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N°33, 13-19 DICEMBRE 2015
ISSN: 2284-1024
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Weekly Report Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) © BloGlobal – Lo sguardo sul mondo
Milano, 20 dicembre 2015 ISSN: 2284-1024 A cura di: Davide Borsani Giuseppe Dentice Danilo Giordano Vittorio Giorgetti Antonella Roberta La Fortezza Giorgia Mantelli Violetta Orban Maria Serra Alessandro Tinti
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Parti di questa pubblicazione possono essere riprodotte, a patto di fornire la fonte nella seguente forma:
Weekly Report N°33/2015 (13-19 dicembre 2015), Osservatorio di Politica Internazionale (OPI), Milano 2015, www.bloglobal.net
Photo Credits: Associated Press; AFP; EPA; La Presse; European Council.
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FOCUS
LIBIA ↴
Dopo quattordici mesi di negoziazioni, è stato raggiunto al Palazzo dei Congressi di
Skhirat, in Marocco, un accordo storico sulla Libia che dovrebbe portare, nelle
intenzioni dei firmatari, alla fine delle ostilità e alla formazione di un governo di unità
nazionale.
L’accordo, firmato da 90 deputati della Camera dei Rappresentanti del Parlamento di
Tobruk e da 70 parlamentari del Congresso Generale Nazionale di Tripoli, è stato
sottoscritto da Saleh Makhzoum, Fathi Bishara e Nuri Balabad, in rappresentanza
delle tre regioni di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, ma non dai Presidenti dei Parla-
menti di Tripoli e Tobruk. L’accordo prevede la nomina a Premier di Faiz al-Siraj,
deputato originario della città di Tripoli ma appartenente al Parlamento di Tobruk, e
di tre vice Premier Ahmed Maitiq (Tripolitania), Moussa Kony (Fezzan) e Fathi Majbari
(Cirenaica). Il Premier e i suoi tre vice, coadiuvati da un Consiglio presidenziale di
9 membri, anch’essi suddivisi in base alla loro provenienza, dovranno prendere le
loro decisioni all’unanimità: il primo provvedimento riguarderà la nomina dei Ministri,
che dovrà avvenire entro 40 giorni in modo da consentire al nuovo governo di inse-
diarsi. Il Parlamento dovrebbe essere costituito da 192 membri, tra i quali 40
appartenenti al Congresso Generale di Tripoli, e prendere le decisioni più importanti
con la maggioranza qualificata di 150 voti. L’accordo non prevede alcun tipo di
incarico per Khalifa Haftar, l’ex Generale che ha condotto quello che rimaneva
dell’esercito di Gheddafi nell’Operazione Dignità contro l’avanzata islamista, e che si
è opposto, fino all’ultimo, al raggiungimento di qualsiasi tipo di intesa. Il nuovo go-
verno di transizione dovrà affrontare un compito molto difficile: traghettare il Paese
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fuori dal caos che si protrae dal 2011, unificare le 250 milizie in un unico esercito,
coinvolgere anche le fazioni assenti a Skhirat. La mancata firma dei Presidenti dei
due Parlamenti riconosciuti e l’assenza di molte milizie in Marocco rappresentano due
pesanti incognite sull’effettività dell’accordo appena sottoscritto. Cionono-
stante, il neo Inviato Speciale delle Nazioni Unite, il tedesco Martin Kobler, ha
espresso tutta la sua soddisfazione per l’intesa raggiunta e ha riconosciuto l’impor-
tanza del ruolo dell’Italia, sottolineando l’importanza della Conferenza di Roma
«in quanto ha dato l’impulso necessario per arrivare all’accordo, senza la quale sa-
rebbe stato tutto più difficile». La Conferenza di Roma del 13 dicembre, voluta forte-
mente dal governo italiano, si era conclusa con una dichiarazione di pieno appoggio
della comunità internazionale al processo di riconciliazione tra le fazioni libiche, au-
spicando il cessate il fuoco immediato, la creazione di un governo di unità nazionale,
un maggior impulso nella lotta allo Stato Islamico (IS).
GLI ATTORI IN CAMPO E IL CONTROLLO DEL TERRITORIO IN LIBIA - FONTE: BBC & LE JDD
La settimana prossima all’ONU è prevista l’approvazione di una Risoluzione che rece-
pisca l’accordo di Skhirat e autorizzi l’intervento di una coalizione internazionale
a supporto del nuovo governo libico. Il compito di guidare questa missione po-
trebbe essere affidato al generale italiano Paolo Serra, ex capo di UNIFIL in Libano e
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attuale consigliere dell’ONU per la Libia, che da tempo sta lavorando sulla messa in
sicurezza della capitale Tripoli. La missione militare guidata dal Gen. Serra potrebbe
essere concepita “a fisarmonica”, ovvero adattata alle esigenze che si presentano
lungo il percorso, e costituita da circa 600 uomini, in gran parte soldati italiani. In
tale ambito, è emersa, da alcuni giorni, la notizia secondo cui il Regno Unito sarebbe
disposto ad inviare mille uomini in Libia, mentre sul terreno sarebbero già presenti
diversi soldati dei corpi speciali americani.
