizzazione che leghino il più strettamente possibile remunerazione e impegno
professionale (remunerare adeguatamente giudici e insegnanti universitari per contrastare i rischi di scarso
rendimento e di corruzione). Il modo in cui Smith si occupa delle istituzioni pubbliche conferma ulteriormente
che egli non può essere genericamente considerato come un alfiere del laissez faire.
A questo punto possiamo tornare alla domanda posta all’inizio di questo paragrafo. Perché queste istituzioni sono
in grado di conciliare efficienza economica e consenso?
Per due motivi:
1) perché producono più sviluppo e con lo sviluppo aumenta il benessere di tutte le classi sociali (diffusione di
prodotti a basso prezzo e quindi fruibili anche dalle classi più povere);
2) perché il mercato concorrenziale riduce le disuguaglianze (porta a bassi profitti e alti salari) e fa dipendere
maggiormente dall’impegno individuale nel lavoro. Il desiderio di migliorare la propria condizione produce
beneficio collettivo e concilia sviluppo economico e consenso.
Smith credeva nella capacità diffusiva dello sviluppo ritenendo che i benefici del mercato concorrenziale si
sarebbero imposti ad aree territoriali sempre più vaste. Così, ciascun paese avrebbe potuto importare ciò che era
prodotto dagli altri a costi minori, specializzandosi a sua volta in quelle produzioni in cui poteva essere più
competitivo. Sviluppo e mercato concorrenziale avrebbero ridotto non solo le disuguaglianze sociali, ma anche
quelle territoriali.
Ne risulta una sorta di paradosso:
- da un lato, Smith contribuisce a mettere in luce l’importanza delle istituzioni, e della loro autonomia e
variabilità, per lo sviluppo economico;
- dall’altro, tende poi a sottovalutare, in prospettiva, la loro capacità di resistenza a lasciarsi plasmare dalla logica
del capitalismo concorrenziale.
Finisce così per immaginare un progresso lineare, continuo, omogeneizzante (così come vedremo in Marshall).
Questa immagine della società capitalistica in cui l’economia favorisce un’elevata capacità di integrazione sociale
sarebbe stata sottoposta a dure sfide a anche a smentite severe da parte della storia.
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CAPITOLO 2
LA SVOLTA ECONOMICISTA E I SUOI CRITICI: STORICISMO E MARXISMO
LA “SCIENZA TRISTE”
Con Malthus e Ricardo l’attenzione verte sui limiti naturali allo sviluppo economico. Si tratta di vincoli che
riguardano la tendenza alla crescita della popolazione, a fronte di una disponibilità ridotta e decrescente delle
risorse che la terra può dare. In questo quadro le possibilità di aumentare la ricchezza prodotta sono molto più
contenute di quanto non apparisse a Smith.
Questo orientamento dell’analisi economica (che portò più tardi Carlyle a parlare di scienza triste) matura in un
contesto, quello inglese, in cui si sviluppava la rivoluzione industriale ed il ruolo del mercato come strumento di
regolazione dell’attività economica si è ormai esteso e consolidato ma con conseguenze sociali pesanti (abbandono
delle campagne, urbanizzazione, condizioni di vita e di lavoro precarie e dure per una massa crescente di uomini,
donne e bambini).
È in questo quadro che Thomas Malthus (1766-1834), un ecclesiastico, concepisce il suo Saggio sul principio di
popolazione (1798): l’assunto fondamentale di questo lavoro è la costante tendenza che hanno tutti gli esseri
viventi a moltiplicarsi più di quanto lo permettano i mezzi di sussistenza di cui possono disporre. Di qui la minaccia
permanente di una sovrappopolazione. Un argine essenziale contro questa minaccia è costituito dalla legge ferrea
del salario:
- un aumento del salario porta i lavoratori, per una forza incontrollabile della natura, a moltiplicarsi;
- ne consegue una maggiore offerta di braccia e quindi più concorrenza sul mercato del lavoro;
- i salari sono così spinti nuovamente al livello di sussistenza;
- la popolazione eccedente si ridurrà naturalmente per la mancanza dei mezzi di sostentamento.
Le istituzioni non possono alterare le leggi dell’economia che hanno una forza naturale, devono solo adeguarvisi.
La società con le sue istituzioni non deve intralciare il funzionamento autonomo dell’economia. Per Malthus, lo
scopo del suo lavoro non è tanto di proporre disegni di miglioramento, quanto il mostrare la necessità di rassegnarsi
a quel modo di miglioramento che la natura ci prescrive.
David Ricardo (1772 – 1823), ex agente di cambio ritiratosi precocemente per dedicarsi agli studi, condivide la
vena pessimistica di Malthus ma è ancorato a più rigorose argomentazioni sul piano economico. Con Ricardo, il
pensiero economico assume in pieno quelle caratteristiche di rigore analitico-deduttivo e di astrazione che ne
avrebbero più connotato a fondo gli sviluppi successivi. Per Ricardo il problema fondamentale dell’economia
politica è la determinazione delle leggi che regolano la distribuzione del reddito tra i proprietari terrieri, i capitalisti
ed i lavoratori.
Per Smith la rendita, non incide sui profitti del capitalista e quindi sul tasso di accumulazione, ma è un residuo
(equivale a quello che resta del valore del prodotto una volta detratti profitti e salari necessari per la produzione).
Per Ricardo la rendita condiziona il livello dei profitti e dei salari e quindi il tasso di accumulazione e la crescita
della ricchezza. Occorreva eliminare ogni forma di protezionismo agricolo basata su dazi alle importazioni (con
questa sua posizione rigidamente liberista entrava in polemica con Malthus che nel conflitto di interesse tra
proprietari e capitalisti aveva invece preso una posizione favorevole ai primi).
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Malthus era giunto alla conclusione che fosse presente nell’economia capitalistica una tendenza alla
sovrapproduzione: le merci prodotti rischiavano di non essere tutte vendute per mancanza di una corrispondente
domanda effettiva da parte dei consumatori.
Questa ipotesi andava contro a quanto era stato sostenuto da Smith e che era poi stata codificata dall’economista
francese J.B. Say (1767 – 1832). Secondo la legge di Say ogni offerta di beni genera sempre una domanda
adeguata a soddisfarla (Ricardo restava fedele alla legge di Say che prevalse a lungo sul piano teorico e politico).
La discussione con Malthus contribuisce comunque a mettere in evidenza come il conflitto tra proprietari terrieri e
capitalisti influenzasse significativamente lo sviluppo economico. Ma vi è anche un secondo conflitto di interessi
che i due economisti, come del resto Smith, fanno emergere attraverso la loro analisi: quello tra imprenditori
capitalisti e lavoratori. In questo caso entrambi richiamano la legge ferrea che tende a mantenere i salari a livello
di sussistenza e non prendono in considerazione la possibilità che i lavoratori si organizzino per mutare le proprie
condizioni economiche.
Gli economisti classici sono di solito accomunati per avere una visione simile dell’indagine economica pur con
alcune differenze. Tutti questi autori assegnano all’analisi economica l’obiettivo di studiare lo sviluppo, i
meccanismi che regolano la crescita della ricchezza e le possibilità di aumentarla nel tempo. Nel perseguire queste
finalità essi considerano le modalità di distribuzione del reddito tra le classi sociali come un elemento cruciale da
cui dipende lo sviluppo economico.
Vi sono però delle differenze essenziali che forse devono essere messe più in luce.
Per i tre autori lo sviluppo economico è funzione dell’incremento del capitale investito. Ma da che cosa di pende
tale crescita?
Per Malthus e Ricardo essa dipende dall’aumento dei profitti (un saggio di profitto più elevato consente di avere
più risorse da investire e dà anche più incentivi a farlo). Ma mentre per Ricardo è necessario limitare con un rigido
liberismo la rendita agricola per Malthus è vero il contrario. Entrambi gli autori, sostengono che i salari sono
controllati dalla pressione demografica che li spinge verso il basso ed inoltre vedono nel lungo periodo dei limiti
naturali allo sviluppo economico, determinati dal combinarsi della pressione demografica e della limitatezza delle
terre disponibili (sottovalutano fortemente il ruolo del progresso tecnico).
Anche per Smith il capitale investito dipende dalla crescita complessiva dei profitti (non da un elevato saggio di
profitto bensì da un basso saggio di profitto) e da un alto saggio del salario. Bassi saggi di profitto e alti saggi
salariali stimolano la crescita della produttività favorendo la divisione del lavoro. Ciò crea un maggiore volume
complessivo di profitti e quindi maggiore ricchezza, a parità di lavoro, che può essere reinvestita in nuove attività.
Per Smith il progresso tecnico deve essere dunque incorporato nella spiegazione dello sviluppo economico: questo
lo porta ad essere più ottimista di Malthus e Ricardo.
Smith chiama in causa anche il ruolo di fattori non economici e cioè delle istituzioni che devono mantenere un
quadro concorrenziale e promuovere l’istruzione.
Altra differenza.
Per Smith gli attori economici sono dei soggetti che interpretano la situazione in cui operano e perseguono il loro
interesse secondo norme di condotta influenzate dal contesto sociale in cui agiscono (vi è quindi una variabilità di
comportamento che è funzione delle istituzioni). Per Smith quindi il problema dello sviluppo porta a
un’integrazione tra economia e sociologia economica.
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Non è così per Malthus e Ricardo che vedono l’attore economico come un soggetto che non interpreta con relativa
autonomia la situazione, ma come un mero calcolatore la cui azione è ricostruibile a partire dalla situazione in cui si
trova (essenzialmente la situazione di classe: es. la legge ferrea dei salari). A questo non è più necessario occuparsi
delle istituzioni per vederne gli effetti sui fenomeni economici. Economia e sociologia economica possono
separarsi. Questo comporta una maggiore precisione analitica e una più elevata possibilità di generalizzazione, ma a
costo di una perdita di aderenza alla realtà storico-empirica su cui si appunteranno le critiche che ora
considereremo.
Con l’estendersi dello sviluppo capitalistico, nel corso dell’800, il rapporto tra economia e società appare più
problematico. Le vecchie economie tradizionali e artigianali sono minacciate dalla concorrenza della produzione
industriale. Lo sviluppo economico e la diffusione del mercato determinano così nuove differenziazioni territoriali
che non accennano a colmarsi. La trasformazione delle campagne e la crescita della classe operaia si
accompagnano a condizioni di vita e di lavoro estremamente disagiate per masse crescenti di popolazioni (si profila
la nascente questione sociale.
In questo contesto, la sistemazione teorica dell’economia classica appare inadeguata e viene imputata ad essa
un’incapacità a spiegare i fenomeni concreti e a fornire una guida valida per l’intervento.
Possiamo individuare due tipi di critiche:
- lo storicismo tedesco: che si concentra sulle differenze territoriali dello sviluppo economico e sulle modalità
per colmarle;
- la critica di Marx: mette in discussione l’interpretazione dei rapporti tra le classi sociali nello sviluppo
capitalistico.
LO STORICISMO TEDESCO
Nei primi decenni dell’800 diversi autori, riconducibili alla scuola storica tedesca di economia politica, si sono
posti il problema delle differenze di sviluppo economico tra i vari stati nazionali. Essi hanno criticato l’astrattezza
degli schemi teorici dell’economia classica per l’incapacità di rendere conto di questa questione. La soluzione
doveva essere cercata in un’indagine che restasse più aderente alla realtà concreta e che quindi si servisse del
metodo storico piuttosto che di quello analitico-deduttivo. L’indagine storica doveva chiarire come aspetti culturali,
sociali, politici si combinassero con variabili economiche dando luogo a specifiche forme di organizzazione
dell’economia. Gli storicisti arrivarono a mettere in discussione l’orientamento rigidamente liberista dell’economia
classica legittimando forme di politica economica più interventiste, specie in termini di protezionismo doganale.
Gli storicisti tedeschi hanno in genere proposto classificazioni di diversi stadi di sviluppo dell’economia, risultanti
dalla combinazione di fattori economici e istituzionali:
- Friederich List (1789 – 1846), un precursore della scuola storica, assume come unità di analisi l’economia
nazionale. La prosperità di una nazione è grande non in rapporto all’accumulazione della ricchezza, ma in
rapporto allo sviluppo delle forze produttive. Critica l’economia classica per non tener adeguatamente conto del
ruolo delle istituzioni che condizionano l’evoluzione nel tempo delle diverse economie. Elabora una
classificazione basata su 5 stadi di sviluppo (primitivo, pastorale, agricolo, agricolo-manifatturiero e
commerciale). List sostiene che la marcata differenza tra i vari paesi in termini di industrializzazione richiedeva
politiche di protezione dell’industria nazionale. Un orientamento rigidamente liberista poteva essere
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conveniente per l’Inghilterra, le cui industrie erano più sviluppate; ma gli altri paesi, per vincere la concorrenza
inglese, dovevano sostenere le loro industrie fino a quando non fossero diventate competitive e solo a quel
punto un quadro di libero commercio avrebbe effettivamente contribuito allo sviluppo di tutto. Per le sue idee
List fu imprigionato ed esiliato ma la sua ricetta, pochi anni dopo, fu seguita dalla maggior parte dei paesi
avviatisi verso l’industrializzazione;
- Altri autori (Roscher, Knies, Hildebrand, Scholler, Bucher) hanno ripreso e sviluppato l’impostazione di List in
vari modi.
Bisogna dire che nel complesso la critica dello storicismo porta a un difetto opposto rispetto a quello imputato
all’economia classica: il rifiuto del metodo deduttivo a favore di quello storico conduce all’accumulo di materiale
empirico, a volte anche di interesse, ma la cui interpretazione appare problematica.
Sull’indeterminatezza teorica che caratterizza lo storicismo insisterà, con la sua nota critica, Weber (1903 – 1906).
LA CRITICA DI MARX
Marx critica gli economisti classici per l’incapacità di rendere adeguatamente conto del conflitto tra capitalisti e
lavoratori che caratterizza l’economia capitalistica ed avrebbe portato ad una società socialista. Egli sottolinea
l’esistenza di vincoli sociali legati alle istituzioni fondamentali dell’economia capitalistica, cioè la proprietà privata
dei mezzi di produzione e il lavoro salariato come strumenti che regolano la produzione dei beni e la distribuzione
dei redditi.
Alla visione armonica di Smith per cui l’economia capitalistica in regime liberista avrebbe favorito insieme la
crescita della ricchezza e la cooperazione tra le classi sociali, Marx (influenzato dall’idealismo di Hegel)
contrappone una visione dialettica per la quale il capitalismo genera una polarizzazione crescente delle classi
sociali che porta a un intensificazione del conflitto, che a sua volta determina il superamento delle vecchie forme di
organizzazione economica.
Lo storicismo insiste sulle differenze nazionali che si accompagnano allo sviluppo economico, Marx su quelle di
classe. Mentre lo storicismo resta legato alla visione idealista dello sviluppo storico, in cui l’evoluzione culturale
condiziona l’organizzazione economica, Marx ribalta il rapporto tra aspetti culturali ed economico-sociali, sono
questi ultimi il vero motore dello sviluppo storico. Mentre gli storicisti si propongono di mostrare una generica
interconnessione tra i diversi aspetti della realtà sociale, Marx vuole invece formulare una teoria generale dello
sviluppo storico, all’interno della quale la sua attenzione di concentra sulla società capitalistica e sulle sue
trasformazioni, sulle sue leggi di movimento (nella prefazione al Capitale scrive: fine ultimo di quest’opera e
svelare la legge economica del movimento della società moderna).
Gli ingredienti intellettuali
Karl Marx (1818 – 1883) si forma all’Università di Berlino in un ambiente influenzato dalla filosofia hegeliana, la
sua formazione iniziale è filosofica e giuridica e solo più tardi si è accostato allo studio dell’economia politica.
Tra il 1843 e il 1845 durante la sua permanenza a Parigi si accosta al pensiero riformista e socialista francese e alla
tematica del conflitto di classe (Saint-Simon, Fourier, ecc.). Qui conosce Friedrich Engels (1820-1895) con il
quale avvia una collaborazione e un’amicizia che sarebbe durata tutta la vita (con Engels scrisse nel 1846
L’ideologia tedesca rimasta inedita fino al 1937).
Lo studio dell’economia politica classica inglese lo svolgerà sistematicamente a Londra, a partire dal 1850, e darà
vita a due scritti:
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- Per la critica dell’economia politica (1859);
- Il Capitale (il primo volume pubblicato nel 1867; gli altri due furono pubblicati postumi a cura di Engels nel
1885 e nel 1894).
Nel pensiero di Marx troviamo una miscela complessa tra idealismo tedesco, socialismo francese ed economia
classica inglese in cui non è possibile separare l’economia dalla sociologia ed entrambe da una teoria generale dello
sviluppo storico. Marx vuole gettare le basi per una scienza complessiva della società in cui aspetti economici e
aspetti istituzionali sono strettamente collegati e non sono separabili (Marx e Engels si impegnano anche sul campo
politico come organizzatori del movimento dei lavoratori).
Egli resta fedele alla visione dialettica dell’idealismo hegeliano in cui la storia appare un continuo divenire
attraverso stadi diversi. Il motore del cambiamento deve essere cercato nei fattori economico-sociali, cioè nel modo
in cui gli uomini organizzano la produzione e permettono quindi alla società di mantenersi nel tempo. Le
condizioni economico-sociali prevalenti (i modi di produzione) generano nel tempo le forze sociali (le classi) che li
metteranno in discussione portando a forme di organizzazione economica e sociale diverse. L’obiettivo del
socialismo poteva essere concepito come un passaggio storico iscritto nelle leggi di movimento della società
capitalistica. Per questo Marx si considerava come fondatore di un socialismo scientifico, contrapposto alle utopie
dei precedenti pensatori socialisti. La teoria della storia basata sul materialismo dialettico apriva la strada al
socialismo scientifico. Ma la visione totalizzante in cui “un unico schema spiega tutto” impegnerà lungamente il
dibattito teorico e politico con interpretazioni fortemente divergenti.
La teoria dello sviluppo storico
Per Marx non è possibile separare analisi economica e contesto istituzionale. Egli critica i classici perché non
ritenevano che lo sviluppo dovesse portare inevitabilmente al conflitto di classe e che tale conflitto dovesse a sua
volta generare un superamento dell’economia capitalistica. Per Smith, lo sviluppo capitalistico avrebbe favorito la
cooperazione e l’integrazione sociale. Per Malthus e Ricardo, vincoli naturali legati alla dinamica demografica e
alla scarsa disponibilità di terra avrebbero in sostanza contribuito a mantenere la classe operaia a livello di
sussistenza, impedendole di organizzarsi efficacemente per cambiare le proprie condizioni.
Marx, insistendo sul ruolo delle istituzioni, si pone due obiettivi:
1) storicizzare l’analisi economica, individuando sia forme di organizzazione corrispondenti a società diverse (a
stadi differenti dello sviluppo storico), sia meccanismi di passaggio da uno stadio all’altro;
2) mettere in evidenza il ruolo del conflitto di classe nell’economia capitalistica e il mutamento che esso imprime
all’intera società.
Non è per Marx possibile studiare l’economia prescindendo dalle istituzioni che la regolano, perché la produzione è
sempre un processo sociale e non solo economico.
Da questa premessa discendono una serie di conseguenze tra loro collegate:
1) i rapporti sociali entro i quali gli individui producono (rapporti sociali di produzione) costituiscono per Marx
l’elemento essenziale dal quale bisogna partire nell’indagine su ogni forma di società. essi fondano la divisione
in classi nel senso che i membri di una determinata società si dividono a seconda del modo in cui partecipano
alla produzione. Marx insiste in tutta la sua opera sul fatto che la società capitalistica non può essere concepita
secondo il modello individualistico-utilitaristico dell’economia classica (individui isolati con pari opportunità
che si scambiano beni e servizi cercando di massimizzare il loro interesse). Gli attori che scambiano sul
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mercato non hanno pari opportunità e non sono su un piano di uguaglianza. Coloro che dispongono solo della
propria capacità di lavoro sono costretti ad accettare le condizioni di scambio imposte da chi controlla i mezzi
di produzione, cioè dai capitalisti. Ma vediamo meglio in che modo;
2) i rapporti di produzione (che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive, cioè
l’insieme dei mezzi materiali di produzione) costituiscono la struttura della società. Questa struttura economica
condiziona a sua volta l’organizzazione sociale e politica, l’ordinamento giuridico e le forme di sviluppo
culturale, religioso e artistico; che insieme rappresentano la sovrastruttura della società. Per Marx ci può essere
un certo ordine sociale in cui la classe dominante svolge un ruolo economico di sostegno allo sviluppo delle
forze produttive e non si fonda sulla coercizione (es. i valori della classe che controlla i mezzi di produzione
riescono a imporsi e sono condivisi anche dalla classe dominata; il potere culturale, sociale e politico, derivante
dal controllo dei mezzi di produzione, non incontra ostacoli e viene accettato dalle classi subalterne);
3) l’ordine sociale e la società, caratterizzata da un determinato modo di produzione, sono però destinati a
cambiare. Ciò avviene quando si forma una nuova classe sociale emergente che lotta contro la vecchia classe e
contro i vecchi rapporti di produzione che costituiscono ora un vincolo per le forze produttive. Nel corso del
conflitto viene meno la congruenza tra struttura e sovrastruttura. Si diffondono nuove idee che criticano il
vecchio ordine e la classe in esso dominante. Le stesse istituzioni politiche non riescono più a difendere
adeguatamente la classe dominante e i preesistenti rapporti di produzione. Alla fine del processo un nuovo
modo di produzione si afferma;
4) Marx non rinnega mai il ruolo attivo nel processo storico della coscienza di classe e dell’azione politica, ma
resta profondamente convinto che questi fattori possono esplicarsi pienamente solo quando si hanno le
condizioni economiche favorevoli;
5) sulla base dello schema teorico precedente, vengono individuate quattro tipi di società:
a) antica: si basa sul modo di produzione basato sulla schiavitù;
b) feudale: ………. servitù della gleba;
c) borghese: ……… lavoro salariato;
d) asiatica: ………. in cui vi è subordinazione dei lavoratori agricoli allo stato;
La crescita delle forze produttive, stimolata dalla borghesia, porterà alla formazione di una nuova classe, quella
operaia, che cambierà il modo di produzione capitalistico e introdurrà il socialismo.
Questa teoria dello sviluppo storico ha esercitato un grande fascino per la sua apparente semplicità ma nel momento
in cui si tenta di applicare lo schema a spiegazioni storiche emergono notevoli difficoltà.
Vediamo ora quali conseguenze ha l’applicazione della teoria dello sviluppo storico applicata alla società
capitalistica e alla sua evoluzione, aspetto sul quale si concentra tutta l’opera matura di Marx.
Lo sviluppo capitalistico
Abbiamo visto come Marx rivendichi, nei riguardi dell’economia classica, la storicità delle forme di organizzazione
economica. Egli vuole anche dimostrare che lo sviluppo capitalistico crea, nel corso della sua evoluzione, le
condizioni economiche per il rafforzamento della classe operaia.
Per comprendere questo processo si può partire dall’interrogativo iniziale al quale cerca di rispondere Marx: quali
sono le origini del profitto?
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In un’economia capitalistica, basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, non ci può essere produzione
di beni se non c’è profitto per i detentori del capitale. Nello stesso tempo però il valore di scambio delle merci
riflette la quantità di lavoro in esse incorporata (egli riprende la teoria del valore-lavoro di Ricardo). La forza
lavoro può essere paragonata ad una qualsiasi merce che viene acquistata ad un certo valore che è il salario e che
viene fissato ad un livello necessario ad assicurare la sopravvivenza e la riproduzione dei lavoratori stessi e delle
loro famiglie. Ma la forza lavoro acquistata dal capitalista e utilizzata nel processo produttivo crea più valore di
quello necessario ad acquistarla (del salario); tale differenza viene definita pluslavoro e cioè plusvalore (esso dà la
misura del tasso di sfruttamento della forza lavoro). D’altra parte, il progresso tecnico, nella misura in cui accresce
la produttività del lavoro, si risolve in un aumento del plusvalore prodotto. A questo punto è chiara per Marx
l’origine del profitto nel plusvalore.
Marx distingue tra capitale variabile (le anticipazioni salariali) e capitale costante (impianti e materie prime
necessari per il processo produttivo) e sostiene che il capitale costante non crea valore aggiuntivo ma soltanto il
capitale variabile ha questa capacità. Per composizione organica si intende il rapporto tra il capitale costante ed il
capitale variabile; al crescere di tale rapporto diminuirà quindi il tasso di profitto. In una situazione di concorrenza i
singoli capitalisti-imprenditori hanno però l’interesse ad introdurre nuove macchine e quindi ad aumentare il
capitale fisso a spese del lavoro. Anche gli altri imprenditori gradualmente introdurranno le stesse innovazioni
provocando:
- aumento della disoccupazione (che Marx chiama l’esercito industriale di riserva) e peggioramento delle
condizioni di vita della classe operaia: quando aumenta la domanda di lavoro l’esercito si riduce e i salari
aumentano; ciò determina una diminuzione del saggio di profitto e quindi un successivo calo della domanda di
lavoro e un abbassamento del salario. Un eventuale crescita dei salari costituisce peraltro un ulteriore incentivo
alla sostituzione di lavoro con macchinario che nel tempo significa ingrossamento dell’esercito industriale. Per
Marx dunque la disoccupazione non è dovuta alla pressione demografica ma al funzionamento stesso
dell’accumulazione capitalistica. L’accresciuta disoccupazione provoca un progressivo immiserimento dei
lavoratori le cui condizioni di vita peggiorano. Anche le condizioni lavorative peggiorano (alienazione dei
lavoratori ridotti a insignificante appendice della macchina);
- caduta tendenziale del saggio di profitto che riduce lo stimolo alla produzione: la spinta alla meccanizzazione,
se inizialmente favorisce il singolo capitalista a spese degli altri, più tardi, quando le innovazioni si diffondono,
determina un abbassamento del saggio di profitto per il maggior peso del capitale costante rispetto a quello
variabile e quindi al minor plusvalore.
Occorre tuttavia chiarire che i fattori economici, le “contraddizioni” del modo di produzione, non portano
automaticamente alla sua crisi e al suo superamento. Essi costituiscono piuttosto le premesse che determinano la
progressiva trasformazione della classe operaia da aggregato di individui in concorrenza tra loro sul mercato del
lavoro a gruppo sociale coeso, ad attore storico. Solamente quando questo processo si compie, e la classe operaia si
organizza politicamente, si determina la trasformazione del vecchio modo di produzione.
Il circolo vizioso della sociologia economica di Marx
La sociologia economica di Marx sfocia in un circolo vizioso: la crisi economica dipende dal conflitto di classe, ma
questo rimanda alla crisi economica.
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Nella sua indagine sullo sviluppo capitalistico M. sostiene che non è possibile separare l’analisi dei fenomeni
economici dai rapporti tra le classi sociali e dalle istituzioni su cui si fondano. Tale prospettiva ha come punti di
forza la capacità di rendere conto degli aspetti dinamici dell’economia (spinta alla meccanizzazione e processo di
concentrazione) e degli effetti di destabilizzazione sociale e di conflittualità che si accompagnavano allo sviluppo
capitalistico (aspetti che non trovavano posto adeguato negli schemi degli economisti classici).
Due erano però i limiti:
1) la sottovalutazione delle capacità di riproduzione dell’economia capitalistica: l’ipotesi marxista della caduta del
saggio di profitto non tiene conto del progresso tecnico che può far aumentare la produttività del lavoro e
quindi i profitti. Tali profitti possono essere reinvestiti in nuovi macchinari che assorbiranno la manodopera
espulsa dalla prima meccanizzazione. Il progresso tecnico può anche comportare un abbassamento dei prezzi
dei nuovi macchinari prodotti, il che, nella stessa prospettiva di Marx, non farebbe aumentare la composizione
organica e non farebbe calare il profitto;
2) la sopravvalutazione del conflitto di classe e delle sue conseguenze rivoluzionarie per l’economia e la società:
gli economisti consideravano le classi come semplici aggregati funzionali che tendevano a massimizzare il
proprio profitto (capitalisti profitto, proprietari rendita e lavoratori salario) mentre per Marx le classi
potevano essere gruppi sociali consapevoli e quindi passare da aggregati funzionali ad attori storici (passaggio
dalla “classe in sé” alla “classe per sé”), questo grazie alla concentrazione nelle grandi fabbriche e nelle
grandi città industriali con conseguente facilità di comunicazione, omogeneizzazione delle condizioni di vita e
di lavoro, organizzazione sindacale e politica e lotta contro i capitalisti. Marx resta convinto che la dinamica
economica dello sviluppo capitalistico avrebbe creato una progressiva polarizzazione tra due classi sociali
fondamentali, capitalisti e lavoratori, una crescita della coscienza e dell’organizzazione della classe operaia e
una conflittualità dirompente. Ma la storia ha smentito Marx: la capacità di riprodursi dell’economia
capitalistica, la sua capacità di creare e distribuire ricchezza, di assicurare mobilità sociale, non hanno portato
alla polarizzazione prevista da Marx. Nello stesso tempo, le specificità culturali e politico-istituzionali dei vari
paesi hanno attenuato il conflitto accogliendo le domande economiche, sociali e politiche formulate dalle sue
organizzazioni di rappresentanza. Vediamo quindi anche la smentita di una sottovalutazione del ruolo dello
Stato il cui intervento viene paradossalmente stimolato proprio dalla crescita del movimento operaio che Marx
aveva ben previsto (esiti rivoluzionari si sono avuti in paesi come la Russia e la Cina dove le forze produttive
erano più arretrate).
La critica marziana conduce ad una teoria troppo rigida in cui si riduce drasticamente il ruolo delle istituzioni non
economiche.
Marx voleva trovare leggi generali della società (simili a quelle naturali) ed era inoltre convinto della necessità
della rivoluzione.
Il tentativo di sviluppare una teoria a elevata generalizzazione che servisse anche a fondare scientificamente
l’azione politica compromette la sociologia economica di Marx. Il suo contributo resta però fondamentale per lo
sviluppo di un’analisi istituzionale dell’economia. Egli ha il merito di aver riconosciuto i condizionamenti sociali
dell’azione economica (come vedremo con Smith ed altri classici) e quello di aver attirato l’attenzione su una
variabile cruciale che collega economia e società: le classi sociali.
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Ma la sociologia economica successiva svilupperò un orientamento più sensibile alla interdipendenza tra fenomeni
economici e sociali, e riconoscerà maggiore autonomia alle istituzioni culturali e politiche nell’influenzare il
conflitto di classe e l’organizzazione economica. Quindi un approccio meno volto alla formulazione di leggi
generali, più induttivo, più sensibile alla variabilità storica dei fenomeni.
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CAPITOLO 3
ECONOMIA NEOCLASSICA E SOCIOLOGIA ECONOMICA
Abbiamo visto come per i classici, in particolare per Smith, l’analisi dell’economia fosse ancora poco differenziata
da quella delle istituzioni che ne regolano il funzionamento. In questo capitolo seguiremo il percorso che, con la
“rivoluzione marginalista”, porta l’economia neoclassica ad assumere una prospettiva più generale e astorica. Lo
studio dei rapporti tra istituzioni e attività economica viene così assunto dalla sociologia economica come
disciplina autonoma.
1. LA RIVOLUZIONE MARGINALISTA
Smith considerava naturale studiare la formazione dei prezzi dei beni sulla base del rapporto tra domanda e offerta
di mercato occupandosi, nello stesso tempo, del ruolo dello stato e di quello dell’organizzazione d’impresa nello
sviluppo economico.
I suoi successori, come Ricardo, avviarono quella che abbiamo definito una svolta economicista (analisi economica
e analisi delle istituzioni si separano più nettamente).
Sia Marx che gli storicisti riportano l’attenzione sul ruolo delle istituzioni e sottolineano l’esigenza di storicizzare
l’indagine economica (ma vanno incontro a problemi e difficoltà non indifferenti dal punto di vista analitico).
