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EDIZIONE STRAORDINARIA2

Ci eravamo lasciati all’inizio dell’estate, nello scorso numero di “Edizione Straordinaria”, on la promessa di ritrovarci a metà inverno, con un’uscita un po’ speciale.Eccoci.

Prima di tutto si tratta di una puntata monografica: è il primo esperimento di tematizzazione in cui la redazione ha deciso di lanciarsi. In secondo luogo - ma questa è una ragione personale - quello che avete tra le mani è il primo numero che ho condotto dall’inizio alla fine, dalle prime riunioni sul “da farsi” all’ultima notte prima della messa in stampa. Una doppia “prima volta”, vissuta e condivisa con emozione e passione, tra la voglia di far bene e la certezza di sbagliare qualcosa, per poi far meglio.Per tutto il 2018 si sono susseguiti in tutta Italia piccoli e grandi eventi culturali dedicati al cinquantenario del “Sessantotto” e le sue rivoluzioni. E per noi, giornale dell’Unità Operativa Centri Diurni del Diparti-mento di Salute Mentale dell’Ausl di Piacenza, per la nostra redazione e per l’attività che porta avanti da anni, si tratta di un tema decisamente pregnante. Perché senza il 1968, senza quel passaggio storico, così vitale e controverso, oggi non stareste leggendo queste preziose pagine.

In quell’anno Franco Basaglia, padre della moderna concezione della salute mentale, dava alle stampe “L’Istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”, dove raccontava al grande pubblico la

sua coraggiosa “esperienza pilota” di Gorizia, trasformata nella fucina di un esperimento assolutamente inedito e dalle conseguenze uniche nel mondo: la legge sulla chiusura dei manicomi italiani fu infatti la prima. Cinquant’anni dopo Gorizia. Quaranta dall’approvazione della Legge 180 del 13 maggio 1978 con la successiva istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e il definitivo superamento della disumana logica manicomiale.La “Legge Basaglia” ha compiuto 40 anni: lo scorso settembre sono stati celebrati dal Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche in due ricche giornate al Collegio Alberoni con un importante e corposo convegno dedicato alla ricorrenza, dal quale è emerso in particolare il successo dell’applica-zione della 180 su scala locale, in un contesto nazionale a macchia di leopardo in cui altri territori hanno invece dovuto affrontare ben più perigliosi periodi di adeguamento. In questo contesto, la redazione ha risposto con entusiasmo alla mia proposta. Così nei mesi scorsi abbiamo composto il nostro affresco, un atlante senz’altro parziale dove però s’intrecciano tanti temi, sguardi, curiosità. Il lavoro di squadra, la convergenza tra le diverse passioni, inclinazioni e competenze di ognuno, ci ha permesso di proporvi un mosaico sfaccettato dell’anno che più di tutti ha scombinato il Novecento. Il tutto, senza perdere la tradizionale vocazione del nostro giornale a messaggi positivi e costruttivi; alle “buone notizie”.Ogni giornalista ha contribuito a ricordare, celebrare, ricostruire e rileggere, nelle sue luci e nelle sue om-bre, nelle sue conquiste e contraddizioni, nelle sue pagine più colorate e in quelle più nere, un anno - e i

CONTATTI:Centro Diurno di Castel San Giovanni, 0523-882270 [email protected]

Centro Diurno di Piacenza, [email protected] - [email protected]

“Edizione Straordinaria”, nato come progetto riabilitativo dell’Unità Operativa Centri Diurni del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell'AUSL di Piacenza, viene diffuso sulle pagine web del sito dell’Azienda Sanitaria Locale ed è distribuito gratuitamente in varie sedi di città e provincia: biblioteche, centri culturali, librerie, servizi sanitari, associazioni.Dott.ssa Annalaura GuacciResponsabile Unità Operativa Centri Diurni PsichiatriciDipartimento Salute Mentale e Dipendenze Patologiche AUSL Piacenza

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EDIZIONE STRAORDINARIA

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suoi dintorni - complesso, contraddittorio, irrisolto. Costume, cultura, “colore”. Dal fumetto allo sport, dalla musica al cinema alle estetiche della moda. Il taglio sociale, la riflessione politica, il guizzo artistico. Il bisogno di provare da attualizzare, di riportare all’oggi. All’interno del numero troverete questo e molto altro. S’intravede anche il tentativo di trarre un possibile, non semplice bilancio gene-razionale del ‘68, dei suoi ideali, delle sue eredità, in particolare attraverso le interviste di redazione ad un ex sessantottino critico e colto come il prof Gian-ni D’Amo e ad un potenziale “sessantottino manca-to” - per ragioni puramente anagrafiche - come il giovane cantautore Alessandro Colpani. Provare a capirci qualcosa, proiettare la Storia e la memoria sul nostro presente è uno sforzo necessario, soprat-tutto in quest’epoca così confusa e frammentaria, distratta, distolta, frivola, fagocitata dal superfluo, incapace di fermarsi a riflettere su se stessa e sul suo recente passato per poter agire lucidamente sul presente, correggere storture che hanno radici profonde e disegnare un futuro che sappia lasciar-si alle spalle rimpianti e recriminazioni, nostalgie e vecchie categorie.“C’è una grossa novità - cantava Lucio Dalla - l’anno

vecchio è finito ormai, ma qualcosa ancora qui non va. E se quest’anno poi passasse in un istante, vedi amico mio come diventa importante che in questo istante ci sia anch’io?”. Ecco, noi ci siamo. E voi, se avete tra le mani questo giornale, anche. Non perdiamoci di vista,restiamo vicini, restiamo umani. Nessuna anticipazio-ne da svelare sulla prossima “Edizione Straordinaria”, sarà una sorpresa. Per il momento, tanti auguri ai let-tori, avrete presto nostre notizie. Buone, come sempre.

Pietro Corvi

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Il Sessantotto, oltre che un anno bisestile, è stato un fenomeno culturale e sociopolitico complesso, cuipartecipano movimenti di massa sociale che comprendono operai, studenti e gruppi etnici minoritari e che

interessa quasi tutti i paesi del mondo. È un movimento di libertà, di pensiero e di antirazzismo, soprattutto una contestazione contro ogni forma di pregiudizio, in favore dell’uguaglianza tra gli uomini. Qui proponiamo una sintetica “mappa” di fatti organizzati in forma cronologica, una sintesi che, un po’ come una bussola, possa offrire chiavi di lettura e orientare il viaggio all’interno di questo numero speciale di Edizione Straordinaria.

GennaioRaggiunge il suo apice il movimento socioculturale e di protesta ricordato complessivamente come Il Sessantotto. La Banca di Svevia co- struisce un fondo per i premi Nobel. Arriva il program-ma “La Corrida” di Corrado Mantoni che lo conduce su Rai Due. Jimi Hendrix in tournee in Scandinavia viene arrestato per danni all’Hotel in cui era. Il 5 Alexander Dubcek sale al potere in Cecoslovacchia e comincia la Primavera di Praga. Il 15 il Terremoto del Belice in Sicilia provoca più di 300 morti. Il 22 nel Mar del Giappone viene catturata la nave militare “La Pueblo” della Marina Militare America- na dalla Marina Militare Nord Coreana. Tra il 30 e il 31 in Vietnam comincia l’Offensiva del Têt no- nostante la prevista tregua per il capodanno vietnamita.

FebbraioIl 1° febbraio, giorno del capodanno vietnamita, il capo della polizia di Saigon, il generale Nguyen Ngoc Loan, uccide in una strada di Saigon Bay Lop, sospettato di appar-tenere alla fazione dei Vietcong. Si tratta di una delle foto di guerra più famose di tutti i tempi: un generale che abbatte un uomo in abiti civili con una pallottola in testa durante la guerra del Vietnam. Dal 6 al 18 a Greno- ble in Francia si svolgono le Olimpiadi Invernali. Il 12 si consuma il massacro di Phong Nhi e Phong Nhàt in Vietnam; il 24 l’Offensiva del Têt viene fermata. Marzo

Da Valle Giulia a Roma l’onda di protesta studentesca si propaga in numerose altre università italiane. Il 7 in Vietnam finisce la prima battaglia di Saigon. In Vietnam gli americani uccidono più di 450 persone, soprattutto anziani, donne e bambini nel Massacro di My Lai. Il 18 viene approvata la legge 444 che istituisce la scuola materna pubblica e la 431 sull’assistenza psichiatrica, che introduce il ricovero volontario: il malato di mente è visto come un soggetto da curare e non solo da rinchiudere. Il 24 a Torino il cardinale Michele Pellegrino officia la prima messa cattolica in italiano. Il 26 si tiene la

prima assembla autorizzata legalmente dalla scuola al Liceo ginnasio statale Terenzio Mamiani di Roma.

Notizie dal Sessantotto

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Notizie dal Sessantotto6

AprileIl 4 a Memphis muo- re Martin Luther King assassinato dalla pistola di James Earl Ray. L’11 a Berlino un uomo ferisce gravemente a colpi di pisto-la il leader degli studenti Rudi Dutschke che non si riprenderà più completamente dalle lesioni fino a morire nel 1979 per le conseguenze dell’attentato.

MaggioIl 10 e l’11 nel Quartiere latino di Pari-gi scoppiano gravi inciden-ti tra la poli-zia e gli studenti delle università di Nanterre e del-la Sorbona. Il 13 maggio sfilano 800.000 persone a una manifestazione delle sinistre: è l’apice del Maggio francese. Il 19, elezioni politiche in Italia. Il 30 Charles De Gaulle, presidente della Repubbli-ca Francese, indice nuove elezioni politiche e pro-clama lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale.

GiugnoIl 1° è la Festa della Re-pubblica Italiana. Il 5 a Los Angeles viene assassina-to il candidato democra-tico alla presidenza degli Stati Uniti Robert Kennedy. L ’ 8 viene arrestato James Earl Ray per l’o-micidio di Martin Luther King. Il 10 a Roma la Na-zionale di calcio italiana vince gli Europei contro la nazionale della Jugoslavia. Il 13 nasce il gover-no democristiano “balneare” di Giovanni Leone.

LuglioIl 3 in Italia Sergio Campana fonda l’Associazione italiana calciatori. Il 13, Aldo Braibanti viene condan-nato a 9 anni di carcere per plagio, dopo un lungo processo. Il 25, il Papa emana l’enciclica “Humanae Vitae” in cui condanna ogni forma di contraccezio-ne con metodi artificiali e ribadisce come legittima la sola sessualità coniugale a scopi procreativi.

AgostoIl 15 in Messico 40.000 manifestanti protesta-no contro la repressio-ne in atto nel Paese. Il 20 in Cecoslovacchia le truppe del Patto di Var-savia invadono il paese mettendo fine alla Prima-vera di Praga, l’esperimento politico di “socialismo dal volto umano” condotto da Alexander Dubcek. Il 25 a Venezia il Festival del cinema viene conte-stato da un vasto schieramento di registi e attori, l’apertura della Mostra viene posticipata.