La situazione nel Paese è, al momento, tutt’altro che pacificata e/o sicura, dato che
continuano i combattimenti, concentrati soprattutto in Cirenaica, tra gruppi
armati filo-esercito e i miliziani del Consiglio della Shura a Derna, legati all’IS, Ansar
al-Sharia, e a Tripoli e Misurata, dove sono altre le milizie che si disputano il controllo
del territorio. Ma ciò che preoccupa di più è l’avanzata dello Stato Islamico: dopo aver
stabilito il suo quartier generale a Sirte, l’IS ha rafforzato le sue posizioni molto
più a est, ad Ajdabiya, dove ci sono immense risorse petrolifere. Nei giorni
scorsi uomini dello Stato Islamico avrebbero allestito dei posti di blocco nei pressi
della città di Sabratha, città dal 1982 tra i siti Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO e
secondo alcuni locali avrebbero dichiarato l’istituzione di uno Stato islamico nella
città. Sabratha possiede, oltre al valore storico, un importante valore strategico in
quanto si trova a circa due ore di strada dal confine tunisino, riaperto recentemente,
dopo l’attentato che lo scorso 24 novembre aveva causato la morte di 12 guardie
presidenziali.
Invece è tutta da verificare la notizia diffusa nei giorni scorsi dall’agenzia stampa
iraniana, FARS News, secondo la quale l’autoproclamato Califfo Abu Bakr al-Baghdadi
sarebbe fuggito dalla capitale siriana Raqqah per trovare rifugio nella libica Sirte.
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SIRIA-IRAQ ↴
Il 15 dicembre Riyadh ha annunciato la formazione di un’alleanza militare dei
Paesi dell’Islam sunnita per combattere il terrorismo. Al patto promosso dalla
famiglia regnante saudita accedono le monarchie del Golfo (ad eccezione dell’Oman),
Turchia, Egitto, Giordania, Pakistan, Kuwait e numerosi Paesi africani e asiatici, por-
tando il perimetro della coalizione a trentaquattro membri. Il Ministro della Difesa
Mohammed bin Salman ha comunicato che l’intesa prevede la creazione a Riyadh di
un centro operativo congiunto per coordinare gli sforzi militari contro “qualsiasi or-
ganizzazione terroristica” attiva nel mondo musulmano, non solo dunque il gruppo
Stato Islamico (IS). A questo riguardo, il Ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir
ha annotato che le potenze del Golfo Persico (Emirati Arabi Uniti, Qatar e Bahrain,
oltre all’Arabia Saudita) già coinvolte nella coalizione a guida statunitense che com-
batte il Califfato islamico non escludono un prossimo intervento di reparti di
terra nel teatro siriano. Il Presidente americano Barack Obama aveva recente-
mente sollecitato gli Stati regionali a moltiplicare l’impegno nell’ambito della missione
multilaterale. Tuttavia, la proposta saudita solleva il dubbio che l’alleanza sunnita
sia anzitutto strumento delle ambizioni di Riyadh, precipitata nel conflitto civile
yemenita e protesa ad avversare la crescente influenza del rivale iraniano. Non a caso
il disegno saudita esclude Iraq e Siria – ossia gli Stati arabi allineati alla politica estera
di Teheran – e Oman – negoziatore del recente cessate il fuoco in Yemen e delle
trattative sul nucleare iraniano – dal quadro dell’alleanza, che non comprende anche
altri rilevanti Paesi a maggioranza musulmana, quali Afghanistan, Indonesia (che ha
mostrato interesse ad accedervi) e Algeria. Inoltre, Pakistan e Libano hanno dichia-
rato di aver appreso della partecipazione al patto militare solo dopo l’annuncio uffi-
ciale del governo di Riyadh.
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Intanto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato il 18 dicem-
bre una Risoluzione che riconosce la fase di transizione negoziata in novembre
a Vienna e richiama il governo di Damasco e le opposizioni a una tregua su scala
nazionale per facilitare i colloqui di pace che si apriranno a gennaio sotto egida ONU
– obiettivo quest’ultimo che oggi appare però improbabile in ragione dell’intensità
degli scontri armati, dell’eterogeneità del fronte ribelle e dell’espansione territoriale
dell’IS, che al pari di Jabhat al-Nusra, è estromessa dal tavolo delle trattative. La
Risoluzione non tocca i punti controversi della definizione dei gruppi armati
terroristi – questione che tocca direttamente la Giordania, la quale dovrà redigere
e presentare a breve una lista completa in tal senso – e della sorte del Presidente
siriano Bashar al-Assad. A propiziare i lavori a New York è stato l’incontro del Segre-
tario di Stato americano John Kerry con il suo omologo russo Sergej Lavrov, che il 15
dicembre avevano discusso a Mosca della crisi siriana e ucraina. Il primo esponente
della diplomazia statunitense aveva in seguito incontrato anche i rappresentanti di
Arabia Saudita, Giordania e Qatar. Malgrado l’iniziativa congiunta in sede ONU, le
posizioni di Washington e Mosca rimangono tuttavia distanti sui nodi nego-
ziali del futuro assetto siriano e riflettono la più aspra competizione regionale tra il
fronte sunnita coagulatosi attorno all’Arabia Saudita e l’asse sciita che associa Hez-
bollah, il regime alawita guidato da Assad e il governo iracheno a Teheran.
