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Stampato in Italia da LA GRAFICA FAGGIAN s.r.l., Via Francesco Severi, 2/4 - 35011 Campodarsego - PD Gennaio 2021
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Presentazione
Questo testo non intende essere un trattato di psicologia.
La psicologia è infatti una disciplina tanto complessa da non
poter essere riassunta in poche pagine. L’obiettivo è quello
di offrire un aiuto a chi, senza una specifica conoscenza di
base, intende prepararsi ad una professione nella quale la
dimensione psicologica concorre a determinare la correttezza
e l’efficacia dell’intervento. Questa dimensione potrà essere più
approfondita se l’operatore di assistenza avrà l’accortezza di
discutere con altri, possibilmente esperti, gli aspetti psicologici
che dovrà affrontare nel suo lavoro. Allora sarà possibile che
quanto appreso in questo testo gli venga alla mente e gli serva
per inquadrare meglio la natura di un problema o il senso di
una domanda.
Alcuni argomenti di psicologia generale che non sono contenuti
in questo testo sono stati esclusi perché non necessari per il fine
che esso si propone. Riteniamo infatti fornire uno strumento
utile all’attività professionale dell’operatore, piuttosto che una
disamina generale dell’argomento comprensiva anche delle
informazioni che non interessano nello specifico. Eventuali
spunti di approfondimento personale sono lasciati all’interesse
e all’iniziativa del lettore, che può per questo avvalersi anche
della bibliografia proposta
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Introduzione
Lo studio della psicologia è fondamentale per capire le
dinamiche e lo sviluppo della personalità. Uno studio attento
e accurato degli aspetti principali della vita psichica è infatti
insostituibile se si vuole avviare un’attività sociale valida e
produttiva.
La struttura del testo muove dalla definizione della psicologia
e individua quali sono oggi le tendenze più seguite dagli
psicologi. In particolare, dopo una breve disamina dei principali
orientamenti teorici e delle relative scuole psicologiche,
vengono approfonditi alcuni aspetti fondamentali della teoria
psicoanalitica e dell’approccio psicodinamico.
Si passa poi ad esaminare i processi cognitivi relativi
all’apprendimento e alla conoscenza, ben sapendo quanto
essi siano connessi alle esperienze affettive, dalle quali la
conoscenza riceve sistematiche e continue influenze.
Vengono successivamente analizzati alcuni momenti della
vita pratica, prendendo più specificamente in esame il
comportamento della persona, le sue attitudini e le sue
inclinazioni.
Molto importante è il capitolo dedicato all’analisi delle emozioni,
alla loro espressione e al loro riconoscimento. In questo
ambito si affronta anche il tema della regolazione sociale delle
emozioni e della loro influenza sui processi cognitivi.
In seguito viene discusso il concetto di “normalità”, di
personalità, di globalità dell’essere, delle persone e del
relazionarsi con altri individui. Infine l’ultimo capitolo - Elementi
di psicopatologia - si propone di illustrare, seppur rapidamente,
le principali forme di malattie mentali, descrivendone gli aspetti
salienti e dividendole in malattie dell’età evolutiva, dell’età
adulta e di quella senile.
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Chiude il testo una scheda sull’etica della ricerca psicologica,
per sottolineare l’importanza del rispetto e dell’onestà
professionale che gli psicologi, ma anche tutti gli operatori che
a vario titolo si occupano di persone, devono ai propri pazienti.
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Capitolo
1
Capitolo
2
Indice
Presentazione 3
Introduzione 4
Indice 6
Che cos’è la psicologia1.1 Le origini della psicologia 91.2 L’oggetto della psicologia 101.3 Psicologia orientata alla conoscenza e psicologia orientata all’aiuto del paziente 111.4 Le branche della psicologia 131.5 Alcuni metodi di studio 151.6 Gli strumenti della psicologia 20 1.6.1 L’introspezione 20 1.6.2 L’osservazione diretta 20 1.6.3 Il colloquio clinico 20 1.6.4 I test 21 Considerazioni conclusive 26 Questionario di autocontrollo 27
Orientamenti teorici in psicologia 2.1 Le prime scuole psicologiche 28 2.1.1 La Scuola psicofisica 28 2.1.2 La Reflessologia e la Scuola storico-culturale 29 2.1.3 Il laboratorio psicologico di Wundt 31 2.1.4 Lo Strutturalismo 32 2.1.5 Il Funzionalismo 322.2 Principali scuole psicologiche del Novecento 34 2.2.1 La psicologia della Gestalt 34 2.2.2 L’approccio psicologico-sociale - Kurt Lewin 36 2.2.3 Il Comportamentismo 37 2.2.4 Il Cognitivismo 39 Considerazioni conclusive 41 Questionario di autocontrollo 42
Psicologia dello sviluppo 3.1 Introduzione 433.2 Jean Piaget e la Scuola svizzera 453.3 La Psicoanalisi: Sigmund Freud 503.4 Erik Erikson 58 Considerazioni conclusive 61 Questionario di autocontrollo 62
Le basi della conoscenza: i processi cognitivi 4.1 La sensazione 634.2 La percezione 644.3 L’attenzione 664.4 Il pensiero 674.5 L’apprendimento 684.6 La memoria 694.7 Il linguaggio 71
Capitolo
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4.8 L’intelligenza 73 Considerazioni conclusive 77 Questionario di autocontrollo 78
Aspetti pratici 5.1 La persona 795.2 Fattori ereditari e ambiente 795.3 Il comportamento 805.4 La motivazione 825.5 Attitudini e inclinazioni 83 Considerazioni conclusive 85 Questionario di autocontrollo 86