Negli ultimi decenni dell’ottocento con la rivoluzione marginalista l’economia neoclassica si separa in modo più
netto e rigoroso dallo studio delle istituzioni assumendo una prospettiva più generale e astorica.
Lo studio dei rapporti tra istituzioni e attività economica si autonomizza e si specializza e diventa il fulcro di una
prospettiva analitica e disciplinare più precisa e definita: quella della sociologia economica.
Tre autori, lavorando in modo indipendente, raggiunsero conclusioni simili, anche se attraverso processi diversi:
- l’inglese Stanley Jevons (1835 – 1882);
- l’austriaco Carl Menger (1840 – 1921);
- il francese Leon Walras (1834 – 1910).
1.1 La nuova spiegazione del valore
Il punto di partenza della critica marginalista riguarda l’insoddisfazione per la teoria del valore.
I classici ancorano la spiegazione del valore alla sfera della produzione. Ricardo e Marx davano poi un peso
essenziale al lavoro come causa del valore.
I marginalisti sostengono che per affrontare correttamente il problema del valore occorre partire dalla domanda e
non dall’offerta dei beni. I prezzi riflettono il grado di soddisfazione soggettiva che i consumatori attribuiscono ai
diversi prodotti. La soddisfazione (utilità) tenderà a diminuire con il consumo di ogni unità aggiuntiva (marginale)
dello stesso bene. Ciò significa che l’utilità marginale per i consumatori è decrescente. Il prezzo è allora
determinato da ciò che i consumatori saranno disposti a pagare per l’ultima unità aggiuntiva di quel bene stesso. Se
il prezzo fosse superiore all’utilità marginale, una parte del bene in questione non sarebbe venduta e, in una
situazione di concorrenza perfetta, il prezzo offerto dai venditori scenderebbe fino a uguagliare l’utilità marginale.
In letteratura è noto il paradosso dell’acqua e dei diamanti: ci si chiede perché i diamanti costano molto più cari
dell’acqua pur essendo meno utili. Questo dipende dalla loro disponibilità totale che è ridotta rispetto all’acqua (se
siamo in mezzo al deserto un bicchiere d’acqua costerebbe più caro che un diamante).
I marginalisti hanno esteso il calcolo marginale all’intero meccanismo economico (alla produzione dei beni ed alla
distribuzione dei redditi).
23
Tali ipotesi sul comportamento economico dei soggetti valgono soltanto in condizioni di mercato concorrenziale
perfetto cioè:
- quando i soggetti conoscono tutte le informazioni necessari ad assumere le decisioni più conformi ai loro
obiettivi (perfetta conoscenza dei mercati);
- quando vi è piena mobilità dei fattori produttivi (capitale e lavoro) nella ricerca delle opportunità più
remunerative;
- quando vi sono un grande numero di venditori e di acquirenti per lo stesso tipo di bene (i prodotti devono avere
le stesse caratteristiche qualitativa). In questo modo nessun soggetto è in grado di influire individualmente sui
prezzi (escluse quindi situazioni di monopolio o oligopolio).
1.2 Consumo, produzione e distribuzione
Il principio di utilità marginale suggerisce che il consumatore massimizzerà la sua soddisfazione soggettiva (cioè
la sua utilità complessiva) distribuendo il reddito tra i vari beni in modo coerente rispetto alle sue preferenze di
consumo. Le scelte dei consumatori costituiscono per i marginalisti il dato di partenza di tutto il meccanismo
economico. Ciascun produttore cercherà di massimizzare il profitto (rendere massima la differenza tra valore della
produzione venduta e costi totali). Egli cercherà di combinare i fattori produttivi (capitale, lavoro) nel modo più
efficiente che consiste nello stabilire il proprio livello di produzione in modo che il costo marginale (cioè il costo
dell’ultima unità prodotta) sia uguale al prezzo di mercato. In questo modo il complesso delle imprese finisce per
offrire una quantità pari a quella domandata dai consumatori ai prezzi più bassi possibili che sono costituiti dal
costo marginale. Ma come si raggiunge questo risultato?
Il mercato concorrenziale determina il prezzo di equilibrio, cioè il prezzo al quale l’utilità marginale dei
consumatori (quello che essi sono disposti a pagare per l’ultima unità di bene) uguaglia il costo marginale dei
produttori (il costo dell’ultima unità che questi hanno interesse a offrire). Spieghiamo meglio: se il prezzo di un
bene è inferiore ai costi complessivi di produzione, l’offerta di quel bene da parte delle singole imprese diminuirà, e
nel lungo periodo cesserà, fino a quando il prezzo a sua volta non salirà. Le imprese usciranno progressivamente
dalla produzione, a partire da quelle meno efficienti nel combinare i fattori produttivi. Al contrario, se il prezzo di
mercato è superiore ai costi medi, ciò spingerà col tempo nuove imprese a entrare nella produzione dello steso
bene, aumenterà la quantità prodotta e quindi il prezzo scenderà fino al livello pari ai costi di produzione. In questa
situazione, per effetto della concorrenza, le imprese cercheranno di massimizzare il profitto portando la produzione
al livello in cui il costo marginale (dell’ultima unità prodotta) è uguale al prezzo di mercato.
Un ulteriore passo nell’applicazione dell’analisi marginale fu la sua estensione allo studio della distribuzione. Per i
classici la distribuzione del reddito si basava sui prezzi naturali, cioè sui prezzi di produzione (es. i salari sono
agganciati al costo della sussistenza per i lavoratori). Per i marginalisti anche i redditi derivano invece,
indirettamente, dalla domanda dei consumatori. Questa spinge a produrre certi beni che richiedono il contributo
specifico di vari fattori produttivi (capitale, lavoro, terra, imprenditorialità). Il reddito che riceveranno tali fattori
sarà commisurato al contributo che essi danno alla produzione.
1.3 L’equilibrio economico generale
Walras si è dedicato alla dimostrazione dell’equilibrio economico generale cioè del fatto che i diversi mercati
(dei prodotti e dei fattori produttivi) sono interdipendenti tra loro e che condizioni di concorrenza perfetta
determinano il raggiungimento simultaneo di una situazione di equilibrio in tutti i mercati. La dimostrazione,
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effettuata con strumenti matematici, che esistono dei prezzi compatibili con l’equilibrio generale è importante
perché mostra l’efficienza allocativa del mercato in modo più rigoroso di quanto non avessero fatto i classici.
Lo storico Braudel (1977) aveva però sottolineato il fatto che tale risultato si ha soltanto in condizioni ideali molto
restrittive (vedi fine par. 1.1) ed inoltre che l’efficienza allocativa del mercato non significa che esso sia equo (le
persone non sono dotate dello stesso potere di acquisto, alcune sono molto povere e non per colpa loro, altre sono
molto ricche grazie alla fortuna o all’eredità anziché per merito della loro abilità o intelligenza).
1.4 Lo spazio analitico dell’economia neoclassica
La domanda fondamentale a cui cercano di rispondere i marginalisti è: “data una popolazione con i propri bisogni e
le proprie capacità di produzione, in possesso di determinate terre e di altre fonti di produzione, trovare il modo di
impiegare il lavoro al fine di massimizzare l’utilità del prodotto”.
Ci si allontana dall’originaria prospettiva dell’economia classica perché:
1) l’analisi statica si afferma a scapito di quella dinamica: la preoccupazione primaria non è più lo sviluppo
economico ma l’allocazione efficiente di risorse. Smith, Malthus e Ricardo volevano tutti indagare la crescita
economica all’interno di un contesto caratterizzato dalle istituzioni economiche capitalistiche (proprietà
privata dei mezzi di produzione e lavoro salariato). Gli storicisti e Marx criticarono con esiti diversi questa
prospettiva, ma solo perché ritenevano che gli economisti non storicizzassero abbastanza nello spazio e nel
tempo la loro analisi. I neoclassici quindi abbandonano la prospettiva dinamica e non si propongono più di
descrivere-interpretare una forma di organizzazione storica determinata, ma vogliono ora esplorare, in generale,
quale sarebbe il modo più efficiente di allocare le risorse, date certe condizioni;
2) l’economia diventa una teoria della scelta con un orientamento analitico-deduttivo. Si postulano determinati
obiettivi da parte degli attori (massimizzazione di utilità) e condizioni che ne vincolano l’azione (mercato di
concorrenza perfetta) e se ne deducono determinati risultati (equilibrio economico;
3) l’economia si svincola dal riferimento a variabili istituzionali: l’unità di analisi è costituita da individui isolati
che sviluppano i propri fini indipendentemente gli uni dagli altri e cercano di massimizzare le risorse di cui
dispongono in condizioni di concorrenza perfetta. Questo implica che i fattori istituzionali (valori condivisi in
una certa società) che possono influenzare l’individuo non vengono presi in considerazione dalla prospettiva
economica che lo considera influenzato esclusivamente dal calcolo razionale.
I neoclassici non prendono in considerazione dunque i fattori di natura istituzionale che influenzano il
comportamento. Menger spiega che introducendo variabili istituzionali non è possibile mantenere quel livello di
regolarità e prevedibilità a priori nel comportamento degli attori che è compatibile con la determinazione dei prezzi
di equilibrio e con la dimostrazione dell’equilibrio economico generale. La rottura con i classici porta l’economia a
ritirarsi dal terreno istituzionale per adeguarsi ai canoni di generalizzazione teorica e precisione analitica delle
scienze più consolidate, quelle della natura.
Ma sappiamo che sul piano storico è difficile incontrare situazioni che soddisfino pienamente queste condizioni; si
determina dunque uno scarto tra validità analitica e applicabilità empirica del modello, sul quale si appunteranno
tradizionalmente le critiche all’economia neoclassica.
Vediamo ora in che modo ad esse viene data risposta.
2. DUE DIFESE DELL’ECONOMIA NEOCLASSICA
Possiamo individuare due risposte tipiche, dal versante dell’economia, alla critica di scarso realismo:
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- la via analitica, percorsa maggiormente da economisti dell’Europa continentale (Menger e Pareto), che difende
le tre caratteristiche già ricordate nel quadro analitico neoclassico (staticità, normatività, esclusione delle
istituzioni);
- la via empirica, predominante nel mondo anglosassone (Marshall) si pone in maggiore continuità con la
tradizione classica mantenendo all’interno del quadro analitico il riferimento a fattori istituzionali.
2.1 La via analitica: Menger e Pareto
L’austriaco Menger (1882) ribatterà alle critiche che le proposizioni della teoria economica sono astrazioni
analitiche, e come tali non possono essere verificate direttamente sul piano empirico.
Menger distingue l’ambito dell’economia politica tra:
- approccio storico: volto alla spiegazione dei fenomeni individuali;
- approccio dell’economia teorica: che ha l’obiettivo di individuare e spiegare le regolarità del comportamento
economico che può avere due orientamenti:
- orientamento alla ricerca esatta (o economia pura): per Menger utilizzare il metodo empirico per
determinare la validità delle proposizioni dell’economia esatta è un’incongruenza metodologica in quanto
le leggi economiche sono valide per un mondo economico concepito in astratto che esclude gli elementi
non economici;
- orientamento empirico-realistico: esso deve tener conto di come i vari motivi si combinino tra loro dando
luogo a forme specifiche di comportamento economico che variano nello spazio e nel tempo.
Per Menger entrambi gli orientamenti sono importanti e contribuiscono alla spiegazione e al controllo dei fenomeni
economici (così come è importante affiancare la chimica e la fisica alla fisiologia).
Considerazioni simili sono sviluppare dall’italiano Vilfredo Pareto (1848 – 1923) che era stato attratto
dall’applicazione dell’analisi matematica allo studio dell’equilibrio economico. egli è stato ancor più noto per il
successivo lavoro sociologico, sfociato nel Trattato di sociologia generale (1916).
In effetti, Pareto, avendo lavorato nel campo dell’economia, si era convinto che questa disciplina poteva offrire un
contributo molto limitato alla comprensione del comportamento umano concreto (es. nonostante dimostrasse i
vantaggi delle politiche non protezionistiche, queste venivano molto spesso perseguite). Per trovare risposte
soddisfacenti a questi interrogativi bisognava ricorrere alla sociologia. Nello stesso tempo, però, da questo non se
ne poteva affatto dedurre l’inutilità dell’economia pura (cioè dell’approccio neoclassico) che difese sostanzialmente
come fece Menger.
L’economia pura dà conoscenze estremamente importanti purché non si confondano con la spiegazione dei
fenomeni concreti. Questo obiettivo richiede invece l’integrazione della teoria economica con quella sociologica.
L’economia studia quella parte dei fenomeni concreti che è determinata dalla massimizzazione dell’utilità (le
cosiddette azioni logiche, cioè quelle in cui non vi è divergenza tra il comportamento effettivo del soggetto e quelle
norme di comportamento efficiente illustrate dall’economia pura).
Nella realtà però i fenomeni concreti sono molto influenzati dalle azioni non-logiche, cioè quelle influenzate da
fattori di natura psicologica e istituzionale che sono il campo di studio della sociologia.
Fin qui dunque Pareto presenta una difesa dell’economia dall’accusa di scarso realismo sostanzialmente analoga a
quella di Menger: l’economia pura è una disciplina analitica astratta le cui proposizioni hanno un valore normativo.
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Entrambi rimandano al contributo di altre discipline per lo studio dei fenomeni concreti, nei quali il comportamento
economico è variamente influenzato da fattori di natura istituzionale.
Mentre Menger guarda ad uno studio di orientamento empirico-realistico per Pareto lo studio dei fenomeni
concreti richiede lo sviluppo preliminare di una sociologia generale che abbia lo stesso carattere analitico
dell’economia. Pareto stesso si impegna su questo terreno, e non a caso il suo contributo specifico alla sociologia
economia è molto limitato. Per l’italiano il modo migliore di procedere della conoscenza scientifica è infatti quello
di individuare e separare analiticamente i diversi elementi (che influiscono sull’azione) e di studiarli isolatamente.
Soltanto in un secondo tempo si possono mettere insieme le diverse parti per “aver la teoria del fenomeno
complesso”. In questa prospettiva, l’economia è già molto avanti nello studio delle componenti logiche dell’azione,
mentre parecchia strada resta ancora da fare per la teoria delle componenti non-logiche che è l’oggetto della
sociologia.
2.2 La via empirica: Marshall
Alfred Marshall (1842 – 1924) è l’economista che ha forse maggiormente influito sulla pratica effettiva della
disciplina nel contesto anglosassone, tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento.
Nonostante abbia contribuito direttamente allo sviluppo dell’analisi marginalista, la sua posizione teorica mantiene
legami stretti con la tradizione dell’economia classica filtrata attraverso la sistematizzazione fattane da Mill (1806-
1873).
La risposta di Marshall si articola a due livelli:
- il primo si muove all’interno dell’approccio basato sull’utilità marginale (si muove nello schema neoclassico
ponendo l’enfasi non sul problema dell’equilibrio economico generale ma sullo studio degli equilibri parziali:
es. il comportamento dell’impresa concorrenziale in condizioni di mercato date, nell’ambito di un singolo
settore);
- nel secondo mette in discussione i presupposti dello schema neoclassico reintroducendo i fattori istituzionali.
Per Marshall, come per Parsons, la scelta dei fini e dei mezzi è influenzata da valori condivisi. I fini che gli
uomini vogliono perseguire (in termini di consumi da soddisfare) non sono determinati biologicamente come
per gli animali. Solo nella fase primitiva il condizionamento biologico gioca un ruolo essenziale ma
successivamente sono le nuove attività (forme di organizzazione economica costituite dallo sviluppo della
libera attività produttiva e della libera iniziativa) che determinano l’emergenza di nuovi bisogni, e non
viceversa. I bisogni variano nel tempo e sono socialmente condizionati.
Un punto di contrasto essenziale con l’impostazione neoclassica più radicale è la prospettiva dinamica con cui
Marshall torna a parlare di sviluppo economico. la legge di sostituzione è per Marshall il motore dello sviluppo
economico: consiste nella continua combinazione dei fattori produttivi operata dagli imprenditori alla ricerca di
maggiore efficienza. Il principio di sostituzione si può considerare niente altro che un’applicazione speciale e
limitata della legge di sopravvivenza dei più adatti. Tale visione è fortemente influenzata dalla biologia (Herbert
Spencer). Marshall è convinto che lo sviluppo economico favorirà la razionalizzazione dei comportamenti e
accrescerà le possibilità di cooperazione collettiva. Marshall traccia con decisione una via empirica di difesa
dell’economia neoclassica che lo porta a incorporare le istituzioni nel quadro analitico e ad avvicinarsi a una
sociologia di tipo evoluzionistico. In questa prospettiva l’economia diventa uno strumento per la comprensione
complessiva della società.
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A differenza di quel che avviene con la via analitica, la posizione di Marshall lascia dunque meno spazio autonomo
alla sociologia. Egli è sospinto verso una sociologia evoluzionistica sul modello di quella di Spencer, ma la sua
economia si pone come diretta concorrente con tale prospettiva. In lui, come nei classici, la sociologia economica
resta dunque ancora all’interno dell’economia.
3. LA SOCIOLOGIA PRIMA DELLA SOCIOLOGIA ECONOMICA
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del nuovo secolo, la sociologia economica si emancipa dall’economia e
acquista un suo profilo specifico nell’ambito della sociologia (avviene soprattutto in Germania con Sombart e
Weber).
E’ importante capire le origini della tradizione economica e quelle della tradizione sociologica.
Raymond Aron (1965) ha proposto di distinguere tra:
- un modo di pensare sociologico: riflessioni sul comportamento dell’uomo in relazione agli altri uomini, e sulle
forme di organizzazione della società che ne risultano, fanno naturalmente parte di tutta la storia del pensiero,
ma una specifica prospettiva sociologica si fa strada solo tra il XVIII e il XIX secolo. ciò significa che il
comportamento dell’uomo in società, e le strutture stabili cui dà luogo, non siano più spiegabili con fattori
religiosi o politici ma sociali (istituzioni, norme di comportamento, che derivano dall’azione umana e che una
volta affermatesi contribuiscono a orientare il comportamento fino a quando non ne vengono modificate). Aron
considera Montesquieu un precursore di questo modo di pensare (1750). Perché si possa affermare il modo di
pensare sociologico è necessario che la società appaia governata da leggi impersonali che si impongono ai
singoli individui (e non dal governo religioso e politico); questo si verifica con lo sviluppo del capitalismo e
l’estendersi del mercato come meccanismo di regolazione delle attività economiche. In questo senso si può dire
che l’economia apra la strada alla sociologia. Importante è anche il rapido cambiamento della società
occidentale (indipendenza americana, rivoluzione francese);
- un’intenzione scientifica rivolta allo studio della società. Il metodo scientifico che si era fatto strada nello
studio dei fenomeni naturali accompagnandosi al nuovo modo di pensare sociologico, porta all’emergere
dell’intenzione scientifica sistematica nello studio della società. Con Comte e Spencer si afferma, nel corso
dell’Ottocento, la sociologia come disciplina autonoma che intende applicare il metodo delle scienze naturali
allo studio della società. La sociologia come scienza autonoma nasce dunque con una forte connotazione
positivista e con il fine di ricavare leggi generali di funzionamento della società che abbiano una validità
oggettiva.
Herbert Spencer (1820 – 1903) cerca di conciliare una spiegazione individualistica del comportamento umano con
l’idea dei condizionamenti sociali dell’azione, tipica della prospettiva sociologica. L’orientamento individualistico
era molto radicato nel contesto anglosassone; l’economia stessa si era sviluppata nell’alveo della filosofia
individualistica inglese. Egli sostiene che effettivamente nella moderna società industriale i rapporti sociali si
basano sulla cooperazione volontaria e non su quella coatta (del potere religioso o politico). Per Spencer il
comportamento è socialmente condizionato (idee e sentimenti sono influenzati dalle esigenze funzionali della
società). la società deve essere considerata come un organismo costituito da parti tra loro interdipendenti (in
analogia con il corpo umano). Come ogni organismo vivente, la società tende a crescere di dimensioni e ciò spinge
alla formazione di strutture separate e specializzate per l’assolvimento più efficiente dei compiti necessari alla sua
sopravvivenza nell’ambiente.
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La visione organicista mantiene un carattere sintetico e generalizzante che scoraggia l’autonomia della sociologia
economica. Essa tratta infatti la società come un sistema e cerca di mettere soprattutto in evidenza gli elementi
comuni a tutte le società e alla loro evoluzione.
È in un clima di sfiducia e di delusione nei riguardi delle promesse dell’illuminismo che emerge in Francia la
sociologia come scienza autonoma. Nell’opera di Auguste Comte (1798 – 1857) che viene espressa per la prima
volta la necessità di uno studio scientifico della società che egli chiama sociologia (intesa come parte
complementare della filosofia naturale che si riferisce allo studio positivo dell’insieme delle leggi fondamentali
proprie ai fenomeni sociali). Occorre applicare allo studio della società la stesso metodo positivo delle scienze della
natura, e ricercare le leggi generali che ne spiegano l’ordine (statica sociale) e il cambiamento (dinamica sociale).
Solo nella fase storica più recente è possibile porsi questo obiettivo, perché le conoscenze umane seguono una
legge di sviluppo basate su tre stadi: teologico, metafisico e positivo. A ciascuno stadio dell’evoluzione intellettuale
corrisponde una determinata forma di organizzazione sociale. La sociologia si sviluppa più tardi di altre scienze per
la maggiore complessità del suo oggetto. La sociologia condivide con la biologia una visione organicistica: così
come non si può comprendere la funzione di un determinato organo isolandolo dal corpo umano nel suo complesso,
non è possibile analizzare la religione, l’economia o la politica se non partendo dai caratteri generali della società in
cui tali attività si esplicano, e dal suo stadio di sviluppo storico.
Anche per Comte, prima ancora che per Spencer, il positivismo si accompagna a una visione organicistica della
società. Gli effetti per l’emancipazione della sociologia economica sono altrettanto negativi. La sociologia
comtiana non lascia spazio ad un’indagine specifica e autonoma sui rapporti tra economia e società. il suo fuoco è
sull’insieme: su ciò che accomuna più che su quello che separa le diverse società. Inoltre, a differenza di Spencer,
l’organicismo di Comte è anti-individualistico. Per Spencer idee e sentimenti sono selezionati dalle esigenze
funzionali mentre per Comte la società si basa sul sentimento della solidarietà comune, su un sistema di valori
condiviso. Per Comte è il consenso che tiene insieme la società, ma esso è minacciato dalla divisione del lavoro e
dallo sviluppo economico e deve pertanto essere sostenuto e garantito con opportune misure politiche di controllo
dell’economia di mercato e di riduzione delle disuguaglianze.
Nonostante queste differenze, la prospettiva organicista, da entrambi condivisa, tende in definitiva a scoraggiare la
sociologia economica.
4. PERCHE’ LA SOCIOLOGIA ECONOMICA NASCE IN GERMANIA
Il contesto tedesco appare molto diverso da quello inglese e francese. Esso è fortemente influenzato dalla filosofia
idealistica, che da un lato orienta la tradizione economica nella direzione dello storicismo, e dall’altro allontana la
sociologia da positivismo e dall’organicismo anglofrancese. Abbiamo già visto (cap. 2 par. 2) come l’economia sia
stata influenzata dall’eredità culturale di Kant e di Hegel, e dei suoi seguaci, che enfatizzano il ruolo dei valori
(dello spirito) nello sviluppo economico, e criticano il pensiero economico classico per le sue pretese teoriche
generalizzanti. D’altro canto è possibile che la forza dell’orientamento storicistico in economia abbia contribuito a
rendere più radicale la critica neoclassica, e soprattutto a orientarla decisamente verso la via analitica. Abbiamo
visto come Menger, esponente in primo piano della scuola austriaca, abbia dovuto fare i conti con lo storicismo (nel
cosiddetto dibattito sul metodo) che lo aveva contrapposto a Schmoller, esponente della giovane scuola storica di
economia.
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I risultato di queste vicende è che l’economia teorica neoclassica non include al suo interno problemi di sociologia
economica (come accade con Marshall) ma assume una connotazione radicalmente analitica.
Nello stesso tempo tali problemi sono ampiamente trattati dalla scuola storica di economia (Roscher, Knies,
Schmoller) per la quale l’economia va compresa con riferimento alle istituzioni in cui è inserita. Richiede
descrizioni empiriche dettagliate delle economie nazionali e non consente generalizzazioni teoriche più ampie.
L’influenza dello storicismo è particolarmente importante per l’emergere di una prospettiva analitica autonoma di
sociologia economica (Weber e Sombart). Il passaggio dallo storicismo alla sociologia economica richiede che
vengano affrontati e superati due problemi:
- da un lato, il descrittivismo empirico e l’indeterminazione teorica;
- dall’altro, il ricorso a concetti ambigui e non verificabili (es. lo “spirito del popolo” come differenza tra le
diverse economie nazionali).
E’ a Max Weber (1864 – 1920) che dobbiamo guardare per trovare una risposta al superamento di tali limiti. Agli
inizi del ‘900 sviluppa i fondamenti metodologici della sociologia economica misurandosi sistematicamente con
due interlocutori: lo storicismo economico e la critica filosofica della conoscenza sociologica.
Nel 1872 fu fondata un’associazione per lo studio delle politiche sociali nella quale Schmoller era la figura di
spicco. Essa esprimeva l’egemonia dello storicismo nell’indagine economico-sociale e promuoveva ricerche e
discussioni sulle conseguenze sociali dello sviluppo economico. Tra i collaboratori più giovani vi furono Weber e
Sombart (Il capitalismo moderno, 1902), quest’ultimo meno direttamente impegnato sul versante metodologico ma
condivideva sostanzialmente le posizioni di Weber. L’opera di Sombart e quella di Georg Simmel (Filosofia del
denaro, 1900) influenzerà il lavoro di Weber sul capitalismo occidentale (L’etica protestante e lo spirito del
capitalismo, 1904-1905). L’opera di Sombart può considerarsi la prima opera sistematica di una sociologia
economica più autonoma e consapevole. Il saggio di Weber su Roscher e Knies (1903) e quello su L’oggettività
conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904) costituiscono le basi metodologiche della
sociologia economica.
4.1 La riflessione metodologica di Weber
Seguendo alcuni aspetti essenziali possiamo valutare in che modo avvenga il passaggio dallo storicismo alla
sociologia economica. Il primo passo fu la critica del modo di procedere dello storicismo. Gli storicisti si
opponevano agli schemi generalizzanti dell’economia classica e neoclassica, in nome delle particolarità istituzionali
delle diverse economie nazionali, ma finivano con lo spiegare tali particolarità ricorrendo a strumenti teorici
ambigui (es. “spirito del popolo”, ecc.).
Se gli economisti della scuola storica avevano criticato l’economia classica e neoclassica, gli esponenti prestigiosi
della storiografia tedesca avevano criticato la pretesa della sociologia positivista anglofrancese di formulare leggi
generali della società. Ma Weber difende le posizioni storiciste dei filosofi a lui contemporanei di formazione
idealistica, come Dilthey, e dei neokantiani Windelband e Rickert. È con questi che egli si misura per sviluppare in
positivo la sua posizione teorica.
La critica della sociologia positivista aveva insistito maggiormente su due aspetti:
- l’uomo è libero di plasmare la storia. Come essere consapevole egli forgia le istituzioni sociali e le modifica
continuamente con l’evoluzione culturale. Non è quindi possibile operare delle generalizzazioni, né prevedere
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il corso dell’azione umana, perché questa non ha i caratteri di regolarità e uniformità che caratterizzano i
fenomeni naturali;
- se non si può spiegare un determinato fenomeno sociale facendo riferimento a qualche legge generale, l’unica
opportunità di conoscenza non si basa su spiegazioni causali (quelle che la sociologia positivista pretende di
offrire) bensì sulla capacità di comprensione di un determinato contesto storico visto nella sua particolarità.
Weber risponde a queste critiche: lo studio dei fenomeni sociali non si differenzia da quello dei fenomeni naturali
per le caratteristiche del suo oggetto, come aveva sostenuto Dilthey con al sua distinzione tra scienze della natura e
scienze dello spirito. Per Weber lo studioso della società, così come quello della natura, opera con concetti, con
generalizzazioni e astrazioni, perché ciò è indispensabile a qualsiasi conoscenza. Lo storico che pretende di
descrivere una determinata realtà empirica usa inevitabilmente degli schemi teorici di spiegazione, spesso impliciti,
che sono poco rigorosi o discutibili, come nel caso dello storicismo economico.
Weber riconosce che le scienze sociali non hanno l’obiettivo di formulare leggi generali ma di spiegare fenomeni
storici visti nella loro individualità e da questo punto di vista la sua posizione è vicina a quella di Windelband e
Rickert che avevano distinto tra scienze della natura di tipo nomotetico, volte alla formulazione di leggi generali, e
scienze sociali di tipo idiografico, che mirano alla spiegazione di fenomeni storici particolari.
Come è possibile studiare scientificamente i fenomeni sociali nella loro individualità storica?
Per Weber ciò richiede due condizioni essenziali:
1) bisogna fare riferimento alle motivazioni dei soggetti agenti: è vero che gli uomini agiscono in base a
motivazioni mutevoli ma ciò non implica che tali motivazioni siano talmente eterogenee da non fondare alcuna
regolarità di comportamento significativa. La comprensione non è alternativa rispetto alla spiegazione causale e
alla verifica empirica, ma anzi deve essere coniugata con esse. Il punto di vista dello studioso riflette
inevitabilmente i suoi valori (Weber si richiama al concetto di Rickert di relazione ai valori che utilizza però in
modo diverso) e lo orienta nel formulare ipotesi di spiegazione delle motivazioni degli attori e delle
conseguenze che ne discendono. La validità di queste ipotesi deve però essere verificata dalla ricerca (verifica
empirica) per garantire la validità intersoggettiva della spiegazione. Non si pretende di indicare la totalità delle
cause che hanno determinato un certo fenomeno storico, ma solo di mettere in evidenza alcune condizioni di
quel fenomeno, ritenute particolarmente significative alla luce del punto di vista adottato dallo studioso. Punti
di vista diversi possono portare a ipotesi e spiegazioni diverse. La verifica empirica stabilisce la minore o
maggiore attendibilità della spiegazione e a sua volta contribuisce a riorientare le ipotesi dello studioso;
2) bisogna studiare le uniformità di comportamento derivanti da motivazioni simili: se vogliamo stabilire in che
misura, per esempio, lo sviluppo capitalistico di un paese è stato influenzato dalle idee religiose, dobbiamo
avere una teoria più generale dei rapporti tra idee religiose e sviluppo economico. dobbiamo sapere in che
misura alcune idee religiose determinano certe uniformità di comportamento con conseguenze per le attività
economiche. Ciò consente di valutare il ruolo del fattore causale religione in una determinata situazione storica,
anche attraverso la comparazione tra casi diversi di sviluppo. Lo studio delle uniformità di comportamento,
delle loro origini e delle loro conseguenze è proprio della sociologia. Essa studia i tipi di agire sociale (analizza
regolarità di comportamento socialmente determinate, prodotte cioè dal fatto che l’azione individuale tiene
conto del comportamento di altri individui con cui si interagisce e delle loro reazioni. La sociologia
comprendente mira a ricostruire il senso oggettivo, cioè le motivazioni che spingono gli attori a comportarsi in
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un certo modo sulla base di aspettative condivise relative al comportamento altrui. L’agire si concretizza in
relazioni sociali più o meno stabili e prevedibili che possono essere fondate su uniformità di comportamento di
fatto, come nel caso di usi (es. una moda) o di costumi (consuetudini di lunga durata), o ancora di usi
condizionati da una situazione di interessi (perseguimento razionale del proprio interesse, come nei rapporti di
mercato). Le relazioni sociali sono maggiormente prevedibili quando riguardano uniformità di comportamento
che si basano su convenzioni la cui inosservanza comporta qualche forma di disapprovazione sociale (es.
rapporti familiari) o su ordinamenti giuridici, dotati di sanzioni coercitive (es. leggi dello stato). Le
motivazioni che spingono gli individui a uniformarsi ai vari tipi di norme di comportamento sono diverse e
spesso si combinano tra loro ma dal punto di vista analitico si possono individuare alcune determinanti
fondamentali: azione razionale rispetto a uno scopo (si valutano i mezzi più efficaci per raggiungere uno scopo
dato), azione razionale rispetto al valore (motivata dalla credenza in certi principi, es. etici o religiosi), affettive
(legami familiari) o tradizionali (quando ci si rifà ad abitudini acquisite e indiscusse). Questi tipi molto generali
e astratti di motivazioni sono uno strumento di lavoro della sociologia. I tipi ideali di Weber sono costruiti
mediante l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, mediante la connessione di una quantità
di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore misura, e talvolta anche
assenti. I tipi ideali sono desunti dalla realtà empirica, ma non vi corrispondono mai completamente. Esso
compie una funzione essenziale per la spiegazione causale e quindi per la conoscenza storica. Possono essere di
natura diversa: quelli più astratti (relativi alle determinanti dell’azione sociale in generale), altri volti alla
ricostruzione di grandi fenomeni storici nella loro individualità (es. feudalesimo, capitalismo, concetto di stato,
di chiesa, ecc.).