Nel frattempo, l’organizzazione internazionale Human Rights Watch ha pubblicato un
corposo rapporto che documenta le torture e l’uccisione di migliaia di oppositori siriani
da parte dalle Forze Armate del governo di Damasco. Le oltre 55.275 fotografie mo-
strano i corpi senza vita di oltre undici mila persone e sono state scattate da un ex
collaboratore (denominato Cesar) della polizia militare siriana tra il maggio 2011 e
l’agosto 2013. Ricevute nel gennaio 2015 dalla Syrian Association for Mission and
Conscience Detainess cui erano state in un primo momento affidate, Human Rights
Watch ne ha verificato l’autenticità e riconosciuto decine di cadaveri, così come alcuni
dei luoghi in cui sono state consumate le atrocità. Il documento costituisce un grave
atto di accusa contro il regime di Bashar al-Assad e la brutale repressione che seguì
la sollevazione delle proteste popolari contro la dirigenza alawita.
In Iraq, mercoledì 16 dicembre l’IS ha portato un vasto attacco a sorpresa attorno
a Mosul, ingaggiando una battaglia di diciassette ore con le forze curde, che con il
sostegno aereo dei caccia della coalizione internazionale hanno infine respinto l’of-
fensiva. Secondo gli ufficiali statunitensi oltre duecento miliziani jihadisti avrebbero
perso la vita nello scontro. Negli ultimi mesi le incursioni del Califfato erano diminuite
in frequenza e intensità, ma l’azione di forza – benché di corto respiro – indica che il
gruppo terroristico non abbia perso la capacità di mobilitare e manovrare risorse nel
nord dell’Iraq. Sopraggiunto a Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, il Segretario
della Difesa statunitense Ashton Carter ha perciò rinnovato l’intenzione di equi-
paggiare direttamente i Peshmerga curdi al fine di accelerare l’accerchiamento
dei guerriglieri islamisti a Mosul, come pure di incrementare la presenza militare
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americana nel Paese per trarre vantaggio dalla flessione dell’IS nella regione meri-
dionale dell’Anbar, dove l’avanzata delle forze di sicurezza irachene a sud di Ramadi
è stata parzialmente interrotta dai miliziani jihadisti con la distruzione dei ponti che
immettono nel centro urbano. In visita a Baghdad, il vertice del Pentagono aveva
tuttavia già incontrato la riluttanza del governo centrale guidato da Haider al-Abadi
ad approvare un maggiore coinvolgimento sul terreno degli Stati Uniti, ipotesi contro
cui le influenti milizie sciite vicine a Teheran hanno apertamente minacciato di sfidu-
ciare l’esecutivo. A contribuire in negativo sui delicati equilibri interni, venerdì 18
dicembre dieci soldati iracheni sono caduti sotto il fuoco amico dei caccia americani
durante un’operazione congiunta presso Amriyat al-Falluja. Intanto, la diplomazia
americana è intervenuta nella crisi aperta dal dispiegamento non autorizzato di un
contingente turco nella città irachena di Bashiqa. Il presidente Barack Obama in un
colloquio telefonico con il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha chiesto di ridurre
la tensione con il governo di Baghdad continuando il ritiro dei militari turchi
dall’Iraq settentrionale.
Il Parlamento iracheno ha invece approvato la legge di bilancio per l’anno 2016, sti-
mando un deficit di circa 20,5 miliardi di dollari su un esercizio complessivo di 89,7
miliardi. Per chiudere il pesante passivo determinato dallo sforzo bellico contro l’IS e
dal crollo del prezzo del petrolio (che contribuisce a più del 90% delle entrate ira-
chene) l’esecutivo ha inondato il mercato azionario di titoli di Stato, ma il dissesto
delle casse federali ha contratto l’attività economica e compromesso l’erogazione dei
servizi pubblici di base – con ciò alimentando una veemente ondata di proteste che
gradualmente si è arricchita di temi politici, tra cui la ripartizione dei proventi petro-
liferi e l’endemica corruzione del settore amministrativo. Di fronte alla crisi delle fi-
nanze irachene, la Banca Mondiale ha annunciato la concessione di un prestito
straordinario di 1,2 miliardi di dollari, che sarà trasferito al governo di Baghdad
prima della fine dell’anno.