SettembreIl 1°, straordinaria vittoria nel ciclismo su s t r a d a di Vittorio Adorni che ad Imola conquista il titolo di Campione del mondo. L’8 a Varsavia il filosofo dissi-dente Ryszard Siwiec si dà fuoco in segno di protesta per l’invasione della Cecoslovac-chia da par- te delle truppe del Patto di Varsavia, d u r a n - te le cele-b r a z i o n i della festa nazionale organizzate dal regi- me comuni-sta. Il 9 a Chi- cago dopo una convention i maggiori leader del movimento stu-dentesco vengono arrestati e processati; conse-guenti violente manifestazioni di protesta in tutto il paese. Il 23 muore Padre Pio a San Giovanni Rotondo.

OttobreIl 2, Massacro di Tlatelolco a Città del Messico dove l’esercito spara con le mitragliatrici su una

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manifestazione studentesca provocando oltre 100 morti. E’ ferita anche l’indimenticata giornalista ita-liana Oriana Fallaci. L’8 nella guerra in Vietnam si fa l’operazione Sealords: gli USA e il Vietnam del Sud lanciano una nuova operazione sul Delta del Mekong. L’11 la NASA lancia l’operazione Apollo 7. Dal 12 al 27 si svolgono i giochi olimpici XIX in Messico nonostante le polemiche seguite al massacro di Tla-lelolco di 10 giorni prima. Durante la cerimonia inaugurale, in segno di protesta verrà fatto sventolare un aquilone con l’effige di una colomba nera: è la prima di una serie di contestazioni su diversi temi.

NovembreIl 3, alluvione a Biella in Piemonte con più di 100 morti. Il 5 in USA è eletto presidente il repubblicano Richard Nixon. Il 17 ad Atene un tribunale militare condanna a morte Alexandros Panagulis per il fallito attentato al primo ministro Papadopoulos. La sentenza verrà sospesa in seguito alle proteste dell’opinione pub-blica internazionale. Il 22, primo bacio interraziale in televisione negli USA in un episodio di “Star Trek”.

DicembreIl 2, ad Avola la polizia spara sui braccianti in sciopero, muoiono due manifestanti, oltre 50 feriti. Il 4 esce in Italia il primo numero del quotidiano cattolico “Avvenire”. Il 7 a Milano contestazione studente-sca con uova e ortaggi all’apertura di stagione del Teatro La Scala. Il 10 il Liceo ginnasio statale Terenzio Mamiani di Roma è nuovamente occupato: il nuovo ministro Fiorentino Sullo, dopo aver parlamentato personalmente con gli studenti, concesse il diritto di assemblea in orario scolastico a tutti gli istituti su-periori d’Italia e avviò la riforma degli esami di maturità, rimasta vigente sino al 1999 con la riforma Ber-linguer. Il 27 la missione Apollo 8 rientra sulla terra.

Questo è all’incirca il 1968, anno di buon auspicio per il futuro.

Elena Romeo R.

Notizie dal Sessantotto7

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L’INTERVISTA / Gianni D’Amo 8

“L’attualità del 1968 sta in una idea molto semplice: che ognuno faccia la sua parte”

Dalla grande Storia alle piccole storie. Dal bullismo ai film di Bellocchio.Dalle botte in piazza in gioventù ad una vita di lavoro quotidiano con gli studenti.

Intervista a 360° al prof Gianni D’Amo sull’anno “che ridefinì i rapporti tra le persone”.

Gianni D’Amo è professore di Storia e Filosofia al Liceo Classico “Novello” di Codogno. Nato l’8 luglio del 1953 si dice uomo “criticamente vicino a quella che nella Prima Repubblica si chiamava Sinistra”. Pur non avendo mai avuto una tessera di partito, nella politica ha sempre profuso molte energie, praticandola sul campo nel consiglio comunale di Piacenza dal 2002 al 2007 (nelle file dei DS, ma da indipendente) per poi candidarsi sindaco alle comunali del 2007, e nel 2012 alle primarie di centrosinistra. Nel momento in cui abbiamo deciso di occuparci delle eredità del 1968, la sua ci è sembrata una voce imprescindibile.

Quella con D’Amo è stata una lunga e ricca intervista, ma soprattutto un bell’incontro. Mercoledì 9 maggio era un luminoso pomeriggio di primavera e lui ci è piaciuto subito, fin dal suo arrivo in bicicletta all’appuntamento in via Borghetto, dove ci ha ricevuti nella sede della sua associazione “Città Comu-ne”. Dopo averci fatto fare “il giro di casa”, un pozzo di libri, riviste, foto-grafie e manifesti, per prima cosa ha messo sul fuoco una grossa moka di caffè per tutti. Gianni si è rivelato persona estremamente spontanea, attenta e accogliente; ha saputo metterci immediatamente a nostro agio.Dal momento in cui abbiamo acceso il registratore si è trasformato in un fiume in piena. Non siamo riusciti nemmeno a fargli tutte le doman-de che avremmo voluto, ma interrompere il suo eloquio sarebbe stato un peccato. Il prof parla tanto, alternando registri alti e colloquiali, bat-tute in dialetto, parole importanti ma semplici. Fa un sacco di esempi, aneddoti, collegamenti, offre mille spunti di riflessione, lancia tanti bei messaggi, è in grado di rendere chiari e comprensibili anche fenome-ni molto complessi, proprio come quello sul quale l’abbiamo interrogato.

Prof D’Amo, si può riassumere il 1968 in una parola?Difficile, proviamo con un concetto. Il ‘68 è stato soprattutto una ristrutturazione dei rapporti tra le per-sone. Un riequilibrio, in ogni ambito, la possibilità di “contare” per quel che si vale e per quel che si fa. Questo è il valore ideale del Sessantotto, ma anche un dato di fatto. A questo si lega il concetto di un “sapere” per tutti, il diritto allo studio per tutti quelli che hanno voglia di studiare. Dopodiché tutti an-dranno a lavorare, con la speranza che quelli che leggono ogni tanto spalino, e quelli che spalano ogni tanto leggano. E’ un’idea molto elementare, arriva da Goethe. D’altra parte il ‘68 muove proprio da una rivendicazione di uguaglianza davanti al sapere. Ed è attraversato da questa idea, che ognuno faccia la sua parte. Un altro tratto caratteristico importante è la sua internazionalità: in tutto il mondo emerge una generazione che ha energie sufficienti per dire “proviamo a liberare i cuori, ad aprire un po’ l’aria”.

Nelle scuole come sono cambiati i rapporti tra studenti e insegnanti?Un po’ in meglio, un po’ in peggio. Uno dei libri più importanti del ‘68 è scritto da un prete: “Lettera a una professoressa” di Don Milani documenta come i poveri venissero bocciati mentre i ricchi no. Mica i poveri saranno nati tutti cretini e i ricchi tutti furbi? Ecco, oggi i rapporti sono molto più egualitari. L’autoritarismo nelle sue varie forme che ho visto in 65 anni di vita non si trova più. Mi ricordo bene le bacchettate sulle

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L’INTERVISTA / Gianni D’Amo

mani: tra il “Gioia” e il Collegio Morigi, tra fine ‘60 e inizio ‘70, “i vulévan via di béi sgiafòn”. Anche nelle case. Oggi semmai la situazione si è rovesciata, abbiamo insegnanti fragili aggrediti dai ragazzi bulli. Da ragazzo io l’ho visto il cambiamento, due anni dopo il ‘68 era già tutto diverso. Oggi? Un’eccessiva pressione delle famiglie sui voti. La competitività è decisamente uscita dalle misure. Io lavoro molto volentieri a Codogno proprio per non dover subire le tirate delle madri sui voti del figlio per strada a Piacenza. Da che mondo è mondo, se esiste un “primo”, la nozione prevede che ci sia anche un secondo, un terzo, un quarto e così via.

Perché oggi c’è tanto bullismo?Al di là dell’aspetto gregario del fenomeno, il punto è che i bam-bini e i ragazzi non sono più abituati a crescere avendo rapporti ordinari con altri bambini, a mettere cioè in pratica quelle dina-miche normali di autoeducazione che scattano stando insieme agli altri e che portano, ciascuno a modo suo, a comprendere, a reagire alle contraddizioni, agli ostacoli, alle amicizie e inimici-zie. Un ragazzino che vive sequestrato tra scuola, casa e piscina, appena trova un ostacolo non capisce più niente. Se aggiungia-mo la pressione della virtualità, il risultato è che non si perce-piscono più nemmeno i sapori e gli odori, si perdono le facoltà dei sensi, ne viene fuori una vita in un altro mondo. E’ molto pericoloso, perché non sviluppare gli strumenti per gestire il contatto diretto tra individui significa disimparare a vivere. Orwell le aveva scritte queste cose.

Che ne pensa della cattedra rialzata?Magnifica domanda. Il punto è uno solo: eliminarla. Ce ne sono tante, troppe di cattedre, nelle dinamiche di tutti i giorni. Anche durante questa intervista, pur nella sua informalità, siamo attorno ad un tavolo, io parlo e voi ascoltate. Il 68 è questa roba qua, che ti puoi sedere sulla cattedra del prof e non succede niente. Prima non sarebbe mai potuto accadere.

E’ possibile fare un confronto tra le tensioni di quell’epoca e quelle odierne?Sì, provo a racchiuderlo in una domanda che mi pongo: 50 anni dopo il ‘68, con tutti i libri e le ri-viste e i poteri e i governi che sono passati, è mai possibile che non siamo riusciti a trasmettere ai nostri ragazzi idee più appetibili di certi estremismi che ancora dividono la società? Occorre riflet-tere profondamente sui fallimenti della mia generazione. Se il ragazzo in manifestazione mi dice “voi siete i colpevoli” io ci stò, però ciascuno si deve assumere la propria quota di responsabilità.Comunque sia, un bel fallimento. Dove sono finite le idee di fondo della Resistenza, quelle di un certo internazionalismo? “Nostra patria mondo intero, nostra legge la libertà”: cosa c’è di più bello di queste parole? Abbiamo completamente smarrito il senso dell’internazionalità, eccezion fatta per quella dei consumi e delle merci.Il parallelismo ‘68-2018 dunque si può fare ma per superarlo bisogna imparare ad essere più curiosi e rispettosi verso chi la pensa diversamente da noi, non verso chi la pensa già allo stesso modo. Parlare, sentire le ragioni, poi decidere. Si può anche non condividere qualcosa, ma bisogna sempre capire perché. Capire i meccanismi, al di là delle idee. Se non ci interroghiamo mai sulle ragioni del torto non capiremo mai perché il torto ha ragione. Serve un lungo lavoro culturale, oc-corre ripartire dall’ABC e il primo passo è imparare a calarsi nelle specificità delle situazioni e delle persone.

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A proposito di differenze, cosa succede oggi a scuola tra studenti di religioni diverse?Ho una quinta con due ragazze balcaniche splendide, eccellenti, una musulmana e l’altra greco ortodossa. In una quarta ho due albanesi cattolici. A questa età il problema non si pone, la diversità solitamente è un arricchimento, un’opportunità. Questi ragazzi di origini straniere sono attenti e interessatissimi: hanno fat-to esperienze negative e dunque sono mediamente più curiosi, perché cercano di capire. Queste persone “diverse” sono molto importanti anche nel rapporto coi genitori, perché in qualche modo li educano, fanno da mediatori culturali e istituzionali, sono portatori della vita “in italiano” in tante piccole cose e questa può essere una grande ricchezza. Ma siamo noi, la maggioranza, a dover avere questa consapevolezza, perché la minoranza ha sempre paura. Ricordandoci che non possiamo ridividere ciò che la storia ha già mischiato.