Si può ora chiarire meglio il rapporto tra sociologia e storia. La prima è orientata allo studio delle uniformità di
comportamento e alle loro connessioni causali, mentre la seconda è volta alla spiegazione di singoli fenomeni. Ciò
non vuol dire che il fine della sociologia sia la determinazione di leggi generali della società, universali e necessarie
ma deve servire invece a rendere intelligibile la storia stessa.
4.2 L’emancipazione della sociologia economica
Una “scienza sociale generale” dovrebbe essere enciclopedica e occuparsi simultaneamente di tutte le istituzioni
che influenzano l’azione (di essa dovrebbe far parte la filologia, la storia della chiesa, il diritto, ecc.) ma per Weber
invece la sociologia generale può darsi solo come chiarificazione concettuale e metodologica di sociologie
applicate allo studio storico di aspetti particolari del comportamento umano. Esse possono mettere a fuoco la
molteplicità delle motivazioni dell’azione in un settore specifico dell’attività umana. Ed è attraverso il contributo di
questi studi particolari che si può aspettare una miglior conoscenza di un fenomeno storico nella sua totalità, per
esempio il capitalismo occidentale.
Si inverte quindi il rapporto tra studio della totalità e studio delle parti. Per i sociologi positivisti, la società è un
organismo regolato da un unico principio di coordinamento (i valori condivisi per Comte, il principio della
selezione dei più adatti per Spencer) mentre per Weber la società è un tessuto di relazioni sociali le cui
motivazioni individuali sono molteplici e si combinano diversamente nello spazio e nel tempo. Bisogna dunque
guardare alle parti per arrivare all’insieme. Per Weber e Sombart, che si erano formati nell’ambito della storia
economica, è la diversità che bisogna cercare di spiegare. Essi studiano l’economia con una visione sociologica
32
perché percepivano il ruolo cruciale che assumeva lo sviluppo economico capitalistico nel cambiamento della
società.
Il duplice rifiuto, di una sociologia generale di tipo organicistico, e dello storicismo, apre lo spazio per
l’emancipazione della sociologia economica. La “scienza economico-sociale” o “sociologia dell’economia” ha
l’obiettivo di studiare l’interazione reciproca tra fenomeni economici e socioculturali. Al suo centro vi sono
pertanto i:
- fenomeni economicamente rilevanti: quei fattori non economici come le istituzioni religiose o politiche, viste
nella loro influenza sul comportamento economico;
- fenomeni economicamente condizionati: le istituzioni economiche viste nella loro influenza sulle altre
istituzioni sociali.
Questa distinzione permette di chiarire il rapporto tra il suo pensiero e quello di Marx. La concezione materialistica
della storia deve essere rifiutata come deduzione di tutti i fenomeni culturali … in quanto in ultima istanza
economicamente condizionati. Weber accetta il contributo di Marx nel comprendere la grande influenza dei fattori
economici sul processo storico (i fenomeni economicamente condizionati) ma ciò non deve essere interpretato
come legge generale e necessaria della società. Weber ritiene che solo con contributi parziali e orientati a uno
specifico problema si possano ricostruire le complesse e cangianti motivazioni dell’azione umana, e che dunque le
scienze sociali, e non una sociologia generale, possano contribuire meglio alla conoscenza della realtà. Le scienze
sociali particolari si occupano tutte della società, ma si distinguono per il punto di vista che assumono (questo è
anche il caso della sociologia economica).
Sia Weber che Sombart individuano nella sociologia economica una strada intermedia tra lo storicismo e
l’economia teorica neoclassica. Ritengono che la teoria economica analitica abbia uno spazio legittimo, che non
deve essere però confuso con la sua validità empirica. Weber sottolinea che le proposizioni dell’economia teorica
classica e neoclassica sono dei tipi ideali, delle costruzioni analitiche che partono dal presupposto che il
comportamento economico sia esclusivamente determinato dal perseguimento razionale degli interessi individuali
(azione razionale rispetto allo scopo). Esse sono utili, come tutte le costruzioni idealtipiche, per misurare e
comparare il comportamento effettivo ma Weber ribadisce che solo molto raramente il comportamento economico
concreto è influenzato da tali motivazioni.
Per questo motivo Weber e Sombart intendono avviare uno studio teorico dell’economia nel suo contesto
socioculturale che superi i difetti dello storicismo. La scienza economico-sociale di Weber e la scienza sociale della
vita economica di Sombart sono orientate a superare la contrapposizione tra scuola astratto-teorica e empirico-
storica. Da qui il loro interesse per il fenomeno del capitalismo occidentale, per le sue origini, il suo
funzionamento, le sue prospettive. Nel perseguire questo obiettivo essi hanno dato un contributo decisivo alla
definizione dello spazio analitico della sociologia economica.
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PARTE SECONDA
I CLASSICI E LA SOCIOLOGIA DEL CAPITALISMO
CAPITOLO 4
ORIGINI E SVILUPPI DEL CAPITALISMO: SIMMEL E SOMBART
In questo capitolo e nel successivo prenderemo in considerazione le risposte che la sociologia economica ha fornito
alla questione delle origini, dei caratteri e dell’evoluzione del capitalismo. Ne vedremo una prima formulazione in
Simmel e quindi gli apporti più specifici e articolati di Sombart e di Weber, i due autori che più contribuirono
all’affermazione della sociologia economica agli inizi del ‘900. Al di là delle differenze tra questi studiosi,
emergono alcuni elementi comuni: l’insistenza sulle condizioni culturali e istituzionali che influenzano il
capitalismo, e l’attenzione per il ruolo dell’imprenditorialità.
1. IL CAPITALISMO COME PROBLEMA
L’economia classica voleva studiare le leggi di funzionamento dell’economia tenendo conto del quadro
istituzionale capitalistico (proprietà privata dei mezzi di produzione, lavoro salariato, ruolo del mercato, ruolo dello
stato) ma non ne indagava però le origini (ad eccezione di Smith) né si poneva i problema delle spinte verso il
cambiamento istituzionale che il funzionamento stesso dell’economia capitalistica avrebbe potuto determinare.
Marx e gli storicisti tedeschi avanzarono con forza l’esigenza di storicizzare il quadro istituzionale e cercarono di
rispondere al problema delle origini e dell’evoluzione del capitalismo. Oltre all’influenza dell’idealismo tedesco,
gli sviluppi stessi dell’economia (il suo diverso grado di maturazione a livello territoriale, l’instabilità sociale e il
conflitto di classe) spingevano a mettere in discussione la visione dell’economia classica.
La rivoluzione marginalista separava nettamente il contesto istituzionale dando un carattere normativo ed astorico
all’indagine economica che diventava una teoria della scelta razionale di allocazione di risorse scarse.
È in questo quadro che si apre lo spazio analitico per una sociologia economica autonoma che ha come fuoco
l’interazione tra economia e istituzioni. Vengono riprese le domande sulle origini e sull’evoluzione del capitalismo
come fenomeno storico, ma ad esse viene data una risposta diversa da quella di Marx e degli storicisti.
Rispetto a Marx viene relativizzata l’influenza dei fenomeni economici sulle istituzioni e viene messo in evidenza
anche il rapporto di causalità inverso: fattori culturali e politico-istituzionali appaiono di particolare rilievo per
spiegare le origini dell’economia capitalistica. Tuttavia il passaggio dal capitalismo al socialismo resta una
questione storica aperta e dagli esiti non scontati ed inoltre i caratteri dell’economia socialista vengono visti in
chiave di una maggiore burocratizzazione, piuttosto che in termini di autogoverno dei produttori (come diceva
Marx).
Gli storicisti influenzano molto la sociologia economica tedesca. Sombart, Weber e Simmel si sono formati a tale
scuola ma l’influenza delle variabili istituzionali sull’economia, tipica degli storicisti, in loro si coniuga con una
maggiore consapevolezza teorica. I fondatori della sociologia economica si distaccano dai loro maestri perché
ritengono sia possibile uno studio scientifico dei rapporti tra economia e società: uno studio che non è rivolto alla
formazione di leggi generali della società come quelle ricercate dalla sociologia organicista e positivista, ma che si
concretizzi in modelli analitici di fenomeni storici come il capitalismo; ovvero in forme di generalizzazione
limitate nello spazio e nel tempo che si fondano sui risultati dell’indagine storica e servono a loro volta a orientarla.
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Da questo quadro discende dunque l’interesse delle sociologia economica per il capitalismo come problema di
ricerca.
2. LA “FILOSOFIA DEL DENARO” DI SIMMEL
Sembra che la Filosofia del denaro (1900) di Georg Simmel (1858 – 1918) sia stato il primo libro letto da Weber
dopo la grave crisi psichica che lo aveva afflitto negli anni a cavallo del secolo. Nell’opera di Simmel sono già
presenti un orientamento metodologico e una serie di temi di ricerca che caratterizzeranno anche i lavoro
successivo di Weber e di Sombart. Nel 1909 i tre, insieme a Tonnies, fondarono la Società Tedesca di Sociologia,
da cui però Simmel uscirà nel 1913 in quanto i suoi interessi si orienteranno prevalentemente verso la filosofia.
2.1 Filosofia e sociologia economica
La Filosofia del denaro anticipa la maggior parte dei temi che costituiscono il pensiero di Simmel e che solo in
parte sono riconducibili alla prospettiva sociologica. Sarebbe una forzatura considerarla un’opera di sociologia
economica ma sarebbe comunque errato considerarla soltanto un’opera di filosofia. L’obiettivo di Simmel è quello
di chiarire la genesi e i caratteri della società moderna, e di valutare il senso, il significato ultimo che essa assume
per la vita degli uomini. La società non è per lui un sistema, un organismo costituito da varie parti tra loro
funzionalmente collegate (come invece dicevano i positivisti) ma è piuttosto formata da un insieme di istituzioni
che nascono dall’interazione tra gli uomini e una volta consolidatesi ne condizionano il comportamento. Simmel
chiama tali istituzioni forme pure e la sociologia deve studiare le origini e i caratteri di tali forme ovvero dei
modelli di comportamento istituzionalizzati.
Il denaro è una di queste istituzioni che condiziona sempre più profondamente le relazioni tra gli uomini nella
società moderna. Per Simmel chiarire le origini e le conseguenze dell’uso del denaro, ovvero dell’economia
monetaria, è essenziale per comprendere la società moderna. Per lui il capitalismo è una conseguenza
dell’economia monetaria (Weber noterà che tende ad identificare troppo l’economia monetaria e il capitalismo).
Ciononostante, l’indagine sulle cause non economiche dell’economia monetaria e sulle sue conseguenze sociali ha
importanti e evidenti elementi comuni con la sociologia del capitalismo sviluppata da Sombart e da Weber.
Dal punto di vista sostantivo emergono quattro aspetti simili che meritano di essere segnalati:
1) l’insistenza sui presupposti culturali e istituzionali dell’economia monetaria e quindi del capitalismo;
2) il riconoscimento di alcuni soggetti (stranieri, ebrei) che in virtù della loro condizione sociale di marginalità
esercitano un ruolo primario per la diffusione dell’economia monetaria;
3) l’immagine delle conseguenze sociali dell’economia monetaria in termini di crescente spersonalizzazione e
razionalizzazione delle relazioni sociali e degli ambiti di vita;
4) l’immagine del socialismo, in contrasto con quella di Marx, come ulteriore sviluppo della razionalizzazione in
direzione di una più accentuata burocratizzazione economica e politica.
Simmel nella prefazione e successivamente Weber affermano che: “ad ogni interpretazione di una formazione
ideale mediante fattori economici deve associarsi l’esigenza di spiegare questi, a loro volta, ricorrendo a fattori
profondi di natura ideale, mentre per questi è di nuovo necessario scoprire la sottostruttura economica, e così via
all’infinito”.
2.2 Le condizioni non economiche del denaro
Anche se il ragionamento di Simmel procede in modo non sistematico, possiamo dire che il capitalismo come
sistema economico presuppone l’accumulazione privata del capitale e a sua volta il denaro deve diffondersi come
35
strumento degli scambi e deve allargarsi la cerchia dei soggetti coinvolti nell’economia monetaria. Ma affinché il
denaro possa svolgere la sua funzione di propulsore delle attività economiche è necessaria una condizione non
economica fondamentale: occorre che cresca la fiducia nel denaro come aspettativa che il suo impiego possa
sempre disporre di una contropartita in beni concreti.
L’accumulazione del capitale presuppone dunque un’accumulazione di fiducia e questa condizione culturale è a sua
volta sostenuta da fattori istituzionali: la legittimazione e l’efficacia del potere politico e le garanzie fornite
dall’ordinamento giuridico. In questo senso il denaro diventa un’istituzione pubblica.
Tuttavia, è da notare che tra l’economia monetaria da un lato e lo stato centralizzato e il sistema giuridico,
dall’altro, si stabilisce un rapporto di interdipendenza. La prima cresce grazie ai secondi che la garantiscono, ma
questi a loro volta si rafforzano in relazione agli effetti indotti dalla diffusione del denaro come mezzo di scambio.
Simmel sottolinea come l’economia monetaria sia stata un potente fattore di dissoluzione dell’economia naturale
basata sull’autoconsumo. Lo stato moderno deve controllare la moneta e può fare questo attraverso lo sviluppo
della tassazione che consentiva il mantenimento di una burocrazie e di un esercito sottoposti al potere centrale.
Questo contribuisce all’indebolimento del vecchio ordinamento feudale rafforzando l’economia monetaria e
garantendo quindi lo sviluppo degli scambi.
Ma quali soggetti sono i protagonisti della diffusione del denaro e degli scambi?
Sono soprattutto gli individui e i gruppi sociali esclusi dal pieno godimento dei diritti vigenti in una determinata
società a dedicarsi più facilmente all’accumulazione di denaro come strumento per il conseguimento di posizioni
sociali che non possono raggiungere con i mezzi tradizionali. D’altra parte, nei riguardi di questi soggetti non
valgono le sanzioni sociali e giuridiche che spesso allontanano dall’uso del denaro i membri di una società
tradizionale (es. ostilità della chiesa medievale nei riguardi dell’usura).
Gli esempi principali di questa condizione di marginalità sociale che alimenta lo sviluppo di attività commerciali e
finanziarie sono gli stranieri e gli ebrei.
Stranieri e gruppi sociali esclusi introducono il fenomeno del denaro e dell’economia monetaria nella società
tradizionale preparando le condizioni per lo sviluppo del capitalismo.
Ma è da notare che Simmel non si pone il problema specifico delle origini dell’imprenditorialità capitalistica (che
affronteranno Sombart e Weber) ma è interessato a mettere in evidenza le condizioni che consentono l’esercizio di
tale attività, ovvero l’accumulazione del capitale da un lato e la dissoluzione dell’economia naturale dall’altro.
2.3 Le conseguenze dell’economia monetaria
L’interesse prevalente di Simmel sembra però andare verso l’analisi delle conseguenze dell’economia monetaria
sulle relazioni sociali e sullo stile di vita. Egli mette in luce l’ambivalenza del fenomeno che presenta sia aspetti
positivi che negativi.
Anzitutto il denaro favorisce la crescita della libertà individuale rendendo sostituibili i rapporti sociali nella sfera
dello scambio come in quella della produzione. Nella sfera dello scambio è possibile scegliere tra fornitori diversi e
questo spersonalizza le relazioni tra chi compra e chi vende e aumenta l’indipendenza reciproca di entrambi. È
anche possibile scegliere tra più oggetti diversi rompendo così la ritualità delle forme di consumo tradizionali.
Lo stesso avviene nella sfera della produzione, dove al rapporto di dipendenza totale del servo della gleba nei
riguardi del signore, o dell’apprendista nei riguardi del maestro delle corporazioni medievali, subentra uno
specifico e determinato contratto di lavoro, che spersonalizza il rapporto, lo lega al perseguimento di un obiettivo
36
limitato che non include la sfera extralavorativa, e soprattutto lo rende sostituibile da una parte e dall’altra. Ma, se
nell’economia naturale del Medioevo vi era l’obbligo di protezione sociale dei subalterni da parte dei signori, in
questa nuova situazione invece le condizioni di remunerazione peggiorano, ma è il prezzo della libertà (il
lavoratore paga con l’insicurezza del salario il prezzo della libertà). Secondo Simmel, la divisione del lavoro e la
conseguente gerarchia organizzativa sono un requisito indispensabile per lo sviluppo economico.
L’economia monetaria, e il capitalismo che ad essa è legato, contribuiscono dunque ad ampliare la libertà
individuale ed al formarsi della dimensione della personalità individuale.
Simmel condivide molti elementi dell’ottimismo liberale tipico dell’economia politica e anche della sociologia
positivista inglese e francese, che aveva studiato in gioventù, ma questa influenza si combina con quella che
discende da un certo pessimismo culturale tedesco che trova espressione nel pensiero di Nietzsche, al quale Simmel
si avvicinerà sempre più negli ultimi anni della sua vita. Da qui discende l’insistenza sul tema degli aspetti
costrittivi del denaro come istituzione che, una volta consolidatasi, condiziona profondamente le relazioni sociali.
Il denaro aumenta la libertà individuale, ma da mezzo per il raggiungimento di determinati scopi tende a
trasformarsi in fine esso stesso. L’economia monetaria viene a condizionare sempre più il comportamento
individuale con le sue esigenze, ma gli uomini perdono il controllo sui fini ai quali il denaro piega l’organizzazione
sociale. La vita quotidiana è caratterizzata da una perdita di qualità dei rapporti sociali, la libertà individuale
comporta una spersonalizzazione crescente dei rapporti. Si diffondono la razionalizzazione e il calcolo in tutti gli
ambiti di vita. L’uso del tempo e dello spazio vengono sempre più piegati alle esigenze dell’economia monetaria.
Gli uomini acquistano maggiore libertà individuale, ma si ritrovano anche più soli e più incapaci di definire le loro
mete collettive. Più tardi Simmel, descrivendo la situazione degli abitanti della metropoli, scriverà che “l’individuo
è diventato un semplice ingranaggio in un’enorme organizzazione di cose e di poteri che strappano dalle sue mani
ogni progresso, ogni spiritualità”.
2.4 Capitalismo e socialismo
Simmel non vede nel socialismo una soluzione per queste conseguenze dell’economia monetaria che permeano
sempre più la società moderna. L’eventuale successo del socialismo accentuerebbe quelle caratteristiche costrittive
che la razionalizzazione e la calcolabilità dei rapporti sociali impongono agli uomini: la centralizzazione assoluta
dei mezzi di produzione nelle mani della “società” significa inevitabilmente un socialismo di stato, ben lontano da
quegli ideali di nuova solidarietà che pure il socialismo vorrebbe realizzare. Si è spesso insistito sul pessimismo
storico di questa posizione di Simmel. Egli non credeva nella ricetta del socialismo. La separazione dei lavoratori
dai mezzi di produzione e la proprietà privata erano per lui un requisito dello sviluppo economico. Anche se non fu
mai coinvolto, a differenza di Weber, in problemi di politica attiva, Simmel auspicava un cambiamento del
capitalismo soprattutto in due direzioni:
- le istituzioni dell’economia capitalistica avrebbero potuto trovare maggiore legittimazione quanto più si fossero
fondate su motivi tecnico-funzionali, cioè sulla valorizzazione delle competenze e dei meriti nel selezionare i
soggetti chiamati a ruoli sovraordinati e subordinati, e non avessero invece alimentato stabili e ingiustificate
disuguaglianze sociali (questa posizione è vicina a quella di Durkheim ed è anche compatibile con un
socialismo che non si ponga come alternativa alla proprietà privata e al mercato);
- la legittimazione del capitalismo può essere rafforzata dalla capacità di ridurre quella che egli chiama “l’umana
tragedia della concorrenza” in due modi: attraverso uno sviluppo tecnico finalizzato a mettere a disposizione
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nuove risorse della natura per ridurre la concorrenza tra gli uomini per l’acquisizione di beni scarsi ed
attraverso la crescita di beni collettivi la cui fruibilità da parte di alcuni non vada a scapito di altri.
3. “IL CAPITALISMO MODERNO” DI SOMBART
Simmel ricorse alla sociologia della vita economica con l’intento più ampio di tipo filosofico della ricerca sulla
condizione dell’uomo nella società moderna mentre Sombart (1863 – 1941) ha invece l’obiettivo della costruzione
consapevole di una sociologia economica.
Nella sua opera Il capitalismo moderno (ed. 1902, 1916, 1927) egli sottolinea come la sua prospettiva di analisi si
pone come compito l’inserimento della vita economica stessa nel grande contesto dell’esistenza sociale dell’uomo.
Ma per svolgere questo compito egli ritiene necessario che venga superata la contrapposizione tra economia
politica neoclassica (scuola astratto-teorica) e storicismo (scuola empirico-storica). La nuova “scienza sociale della
vita economica” ha l’obiettivo teorico di contribuire alla spiegazione scientifica dei fenomeni economici in un
quadro storico ben definito. Essa si distingue sia dall’economia politica (che adotta una teoria dell’azione
utilitaristica sviluppando modelli analitici astratti del funzionamento dell’economia) che dagli storicisti (che
sviluppano una spiegazione dei fenomeni economici che tiene molto più in conto i fattori culturali e istituzionali ma
essendo ostili alle generalizzazioni teoriche).
Sombart si pone il seguente interrogativo: “quali sono i fenomeni economici che conducono alla nascita del
capitalismo moderno che sono comuni a tutti i popoli europei?
Solo l’accertamento di questi nessi generali può consentire un’indagine storica più proficua sulle particolarità dei
singoli capitalismi nazionali che interessano gli storici. La sociologia economica è quindi collegata alla storia,
perché si serve delle sue indagini per formulare generalizzazioni teoriche, che a loro volta possono poi orientare la
ricerca storica e la verifica empirica. Ma tutto ciò richiede appunto che le generalizzazioni teoriche siano
storicamente delimitate. In questo senso per Sombart non c’è storia senza teoria.
Per mettere a fuoco in che modo la società influenza con le sue istituzioni il comportamento economico è
necessario però apprestare degli strumenti analitici adeguati.
3.1 Elementi di sociologia economica
Per Sombart l’economia è l’attività umana volta alla ricerca dei mezzi di sussistenza. L’uomo deve provvedere al
soddisfacimento dei suoi bisogni con prodotti che ricava dalla natura attraverso il lavoro. i suoi bisogni variano nel
tempo e accanto a quelli relativi alla sopravvivenza fisica si aggiungono nel corso dello sviluppo storico nuovi
bisogni culturali. Ma in ogni caso, per far fronte a queste esigenze, è sempre necessario produrre dei beni e dei
servizi che vengono distribuiti e consumati secondo alcune regole condivise. Questa attività economica è stata
sempre esercitata dagli uomini anche se in forme diverse da tempo a tempo e da luogo a luogo.
Questa è una concezione dell’economia diversa rispetto a quella adottata dall’economia neoclassica (l’economia
come allocazione di risorse scarse applicabili a usi alternativi da parte di soggetti orientati a massimizzare le loro
utilità) che non può spiegare le economia primitive o quelle precapitalistiche.
La definizione di Sombart permette invece di cogliere meglio i tratti differenti nello spazio e nel tempo che
caratterizzano il comportamento economico e l’organizzazione delle attività volte alla sussistenza dell’uomo.
A questo proposito è necessario guardare a tre aspetti:
a) la mentalità economica o spirito economico = l’insieme dei valori e delle norme che orientano il
comportamento degli individui che partecipano all’attività economica, cioè i soggetti economici;
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b) l’organizzazione economica = il complesso di norme formali ed informali che nell’ambito di una determinata
società regolano l’esercizio delle attività economiche da parte dei soggetti;
c) la tecnica = le conoscenze tecniche e i procedimenti utilizzati dai soggetti per produrre beni e servizi e
soddisfare i loro bisogni.
Questi tre aspetti variano nello spazio e nel tempo e consentono di individuare un sistema economico. il concetto di
sistema economico consente di gettare un ponte tra economia e società; permette di valutare in che modo la società
influenza storicamente l’organizzazione economica attraverso le motivazioni dei soggetti, le istituzioni regolative e
quelle che riguardano la produzione e l’uso delle conoscenze scientifiche e tecnologiche. Nel concetto di sistema
economico si riassume per Sombart il carattere tipicamente storico della vita economica.
Vediamo come le tre dimensioni possono aiutarci a distinguere tra l’economia precapitalistica e quella capitalistica.
Precapitalistica Capitalistica
Spirito economico Soddisfacimento dei bisogni naturali
e culturali
Fabbisogno di tipo acquisitivo cioè ricerca di
maggiori guadagni monetari
Spirito tradizionalistico (obbedienza
a regole tramandate)
Spirito razionalistico (ricerca sistematica di mezzi
più adeguati allo scopo)
Mentalità di tipo solidaristico Mentalità di tipo individualistico
Organizzazione Carattere vincolato dell’attività
economica (es. ordinamento
corporativo nella società medievale)
Ampia sfera di libertà economica riconosciuta
giuridicamente (proprietà privata o pubblica dei
mezzi di produzione)
Orientamento della produzione al
consumo
Orientamento allo scambio attraverso il mercato
Piccola impresa familiare Grandi imprese con forza lavoro salariata
Tecnica Basata su conoscenze tramandate e
accettate passivamente
Basata sulla conoscenza scientifica
Si può così arrivare ad una definizione dell’economia capitalistica: sistema economico caratterizzato da una
mentalità acquisitiva, razionalistica e individualistica, che si esercita nell’ambito di un’organizzazione economica
libera, basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e su aziende che producono beni per il mercato
utilizzando lavoro salariato.
Per ogni sistema si possono inoltre individuare tre periodi: gli albori, la maturità e il tramonto. Nel primo periodo
un sistema convive con altri. Per Sombart il capitalismo ha le seguenti tre fasi: primo capitalismo fino alla fine del
1700; capitalismo maturo fino alla fine della prima guerra mondiale; tramonto a causa dell’emergere di elementi di
maggiore organizzazione, che portano ad un’attenuazione degli originari caratteri capitalistici dell’economia.
3.2 Le origini del capitalismo
Come si passa da un sistema economico a un altro?
Sombart cerca di rispondere con chiarezza prendendo le distanze da Marx e dallo storicismo ma il suo schema non
si riferisce al mutamento economico in generale bensì alla nascita del primo capitalismo e alla sua evoluzione verso
il capitalismo maturo.
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Non é possibile analizzare lo sviluppo capitalistico ricorrendo al generico concetto di cultura di un popolo, come
facevano gli storicisti, senza prendere in considerazione le motivazioni specifiche che guidano i soggetti economici,
in particolare gli imprenditori.
Le forze motrici dello sviluppo vanno cercate in quei soggetti che all’interno del vecchio sistema precapitalistico si
fanno portatori di una nuova mentalità economica e introducono quindi dei cambiamenti nel modo in cui vengono
combinati i fattori produttivi e viene organizzata l’economia. Sono gli imprenditori le forze motrici del
cambiamento. Il loro comportamento è certo influenzato dalle istituzioni vigenti in una determinata società (stato,
ordinamento giuridico, religione, cultura prevalente, conoscenze scientifiche e tecniche), tuttavia una volta che
sotto l’influsso di questi fattori si forma un nuovo spirito economico, essi introducono importanti innovazioni.
Dapprima esse sono limitate ma quando esse si diffondono riescono a cambiare le istituzioni.
Ma come si forma l’imprenditorialità?
Dobbiamo definire meglio le caratteristiche dello spirito economico capitalistico e verificare quali condizioni
sociali favoriscano la diffusione di un’imprenditorialità animata da tale spirito.
• Lo spirito capitalistico
Per Sombart lo spirito capitalistico è quello stato d’animo risultante dalla fusione tra lo spirito imprenditoriale e lo
spirito borghese. Lo spirito d’intrapresa è aspirazione al potere intesa come volontà di affermazione e di
riconoscimento sociale che spinge gli uomini a rompere la tradizione e a cercare nuove strade. Esso permea l’uomo
occidentale. Certo le sue origini sono legate alla storia religiosa dell’Occidente, al cristianesimo, ma subisce una
progressiva laicizzazione. Questo processo si manifesta prima nella sfera politica, con la costruzione dello stato
moderno, poi nella sfera economica (la ricerca di guadagno non è più limitata, come in passato, alla conquista,
all’avventura, alla ricerca di metalli preziosi, ma si esercita in modo sistematico). A questo punto si forma una
prima componente di imprenditorialità che si può definire politica (principi, funzionari dello stato, signori
fondiari). Affinché si possa compiere pienamente il sistema economico capitalistico è necessario che lo spirito di
intrapresa si fonda con quello borghese. Per Sombart le origini di questi tratti culturali sono strettamente collegati
alla matrice religiosa cristiana (cattolica, protestante ma anche ebraica) e prendono forma soprattutto nelle città
europee dove si sviluppano i mercanti e gli artigiani. In questo ambiente si forma l’imprenditorialità borghese, fatta
di tutti quelli che vengono dal basso, che si affiancherà dapprima all’imprenditorialità di origine politica e poi si
affermerà fino a dominare l’organizzazione della vita economica nel corso dell’Ottocento, nell’epoca del
capitalismo maturo.
• La formazione dell’imprenditorialità
L’imprenditorialità borghese costituisce dunque la componente in cui si esplica più pienamente l’imprenditorialità
capitalistica. Ma non basta per Sombart la componente cristiana e l’ambiente urbano per spiegare le condizioni
della sua formazione. Accanto a questi fattori occorre considerare quali gruppi sociali abbiano contribuito ad
alimentare maggiormente l’imprenditorialità borghese:
- gli eretici sono coloro che non appartengono alla chiesa di stato e che finiscono per avere formalmente o di
fatto uno status di semicittadini. Essendo esclusi dalla partecipazione alla vita pubblica, gli eretici non
potevano che estrinsecare tutta la loro forza vitale nell’economia. Soltanto questa offriva loro la possibilità di
procurarsi quella posizione di rilievo nella comunità che lo stato negava loro;
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- gli stranieri sono coloro che sono più intraprendenti perché scelgono di partire per mete incerte, inoltre
trovandosi in un nuovo paese sono più portati a rompere con le vecchie abitudini ed infine le loro possibilità di
mobilità sociale sono molto limitate in settori diversi dall’attività economica (per loro non c’è né passato né
presente per cui rimane soltanto il guadagno futuro);
- gli ebrei hanno dato un contributo particolarmente rilevante allo sviluppo capitalistico, specie attraverso
l’imprenditorialità commerciale e creditizia. Essi sono stranieri nei vari paesi del mondo e cercano di
mantenere legami internazionali nell’ambito della comunità ebraica.
• Il modello dello sviluppo capitalistico
La mentalità capitalistica si afferma in stretta interdipendenza con un complesso di fattori istituzionali che
contribuiscono alla sua formazione e ne sono a loro volta condizionati. Per Sombart gli imprenditori sono
l’elemento catalizzante, coloro che hanno fatto scoccare la scintilla dello sviluppo capitalistico.