Intanto, l’Italia si è dichiarata pronta a inviare 450 militari a protezione della
diga di Mosul, monumentale infrastruttura gravemente danneggiata dagli scontri
con i guerriglieri dell’IS, che nel giugno 2014 se ne erano impadroniti per poi arretrare
due mesi più tardi sotto gli attacchi congiunti dei Peshmerga curdi e dei caccia statu-
nitensi. All’origine del dispiegamento del contingente è stata l’assegnazione dell’ap-
palto per la messa in sicurezza della diga a un’azienda italiana, il gruppo Trevi. L’Italia
è già impegnata in Iraq con 750 unità, prevalentemente adibite a compiti di adde-
stramento a Erbil e Baghdad. Tuttavia, la nuova missione approvata dal governo Renzi
costituisce un intervento particolarmente delicato in virtù della vicinanza alla città di
Mosul (baluardo del Califfato e distante appena trentacinque chilometri) e della rile-
vanza strategica dell’impianto, la cui distruzione minaccerebbe drammaticamente le
province a valle fino a lambire la stessa capitale Baghdad.
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BREVI
BURUNDI, 11-12 DICEMBRE ↴
Non accennano a placarsi le violenze in corso da diversi
mesi nel piccolo Paese della regione dei Grandi Laghi.
Nella giornata di venerdì 11 dicembre i miliziani delle
forze anti-governative burundesi hanno attaccato tre
siti militari per rifornirsi di armi, prendendo altresì di
mira le carceri in cui erano detenuti altri rivoltosi, insorti contro il Presidente Pierre
Nkurunziza. Almeno 5 militari sarebbero rimasti feriti in quegli scontri, mentre 12
ribelli sarebbero stati uccisi e 20 arrestati. Il giorno seguente, le forze di sicurezza
avrebbero risposto ai tre attacchi con rappresaglie casa per casa nella capitale. Gli
scontri sono avvenuti a Nyakabiga, quartiere della capitale Bujumbura divenuto
roccaforte degli oppositori di Nkurunziza. Sono tra 150 e 200 le persone ritrovate
morte in quelle che sembrano essere state esecuzioni extra-giudiziarie. Infatti, i
cadaveri di molti giovani sono stati ritrovati con le mani legate dietro la schiena e
colpiti da proiettili al capo. Si ipotizza altresì l’esistenza di fosse comuni, pertanto, si
teme che il numero delle vittime possa essere maggiore. Gli episodi avvenuti negli
ultimi giorni sono stati i più violenti dall’inizio dei disordini. Le proteste nel Paese sono
iniziate nell’aprile del 2015, a seguito della decisione del Presidente Nkurunziza di
candidarsi per un terzo mandato, violando così il limite di due mandati previsto dalla
Costituzione. Nkunrunziza – in carica dal 2005 – ha vinto poi le elezioni presidenziali
lo scorso 21 luglio, ottenendo più del 69% dei voti. In virtù di questa costante
escalation di violenze, il Burundi rischia di sprofondare nel vortice di una guerra civile.
Secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite, oltre alle vittime degli ultimi giorni,
almeno altre 240 persone sono state uccise e oltre 200.000 sono fuggite verso i Paesi
vicini. Le violenze rischiano, inoltre, di riaccendere le antiche tensioni fra Hutu e Tutsi,
dato che la maggioranza delle persone uccise apparteneva all’opposizione Tutsi. Per
di più, i leader militari esortano la popolazione a difendersi dagli abitanti di etnia
Tutsi, definendoli “terroristi al-Shabaab”. Nonostante non esista alcuna connessione
tra questo gruppo jihadista di base in Somalia e le milizie di autodifesa dei quartieri
popolari a maggioranza Tutsi, questa propaganda aumenta il rischio di conflitti e
scontri inter-etnici. Nel tentativo di placare le tensioni, la comunità internazionale ha
chiesto l’avvio urgente di un dialogo tra tutte le componenti della società burundese
e concedendo al Presidente ugandese Yoweri Museveni, il ruolo di mediatore nella
crisi politica in atto. Inoltre, data la gravità delle violenze, il Consiglio per i Diritti
Umani delle Nazioni Unite terrà una sessione speciale sull’escalation della crisi
burundese. La sessione, convocata su richiesta degli Stati Uniti, è stata sostenuta da
17 su 47 membri del Consiglio per i Diritti Umani e da 25 Stati osservatori.
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TURCHIA-RUSSIA, 13-17 DICEMBRE ↴
Due nuove vicende si aggiungono alla già intricata
trama di rapporti tra Mosca e Ankara seguita
all’abbattimento del Su-24: domenica 13 dicembre una
nave da guerra russa, il cacciatorpediniere Smetlivy,
ha sparato alcuni colpi di avvertimento contro un
peschereccio turco, il Geciciler 1, nel Mar Egeo.
Secondo quanto riferito dall’Agenzia Interfax,
l’imbarcazione turca, sulla stessa rotta di quella russa, non avrebbe risposto ai primi
avvertimenti da parte della nave russa, la quale sarebbe stata quindi costretta a
sparare alcuni colpi per evitare la collisione. Il giorno successivo, nel Mar Nero, un
mercantile battente bandiera turca è stato costretto da due navi russe, un
incrociatore portamissili della Flotta russa del Mar nero e un’unità della guardia
costiera dei servizi di sicurezza dell’Fsb, a cambiare rotta. La notizia è stata riferita
dall’agenzia RIA Novosti, la quale ha spiegato che l’intervento si sarebbe reso
necessario perché, in violazione dei regolamenti internazionali, il mercantile turco
stava impedendo il transito ad un gruppo di navi della compagnia energetica della
Crimea che stava trasportando due piattaforme petrolifere, dal valore complessivo di
354 milioni di dollari, della società Chernomorneftegaz. A causa della difficile
situazione internazionale, Mosca ha infatti deciso di spostare le due piattaforme per
la trivellazione, finora site nelle acque al largo di Odessa, in acque territoriali russe.