Le emozioni6.1 Definizione 876.2 Le diverse emozioni 896.3 Espressione e riconoscimento delle emozioni 916.4 Regolazione sociale delle emozioni 936.5 Influenza delle emozioni sui processi cognitivi 95 Considerazioni conclusive 97 Questionario di autocontrollo 98
Il concetto di normalità 7.1 Normalità e norma sociale 997.2 Fattori che determinano la normalità 997.3 Anormalità e diversità sociale 1027.4 Utilità pratica del concetto di normalità 103 Considerazioni conclusive 104 Questionario di autocontrollo 105
Identità personale 8.1 Che cosa s’intende per personalità e identità personale 1068.2 La coscienza di sé 1088.3 Il proprio corpo 1088.4 Il carattere 1098.5 Le funzioni intellettive 1108.6 La vita affettiva 1128.7 Teorie ingenue della personalità 113 Considerazioni conclusive 114 Questionario di autocontrollo 115
Elementi di psicopatologia 9.1 Le malattie mentali 1169.2 Disturbi caratteristici dell’età evolutiva 117 9.2.1 Psicopatologie 117 9.2.2 Disturbi dell’età evolutiva 1269.3 Disturbi caratteristici dell’età adulta 130 Considerazioni conclusive 138 Questionario di autocontrollo 139
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Le origini della psicologia
Benché le conoscenze psicologiche siano state, fin dagli albori della civiltà, un
elemento fondamentale delle costruzioni religiose, sociali, politiche e culturali ed
abbiano trovato, nella cultura occidentale, una prima sistemazione all’interno
della filosofia1, la storia della psicologia come scienza viene generalmente fatta
cominciare nella seconda metà dell’Ottocento, quando l’indagine psicologica
inizia ad avvalersi delle metodologie delle scienze naturali, ovvero del cosiddetto
“metodo sperimentale”, che consiste nella formulazione di ipotesi e nella loro
verifica mediante l’esperienza2.
Anche se la psicologia non era ufficialmente ammessa tra le scienze3,
nell’Ottocento fiorirono comunque diverse scuole di neurologia e fisiologia del
sistema nervoso che prendevano in considerazione anche alcuni fenomeni
psicologici abbastanza semplici4.
Un notevole contributo all’acquisizione del carattere di scientificità si ebbe
dunque grazie ai notevoli progressi della fisiologia (che permisero di conoscere
con sempre maggiore precisione le funzioni del sistema nervoso e il loro
rapporto con il comportamento), allo sviluppo delle tecniche di elaborazione dei
dati e all’affermarsi della teoria evoluzionistica di Charles Darwin (1809-1882).
Ciò coincise con il definitivo abbandono dell’idea, propria della metafisica,
che i processi mentali fossero qualcosa di non materiale e, in quanto tali, non
Che cos’è la psicologia
Capitolo
1.1
1 Rintracciando nella storia del pensiero gli studiosi che hanno rivolto la loro attenzione al comportamento umano e alle sensazioni, ai pensieri e agli effetti che lo determinano, si può riscontrare facilmente che la storia della psicologia è per molti aspetti (per esempio per lo studio di problemi come la coscienza, i processi cognitivi, le emozioni) identificabile con la storia della filosofia.
2 Il metodo sperimentale fu desunto dall’analisi del modo di procedere della fisica, analisi cui gli stessi fondatori della fisica classica, come Galileo Galilei (1564-1642) e Isaac Newton (1642-1727), diedero importanti contributi.
3 Quando, nella seconda metà dell’Ottocento, nel panorama scientifico europeo dominato dal Positivismo si affacciò con forza la psicologia, si resero subito evidenti almeno due elementi discriminanti che sembravano escludere questa materia da tale panorama. Il primo derivava dal fatto che un’esigenza imprescindibile della concezione scientifica positivista era la necessità che qualsiasi procedimento scientifico di basasse su dati oggettivi, e non soggettivi, dell’esperienza. Il secondo elemento discriminante era relativo all’ideale positivista di scienza, secondo il quale le leggi che descrivono l’oggetto di una scienza si devono adeguare al modello delle scienze naturali, in particolare della fisica, devono cioè avere un valore universale e permettere di fare previsioni assolutamente certe. È chiaro che questo sistema di leggi e previsioni così rigide non si può applicare ad un oggetto complesso e multiforme come il comportamento umano.
4 Una di queste fu la Scuola Neurofisiologica tedesca, di cui l’esponente più noto è Hermann von Helmoltz (1821-1894) che studiò, tra l’altro, la velocità di conduzione delle fibre nervose sulla base dei tempi di reazione, focalizzando l’attenzione sul meccanismo stimolo fisico - organo di senso - reazione motoria.
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indagabili con i metodi rigorosi delle scienze naturali.
A livello storico, la nascita della psicologia scientifica si può far coincidere con
due avvenimenti. Il primo, in ordine cronologico, è costituito dalla pubblicazione,
nel 1870, dell’opera Psicologia come scienza positiva, il cui autore, l’italiano
Roberto Ardigò (1828-1920), filosofo positivista, è tuttora riconosciuto come
il padre della psicologia italiana. Il secondo avvenimento, per cui si parla della
vera e propria nascita della psicologia come scienza, è dato dalla fondazione,
nel 1879 a Lipsia, del primo laboratorio di psicologia ad opera di Wilhelm
Wundt (1832-1920), considerato il fondatore della psicologia sperimentale.