Parlando di scuola, eravamo partiti proprio da quello che il ‘68 portò di nuovo nei licei e nelle uni-versità, e da lì nelle fabbriche.Il ‘68 inizia contro la riforma scolastica del ministro Gui che chiudeva le università, bloccava tutta una serie di semplici modernizzazioni che non avevano niente di rivoluzionario. L’Università di Trento venne occu-pata perché il consiglio non ammise l’i- stituzione della facoltà di Sociologia: era considerata roba da co- munisti, mentre quella americana, tedesca e francese esistevano già da 50 anni. Questo ci dà la misura della grettezza che si re- spirava e della risposta che è nata, fatta di lotte per le riunioni e le assemblee, un dirit-to importante e faticoso da conquistare. Ricordo che la prima assemblea del Classico fu fatta all’attua- le Cinema President nel ‘69 avanzato. A rappresentare noi del movimento fu Bersani, d’altra parte era il più bravo della scuola.Ecco, le stesse esigenze stavano nelle lotte del movimento operaio, che si domandava semplicemen- te perché dentro alle fabbriche smettessero di valere le leggi della società civile ma esistessero solo quelle del padrone. La di-scussione si riaprì col rinnovo del contratto ‘68-’69 praticamente sotto le bombe di Piazza Fontana e portò infine alla produzione dello Statuto dei lavoratori. La misura più bella che sia mai stata presa era il “150 ore” previsto nel contratto dei metalmeccanici del ‘72-’73 che venne poi esteso a tutte le categorie dell’indu-stria: 150 ore di scuola dopolavoro pagate per chi non aveva la licenza media. Un’esperienza straordinaria che produsse la fine di molte diffidenze e che ci riporta concretamente al concetto a me caro dell’avvicina-mento tra intellettuali e manuali. Chi legge i libri qualche volta deve anche pulire la sede, e viceversa.

Restando tra i banchi di scuola, passiamo ad un altro argomento da sempre caro al nostro giornale: gli studenti discutono ancora di fumetti?Posso dire che in tutte le classi ci sono sempre uno o due ragazzi che si rivelano fumettisti nati. Però se

mi chiedete se vedo i fumetti girare come ho visto per tante generazioni beh, questo mi pare di no. E pensare che uno che la sa molto più lunga di me, Piergiorgio Bellocchio, ormai prossimo ai 90 anni, mi dice sem-pre che secondo lui il meglio del dopo ‘68 sono stati proprio i fumettisti, da Andrea Pazienza in giù. Piergiorgio sostiene che il ‘68 non abbia prodotto un gran romanzo o un gran film ma una grande scuola di fu-mettisti. Figlie di quel sentire sono sicuramente le edizioni Becco Giallo, che hanno prodotto tanti fumetti eccezionali come quello su Olivetti.

L’INTERVISTA / Gianni D’Amo

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L’INTERVISTA / Gianni D’Amo 11

A proposito di fumetti e grandi temi storici, penso che uno dei libri più importanti sull’Olocausto sia proprio un fumet-to: “Maus” di Art Spiegelman (1° edizione dal 1986-1991), tutto giocato tra gatti e cani, un po’ in stile “Fattoria degli animali” di Orwell. Offre una resa della complessità della situazione e dei significati di fondo davvero straordinaria.

Veniamo al cinema. I film più rappresentativi del ‘68.Un film sul ‘68 recente e famoso è “The Dreamers” di Bertolucci, un bel film ma che non rende l’idea di cosa fu il Sessantotto. Esistono invece film che rendono l’idea anche se non sono sul ‘68 in senso stretto. Con “2001 Odissea nello spazio” Kubrick nel 1968 fa un film su come potrebbe essere un altro universo, dove gli uomini diventano macchine. Era talmente avanti da porsi già il problema se anche le macchine avessero o meno dei sentimenti, diciamo che la vedeva lunga. Film tipicamente sessantottino è poi “Qual-

cuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman, un film che popolarizza un problema che attraversa tutto il 68: nuovi rapporti e relazioni tra le per-sone, dappertutto, dalle scuole alle fabbriche, dagli ospedali alle case alle chiese; sullo stes-so tema c’è “Matti da slegare” di Bellocchio, un bel film ma difficile da vedere e da trovare. Altre due pellicole che rendono questo clima sono “Fragole e sangue” ed “Easy rider”. Sono film rappresentativi del Sessantotto quelli che

raccontano la ridefinizione dei rapporti tra le persone. La vita vera e normale, il bisogno di libertà, di andare a scuola, che diventano grandi temi pubblici e irrompono nella politica.

E Marco Bellocchio?Un regista geniale ma prima di tutto un caro amico. “I pugni in tasca” e “La Cina è vicina” sono film sui temi del ‘68 ma presuppongono un regi-stro colto, intriso di psicanalisi, non riescono a trasmetterti certe tempera-ture. Anche suo fratello Piergiorgio l’ha sempre sostenuto: “as capìsa un càsu”, l’ha detto anche a Parigi una volta in pubblico. Sono gli stessi motivi per cui a uno che vuol capire la Resistenza non consiglio il libro di Claudio Pavone “Una guerra civile” ma un racconto di Fenoglio. Se vuoi sentire l’odore devi leggere Fenoglio.

Curiosità: a cosa ha dedicato la sua tesi di laurea?A Marx, il pensatore che ha inventato il Comuni-smo. Mi sono laureato quando mi hanno lasciato fare una tesi su Marx, altrimenti non avrei trovato il tempo né la voglia. Perché studiare Marx mi serviva per fare i conti con me stesso, per capire dove avevo ragione o torto, cosa valesse la pena salvare o no. E’ stata l’occasione per pagare un debito al mio maestro.

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Totalmente. Mi viene da pensare al libro che abbia-mo dedicato ad un caro amico morto sei anni fa, Emilio Politi, architetto urbanista piacentino per bene, che pensava davvero al bene della città e non solo a guadagnar dei soldi. La nozione di pianifica-zione urbanistica, il fatto di intervenire sulla città per fare un bene comune, che funzioni per tutti, è proprio del ‘68: la parola piano regolatore nasceva allora. Qualcosa che era già nella testa del grande Adriano Olivetti, imprenditore fuori quota per intel-ligenza e umanità: già nei ‘30 in pieno fascismo pensava che gli operai non dovessero stare in postacci ma tra giardini, case con luce, costruiva una fabbrica in modo che 1800 operai vedessero il golfo più bello del mondo. Certo, costa molto ma è un investimento. Gli operai saranno più colti, fa-ranno le cose meglio, pubblicizzeranno meglio il prodotto che realizzano. Ivrea: un’idea di città mo-dello che anticipa l’idea pubblica e politica di ur-banistica che compare per la prima volta nel ‘68.Noi viviamo invece in modelli di città invivibili, una vita in macchina con le soste agli ipermercati. Ben diverso è progettare gli spazi immaginando che servano a far incontrare le persone, come Parigi, la città del flaneur. Esci e incontri qualcuno, è studiata così. Mi affascina l’idea di una città che favorisca e non ostacoli i rapporti tra le persone. Questa idea però deve fare i conti con gli interessi economici e far su delle case vuol sempre dire far su dei soldi.Pensiamo alle discussioni sullo spostamento del mercato: il mercato è una nozione europea che ha radici medievali. Ci vai per andare in centro e vedere gente che non incontri di solito. In Ita-lia abbiamo due o trecento città invidiabili, solo nel circondario insieme a Piacenza ci sono Cre-mona, Pavia, Lodi, Parma... luoghi che portano la traccia della storia umana, recuperabile e ancora vivibile, in bici e a piedi. Questo è miracoloso. Un tema scottante, siamo circondati da mura, cinte, telecamere ovunque. Viviamo sequestrati. Pro-prio a questo risponde il nome della nostra as-

sociazione: Città Comune. Per una città che sia di tutti, che rispecchi davvero un concetto elemen-tare: che gli uomini, da soli, non possono stare.

L’INTERVISTA / Gianni D’Amo

Chiudiamo con un tema che sappiamo esserle caro: le nuove idee si sentono anche in architettura e nell’urbanistica?

La Redazione

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Franco Basaglia nasce a Venezia l’11 marzo 1924 da una famiglia agiata.

La rivoluzione di cui è stato protagonista ha radici lontane: conclusi gli stu-di classici, nel 1943 si iscrive alla facoltà di Me-dicina e Chirurgia dell’U-niversità di Padova. Qui entra in contatto con un gruppo di studenti antifa-scisti e, a seguito del tra-dimento di un compagno, viene arrestato e detenu-to in carcere per sei mesi, fino alla fine della guerra, esperienza che lo segna profondamente e che rievocherà anni dopo parlando di un’altra istituzione chiusa: il manicomio.Si laurea nel 1949 e inizia a frequentare la Clinica delle malattie nervose e mentali di Padova dove la-vora fino al 1961 come assistente. Dirige la clinica il Prof. Belloni, accademico di vecchio stampo con il quale Basaglia intrattiene un rapporto formale e di rispetto; nel 1952 consegue la libera docenza in psi-chiatria e nel 1961 vince il concorso per la direzione dell’ospedale di Gorizia.Nel frattempo si sposa con Franca Ongaro, con la qua-le stabilisce uno straordinario sodalizio intellettuale e scrive molti dei suoi libri.L’impatto con l’ospedale di Gorizia è drammatico: comprende subito la durezza della realtà manicomia-le e la necessità di reagire a questo orrore, impegnan-dosi in un duro lavoro di trasformazione istituzionale.A Gorizia si rifiutano categoricamente le forme di con-tenzione fisiche e le terapie di shock, si inizia a porta-re attenzione alle condizioni di vita dei pazienti e dei loro bisogni; si organizzano assemblee di reparto, la vita comunitaria dell’ospedale si arricchisce di feste, gite, laboratori artistici; si aprono spazi di aggrega-zione sociale, cade la separazione coatta fra uomini e donne degenti. Si aprono le porte dei padiglioni e i cancelli dell’ospedale.

Nel 1968 Basaglia cura il volume L’istitu-zione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, che fa conoscere a livello internazionale l’esperienza innovativa dell’ospedale di Gorizia e sancisce la nascita del movimento anti-istituzionale diven-tando uno dei libri simbolo della contestazione in Ita-lia.La svolta è nell’estate del 1971, quando Basaglia vince il concorso di direzione dell’ospedale psichia-trico di Trieste: accetta subito perché gli viene garan-tita la possibilità di fare tutte le scelte che ritiene più opportune. Appena arrivato chiede di poter costituire la sua equipe e presenta un programma di ridimen-sionamento dell’ospedale attraverso l’apertura e la riorganizzazione dei reparti. Si tratta di spezzare l’iso-lamento dell’ospedale rispetto alla città, per lavorare con un’immediata proiezione sul territorio circostan-te. Nel 1977 Basaglia annuncia la fine dell’ospedale psichiatrico. Il 13 maggio 1978 viene approvata all’unanimità in Parlamento la Legge 180, anche se avrà un iter rea-lizzativo difficile.Nel 1979 Basaglia tiene un importante ciclo di confe-renze in Brasile, dalle quali nacque il volume Confe-renze brasiliane, raccolta delle sue memorie.Nella primavera del 1980 manifesta i primi segni di un tumore cerebrale che lo porteranno in pochi mesi alla morte; si spegnerà il 29 agosto nella sua casa di Venezia.