A tal riguardo, i servizi segreti russi hanno invece smentito che la nave turca stesse
deliberatamente ostacolando il passaggio delle navi russe. Intanto nella mattinata
del 18 dicembre è stata aperta pubblicamente la scatola nera del Su-24 che risulta
parzialmente danneggiata e che sarà analizzata, nei prossimi giorni, da tecnici russi
con l’ausilio di esperti cinesi e britannici. I primi risultati dell’analisi si attendono per
il 21 dicembre. La situazione rimane in fase di stallo anche dal punto di vista
diplomatico: il previsto incontro di una commissione intergovernativa russo-turca che
avrebbe dovuto avere luogo il 15 dicembre è stato cancellato senza prevedere, ad
oggi, alcuna data alternativa. L’Ambasciatore russo ad Ankara, Andrey Karlov, ha
affermato che gli sforzi turchi volti a recuperare pacifiche relazioni con Mosca non
potranno portare ad alcun risultato concreto se non rispetteranno almeno tre
precondizioni: scuse ufficiali da parte di Ankara, un processo per i responsabili
dell’abbattimento del Su-24 e una compensazione per i danni subiti da Mosca. Alle
dichiarazioni dell’Ambasciatore si è poi affiancata la dichiarazione del vice Ministro
della Difesa e Capo di Stato Maggiore delle forze armate russe, Valery Gerasimov, il
quale ha sottolineato che, allo scopo di garantire la difesa dei propri interessi
strategici, Mosca prevede di sviluppare ulteriormente la propria Marina e le proprie
forze aeree (sembra sia previsto l’acquisto di almeno 70 aerei e oltre 120 elicotteri
nei prossimi 24 mesi, di 30 navi di superficie e sottomarine e di 600 blindati). Il 17
dicembre, nella consueta conferenza di fine anno, il Presidente russo Vladimir Putin
ha sottolineato l’impossibilità, giunti a questo punto, di un miglioramento delle
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relazioni tra i due Paesi: la Turchia infatti non solo non ha mai fatto pervenire a Mosca
scuse formali per quanto accaduto il 24 novembre ma, al contrario, ha convocato
d’urgenza il Consiglio NATO. L’ipotesi ventilata dal Cremlino, così come emerge dalle
parole di Putin in conferenza stampa, è che l’abbattimento del Su-24 sia stato un
chiaro piano turco per poter mostrare agli USA e all’UE che, nonostante tutto, Ankara
è ancora un partner affidabile. Putin inoltre, dopo aver parlato di una progressiva
islamizzazione strisciante nella vecchia patria di Mustafa Kemal Atatürk, ha precisato
che la Russia ha completato l’installazione dei suoi missili antiaereo S-400 in territorio
siriano; una chiara risposta all’atteggiamento di Ankara, la quale negli ultimi mesi ha
frequentemente autorizzato violazioni dello spazio aereo siriano. Non sembrano,
dunque, smorzarsi i toni di questa crisi diplomatica fatta di minacce e provocazioni
reciproche.
UNIONE EUROPEA, 17-18 DICEMBRE ↴
Sono stati diversi gli argomenti di discussione
dell’ultimo Consiglio Europeo del 2015: immigrazione,
referendum in Regno Unito, unione economica e
monetaria, lotta al terrorismo. Per quanto riguarda il
primo aspetto, l’UE ha registrato i progressi in alcuni
settori e ha focalizzato l’attenzione sulle prossime
misure da adottare, in particolare sull’attuazione delle decisioni sui meccanismi di
rimpatrio, sul controllo delle frontiere esterne (con la proposta della creazione di un
corpo militare europeo preposto allo scopo) e sulla cooperazione con i Paesi di origine
dei migranti. Per ciò che concerne la cosiddetta “Brexit”, i leader dell’UE hanno deciso
di rimandare al Consiglio di febbraio 2016 un accordo sui punti sollevati dal Premier
britannico David Cameron: oltre al cosiddetto “opt-out” (ossia la possibilità di
sottrarsi ai meccanismi di più stretta cooperazione comunitaria), alle garanzie
monetarie e alla formula della sussidiarietà, la questione più spinosa riguarda la
proposta di Londra di sospendere per quattro anni il sistema di welfare per i cittadini
UE che risiedono e che lavorano in Regno Unito per non discriminare i cittadini
britannici. Le divisioni maggiori si sono ad ogni modo registrate sui temi economici.