L’oggetto della psicologia
Il termine “psicologia” significa letteralmente “scienza della mente”. Il termine
deriva dal greco logos, ovvero discorso scientifico e/o studio e psychè,
concetto complesso che significa anima, soffio vitale ed esprime la dimensione
“non-fisica” e materiale dell’uomo.
La psicologia non dice nulla riguardo ai problemi dell’anima, intesa in senso
contemporaneo, che rimandano piuttosto alla metafisica (metà tà physicà, al
di là delle cose della natura), alla filosofia e alla religione. Bisogna comunque
sottolineare che nell’antichità molti degli studi che dichiaravano di indagare
la mente umana erano appunto opere di filosofia o religione ed erano privi
di qualunque attendibilità scientifica. La psicologia è una scienza che prende
in considerazione molti oggetti diversi, assumendo anche punti di vista
differenti per studiarli, con il risultato di apparire ad alcuni una disciplina il cui
statuto scientifico può essere ancora messo in dubbio. Una delle più evidenti
manifestazioni di questa frammentazione teorica riguarda le varie applicazioni
della disciplina: è psicologia quella che si studia nelle università, ma anche
nelle ricerche di mercato per vendere un prodotto, nelle selezioni del personale
all’interno delle aziende, nei programmi educativi, nelle cliniche per malattie
mentali, negli studi degli psicoanalisti e in molti altri luoghi.
I molteplici oggetti d’indagine di studio della psicologia, a loro volta,
vanno dai neurotrasmettitori del cervello all’interpretazione dei sogni, dal
comportamento individuale nelle scelte economiche alle espressioni artistiche,
dall’apprendimento sociale allo studio della guerra.
Affrontiamo ora un breve approfondimento terminologico per chiarire il
significato di alcune discipline vicine alla psicologia, ma non confondibili con
essa.
Capitolo
1.2
11
La psicoterapia è un trattamento basato sulla relazione diretta tra terapeuta
e paziente, attuata con lo scopo di curare disturbi psichici di differente gravità.
Molte persone tuttavia ricorrono alla psicoterapia come strumento di crescita
personale volto ad una migliore conoscenza di se. Possono esercitare la
psicoterapia solamente laureati in psicologia o in medicina che successivamente
si siano specializzati in uno dei numerosi indirizzi psicoterapici.
La psichiatria è una branca specialistica della medicina che si occupa
della cura e della riabilitazione delle malattie mentali, spesso attraverso la
somministrazione di specifici farmaci. Può essere considerato psichiatra solo un
laureato in medicina che successivamente abbia acquisito la specializzazione
in psichiatria.
La psicanalisi è una teoria, elaborata da S. Freud, che analizza la mente
umana e i suoi processi psichici inconsci. Da essa deriva l’omonimo metodo
terapeutico per il trattamento delle nevrosi e dei disturbi mentali caratterizzato
da metodi e strumenti specifici.
Possiamo ritenere la psicanalisi una forma molto specifica e particolare di
psicoterapia, dotata di principi epistemologici e metodologie operative proprie.
La psicopedagogia è una disciplina specifica che deriva dalla confluenza del
piano psicologico con quello pedagogico ed esprime concretamente la propria
specificità nell’elaborazione dei contenuti dei programmi scolastici e delle
modalità didattiche, in relazione alle capacità cognitive e di apprendimento
dell’allievo nelle diverse fasi del suo sviluppo mentale.
Per trovare un orientamento in questo scenario così articolato - evitando le
facili semplificazioni di chi sostiene che, proprio a causa della sua complessità,
la psicologia può avere un posto solo tra le discipline umanistiche e non tra
quelle scientifiche - vanno introdotte alcune fondamentali distinzioni, basate su
una breve sintesi dello sviluppo della psicologia scientifica e sull’esistenza di
una pluralità di metodi d’indagine e di strumenti di misura.
Psicologia orientata alla conoscenza e psicologia orientata all’aiuto del paziente
Nell’ambito della psicologia contemporanea possiamo individuare due
macroaree all’interno delle quali si collocano le varie branche descritte nei
paragrafi successivi: la psicologia orientata alla conoscenza e la psicologia
orientata all’aiuto del paziente.
Capitolo
1.3
12
All’interno della psicologia orientata alla conoscenza si collocano tutti
quegli studi che intendono approfondire in modo rigoroso e attendibile il
funzionamento della mente umana sia in generale (psicologia generale) che in
situazioni specifiche (psicologia dell’età evolutiva, psicologia del lavoro, ecc.).
Gli studi di questo settore mirano a definire delle conoscenze il più possibile
generalizzabili. Non desiderano dunque approfondire la situazione del singolo
individuo, quanto piuttosto comprendere come un determinato aspetto della
psiche umana (memoria, apprendimento, ecc.) si manifesti nel genere umano
o in un suo sottogruppo omogeneo (infanzia, adolescenza, età anziana, ecc.).
La psicologia nasce per indagare in modo scientifico il funzionamento della
mente umana. Il metodo sperimentale è uno dei metodi di studio delle ricerche
psicologiche di questo settore.