Per Sombart lo stato da un contributo cruciale. Lo stato moderno esprime originariamente lo spirito di intrapresa
occidentale e stimola lo sviluppo tecnico che è essenziale per aumentare l’efficienza militare e quindi il suo
rafforzamento. Esso cerca di accrescere la disponibilità di metalli preziosi che aumentano le risorse della finanza
pubblica e quindi la potenza militare.
Lo stato dà un contributo decisivo all’imprenditorialità con il mercantilismo e l’imprenditorialità politica, ma
decisivo è l’incontro tra spirito di intrapresa e spirito borghese, che si manifesta nell’imprenditorialità dal basso,
più specificamente capitalistica. Lo spirito borghese ha un’origine indipendente dallo stato. Si forma infatti sotto
l’influenza culturale della religione cristiana e nell’ambiente particolare delle città europee, segnate dall’esperienza
dei comuni. Lo stato inoltre contribuisce a creare quelle condizioni di esclusione dalla cittadinanza che rendono
eretici, stranieri ed ebrei più sensibili di altri gruppi sociali alla formazione della mentalità capitalistica, in
particolare dello spirito borghese.
Una volta che l’imprenditorialità borghese ha fatto scoccare la scintilla dello sviluppo capitalistico, si determina un
vasto processo di dissolvimento degli antichi ordinamenti economici (delle forme tradizionali di economia
agricola, del lavoro a domicilio nelle campagne e dell’artigianato). Si determina così un processo di
proletarizzazione del lavoro agricolo che libera forza lavoro per la nascente industria moderna.
Nel tempo lo sviluppo capitalistico contribuisce al mutamento dell’ordinamento giuridico e delle politiche statali.
Nella fase di passaggio dall’economia precapitalistica a quella del primo capitalismo il mercantilismo e la
regolazione politica giocano un ruolo rilevante. Nella fase successiva, con l’affermarsi dell’imprenditorialità
capitalistica, aumentano le spinte per un orientamento più liberista dello stato in economia e per il riconoscimento
di un’ampia sfera di libertà economica in cui si possono ora muovere le imprese. La sicurezza del processo
economico si accresce grazie all’azione repressiva dello stato per i traffici illeciti e per l’introduzione di un sistema
monetario che facilita gli scambi. Si afferma così nel XIX secolo il capitalismo maturo.
3.3 Il capitalismo maturo
La fase di piena maturità del capitalismo si conclude con la prima guerra mondiale ed i cambiamenti che
avvengono al suo interno sono tutti da ricollegare al processo di crescente razionalizzazione che investe la vita
economica.
Possiamo valutare gli effetti della razionalizzazione considerando le diverse componenti del sistema economico.
• Lo spirito capitalistico
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La mentalità imprenditoriale è caratterizzata da una trasformazione ideologica che porta alla secolarizzazione dello
spirito capitalistico. La fede è ormai soltanto una questione della domenica mattina, al suo posto si afferma un
concetto moderno borghese-capitalistico del dovere che porta a valutare l’impegno nel lavoro e il rendimento come
fonte primaria del benessere economico e del riconoscimento sociale.
Si ha inoltre una maggiore specializzazione della funzione imprenditoriale che consente di delegare a altri
dipendenti una serie di compiti prima poco differenziati, e permette quindi all’imprenditore di concentrare il suo
impegno in alcune funzioni di direzione strategica. Si assiste ad una deconcretizzazione dell’attività
imprenditoriale (per le origini del capitalismo erano più importanti le componenti normative mentre adesso
prevalgono quelle cognitive, esempio conoscere come muoversi nel mercato finanziario).
Si afferma pure una democratizzazione dell’imprenditorialità in quanto è più facile accedere al ruolo di
imprenditore da tutti i gruppi sociali.
Vanno considerati anche alcuni stimoli negativi che spingono a un maggior impegno per far fronte a nuovi ostacoli
che sono l’inasprimento della concorrenza sul mercato dei beni ed il rafforzamento del movimento operaio che
condiziona il mercato del lavoro.
Sombart sottolinea i positivi contributi che ne possono discendere dal punto di vista dinamico per lo sviluppo
economico. Con le rivendicazioni sindacali e politiche del movimento operaio, non solo migliora l’integrazione
sociale dei lavoratori, ma gli imprenditori sono spinti a innovare continuamente per aumentare la produttività e
compensare così i maggior costi del lavoro.
Vi è poi un potente stimolo positivo che deriva dall’evoluzione della tecnica che genera continue occasioni per
modificare le condizioni di concorrenza perché consente di produrre nuovi beni o di produrre a costi più bassi.
• L’organizzazione del sistema economico
Il rafforzamento dell’imprenditorialità capitalistica spinge sia indirettamente, sul piano politico, che direttamente su
quello economico, verso una maggiore razionalizzazione dei meccanismi regolativi, in modo da aumentare le
possibilità di profitto delle imprese:
- razionalizzazione dell’ordinamento giuridico e intervento dello stato in campo economico: si tratta del
passaggio dalla fase mercantilista a quella liberale sostenuto dalla borghesia imprenditoriale in crescita.
Avviene la separazione tra diritto pubblico e privato, protezione giurisdizionale dei contratti, introduzione di un
sistema monetario razionale;
- razionalizzazione del lavoro: abbiamo già visto come lo sviluppo capitalistico, disgregando l’organizzazione
economica tradizionale delle campagne e quella dell’artigianato urbano, crei un’offerta di lavoro crescente, che
attraverso le migrazioni e l’urbanizzazione alimenta le imprese industriali. Sombart crede che l’esodo verso le
città sia favorito anche per l’attrazione per la libertà individuale e per lo stile di vita urbano che la grande città
offre. Occorreva però adattare i lavoratori dal punto di vista culturale e professionale (cioè delle competenze
tecniche) al lavoro di fabbrica. Sombart riteneva (in dissenso con Weber) che la religione protestante abbia
influenzato maggiormente gli operai rispetto agli imprenditori nell’alimentare in loro l’impegno nel lavoro e la
disciplina. Bisogna dire che si trattava di una fascia ristretta di operai presenti in pochi paesi e che l’influenza
delle idee religiose, nel tempo, si era ridotta sia per i lavoratori che per gli imprenditori. Siccome la
disponibilità di operai qualificati era limitata e rendeva più elevato il costo del lavoro si decise di mutare
radicalmente l’intero processo lavorativo adattando la maggior parte delle operazioni e delle mansioni alla
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capacità della grande massa. Si avvia la decomposizione del lavoro cioè la scomposizione di mansioni
complesse in compiti più elementari che vengono assegnati ad operai non qualificati. Si arriva alla catena di
montaggio ed alla subordinazione del lavoratore alla macchina (come aveva già denunciato Marx). Tutto ciò
venne praticato sotto il nome di taylorismo;
- razionalizzazione dell’azienda: formulazione di una serie di prescrizioni, regole di carattere generale, alle quali
le imprese tendono a conformarsi per adeguare la loro struttura all’obiettivo di una maggiore redditività.
Avviene una spersonalizzazione dell’azienda in quanto l’azienda tende a organizzarsi come una burocrazia,
con una precisa gerarchia dei ruoli e con precise procedure di rapporto tra i vari livelli e le diverse competenze
dell’azienda. Un altro aspetto è costituito dalla condensazione aziendale cioè la crescente concentrazione di
macchine e uomini all’interno dell’azienda per aumentare la capacità di produzione (sfruttamento intensivo
degli strumenti, economie di scala, produzione di beni di massa);
- razionalizzazione del consumo: lo sviluppo economico porta ad una uniformazione dei bisogni dovuta
all’aumento delle comunicazioni, alla crescita della popolazione urbana che migliora le proprie possibilità di
consumo, all’affermazione dei grossi centri di consumo unitari (esercito, ospedali, manicomi, prigioni, grandi
aziende, ecc.). Ma la tendenza all’uniformità dei bisogni è anche dovuta allo strumento della moda che viene
stimolato dalle grandi aziende. La moda, prima limitata a gruppi sociali ristretti della classe alta, tende a
generalizzarsi e a diffondersi più rapidamente nelle nuove condizioni di vita legate all’urbanesimo. L’industria,
influenzando l’andamento della moda, può accelerare il ritmo di introduzione di nuovi prodotti (sfruttando
anche le nuove opportunità offerte dalla tecnica) creando un mercato di massa. Si producono beni di qualità
inferiore che imitano i modelli d’élite imposti dalla moda e richiesti ora da un largo pubblico di consumatori.
Con la maggiore uniformazione dei bisogni e la crescita di un mercato di massa standardizzato la
razionalizzazione capitalistica dell’economia si estende e si consolida. Le grandi aziende burocratizzate
dominano la scena del capitalismo maturo. Questo sistema economico raggiunge il culmine del suo sviluppo.
3.4 Il futuro del capitalismo
Per Sombart, nella razionalizzazione che si afferma nel capitalismo maturo sono però già insiti alcuni germi che
porteranno al declino di questo sistema economico. Essi cominciano a manifestarsi nel periodo successivo alla
prima guerra mondiale che Sombart chiama tardo capitalismo.
Per Sombart lo sviluppo tecnico e l’aumento del capitale fisso non comportano una caduta del saggio di profitto e
una crescente disoccupazione, come per Marx. L’introduzione di nuove tecniche aumenta la produttività e, se i
salari non crescono più di quest’ultima, consente di aumentare i profitti e di destinarli a nuovi investimenti che
possono compensare e assorbire la disoccupazione creata dalla maggiore meccanizzazione. La disoccupazione è
dunque per Sombart di tipo congiunturale, è generata dalla continua ristrutturazione produttiva, ma non è destinata
a crescere strutturalmente fino ad alimentare un processo sociale di tipo rivoluzionario. Inoltre, proprio per far
fronte al problema sociale della disoccupazione, è più in generale alle istanze di miglioramento delle condizioni di
vita e di lavoro degli strati sociali inferiori si affermano in misura crescente sistemi economici che si fondano
sull’economia di piano. Questi implicano un ritorno a un maggior intervento dello stato nell’economica, un
maggior peso del settore cooperativo e forme più estese di regolazione politica dell’economia, sia dirette (attraverso
l’intervento pubblico e la legislazione), sia indirette (attraverso un ruolo più rilevante della contrattazione sindacale
delle condizioni di lavoro). si va insomma verso un capitalismo stabilizzato e regolato. Per Sombart le differenze
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tra questo tipo di sistema economico e un socialismo tecnicizzato e razionalizzato sono molto ridotte. Egli, come
Simmel, Weber e Schumpeter, ritiene che il processo prevalente sia quello della razionalizzazione e della
burocratizzazione. Il socialismo potrebbe solo accentuare queste tendenze, piuttosto che sopprimerle secondo
l’ideale dell’autogoverno dei produttori e del deperimento delle strutture statali.
Il sistema economico capitalistico si indebolisce anzitutto dal suo interno stesso. La mentalità economica vede un
attenuarsi dello spirito di intrapresa e delle sue energie vitali e irrazionali a spese della componente costituita dal
razionalismo (dallo spirito borghese). Nella grande impresa organizzata scientificamente si ha una tendenza
generale alla graduale decadenza della mentalità imprenditoriale.
D’altra parte, l’organizzazione del sistema economico capitalistico è caratterizzata da crescenti restrizioni alla
libera ricerca del massimo profitto. Queste possono essere autoimposte (es. per conseguire maggiore stabilità si
formano cartelli, grandi concentrazioni finanziarie, nate per controllare meglio i mercati o le associazioni di
rappresentanza degli interessi collettivi) oppure imposte dall’esterno (legislazione sociale e del lavoro, controlli sui
prezzi o sulle modalità del processo produttivo, azione dei sindacati per controllare il salario). Tutto questo portava
rigidità nel sistema.
Scrivendo alla vigilia della grande crisi degli anni ’30, Sombart intuisce chiaramente il rilievo che la nuova politica
economica (quella keynesiana) avrebbe avuto per lo sviluppo capitalistico. Essa mirava infatti a stabilizzare
l’economia sostenendo la domanda di beni con la spesa pubblica e con il controllo politico del credito.
L’analisi di Sombart si conclude dunque con una previsione straordinariamente lucida del futuro del capitalismo.
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CAPITOLO 5
CAPITALISMO E CIVILTA’ OCCIDENTALE: MAX WEBER
Nella vasta opera di Max Weber la ricerca sulle origini del capitalismo diventa una ricerca sulle origini del
razionalismo occidentale. Di solito si insiste suo ruolo del protestantesimo nella ricostruzione che Weber fa del
capitalismo. Il suo quadro interpretativo è però più complesso: accanto ai fattori religiosi vanno considerati aspetti
come la città occidentale, lo stato, la scienza razionale.
Sombart si può considerare un sociologo economico in senso stretto, forse il primo nello sviluppo della disciplina.
Ma la personalità scientifica di Weber è più complessa (anche se morì vent’anni prima di Sombart). Sombart aveva
intuito che alle origini dello sviluppo capitalistico vi erano condizioni culturali e istituzionali specifiche
dell’Occidente (religione, stato, esperienza comunale) ma le aveva lasciate sullo sfondo concentrandosi sulle loro
conseguenze per la formazione dell’imprenditorialità e per lo sviluppo economico (concentrandosi sulle
trasformazioni del capitalismo nel corso dell’800 e soprattutto nel nuovo secolo).
Weber invece guarda indietro più che avanti perché non vuole lasciare un cono d’ombra su quel complesso di
condizioni culturali e istituzionali legate alle origini del capitalismo occidentale. La sua ricerca sulle origini del
capitalismo diventa dunque una ricerca sulle origini del razionalismo occidentale. Weber è sensibile per la pluralità
delle cause che influenzano i fenomeni sociali e per le interdipendenze che rendono fuorviante qualsiasi analisi
unidirezionale dei flussi causali.
1. LE PRIME RICERCHE SULLA SOCIETA’ TEDESCA
Weber nasce nel 1864 da una famiglia della borghesia tedesca ed insegna economia all’Università di Friburgo. Egli
si orientò verso un liberalismo più radicale (era contrario al liberalismo tradizionale che portava la borghesia debole
a compromessi con le vecchie classi dominanti costituite dall’aristocrazia agraria, gli junker prussiani).
La sua formazione fu influenzata dallo storicismo allora imperante nella cultura e nell’università tedesca e tale
coinvolgimento lo portò ad attività di ricerca sulla società tedesca ed in particolare sul lavoro agricolo (per tutta la
prima metà degli anni ’90).
Questi studi furono rilevanti perché in essi cominciano a prendere corpo le idee di Weber sulle origini del
capitalismo (le basi per il passaggio da un’indagine microsociologica a quella macrosociologica sul capitalismo
occidentale).
Weber rimase colpito dalla tendenza dei lavoratori impegnati nelle tenute dei grandi proprietari (junker) a lasciare
la condizione di contadini fissi, legati più stabilmente all’azienda, per quella di salariati, o addirittura a emigrare.
Questo orientamento non era spiegabile con motivazioni strettamente economiche (i contadini fissi avevano
condizioni migliori della manodopera salariata stagionale e coloro che emigravano non venivano in prevalenza
dalle aree dove la manodopera era sovrabbondante e i salari più bassi). I lavoratori agricoli volevano piuttosto
liberarsi dai pesanti rapporti di dipendenza nei riguardi degli junker, nonostante la perdita di sicurezza economica
che ciò comportava nell’immediato.
Studiando la società tedesca Weber fu colpito dal problema delle differenze territoriali dello sviluppo economico:
quelle interne alla Germania, ma anche tra la Germania e altri paesi, specie anglosassoni.
Dopo la sua crisi psichica (1897 – 1903) che lo aveva allontanato dall’insegnamento egli si occupa del problema
delle differenze di sviluppo interne alla Germania. Andando verso sud-ovest predomina la piccola proprietà
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contadina appoderata e le coltivazioni sono più diversificate; andando verso nord-est prevalgono invece le proprietà
fondiarie e le coltivazioni estensive di grano, barbabietole, patate. Questa differenza per Weber la si deve alle
trasformazioni intervenute all’inizio dell’800 quando furono aboliti gli obblighi feudali e nel sud-ovest la terra finì
in gran parte nelle mani dei contadini, mentre nel nord-est rimase ai proprietari fondiari che cominciarono a gestire
le tenute con lavoro libero. Ma le origini si possono trovare anche precedentemente, nel Medioevo.
Ma perché i contadini de nord-est non furono in grado di stimolare una trasformazione simile a quella del sud-
ovest?
Per Weber determinante fu il ruolo delle città che erano più fitte nel sud-ovest e che educarono il contadino a
vendere i prodotti agricoli nei più vicini mercati locali. Non solo questo, la città esercitava un’influenza su un
fattore chiave per lo sviluppo: l’imprenditorialità.
Le considerazioni di Weber contengono un’implicazione teorica molto importante. Se si vogliono comprendere le
differenze di sviluppo tra varie aree, non ci si può limitare a prendere in esame la dotazione di risorse naturali o il
capitale disponibile, trattando come invariante l’attitudine imprenditoriale, ovvero la capacità dei soggetti di
combinare efficacemente le risorse. L’attività imprenditoriale in questo caso non è considerata una costante, ma una
variabile che dipende dal contesto istituzionale in cui i soggetti sono inseriti.
2. FORMAZIONE DELL’IMPRENDITORIALITA’
Come si formano orientamenti culturali favorevoli alla crescita dell’imprenditorialità?
La tesi di Weber è che occorre guardare all’influenza della religione protestante sulla diffusione di un’etica
economica che alimenta a sua volta lo spirito del capitalismo. Essa si sviluppa in due celebri saggi:
- L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904 – 1905);
- Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo (1906).
Stranamente nell’Etica Weber non fa un collegamento esplicito tra protestantesimo e città ma abbiamo già visto
come il tema della città fosse già all’attenzione di Weber per cui possiamo supporre che con gli studi sul
protestantesimo egli voglia chiarire meglio attraverso quali meccanismi culturali e istituzionali il contesto urbano
favorisca la formazione delle motivazioni di un’imprenditorialità specificamente capitalistica.
L’interesse per le motivazioni degli attori si comprende anche alla luce della riflessione metodologica che Weber
andava facendo negli stesi anni in polemica sia con lo storicismo che con la sociologia positivista e con Marx.
Resta comunque il fatto che la mancata esplicitazione del rapporto tra città, gruppi sociali urbani e protestantesimo
nell’Etica e nelle Sette ha favorito interpretazioni riduttive della tesi di Weber sul ruolo delle idee religiose. Ma
vediamo come si articola tale tesi.
2.1 Lo spirito del capitalismo
Weber considera lo spirito del capitalismo come un tipo ideale (idealtipo) e non lo identifica affatto con l’impulso
acquisitivo in quanto sostiene che l’avidità di denaro è sempre esistita ed è presente anche nelle società
precapitalistiche; anzi in questi contesti la ricerca del profitto è ancor più spregiudicata perché non vincolata da
norme etiche. Ciò non porta però al superamento del tradizionalismo economico.
Per capire meglio le novità introdotte dallo spirito del capitalismo occorre definire sempre in termini idealtipici
l’orientamento economico tradizionalistico, che ha due aspetti principali:
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- il profitto non è pienamente giustificato dal punto di vista etico, ma è tollerato, ed è per questo che la sua
ricerca avviene prevalentemente nei rapporti con gli estranei alla famiglia e alla comunità locale e con gli
stranieri;
- l’acquisitività si manifesta nel commercio, o nella guerra, nella pirateria e in genere in un “capitalismo
d’avventura” ma non investe invece la sfera della produzione, che resta governata da routine tradizionali.
Weber critica Sombart per non aver riconosciuto che il carattere tradizionalistico dello spirito economico può
essere proprio anche di un’economia già organizzata in forma capitalistica (dove gli imprenditori si
accontentano di un livello tradizionale di profitto, mantengono i rapporti con i fornitori, clienti e lavoratori
sulla base di tradizioni consolidate e gli operai lavorano solo per coprire i bisogni tradizionali).
Lo spirito del capitalismo si differenzia per profondi mutamenti che investono entrambe le dimensioni sopra
considerate:
- la ricerca del profitto, invece di essere svincolata da norme etiche o di essere tollerata, così come ispirato dalla
Chiesa nel Medioevo, diventa giustificata e sollecitata sul piano etico. L’impegno nel lavoro diventa un dovere
etico ed il profitto deve essere reinvestito in attività produttive e non impiegandolo per accrescere il patrimonio
familiare o per il solo “godimento spensierato”;
- l’acquisitività si manifesta ora nell’organizzazione razionale del processo produttivo. Il tradizionalismo prima
descritto di alcuni imprenditori e lavoratori viene travolto da una nuova imprenditorialità fortemente motivata a
combinare in modo più efficiente i fattori produttivi; essi vengono dal basso, non dispongono di molto
capitale, ma solo di quantità limitate di denaro, spesso prestate dai parenti.
Proprio per questi motivi Weber conclude che “la ricerca delle forze motrici dell’espansione del capitalismo
moderno non è in primo luogo una ricerca sull’origine delle riserve di denaro da impiegare capitalisticamente, ma è
soprattutto una ricerca sullo sviluppo dello spirito del capitalismo”. Vediamo come si è formato tale spirito.
2.2 L’etica economica del protestantesimo
Per Weber la diffusione dello spirito del capitalismo può essere vista come una conseguenza non intenzionale
dell’etica economica del protestantesimo, e in particolare della componente calvinista (si riferisce al
protestantesimo ascetico che include quattro correnti principali: calvinismo, metodismo, pietismo e sette battiste).
Più che fare una dimostrazione causale il sociologo tedesco cerca di sottolineare le affinità elettive esistenti tra i
due fenomeni.
Un aspetto fondamentale del credo calvinista è l’idea di predestinazione. Gli uomini sanno soltanto che alcuni si
salveranno ed altri saranno condannati. Gli eletti sono predestinati cioè sono stati scelti da Dio al momento della
creazione e il loro destino non può essere modificato. Non è possibile cambiarlo con le proprie azioni e non è
possibile conquistare la salvezza con mezzi “ecclesiastico-sacramentale” (negano che la grazia possa essere
riacquistata con la confessione e la comunione come sostiene la Chiesa cattolica). Nemmeno il pentimento
personale può far ottenere la salvezza nell'aldilà.
Il calvinismo determina una tremenda solitudine del credente. Nessuno può aiutarlo ad acquisire la salvezza,
nessuna chiesa, nessun prete, nessun sacramento. Sarebbe pertanto plausibile che come reazione si sviluppasse un
orientamento improntato al fatalismo e alla passività, data l’impossibilità di modificare il destino individuale. Ma
proprio qui si manifesta un paradosso su cui Weber attira l’attenzione: invece del fatalismo perché matura un
orientamento all’azione e all’innovazione in campo economico?
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Vediamo come il credo calvinista favorisca, come conseguenza non intenzionale, lo spirito del capitalismo:
- l’idea di predestinazione genera angoscia e bisogno psicologico di rassicurazione
- al credente si consiglia di comportarsi come se fosse eletto e di impegnarsi in modo rigoroso nel mondo con il
proprio lavoro
- il successo della propria attività professionale finisce allora per essere interpretato come un segno di elezione e
ciò spinge ad impegnarsi ancora di più per mantenere e rafforzare tale condizione.
L’etica protestante oltre a considerare la ricerca del profitto come dovere etico condannava il consumo di lusso e
dei piaceri con l’ottenimento di un orientamento verso l’attività economica che favorisce la formazione del capitale
attraverso la costrizione ascetica al risparmio.
Weber integrò queste considerazioni con altre svolte nel saggio su Le sette protestanti. Negli Stati Uniti vide tracce
ancora consistenti dell’influenza delle sette protestanti nella ricca rete associativa. Egli sottolinea la profonda
differenza per il comportamento individuale che discende dall’essere membro di una chiesa o di una setta: nel
primo caso, corrispondente all’esperienza storica della chiesa cattolica, si è in presenza di un’associazione che
amministra la grazia (l’accesso ai beni religiosi garantisce la salvezza con pretese di obbligatorietà per tutti), la
setta invece è un’associazione volontaria che raggruppa coloro che per la loro condotta appaiono qualificati dal
punto di vista etico-religioso. Nella chiesa si nasce mentre nella setta si è ammessi. Ma per diventare membri
occorre mostrare di essere osservanti di determinate norme ed occorre confermare tali comportamenti nel tempo. Si
determina un interesse anche materiale a mantenere un comportamento eticamente qualificato (l’esclusione da una
setta è economicamente penalizzante per i singoli perché determina una carenza di fiducia che ostacola, per
esempio, la possibilità di ottenere credito).
Weber ha dunque mostrato le affinità elettive tra etica protestante e spirito del capitalismo ed è consapevole di non
aver presentato una dimostrazione causale del rapporto tra i due fenomeni perché ciò avrebbe richiesto, per
esempio, un tentativo di verificare meglio a livello territoriale la correlazione tra protestantesimo e diffusione del
capitalismo, o anche di indagare l’influenza effettiva del credo religioso sul comportamento dei singoli
imprenditori. Egli utilizza invece i testi pastorali protestanti per esplorare le somiglianze tra etica protestante e
spirito del capitalismo.
Weber sottolinea anche che l’influenza del protestantesimo è rilevante per la fase della genesi del capitalismo ma si
attenua successivamente. Dopo che il sistema capitalistico si è affermato e consolidato, i vincoli posti dal mercato
agli imprenditori e ai lavoratori orientano, in misura crescente, i comportamenti, stimolando quell’utilitarismo sul
quale attira l’attenzione la teoria economica (vedremo più avanti parlando del futuro del capitalismo secondo
Weber).
La tesi di Weber sul ruolo del protestantesimo nello sviluppo del capitalismo è stata oggetto di un intenso dibattito.
Egli stesso nella Sociologia della religione risponderà alle critiche dicendo che la ricerca sulle origini dello spirito
del capitalismo non coincide con quella delle cause dello sviluppo capitalistico, che sono ben più complesse.
Weber allargherà successivamente il quadro delle sue ricerche prendendo in considerazione altri fattori istituzionali
che concorrono, insieme allo spirito del capitalismo, a favorire lo sviluppo del sistema economico capitalistico.
Sarà chiarito meglio il rapporto tra protestantesimo e città nella formazione dell’imprenditorialità capitalistica.
3. CARATTERI E ORIGINI DEL CAPITALISMO MODERNO
3.1 La definizione del capitalismo moderno
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Per capire come Weber definisce il capitalismo moderno dobbiamo ricorrere a due sue opere: Economia e società e
Storia economica.
Facendo riferimento a queste fonti è possibile ricostruire il concetto di capitalismo moderno come forma di
organizzazione economica che consente il soddisfacimento dei bisogni attraverso imprese private che producono
beni per il mercato sulla base di un calcolo di redditività del capitale da investire (aspettativa di profitto) e che
impiegano forza lavoro salariata formalmente libera.
Tre sono gli elementi importanti che distinguono il capitalismo moderno da altri tipi o da altre forme di
organizzazione:
1) il soddisfacimento dei bisogni tramite il mercato (e non copertura del fabbisogno di una famiglia o di una
comunità locale);
2) la razionalizzazione del calcolo del capitale (tenuta razionale dei conti e separazione giuridica tra impresa e
patrimonio familiare dell’imprenditore);
3) l’organizzazione razionale del lavoro salariato formalmente libero (permette di calcolare in anticipo il costo
dei prodotti).
Weber come già detto sosteneva che la ricerca del profitto è sempre esistita ma ciò che la distingue nel capitalismo
moderno è che tale ricerca non solo avviene attraverso un calcolo più sistematico e razionale di quello realizzabile
nelle forme di capitalismo tradizionale, ma soprattutto si concentra nella sfera della produzione per il mercato con
forza lavoro salariata.
Per Weber esistono due forme tradizionali di capitalismo:
- economico: commerciale, creditizio, di borsa;
- politico: di guerra, di avventura, pirateria
Ma il vero tratto distintivo del capitalismo moderno è il capitalismo industriale: una forma di organizzazione
economica che sfrutta opportunità di profitto determinatesi nel mercato dei beni con attività che si localizzano nella
sfera della produzione. Weber, in accordo con Marx, sostiene che non ci può essere capitalismo moderno senza
classe operaia. Inoltre sostiene che il capitalismo moderno è proprio dell’Occidente.
Nella Storia economica (si basa sulle lezioni tenute a Monaco poco prima della sua morte nel 1920) troviamo una
serie di presupposti del capitalismo moderno:
1) l’appropriazione dei mezzi di produzione da parte dell’imprenditore;
2) la libertà di mercato: cioè che non operino vincoli di natura culturale e politica al consumo di determinati beni
(libertà mercato per tutti i fattori produttivi: terra, capitale, lavoro);
3) esistenza di forza lavoro libera: consente di anticipare con precisione il costo del lavoro necessario per
determinati investimenti;
4) una tecnica razionale: che permetta una produzione per il consumo di massa che è componente essenziale del
capitalismo moderno;
5) la commercializzazione dell’economia: cioè la disponibilità di strumenti giuridici come le azioni e i titoli di
credito che facilitano la separazione tra patrimonio familiare e patrimonio dell’impresa ed inoltre favoriscono la
trasferibilità del capitale;
6) un ordinamento giuridico che riduca i rischi e renda più prevedibili le relazioni tra privati e tra questi e la
pubblica amministrazione.
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Questi presupposti hanno carattere idealtipico e Weber sa bene che tali condizioni non si sono mai pienamente
affermate; ed è questo che limita la validità empirica della teoria economica neoclassica che le considera invece
come pienamente operanti ai fini del funzionamento dei suoi modelli analitici. Per Weber sono solo uno strumento
per misurare il grado di avvicinamento dell’economia concreta al modello idealtipico dell’economia di mercato
capitalistica nel suo stadio iniziale.
In tal modo Weber può cercare di spiegare meglio perché i capitalismo moderno è un fenomeno tipicamente
occidentale e perché all’interno dell’Occidente il fenomeno si sia manifestato con diversa intensità.
3.2 Le condizioni del capitalismo moderno
Perché i caratteri del capitalismo moderno si sono affermati in Occidente?
Per Weber ci sono:
- fattori complementari, non necessariamente occidentali, ai quali non attribuisce un ruolo decisivo (le vicende
belliche, le conquiste coloniali e l’afflusso di metalli preziosi, la domanda di beni di lusso delle corti, le
condizioni geografiche favorevoli);
- fattori specificamente occidentali: si tratta di condizioni specificamente occidentali che sono di due tipi:
- culturali: riguardano l’influenza dell’etica economica di origine religiosa sulla formazione
dell’imprenditorialità;
- istituzionali: la città occidentale, lo stato razionale e la scienza razionale.
È da notare che tanto la variabile culturale quanto quelle istituzionali sono in ultima istanza condizionate da fattori
di tipo religioso.
Vediamo i fattori occidentali singolarmente.
• L’etica economica
Le condizioni culturali sono centrate sull’etica economica. Su questo aspetto aveva già lavorato (rapporto tra
protestantesimo e spirito del capitalismo) ma nei successivi studi di sociologia della religione comparata egli
integra e ridefinisce la prospettiva originaria in più direzioni:
- sottolinea il ruolo causale dell’etica economica per lo sviluppo capitalistico occidentale mostrando che le
religioni non cristiane prevalenti altrove avessero alimentato un orientamento economico sfavorevole al
capitalismo moderno;
- attenua il peso attribuito all’idea di predestinazione rispetto a quella di vocazione-professione, e soprattutto
enfatizza maggiormente il ruolo delle sette protestanti accanto al contributo dato dal cristianesimo al processo
di demagizzazione e alla razionalizzazione della condotta di vita.
Esaminiamo più da vicino, anche se in modo sintetico, questi aspetti seguendo gli spunti offerti dalla Storia
economica.