Profilo biografico dello psichiatra Franco Basaglia che nel 1968 divulgò a livello internazionale l’innovativa esperienza avviata all’Ospedale di Gorizia: il volume sancì la nascita del movimento

anti-istituzionale e diventò un simbolo della contestazione in Italia

“Sessantotto, Matti ma non troppo”

“L’istituzione negata”: 50 anni fa il libro che diede il via alla “rivoluzione Basaglia”.

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La Legge 180: un po’ di storia

Tra luci e ombre, per la prima volta si stabilisce che le persone afflitte da distur-bo mentale non sono più “malati” da emarginare ma soggetti attivi sul territorio e nella società

Di anni ne compie invece 40 la “Legge 180”, la prima e unica legge quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Promulgata nel 1978 è arrivata fino ai nostri giorni come” Legge Basaglia”, dal nome del suo ispiratore.Il disturbo mentale ha fatto sempre paura, qualcuno dice quasi come la morte e per questo ed altri motivi ha provocato il rifiuto, l’isolamento e l’emarginazione di chi ne è affetto. E’ solo a fine ‘800 che si cerca di dare un’interpretazione del disturbo psichico su basi scientifiche; successivamente nascerà la psicanalisi, con Freud, che insieme a Charcot elaborerà un modello completo per le malattie mentali e un approccio psicoterapico per il loro trattamento (psicanalisi).Questo metodo rimase predominante fino al XX° secolo, quando lo sviluppo della terapia elettro-convul-sivante, introdotta negli anni 30, e delle cure basate sui farmaci, riportarono la pratica psichiatrica verso un approccio più meccanicistico.Nel periodo manicomiale i malati mentali venivano accolti in strutture dove subivano ogni genere di violenza, mancanza di diritti, cure coatte, tutela e confisca dei beni personali; si faceva prima a nascon-dere il malato mentale tenendolo recluso. In Italia le precarie condizioni dei malati vengono denunciate a più riprese negli Anni ‘70 sulla scia delle proposte anticonformiste. Il movimento in prima linea per la chiusura dei manicomi era l’antipsichiatria.Come sempre le innovazioni presentano dei pro e dei contro. Chiunque nutra simpatia per la “Legge Basaglia” dovrebbe apprendere i drammi che hanno afflitto per anni le famiglie e i pazienti abbandonati nel territorio. Quando ogni anno, nel periodo di maggio, viene ricordato Basaglia, pochi sanno qual era il suo pensiero, le teorie che seguiva e che era un “antipsichiatra”. Nel 1978, anno caldo della psichiatria, si è giunti all’estremizzazione delle posizioni e si è prodotta la frettolosa emanazione di una legge che in diversi principi tutti condividono, anche se fu approvata in un mare di dubbi, polemiche, incertezze. Il cambiamento di rotta introdotto dalla L 180, sebbene valido sul piano teorico, non aveva tenuto conto di alcune importanti questioni sul piano pratico:

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La Legge 180: un po’ di storia

• i pazienti venivano dimessi e non più ricoverati in assenza pressoché totale di strutture territoriali;• le famiglie, inadeguate o meno, sono state costrette a sobbarcarsi l’intera assistenza sanitaria;• i pazienti più violenti sono stati equiparati a quelli più tranquilli;• i famigliari, costretti nella nuova condizione di convivere con persone deliranti e non in sé, han-no subito gravi conseguenze per questo fatto;• non c’era ascolto per le famiglie: la presenza sul territorio delle istituzioni non rispondeva alle istanze dei famigliari;• il famigliare stesso è considerato alla stregua del paziente, considerato inaffidabile ed emotivo e il suo giudizio non conta.

Al di là di questi aspetti critici, nella “Legge Basaglia” ci sono stati importantissimi sviluppi per l’evolu-zione della psichiatria e per la tutela dei malati:

• contrapposizione totale alla Legge del 1904 che ha istituito i manicomi;• abolizione dl concetto di pericolosità del malato di mente;• malattia: dovere di cura da parte del medico invece che di difesa della società;• consenso, ossia il dovere del medico di farsi carico della libertà della persona;• nuova risposta del servizio al paziente che viene ricoverato non per la sua pericolosità ma solo se si sottraeva alle cure;• eccezionalità dell’intervento in caso di TSO, da effettuarsi solo in casi estremi, per un periodo massimo di 7 giorni, eventualmente prorogabile per altri 7;• al centro della nuova concezione non c’è più la persona in quanto malato bensì i suoi bisogni e i suoi diritti;• creazione di nuove competenze professionali che mettono in grado gli operatori di lavorare sia nelle strutture ospedaliere sia a livello ambulatoriale, sia al domicilio;• continuità terapeutica tra ospedale psichiatrico e territorio.In sintesi, i principi della L180 spostano l’attenzione della persona da bollata e malata a soggetto attivo sul territorio. La L180 costituisce una risposta definitiva alle istituzioni totalitarie e alla contenzione del malato psichiatrico. Come disse lo stesso Basaglia, intervistato da Maurizio Costanzo: “Non è impor-tante tanto il fatto che in futuro ci siano più o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione anche senza la costrizione”.

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Più che un manicomio, “la Fiat di Colorno”

Poco lontano da Piacenza, coi favori di un assessore che ammirava Basaglia, nel ‘69 un centinaio di studenti occupava il manicomio di Colorno. Apprendiamo da un articolo pubblicato all’epoca su L’Espresso che non tutti erano favorevoli a questa “rivoluzione”

“A un tavolino minuscolo, uno studente presiede la riunione, dà e toglie la parola. Intorno, seduti e in piedi, stanno una settantina di uomini e donne di varia età: infermieri, anziani e giovani, studenti, due medici.Gli infermieri sono turbati. Quattro giorni di occupazione li hanno messi in crisi: si sono sentiti criticati ed esposti all’opinione pubblica. Per la prima volta molti di loro hanno sentito contestata l’istituzione in cui operano: c’è chi reagisce attaccando aggressivamente il suo ruolo tradizionale, c’è chi è già per-suaso di doverlo rifiutare e cercarsene un altro.Gli infermieri hanno voluto l’incontro con gli studenti per accusarsi e difendersi, chiarire le idee: ed è come se avessero sollevato il coperchio di una pentola a pressione. Il manicomio cambia, gli infermieri dicono: “facciamo valere il nostro diploma, siamo infermieri, non carcerieri”.Il barbiere apre le porte del manicomio, dice di aver preso le proprie responsabilità. Anche se i medici non si sono ancora relazionati con gli infermieri, sono gli infermieri stessi che dicono: “Bisognerebbe riunirci e parlare”.Gli studenti dopo 35 giorni di occupazione vengono sgomberati con la forza, ma almeno hanno sma-scherato la faccia repressiva di un sistema che impiega la polizia. Il manicomio viene chiamato “la Fiat di Colorno”, con i suoi 800 e più malati, e tutti tremano pensando che, sia pure a vantaggio dei malati, qualcosa possa cambiare”.

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“Sedia elettrica ogni mattina”

Ad assistere ad un’operazione tanto angosciosa come l’elettroshock “ci sono quattro o cinque malate che tra qualche minuto saranno distese a loro volta sul lettino, stravolte dalla scarica dell’apparecchio. Incredibile, eppure lo psichiatra è un professionista, si suppone umano, però infermieri non ce ne sono, si deve fare in fretta. E quindi iniezioni di curaro, barbiturici, scossa, ossigeno, avanti un’altra. Come se l’elettroshock fosse un’endovenosa di calcio. Tanto basta per capire quanto siano terribili le condizioni dei malati di mente in Italia. Ora sulla soglia si fa avanti un’altra malata; sarà lei a dover sorvegliare la compagna al posto dell’infermiere, che è uno solo e deve seguire lo psichiatra. Un’altra iniezione, un’altra scossa, un’altra, un’altra ancora…”

Titolo shock per un articolo de L’Espresso del 1968: da un rapporto del Ministero della Sanità emergevano le terribili condizioni in cui vivevano i “malati di mente” in Italia

Giovanni Terni

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IL DISEGNO / Walter Gelmetti

“Numero speciale, collaborazione speciale”L'artista piacentino Walter Gelmetti ha voluto omaggiare "Edizione Straordinaria" e le particolari tematiche affrontate in questa edizione ancora più straordinaria con un disegno originale, immagi-nato "ad hoc" per donare ai lettori dei nostri articoli una suggestione visiva alternativa ai contenuti proposti. Non è la prima volta che la nostra redazione collabora con gli utenti del laboratorio di arte-terapia del Centro Diurno del Dipartimento di Salute Mentale di Piacenza. Chissà che questo "featuring" non potrà portare altri nuovi, coloratissimi frutti in futuro.

Walter Gelmetti inizia il percorso di arte terapia al centro diurno di Piacenza nel 2010 e definisce così il suo rapporto con l'arte: “Prima di decidere cosa disegnare è fondamentale ascoltare la voce dell'i-spirazione, quella che suggerisce il tema del giorno. Questa voce parla di viaggi verso Sud, di nomadi, del continuo movimento, di mondi legati al circo, alle stazioni e alla Corrida”. Immagini rappresentate attraverso una visione prospettica semplice, frontale e delle svariate sfumature.Per arte terapia si intende l'insieme dei trattamenti terapeutici che utilizzano come strumento principale il ricorso all'espressione artistica, con lo scopo di promuovere la salute in con-testi molteplici, da quello terapeutico, a quello riabilitativo per un miglioramento della qualità di vita.Walter nel corso degli anni ha affina-to una tecnica personale ed uno stile espressivo che rientra nella corrente artistica della "Outsider Art", corrente sostenuta e promossa dall'associazione "Fuoriserie" di cui è socio, nata nel 2008 allo scopo di riqualificare spazi pubbli-ci e privati attraverso interventi artistici (decorativi o plastici) con particolare at-tenzione al tema dell'umanizzazione de-gli ambienti. Il movimento "Outsider Art" è promosso attraverso laboratori di arte spontanea nelle scuole, eventi espositivi e il partenariato nell'organizzazione del Festival Nazionale dell'Outsider art.

WALTER GELMETTI di “FUORISERIE”

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CINEMA

I “venti di rivolta” invadono il grande schermoCosì il ‘68 sconvolse la “settima arte”

I film alimentano e si nutrono di quanto accade nelle università, nelle fabbriche, nelle piazze. Viaggio nel cinema, da Bellocchio a Bertolucci, tra “Il Laureato” ed “Easy Rider”, Faenza, la Cavani e i colpi della censura. Quando le sale prospera-vano, mentre oggi chiudono

Tra gli Anni ‘60 e ‘70 la televisione è presente ormai in gran parte delle famiglie italiane, no-

nostante ciò il cinema mantiene una grande rile-vanza nei consumi degli italiani e tra gli interes-si culturali del tempo. Le sale cinematografiche come attività permanenti aumentano di numero, e così le occasionali, come quelle allestite pres-so le parrocchie. Questo si verificava tanto nelle grandi città come in provincia. Le pellicole sono spettacoli proposti in prima visione ma vengono trasmesse pellicole anche di seconda o addirittu-ra terza visione, soprattutto se di successo.