La psicologia orientata all’aiuto del paziente è, oggi, una delle più diffuse tra
le applicazioni della psicologia e al suo interno si colloca la psicologia clinica.
Essa si fonda principalmente sulla relazione tra psicologo e paziente e ha lo
scopo di approfondire la situazione di quest’ultimo al fine di fornire un aiuto
o una guida in situazioni di disagio o difficoltà. Lo psicologo, in tale contesto,
quindi, non desidera raggiungere risultati generalizzabili, ma comprendere in
modo approfondito la realtà psico-emotiva di un soggetto e le sue cause,
per poter fornire aiuto e sostegno5. La psicologia orientata all’aiuto utilizza le
informazioni acquisite dalle varie branche della psicologia, come strumento
interpretativo della situazione del singolo soggetto, e si avvale principalmente
del metodo clinico e di strumenti specifici quali il colloquio coadiuvato dall’uso
dei test, di cui parleremo meglio in seguito. Ogni scuola e indirizzo di pensiero,
tuttavia, spesso utilizzano anche metodi e strumenti specifici che caratterizzano
e differenziano i differenti approcci.
5 L’individuo oggetto della psicologia clinica non è necessariamente malato o disturbato psichicamente: più comunemente, può trattarsi di un individuo che chiede soltanto di essere consigliato e aiutato in una situazione della vita in cui si presenti un problema psicologico. Inoltre, quando i conflitti del soggetto sono tali da entrare nella sfera della cosiddetta patologia, potrà rendersi necessario un intervento di tipo psicoterapeutico.
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Capitolo
1.4 Le branche della psicologia
Attualmente la psicologia comprende varie branche di studio, tra cui:
› psicologia generale: costituisce un settore di studio non omogeneo
ma di sintesi delle teorie e dei risultati sperimentali. La psicologia
generale studia prevalentemente i processi cognitivi come l’attenzione,
la percezione, la memoria, l’apprendimento, il linguaggio, ma anche le
emozioni e le motivazioni;
› neuropsicologia: è una disciplina psicofisiologica di costituzione molto
recente, che, nelle parole di un suo rappresentante, G. Benedetti,
consiste nello “studio neurofisiologico e psicologico sperimentale delle
attività mentali e comportamentali”. Così, la neuropsicologia studia come
una patologia a carico del sistema nervoso centrale può determinare
alterazioni cognitive, affettive e comportamentali (ad esempio, cosa
succede nell’intelligenza e negli affetti di persone che hanno subito danni
cerebrali);
› psicofisiologia: è una disciplina intermedia fra la neurofisiologia e la
psicologia e ha per oggetto i rapporti di dipendenza e di concomitanza fra
i processi psichici e le funzioni del sistema nervoso, e come metodi quelli
della anatomofisiologia associati all’osservazione comportamentale, nel
contesto della sperimentazione di laboratorio. Tale disciplina studia quindi
le modificazioni fisiologiche causate dalle emozioni, come ad esempio il
variare della frequenza respiratoria o cardiaca a seguito dell’emozione
della paura;
› psicologia dell’età evolutiva: studia i processi di sviluppo del soggetto
dalla nascita alla prima età adulta. Questa fase del processo evolutivo si
suddivide convenzionalmente in prima e seconda infanzia, fanciullezza,
adolescenza. Oggetti prevalenti di studio sono la percezione, la nascita
dell’intelligenza, lo sviluppo affettivo, relazionale, sociale e morale.
Attualmente la ricerca si sta spostando su fasi sempre più precoci dello
sviluppo;
› psicologia clinica: è la più diffusa tra le applicazioni della psicologia
orientata all’aiuto del paziente. Essa consiste nello studio psicologico
approfondito dei casi individuali, in una prospettiva che considera
il soggetto umano come totalità inscindibile. Si avvale dei risultati
sperimentali acquisiti dalla psicologia generale, soprattutto nei settori
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della personalità e della motivazione, e di una metodologia il cui strumento
principale è il colloquio coadiuvato dall’uso dei test, di cui parleremo
meglio in seguito;
› psicopatologia: studia il funzionamento anormale dell’attività psichica
e mira soprattutto ad individuare, in una prospettiva sistematica, le
cause specifiche delle diverse malattie mentali e dei diversi disturbi
comportamentali. Di norma lo studio psicopatologico costituisce la
premessa indispensabile all’intervento psicoterapeutico;
› psicologia sociale: è una disciplina autonoma (benché connessa
con la psicologia generale) che ha per oggetto gli aspetti sociali del
comportamento umano, ovvero studia il comportamento di un soggetto
in quanto inserito in un gruppo e fenomeni quali l’influenza del gruppo
sul singolo e i pregiudizi6;
› psicologia del lavoro ed ergonomia: ha per oggetto l’uomo (individuo o
gruppo) nella situazione lavorativa; sostanzialmente, essa mira a stabilire
le condizioni ottimali per l’adattamento dell’uomo all’ambiente tecnico,
ovvero, secondo una tendenza più recente e liberale, per l’adattamento
dell’ambiente tecnico alle esigenze psichiche dell’uomo;
› psicologia commerciale: parte dal principio secondo cui un’azienda
moderna, prima di produrre, deve conoscere i bisogni e le aspettative
dei potenziali consumatori. Fra le tecniche della psicologia commerciale,
oltre a quelle classiche come i sondaggi d’opinione e le ricerche di
mercato, la più recente è l’analisi motivazionale, che si propone di
conoscere e spiegare la situazione di mercato, allo scopo di elaborare gli
strumenti adatti a trasformarla a tutto vantaggio di un determinato tipo
di produzione;
› psicologia legale: studia, sotto diversi aspetti, le componenti psicologiche
delle azioni delittuose. In quanto “psicologia criminale”, studia la personalità
dell’autore del reato; in quanto “psicologia giudiziaria”, studia il contesto
giudiziario nelle sue varie componenti (l’imputato, la vittima, gli avvocati,
i testimoni, ecc.); in quanto “psicologia carceraria o rieducativa”, studia
le condizioni di vita del carcerato e il significato psicologico della pena
inflittagli; infine, in quanto “psicologia legislativa”, essa tenta di esplicitare
e migliorare i criteri psicologici adottati delle norme penali e civili;
6 Gli aspetti sociali del comportamento sono riassumibili nei seguenti ambiti di ricerca: fattori socioculturali che presiedono al costituirsi della personalità; componenti sociali delle singole funzioni psichiche; rapporto interpersonale; dinamica dei piccoli gruppi; psicologia dei grandi aggregati umani e dei mass media.