Tutte le etiche economiche sono state a lungo caratterizzate dal tradizionalismo, cioè dal rispetto per le pratiche
produttive e commerciali tramandatesi nel tempo. Naturalmente, il carattere sacro della tradizione è di solito
rinforzato dagli interessi materiali di coloro che sarebbero colpiti dall’innovazione economica (principi, burocrati,
proprietari terrieri, ecc.). Tuttavia, le resistenze al cambiamento saranno tanto più forti quanto più la tradizione è
legittimata dalla magia cioè si creda che il mondo sia dominato da potenze soprannaturali per cui qualsiasi
innovazione è scoraggiata dal timore di una reazione degli spiriti.
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Questa situazione cominciò a mutare con il superamento delle società primitive frammentate e l’emergere delle
religioni mondiali in grandi imperi burocratici (a partire dal V secolo a.C.: i confucianesimo in Cina, il buddismo
in India, la filosofia etica greca, l’ebraismo in Palestina, e più tardi il cattolicesimo e l’islamismo).
Una conseguenza fondamentale di questo cambiamento è la separazione tra un mondo naturale e soprannaturale.
Il destino individuale non è più affidato al capriccio degli spiriti ma appare ora condizionato dalla capacità degli
uomini di conformarsi ai precetti morali imposti dalle divinità che vivono nel mondo soprannaturale. Per spezzare
la magia e imporre una razionalizzazione della condotta di vita l’unico mezzo di tutte le epoche sono le grandi
profezie (i fondatori delle nuove religioni sono dei profeti, figure carismatiche alle quali sono attribuite qualità
personali straordinarie: Zaratustra per il buddismo, Gesù per il cattolicesimo, Maometto per l’islamismo. Essi
annunciano la necessità di obbedire a determinati comandi divini e pongono nuove dottrine religiose attirando il
consenso delle masse).
Le grandi religioni hanno due importanti conseguenze:
- la demagizzazione: contribuiscono alla riduzione dell’influenza della magia e quindi pongono i presupposti per
una spiegazione razionale del mondo naturale sulla quale potrà crescere la scienza e la tecnica;
- sono più universalistiche delle religioni primitive a connotazione magica (erano confinate a gruppi sociali
ristretti quali la famiglia, la tribù, la stirpe). Le grandi religioni considerano le proprie divinità come le uniche
degne di venerazione ed hanno quindi una pretesa universalistica. Dal punto di vista economico questo ha
importanti implicazioni perché incide sulle possibilità di superamento del dualismo etico.
Come abbiamo visto l’esistenza di una doppia morale è tipica del tradizionalismo economico in cui vi è un’etica
interna (che si applica ai membri della famiglia, del gruppo parentale, della tribù) ed esclude il perseguimento del
profitto basandosi sulla reciprocità, sull’aiuto fraterno e sul prestito gratuito; ed un’etica esterna (nei riguardi di
coloro che sono estranei alla solidarietà primaria) sancita religiosamente che prevede invece la possibilità di
ricercare il profitto nelle transazioni economiche senza alcun vincolo etico.
Sappiamo che per Weber non ci può essere uno sviluppo del capitalismo moderno senza un superamento di questo
dualismo etico tipico del tradizionalismo.
Non tutte le religioni contribuiscono però allo stesso modo al processo di riduzione della magia e del dualismo
etico.
Esistono due tipi di profezia:
- quella esemplare: il profeta non si presenta come mediatore di Dio ma indica con l’esempio la via della
salvezza e non pretende obbedienza dalle masse (Buddha in India indica con il suo esempio che chi vuole
salvarsi deve uscire dalla vita mondana e dedicarsi alla vita contemplativa. Ma ciò è il frutto di una libera scelta
perché non tutti devono accedere al Nirvana dopo la morte per cui solo nuclei limitati di intellettuali
religiosamente qualificati seguono la strada indicata facendosi monaci ed eremiti mentre le masse rimangono
in preda alla magia e al tradizionalismo);
- quella etica: tipica dell’ebraismo e del cristianesimo in cui il profeta si presenta come mandato da Dio a
predicare dei comandamenti per i quali richiede a tutti (sia agli intellettuali che alle masse) obbedienza come un
dovere morale. Solo conformandosi all’etica prescritta si può accedere alla salvezza nell’aldilà.
Le religioni a profezia esemplare danno un contributo limitato al processo di demagizzazione ed al superamento del
dualismo etico.
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In India la profezia esemplare porta le élite intellettuali verso il disimpegno dalla vita attiva e lascia le masse in
preda alla magia e agli effetti paralizzanti del sistema castuale (secondo la dottrina della reincarnazione soltanto il
rispetto rigoroso degli obblighi di casta, che scoraggiano qualsiasi innovazione economica, permette di reincarnarsi
in una posizione migliore).
In Cina, manca una vera e propria profezia: il confucianesimo non è una religione di redenzione che prevede la
salvezza nell’aldilà ma prevede una serie di precetti etici che prescrivono un comportamento adattivo di rispetto
della tradizione lasciando intatte una serie di credenze magiche con effetti scoraggianti sulla razionalizzazione del
comportamento economico.
Weber non manca di mettere in evidenza come esse fossero sostenute dagli interessi di alcuni soggetti e gruppi
particolari: es. l’imperatore ed i suoi funzionari, i mandarini, in Cina; i principi e i sacerdoti, brahamani, in India.
Ma le idee religiose acquisiscono, nel tempo, una specifica autonomia che a sua volta tende a influire sul
comportamento dei gruppi sociali e sullo sviluppo economico.
Israele è la terra dove si afferma la profezia etica. I profeti richiedono obbedienza in nome di un Dio trascendente e
interpretano fortune e sventure del popolo in relazione alla fedeltà a una divinità che è però ancora presentata come
il Dio d’Israele. Ciò fa sì, secondo Weber, che la razionalizzazione della condotta e il superamento della magia,
come prodotti della profezia etica, si accompagnino al persistere di un dualismo etico. È per questo motivo che egli
critica la tesi di Sombart sul ruolo degli ebrei nello sviluppo del capitalismo moderno. Gli ebrei dopo la dispersione
in vari paesi sono posti al di fuori della comunità politica e ciò li spinse a praticare delle attività economiche su
basi rigidamente tradizionalistiche (attività commerciali e finanziarie, quindi credito ed usura, nei riguardi dei
privati e degli stati) ma che escludevano il formarsi di quello spirito del capitalismo eticamente vincolato che è alla
base del capitalismo moderno, in particolare di quello industriale.
Per Weber il contributo dell’ebraismo al capitalismo moderno è importante ma più indiretto. Esso va cercato nella
profezia etica di Gesù che si batte contro il clero ebraico, asservito agli interessi economici e politici, e predica la
fratellanza universale (tutti gli uomini sono fratelli in quanto figli di dio); in questo modo rompe i confini ristretti
dell’identità religiosa ebraica e pone le basi di una prospettiva etica universalistica. La religione cristiana può così
diffondersi e unificare il mondo occidentale.
La riduzione della magia e del dualismo etico trovano ancora dei limiti nella Chiesa cattolica che istituzionalizza il
carisma di Cristo: essa si pone come amministratrice dei beni di salvezza, attraverso i sacramenti (confessione,
comunione) si può riacquistare lo stato di grazia perduto con i peccati. In tal modo, per Weber, persiste
un’influenza di strumenti magici che tendono ad attenuare la responsabilità individuale e la razionalizzazione della
condotta.
La chiesa mantiene una differenziazione tra etica dei virtuosi (i monaci) e etica delle masse che comporta una
forma, seppure attenuata, di dualismo etico: i monaci attuano un processo di razionalizzazione della condotta che
resta però fuori dalla vita attiva e dal mondo (ascesi extramondana); per le masse dei fedeli invece la spinta alla
razionalizzazione della condotta resta più contenuta.
Per Weber è solo con la Riforma che questi limiti vengono definitivamente superati, specie con il calvinismo (viene
eliminato l’uso di mezzi magici per l’acquisizione della grazia, cioè i sacramenti). All’ideale dell’ascesi
extramondana si sostituisce ora quello dell’ascesi intramondana (cioè l’impegno attivo nel mondo come strumento
per realizzare i precetti religiosi).
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Weber non ritorna però sull’idea di predestinazione come tramite specifico per la formazione dello spirito del
capitalismo ma nella Storia economica egli insiste piuttosto sull’idea di vocazione-professione e sul ruolo delle
sette come forma di organizzazione religiosa che stimola la formazione di orientamenti verso la produzione e il
consumo favorevoli allo spirito del capitalismo.
Ma la nuova etica economica è solo un elemento che contribuisce all’imprenditorialità, dobbiamo adesso parlare
della formazione della borghesia urbana nella città occidentale.
• La città occidentale
La città occidentale ha per Weber una caratteristica peculiare che si manifesta già nella polis greca, ma che si
ritrova nella sua forma più netta nel comune dell’Europa medievale: solo in questa esperienza essa assume il
carattere di una comunità politica unitaria dove si afferma il diritto di cittadinanza, i cittadini hanno propri tribunali
e proprie autorità politiche elette dai cittadini stessi.
Fuori dall’Occidente tali caratteristiche, nelle città, sono soltanto temporanee e, pur essendo normalmente sede di
commercio e di industria, essa rimane politicamente dipendente da un signore fondiario o da un principe detentore
del potere politico per cui i suoi abitanti non hanno mai goduto di un diritto specifico in quanto cittadini.
La città occidentale avrà importanti conseguenze per lo sviluppo dello stato razionale e del capitalismo.
La formazione della città occidentale è stata favorita da due fattori:
- politico-militare: la città occidentale ha una connotazione militare di associazione di difesa costituita da tutti
coloro che sono in grado di portare le armi e di provvedere al loro addestramento ed equipaggiamento per le
attività belliche (altrove invece l’organizzazione militare è in genere strutturata verticalmente e si basa sulle
armi fornite da un principe). Weber parla anche di una differenza anche dovuta ad origini di tipo economiche
(es. in Egitto ed in Cina la necessità di regolare le acque per l’irrigazione ha spinto precocemente verso grandi
unità politico-amministrative;
- di natura religiosa: il cristianesimo ha portato al superamento del dualismo etico che caratterizza le esperienze
di altre parti del mondo. Si ha così il superamento del tradizionalismo economico con l’abbattimento delle
barriere alle relazioni sociali.
Quali conseguenze ha la città occidentale per la formazione dei presupposti del capitalismo moderno?
Essa li influenza tutti:
- direttamente: allargamento del mercato e commercializzazione, liberazione della forza lavoro, appropriazione
nelle mani dell’imprenditore dei mezzi di produzione:
- indirettamente: formazione dello stato razionale e della scienza e quindi rispettivamente del diritto razionale e
della tecnica razionale.
La città occidentale del Medioevo, come comunità politica autonoma, deve trovare mezzi propri di sussistenza, non
potendo contare sulla redistribuzione di risorse di natura militare o amministrativa tipica della città non occidentale.
La rottura del dualismo etico e il superamento dei vincoli di stirpe o di casta si esprime nello status giuridico di
liberi cittadini (motto tedesco: “l’aria della città rende liberi”).
Il primo contributo rilevante della città ai presupposti del capitalismo riguarda l’allargamento del mercato: ciò
avviene inizialmente attraverso lo sviluppo del commercio che le città, come comunità politiche autonome,
adottano per incrementare le proprie possibilità di sostentamento. Per fare questo le città medievali sono spinte
molto presto a sperimentare nuovi strumenti che favoriscono la commercializzazione della vita economica (la
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lettera di cambio, come forma di organizzazione del credito all’impresa e quindi un tipo di attività bancaria che
caratterizza esclusivamente l’esperienza occidentale).
La borghesia cittadina, commerciale e artigianale, che così si sviluppa entra in conflitto con l’organizzazione
economica originaria delle campagne basata sulla signoria fondiaria (cioè con le strutture feudali). La città maturerà
un interesse a liberare i contadini dagli obblighi feudali non solo per accrescere il mercato dei suoi prodotti e
garantirsi una più ampia e sicura fonte di approvvigionamento dei prodotti agricoli, ma anche per reperire
manodopera per il lavoro a domicilio affidato da mercanti-imprenditori urbani. Vi è infine un interesse dei gruppi
urbani più abbienti a liberare la terra dai vincoli feudali rendendola commerciabile.
La città contribuisce anche indirettamente a questo in quanto, in un contesto economico stimolato dalle attività e
dai traffici promossi dalle città, i signori fondiari sono più spinti a cogliere le opportunità che si aprono nel mercato
e quindi tendono a razionalizzare le loro aziende in direzione capitalistica (affinità con Smith).
Weber distingue tra due tipi di feudalesimo:
- fiscale (o burocrazia patrimoniale): si tratta dei grandi imperi burocratici (Egitto, Cina, Mesopotamia) in cui
prevale una burocrazia di funzionari direttamente dipendenti dal sovrano. Quando si sviluppa l’economia
monetaria, di fronte alle difficoltà di riscossione dei tributi, la burocrazia civile o militare può a volte assumere
un carattere feudale, cioè avere in appalto la riscossione dei tributi e può ricevere la signoria fondiaria su un
certo territorio. Può nascere anche per l’amministrazione centralizzata delle acque per l’irrigazione. Questo
tipo di feudalesimo scoraggia la formazione della città e quindi il capitalismo moderno,
- contrattuale occidentale: nasce da una concessione in cambio di prestazioni militari da parte di un ceto di
cavalieri capaci di autoequipaggiamento dal punto di vista militare. Esso presuppone dunque una fragilità
militare della struttura statuale e presuppone obblighi di fedeltà reciproca tra il sovrano e i beneficiari. È vero
che tali vincoli sono di ostacolo al capitalismo ma Weber nota anche la maggiore stabilità dell’ordinamento
giuridico e dei diritti patrimoniali favorisce in questo caso una lenta trasformazione in senso borghese,
attraverso una conduzione di tipo capitalistico dell’azienda signorile (grazie anche all’allargamento del mercato
ed alle opportunità economiche offerte dalla città).
Parliamo adesso di un altro importante presupposto del capitalismo moderno: l’appropriazione nelle mani
dell’imprenditore dei mezzi di produzione. Il punto di partenza del processo di può individuare nel progressivo
indebolimento delle corporazioni su cui si era basata la vita economica delle città medievali (i suoi membri
dovettero lottare per acquisire, per via rivoluzionaria o dietro indennizzo, i privilegi prima concessi dai detentori
del potere politico per esercitare determinate attività). Si trattava di un “gruppo di regolazione dell’economica che
si sforzava con tutti i mezzi di creare uguali opportunità a tutti i suoi membri” (a tale scopo venivano regolati il
processo di produzione, l’organizzazione del lavoro, i rapporti con il mercato).
Tuttavia, alla fine del Medioevo sono visibili processi di differenziazione sia all’interno che tra le diverse
corporazioni: in alcune corporazioni singoli artigiani si trasformano in mercanti-imprenditori che affidano lavoro
ad altri membri; in altri casi alcune corporazioni si orientano in direzione commerciale e costringono altre al loro
servizio. Si forma così la figura del mercante-imprenditore che alimenta il lavoro a domicilio coinvolgendo anche i
contadini, per esempio nella tessitura. In questo si possono cogliere i prodromi del processo di appropriazione dei
mezzi di produzione nelle mani dell’imprenditore, anche se in stato ancora embrionale (oltre a fornire la materia
prima molte volte vengono forniti anche i macchinari, ma si tratta di capitale fisso ancora a bassa intensità).
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Prima di vedere il passaggio successivo, quello dell’emergenza della fabbrica con capitale fisso e organizzazione
razionale del lavoro libero, è necessario accennare agli altri presupposti del capitalismo moderno che tale passaggio
richiede.
Altro importante presupposto fu lo sviluppo della scienza razionale in Occidente al quale si collega lo sviluppo
della tecnica razionale. Le istituzioni in cui si sviluppano, come le università, trovano sostegno dapprima nella
politica delle città e poi in quella degli stati nazionali. Si ha così un importante stimolo all’applicazione della
scienza sul piano produttivo (lo sfruttamento del carbon fossile porta alla meccanizzazione, scoperta della macchina
a vapore, e successivamente favorisce una produzione di massa a più basso costo).
• Stato e diritto razionale
Un presupposto essenziale del capitalismo moderno è il diritto razionale, che nasce dallo stato razionale, che dà
maggiore prevedibilità ai rapporti tra i soggetti impegnati in attività economia (che hanno investito ingenti capitale
fisso) e tra questi e la pubblica amministrazione. Lo stato razionale si fonda su un ordinamento giuridico che regola
le modalità di accesso al potere politico e quelle del suo esercizio, inoltre si avvale di un corpo di funzionari
specializzati anch’essi sottoposti alla legge sia per il loro reclutamento che per la loro attività.
Queste caratteristiche dello stato occidentale si sono formate attraverso un lento processo di razionalizzazione
grazie a tre fattori:
1) l’influenza del processo di demagizzazione che ha reso possibile un intervento razionale del potere politico per
affrontare problemi rilevanti che si ponevano nella società (si arriverà allo stato di diritto attraverso
l’elaborazione del diritto di cittadinanza);
2) l’influenza del diritto romano: con la caduta dell’impero romano, il diritto era stato conservato soprattutto per
merito dei notai delle città italiane che lo avevano adattato ai problemi della commercializzazione della vita
economica e inoltre nell’ambito delle università, dove si era formata una dottrina giuridica sistematica. Il diritto
romano era importante per il suo formalismo giuridico che costituiva un importante antidoto nei riguardi di una
giustizia orientata in senso sostanziale e quindi esposta all’arbitrio. Nel processo di creazione degli stati
assoluti i sovrani trovarono dunque nel diritto formale di origine romana un importante strumento per
promuovere la centralizzazione politico-amministrativa attraverso l’unificazione giuridica, grazie al lavoro di
un corpo di giuristi. Si formò così un diritto calcolabile che favorì indirettamente il capitalismo perché
contribuì a introdurre quegli elementi di prevedibilità di cui quest’ultimo aveva bisogno e che non furono mai
presenti in misura sufficiente fuori dall’Occidente (ricordiamo che Weber parla anche di altri presupposti come
la liberazione della forza lavoro, lo sviluppo del credito e del sistema monetario razionale). Weber fa notare
come il destino delle città occidentali sia stato diverso da quello di altre che le avevano precedute in quanto,
pur perdendo le libertà originarie, esse non sono cadute nelle mani di una grande unità politica, bensì di un
insieme di stati in concorrenza tra loro. Questo conflitto concorrenziale determinò le massime opportunità per il
moderno capitalismo occidentale;
3) il diffondersi del protestantesimo che trova nella città basi sociali adatte alla sua diffusione e contribuisce a sua
volta a formare una borghesia capitalistica.
Ciò che in definitiva ha creato il capitalismo è l’impresa razionale durevole, la contabilità razionale, la tecnica
razionale, il diritto razionale, la razionalizzazione della condotta di vita.
4. IL CONTRIBUTO TEORICO DI WEBER
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Per Weber il compito della teoria nelle scienze sociali non può essere quello di formulare leggi generali di
sviluppo. La sua non è dunque una teoria dello sviluppo economico in generale, ma la costruzione del modello
idealtipico di un individuo storico: il capitalismo moderno. Restava radicata nel sociologo tedesco l’idea della
fondamentale storicità della società umana. Per lui erano errati i tentativi di trattare la società come la natura.
Questo era il limite più grande della costruzione di Marx e la ragione della mancanza di una trattazione sistematica
del futuro del capitalismo nelle opere di Weber di taglio più scientifico (in Economia e società formula
generalizzazioni sui rapporti tra forme di organizzazione dell’economia e fenomeni istituzionali, come tipi di
comunità, religione, politica, diritto, ma si tratta soltanto di strumenti concettuali che devono essere però
concretamente applicati nell’indagine storico-empirica).
Questa apertura e flessibilità delle categorie analitiche weberiane è stata criticata perché ritenuta limitante dal punto
di vista della costruzione di una teoria della società a elevata generalizzazione (Parsons 1937) ma proprio tale
caratteristica del suo pensiero ha finito invece per essere la fonte della sua persistente influenza sulle scienze sociali
contemporanee (Dahrendorf 1987, Boudon 1984).
Nella conclusione della Storia economica Weber non tratta del futuro del capitalismo ma si limita a dire che: nel
mondo d’oggi la radice religiosa dell’uomo economico si è seccata; non vi è più il concetto di professione che è
sostituito da un utilitarismo senza fede che guida il comportamento economico; la classe operaia non è più integrata
socialmente per mezzo della religione e non si accontenta più della sua sorte; la sovrapproduzione affligge
periodicamente l’ordinamento economico con la disoccupazione. Quando non è la religione a guidare i
comportamenti allora è l’uomo ad apparire colpevole e si arriverà dunque a percepire l’esigenza di una
trasformazione: il socialismo razionale che non sarebbe mai sorto senza le crisi. Weber giunge dunque a
conclusioni marxiane.
Weber fa anche una prognosi del capitalismo che non troviamo nella Storia ma nei suoi scritti politici; è
significativo che lo faccia in questo ambito e non in quello scientifico.
Tale prognosi sul capitalismo risente molto delle specifiche tensioni sociali e politiche che caratterizzano la
Germania alla fine della prima guerra mondiale.
Weber critica l’idea di Marx che le crisi ricorrenti del capitalismo portino al crollo del sistema economico e a un
processo rivoluzionario e pensa invece che esse portino ad una trasformazione graduale della vecchia economia,
con i suoi imprenditori in concorrenza massificata, in un’economia regolata, sia da funzionari dello stato che da
cartelli con la compartecipazione di funzionari (cartelli industriali volti a regolare i prezzi e controllare la
concorrenza; le banche si organizzano per controllare la concessione del credito e quindi limitare anche il rischio di
sovrapproduzione; si formano aziende statali, comunali, cooperative, che sono espressione di sostenimento del
livello di vita della popolazione da parte dello stato).
Per Weber (qui vicino a Tocqueville) la burocratizzazione non solo alimenta il capitalismo, ma è anche l’ombra
indivisibile della democrazia di massa progrediente.
Si passa dunque da un capitalismo di mercato a un capitalismo organizzato e politicamente regolato, con due
conseguenze rilevanti:
- un aumento complessivo della burocratizzazione: si formano imprese di più grandi dimensioni che eliminano
le più piccole; cresce la burocrazia statale per far fronte a compiti più estesi nella gestione dell’economia e per
l’organizzazione delle imprese pubbliche;
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- crescita delle società per azioni e dei titoli pubblici: cresce il ceto di coloro che riscuotono interessi e dividendi
vivendo di rendita senza apportare lavoro intellettuale come invece faceva l’imprenditore.
Anche nel campo economico, come in tutte le sfere di attività della società moderna, si manifesta per Weber il
paradosso della razionalizzazione: il processo di razionalizzazione della condotta di vita tende ad aumentare il
controllo degli uomini sul mondo; il coordinamento burocratico che investe le attività economiche, quelle politiche,
militari e persino quelle scientifiche e culturali accresce enormemente l’efficienza tecnica di tali attività, ma nello
stesso tempo finisce per minacciare la libertà degli uomini sottoponendoli al dominio burocratico. In particolare
nella sfera economica: il capitalismo stimola la crescita delle imprese e dello stato per poter controllare i problemi
prodotti dal suo sviluppo ma la burocrazia tende a sua volta a indebolire e ridimensionare il ruolo
dell’imprenditorialità (si compromette la fonte di innovazione, dinamismo, responsabilità e propensione al rischio
dell’imprenditore privato a favore del burocrate orientato alla stabilità della sua fonte di reddito, o del suo
stipendio, e deresponsabilizzato perché rischia soltanto denaro pubblico).
Per Weber un capitalismo che si burocratizza eccessivamente va incontro a due tipi di rischi:
- quello del capitalismo politico: un capitalismo fragile, sempre esposto al tracollo finanziario e incapace di darsi
basi solide e stabili nella sfera produttiva (es. l’economica di guerra o l’esperienza del feudalesimo fiscale
dell’Oriente in cui prevalgono risorse amministrate da una burocrazia politica deresponsabilizzata che vive
della congiuntura meramente politica, di forniture statali, di finanziamenti di guerra, di guadagni della borsa
nera, ecc.);
- quello del socialismo di stato: in cui il processo produttivo e la distribuzione avrebbero dovuto essere
sottoposti a controllo da parte di una burocrazia statale rigidamente dipendente dal centro. Tale sistema avrebbe
avuto come conseguenza sia la stagnazione economica che una più radicale limitazione della libertà individuale
(es. libertà di scioperare).
Weber, contrariamente a Marx, sostiene che il capitalismo non è inevitabilmente condannato da problemi
economici ma era seriamente minacciato da pericoli politici, cioè dal carattere pervasivo della burocratizzazione
che esso tendeva a stimolare.
Weber, rispetto a Simmel, Sombart e Schumpeter, ha una visione più pessimistica sugli effetti negativi della
burocratizzazione sullo sviluppo capitalistico ed auspica con forza il mantenimento di un equilibrio di potere tra
burocrazie private e burocrazie pubbliche. I rischi di una “burocratizzazione universale” sono sin troppo evidenti
nei regimi totalitari affermatisi nel XX secolo, pur con le loro varianti specifiche.
Weber nel prefigurare l’equilibrio tra burocrazie pubbliche e private aveva intravisto quel processo di riassetto
istituzionale del capitalismo democratico verso un pluralismo organizzato o addirittura un neo-corporativismo che
si sarebbero effettivamente affermati nei decenni successivi (vedi vol. 2 cap. 3).
Con senno di poi, possiamo notare che Weber tendeva a sopravvalutare la forza della burocratizzazione per la sua
specifica ottica legata alla Germania. Egli era fermamente convinto che essa fosse inevitabile per ragioni tecniche
(complessità di gestione dell’ingente capitale fisso e della separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione) e per
la maggiore capacità di rendimento di questo tipo di collaborazione umana.
In realtà, negli ultimi decenni, sono intervenuti mutamenti in entrambe le dimensioni (vedi vol. 2 cap. 4): si sono
manifestati i costi della disciplina burocratica e sono state sperimentate forme diverse e meno rigide di
organizzazione del lavoro e di rapporti tra le varie strutture della grande impresa. Anche sul piano della tecnica ci
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sono stati cambiamenti che Weber non poteva prevedere, come il passaggio dalla tecnologia meccanica a quella più
flessibile a base elettronica, che ha modificato l’organizzazione dell’impresa verso forme più flessibili.
Ma il valore che Weber riveste oggi per noi sono le sue convinzioni: il compito della scienza non è quello di
predire il futuro, individuare leggi alle quali gli uomini devono adeguarsi, ma è quello di contribuire a chiarire le
scelte che essi hanno di fronte, aiutarli a costruire più responsabilmente la realtà sociale.
Le origini del capitalismo moderno non dipendono soltanto da una mera razionalizzazione culturale sviluppatasi sul
terreno della profezia etica ebraico-cristiana. Questo fattore è rilevante in quanto collegato a una configurazione
istituzionale particolare. Si tratta dell’equilibrio particolare dei rapporti tra politica e società che si è avuto in
Occidente: la debolezza politico-militare originaria dello stato ha favorito lo svilupparsi delle città e del
feudalesimo che hanno, a loro volta, limitato il dominio dello stato sulla società. All’interno di questi spazi di
autonomia è potuta crescere la borghesia occidentale. Dal conflitto e dall’interdipendenza di questa con lo stato è
nato il capitalismo moderno. Altrove, dove lo stato ha dominato la società, si è avuto un dispotismo distributivo,
dove esso è stato debole, si sono avute forme di capitalismo politico tradizionale.
Una interpretazione più accurata di Weber ci aiuta a mettere in rilievo nello studio dei processi di sviluppo il
carattere strategico delle variabili istituzionali (lo sviluppo non è un mero problema di politica economica ma una
costruzione istituzionale che si basa sulla maturazione di un equilibrio tra stato e società, come vedremo nel vol. 2
cap. 2).
Weber ci mette in guardia da una visione economicistica che identifichi il capitalismo con il mercato, anche se
questa istituzione ne è un importante presupposto. Esso si basa su una serie di altri presupposti istituzionali che gli
sono esterni: motivazioni imprenditoriali e lavorative, tecnica, strumenti giuridici, ruolo dello stato. Il capitalismo
non crea tali presupposti ma concorre invece ad eroderli nel corso del suo funzionamento.
Il problema cruciale per la riproduzione del capitalismo moderno è quindi l’erosione delle basi normative di tipo
religioso, dei problemi funzionali connessi alle crisi, della destabilizzazione delle relazioni sociali. Tutti questi
elementi rendono cruciale per il capitalismo il contributo regolativo dello stato. Dall’altra parte abbiamo visto come
una crescita eccessiva della burocratizzazione e della regolazione possa portare alla stagnazione economica e
sociale ed alla fuoriuscita dal capitalismo moderno verso quello politico o verso il socialismo.
Concludendo quindi anche il problema della riproduzione del capitalismo resta dunque un problema di equilibrio
tra intervento dello stato e autonomia della società e del mercato.
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CAPITOLO 6
LE CONSEGUENZE SOCIALI DEL CAPITALISMO: DURKHEIM E VEBLEN
La sociologia economica tedesca, specie con Sombart e Weber, costituisce un corpo omogeneo dal punto di vista
metodologico e sostantivo. Da essa è venuto un contributo essenziale alla formazione di un’autonoma analisi
sociologica dell’economia. Tuttavia, non sono da trascurare altri contributi fondativi per la disciplina che maturano
nello stesso periodo storico, tra la fine dell’800 e i primi decenni del nuovo secolo, in un contesto diverso da quello
tedesco. Due autori appaiono i particolare rilievo: il francese Émile Durkheim e l’americano, di origine norvegese,
Thorstein Veblen. Entrambi si concentrano in particolare sulle conseguenze sociali del capitalismo regolato dal
mercato.
Questi due autori non hanno avuto una riflessione omogenea, né si sono influenzati reciprocamente ma a noi pare
legittimo metterli a confronto:
- entrambi contribuiscono alla formazione di una teoria dell’azione economica come socialmente condizionata;
- sviluppano una critica dell’individualismo utilitaristico come fondamento della teoria economica con alcune
differenze. Si tratta di un istituzionalismo più influenzato dal positivismo e con pretese più teoriche e
generalizzanti rispetto all’approccio dei sociologi tedeschi che è invece storicamente orientato. Per Durkheim
concepisce l’istituzionalismo come una strada su cui fondare scientificamente la sociologia (istituzionalismo
sociologico) mentre Veblen lo concepisce come uno strumento per ricostruire l’economia (istituzionalismo
economico). Vedremo che questi due tipi di istituzionalismo avranno molti punti di convergenza;
- entrambi si concentrano meno sulle origini del capitalismo e sulle specificità dell’economia e della società
occidentale (studiati da Weber e Sombart) ma pongono la loro attenzione all’indagine sulle conseguenze
sociali del capitalismo regolato dal mercato cioè dal capitalismo liberale affermatosi nella seconda metà
dell’800 insieme con la rapida diffusione della rivoluzione industriale. Essi metteranno a fuoco gli effetti
socialmente destabilizzanti del capitalismo regolato dal mercato. Sappiamo che l’economia neoclassica non
tocca questi problemi e che la trattazione di Marx e dei marxisti, pur trattando fenomeni di disorganizzazione
sociale, disoccupazione, crisi cicliche, rimane in una prospettiva di filosofia della storia che Durkheim e Veblen
non condividevano.
Il tema delle conseguenze sociali del capitalismo di mercato costituisce dunque un altro importante nucleo tematico
intorno al quale si sviluppa la sociologia economica.
1. MERCATO E FORME “ANORMALI” DI DIVISIONE DEL LAVORO
Émile Durkheim (1858 – 1917) insieme a Weber ha più contribuito a fondare la prospettiva sociologica come
disciplina autonoma. Ma se Weber era convinto che la sociologia non potesse comunque dare un fondamento
scientifico alle scelte morali, Durkheim era influenzato dallo spirito positivista e riteneva che lo studio della società
dovesse seguire l’esempio delle scienze naturali muovendosi alla ricerca di leggi generali dei fenomeni sociali. Egli
si mosse, fin dai primi sviluppi del suo lavoro, con l’obiettivo di porre le basi per una “scienza della morale”. Dopo
i grandi rivolgimenti indotti dalla Rivoluzione, la Francia era passata attraverso continue fasi di instabilità sociale e
politica e Durkheim cercò di contribuire allo sforzo di dare una nuova stabilità alla società francese radicando la
sociologia all’interno dell’università e facendone anche uno strumento formativo importante, specie per gli
insegnanti.