Nel ‘68 a livello nazionale vennero prodotti ol-tre 250 titoli, nonostante la censura da parte

del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, so-prattutto in materia di nudo femminile per i minori di 14 e 18 anni e verso il cinema politicamente eversivo e anti autoritario. Il cinema era connotato da un“vento di rivolta” espresso dai giovani, associato anche alla musica rock, in cui trovano un modo di diffondere le loro idee, lo stesso“vento di rivoluzione” giovanile presente nelle università, nelle fabbriche e nelle piazze. Il cinema prende inoltre spunto da questi eventi per riprendere con la macchina da presa l’evoluzione del movimento del Sessantotto.

Negli Anni ‘60 tra i più famosi giovani registi ricor-diamo Bernardo Bertolucci, Roberto Faenza e

Marco Bellocchio. Film come “La battaglia di Alge-ri” (1966) di Gillo Pontecorvo o “Galileo”(1968) di Liliana Cavani venivano censurati ai minori di 18 anni. “Teorema” di Pier Paolo Pasolini fu addi-rittura sequestrato per oscenità. Anche in Francia

vi era da parte dei giova-ni molta ammirazione per il cinema al servizio del movimento rivoluzionario; Jean Luc Godard segui-va le idee del movimen-to contro ogni dittatura e

autoritarismo, come l’opposizione alla guerra del Vietnam. Negli USA pos-siamo citare registi come Peckinpah e gli esordienti Martin Scorsese, George Lucas, Francis Ford Cop-pola. Tra le tematiche “di sinistra” e di lotta radicale,

in Italia arriva il film “Il Lau-reato”, insieme ad altri come “Easy Riders”, “Little

big men”, in cui le grandi platee si identificano con nuovi idoli come Dustin Hoffman, Al Pacino, Robert De Niro e Jack Nicolson. Di Bertolucci rivestono particolare importanza il

film “Partner” (1968), “Strategia del ragno” e “Il conformista” (1970) con attore protagonista J.L. Trintignan, film che ruotano sempre attorno al tema dell’ambiguità esistenziale e della politica.

Nel 1968 Faenza de-butta alla regia con

“Escalation”, un grande successo internaziona-le, la storia di un padre borghese col figlio hippy,

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CINEMA

pellicola che ebbe dapprima grossi problemi con la censura per certe scene “audaci” procurando a Faenza la fama di regista ribelle all’epoca: vio-lento e drammatico, il film viene sequestrato dalla magistratura romana quasi subito dopo l’uscita e mai più riproposto. La censura nonostante tut-to riesce ancora a togliere autonomie e libertà. A tal proposito, mi piace portare all’attenzione una frase celebre ed emblematica di Faenza: “Amo dar voce a chi non ha avuto la parola”.

Nel 1967 Marco Bellocchio, già affermato re-gista, si aggiudicava con “La Cina è vicina” il

Leone d’Argento per la regia alla Mostra interna-zionale d’arte del cinema di Venezia. In Francia Godard nel 1968 dirige “One plus One”: negli Sta-ti Uniti in versione leggermente diversa esce col titolo “Sympathy for the Devil” mentre in Italia è distribuito all’epoca col titolo “I Rolling Stones se-condo Godard”. Nel film si vedono gli Stones in studio d’incisione nel 1968 mentre lavorano alla loro famosa canzone “Sympathy for the Devil”, alla versione finale poi finita sul disco. Nel ‘69 negli USA Peckinpah, principale innovatore del western statunitense, dirige invece “Il Mucchio selvaggio”, film grazie al quale viene nominato agli Oscar per la miglior sceneggiatura e considerato uno dei western migliori della storia del cinema, connota-to però da una violenza tale che non era ancora conosciuta negli Stati Uniti.

Martin Scorsese fa uscire nel 1969 “Chi sta bussando alla mia porta” e nel 1970 dirige

il documentario militante “Scene di strada 1970” riguardante le manifestazioni contro la guerra del Vietnam. Un film del 1967 diretto da Mike Nichols, basato sul romanzo di Charles Webb, è il già ci-tato “Il laureato” con l’allora debuttante Dustin Hoffman, (la colonna sonora era cantata da Paul Simon e Art Garfunkel): grande successo in Italia e all’estero per la trama e la sceneggiatura anti-conformista condita da intrighi amorosi al tempo illeciti.

“Easy Rider” è del ,1969 diretto e interpretato da Dennis Hopper con Peter Fonda: il viaggio in Ame-rica di due motociclisti in totale libertà, film molto importante per allora in un contesto di voglia di evasione da una piatta società medio borghese col tema del viaggio che connota la trama del film, road movie per eccellenza da parte di mol-ti critici osannato che tornerà nel 2012 col titolo “Easy Rider: The Ride Back”. L. P.

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FUMETTI

Una seconda giovinezza per i “soldaten” di Sturmtruppen

Per i 50 anni della celebre striscia satirica a fumetti di Bonvi Mondadori pubblica una collana integrale restaurata e a Bologna si organizza una grande mostra. Dal

Sergente allo stereotipo italiano di Gaelazzo Mussolesi, oggi come ieri “le Sturmtruppen siamo noi”

“Sturmtruppen” compie 50 anni. Una ricorrenza talmente sentita che il fu-metto comico satirico italiano ide-ato e disegnato da Bonvi è stato appena riproposto per la prima volta in una collana cronologica integrale interamente a colori: tutte le tavole, dalla 1 alla 5865, restaurate dall’Archivio Bonvicini. “Sturmtruppen - 50 anni a kolo-ren” è pubblicata settimanalmente da Mondadori Comics dallo scorso 18 otto-bre. A Bologna invece presso Palazzo Fava dal 7 dicembre al 7 aprile 2019 si tiene una grande mo-stra, un omaggio all’esercito di fumetti più famo-so al mondo accompagnato da un ricco catalogo. Perché infondo, oggi come ieri, sostiene Sofia, la figlia di Bonvi, al secolo Franco Bonvicini, <<i “soldaten” chiusi nelle trincee sempre in battaglia contro un nemico che non si vede mai, sono in realtà uno spaccato della società, per-ché, come diceva mio padre, le Sturmtruppen siamo noi>>.

Pubblicato dal 1968 dopo la vittoria del premio Paese Sera a Lucca per la migliore striscia umoristica da parte di un Bon-vi allora ventisettenne, “Sturmtruppen” uscì dap-prima sotto forma di strisce giornaliere poi tra il 1984 e il 1985 passò gradualmente al formato in tavole, che mantenne sino al 1995, sino alla fine della pubblicazione a causa della scomparsa dell’autore. Il fumetto è una satira della Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista delle truppe d’assalto tedesche, calata in situazioni surreali.

I personaggi sono quasi tutti anonimi soldati o graduati, parlano in un ita-

liano storpiato da suffissi e suoni tipicamente tedeschi. Il fumet-to venne pubblicato su un gran numero di giornali, riviste, libri e diari, tradotto in undici lingue diverse tra cui il russo: fu il pri-

mo fumetto straniero pubblicato nell’allora Unione Sovietica. Al fu-

metto si ispirano anche due omonimi lungometraggi diretti dal regista Salvato-

re Samperi, il primo del 1976 scritto da (e con) Cochi e Renato e il secondo del 1982 con, tra gli altri, Boldi, Teocoli, Oppini, Salvi, Magalli e Gullot-ta.

All’inizio “Sturmtruppen” rappresentava personag-gi piccoli di statura mentre in seguito negli Anni

Settanta e primi Anni Ot-tanta le figure crescono fisicamente. I personaggi del fumetto sono mol-to simili tra loro come aspetto, hanno nomi te-deschi molto comuni, tal-volta accompagnati da un soprannome. Per co-noscerli meglio ne pas-

siamo in rassegna alcuni.Il Sergente: veterano dell’esercito, pienamente in-serito nel sistema, mostra di aver assorbito perfet-tamente la disciplina militare, nonostante ciò tiene atteggiamenti sadici verso i soldati ed è una delle figure più perfide, un vero e proprio vessatore dei suoi sottoposti. Il fiero alleato Galeazzo Mussole-si (pseudonimo che pare fondere in sé i nomi di

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FUMETTI / Sturmtruppen

Benito Mussolini e Galeazzo Ciano) è l’unico per-sonaggio ad avere un’identità precisa, è un Italia-no che coi suoi comportamenti furbi e approfitta-tori rappresenta una parodia degli stereotipi degli italiani in guerra. Il Cuoco del campo è fortemente criticato da tutti per l’infima qualità del rancio che serve ai soldati: i cibi infatti sono composti da in- gredienti im-mangiabili quali pneumatici, olio per motori, arti di c a d a v e r i . Gli eroici Portafe- riti invece sono rappresentati da soldati che portano all’in- f e r m e r i a i feriti in battaglia s o c c o r re n -doli in barella, ma che poi in re-altà non si curano di loro. Curioso è anche il “portaordini”, sol- dato coraggioso e spericolato, capace di lanciarsi senza esitazio-ne e senza alcuna prudenza al di là di qualsi-asi ostacolo e pericolo non riuscendo comunque mai nelle sue imprese. Il Capitano, comandante della compagnia, pur rappresentando anch’egli come il sergente l’auto-rità e il potere militare, di tanto in tanto assume il ruolo di mediatore tra le diatribe dei commilitoni. Quanto al Tenente Novellino, giovane e imbranato ufficiale, è arruola-to solo per nepotismo e incappa in ogni genere di disgrazia. Gli Ufficiali Superiori, alte autorità, sono i generali, colonnelli o ispettori che appaiono talvol-ta per richiamare all’ordine altre figure del fumet-to. La Piccola vedetta prussiana è poi un triste soldato, perennemente appostato su di un albero ad osservare i nemici, anche se in realtà, per i più disparati motivi, non rie-sce a vedere mai niente. Un soprannome che ricorda la “piccola vedetta lombar-da” del romanzo “Cuore” di Edmondo De Amicis. Il Dottore, infine, è l’ufficiale medico. In realtà ha studiato veterinaria, lo si trova a volte intento a realizzare pozioni per l’invisibilità o impegnato a dar la caccia ai vampiri, tutt’altro che interessato alla sa -lute dei militari.

Le strisce sono comparse su giornalini come “Gulp!” e “Supergulp!”. I fumetti sono stati tra-smessi anche in TV a puntate sulle reti Rai e sono comparse animate anche nella trasmissione di Red Ronnie “Be Bop a Lula”. Una parodia del fu-

metto nel 1977, “Kakkientruppen”, viene realizzata da Marino Girolami: curiosa e divertente. “Cochi e Renato” crearono

un’altra parodia comica, “La mar-cia delle Sturmtruppen”. Possia-mo anche ricordare la produzio-ne di un videogioco per Amiga e C64, nel 1992, della Simulmondo

di Francesco Carlà, oltre a una col-lezione di figurine nel 1977 dall’edi-

toriale Corno. In questo proliferare di edizioni le strisce presentavano tormentoni simili ma con va-rianti sempre diverse: così l’autore continuava a riflettere sull’idea di fondo del suo fumetto, fino alla sua scomparsa.