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Capitolo
1.5
› psicologia politica: studia le condizioni necessarie all’ottenimento e al
mantenimento del potere politico e le ragioni del suo decadimento; il suo
terreno d’indagine preferenziale è costituito dai sondaggi d’opinione e
dalla propaganda elettorale;
› psicologia dell’invecchiamento: studia le modificazioni dei processi
cognitivi e comportamentali caratteristiche dell’età senile in funzione di
forme di intervento riabilitativo;
› psicologia dello sport: ha per oggetto le varie componenti del fatto
sportivo, dalla selezione e dall’addestramento degli atleti ai rapporti di
squadra, alle motivazioni del tifo, ecc.;
› psicologia animale e comparata: studia l’intelligenza ed il
comportamento degli animali in continuo confronto con quelli umani;
› psicometria: studia la messa a punto e l’uso di strumenti (test) che
permettono di diagnosticare condizioni patologiche e di effettuare
ricerche.
Alcuni metodi di studio
Un metodo di studio in psicologia è un mezzo con cui cerchiamo di avere
informazioni sul comportamento e sui pensieri, gli atteggiamenti, le emozioni e
le motivazioni che lo determinano. Con la parola “metodo” (composta da metà
= con, per mezzo di, e da odòs = cammino) si intende il percorso attraverso il
quale si vuole giungere a dare una spiegazione ai fenomeni psichici.
Nonostante il metodo sperimentale abbia caratterizzato la nascita della
psicologia scientifica, non è l’unico usato in psicologia.
Il metodo di studio è solo in parte una scelta del ricercatore; esso, infatti, dipende
anche dal quesito cui si cerca di dare una risposta, dal tipo di soggetti da
osservare e dalla disponibilità di strumenti di ricerca7. Anche le analisi (statistiche
o no) che si possono condurre sui dati dipendono dal metodo con cui sono
stati raccolti e quindi, a loro volta, dalla natura dell’oggetto della ricerca. Un
principio generale che il ricercatore dovrebbe tenere a mente è quello di essere
7 Problemi come il condizionamento di un piccione a premere una leva, gli atteggiamenti degli abitanti di un quartiere verso gli immigrati, la memoria degli anziani, le conseguenze psicologiche di un divorzio o di un trasloco non possono essere studiati con lo stesso approccio metodologico.
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abbastanza flessibile nella scelta metodologica, in modo da non lasciar cadere
nessuna possibilità di avere informazioni sul comportamento da indagare.
L’atteggiamento di curiosità, la capacità di cogliere anche elementi nuovi e
non previsti e di concentrare su di essi l’attenzione sono ben riassunti in una
famosa frase dello psicologo statunitense B.F. Skinner: “Quando capitate su
qualcosa di interessante, lasciate tutto il resto e studiatelo”.
Due sono i grandi metodi della psicologia che richiamano, anche se non in
modo biunivoco, le due macroaree prima presentate: il metodo sperimentale
e il metodo clinico.
Entrambi i metodi si avvalgono di numerosi e variegati strumenti, scelti in
funzione della tipologia di obiettivo.
Il metodo sperimentale
La psicologia ha acquisito l’attuale carattere di scientificità grazie:
› alla rinuncia, a volte anche molto radicale e connotata ideologicamente,
ad ogni contenuto di studio o metodo di natura spiritualistica o metafisica,
in quanto estraneo alla scienza;
› all’applicazione del metodo sperimentale, che consiste nella messa a
punto di situazioni sperimentali per studiare, ad esempio, i meccanismi
mentali o il comportamento umano.
Il carattere di scientificità è garantito dal fatto che un determinato fenomeno
umano può essere studiato in laboratorio, e il suo studio può essere ripetuto
modificandone o meno le variabili (ad esempio le reazioni comportamentali di
un soggetto di fronte a stimoli differenti).
La procedura di base è ancora quella che caratterizzava il metodo sperimentale
secondo Galileo: partendo dalla conoscenza dei fenomeni in natura, realizzare
in laboratorio le condizioni per cui un fenomeno si manifesti.
La psicologia sperimentale si propone di studiare e capire lo sviluppo dei
pensieri e dei comportamenti attraverso la sperimentazione, cioè attraverso la
conoscenza (ad esempio in laboratorio) di tutte le condizioni-variabili in cui un
fenomeno si verifica.