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Il problema dell’ordine sociale è centrale per il sociologo francese. Avvicinandosi alle posizioni critiche della
sociologia tedesca nei riguardi dell’economia neoclassica, Durkheim critica la teoria dell’azione formulando una
teoria istituzionalista. L’apporto più importante riguarda invece gli effetti socialmente destabilizzanti che
l’organizzazione delle attività economiche nella società moderna può avere a causa delle “forme anormali di
divisione del lavoro”.
Dopo lo studio della divisione del lavoro l’interesse di Durkheim è quello di fondare la sociologia come disciplina
generale volta ad indagare i diversi aspetti del comportamento per mezzo del metodo scientifico e dell’indagine
empirica; ma nella trattazione seguente ci limiteremo ai temi più direttamente legati alla sociologia economica.
1.1 La critica all’utilitarismo e la fondazione di una teoria istituzionalista
Durkheim nei suoi primi studi, raccolti in La scienza positiva della morale in Germania (1887) accoglie la critica
degli storicisti all’economia politica ortodossa: non è possibile studiare in astratto i fenomeni economici
prescindendo dal contesto storico in cui sono inseriti; il comportamento economico concreto degli individui è
influenzato da norme e regole morali che mutano al murare della società.
Egli riconosce peraltro un importante merito agli economisti, quello di avere visto per primi che la società, come la
natura, è influenzata da leggi sue proprie che vanno studiate con metodo scientifico (e non spiegata con la volontà
politica dei sovrani o di qualche divinità). In tal modo gli economisti hanno anche preparato il campo per lo
sviluppo della sociologia.
Ma da che cosa dipende l’errore degli economisti?
Essi hanno una visione dell’utilitarismo (che deriva da Herbert Spencer) per la quale la società è costituita da un
insieme di individui che entrano in relazioni scelte volontariamente e guidate esclusivamente dalla ricerca
dell’interesse individuale.
Durkheim sviluppa sostanzialmente due ordini di critiche nei riguardi di questa impostazione del problema
dell’ordine sociale che vediamo singolarmente.
• a) Le cause non individualistiche della divisione del lavoro
In primo luogo il sociologo mette in discussione che si posso dedurre la società dall’individuo. Nelle società
primitive, e in quelle più antiche, il comportamento individuale è fortemente condizionato dalle regole sociali, che
non lasciano molto spazio alla sfera individuale. L’individualismo è pertanto il frutto dell’evoluzione stessa della
società e delle sue mutate esigenze (La divisione del lavoro sociale 1893) e non viceversa.
È importante anche il ruolo dell’educazione degli individui (Le regole del metodo sociologico 1895); si cerca di
imporre al bambino modi di vedere, di sentire e di agire a cui non sarebbe pervenuto spontaneamente.
Per questi motivi, per comprendere il comportamento individuale, anche in campo economico, non ci si può
limitare alla psicologia o alla biologia, ma occorre studiare le cause sociali che influiscono sull’azione e cioè le
istituzioni (ogni credenza e ogni forma di condotta istituita dalla collettività). La sociologia può venire definita
come la scienza delle istituzioni, della loro genesi e del loro funzionamento.
Durkheim sviluppa la sua critica all’utilitarismo spiegando come una società basata sull’elevata differenziazione
delle attività e dei ruoli non possa fare a meno di istituzioni di natura non contrattuale, di regole morali condivise.
Secondo gli economisti tradizionalisti la divisione del lavoro si svilupperebbe per cause esclusivamente individuali
e psicologiche; ovvero perché aumenterebbe i vantaggi goduti dai singolo consentendo un maggior benessere
economico. Per Durkheim tale argomentazione è errata in quanto i vantaggi in termini di maggiore produttività e di
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benessere che si effettivamente si verificano con una più alta divisione del lavoro non potevano essere compresi
anticipatamente dai singoli individui. La causa della divisione del lavoro va dunque ricercata in direzione non
individualistica, occorre guardare a certe variazioni dell’ambiente sociale, della morfologia della società. Vediamo
come avviene tutto ciò.
Premettendo che per solidarietà si intende l’insieme di norme morali condivise che legano tra loro gli uomini e ne
regolano i rapporti, Durkheim analizza il passaggio da un tipo ideale di società semplice, caratterizzata dalla
solidarietà meccanica, a un tipo di società superiore, a elevata divisione del lavoro, nella quale prevale la
solidarietà organica. Il primo tipo di società ha piccole dimensioni, le relazioni tra gli individui sono scarse ed
omogenee, vi è una bassa divisione del lavoro (es. tipico è la società primitiva). L’ordine sociale è assicurato dalla
solidarietà meccanica che si basa su una forte coscienza collettiva (l’insieme delle credenze e dei sentimenti
comuni alla media dei membri della stesa società). il problema dell’ordine è quindi risolto meccanicamente sulla
base di un’adesione emotivamente intensa a un sistema di valori condiviso. Qui prevale il diritto penale basato su
sanzioni repressive (la società castiga per vendicarsi).
Col tempo però aumenta la densità materiale, cioè aumenta la popolazione che si concentra maggiormente sul
territorio per cui si intensificano i rapporti sociali. Aumenta dunque la densità morale, gli uomini escono
dall’isolamento avvicinandosi maggiormente ma questo provoca una lotta per l’esistenza che spinge i singoli
individui a specializzarsi maggiormente per sopravvivere nelle nuove condizioni. La crescita della divisione del
lavoro è quindi dovuta a una pressione della società sugli individui. Emergono dunque le società superiori
caratterizzate dalla crescita delle dimensioni, della densità materiale e morale, della divisione del lavoro. Si forma
qui la solidarietà organica stimolata dallo sviluppo stesso della divisione del lavoro che alimenta il senso di
dipendenza reciproca tra soggetti diversi (come le funzioni specializzate di un organismo). In questo caso la
coscienza collettiva regola una parte più limitata dei comportamenti individuali indicando dei valori di fondo che
lasciano più spazio alle scelte individuali e sono quindi più compatibili con le esigenze di una società differenziata.
È in questo quadro che si diffondono i valori dell’individualismo (come abbiamo visto anche in Simmel) e cioè la
personalità individuale. Qui si afferma il diritto restitutivo caratterizzato da sanzioni che hanno finalità riparatorie,
di reintegrazione di una situazione preesistente alla violazione di interessi giuridicamente protetti.
• b) Le condizioni non contrattuali del contratto
Durkheim oltre a sottolineare che la società deve essere considerata come autonoma e preminente rispetto agli
individui e che le istituzioni sono “fatti sociali” dotati di una forza costrittiva, si sforza di mostrare che laddove
l’individualismo si sia storicamente affermato come criterio morale che guida l’azione, non per questo sono venute
meno le regole sociali. Anche se crescono le relazioni contrattuali, tendono a crescere contemporaneamente le
relazioni non contrattuali regolate da istituzioni di natura giuridica o morale (es. i rapporti familiari prevedono una
serie di diritti e di doveri che non sono contrattuali ma devono essere rispettati per non incorrere in sanzioni
giuridiche o comunque nella disapprovazione sociale). Più in generale, nelle società moderne la sfera
dell’intervento dello stato nelle relazioni sociali non si restringe al solo ambito della giustizia ed all’esercizio della
guerra ma ha il compito di badare all’educazione dei giovani, alla salute in generale, alle vie di trasporto e di
comunicazione. Durkheim sottolinea poi che l’intervento delle istituzioni si fa sentire nell’ambito stesso delle
relazioni contrattuali, infatti non tutto è contrattuale nel contratto (il diritto contrattuale garantisce l’efficacia dei
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contratti e predetermina ciò che può in essi essere stabilito dalle parti). Oltre alle norme giuridiche vi sono anche
quelle morali che influiscono sui contratti.
Insomma, solo in presenza di un’adeguata regolamentazione giuridica è possibile che le relazioni contrattuali si
sviluppino efficacemente soddisfacendo i bisogni dei soggetti privati senza ledere gli interessi collettivi della
società.
• Le origini delle istituzioni
Perché l’ordine sociale possa esistere è necessario porre un freno agli interessi individuali, occorre regolarli e
disciplinarli. Ciò può avvenire solo dove esistano istituzioni forti. Le istituzioni nascono dall’interazione tra gli
individui per far fronte a determinati problemi della vita collettiva ma, una volta affermatesi, esse acquisiscono
un’autonomia e un carattere costrittivo che si impone ai singoli soggetti. Contrariamente a quanto pensano gli
utilitaristi le istituzioni non si basano sull’accordo tra individui che perseguono il loro interesse e decidono di darsi
delle regole per tutelarlo ma la loro origine va cercata per Durkheim in particolari momenti di effervescenza della
società nei quali si fa più intensa l’interazione tra gli uomini. Ciò porta ad annullare gli interessi individuali e gli
egoismi propri della dimensione quotidiana a favore di forti identità collettive al costituirsi di grandi ideali sui quali
riposano le civiltà (es. rinascita religiosa del Medioevo, Riforma protestante, Rivoluzione francese). Anche se
questi momenti di entusiasmo collettivo sono temporanei, gli ideali che in essi si sviluppano restano alla base delle
istituzioni sociali.
1.2 Le conseguenze sociali della divisione del lavoro
Nonostante Durkheim si mostri nel complesso ottimista circa le capacità di una società a elevata divisione del
lavoro di generare quella solidarietà di cui ha bisogno, in realtà egli si rende conto che tale esito non è scontato, e
questa consapevolezza si accrescerà nei suoi lavori successivi a partire da Il suicidio del 1897.
Lo sviluppo della divisione del lavoro si accompagna in realtà a tensioni e conflitti sociali e Durkheim per
affrontare il problema degli effetti socialmente destabilizzanti della divisione del lavoro scegli la strada di
considerare in prima approssimazione come eccezionali e anomale le situazioni in cui la specializzazione non si
accompagna alla crescita della solidarietà.
Egli sostiene che la divisione del lavoro produce effetti socialmente destabilizzanti in due modi:
- quando la divisione del lavoro cresce più rapidamente rispetto alle regole istituzionali determinando una
situazione di anomia;
- quando la divisione del lavoro assume un carattere coercitivo perché le regole esistenti sono inadeguate
rispetto ai problemi.
• La divisione anomica
Per Durkheim il forte sviluppo delle attività economiche è la principale fonte di anomia, non per la crescita della
divisione del lavoro ma perché questo processo si è affermato senza un’adeguata istituzionalizzazione.
L’anomia si forma a causa:
- delle crisi economiche: la crescita della divisione del lavoro e della produzione per il mercato comportano la
possibilità che si determini una sovrapproduzione o un sottoconsumo (ogni industria produce per consumatori
che sono dispersi su tutta la superficie del paese o anche del mondo intero). Egli non nega che, come
sostengono gli economisti, il mercato tenda a ristabilire l’equilibrio tra produzione e consumo, ma tutto ciò
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avviene attraverso continue e prolungate destabilizzazioni delle relazioni sociali (fallimenti, disoccupazione)
quindi pagando pesanti costi sociali;
- dell’antagonismo tra capitale e lavoro: Durkheim nota che la diffusione dell’occupazione industriale è
avvenuta senza un’adeguata regolamentazione giuridica del rapporto di lavoro, lasciando intendere che in tal
modo non vi sia una tutela adeguata dei lavoratori rispetto agli andamenti del mercato. All’interno della
fabbrica quindi si procede con una parcellizzazione dei compiti, una routinizzazione e una perdita di qualità del
lavoro che riducono l’operaio ad appendice di una macchina. Tutto ciò, che è molto vicino all’analisi
dell’alienazione di Marx, entra in contrasto con gli ideali di arricchimento e perfezionamento individuale che
sono alla base della coscienza collettiva nella società moderna, e che producono conflitti sociali e difficoltà di
integrazione dei singoli individui nell’ordine sociale.
• La divisione coercitiva
Il disordine sociale, oltre che frutto dell’anomia, può essere dovuto alle regole che presiedono alla distribuzione del
lavoro che generano una divisione coercitiva del lavoro:
- nell’assegnazione dei singoli individui ai ruoli specializzati: nella società moderna l’allentamento della
coscienza collettiva lascia più spazio alle scelte individuali quindi alla realizzazione della personalità
individuale. Si afferma il mito che ognuno deve essere destinato alla funzione che può adempiere meglio e che
deve ricevere la giusta remunerazione per le sue prestazioni. Ma le regole che sono frutto di una fase
precedente della società fa sì che l’assegnazione dei singoli ai compiti specializzati viene imposta dalla classe
di origine (es. diritto ereditario stabilisce che determinati figli possano accedere all’attività del padre; l’accesso
ai ruoli pubblici base alla classe sociale). Occorre dunque modificare tali regole;
- nella regolazione delle ricompense del lavoro: perché una società basata sulla divisione del lavoro generi
solidarietà è anche necessario che le ricompense da assegnare ai compiti divisi corrispondano alla effettiva
utilità per la società dei servizi prestati (il valore di scambio deve corrispondere al valore sociale). Ma come si
può misurare il valore sociale? La risposta di Durkheim sembra alludere genericamente all’impostazione della
teoria neoclassica della distribuzione del reddito, secondo la quale, in condizioni di mercato concorrenziale, il
compenso dei fattori produttivi, tra cui il lavoro, viene ad essere determinato dal contributo da essi dato al
valore della produzione (teoria della produttività marginale). Ma Durkheim sottolinea che il valore così
assegnato può essere alterato dall’influenza di fattori anormali. Egli vuole attirare l’attenzione sul fatto che gli
scambi di mercato, anche quando assumono la forma di contratti liberamente e volontariamente sottoscritti, dal
punto di vista formale, possono nascondere un o squilibrio di potere tra i contraenti che porta ad allontanare la
ricompensa dall’effettiva utilità sociale e impedisce ai meccanismi di mercato di stabilire un’effettiva
equivalenza tra i due fenomeni. Anche in questo caso, come per l’accesso ai ruoli specializzati, la condizione
necessaria per contratti giusti è costituita dal fatto che i contraenti si trovino in condizioni esteriori uguali.
Occorre dunque fare in modo che le remunerazioni siano determinate dal “merito sociale” e non da altri criteri.
Egli si preoccupa quindi delle “condizioni morali dello scambio”, che sono a suo avviso trascurate dagli
economisti. Il compito delle società più progredite è quindi un’opera di giustizia; si tratta di introdurre
un’equità sempre maggiore nei rapporti sociali per assicurare il libero dispiegamento di tutte le forze
socialmente utili.
1.3 Corporazioni e socialismo
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A quali rimedi pensava Durkheim per far fronte ai problemi sociali posti dalla divisione del lavoro?
Una volta appurato che gli effetti socialmente destabilizzanti indotti dalla divisione del lavoro erano molto diffusi e
strutturali egli sostiene che sia necessaria una nuova regolamentazione anzitutto giuridica ma anche morale delle
attività economiche che definisca i diritti e i doveri dei datori di lavoro e dei lavoratori, la quantità del lavoro e la
giusta remunerazione. Ritiene che un compito di questo genere non dovrebbe essere affidato esclusivamente allo
stato perché troppo lontano dai bisogni e dalle esigenze specifiche dei diversi settori di attività economica.
L’intervento esclusivo dello stato rischierebbe di essere inevitabilmente troppo rigido quindi esso dovrebbe
limitarsi a fissare alcuni principi generali che verrebbero poi adattati alle esigenze specifiche dei diversi settori di
attività dalle corporazioni (istituzioni costituite da rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori di ogni
settore). Questi diversi soggetti sarebbero dotati di proprie rappresentanze e esprimerebbero poi una rappresentanza
congiunta di secondo grado. Queste corporazioni erano concepite da Durkheim, non come associazioni volontari,
ma come istituzioni pubbliche a carattere obbligatorio, organizzate in modo gerarchico sul territorio (dal centro alla
periferia). Esse avrebbero dovuto compiere oltre che le funzioni economiche anche quelle di assistenza sociale,
formazione tecnica e professionale, organizzazione di attività culturali e ricreative.
Le corporazioni dovevano stimolare la formazione di legami morali tra i soggetti coinvolti in determinate attività,
dovevano promuovere attivamente la solidarietà organica, e questo compito non poteva essere efficacemente svolto
dallo stato.
Naturalmente Durkheim non poteva prevedere che dopo alcuni anni dalla sua scomparsa, la forma specifica da lui
prefigurata per queste istituzioni (carattere pubblico, obbligatorio, gerarchico) ne avrebbe limitato ancor di più il
possibile contributo integrativo e ne avrebbe potuto fare uno strumento di regimi autoritari o totalitari per cercare di
controllare dall’alto la società (fascismo, nazismo, America Latina). Il dispotismo tirannico può manifestarsi nelle
società moderne quando vengano meno dei gruppi secondari che mediano tra i singoli individui e lo stato e
controbilancino il potere dello stato stesso. Ma affinché i gruppi professionali possano svolgere questa funzione è
necessario che essi siano più autonomi rispetto allo stato di quanto non avvenisse nel modello tratteggiato da
Durkheim.
Dobbiamo sottolineare che, spogliata di tali limiti, l’analisi di Durkheim anticipa alcune importanti tendenze che
stavano per manifestarsi nelle società più sviluppate dell’Occidente, ossia il passaggio da un sistema politico
liberale ad uno di tipo pluralista, caratterizzato dal peso crescente di gruppi di interesse organizzati (associazioni
sindacali, imprenditoriali, di categoria) nel processo politico. A partire dalla prima guerra mondiale questo processo
si sarebbe intensificato portando in alcuni casi, verso forme di corporativismo autoritario, dall’alto, mentre in altri
a forme di corporativismo societario, dal basso.
Quest’ultimo modello, basato sulla collaborazione volontaria tra grandi gruppi di interesse organizzati (i particolare
imprenditoriali e sindacali) e Stato nella formulazione e nella gestione della politica economica sarà un aspetto
particolarmente importante delle forme di regolazione istituzionale dell’economica in molti paesi sviluppati.
L’analisi di Durkheim resta di notevole interesse quindi come anticipazione del ruolo crescente delle associazioni
degli interessi nella regolazione dell’economia.
In che misura la regolazione del mercato che Durkheim prefigurava si avvicina a una prospettiva socialista?
Durkheim non si misurò mai sistematicamente nei suoi lavori con il pensiero di Marx.
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Notiamo che ci sono dei punti di accordo tra i due autori: entrambi riconoscono che la divisione del lavoro è un
fattore che contribuisce notevolmente all’aumento della produttività del lavoro e alla crescita della ricchezza ma
che ha dei risvolti negativi in quanto determina una crescita della disuguaglianza tra capitalisti e lavoratori che
Marx definisce alienazione dei lavoratori dal loro prodotto, mentre Durkheim come divisione anomica e
coercitiva). Si manifesta così una parcellizzazione e dequalificazione del lavoro operaio, che Marx definisce
alienazione dal processo lavorativo e Durkheim ancora come una forma di divisione anomica.
Per quanto riguarda le divergenze: Marx riteneva che lo sviluppo ulteriore della divisione del lavoro avrebbe
inevitabilmente aggravato le diverse forme di alienazione, innescando un conflitto sociale sempre più dirompente
che alla fine avrebbe travolto le stesse istituzioni capitalistiche. Egli riteneva che per risolvere il problema si
doveva eliminare la divisione del lavoro arrivando così al socialismo. Per Durkheim invece il disordine sociale e la
crescita della conflittualità sono dei fenomeni transitori, non dovuti alla divisione del lavoro in quanto tale ma
all’assenza o alla carenza di regole istituzionali. Quindi la specializzazione è un dovere morale ed è necessaria alle
esigenze funzionali della società moderna anche se le sue forme concrete devono essere adeguatamente regolate.
Durkheim non ha mai sottolineato queste divergenze da Marx. Nel suo corso su Il socialismo del 1928 egli cerca di
distinguere la dottrina del comunismo dalle idee del socialismo.
Il comunismo è apparso più volte nel corso della storia e assume sempre un carattere utopistico (come in Platone,
Moore, Campanella). I suoi sostenitori si pongono l’obiettivo di limitare fortemente la divisione del lavoro e di
mettere in comune il prodotto del lavoro; si tratta di una specie di impossibile ritorno alla società primitiva.
Diverso per Durkheim è il socialismo, un fenomeno tipicamente moderno che presuppone la crescita della divisione
del lavoro ed esprime l’obiettivo di porre rimedio ai problemi sociali che questo fenomeno ha prodotto tra la fine
del ‘700 e il secolo successivo. In sostanza il socialismo non vuole limitare la divisione del lavoro e ridurre la
ricchezza, ma si pone l’obiettivo di sfruttare al massimo la divisione del lavoro per rendere possibile un maggior
grado di soddisfacimento dei bisogni da parte di tutti gli individui e per controllare quindi le disuguaglianze. Ciò
richiede una maggiore regolamentazione delle attività economiche da parte dello stato: “si definisce socialista ogni
dottrina che afferma il collegamento di tutte le funzioni economiche, o di alcune di esse che sono attualmente
indipendenti, ai centri direttivi e coscienti della società”.
Durkheim è convinto che la prospettiva del socialismo soffra di limiti così come la prospettiva degli economisti
liberisti: gli economisti volevano risolvere i problemi della società moderna affinandoli al mercato mentre i
socialisti ritenevano necessaria una maggiore regolamentazione statale del mercato.
Per Durkheim entrambi perdevano di vista il problema essenziale della società moderna, cioè quello di ristabilire
una solidarietà, dei legami morali che si sostituissero a quelli della solidarietà meccanica (perché regni l’ordine
sociale è necessario che la maggior parte degli uomini si accontenti della propria sorte, riconosca un’autorità
superiore che decida i diritti degli uni e degli altri).
Durkheim è dunque vicino alla prospettiva socialista perché ritiene necessaria una regolamentazione della divisione
del lavoro, ma se ne distanzia perché è convinto che il socialismo trascuri la dimensione morale. Sono le forze
sociali, sono le autorità morali che devono esercitare un’influenza regolatrice senza la quale gli appetiti degenerano
e l’ordine economico si disorganizza. È in questa prospettiva che Durkheim concepisce il ruolo delle corporazioni;
esse sono più adatte dello stato a svolgere un ruolo di regolazione morale oltre che economica.
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Egli non usa il termine capitalismo e parla soltanto di divisione del lavoro ma le sue analisi si possono considerare
come una critica al capitalismo liberale, cioè quella specifica forma di capitalismo in cui il mercato ha un ruolo
preminente nella regolazione delle attività produttive e nella distribuzione del reddito.
Per lui non erano sufficienti nuove regole istituzionali di tipo esclusivamente economico (forme di
programmazione per evitare crisi e fallimenti) ma requisiti non economici (criteri di valutazione condivisi relativi ai
rapporti tra prestazione e ricompense per i diversi compiti specializzati, principi meritocratici).
Di conseguenza, la mera sostituzione del capitalismo liberale con un capitalismo più organizzato, o con qualche
forma di socialismo basata sul controllo statale, non sarebbe stata di per sé sufficiente a risolvere i problemi posti
dalla divisione del lavoro.
Per questi motivi il contributo di Durkheim non aiuta soltanto a gettare luce sui processi di trasformazione del
capitalismo liberale, ma fornisce importanti elementi per una sociologia del mercato volta a mettere in evidenza le
condizioni non economiche di funzionamento del mercato in una società moderna a elevata divisione del lavoro. In
questi contesti, affinché il mercato possa essere un efficace strumento di regolazione delle attività economiche
specializzate, non è soltanto necessario che ci siano alcune regole giuridiche e morali che diano stabilità ai contratti
facendoli rispettare e perseguendo le frodi. È anche necessario che si intervenga sulle risorse dei soggetti che si
confrontano nel mercato riducendo gli squilibri di potere. Ma anche interventi di questo tipo, realizzabili per
esempio con una legislazione antimonopolistica, e con la legislazione sul lavoro o la contrattazione tra associazioni
degli interessi, non sarebbero sufficienti. Il mercato funzionerebbe meglio in quei contesti nei quali l’accesso ai
diversi ruoli si avvicinasse alle effettive vocazioni e capacità dei soggetti, e nei quali le remunerazioni si
avvicinassero al “merito sociale” (si avrebbe così una forte coesione sociale, individui maggiormente impegnati nei
compiti specializzati, riduzione di conflitti, sviluppo economico).
Tutto ciò richiede che la società sia caratterizzata da istituzioni non economiche (famiglia, scuola, politiche) tali da
favorire una distribuzione meritocratica dei ruoli e delle ricompense e quindi la convinzione dei singoli di
appartenere a una società giusta.
2. SPRECO DELLE RISORSE PRODUTTIVE E CONSUMO VISTOSO
Durkheim influenzato dalle grandi tensioni sociali e politiche della Francia della seconda metà dell’800 fu indotto
a mettere in evidenza i limiti della teoria economica e gli effetti destabilizzanti dell’ordine sociale di un’economia
capitalistica regolata dal mercato. Ma la sua preoccupazione principale fu quella di dare un contributo alla
fondazione scientifica della sociologia.
Thorstein Veblen (1857 – 1929), figlio di immigrati norvegesi di religione luterana trapiantati in una comunità
agricola del Minnesota, visse nello stesso periodo storico, ma in un contesto molto diverso quale era quello
americano. Gli Stati Uniti, usciti dalla guerra di secessione, furono segnati da processi di trasformazione economica
rapidi e sconvolgenti che nel giro di pochi decenni li avrebbero portati ad un ruolo di leadership nello sviluppo
economico e industriale a livello mondiale. Dal 1860 al 1914 la popolazione triplicò, con 20 milioni di immigrati,
l’occupazione e la produzione crebbero a ritmi vertiginosi. In pochi anni si formarono giganteschi trusts industriali
nel settore delle ferrovie, dell’acciaio, del petrolio e in altri ancora (magnati come Rockfeller e Morgan
controllavano quote considerevoli del patrimonio nazionale). Ma questo è anche il periodo delle gravi crisi
dell’agricoltura tradizionale del Midwest, sempre più indebitata nei riguardi delle banche e dei detentori del
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capitale finanziario dell’Est; ed è il periodo di intensi e spesso violenti confitti industriali che coinvolgono una
classe operaia in forte crescita.
È in questo contesto che matura la riflessione di Veblen. Di formazione prevalentemente economica, egli manifesta
presto una forte insoddisfazione per l’economia tradizionale (classica e neoclassica) che giudica incapace di fornire
strumenti di conoscenza adeguati per comprendere i grandi cambiamenti economici di fine secolo. Anche lui come
Durkheim è in soddisfatto delle aspettative ottimistiche della teoria economica che si scontrano con gli
sconvolgimenti sociali determinati da un capitalismo guidato dal mercato e che le analisi tradizionali non aiutano
ad affrontare efficacemente.
Ma mentre per Durkheim tale insoddisfazione si traduce nel tentativo di dare un fondamento scientifico alla
sociologia come teoria generale della società, Veblen cercherà invece di rifondare su basi istituzionali l’analisi
economica traendo ispirazione dalla prospettiva evoluzionista sviluppatasi in biologia e nelle scienze naturali con
Darwin. Anche se Durkheim e Veblen non hanno mai avuto interazione, possiamo dire che l’economia istituzionale
di quest’ultimo può essere messo a confronto con l’istituzionalismo sociologico del primo (entrambi affrontano un
problema non trattato dall’economia, quello degli effetti sociali del capitalismo liberale basato sul mercato).
2.1 La critica della teoria economica e l’economia istituzionale
Veblen prende le distanze dall’economia classica e neoclassica sin dai primi scritti che furono raccolti nel volume Il
posto della scienza nella civiltà moderna (1919).
Gli elementi essenziali della sua critica sono già presenti nell’importante saggio dal titolo Perché l’economia non è
una scienza evoluzionista? e riguardano tre aspetti:
1) la concezione individualistica della natura umana, ovvero la teoria dell’azione economica;
2) il carattere statico dell’analisi economica tradizionale, cioè il suo interesse per l’equilibrio più che per il
cambiamento;
3) il nesso tra perseguimento dell’interesse individuale e benessere collettivo, che per Veblen non è garantito
automaticamente dal funzionamento del mercato.
La teoria economica tradizionale condivide una visione della natura umana passiva, immutevole, in cui l’uomo è
soltanto un calcolatore di piaceri e pene. In realtà il comportamento dell’uomo non è comprensibile in termini
individualistici, cioè al di fuori dell’influenza esercitata dalla società attraverso tradizioni, costumi, abitudini,
ovvero attraverso modelli di comportamento consolidati, condivisi e approvati, cioè istituzioni. Anche per Veblen
l’azione umana è socialmente condizionata. Gli uomini sono guidati da valori e norme che l’individuo riceve dalla
società in cui vive. Con il cambiamento storico si modificano sia le istituzioni che il comportamento individuale,
anche quello economico.
Per Veblen l’approccio tradizionale resta legato a un’idea di equilibrio, all’indagine sui meccanismi di
stabilizzazione dell’economia che sono influenzati dalle scienze fisiche. L’economia invece deve essere in grado di
dar conto dei grandi cambiamenti in corso, ma per farlo deve guardare alle scienze biologiche e al loro impianto
evoluzionista e deve porre al suo centro il ruolo delle istituzioni. Abbiamo già visto con Spencer come
l’evoluzionismo si potesse conciliare con l’individualismo della teoria economica e con un orientamento favorevole
al laissez-faire. Ciò si manifestava anche in America, per esempio con il pensiero di Graham Sumner, da cui
Veblen era stato influenzato. Tuttavia Veblen, pur ispirandosi all’evoluzionismo, assume un orientamento non
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individualistico, fortemente critico nei riguardi del darwinismo sociale diffuso nella cultura americana dell’epoca.
Al centro di questa impostazione vi sono le istituzioni e non gli individui. Sono le istituzioni che evolvono per far
fronte ai problemi di adattamento posti dall’ambiente, ma la selezione delle istituzioni non comporta che si
affermino necessariamente e meccanicamente quelle più efficienti. Veblen rifiuta l’idea di una evoluzione
unilineare che porta alla convergenza istituzionale. Come si formano e come cambiano le istituzioni? Veblen ha
una visione evoluzionista delle istituzioni: esse emergono per regolare i rapporti tra gli uomini in società e con
l’ambiente naturale, ma una volta formatesi contribuiscono a selezionare certi tipi di comportamento che
condizionano le risposte ai futuri problemi di adattamento. La crescita della popolazione, la scienza e la tecnologia
fanno sorgere problemi di adattamento. Per Veblen scienza e tecnica sono il motore del mutamento del processo
produttivo che si riverbera a sua volta sulle altre istituzioni (culturali, sociali, politiche), ma affinché vengano
introdotte nuove istituzioni (modi di pensare, costumi, leggi) è necessario superare le resistenze delle vecchie
istituzioni. Il problema è combattere la forza inerziale delle abitudini e dei modi di pensare ma anche il fatto che le
istituzioni ereditate dal passato tendono a essere anche difese dai gruppi sociali che sono privilegiati nell’ambito del
vecchio assetto. Alla lunga un adeguamento delle istituzioni, tale da consentire la piena valorizzazione delle nuove
conoscenze e tecnologie, si verificherà, ma i tempi e i modi di questo processo non sono definibili a priori.
L’evoluzione è un processo continuo e la società sconta un ritardo strutturale nell’adeguamento istituzionale.