In particolare il Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi – il cui governo è al
centro di una polemica sul salvataggio di alcune banche, oltre ad essere contrariato
per l’apertura di una procedura di infrazione aperta dalla Commissione europea per
la mancata registrazione dei migranti con la presa di impronte digitali (sistema
Eurodac) – ha fortemente criticato il ruolo assunto dalla Germania nella gestione della
crisi, sottolineandone tra l’altro la mancanza di un impegno concreto sull’applicazione
di uno schema europeo sui depositi bancari e sulla relativa implementazione
dell’Unione bancaria, evidenziando il doppiopesismo adottato da Berlino con la Russia
(al cui rinnovo delle cui sanzioni l’Italia ora si oppone) in ambito energetico (il
riferimento è al raddoppio del progetto Nord Stream, avviato in realtà dall’estate) e
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tornando a promuovere una politica economica maggiormente incentrata sulla
flessibilità e sulla crescita piuttosto che sull’austerità. Sullo sfondo degli accordi in
Libia e sul processo di transizione in Siria, l’impegno dell’UE a favore della lotta al
terrorismo resta ancora verbale e più che altro incentrato sul potenziamento dei
database e dello scambio di informazioni tra Paesi membri, oltre che sul
rafforzamento dei meccanismi di controllo e di registrazione dei passeggeri delle
compagnie aeree (il cosiddetto Passenger Name Record, PNR).
YEMEN, 15 DICEMBRE ↴
A nove mesi dall’inizio della guerra civile yemenita, le
principali forze in campo hanno dichiarato una
settimana di cessate il fuoco umanitario e, in parallelo,
hanno avviato, sotto l’egida delle Nazioni Unite, una
nuova fase di negoziati a Ginevra (Svizzera), nel
tentativo di giungere alla firma di un accordo
complessivo che possa mettere fine ad un conflitto nell’unica Repubblica del Golfo
che ha provocato oltre 6.000 vittime. Sebbene entrambe le parti abbiano accettato
la tregua umanitaria, il governo legittimo del Presidente Abd Mansur Hadi – riparato
a Riyadh e protetto dalla coalizione arabo-sunnita a guida saudita – e l’alleanza tra
le fazioni filo-sciite zaydite degli Houthi e quelle fedeli all’ex Capo di Stato Saleh, non
sono ancora riuscite a trovare un punto d’incontro in questo complesso negoziato. Al
pari delle difficoltà politico-diplomatiche, non accenna a dipanarsi la situazione
militare sul terreno. Infatti dopo gli attacchi e i bombardamenti a Ta’iz, terza città
per importanza del Paese, e a Marib, le rispettive parti si sono accusate di aver violato
il cessate il fuoco proposto dalle Nazioni Unite. Il governo legitimo di Hadi ha accusato
gli Houthi di aver infranto l’accordo e di aver approfittato dei colloqui di pace per
continuare a espandere le operazioni militari nel sud del Paese. Da parte loro, gli
Houthi e le fazioni filo-Saleh hanno rigettato le accuse, condannando le azioni militari
delle forze congiunte guidate dall’Arabia Saudita. Di fatto, entrambe le alleanze si
sono vicendevolmente accusate di essere responsabili della grave e costante
escalation di violenze, che rischia sempre più di tracimare anche nel vicino regno
saudita, dove da alcuni mesi si registrano incidenti di frontiera nello Jizan, nell’Asir e
nel Najran, regioni confinarie con una folta presenza di sciiti e di tribù saudite legate
da vincoli socio-linguistico-culturali agli Houthi ed altri gruppi etnici dello Yemen. Lo
scorso 19 dicembre, infatti, si sono registrati numerosi e multipli attacchi lungo il
confine, per la precisione nel Najran, dove sarebbero morte oltre 70 persone, la
maggior parte dei quali militari sauditi. A rendere ancora più complesso il piano di
stabilità yemenita si inseriscono, infine, le difficoltà legate al ruolo assunto da due
attori non statuali: al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) e Wilayat Yemen (WY,
Provincia dello Yemen), rispettivamente branche locali di al-Qaeda e dello Stato
Islamico. In un contesto politico e di sicurezza ampiamente frammentato, le azioni
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militari di AQAP e di WY rischiano di frantumare quel che resta delle istituzioni statuali
yemenite favorendo l’azione eversiva e terroristica dei due gruppi in una pericolosa
corsa al radicalismo e all’estremizzazione degli attacchi violenti contro la popolazione
civile (gli attacchi contro le moschee sciite) e i simboli del potere centrale (l’attentato
mortale contro il governatore di Aden o il compound dei filo-governativi sempre ad
Aden). Se WY non sarebbe ancora in grado di attuare una forma concreta di controllo
territoriale, AQAP invece è riuscita a conquistare in questi mesi alcuni avamposti
strategici, come i porti e gli aeroporti di Mukallah, Jaar e Zinjibar, rafforzando dunque
il suo retroterra logistico-militare nelle regioni orientali del Paese.