Le variabili di un esperimento sono:
› variabile stimolo: un ambiente, uno stimolo fisico (luci, suoni, odori,
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ecc.). Una variabile stimolo è quindi un aspetto dell’ambiente che può
essere modificato per suscitare una certa risposta (come l’illuminazione
di una stanza, i cui valori possono essere cambiati aumentando o
diminuendo l’intensità o il numero delle fonti di luce);
› variabile comportamentale: è la risposta di un soggetto alla situazione
stimolo o variabile stimolo. Si misura il tipo di risposta, la sua intensità,
il tempo di latenza, cioè il tempo che intercorre tra la somministrazione
dello stimolo e la comparsa della risposta, ecc.;
› variabile organismica o soggettiva: tale variabile è una caratteristica del
soggetto, non manipolabile dal ricercatore, che può essere osservata o
inferita (cioè individuata attraverso un’indagine non immediata). Si studia
così il modo in cui lo stesso soggetto risponde con modalità diverse
o uguali e come soggetti differenti rispondono in modo differente alla
stessa situazione stimolo.
Le fasi di una sperimentazione sono:
› emergere del bisogno: ogni ricerca nasce da un bisogno, ovvero dalla
necessità di comprendere meglio alcuni aspetti di un fenomeno, sia per
risolvere problematiche specifiche, sia per studiare in modo approfondito
determinate tematiche;
› osservazione: si osserva in modo rigoroso e sistematico (laboratorio)
ciò che si intende studiare;
› formulazione di ipotesi: l’ipotesi è l’idea iniziale che ci si è fatti circa
la spiegazione di un fatto (ad esempio rapporti di causa-effetto o
correlazione tra due eventi). L’ipotesi solitamente prende forma durante
l’osservazione iniziale o durante osservazioni del passato;
› esperimento: si crea una situazione sperimentale all’interno della quale
sia possibile misurare tutte le variabili i cui parametri possono alterare il
fenomeno studiato;
› elaborazione dei dati sperimentali: attraverso procedure statistiche,
si elaborano tutti i dati per spiegare il fenomeno osservato. Se, sulla
base dei dati acquisiti ed elaborati, l’ipotesi risulta vera, essa può essere
generalizzata ad altri fenomeni con le stesse caratteristiche, arrivando
così alla formulazione di leggi generali;
› validazione o disconferma dell’ipotesi: se i dati sperimentali ottenuti
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sostanziano l’ipotesi, cioè confermano l’idea iniziale, l’ipotesi si deve
considerare vera. Se invece i dati sperimentali falsificano l’ipotesi, cioè non
confermano l’idea iniziale, allora l’ipotesi deve essere considerata falsa.
Questo procedimento, con le debite variazioni in relazione all’oggetto di
studio, è ciò che differenzia e definisce un approccio scientifico.
Facciamo un esempio tanto semplice da apparire surreale, ma comunque utile
a comprendere meglio.
Consideriamo uno psicologo che lavora in casa di riposo. Quotidianamente
egli osserva gli educatori durante i momenti ricreativi e spesso si confronta con
loro sulla difficoltà che molti anziani hanno a ricordare le diverse consegne date
durante le attività. Tale situazione si ripete quotidianamente e con la maggior
parte degli ospiti, rendendo difficile per gli educatori proporre attività adeguate.
Egli quindi si chiederà se vi sia una correlazione tra età e memoria (emergere
del bisogno). Lo psicologo, quindi, deciderà di condurre un esperimento su
tale argomento. Radunerà un gruppo numeroso di anziani proponendo loro
delle immagini e osserverà con attenzione il loro comportamento nel tentare
di ricordarle (osservazione): la maggior parte degli anziani, dopo alcuni minuti,
faticherà a richiamare alla mente tutte le immagini. Egli potrà dunque formulare
la seguente ipotesi (in vero piuttosto scontata!): la memoria è una facoltà che si
deteriora con l’invecchiamento (formulazione di ipotesi). Per verificare l’ipotesi
egli radunerà un gruppo molto numeroso di anziani e un gruppo altrettanto
numeroso di giovani avendo cura di evitare alcune variabili di disturbo. Eviterà
di convocare, ad esempio, anziani con patologie psichiatriche o ritardo mentale
poiché in questo caso la scarsa memoria potrebbe essere causata da fattori
differenti dalla semplice età. Sottoporrà successivamente i due gruppi ad una
serie di prove relative alle differenti forme di memoria e registrerà ogni dato in
modo rigoroso (esperimento). In un secondo momento, analizzerà i dati raccolti
(elaborazione dei dati sperimentali) e potrà affermare con certezza scientifica
che la propria ipotesi di partenza era corretta (validazione dell’ipotesi).
Il metodo clinico
Il metodo clinico è relativo alla presa in considerazione di un “caso” (sia esso un
individuo, una coppia o un gruppo) con lo scopo di comprenderlo a fondo. Esso
pone dunque l’attenzione sull’aspetto soggettivo e si fonda principalmente sul
rapporto interpersonale che s’instaura tra terapeuta e paziente. Il terapeuta
mira, attraverso la conoscenza e l’ascolto del paziente, ad interpretare i suoi
19
sintomi per comprenderne la causa ed intervenire. L’intervento dello psicologo,
nel metodo clinico, consiste quindi nel tentativo di leggere dietro le parole
riferite dal paziente, cogliendone, sotto i contenuti manifesti, i contenuti latenti
ignoti, spesso sconosciuti al paziente stesso. Questo metodo, se pur con
differenze sostanziali, accomuna la psicologia ad altre discipline vicine quali la
psicoterapia.