Fabio Asinari

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FUMETTI / Diabolik

“Sixties & Comix”: “Diabolik” di Angela e Luciana Giussani precorre il comics noir “made in Italy”. Omaggio ad uno dei personaggi più celebri e imitati di sempre.Tra i disegnatori, anche il piacentino Giovanni Freghieri

Diabolik, dal genio delle Sorelle Giussani, è il per-sonaggio capostipite dei fumetti italiani che pos-siamo definire “neri” nati negli Anni Sessanta. Nel 1962 Angela Giussani se ne occupa per prima; la sorella Luciana interverrà dal 14° numero.

Diabolik è protagonista dell’omonimo fumetto che in pochi anni riuscì a diventare un succes-so in tutt’Italia, famoso anche come personaggio dell’immaginario mondo eroico: diventerà un feno-meno di costume studiato da sociologi ed esperti di comunicazione. La sua nascita non passò inos-servata e altri autori imitarono il personag-gio creando epigoni, come “Satanik” di Max Bunker e Magnus. Nel giro di qualche tempo il regista Mario Bava si accorse del ta-lento delle Giussani e del potenziale del personaggio e realizzò un film: la trasposizione cinematografica ha per titolo “Re del Terrore”. Anche i geni del crimine Arsenio Lupin e Rocambole sono paralleli al personaggio di Diabolik, capaci di mettere sot-to scacco la polizia della cittadina di Clarville. Si crea un vasto merchandising e anche Bonvi pensa di ideare un suo personaggio parodia di Diabolik: nel 1965 lo chiama Cattivik.

Pubblicato in formato tascabile, il fumetto contribuisce dunque a rendere famosissi-mo e imitatissimo il personaggio, nonostante sia

un crimina-le scaltro e astuto, almeno ini-z i a l m e n t e . Diabolik è p r e s e n t e nelle edicole in Lombardia dal novembre 1962, e ancora oggi continua ad uscire; i primi numeri della serie sono quasi irreperibili anche nel mondo del collezio-nismo, fenomeno che per alcuni decenni è stato un’autentica leva per partecipare attivamente alla

continuità delle serie.

La storia non mostra inizialmente chi sia vera-mente Diabolik, che così risulta da subito una figura inquietante e imprevedibile. Certamen-te il personaggio si ammorbidisce col passa-re del tempo, inizialmente per via dell’amo-re per Eva Kant, poi per gli altri personaggi

che si creano e contribuiscono a render-lo meno eroe negativo, come la figlia adottiva di nome Bettina, che protegge sin da bambina, e persino da ragazza quando si ribella a lui e ad Eva, sorta di

genitori adottivi.

Oltre alle due sorelle Giussani si sono alternati vari altri autori come Giancarlo Berardi, Pier Carpi, Alfredo Castelli, Nino Cannata, Mario Gomboli e Patricia Martinelli. Alla caratterizzazio-ne grafica del personaggio hanno contribuito nel tempo disegnatori come Enzo Facciolo, Franco Paludetti, Remo Berselli, Luigi Marchesi (che ridi-segna tra l’altro il primo numero per la ristampa), Glauco Coretti, Giancarlo Alessandrini, Carlo Pe-roni e, “last but not the least”, il piacentino Gio-vanni Freghieri. Il primo numero ha una copertina realizzato da Brenne Fiumali, mentre la storia è

Diabolik ed Eva, eroi controcorrente

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disegnata da un autore del quale si sa solo il co-gnome, Zarcone, e niente altro.

Tornando alle vicende editoriali, il riscontro delle vendite non fu subito soddisfacente: si decise di pubblicare il numero successivo solo dopo 3 mesi, nel febbraio del 1963, dove il personaggio usò per la prima volta maschere di gomma per camuffar-si. Il terzo venne pubblicato in marzo, il primo ad essere disegnato in maniera professionale da Lu-igi Marchesi, ricordato per l’esordio di Eva Kant. “Diabolik” è pubblicato in diversi stati esteri, Ar-gentina, Brasile, Colombia, Finlandia, Belgio, Mes-sico, Francia, Germania, Danimarca (con il nome “Satano”), Grecia, Israele, Paesi Bassi, Polonia, Ro-mania, Spagna, Stati Uniti e Jugoslava. Nel 2009 una storia (“Il Re del Terrore”) è tradotta in espe-ranto. Esistono altri volumi speciali, ricordiamo un progetto editoriale intitolato DK che presenta una versione alternativa del personaggio pubblicato nel formato tipico dei fumetti americani.

Curiosità: si ritiene che il famoso Totò Diabolicus diretto da Steno sia una parodia di Diabolik. Il nome di Eva Kant è dovuto probabilmente all’ammira-zione di Angela Giussani per il pensiero filosofico di Immanuel Kant filosofico. Per i tratti di Diabolik le sorelle presero spunto dall’attore Robert Taylor, mentre per quelli di Eva alla principessa di Mona-co Grace Kelly. Il personaggio non usa armi da fuoco se non raramente, a volte caricate con aghi narcotizzanti, dimostrando comunque una mira infallibile. Usa piuttosto pugnali o altre armi bianche spesso dotati di particolari accessori nell’impugnatura. Diabolik ed Eva hanno come nemici altre organizzazioni cri-minali, dissimulate piccoli in luoghi che loro devono trovare per ristabilire la pace, anche con mezzi a volte non sempre del tutto leciti di fronte alla giustizia. Ancora oggi Diabolik viene seguito da una parte di appassionati del ge-nere fumettistico, nonostante, ahimè, i nuovi mezzi multimediali e virtuali han-no sostituto in buona parte questa lettura.

Fabio Asinari

FUMETTI / Diabolik

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Sono passati esattamente cinquant’anni da quan-do il brano “Quarantaquattro gatti” interpretato dalla piccola Barbara Ferigo vin-ceva la X edizione dello Zecchi-no d’oro. Testo e musica sono del modenese Giuseppe Casa-rini: era l’insegnante di musica alle scuole medie di Nonantola e per comporla impiegò soltan-to due settimane per il testo e un quarto d’ora per la musica. A rileggere quel testo con gli occhi del ‘68, l’anno in cui è stato composto, afferriamo significati e valori ai quali non avevamo mai pensato. Nella canzone persino i gatti guadagnano il diritto di riunirsi in assemblea: “in fila per sei col resto di due” appro-vano una mozione per avere “un pasto al giorno e all’occasione poter dormire sulle poltrone”.

Dopo l’esibizione della Ferigo allo Zecchino d’o-ro, anche Mina e Provolino canteranno la canzone nel ‘68, all’interno della trasmissione “Vengo an-ch’io” di Castellano e Pipolo condotta da Raffaele Pisu. Il brano ha continuato poi a gode-re di grande fortuna nei decenni suc-cessivi, tanto che persino il grande Luciano Pavarotti nel 1994, dalla sua casa di Modena, cantò “Quarantaquattro gatti” con il piccolo Coro dell’Antoniano, accompagna-to al pianoforte proprio dello stesso autore della canzone. Nel dicembre 2007 al Gran Galà dello Zecchino d’oro il brano fu ripreso dal vivo da Cino Tortorella e nel 2012 anche un grande pianista

come Stefano Bollani ne ha eseguito una versione in jazz per Rai Rai1, mentre in tempi più recen-ti, due anni fa, è stato reinterpretato in versione cover allo Zecchino d’Oro da Elodie De Patrizi e Giovanni Caccamo.

Il “compleanno” della canzoncina si conferma un evento importante, tanto che all’ultima edizione del famosissimo Lucca Comics & Games lo scorso novembre è stata presentata in prima mondiale la nuova serie animata in 3D dello studio di anima-zione Rainbow, “44 gatti”, trasmessa in TV su Rai Yoyo. Nata dal genio e dall’estro creativo di Igino

Straffi, af-fronta temi importanti come la d i ve r s i tà , t r a s m e t -tendo va-lori positivi

in modo divertente. I protagonisti sono quattro simpaticissimi gatti: Lampo, Milady, Pilou e Polpet-ta suonano in una band chiamata “Buffycats”. In ogni episodio i quattro gatti vivranno una serie di divertenti avventure, affrontando sfide impegnati-ve e aiutando tantissimi amici che chiederanno loro sostegno per risolvere problemi.Chi l’avrebbe mai detto: sembra davvero che il cri-tico musicale Mario Luzzatto Fegiz avesse ragione quando nel suo libro “AvantPop” definì “Quaranta-quattro gatti” <<l’unica canzone di protesta del ‘68 che abbia avuto un successo duraturo>>. Io, che di gatti ne ho quattro, mi dovrò impegnare molto per arrivare a quarantaquattro... ma forse non saprei proprio dove metterli!

Chiara Mazzoni

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ROBE DA GATTI!Una nuova, graffiante rubrica per il nostro giornale

Quarantaquattro gatti in assemblea: il ‘68 è anche questo

Soffia su 50 candeline la celebre canzoncina dello Zecchino d’Oro, divenuta un “cartone animato”: presentata a Lucca Comics una serie 3D per bambini sul valore delle diversità

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ROBE DA GATTI!

Quella dei “gatti paracadutisti” non è una barzelletta:così i felini sfruttano il concetto di “velocità limite”

I gatti sono veri paracadutisti. In America si parla di “sindrome dei piani alti” per indicare il fenomeno dei gatti che precipitano dai grattacieli per sbaglio. Nel 1987 alcuni scienziati americani valutarono lo stato di salute di 132 gatti caduti dai grattacieli. Il tasso di sopravvivenza era addirittura del 90 %. E i gatti che avevano riportato danni maggiori erano quelli caduti dai piani più bassi del settimo. La spiegazione di questo “mira-colo” è legata al concetto di “velocità limite”.

La velocità limite di un gatto di massa e dimen-sioni medie è di circa 100 km/h. Quando cade da piani molto alti il gatto ha il tempo di distendere il suo corpo e raggiungere la velocità limite prima di toccare il suolo. I loro muscoli robusti assorbo-no la forza dell’impatto, come gli ammortizzatori delle auto. Non solo: le gambe dei gatti non sono diritte sotto il busto, ma sono piegate. Questo fa sì che l’urto sia trasmesso alle articolazioni e non alle ossa. E’ un po’ la stessa cosa che facciamo noi quando saltiamo, ma per i gatti questa postu-ra è innata con la loro struttura corporea.

Se il gatto rischia di cadere di schiena è capace di girarsi su sé stesso in un attimo. Un corpo rigido da solo non può mettersi a ruotare senza un aiuto esterno. Questo mistero è stato svelato negli anni ’60 da Thomas Kane dell’università di Stanford. Il gat-to piega la schiena in modo che le due metà del corpo possano ruotare su due assi di rotazione diversi, compie poi un movimento opposto, distende le zampe anteriori e accorcia quelle posteriori. Infatti i gatti sono animali principalmente arborei e per questo hanno sviluppato nel tempo una grande capacità di sopravvivenza alle cadute.