Da questa teoria delle istituzioni discendono due conseguenze rilevanti:
- quanto maggiore sarà il ritardo nell’adeguamento istituzionale, tanto più grande sarà il costo al quale una
determinata società andrà incontro in termini di spreco di risorse (disoccupazione, povertà non necessaria,
perdita di benessere collettivo). Ciò può portare a conflitti sociali dovuti a carenza delle istituzioni nel regolare
i problemi di adattamento. A differenza di Marx, Veblen non credeva che il conflitto di classe potesse essere
agente di mutamento; vedeva piuttosto un’attrazione forte delle classi inferiori verso i modelli di vita e di
consumo della classe agiata (ci torneremo tra poco);
- è possibile la coesistenza di società in cui il rapporto tra tecnologia e istituzioni è diverso. Veblen non credeva
a un processo di inevitabile convergenza istituzionale, trainato dalla tecnologia, che porterebbe all’affermazione di
un unico modello istituzionale più efficiente rispetto ai problemi di adattamento all’ambiente economico e sociale.
Nei suoi studi comparati egli fa notare come la Germania (1915) nella seconda metà dell’800 abbia avuto un rapido
sviluppo economico mentre per la Gran Bretagna è stato più graduale. La tesi di fondo è che ci possono essere
percorsi di sviluppo differenti, basati sulla capacità di innestare le tecnologie più moderne applicabili al processo
industriale in un contesto istituzionale ancora permeato da valori tradizionali. Per Veblen non c’è un unico modo di
avviare lo sviluppo economico: accanto alla tradizionale via dal basso seguita dalla Gran Bretagna e dagli Stati
Uniti, vi possono essere vie dall’alto come quelle della Germania, del Giappone o anche dell’Italia, in cui
l’industrializzazione è promossa dallo stato, che cerca nel contempo di salvaguardare gli equilibri sociali e i valori
tradizionali. Veblen insiste inoltre sulla possibile coesistenza di combinazioni diverse tra tecnologia e istituzioni,
che non sono destinate necessariamente a scomparire per effetto della concorrenza. Combinazioni più efficienti e
competitive in un certo momento storico possono perdere questi vantaggi successivamente senza per questo
scomparire. Ci sono insomma equilibri multipli.
2.2 I costi sociali del capitalismo
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Veblen utilizza la sua teoria del cambiamento soprattutto per mettere a fuoco i problemi di adeguamento delle
istituzioni nella società moderna. A suo avviso, si manifestava un ritardo nell’adeguamento delle istituzioni agli
sviluppi delle conoscenze e della tecnologia e tutto ciò comportata dei costi sociali crescenti in termini di benessere
collettivo. Nella fase iniziale dello sviluppo capitalistico si era effettivamente realizzato un nesso tra perseguimento
dell’interesse individuale e miglioramento del benessere collettivo mentre nella fase successiva tale relazione si era
però allentata (l’organizzazione economica basata sul capitalismo di mercato comportava una perdita di benessere
collettivo rispetto alle potenzialità offerte dalla tecnica e dalla scienza). Veblen cerca di dimostrare questa tesi
guardando sia ai cambiamenti dal lato della produzione che a quelli relativi al consumo. Vediamoli singolarmente.
Nella prima fase della rivoluzione industriale avviatasi in Inghilterra (seconda metà del ‘700) si era affermato il
sistema dell’industria meccanica. In questo periodo la produzione faceva capo a delle imprese private in cui i
proprietari-imprenditori erano insieme capitalisti e organizzatori della produzione. Le imprese erano di dimensioni
ridotte e nessuna di esse era in grado di controllare il mercato dei beni nel quale operava per cui ricercavano il
profitto attraverso miglioramenti di efficienza sotto lo stimolo della concorrenza con altre imprese che
competevano nel mercato. È in questo quadro che maturano gli schemi interpretativi dell’economia con l’idea che
il perseguimento dell’interesse individuale, non ostacolato dalle istituzioni politiche, favorisca il benessere
collettivo. Effettivamente Veblen riconosce che questa forma di organizzazione economica (capitalismo liberale)
porta a una maggiore produzione di beni a costi più bassi per la collettività ma ciò è valido soltanto per quella fase
storica che termina sul finire dell’800. Successivamente gli ulteriori sviluppi della tecnologia rendono possibili
economie di scala legate a una produzione di massa che richiedono ingenti investimenti industriali. La proprietà e
la gestione delle aziende si separano: la prima resta nelle mani dei “capitani d’industria” che gestiscono gli
investimenti e sono sempre più interessati al profitto finanziario derivante dagli incrementi di valore del capitale
investito nelle imprese (azioni in borsa); la seconda invece è affidata a manager che sviluppano conoscenze
tecniche e organizzative necessarie per applicare i nuovi metodi produttivi, quelli che Veblen chiama gli “ingegneri
della produzione”.
La ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale non conduce più a un incremento di benessere collettivo
attraverso maggiore produzione di beni a prezzi più bassi (come avveniva nella fase iniziale dell’era delle
macchine). La ricerca del maggior guadagno finanziario può spingere i capitani d’industria alla compravendita di
imprese per motivi di mera speculazione finanziaria e ciò può causare danni alla produzione ed all’occupazione
(chiusura di aziende, depressioni cicliche, disoccupazione).
I nuovi capitalisti-finanzieri cercano di trasformare il mercato aperto di tipo concorrenziale (tipico della prima fase
in cui si hanno molti beni a prezzi bassi) in un mercato chiuso di tipo monopolistico, attraverso la formazione di
cartelli e trusts, intese formali e informali che hanno l’obiettivo di limitare la produzione e tenere alti i prezzi a
danno dei consumatori (incidono inoltre i costi di vendita come distribuzione e pubblicità per combattere la
concorrenza). Si sviluppa quella che Veblen chiama una coscienziosa soppressione dell’efficienza. Le sue opere in
cui tratta questo tema sono La teoria dell’impresa 1904 e Gli ingegneri e il sistema dei prezzi 1921.
Dal lato del consumo invece il suo lavoro più noto è La teoria della classe agiata 1899. In esso viene formulata
una critica stringente delle motivazioni individualistiche e utilitaristiche dell’azione, che come abbiamo visto
costituisce un tema centrale dell’istituzionalismo di Veblen. Non è la ricerca di maggiori possibilità di consumo di
beni materiali a fornire un incentivo sufficiente a impegnarsi in attività economiche. Nella società moderna le
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possibilità di maggior consumo sono ricercate come fonte di prestigio e di onore sociale (sostituiscono il coraggio o
il valore bellico, propri di epoche precedenti, come segno di distinzione sociale. Dunque, le motivazioni più
profonde delle attività economiche hanno a che fare con la ricerca di prestigio in un costante confronto
antagonistico con gli altri membri della società. Anche i gruppi più poveri, man mano che fuoriescono dal livello
della mera sussistenza, sono attratti dall’utilità del consumo come mezzo di reputazione. Questo meccanismo si
diffonde in articolare nella popolazione urbana delle grandi città (come aveva notato anche Simmel) dove i criteri
di riconoscimento tradizionali vengono meno e gli standard di consumo diventano i principali segnali di status
sociale. Ne discende una spinta all’integrazione consumistica delle classi inferiori e della stessa classe operaia. Ciò
per Veblen è il principale motivo per cui il conflitto di classe non si può considerare come il motore
dell’innovazione istituzionale (al contrario di Marx). Al centro della teoria vi è dunque il fenomeno dello spreco
vistoso che per Veblen concorre alla perdita di benessere collettivo tipica dell’economia capitalistica (per i
neoclassici i consumatori cercano di soddisfare in modo razionale le loro preferenze, i loro bisogni, maturati in
modo indipendente e autonomo dagli altri). Il comportamento degli individui è invece influenzato
dall’interdipendenza sociale, dal tentativo continuo di emulare gli altri e di raggiungere un livello di status
superiore orientando il consumo verso beni futili e superflui. Veblen è così il primo critico del consumismo e
contrappone al calcolo razionale il modello dell’emulazione sociale.
Nel complesso, le istituzioni del capitalismo di mercato, sia dal lato della produzione che da quello dei consumi,
comportano un costo sociale elevato e rappresentano un freno rispetto alle opportunità offerte dallo sviluppo
tecnico per il benessere collettivo. Veblen registra questa contraddizione, che a suo avviso è destinata a essere
superata con l’adeguamento delle istituzioni ereditate dalla fase precedente. Tuttavia, non intravede segni
significativi di mutamento nella realtà del suo tempo, ed è molto scettico sulle capacità del movimento operaio
americano.
Negli ultimi lavori, anche sotto l’influenza della rivoluzione russa, individuò negli ingegneri, nei nuovi tecnici
della produzione, un possibile protagonista del mutamento. Questo gruppo sociale, per le sue conoscenze e il suo
ruolo nelle imprese, sarebbe stato infatti meglio in grado di valutare lo spreco di efficienza legato alle istituzioni
capitalistiche, e di avviare un uso pianificato e razionale delle risorse, i cui contorni restano però nella formulazione
di Veblen molto labili e incerti.
3. IL CONTRIBUTO DELL’ISTITUZIONALISMO POSITIVISTICO
Che cosa hanno in comune l’istituzionalismo di Durkheim e quello di Veblen? E quali sono gli elementi di
somiglianza e di differenza con la sociologia economica tedesca?
Abbiamo già detto che i due autori cono più influenzati dal positivismo rispetto a Weber e Sombart che si sono
formati nel clima culturale accesamente antipositivista dello storicismo tedesco.
Durkheim vuole gettare le basi di una “scienza della morale” per dare un fondamento scientifico alle difficili scelte
che gli uomini si trovano ad affrontare nella società moderna.
Veblen si ispira espressamente al modello delle scienze naturali, e in particolare a quelle biologiche, per ricostruire
su basi diverse da quelle della teoria tradizionale l’analisi economica.
Entrambi i sociologi sono quindi attratti dall’idea di fondare uno studio della società su basi simili a quelle delle
scienze della natura (istituzionalismo di ispirazione positivista) lontano dalla sociologia economica tedesca che è in
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aperta polemica con l’idea di un’assimilazione delle scienze della società a quelle della natura e mira piuttosto alla
costruzione di modelli teorici delimitati nello spazio e nel tempo.
Un’altra differenza piuttosto evidente riguarda l’orientamento nei confronti dell’economia.
Weber e Sombart si erano formati nel clima di accesa contrapposizione tra storicisti ed economisti neoclassici; essi
volevano dare un fondamento scientifico alla sociologia economica superando le secche dello storicismo;
puntavano quindi all’elaborazione di schemi analitici atti a interpretare forme specifiche di organizzazione
economica. Nel difendere questa strada riconoscevano anche la legittimità della teoria economica come disciplina
analitica. La loro visione dei rapporti tra economia e sociologia è di complementarità tra le due prospettive
d’indagine: la sociologia doveva chiarire il contesto istituzionale all’interno del quale era possibile tentare di
applicare gli schemi dell’economia.
Durkheim e Veblen sono invece più scettici sulle possibilità della teoria economica di cogliere le forme concrete di
organizzazione dell’economica; influenzati dalle loro radici positivistiche sono meno propensi a riconoscere il
carattere scientifico di una disciplina che non sia empiricamente fondata e sono più spinti verso una teoria generale
della società. Hanno quindi una visione della sociologia economica più alternativa a quella dell’economia (anche se
Veblen riconosceva che la teoria economica tradizionale aveva avuto una sua validità per l’indagine sul primo
capitalismo).
Ma se guardiamo come Durkheim e Veblen portarono avanti il loro programma, si può vedere come le differenze
tra il loro istituzionalismo positivistico e quello storicamente orientato di Sombart e Weber si attenuino. Durkheim
resta vincolato all’indagine storico-empirica e non cerca di predire l’evoluzione futura della società. Veblen lavora
a una teoria delle origini e del cambiamento delle istituzioni ma non indica stadi di sviluppo futuri.
Insomma, nonostante il linguaggio utilizzato e i propositi espliciti, quello di Durkheim e Veblen è un positivismo
temperato, diverso da quello originario della sociologia di Comte e di Spencer, ma anche da quello di Marx. Più
vicino alla posizione di Sombart e Weber. Comune è il rifiuto di una visione individualistica dell’azione
economica, sia che essa venga motivata in termini utilitaristici, sia che si basi su condizionamenti biologici o
psicologici. I soggetti agiscono nella sfera della produzione e distribuzione di beni secondo modelli di
comportamento forniti dalle istituzioni che sono a loro volta il prodotto dell’interazione tra i soggetti. In condizioni
e in momenti particolari, che ciascun autore cerca di chiarire, tale iterazione porta al cambiamento delle istituzioni,
ma non è possibile prevedere l’evoluzione storica. L’economia viene quindi ad essere indagata in un’ottica storico-
empirica, volta a coglierne le differenze nello spazio e nel tempo che derivano appunto dall’influenza delle
istituzioni. La sociologia economica assume una connotazione empico-analitica.
Sappiamo che anche Sombart e Weber si occuparono delle trasformazioni del capitalismo, pur se non fu questo il
fuoco primario della loro riflessione. Essi intravidero con grande acume una direzione di crescente organizzazione
dell’economia capitalistica, che avrebbe ridotto il ruolo regolativo del mercato proprio della fase liberale attraverso
una crescente burocratizzazione delle imprese e l’estensione dell’intervento statale.
Veblen e Durkheim invece si concentrano sui problemi sociali creati dall’affermarsi del capitalismo di mercato;
problemi che avrebbero poi richiesto nuove forme istituzionali di regolazione. Il loro fuoco è dunque sulla carenza
o sul ritardo delle istituzioni, perché le vecchie non sono più adatte e le nuove stentano ad affermarsi.
Durkheim e Veblen hanno in comune la sfiducia, empiricamente fondata, sulla capacità di riequilibrarsi dei mercati
senza un’adeguata regolazione istituzionale. Le conseguenze sono disoccupazione, crisi cicliche, conflitti sociali.
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Ma questi problemi derivano da un problema più generale cioè la sottoutilizzazione da parte del capitalismo di
mercato del potenziale produttivo disponibile per il benessere collettivo. Entrambi gli autori parlano di costi sociali
del capitalismo. Durkheim parla di: incapacità di sfruttare al massimo i vantaggi della divisione del lavoro, carenza
delle istituzioni che generano forme anormali e patologiche di divisione dei compiti e di assegnazione delle
ricompense. Veblen guarda invece alla tecnologia e alle sue possibilità di generare produzione e occupazione, che
sono limitate dalle istituzioni (capitani d’industria, imprese monopolistiche, modelli di consumo vistoso che si
estendono a tutti i gruppi sociali).
Somiglianze e differenze si possono apprezzare anche dal punto di vista delle soluzioni ipotizzate.
Entrambi guardano a forme di regolazione dell’economica che limitino sostanzialmente il ruolo del mercato
(Veblen pianificazione e ruolo guida degli ingegneri; ruolo cognitivo della scienza e della tecnica; Durkheim
ruolo delle corporazioni per ricostruire i legami morali tra gli individui).
Usando un linguaggio contemporaneo, si potrebbe dire che Durkheim e Veblen contribuiscono a mettere in
evidenza i fallimenti del mercato dal punto di vista del benessere collettivo, in contrasto con le previsioni della
teoria economica, ma non prendono invece adeguatamente in considerazione i possibili fallimenti dello stato e della
pianificazione burocratica, anche perché questi ultimi non erano stati ancora storicamente ben sperimentati. La loro
analisi è dunque particolarmente efficace nel mettere in luce i costi sociali del capitalismo di mercato, ma più
debole nel delineare le possibili soluzioni per un adeguamento delle istituzioni ai cambiamenti dell’economia.
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CAPITOLO 7
LA GRANDE CRISI E IL TRAMONTO DEL CAPITALISMO LIBERALE: POLANYI E
SCHUMPETER
La Grande Crisi può essere considerata uno spartiacque nella storia economica e sociale. Per farvi fronte tutti i
paesi si videro obbligati a inventare nuove forme di politica economica diverse da quelle dell’ortodossia liberale. In
questo capitolo incontreremo la posizione di Karl Polanyi e di Joseph Schumpeter e la loro analisi sulle cause del
declino. Pur muovendo da posizioni culturali e politiche diverse, entrambi concordano sull’importanza delle cause
sociali e politiche del declino del capitalismo liberale. Ed entrambi delineano l’emergere di un nuovo capitalismo
più regolato dalle istituzioni politiche.
L’800 fu il secolo d’oro del capitalismo liberale perché in cent’anni non ci fu una grande guerra, il mercato
assicurò una forte crescita della produzione e degli scambi. Col tempo però emersero però quelle tensioni sociali e
politiche che sono state analizzate nel capitolo precedente (la classe operaia aspirava al riconoscimento sociale ed
all’integrazione politica). già negli ultimi decenni del secolo cominciano a manifestarsi le difficoltà del capitalismo
liberale a tenere insieme crescita economica, integrazione sociale e rapporti pacifici tra gli stati. Sul piano
economico sulle realtà più piccole pesava la concorrenza e queste chiedevano protezionismo industriale e agrario;
ma questo significava frenare gli scambi internazionali ed intensificare la politica coloniale la quale sfociò nella
prima guerra mondiale.
Dopo la guerra nulla tornò come prima. Il conflitto comportò costi economici e sociali altissimi e nonostante i
tentativi di ricostruire l’ordine prebellico, le condizioni economiche e sociali restarono estremamente instabili.
Negli anni ’20 l’Europa è duramente provata, deve far ricorso a ingenti prestiti forniti dagli Stati Uniti, ma la
ripresa economica è lenta, la disoccupazione resta elevata così come i conflitti sociali e politici. Dal punto di vista
economico, il commercio internazionale stenta a riprendersi e a tornare ai livelli prebellici, mentre la produzione di
manufatti cresce a ritmi elevati, trainata dalle innovazioni tecnologiche e organizzative e dal formarsi di grandi
imprese. Il persistente protezionismo doganale ostacola gli scambi e non aiuta quindi a fronteggiare la tendenza alla
sovrapproduzione dei beni industriali. Anche la domanda dei paesi meno sviluppati, afflitti dal calo dei prezzi
agricoli e delle materie prime, è debole. In questa situazione, la dipendenza dai prestiti americani dell’economia
europea (soprattutto quella tedesca gravata anche dai danni di guerra da ripagare) è molto elevata. Si trattava di una
situazione ad alto rischio, perché l’interruzione dei flussi creditizi americani avrebbe potuto avere effetti a catena
disastrosi sull’economia europea e mondiale. Ed è proprio questo che si verificò inseguito al crollo della Borsa di
New York nel 1929. La Grande Crisi trascinò tutta l’economia dei paesi sviluppati in una gravissima e prolungata
depressione, con crollo della produzione, fallimenti a catena delle imprese e picchi di disoccupazione mai raggiunti
in precedenza.
La Grande Crisi si può considerare come uno spartiacque ideale nella storia economica e sociale. Questa situazione
eccezionale portò tutti i paesi ad allontanarsi dall’ortodossia liberale nella politica economica interna e
internazionale; la nuova prospettiva si basò sull’assunto che la mano dello stato è indispensabile sia nei buoni che
nei cattivi momenti; esso può garantire una crescita economica continuata in un’atmosfera di armonia sociale;
l’economia deve porsi al servizio dello stato e non viceversa.
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Su questo sfondo si colloca la riflessione di Karl Polanyi e Joseph Schumpeter. Mentre Durkheim e Veblen
contribuirono a mettere a fuoco le conseguenze sociali del capitalismo liberale, Polanyi e Schumpeter si
concentrarono sulla crisi di questa forma di organizzazione economica. Essi studiano i processi di cambiamento
che si vanno sperimentando a partire dagli anni ’30: la formazione di un capitalismo più regolato, in cui lo spazio
del mercato si riduce e l’economia viene reincorporata nella società.
Anche questi due autori non vengono da percorsi intellettuali diversi e sono politicamente su posizioni opposte
(Polanyi è un socialista e Schumpeter un liberista conservatore), tuttavia ciò rende più interessante il fatto che le
loro analisi presentino notevoli affinità, contribuendo a dare un ulteriore importante fondamento alla prospettiva
d’indagine della sociologia economica.
1. DOMINIO DEL MERCATO E AUTODIFESA DELLA SOCIETA’
Karl Polanyi (1886 – 1964, ungherese) non si può considerare in senso stretto come un sociologo economico
anche se il suo è stato un contributo rilevante per la disciplina. Si mosse tra la storia economica, l’antropologia e la
sociologia della vita economica: dalla Budapest di inizio secolo, dove si accosta al socialismo riformista, falla
Vienna del dopoguerra, dove partecipa al dibattito sui fondamenti metodologici delle scienze sociali e a quelli su
mercato e pianificazione. Costretto a emigrare in Inghilterra, entra in contatto con il socialismo laburista e si
guadagna da vivere come insegnante tenendo corsi per gli operai. È in questo periodo che, accanto alla riflessione
sul fascismo, comincia a lavorare al tema delle trasformazioni del capitalismo liberale e si avvicina agli studi di
antropologia e di storia economica. La sua opera più nota è La grande trasformazione 1944, quando l’autore era
ormai vicino a sessant’anni. Trasferitosi a New York, dove ottiene un incarico di insegnamento alla Columbia
University, si dedicherà agli studi sull’organizzazione economica delle società primitive, arcaiche e antiche.
1.1 L’economia come processo istituzionale
Anche Polanyi è un istituzionalista: l’azione economica non è comprensibile in termini individualistici, ma è
influenzata dalle istituzioni sociali. I suoi saggi in merito sono stati raccolti dopo la sua morte in due volumi:
Economie primitive, arcaiche e moderne del 1969 e La sussistenza dell’uomo del 1977.
Richiamandosi ai contributi dell’antropologia (Malinowski e Thurnwald) cerca di mostrare che il motivo del
guadagno non è “naturale” per l’uomo. Le economie primitive non sarebbero comprensibili se si attribuissero ai
loro protagonisti motivazioni utilitaristiche. Esse funzionano invece sulla base di complesse reti di obbligazioni
condivise che motivano il comportamento individuale. Solo negli ultimi secoli, con il crescere dell’economia di
mercato, il perseguimento del guadagno è diventato rilevante. È quindi un’istituzione, il mercato, che incentiva
un’azione economica improntata alla ricerca del guadagno (quindi la naturale propensione dell’uomo al
commercio, l’uomo economico di Smith, era il frutto di un fraintendimento storico che anticipava ciò che sarebbe
avvenuto molto più tardi). Per Polanyi l’indagine economica non può essere separata dal contesto storico.
Polanyi individua tre principi fondamentali di regolazione delle attività di produzione, distribuzione e scambio dei
beni che chiama forme di integrazione dell’economia: reciprocità, redistribuzione e scambio di mercato (vedi cap.
2 par. 1).
Nelle società in cui prevalgono la reciprocità e la redistribuzione non vi è la ricerca del guadagno. Polanyi fa notare
come nella società moderna continuino ad esistere tali forme di integrazione (reciprocità: genitori con figli e
viceversa; redistribuzione: lo stato sociale mediante la tassazione e la spesa pubblica redistribuisce risorse e potere
d’acquisto dai più ricchi ai più poveri).
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Lo scambio di mercato è la forma di integrazione dell’economia che appare solo di recente nella storia
dell’umanità che raggiunge il suo culmine nel corso dell’800: si produce sulla base dei prezzi per determinati beni e
si remunera il lavoro sulla base di prezzi che si formano dall’incrocio tra la domanda e l’offerta di lavoro. Polanyi
vuole sottolineare come l’esistenza di forme di commercio con prezzi regolati dal mercato è un fenomeno che si
ritrova anche nelle economie antiche ma che molto più tarda è invece la diffusione di questo meccanismo nella
sfera della produzione e della distribuzione dei redditi; solo quando ciò avviene su larga scala si può parlare di
scambio di mercato come forma di integrazione dell’economia. In presenza di mercati regolatori dei prezzi si dice
che sono mercati autoregolati. È solo in questo quadro che si può propriamente parlare di motivazioni
utilitaristiche dell’azione economica.
La grande trasformazione ha l’obiettivo di spiegare come siano emersi i presupposti istituzionali dello scambio di
mercato e di come essi siano stati investiti da una progressiva trasformazione che sfocia nel superamento del
capitalismo liberale, con la diffusione di forme moderne di redistribuzione legate allo stato.
Prima dobbiamo parlare ancora di due aspetti della riflessione metodologica di Polanyi:
- il concetto di sistema economico, tipico della tradizione della sociologia economica viene legato a quello di
forma di integrazione;
- le forme di integrazione non rappresentano “stadi” dello sviluppo (cioè non si avvicendano temporalmente) ma
vi sono di solito più forme che si combinano in un sistema economico in cui una è prevalente.
L’economia si sviluppa considerando una particolare situazione storica, studiando il sistema economico basato
sullo scambio di mercato. Essa tende però a generalizzare impropriamente i suoi modelli di analisi verso il passato
e verso il futuro, universalizzando le motivazioni utilitaristiche e le leggi dei mercati autoregolati. È proprio per
evitare questo errore che Polanyi introduce la distinzione (vedi l’Introduzione) tra economia:
- formale: il termine economia è sinonimo di economizzare ed indica il processo razionale di allocazione di
risorse scarse. Tale definizione è tipica dell’economia neoclassica e si riferisce alla logica formale del rapporto
mezzi-fini, che può essere applicata a vari campi concreti;
- sostanziale: il termine economia fa riferimento alla sussistenza umana e cioè che l’uomo dipende per la sua
sopravvivenza dalla natura e dagli altri uomini (egli sopravvive in virtù di un’interazione istituzionalizzata fra
se stesso e il suo ambiente naturale).
Per Polanyi la fallacia economicistica tende a legare la sussistenza all’allocazione razionale delle risorse scarse da
parte di soggetti che cercano di ottenere il massimo reddito dai mezzi di cui dispongono. Ma questo avviene
soltanto laddove si sia affermato lo scambio di mercato. Per questo egli ritiene importante per le scienze sociali
(storia, antropologia, sociologia economica) un concetto più ampio di economia che può permettere lo studio e la
comparazione nel tempo e nello spazio di sistemi economici diversi.
1.2 La grande trasformazione
Questo libro parla della grande trasformazione che investe le società occidentali a partire dagli anni ’30, un
cambiamento che porta al superamento del capitalismo liberale affermatosi nel ‘800. Ne uscirà ridimensionato lo
spazio del mercato come forma di integrazione dell’economia, e lo stato tornerà ad assumere un ruolo più rilevante
per la regolazione dell’economia e della società.
Polanyi si pone due interrogativi:
- quali siano le origini storiche del mercato autoregolato;
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- quali siano le conseguenze sociali ed economiche del mercato autoregolato tra gli ultimi decenni dell’800 e la
Grande Crisi del ’29 dalla quale si avvierà la grande trasformazione.
Per Polanyi un’economia di mercato è un sistema economico controllato, regolato e diretto soltanto dai mercati
(quindi autoregolato). L’autoregolazione è apparsa storicamente grazie all’invenzione e la realizzazione di
macchinari complessi e costosi che hanno consentito di abbassare i costi di produzione (possono essere utilizzate
con profitto solo se è possibile smerciare il più gran numero di beni che con essi si fabbricano in modo regolare).
Deve esserci un mercato ampio per tutti i fattori produttivi che devono essere disponibili (devono essere in vendita
nella quantità necessaria per chi è disposto a pagarli) altrimenti l’investimento nelle nuove macchine diventa troppo
rischioso (tale analisi è vicina a quella di Weber). Le somiglianze con Weber riguardano anche la figura sociale
dell’imprenditore capitalistico (prima era mercante, poi commerciante che acquistava materie prime e faceva
lavorare gli altri, ed infine investe il suo capitale in nuove macchine creando la fabbrica moderna impiegandovi
lavoro salariato). Polanyi sottolinea il carattere storico e non naturale delle motivazioni all’azione economica legate
alla ricerca del guadagno individuale.
Polanyi ha già spiegato che l’esistenza di mercati nel commercio dei beni ha origini ben più antiche e non è
decisiva per l’emergenza del nuovo sistema economico vediamo allora come si formano i mercati per la terra e per
il lavoro. essi non vengono creati per effetto del graduale sviluppo della naturale propensione allo scambio
(com’era suggerito da Smith e dagli economisti classici) ma emergono come conseguenza di interventi politici e di
misure amministrative. Questi interventi si sviluppano dal ‘400 all’800, e in forme differenziate nei diversi paesi:
per quanto riguarda la terra si verificò l’eliminazione del controllo feudale, la secolarizzazione delle proprietà della
chiesa, fino ad arrivare al riconoscimento giuridico della commerciabilità dei diritti di proprietà. Con la crescita
delle città, quindi l’esigenza di mantenimento delle popolazioni urbane, si sviluppò la piena commercializzazione
dei beni prodotti dalla terra e i proprietari terrieri furono spinti a incrementare la produzione per la vendita sul
mercato.
Polanyi si concentra soprattutto sulla formazione del mercato del lavoro prendendo in considerazione la storia
inglese. In Inghilterra, dove vi era stato un più precoce sviluppo delle attività economiche e dei mercati, sia della
terra che della moneta, il lavoro restò a lungo sottoposto a una serie di restrizioni. Ancora nel 1795 fu introdotto il
sistema di sussidi che limitava la dipendenza delle condizioni di vita dalla vendita della forza lavoro sul mercato (si
tratta dell’introduzione di una sorta di reddito minimo da garantire ai poveri indipendentemente dai loro guadagni;
se essi ricevevano un salario al disotto del livello previsto rispetto a uno standard che teneva conto del carico
familiare, avevano diritto a un sussidio). A poco a poco questo sistema determinò un abbassamento dei salari e una
crescita consistente dei sussidi (i lavoratori tendevano a preferire i sussidi al lavoro anche se ciò li teneva in
condizioni di vita degradate facendo così peggiorare le finanze pubbliche). Fu così che sotto la pressione degli
imprenditori e della classe media, si arrivò nel 1834 all’abolizione del sistema dei sussidi e da quel momento
cominciò a funzionare pienamente in Inghilterra un mercato del lavoro concorrenziale.
Polanyi passa poi ad analizzare le conseguenze sociali dell’affermazione del sistema economico e gli effetti che ne
discendono per l ‘economia, e che porteranno alla Grande Crisi della fine degli anni ’20. Il punto di partenza di
questo nucleo centrale de La grande trasformazione è l’idea che il lavoro, la terra e la moneta vengono trasformati
in merci, cioè in beni prodotti per essere comprati e venduti sul mercato. Ma non si tratta di merci come le altre,
perché il lavoro è legato alla vita umana, così come la terra è un aspetto della natura e la moneta è un simbolo del
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potere di acquisto. Non si tratta dunque di vere merci ma di merci fittizie per cui il loro trattamento come semplici
beni economici sui mercati autoregolati porta a conseguenze distruttive per la società.
Polanyi sottolinea che la riduzione del lavoro a pura merce ha pesanti conseguenze sulle condizioni di vita di masse
crescenti di popolazione. Il processo di formazione del mercato del lavoro si accompagna alla progressiva
distruzione delle forme di protezione tradizionale (parentela, vicinato): gli individui e le loro famiglie furono
sradicati dal contesto ambientale e sociale in cui vivevano e costretti a spostarsi per ricercare occasioni di lavoro.
Nella fase iniziale della rivoluzione industriale la forte instabilità di guadagni ha portato alla formazione di sacche
di disoccupazione e di nuova povertà nelle periferie delle città industriali, condizioni di lavoro e di vita degradate.
Quindi con il mercato del lavoro si creò anche una miseria moderna, fino ad allora sconosciuta alle società
tradizionali.
Conseguenze sociali non meno pesanti si manifestano anche dal punto di vista della natura. Il libero scambio dei
prodotti, accompagnato dal miglioramento dei trasporti, mise in crisi quote crescenti di produttori agricoli, specie
nel continente europeo, presto inondato dal grano americano. I contadini dovettero abbandonare le campagne alla
ricerca di un lavoro e si determinò la distruzione della società rurale.
Infine, Polanyi nota che la stessa riduzione della moneta a merce acquistata e venduta sul mercato determina
conseguenze sociali dirompenti. Nel sistema dei mercati autoregolati, affermatisi nel corso dell’800, la moneta
diventa un mezzo di scambio legato all’oro (base aurea) per cui venivano incoraggiati gli scambi internazionali per
garantire la stabilità del cambio ma questo comportava rischi per l’economia interna (es. se crescevano le
importazioni defluiva oro verso l’estero e diminuiva la moneta circolante nel paese con la conseguenza di un
aumento dei prezzi, diminuzione della domanda di beni, disoccupazione.