Le fasi del metodo clinico sono le seguenti:
› la diagnosi o valutazione clinica, che permette di ottenere informazioni
importanti sulla natura, l’entità, e, se possibile, sulle cause della
problematica del paziente, al fine di giungere all’individuazione dei mezzi
necessari alla sua risoluzione. Esistono due principali approcci valutativi:
- l’approccio psicometrico, che si occupa della valutazione del
paziente attraverso procedure standardizzate come i test;
- l’approccio psicodinamico, che utilizza procedure meno obiettive,
ma più specifiche perché legate alle dinamiche psicologiche
dell’individuo.
› la terapia, che ha lo scopo di ridurre, eliminare, o almeno rendere
controllabili, le manifestazioni patologiche del paziente. Diversi
orientamenti teorici genereranno diversi approcci terapeutici.
Un’altra applicazione di questo metodo è ritrovabile nell’ambito della
consulenza presso centri territoriali come asili, scuole, carceri o tribunali per
problemi scolastici, familiari, matrimoniali, di disadattamento o di devianza allo
scopo di aiutare e consigliare gli specialisti e i tecnici del settore (ad esempio
insegnanti, educatori, avvocati, ecc.).
Rispetto al metodo sperimentale, che studia aspetti specifici di un fenomeno
in condizioni artificiali, ma rigorosamente controllate, il metodo clinico studia il
problema nella sua globalità e nel suo ambiente naturale. Pur non essendo un
metodo che garantisce una rigorosa obiettività, permette di cogliere aspetti e
informazioni che non avrebbero potuto emergere con altri metodi.
20
Gli strumenti della psicologia
Moltissimi sono gli strumenti utilizzati dalla psicologia, alcuni sono tipici del
metodo clinico, altri di quello sperimentale e, altri ancora, di entrambi. Fra
gli strumenti più noti, possiamo presentarne alcuni che, per la loro efficacia,
possono ritenersi utili anche per l’operatore che esplica la sua professionalità
in ambito assistenziale.
L’introspezioneL’introspezione o la capacità di osservare internamente. Essa consiste
nell’analisi, da parte del soggetto, della sua esperienza cosciente e dell’ascolto
dei propri stati d’animo, delle proprie emozioni e sensazioni. È evidente che
non tutte le persone hanno la stessa capacità di autoanalisi. Ad esempio, un
bambino piccolo non può utilizzare questo strumento di conoscenza di se
stesso, così come una persona psicologicamente fragile.
Si tratta dunque di uno strumento non propriamente oggettivo, perché può
risentire degli influssi della suggestione, che può deformare i fatti e rendere
poco obiettive le nostre osservazioni.
L’osservazione direttaL’osservazione diretta è uno strumento molto importante e valido, purché
l’osservazione sia condotta con criteri in grado di assicurare risultati
attendibili, quali la metodicità, la precisione e il rigore. L’osservazione diretta
è uno strumento fondamentale sia per il metodo sperimentale che per il
metodo clinico. In ambito clinico, infatti, si utilizza l’osservazione soprattutto
nel caso di pazienti che non sono in grado, per età, abilità cognitive o verbali,
di utilizzare l’introspezione e il colloquio clinico. Questo accade, ad esempio,
con i bambini, con le persone disabili o con gli anziani con demenza. Lo
psicologo osserva le interazioni del paziente con il contesto in cui vive, le sue
reazioni e i suoi comportamenti cercando di cogliere, dietro tali aspetti, le
difficoltà o i disagi esperiti dal paziente.
Il colloquio clinicoIl colloquio è lo strumento principale dello psicologo clinico e consiste in una
1.6.1
1.6.2
1.6.3
Capitolo
1.6
21
conversazione diretta che serve, a seconda dello scopo per il quale viene
effettuato, per conoscere, valutare e fornire un sostegno psicologico alla
persona. Si differenzia da una normale conversazione per delle regole e delle
finalità molto precise che vengono osservate dal professionista che conduce
il colloquio.
Molto importante è ciò che la persona racconta di sé, della propria storia e
della vita attuale, soprattutto in relazione alla domanda più o meno esplicita
d’aiuto, contenuta nella richiesta di colloquio. Il soggetto fornisce durante il
colloquio molte informazioni su di sé, sulla sua vita, sulle sue vicende passate,
sulla sua infanzia, sulla storia della sua famiglia, sulle relazioni con i genitori e tra
i genitori, sul suo modo attuale di condurre la vita, sulla riuscita professionale,
ecc., ma soprattutto permette a chi conduce il colloquio di capire il suo
modo di mettersi in relazione con gli altri. È quindi molto importante badare
ai contenuti che il soggetto trasmette, ma non meno importante è osservare
il suo comportamento e gli altri messaggi non verbali che invia più o meno
consapevolmente. È necessario, per lo psicologo, riuscire a stabilire una buona
relazione con chi ha chiesto il suo intervento professionale e creare un clima
di sicurezza e di fiducia, di tolleranza e di accettazione, affinché la persona
possa fidarsi ed aprirsi il più possibile, facendo emergere le sue più intime
problematiche. Il colloquio è raramente singolo: generalmente sono più d’uno,
a distanza di qualche giorno l’uno dall’altro..