Chiara Mazzoni

Gli asini non volano, i gatti si

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Gli “Swinging Sixties” sono stati i dieci anni della sto- ria britan-nica più importanti del XX secolo e lo dimostra il fat- to che le opinioni su questo periodo sono ancora di- scord i . La spinta innovativa venne da chi nella società era più ricco di speranze: i gio- vani. Per la prima volta dal dopoguerra la loro influenza era fortissima, una generazio- ne di ribelli che metteva in discussione ciò che i ge- nitori conside- r a - vano sacro. Si raccoglievano i frutti del boom e c o - nomico degli Anni ‘50, si sma- scherava la ambi-

g u a m o r a l e dell’epo-ca, si cercavano n u o v i

va- lori e nasceva u n a nuova con- t r o -

c u l t u r a , f o r - t e , i n v a d e n t e e che s c u o - t e v a

ogni elemento d e l l a s o - cietà. Era tutto nuovo: la musica, l a filosofia, la sessualità. E i l modo di vivere, naturalmente.

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MODA E COSTUME

Gli Anni ‘60 vestito per vestito tra “hippies” e “space look”, Saint-Laurent e Courrèges, i “beatnik” in boutique e l’icona Barbarella. Nel ‘66 il Time conia la definizione “Swinging London”: dalla musica alla moda giovane, tutte le tendenze nascono sulle rive del Tamigi

Minigonne, “flower-power” e capelli a caschetto:è Londra la capitale dello stile “sixties”

Londra

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Anche moda e abbigliamento rispecchiavano la rivoluzione in atto: gli eleganti Mods, con il loro taglio a caschetto, seguivano regole esteti- che nuove ma riconoscibili e non ci misero molto a trasformarsi in Hippie, per lo meno agli occhi dei media, che non distinguevano dai capelloni. La nuova visione Hippie, per esempio, provava avversione per la plastica e si riavvicinò ai mate-riali naturali; i fiori di plastica, simbolo della moda lolite-sca e pulita della stilista Mary Quant, divennero a fine decennio veri fiori, simbolo dell’im- pegno per la pace e la difesa del pianeta. Il “Flower Power” significa-va lotta c o n t r o tutte le disugua-glianze. Dopo di che fu come se tutto quel sogno Flower, Pop e Rock, si fosse dissolto fra droghe, violenza e orientalismi; niente

MODA E COSTUME28

Per la prima volta la moda della strada entrò nei saloni dell’alta sartoria. Yves Saint Laurent intuì per primo i segnali della svolta e già dal 1960 introdus- se maglioni neri a collo alto con giubbotti di pelle, come a vestire delle spose Rock; le sue innovazioni fu- rono considerate un imperdonabile violazione dell’eleganza tradizionale. Brigitte Bardot, idolo dei giovani, liquidò Coco Chanel come “roba da vecchio”, con-tinuando a vestire la moda anticonven- zionale delle boutique di strada. L’ele-ganza era l’ultima cosa che le ragazze volevano: gliela avevano imposta le mamme Anni ‘50 e per di più, le invec- chiavano.

Yves Saint Laurent fu lo stilista più mo- derno: è riuscito a portare in sfilata, di volta in volta, lo spirito del tempo, tra- sformandolo in alta moda: spose Rock, l’ondata unisex dello smoking femminile, lavori ispirati a Op e Pop art. Soprattutto capì che il futuro delle mode non era nei grandi saloni, ma nelle boutique e che il pret a porter era la nuova via. Gradualmente sparirono le differenze di classe e alla fine del decennio regnava la libertà più assoluta: la mini convi-veva con la maxi, i pantaloni con le gonne, il futurismo col folklorismo psichedelico.

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MODA E COSTUME

LA MINIGONNA Non si saprà mai chi l’ha inventata, Mary Quant o André Courreges, ma pare

proprio che sia arrivata da Londra, città simbolo di tutti i nuovi movimenti giovanili dei 60s. La Quant la presentò al mondo per la prima volta in America, con modelle dall’a-spetto infantile che ballavano sulla musica Pop. È facile immaginare lo scalpore che provocò, fresca e innocente se la si pensa contrapposta ai modelli dei 50s, con seni sporgenti e tacchi a spillo pungenti. Arrivarono le “Lolite”, gambe lunghe e magre e uno stile trasparente; Twiggy in-carnava questo nuovo ideale di bellezza, la prima modella diventata l’idolo delle masse.Non v’è dubbio che la minigonna sia stata l’invenzione dei 60s, ma cosa sarebbe stata senza stivali e collant? E’ questa la terna che ha dato alle donne per la prima volta la libertà di movimento, permettendo loro di cambiare completamente il modo di comportarsi. Ne fu promotore André Courreges: spiegò che solo con stivali a tacchi bassi si pote-va mantenere il contatto con la realtà, liberando molte donne dalla trappola di una femminilità fatta di giarrettiere e tacchi a spillo

SPACE AGE LOOKAnche la conquista dello spazio, sogno di un futuro senza frontiere, ha influenzato i gusti in voga. Il primo a mostrare la moda del futu-ro fu André Courreges con il suo “Space Age Look”: modelle che sfilavano velocemente sul-la passerella con stivali bianchi senza tacchi, completi dal taglio severamente geometrico, bianchi o argentati, come fossero extraterrestri appena atterrati.

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Il Look five points

Con il suo preciso taglio “Five Points”, Mary Quant, la regina della minigonna, diede il via a un’avan-guardia che tutte le donne moderne seguirono in segno di indipendenza. Partito dal caschetto alla Beatles e modernizzato a colpi di forbice asimmetrici, il “Five Points” lasciava scendere i capelli assot-tigliandosi nel volume e formando cinque punte, mantenendo così una piega talmente perfetta da far sembrare la testa un elmetto futurista.

PACO RABANNE

Il suo motto era: “non sedurre: sorprendere”. Ora si annunciava il futuro, che per lui significava materiali completamente nuovi. Già nel 1966 presentava dodici “vestiti importabili”, fatti di placchette di pla-

stica, oppure abitini di alluminio e piume di struzzo; ganci, occhielli e pinze invece di ago, filo e stoffa. Suoi anche i costumi di scena indossati in “Barbarella”, film diretto da Roger Vadim nel 1968, vera bibbia iconografica dello stile innovativo in corso e del discorso estetico portato avanti da Rabanne.

Emilia ‘59

MODA E COSTUME

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Messico ‘68, le Olimpiadi che cambiarono il mondo

Affrontando il 1968 dal punto di vista sportivo non si può fare a meno di parlare dell’Europeo di cal-cio, le cui finali si svolsero in Italia nelle città di Firenze, Napoli e Roma, dove la nostra Nazionale, dopo il pareggio 1-1 con la Jugoslavia nella finale disputata l’8 giugno allo Stadio Olimpico, si portò a casa il titolo nella successiva ripetizione del 10 giugno, vincendo sulla squadra avversaria con due goal messi a segno da Gigi Riva e Pietro Anastasi. Fu la terza rassegna continentale con una partico-larità, quella di prevedere una qualificazione alla fase finale dopo dei gironi, mentre il tabellone nel-le precedenti edizioni era ad elimina-zione diret-ta. Gli Az-zurri ebbero senz’altro la dea benda-ta dalla loro parte, poiché, dopo i tempi supplementari nella semifinale con l’URSS, si ricorse, come previsto dal regolamento, al lancio della monetina per de-cretare la squadra finalista.

Restando in ambito calcistico, è del ’68 anche la nascita del famoso gruppo ultras rossonero “La fossa dei leoni”, proprio nell’an- n o dello scudetto del Milan. Molti altri gruppi di ultras sono nati a cavallo di questo anno che segnò un cambiamento tanto intenso nei costumi e nella so-cietà.

Nello stesso anno sempre nel Bel Paese fu organiz-zato anche il primo campionato di calcio femmi-nile. Vi partecipava pure una squadra piacentina, la Pro Loco Travo; nella stessa annata la squadra calcistica maschile del Piacenza che giocava nel-lo stadio di Barriera Genova arrivò seconda nel campionato di serie C sfiorando la promozione in B, poi ottenuta nell’anno successivo. Nel ciclismo invece Vittorio Adorni vinceva il campionato mon-diale, svoltosi in Italia ad Imola.Erano gli anni in cui primeggiava il campione di boxe Classius Clay, amico del musicista Elvis Pre-sley; diversi artisti africani lo omaggiarono, veden-do in lui la rivalsa nera nei confronti dei bianchi. L’evento sportivo più importante del 1968, anche sul piano simbolico, fu comunque la XIX edizio-ne delle Olimpiadi moderne, che si disputò in Messico. Emblematico del clima di quegli anni fu il famosissimo episodio di protesta nera del 16 ottobre alla premiazione dei 200 metri piani. Lo statunitense di colore Tommie Smith ottenne un record mondiale che resisterà a lungo, fino ad es-sere superato solo 11 anni più tardi dal “nostro” Pietro Mennea col tempo di 19 secondi e 83 cen-tesimi.

Oltre ad esse-re il primo at-leta a coprire i 200 metri sot-to i 20 secon-di, Smith sul podio fu pro-tagonista insieme al compagno John Carlos (e all’australiano Norman che solidarizzò sfoggian-do una spilla in favore dei diritti umani) di un epi-

Il pugno chiuso di Smith e Carlos sul podio e la Sotelo prima tedofora della storia sono icone di un’annata sportiva pazzesca.

Tante curiosità, dall’Italia vincente agli Europei di calcioalla presenza piacentina nel primo campionato

di calcio femminile tricolore.

SPORT

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sodio tra i più significativi di tutto il ‘900. La loro protesta, grazie alla mondovisione e alla diffusione della celeberrima fotografia, avrebbe fatto il giro del mondo e consegnato questo momento alla storia dello sport. L’immagine che il mondo vide fu quella di due statunitensi di colore che rivendica-vano i diritti negati ai cittadini neri americani, sul podio col pugno alzato e i guanti neri, simbolo del Black Power, e coi piedi scal-zi in segno di povertà. Con la testa bassa. E una collanina al collo, dove ogni pietra simboleggiava un uomo di co-lore che si bat-teva per i diritti negati.Appena scesi da quel podio finiranno la loro carriera e la loro vita diventerà un inferno ma a loro non importava, perché avevano lanciato il loro messaggio. Oltre all’espulsione dal villaggio olimpico, al loro rientro a casa non ri-cevettero una grande accoglienza, subirono anzi insulti e minacce di morte. I due impiegheranno molto tem-po per ri-partire e s o l t a n t o 40 anni più tardi, nel 2008, la loro azione sarà onorata con il premio Arthur Ashe agli Espy Awards.Intanto, alle Olimpiadi, le proteste continuarono: anche una ginnasta ceca che vinse nella sua di-sciplina si rifiutò di guardare la bandiera dell’URSS di una concorrente sul podio, in più non ascol-tò l’inno sovietico a capo chinato per protestare

contro l’invasione sovietica alla Cecoslovacchia e pure per lei ci fu l’espulsione dalle competizio-ni. In quegli anni si rivendicava la nomina di un componente di colore nel comitato olimpico ame-ricano e quella di un istruttore nero nella squa-dra olimpica a stelle e strisce. Nell’olimpiade del Messico, oltre alle proteste, si videro gareggiare assieme etnie bianche e di colore, cechi e sovieti-ci dopo la Primavera di Praga, i tedeschi divisi per la prima volta a cinque mesi dal Maggio Francese e nelle piscine olimpiche si videro i primi atleti di colore.All’evento, tra l’esclusione degli atleti sudafricani e la prima squalifica sanzionata ad un pentatleta che si ubriacò prima della sua gara, partecipa-rono 100 nazioni e vennero introdotti i controlli antidoping. L’olimpiade fu la prima in altura della storia. Vi si stabilirono diversi record mondiali. I due terzi delle medaglie furono vinte da atleti di colore. E si concluse nel segno del cambiamen-to infatti la messicana Enriquete Basilio Sotelo fu la prima donna dei Giochi Olimpici nella storia a portare la fiaccola come ultimo tedoforo.