GLI ATTORI IN CAMPO E IL CONTROLLO DEL TERRITORIO IN YEMEN - FONTE: BBC & STRATFOR
(AGGIORNAMENTO AL 9/12/2015)
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ALTRE DAL MONDO
CINA, 15 DICEMBRE ↴
Si è tenuto a Zhengzhou, in Cina, il 14° summit dei Primi Ministri della Shanghai
Cooperation Initiative (SCO). La dichiarazione pubblicata a margine del summit con-
ferma il supporto della SCO per la creazione della Nuova Via della Seta e, in proposito,
auspica l’avvio di una cooperazione regionale specifica, ad esempio sviluppando un
corridoio logistico comune con nuove strade e ferrovie, e la creazione in futuro di una
banca di sviluppo propria dell’organizzazione. Si è discusso anche di terrorismo in-
ternazionale con l’auspicio di rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza, di
firmare una nuova convenzione anti-terrorismo e di continuare a sostenere il pro-
cesso di riconciliazione nazionale in Afghanistan. La prossima riunione si terrà nel
2016 in Kirghizistan.
FRANCIA, 13 DICEMBRE ↴
Nonostante l’ottenimento della percentuale di voti più alta al primo turno delle ele-
zioni regionali dello scorso 6 dicembre, il Front National (FN) di Marine Le Pen non è
riuscito a vincere in nessuna delle 13 regioni francesi impegnate nel ballottaggio.
Decisivo si è rivelato infatti il ritiro del Parti Socialiste (PS) in Picardia-Nord Pas de
Calais e nella Provenza-Alpi-Costa Azzurra, con l’esplicito invito agli elettori di sinistra
di appoggiare il partito di centro-destra Les Republicains (LR). I risultati definitivi
hanno dunque decretato la vittoria di LR in 7 regioni e del PS in 5; mentre in Corsica
hanno vinto i nazionalisti riuniti nel gruppo “Pè a Corsica”. La maggiore affluenza alle
urne (16% in più rispetto al primo turno) ha inoltre sicuramente favorito lo sposta-
mento dei voti verso i due maggiori partiti nazionali. Nonostante la sconfitta, va co-
munque sottolineata la forte ascesa della formazione della Le Pen (che ha ottenuto
complessivamente il 18,74% dei voti), in continuità con i risultati di tutte le ultime
tornate elettorali.
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MALI, 16 DICEMBRE ↴
Il gruppo terroristico di Ansar al-Dine ha attaccato una caserma militare nel nord del
Mali, ferendo e uccidendo numerosi soldati ai quali sono state sottratte anche le armi.
Secondo quanto dichiarato dal gruppo estremista sul suo account Twitter, l’attacco
alla città di Nione è parte di un tentativo di espellere le truppe francesi dal territorio
maliano.
NIGERIA, 12-13 DICEMBRE ↴
Si sono verificati violenti scontri tra l’esercito e la comunità sciita nigeriana in tre
diverse aree dell’antica città di Zaria, nel nord del Paese. Gli scontri avrebbero avuto
inizio quando un gruppo di almeno 500 sciiti avrebbe tentato di bloccare il passaggio
del convoglio del Capo di Stato Maggiore dell’esercito nigeriano, il generale Tukur
Burata. Al lancio di sassi da parte degli astanti, i militari avrebbero risposto con il
fuoco uccidendo numerosi manifestanti e radendo al suolo la casa di Ibraheem Za-
kzady, leader dello Islamic Movement of Nigeria (IMN) e a capo della comunità sciita
locale, anch’egli ferito e arrestato.
SERBIA, 14 DICEMBRE ↴
A quasi due anni di distanza dalla prima Conferenza intergovernativa (gennaio 2014)
e a quasi quattro dal conseguimento della candidatura ufficiale (marzo 2012), sono
stati aperti i primi due capitoli negoziali inerenti al processo d integrazione della Ser-
bia nell’Unione Europea. Si tratta del Capitolo 32 sul controllo finanziario e del 35
sulla normalizzazione dei rapporti con il Kosovo. In particolar modo quest’ultimo, che
resta in linea con la Risoluzione 1244/1999) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite e con il parere della Corte Internazionale di Giustizia sulla dichiarazione di in-
dipendenza del Kosovo, sarà decisivo per determinare l’andamento e il futuro dei
negoziati di adesione. Belgrado continua ufficialmente a non riconoscere l’indipen-
denza di Priština, ma si è impegnata nell’implementazione degli Accordi di Bruxelles
che, lo scorso 25 agosto, hanno avuto una svolta con formalizzazione, tra le altre
cose, della creazione dell’Associazione delle municipalità serbe del Kosovo del nord.
Con l’apertura dei capitoli, l’UE ha premiato l’atteggiamento propositivo della Serbia,
pur confermando che sarà effettuato un monitoraggio continuo sull’effettiva stabiliz-
zazione delle relazioni con il Kosovo.