Insomma, è vero che i mercati del lavoro, della terra e della moneta sono essenziali per un’economia di mercato,
ma la società non può a lungo sopportare i costi che le vengono imposti da tali modalità di funzionamento
dell’economia. Ed è proprio per questo che cominciano a manifestarsi dei meccanismi di autodifesa della società.
la società umana sarebbe stata annientata se non fossero esistite contromisure protettive che attutivano l’azione di
questo meccanismo autodistruttivo. Nel corso degli ultimi decenni dell’800 si manifesta una sorta di doppio
movimento: da un lato si estendono i mercati su tuta la superficie del globo, dall’altro una rete di provvedimenti e
misure politiche si integrano in potenti istituzioni destinate a controllare l’azione del mercato relativamente al
lavoro, alla terra e alla moneta.
Sul fronte del lavoro: sviluppo del movimento operaio, delle organizzazioni sindacali, dei partiti socialisti, nuova
legislazione nel campo sociale e del lavoro (regolamentazione dell’orario di lavoro, del lavoro minorile e
femminile, assicurazione contro gli infortuni, le malattie, la disoccupazione, la vecchiaia, ecc.).
Dal punto di vista dell’agricoltura: a partire dal 1870 si diffondono interventi di protezione tariffaria e di sostegno
all’agricoltura. Contadini, proprietari terrieri, ed anche esercito e alto clero, cercano di difendere, con motivazioni
diverse ma convergenti, la società tradizionale minacciata dal mercato.
Anche il mercato della moneta subisce l’onda protezionista: importante diventa il ruolo delle banche centrali nei
vari paesi che controllano l’offerta del credito mitigando gli eventuali effetti negativi derivanti da transazioni
internazionali (la crescita dei prestiti attutiva la deflazione dovuta alla riduzione della moneta a causa dei forti
pagamenti internazionali).
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Tuttavia, il nuovo protezionismo ha effetti diversi sulla società e sull’economia di mercato: dal lato della società,
attenua i costi e le tensioni legate al diffondersi del mercato; dal lato dell’economia, genera vincoli crescenti che
intralciano il funzionamento dei mercati autoregolati nel campo dei fattori produttivi (si riduce la flessibilità e
cresce il costo del lavoro, mentre le tariffe doganali limitano gli scambi commerciali).
Per di più le diverse forme di protezionismo si influenzano a vicenda: quello agrario fa aumentare il prezzo dei beni
alimentari per i consumatori nazionali; i salariati allora rivendicano paghe più alte spingendo gli industriali a
chiedere nuovi dazi e protezioni anche per il loro settore. L’effetto complessivo che ne discende, nota Polanyi, è un
restringimento del commercio e degli scambi internazionali, che limita le possibilità di smercio dei beni proprio nel
momento in cui il progresso delle tecniche aumenta la produttività delle imprese.
Tutto ciò porta a due tentativi di alleviare e di allontanare le crisi di sovrapproduzione:
- la diffusione delle politiche coloniali e l’imperialismo economico: per procurarsi materie prime a più basso
costo e possibili mercati di sbocco protetti dalla concorrenza di altri paesi (questo preparerà quel clima
economico-politico che sfocerà nel primo conflitto mondiale);
- la diffusione dei prestiti e del credito a livello internazionale: nei momenti di crisi, soprattutto negli anni
successivi alla prima guerra mondiale, si ricorreva al credito che alimentava le imprese e sosteneva la bilancia
dei pagamenti dei vari paesi. Ma a lungo andare questo meccanismo non poteva reggere, i prestiti non potevano
sostenere un’economia reale che non riusciva a vendere ciò che produceva.
I nodi giungeranno al pettine con la Grande Crisi del ’29, che per Polanyi segna il tramonto del sistema economico
basato sui mercati autoregolati e porta al superamento del capitalismo liberale. Per lo studioso ungherese non sono
stati né la grande guerra, né l’avvento del socialismo in Russia e nemmeno quello dei regimi fascisti in Europa a
provocare la crisi del capitalismo liberale bensì fu il conflitto tra il funzionamento del mercato e le esigenze della
vita sociale. È il nuovo protezionismo istituzionale innescato dall’autodifesa della società che irrigidisce e alla fine
blocca il funzionamento dei mercati. I regimi fascisti, il New Deal americano, il socialismo russo, sono tutte
esperienze che nascono dal fallimento del capitalismo liberale; in esse vi è un tentativo di reintrodurre quelle forme
di regolazione sociale e politica che erano saltate con il sistema economico dei mercati autoregolati che faceva
dipendere la società dall’economia.
Ma in che misura le nuove forme di regolazione possono essere compatibili con la persistenza del mercato e con
quella della libertà?
Per Polanyi la fine della società di mercato non significa in alcun modo l’assenza di mercati. L’idea di fondo è che
il mercato non sia necessariamente in contraddizione con obiettivi e strumenti di programmazione economica. Il
socialismo riformista di Polanyi lo porta a condividere l’idea che in una società veramente democratica il problema
dell’industria si risolverebbe per mezzo dell’intervento programmato degli stessi produttori e consumato.
Anche la libertà non scomparirebbe: ci sono libertà cattive la cui scomparsa non sarebbe che vantaggiosa (la libertà
di sfruttare gli altri uomini o quella di realizzare guadagni non commisurati ai benefici collettivi) e libertà buone
cresciute insieme al mercato che continuano ad avere un elevato valore (libertà di coscienza, di parola, di riunione,
di associazione, di scelta del proprio lavoro) ma che è sbagliato pensare che esse dipendano solo dall’esistenza dei
mercati autoregolati (es. l’esperienza della seconda guerra mondiale in Gran Bretagna provocò una
programmazione economica integrale senza che le libertà politiche venissero compromesse).
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Polanyi conclude dicendo che nella società umana non vi è una determinante unica e che la fine del capitalismo
liberale non comporta necessariamente quella del mercato e delle libertà.
2. DECLINON DELLA BORGHESIA E POLITICHE ANTICAPITALISTICHE
Joseph Schumpeter (1883 – 1950) è certo più noto come economista che come sociologo, ma è opportuno
includerlo nel nostro percorso perché nel suo studio dei fenomeni economici si è sempre posto al di fuori degli
schemi convenzionali. Egli diede un contributo importante alla sociologia economica per l’interpretazione del
declino del capitalismo liberale e delle nuove forme di organizzazione dell’economia.
Per Schumpeter, il cambiamento economico deve essere posto al centro dell’indagine ma ciò lo spinge
inevitabilmente a misurarsi con il ruolo delle istituzioni.
Anche lui come Polanyi di cui è coetaneo, nasce nell’impero austro-ungarico di fine ‘800 e si forma nella Vienna
dei primi decenni del nuovo secolo; studia storia e diritto, si specializza in economia alla scuola di Menger. Entra in
contatto con la scuola storica di economia e conosce la riflessione metodologica di Weber e gli studi sul
capitalismo dei sociologi economici tedeschi. Si ispirò sul piano politico a un liberalismo conservatore ma fu
anche fortemente colpito dal pensiero di Marx. Dopo le prime esperienze di insegnamento, nel 1919, fu per breve
tempo ministro delle finanze nel governo a guida socialista della piccola repubblica austriaca nata dal crollo
dell’impero. Negli anni ’30 si trasferì negli Stati Uniti dove insegnò a lungo a Harvard.
2.1 Economia e sociologia economica
Schumpeter diede particolare importanza al problema della definizione dei confini tra economia e sociologia
economica. Egli conosceva bene il dibattito sul metodo che si era svolto tra i seguaci della scuola storica di
economia e gli economisti neoclassici, in particolare Carl Menger (vedi cap. 3): quest’ultimo sosteneva che
nell’ambito dell’economia fosse necessario distinguere tra un approccio storico e uno teorico e sappiamo che tale
impostazione era condivisa da Weber che voleva ridurre le distanze tra scuola storica e scuola teorica, riconoscendo
legittimità all’economia neoclassica creando però uno spazio specifico per la sociologia economica. Schumpeter si
richiama a questa impostazione in un lavoro del 1914 (Epoche di storia delle dottrine e dei metodi,
commissionatogli da Weber prima di morire) sottolineando che nell’ambito della scienza economica ogni
contrapposizione tra approccio storico e approccio teorico è sbagliata. Occorre invece distinguere tra teoria
economica, storia economica e sociologia economica. Ognuna di queste prospettive d’indagine ha una sua
legittimità e una sua utilità, ma bisogna evitare di confonderle usandole insieme in modo non sorvegliato. Rimase
fedele a questa impostazione che ripropose nella sua ultima opera, uscita postuma nel 1954, lo Storia dell’analisi
economica. Per Schumpeter dunque:
- la teoria economica è caratterizzata da un insieme di proposizioni analitiche di cui viene argomentata la validità
a determinate condizioni (egli difende come Menger e Weber la validità dell’economia neoclassica;
- la storia economica è importante per comprendere i fatti storici e quindi per capire come i fatti economici e
quelli non-economici si combinino tra loro nell’esperienza concreta;
- la sociologia economica contribuisce allo studio dell’influenza dei fattori non economici, cioè quelli
istituzionali, sulle attività economiche e la loro variazione nel tempo e nello spazio.
2.2 Imprenditorialità e sviluppo economico
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Non c’è dubbio che Schumpeter fosse più interessato alla teoria economica piuttosto che alla sociologia economica.
Egli non manca ripetutamente di manifestare la sua ammirazione per la costruzione teorica dell’equilibrio
economico ed in particolare dell’opera di Walras.
Nella sua opera teorica più importante La teoria dello sviluppo economico 1912 vedremo come, nonostante
l’obiettivo esplicito di costruire una teoria puramente economica dello sviluppo, di fatto fa entrare anche in gioco
variabili sociali.
Il punto di partenza dell’analisi di Schumpeter si individua chiaramente nell’insoddisfazione per i limiti della
prospettiva economica tradizionale, giudicata incapace di uscire da una visione statica dell’equilibrio economico.
Per Schumpeter la crescita è un fenomeno graduale, fatto di continui aggiustamenti partendo dalla combinazione
dei fattori dell’economia tradizionale mentre lo sviluppo implica invece una discontinuità e quindi l’introduzione di
nuove combinazioni (può riguardare cinque dimensioni: creazione di prodotti; introduzione di nuovi metodi di
produzione; apertura di nuovi mercati; scoperta di nuove fonti di approvvigionamento di materie prime o
semilavorati; riorganizzazione di un’industria, es. creazione di monopolio).
Egli riconosce che lo sviluppo può derivare da motivi extraeconomici (crescita della popolazione, improvvisi
rivolgimenti sociali e politici) ma il suo interesse si concentra però sullo sviluppo legato all’azione degli
imprenditori:
- siano essi proprietari dei mezzi di produzione oppure manager, l’importante è che la sua attività sia innovativa
e non routinaria (solo alla prima si collega per Schumpeter il concetto di imprenditore);
- non è necessario un rapporto continuativo con una singola impresa, essi possono lanciare innovazioni in un
azienda e poi spostarsi in altra, e così via;
- non devono appartenere ad una specifica classe sociale, chiunque può aspirare a diventarlo dal basso grazie al
credito concesso dalle banche.
Egli sottolinea dunque il legame tra credito e innovazione ma ciò non basta, necessità anche la qualità di
leadership che non tutti i membri di una determinata società hanno. Questa prospettiva dell’imprenditore si
allontana da quella della teoria economica tradizionale che vede nell’imprenditore un soggetto capace di calcolo
razione in modo da allocare le risorse per rispondere ai vincoli posti dal mercato.
L’imprenditore che vuole realizzare un’innovazione:
- deve misurarsi con carenze di informazioni e condizioni di maggiore incertezza;
- deve combattere e vincere le resistenze che vengono dai suoi schemi mentali consolidati e quelle che vengono
dall’ambiente sociale;
- deve superare gli impedimenti giuridici e politici e la disapprovazione sociale e delle altre imprese minacciate
dall’innovazione.
È per questo che l’imprenditore innovatore deve avere una personalità che non può essere riconducibile al semplice
calcolo razionale richiamato dalla teoria tradizionale.
Oltre ai fattori psicologici vediamo come Schumpeter si colleghi anche al contesto sociale (impedimenti politici e
giuridici, norme sociali; accenna anche alla marginalità sociale come possibile fonte di imprenditorialità, sulla scia
di Simmel e Sombart).
In un successivo testo del 1928 egli chiarisce meglio i legami dell’imprenditore-innovatore con un particolare
retroterra sociale e istituzionale distinguendo tra:
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- padrone di fabbrica che unisce insieme compiti amministrativi, tecnici, commerciali; è proprietario dei mezzi
di produzione (fase iniziale dell’economia di mercato);
- capitano d’industria, proprietario di capitale azionario, che innova operando soprattutto attraverso il controllo
finanziario sulle aziende, o manager di formazione tecnica, distaccato dagli interessi capitalistici ma che è
spinto ad innovare dal suo orientamento alla buona prestazione professionale (fase più evoluta del capitalismo);
- fondatore di imprese, si tratta della figura specifica dell’imprenditore puro, che intrattiene con le imprese solo
rapporti temporanei.
Sul piano più strettamente economico, l’aver posto l’attenzione sul fenomeno dello sviluppo attraverso
l’innovazione ha due conseguenze importanti:
- una definizione originale di profitto come guadagno dell’imprenditore legato al successo della sua innovazione,
che fa crescere le entrate rispetto alle spese, ma che è una rendita temporanea di tipo monopolistico che si
mantiene fino a quando l’innovazione non riesce ad essere imitata anche dagli altri concorrenti;
- una spiegazione articolata dei cicli economici: la fase espansiva del ciclo è collegata all’introduzione
dell’innovazione e alla sua prima diffusione; successivamente le vecchie imprese colpite dalla concorrenza di
quelle innovative sono costrette ad uscire dal mercato con effetti recessivi sull’economia oppure ad imitarle. Si
stabilirà successivamente un nuovo equilibrio temporaneo che verrà poi alterato da un nuovo ciclo di
innovazione.
Ciò che ci preme sottolineare è che la teoria Schumpeter, pur presentandosi come un tentativo di dare una
spiegazione endogena, cioè interna all’economia, dello sviluppo economico, ha evidenti collegamenti con il
contesto sociale e istituzionale.
L’influenza sociale sull’imprenditorialità verrà poi specificamente esplorata nell’opera più importante dello
studioso austriaco per la sociologia economica Capitalismo, socialismo e democrazia 1942 su cui ci soffermiamo
adesso.
2.3 Può sopravvivere il capitalismo?
In questo lavoro Schumpeter analizza le trasformazioni del capitalismo liberale e gli effetti della Grande Crisi nella
prospettiva della sociologia economica perché si mette in evidenza come il funzionamento dell’economia
capitalistica determini un cambiamento della cultura e delle istituzioni che a sua volta fa inceppare i meccanismi di
autoregolazione dei mercati (passaggio da capitalismo non regolato a capitalismo regolato). Egli si dichiarò
d’accordo con la previsione di Marx, ma per motivi diversi: il capitalismo non sarebbe sopravvissuto, ma non per
fattori di natura economica, bensì per le reazioni culturali e sociali che il suo funzionamento provocava. Ci
concentreremo sul ragionamento sviluppato nella parte centrale dell’opera che è appunto dedicata alle
trasformazioni del capitalismo e si articola in due parti:
- nella prima Schumpeter vuole mostrare come dal punto di vista economico il capitalismo liberale, basato sul
ruolo preminente del mercato, potrebbe continuare ad assicurare dinamismo e sviluppo;
- nella seconda parte mostra come il cambiamento dei fattori culturali e istituzionali, indotto dallo stesso
sviluppo del capitalismo, è in realtà il principale responsabile del declino dell’economia di mercato.
• Perché il declino non ha cause economiche?
Schumpeter si preoccupa inizialmente di contrastare la tesi che l’evoluzione del capitalismo implichi un aumento
della disoccupazione. La crescita dei disoccupati negli anni ’30 è risultata molto elevata, ma si è trattato di un
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fenomeno temporaneo, legato alla fase di recessione che di solito segue, nel ciclo economico, una fase di prosperità
legata ad un periodo di innovazione. Il fenomeno è stato però aggravato da fattori contingenti:
- la coincidenza di una crisi agraria indotta da nuovi metodi di produzione che aumentano la produttività, a
fronte di restrizioni doganali che limitano gli scambi;
- gli effetti deflattivi legati alla politica monetaria e al ripristino del sistema aureo;
- i pagamenti di guerra;
- il livello dei salari, diventati più rigidi;
- l’accresciuta pressione fiscale.
Insomma la crisi del ’29 è il frutto di un insieme di cause che aggravano gli effetti di una fase discendente
particolarmente acuta del ciclo. Tutto ciò si colloca sullo sfondo di un irrigidimento complessivo dei meccanismi di
autoregolazione dei mercati per effetto delle politiche anticapitalistiche (quelle Polanyi chiama invece nuovo
protezionismo sociale). Tali politiche contribuiranno a rendere ancor più difficile la situazione economica nei
decenni prima della seconda guerra mondiale, specie per l’accresciuta pressione fiscale e per l’espandersi della
legislazione sociale.
In realtà, secondo Schumpeter, se il sistema economico guidato dal mercato fosse lasciato libero di funzionare e di
riequilibrarsi autonomamente, come nel cinquantennio precedente al 1928, avrebbe potuto assicurare un tasso di
sviluppo date da ridurre i problemi di povertà. Sarebbe sbagliato pensare di poter eliminare del tutto la
disoccupazione perché essa è legata al meccanismo dell’innovazione e del ciclo economico. Si potrebbe però creare
le risorse necessarie per attenuare il problema della mancanza temporanea di lavoro dei disoccupati e quindi la
conseguente povertà. Dunque, non è il capitalismo di mercato a creare meno sviluppo ma fattori di natura
istituzionale, come le politiche anticapitalistiche.
Prima di approfondire questo nucleo centrale della sua tesi Schumpeter vuole:
- contrastare l’idea che il passaggio a una fase in cui prevalgono aziende monopolistiche e oligopolistiche non
implica di per sé minore efficienza e minor dinamismo;
- criticare quelle teorie (compreso Keynes) che sostengono vi sia un declino delle opportunità di investimento.
Quanto ai costi dei monopoli, sappiamo che l’economia tradizionale mette in luce come fenomeni di oligopolio o di
monopolio portino a un controllo del mercato da parte dei produttori che va a scapito dei consumatori e
dell’efficienza complessiva del sistema (così come sostiene anche Veblen).
Per Schumpeter questa critica è errata perché:
- non riesce a spiegare sul piano empirico il fatto che il tasso di incremento della produzione e il livello di vita
della popolazione, sono in realtà aumentati nel periodo in cui hanno cominciato a nascere le imprese giganti
(ultimo decennio dell’800 e inizio ‘900);
- gli assunti della teoria economica tradizionale sono validi se circoscritti all’economia stazionaria, in cui si
produce con la stessa combinazione di fattori produttivi.
Per Schumpeter è essenziale il processo di distruzione creatrice che porta a rivoluzionare il sistema produttivo con
i cicli di innovazione. Nel corso dello sviluppo l’impulso al formarsi di nuove combinazioni si basa meno sugli
imprenditori individuali e tende a istituzionalizzarsi all’interno delle imprese più grandi che soppiantano quelle più
piccole (perché hanno più risorse finanziarie, organizzative, di ricerca, di controllo del mercato). Nel breve periodo
ciò può portare a prezzi alti e a restrizioni della produzione, ma a medio e lungo termine si diffondono vantaggi
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legati alla qualità e ai costi, che migliorano per effetto dell’innovazione. Quindi, dal punto di vista dinamico, la
concorrenza di tipo oligopolistico o monopolistico, creando nuovi beni, nuove tecniche, nuove fonti di
approvvigionamento e metodi di organizzazione è lo stimolo imperioso che a lungo andare espande la produzione e
riduce i prezzi. Le restrizioni e i profitti imprenditoriali di tipo monopolistico sono il prezzo necessario, ma
temporaneo, da pagare perché possa esserci l’innovazione e perché i suoi effetti benefici possano poi diffondersi a
tutto il sistema e giungere fino ai consumatori.
Infine, Schumpeter passa a confutare la tesi del declino delle opportunità di investimento. Contrariamente a quanto
sostenuto dai keynesiani, le politiche governative, che con la leva fiscale e della spesa dovrebbero sostenere la
domanda e gli investimenti per contrastare il ristagno, finiscono invece per aggravare il male che vorrebbero curare.
La più alta pressione fiscale sulle imprese o le politiche di protezione del lavoro hanno l’effetto di frenare le
aspettative di profitto e gli investimenti. Per questo motivo bisogna trovare una diagnosi diversa per il ristagno
perché esso non ha motivi economici, ma socioculturali e politici. Col tempo lo sviluppo del capitalismo alimenta
un’atmosfera ostile e lo stato moderno può spezzare o paralizzare le sue forze motrici.
• Le cause culturali e sociali del declino
Passiamo così alla seconda parte dell’argomentazione di Schumpeter che riguarda l’analisi delle cause culturali e
sociali del declino del capitalismo liberale:
1) l’indebolimento della borghesia: le grandi imprese burocratizzate soppiantano sempre più le piccole e medie
aziende per cui l’imprenditore individuale perde la sua funzione sociale, ma ciò finisce per indebolire la
borghesia che in passato era alimentata dal continuo formarsi di nuovi imprenditori di successo. Altro fattore è
la disintegrazione della famiglia borghese (che ricercava il profitto per sostenere il futuro dei familiari) a
favore della diffusione di uno spirito utilitaristico (meno figli, orientamento meno rivolto al futuro),
2) la distruzione degli strati sociali che sostenevano la borghesia: si tratta del ruolo dell’aristocrazia che nei
paesi europei era sopravvissuta alla distruzione del feudalesimo assumendo un ruolo essenziale (ben
esemplificato dal caso inglese) per la formazione della classe dirigente. Col tempo tale funzione viene erosa
gradualmente ed essa diventa politicamente inerme e incapace non solo di guidare la nazione, ma perfino di
difendere i propri interessi di classe;
3) il diffondersi di un’atmosfera sociale ostile al capitalismo liberale: da parte di gruppi costituiti dagli
intellettuali che alimentano la critica delle istituzioni del capitalismo e riescono a ottenere un seguito di massa
(giornalisti, avvocati, leader politici). Due fattori favoriscono questo processo: la crescita dei livelli di
istruzione e di disoccupazione o sottoccupazione intellettuale che aumentano la frustrazione e il risentimento; il
fatto che le istituzioni capitalistiche non possono limitare le libertà di espressione e i organizzazione del
malcontento, e quindi facilitano la diffusione del fenomeno. Quindi gli intellettuali influenzano, sia
direttamente che indirettamente, la politica e le sue decisioni;
4) le politiche anticapitalistiche: una serie di misure legislative e amministrative che si diffondono nei vari paesi,
parallelamente all’indebolimento della borghesia e alla crescita del malcontento fomentato dagli intellettuali: si
tratta di interventi dello stato o della contrattazione collettiva; politiche della spesa pubblica in deficit per
sostenere la domanda e ovviare alle crisi cicliche; politiche redistributive del reddito attraverso la pressione
fiscale; misure antitrust per contrastare le imprese monopolistiche; diffusione di imprese pubbliche;
legislazione assistenziale e del lavoro; crescita della contrattazione sindacale nel mercato del lavoro. Tutte
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queste politiche, che hanno avuto un’accelerazione dopo la Grande Crisi del ’29, segnano un allontanamento
sempre più marcato dal “capitalismo del laissez faire” e si avvicinano sempre più a forme di pianificazione
socialista.
Schumpeter vede nel capitalismo americano del New Deal, e poi in quello che si sarebbe affermato dopo la guerra
in America e in Europa, una sorta di capitalismo laburista, in cui le imprese private sono sottoposte a oneri fiscali e
regolativi crescenti. Egli è dubbioso sul fatto che un capitalismo che abbia eroso le basi istituzionali su cui si
poggiava possa continuare ad esprimere un elevato dinamismo economico e intravede l’imporsi di una soluzione
apertamente socialista (intende una forma di organizzazione della società in cui i mezzi di produzione sono
controllati dall’autorità pubblica, la quale è anche responsabile delle scelte relative alla produzione dei beni e alla
distribuzione dei redditi). Non ci occuperemo dell’interrogativo che si pone Schumpeter (Può funzionare il
socialismo?) perché ci allontanerebbe dai nostri obiettivi; possiamo soltanto dire che egli cerca di dimostrare che il
socialismo può essere efficiente sul piano economico e che non deve necessariamente essere visto in contraddizione
con la permanenza della democrazia politica (la successiva esperienza storica smentirà tale tesi).
Insomma, per Schumpeter, il declino del capitalismo liberale prepara gradualmente il passaggio al socialismo, ma
chiarisce che si tratta di una tendenza probabile e non di una diagnosi o di una profezia extrascientifica. Ciò che gli
appare certo, e se ne dispiace, è che il vecchio capitalismo liberale, la civiltà dell’ineguaglianza e della fortuna
familiare, non ha più un futuro.
3. CONVERGENZE ANALITICHE E DIVERGENZE POLITICHE
Come Durkheim e Veblen, anche Polanyi e Schumpeter, non appartengono allo stesso ambiente culturale e non
hanno interazioni tra loro. Gli ultimi due furono segnati dal clima della Vienna di inizio secolo, Polanyi socialista
laburista mentre Schumpeter liberista conservatore, ma è interessante notare come entrambi contribuiscano sul
piano analitico a mettere a fuoco secondo linee convergenti un problema importante di sociologia economica:
quello del declino del capitalismo liberale e della grande trasformazione che si avvia dopo la crisi degli anni ’30.
Polanyi è un istituzionalista.
Schumpeter è un economista che esce dagli schemi tradizionali della disciplina e riconosce l’importanza delle
istituzioni per comprendere il cambiamento dell’economia: il problema dello sviluppo che gli stava tanto a cuore.
Polanyi limita drasticamente la validità scientifica dell’economia e ne storicizza i risultati. Gli strumenti della
disciplina servono per comprendere il funzionamento dell’economia solo quando questa è dominata dai mercati
autoregolati. La sua efficacia è dunque ristretta al secolo nel quale trionfa il capitalismo liberale (1800). Estenderne
la portata all’indietro nel tempo significa cadere nella “fallacia economicista”. Da questo punto di vista, Polanyi è
dunque vicino a Durkheim e soprattutto a Veblen: il suo è un istituzionalismo più alternativo che integrativo
rispetto all’economia di tipo neoclassico. Egli vuole ricostruire un’economia istituzionale.
Schumpeter invece ha un’opinione dell’economia più vicina a quella di Menger e di Weber. L’economia teorica è
una disciplina analitica ed in quanto tale non si fonda la sua scientificità sulla verifica empirica dei suoi schemi
(non deve essere storicizzata). Tuttavia, nell’ambito dell’economia, che lui, Menger e Weber, concepiscono in
termini più vasti dell’approccio neoclassico, deve esservi spazio sia per la componente teorica (di taglio analitico)
che per quella storico-empirica. Quest’ultima prende in esame il rapporto tra fenomeni economici e contesto
istituzionale, basandosi sul contributo della storia e della sociologia economica. Ed è proprio alla sociologia
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economica che Schumpeter fa ricorso quando si interroga sul cambiamento del capitalismo e sul suo futuro (da
questo punto di vista si avvicina a Polanyi).
Schumpeter e Polanyi cercano entrambi di dare una risposta allo stesso problema: perché tramonta il capitalismo
liberale? Quali direzioni prende il processo di trasformazione che si avvia dopo la Grande Crisi degli anni ’30?
Essi ribaltano l’enfasi di Marx sulle crisi economiche come fenomeni di accelerazione del cambiamento sociale e
politico. Per i nostri due autori è vero il contrario, le cause del declino sono sociali prima che economiche, anche
se si ripercuotono poi sul funzionamento dell’economia (il prevalere dei mercati autoregolati innesca delle reazioni
sociali e politiche che a loro volta inceppano progressivamente il funzionamento dei mercati stessi).
Polanyi parla di autodifesa della società, cioè di un processo che si esprime con la diffusione di varie forme di
protezionismo (sociale e del lavoro, agrario, creditizio).
Schumpeter fa riferimento alle politiche anticapitalistiche che vedono un’accelerazione dopo la Grande Crisi, ma
trovano un terreno favorevole nell’indebolimento del quadro culturale e istituzionale del capitalismo liberale e nella
crescita del malcontento sociale.
Polanyi vede già avviati alla fine dell’800 i processi di cambiamento istituzionale che preparano il declino e
raggiungono l’apice nella crisi del ’29.
Schumpeter spiega quest’ultimo fenomeno con il cumulo di diversi fattori, alcuni legati alla normale dinamica dei
cicli economici, altri più contingenti. A differenza di Polanyi, egli considera il fenomeno dell’imperialismo e delle
lotte coloniali come influenzato da variabili più politiche e culturali che economiche: l’imperialismo gli appare
come il frutto di tendenze estranee allo spirito fondamentalmente pacifico della borghesia e del capitalismo, un
residuo del militarismo e dei valori del passato, che sono però ancora presenti nelle classi dirigenti di estrazione
aristocratica e nelle gerarchie militali. Schumpeter tende a spostare più avanti, rispetto a Polanyi, i fenomeni di
irrigidimento dei mercati autoregolati e li considera più come una conseguenza delle reazioni istituzionali alla crisi
del ’29 che come fattore che prepara la crisi stessa.
Anch’egli vede negli anni ’30 uno spartiacque che separa l’epoca del capitalismo non regolato da quella del
capitalismo regolato, un fenomeno che prepara poi l’avvento del socialismo.
È curioso che entrambi gli autori arrivino a conclusioni simili sui requisiti non economici per il funzionamento del
mercato: il funzionamento dei mercati concreti non può essere compreso senza prendere in esame come essi siano
integrati nella società, cioè in un contesto istituzionale.
Polanyi sintetizza il suo giudizio così: “la nostra tesi è che l’idea di un mercato autoregolato implicasse una grossa
utopia; un’istituzione del genere non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza
umana e naturale della società”.
Schumpeter formula invece così il suo giudizio: “nessun sistema sociale basato esclusivamente su una rete di liberi
contratti fra parti contraenti giuridicamente eguali, e in cui si suppone che ognuno sia guidato unicamente dai
propri scopi utilitaristici (a breve termine) può funzionare”.
In altre parole, può essere legittimo studiare i mercati, sul piano analitico, isolandoli dal contesto istituzionale.
Tuttavia, quando l’indagine si svolge sul terreno storico-empirico, necessario tenere invece conto delle forme e del
grado di integrazione dei mercati nella società.
Essi mostrano sul piano storico come l’affermarsi del mercato eroda le vecchie istituzioni, generi instabilità sociale
e politica, e porti alla sperimentazione di nuove istituzioni.
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Nonostante i due autori divergano nettamente nella valutazione politica del fenomeno di trasformazione del
capitalismo, essi invece concordano sul passaggio a un capitalismo in cui il ruolo del mercato è più limitato e più
regolato socialmente e politicamente; che per Schumpeter arriverebbe ad essere una forma di organizzazione
economica di tipo socialista.
Schumpeter non giudica favorevolmente il processo in corso e resta legato ai valori della civiltà capitalistiche che
vorrebbe difendere ma che gli sembra in un declino difficilmente arginabile.
Polanyi ritiene che il passaggio ad un’economia reincorporata nella società, più regolata socialmente e
politicamente, sia non solo inevitabile, ma anche auspicabile, sia per il futuro dei paesi occidentali che per i nuovi
paesi sottosviluppati che si andavano affacciando sulla scena della storia, e che non avrebbero necessariamente
dovuto sostenere i costi sociali del mercato.