SPORT32

Max ‘78

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“Le mie canzoni in dialogo aperto con la società”

L’INTERVISTA / Alessandro Colpani

Se uno dei motti più famosi e più rappresentativi dei ragazzi del Sessantotto è stato “fantasia al potere”, noi abbiamo incontrato un ragazzo di oggi che della fantasia ha fatto la sua arma di vita. Gentile, ironico, simpatico, Alessandro Colpani è venuto a trovarci in redazione con la sua chitarra, le sue poesie, i suoi fogli scritti a mano, pieni di rime e di cancellature e di giochi di parole al limite del surreale. Nato nel 1993, 25 anni compiuti, Alessandro è uno dei cantautori piacentini più attivi, impegnati e conosciuti dello scena-rio nostrano. Ecco il succo della mattinata trascorsa con lui, un’intervi-sta di redazione molto aperta, una chiacchierata-schitarrata che ha fruttato al nostro giornale anche diversi regali d’autore.Come nasce il tuo rapporto con la musica?Dopo il Liceo Artistico “Cassinari” mi sono iscritto in Università a Bologna, Facoltà di Storia. Dopo aver dato un paio di esami con il massimo dei voti l’ho lasciata per studiare musica. Già alle medie suonavo, ero partito col contrabbasso nell’orchestrina dei ragazzi. Poi ho smesso, per ricominciare con la chitarra cinque anni fa. Diciamo che ho iniziato a suonare a 12 anni, a 16 sono arrivate le prime canzoni e a 17 ho iniziato a pubblicarle. E’ in questo settore che ora vorrei realizzarmi, non mi dispiacerebbe diventare un insegnante di chitarra. A questa passione si lega anche il mio grande piacere per la lettura, ma amo soprattutto scrivere: non solo canzoni ma versi, filastrocche, poesie, cose simpatiche.Tra le tue letture c’è anche qualche fumetto?Da piccolo leggevo tanto “Topolino” anche se i miei fratelli preferivano Dylan Dog: mi stava antipatico, lo vedevo troppo pulito e saputello. Ad attrarmi erano altri generi di personaggi, nei quali, col senno di poi, rivedo la mia naturale inclinazione ad una vita non troppo ordinata. Su tutti forse Paperoga, che con la sua cuffia lunga faceva quello che gli andava, facen-do arrabbiare Paperino. Dunque mentre io leggevo storie di paperi, Tex era molto amato da mio padre, ma non mi ha mai ispirato. Altre letture? Mi appassionano i saggi storici. Recen-temente ho letto con piacere “La guerra del Cat”, il diario di Giulio Cattivelli, ex partigiano, critico cinematografico e gior-nalista piacentino.L’estetica. Classico o casual?Mi sono sempre vestito senza fare troppa attenzione allo stile. La prima volta che ho conosciuto una ragazza che mi piaceva davvero allora ho iniziato a farci più caso, a usare jeans puliti e così via. Ma non bastò certo un amore a cambiarmi, mi vestivo sempre a caso e mia madre puntualizzava ogni volta: “esci che sembri un barbone!”. Negli anni, dopo aver avuto anche la cresta, ho iniziato a prendere scarpe pulite e a chiudere un po’ di buchi nei pantaloni.

Tra gonne, montagne, pedalate e filastrocche, intervista collettiva al giovane cantautore piacentino Alessandro Colpani

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L’INTERVISTA / Alessandro Colpani34

Che rapporto hai invece con lo sport?Ho sempre amato moltissimo il rugby, mio fratello gioca nei Lyons in eccellenza. Io, più rachitico, ho interrotto al liceo, gli allenamenti mi massacravano. Correvo in bici nella Franco Zeppi. Ho provato col calcio in San Corrado, ma c’era un clima bruttino. Che dire, l’italia del rugby perde sempre ma il “Sei nazioni” continuo a seguirlo, quest’anno abbiamo totalizzato un sacco di punti, è stata una soddisfazio-ne. Il calcio, beh, è magico. Mi sono un po’ riappassionato alla Serie A, mentre del Piacenza mi guardo ogni tanto le partite online su YouTube. Lo stadio no, il tifo del calcio non mi piace, in Italia è violento, si parla di altro più che del gioco.Torniamo alla musica. A chi dedichi solitamente le tue canzoni?Dipende da quello che vivo, dalle situazioni, dai periodi, dagli incontri. Quando sono sotto esami ad esempio, e ho la testa impegnata, le storie fanno più fatica ad uscire. Altre volte non sono soddisfatto della resa e i brani restano nel cassetto per lungo tempo. Mi viene in mente una canzone che mi piace tanto, molto diversa dal mio solito, mai incisa né suonata: “Stella cometa”, che nacque a lezione di chi-tarra perché il maestro, per prenderlo in giro, chiamava così un compagno di corso un po’ imbranato. Certi pezzi hanno titoli precisi e parlano di argomenti specifici, altri no. “Sogno erotico” ad esempio nacque come racconto di un desiderio personale non ricambiato dal partner... e dovetti adattare il testo quando cambiò la destinataria. Per stare più vicini al tema ‘68, ho cantato anche le lotte operaie, quando si saliva sulle gru per protestare. In generale, anche se parto da qualcosa di personale, da un problema mio, mi sforzo di scrivere canzoni universali, che possano parlare a tutti: è molto più interes-sante quando hanno un rapporto attivo con la società. Il mio compito non è di portare soluzioni, ma proporre sguardi, porre questioni.Dunque sei un cantautore “impegnato”.Diciamo che fin da subito ci ho tenuto a prendere delle posizioni, sono cresciuto con le poetiche dei grandi cantautori. Penso all’idea di giustizia e di umanità di De André, al suo post-cristianesimo. Assor-bivo canzoni nelle quali io stesso mi identificavo, cercando di trovarci una mia personale dimensione. Davvero De André mi ha spinto a scrivere la mia prima canzone, anacronistica ed emulativa già dal titolo: “Gli stessi padroni”. La mia prima esperienza “deandreiana” invece è stato il 1° posto al Premio Fabrizio De André 2013 con la poesia “Gli scuri”, dove ho incrociato Andrea Rivera e, soprattutto, in giuria, Dori Ghezzi: due guru di un’arte di ispirazione in qualche modo sessantottina, che mi ha portato una auten-tica boccata d’aria. Del mio modo di essere possiamo considerare rappresentativa una canzone che scrissi ai tempi di uno screzio tra fazioni studentesche: s’intitola “No” e significa che non sto dalla parte di nessuno, tendo a rapportarmi criticamente a qualsiasi evento, senza schierarmi per forza a priori per una parte. Il mio cavallo di battaglia invece è “Nietzsche” (ce l’ha suonata dal vivo con grande grinta, ndr), ho preso in prestito il nome del grande filosofo per burlarmi della tipica tendenza contemporanea a parlare per slogan, luoghi, comuni, “post” eruditi sui social, citazioni a tutti i costi.Vediamo un po’ i tuoi gusti. Ti piace la cucina etnica? Quella nostrana? Il tuo piatto prefe-rito? Una città straniera? Meglio il mare o la montagna?Parto dal fondo: sicuramente montagna. Ogni volta che ci vado torno ispirato e pieno di pezzi da scrivere. La cucina etnica dipende, quando voglio un diversivo e intendo abbuffarmi vado al sushi, così mi fa un bel tappo e poi, bello satollo, mi sdraio e dormo. Un intermezzo, diciamo, quando non riesco più a suonare né a studiare. Il piatto preferito però è uno solo: anolini in brodo. Di città straniere ne ho viste poche, direi Du-blino: c’era un sacco di musica per strada e tanti negozi dedicati, ho trovato una dimensione congeniale.Automobili?Cascate male, non è il mio forte. Ho fatto una fatica bestiale a prendere la patente: c’era sempre un concerto da preparare, qualcosa da studiare, un amico da vedere. Infinite sono le volte che mi sono

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L’INTERVISTA / Alessandro Colpani35

fatto San Bonico - Piacenza in bicicletta, anche sotto la neve. Arrivare ai concerti in bici, con la chitarra a tracolla e un grosso zaino con dentro mixer, aste e microfoni, mi ha fatto spesso amare e considerare come un eroe. Ora con la macchina mi sento in colpa perché inquino: diventa facilmente un vizio, e la forza di volontà si affievolisce.Una donna come te la immagini, con la gonna corta o lunga?Una gonna lunga è interessante perché permette di immaginare ma se è troppo lunga e piove poi si sporca. Si bagna, si sporca e se si strappa e lo spacco sale su fino alla vita finisce per diventare più corta della gonna corta. Io dico che la gonna non fa la donna, comunque la preferisco... “delicata”!Te l’abbiamo chiesto perché la gonna è uno dei simboli degli Anni ‘60, e anche delle spinte liberatorie del ‘68. Che idea hai di quel periodo?Credo che la società di allora, per lenire frizioni e contrasti anche duri che sono di ogni epoca, avesse uno strumento in più: la convivialità. Penso che ci si sentisse meno isolati. Gli strumenti tecnologici, se usati bene, come a scuola, possono essere utilissimi, ma nel resto della nostra vita e delle nostre gior-nate assolutamente no.A proposito di scuola, come sta quella italiana?Inizierei con un bel “Cara maestra”, come la canzone di Luigi Tenco che segnò la svolta dalla canzonet-ta frivola a quella impegnata e che mi ha influenzato parecchio nella scrittura delle mie canzoni. Nella mia personale esperienza ho avuto anche delusioni, perché chi come me cerca di viverla con grande partecipazione si scontra con una maggioranza passiva e professori che spesso invece di favorire le iniziative studentesche mettono i bastoni tra le ruote. Sarebbe bello vedere una scuola più attenta ai temi sociali, più legata alla vita cittadina, che pensi davvero al bene dell’individuo.Chiudiamo con Piacenza e le bellezze paesaggistiche del nostro territorio. Che sentimenti ti suscitano?Amo molto gli Appennini piacentini, uscirei tutti i giorni con gli scarponi per camminare, soprattutto quando c’è umido. Sarà perché ci sono nato, ma abbiamo davvero dei posti stupendi. Ogni volta che vado altrove, quando torno mi stupisco di quanto sia bella Piacenza, a parte il problema dell’inquina-mento. Non è una grande città e questo premia i territori attorno, che per fortuna non sono diventati un gigantesco hinterland. Ho un affetto particolare per la zona di Agazzano e di Pigazzano. Il mio luogo del cuore è una casupola di fianco

al Monte Bue, sopra Prato Cipol-la: il Rifugio ASTAS. Voglio vorrei andarci a registrare un cd.

La Redazione

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