STATI UNITI, 17 DICEMBRE ↴
La Federal Reserve Bank degli Stati Uniti ha alzato di un quarto di punto i tassi di
interesse portandoli da un range di 0-0,25% ad uno di 0,25-0,5%. È la fine della fase
accomodante protrattasi per oltre sei anni e che è fin qui risultata essenziale per far
uscire gli Stati Uniti dalla “Grande crisi” economica del 2008. Si è trattato inoltre del
primo rialzo dei tassi a distanza di nove anni (l’ultimo avvenne nel 2006). Le borse
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mondiali, a partire da Wall Street, hanno ben reagito ad una mossa che comunque
era nell’aria da oltre un anno. Il Presidente della Fed, Janet Yellen, ha invitato a non
esagerare il rialzo dei tassi, specificando che la Banca Centrale continuerà a muoversi
«in modo prudente e in maniera graduale».
STATI UNITI-RUSSIA, 15 DICEMBRE ↴
Il Segretario di Stato USA, John Kerry, si è recato a Mosca, dove ha incontrato il
Presidente Vladimir Putin e il Ministro degli Esteri Sergej Lavrov per una serie di
colloqui sulla questione siriana, il terrorismo e la crisi in Ucraina. La Siria è stato il
tema principale di discussione dell’incontro, nel quale Kerry ha espresso le preoccu-
pazioni di Washington per il fatto che alcuni raid russi nel Paese fossero diretti contro
l’opposizione moderata e non solo contro le postazioni dello Stato Islamico (IS). Il
Segretario di Stato ha affermato: «Ho spiegato chiaramente [a Putin] la nostra preoc-
cupazione che alcuni raid russi abbiano colpito l’opposizione moderata e non DAESH.
E sono contento di poter dire che lui l’ha preso in considerazione». Nel corso dell’in-
contro, oltre a definire un percorso per un maggior coordinamento nella lotta all’IS,
Lavrov ha dichiarato di sostenere l’iniziativa statunitense di svolgere un Vertice sulla
Siria, tenutosi il 18 dicembre a New York.
TURCHIA-QATAR, 16 DICEMBRE ↴
L’Ambasciatore turco in Qatar, Ahmet Demirok, ha annunciato che la Turchia disporrà
di una base militare permanente nell’emirato, prima base d’oltremare turca in Medio
Oriente. Il progetto rientra in un accordo di cooperazione nella Difesa siglato dai due
Paesi nel 2014. La base, per il cui completamento ancora non si indica una data
esatta, avrà come scopo primario l’addestramento e ospiterà 3.000 unità di fanteria,
unità aeree e navali, addestratori militari e forze per le operazioni speciali. L’accordo
prevede che il Qatar costruisca una struttura analoga in territorio turco.
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ANALISI E COMMENTI
NOVOROSSIYA, TRA PROGETTO POLITICO
E NUOVA PIATTAFORMA PER IL NAZIONALISMO RUSSO
OLEKSIY BONDARENKO ↴
A partire dal 1453, anno in cui terminò con successo l’assedio di Costantinopoli da
parte dell’Impero Ottomano, la generale priorità della politica estera russa è stata
quella di porsi come tutore della cristianità ortodossa e ricomporre sotto un’unica
bandiera lo spazio geografico dell’antica Rus’ di Kiev. L’idea dell’ortodossia come col-
lante per tutti i popoli slavi all’interno e fuori dai confini della Russia zarista venne
poi rielaborata nella seconda metà del XIX secolo sotto la bandiera del panslavismo.
L’agognata creazione di un’unica nazione slava ha contraddistinto il lavoro intellet-
tuale di numerosi panslavisti dando origine all’idea di Russia come civiltà a sé stante,
né completamente europea né prettamente asiatica. Il legame ancestrale con l’orto-
dossia e soprattutto con il mito originario della Rus’ di Kiev fu sostituito dalla “rivolu-
zione comunista” prima e “dall’accerchiamento capitalista e imperialista” poi, riemer-
gendo lentamente, anche se non come narrazione dominante, dopo la Seconda
Guerra Mondiale (…) SEGUE >>>
LE INCOGNITE DELL’ACCORDO USA-CINA SULLA CYBER-SECURITY
MATTEO ANTONIO NAPOLITANO ↴
La necessità di stabilire regole certe in materia di relazioni legate al complesso con-
testo del cyberspace è ormai una consolidata certezza. Sul piano internazionale, un
incontro-scontro divenuto un classico sul tema è costituto dagli articolati rapporti tra
Cina e Stati Uniti. Il 24 e 25 settembre, in occasione dell’importante visita del Presi-
dente cinese Xi Jinping a Washington, la cooperazione in ambito di cyber-security ha
occupato, tra le tante cruciali tematiche in discussione, una posizione tutt’altro che
secondaria. Come riportato nell’autorevole analisi condotta da Jack Goldsmith, pro-
fessore presso la Law School di Harvard ed esperto di cyber law e sicurezza, la Cina
e gli Stati Uniti hanno raggiunto un accordo che prevede il reciproco impegno dei due
governi al fine di non perpetrare o supportare i furti cyber-enabled di proprietà intel-
lettuale, compresi segreti commerciali o altre informazioni aziendali sensibili, con l’in-
tento di fornire vantaggi competitivi (…) SEGUE >>>
A cura di
OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE
Ente di ricerca di
“BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO”
Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale
C.F. 98099880787
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