I testI test sono strumenti che misurano le varie funzioni mentali o psicologiche più o
meno complesse. Essi sono utilizzati nella ricerca psicologica e prevalentemente
in tutti i settori della psicologia applicata, per analizzare le differenze tra le
reazioni psichiche (di un determinato tipo) di più individui oppure le differenze
fra le reazioni psichiche del medesimo individuo in diversi momenti o condizioni.
Possiamo individuare due grandi categorie di test, psicometrici e proiettivi,
ma è importante notare come questa differenza non sia sempre così netta
e, quindi, come vi siano test che appartengono, anche se parzialmente, ad
entrambe.
Test psicometrici
In generale, possiamo definire test psicometrici tutti quei test che hanno una
“validazione statistica” e che quindi permettono di attribuire ad ogni risposta
1.6.4
22
un valore numerico, tale da garantire un’elaborazione statistica del risultato.
Questi test sono normalmente caratterizzati da quesiti a risposta multipla,
tra le quali il paziente può scegliere quella che ritiene più adeguata. Ci sono
test che misurano l’intelligenza globale o l’efficienza selettiva, altri più settoriali
che valutano funzioni quali la memoria, la percezione, l’abilità nel coordinare
la percezione visiva con il movimento, l’attenzione, il ragionamento ed altre
funzioni8. Vi sono poi altri test che riguardano la valutazione di caratteristiche
della personalità quali l’affettività, l’umore, la capacità di sentire, le emozioni e
i sentimenti, la capacità di stabilire buone relazioni con gli altri, la capacità di
adattamento e di socializzazione.
I test, ad esempio, che misurano l’efficienza intellettiva forniscono un importante
indice numerico detto quoziente intellettivo (Q.I.), attraverso il quale è
possibile situare la prestazione intellettiva di una determinata persona in una
scala di valori che va dall’intelligenza superiore, passando per l’intelligenza
normale, all’intelligenza inferiore alla norma fino al ritardo mentale in tutte le
sue variazioni di gravità.
8 Oggi è possibile classificare i test in base a cinque tipologie: a) “test individuali” e “test collettivi”; b) “test di rendimento” e “test carta e matita”, a seconda che esigano la manipolazione di determinati materiali o la stesura delle risposte su un apposito modello; c) “test di velocità” e “test di potenza”, a seconda che siano basati sul numero di domande cui il soggetto è in grado di rispondere in un determinato periodo di tempo, o sulla difficoltà delle domande cui il soggetto è in grado di rispondere correttamente; eventualmente le due prestazioni possono essere combinate; d) “test verbali” e “test non verbali”, questi ultimi di varia natura: figurativa, geometrica, numerica, ecc.; e) a seconda della finalità per cui è costruito il test, tre categorie generali, a loro volta suddivise in sottocategorie: “test di intelligenza generale”, “test di abilità o attitudini specifiche” e “test di personalità”.
Figura 1 - Esemplificazione di due quesiti di un test Q.I.
23
I test di intelligenza seguono il prototipo di Binet-Simon9, migliorato dopo il
1916, quando l’americano Lewis M. Terman, sviluppando un’indicazione del
tedesco Wilhelm L. Stern (1911),introdusse appunto il concetto di “quoziente
di intelligenza” (si veda il capitolo 4).
L’impiego della scala Terman-Stanford (migliorata in senso statistico da M. Merril
nel 1960) resta circoscritto ai soggetti in età evolutiva. Fra i test di intelligenza
individuale per adulti, il più noto è quello elaborato nel 1939 da David Wechsler
e perfezionato nel 1955 (WAIS, ossia Wechsler Adult Intelligence Scale).
Test proiettivi
Al di là dei questionari, l’odierna indagine della personalità si avvale soprattutto
delle tecniche proiettive, che costituiscono lo strumento diagnostico per
eccellenza dello psicologo clinico ed hanno raggiunto un buon livello di
elaborazione, benché, a causa della complessità del materiale, si pongano
ad un livello di precisione inferiore rispetto ai test psicometrici. Nelle tecniche
proiettive il soggetto viene posto di fronte ad un compito poco strutturato (al
contrario di quanto avviene nei test psicometrici), tale cioè da consentirgli
un’ampia gamma di risposte o interpretazioni.
Questi test si basano sull’ipotesi che in queste risposte il soggetto proietti le
proprie caratteristiche di personalità, normali o patologiche. Attraverso, quindi,
lo stimolo dato dal test proiettivo, il soggetto lascia emergere e porta fuori,
proietta senza paura - e spesso senza accorgersene - aspetti di sé che altrimenti
rimarrebbero sepolti e sconosciuti. Lo psicologo valuta le risposte così raccolte
e restituisce al paziente i risultati, aiutandolo a raggiungere una maggiore
conoscenza e consapevolezza di sé e dei meccanismi di funzionamento della
propria mente.
Due dei test proiettivi più famosi sono il test Rorschach e il test Blacky.
Il test di Rorschach10 si compone di 10 tavole su ciascuna delle quali è
riportata una macchia d’inchiostro simmetrica: 5 monocromatiche, 2 bicolori
e 3 colorate. Le tavole vengono sottoposte all’attenzione del paziente una alla
volta e, per ciascuna e senza porre limiti di tempo, viene chiesto di esprimere
tutto ciò cui la tavola somiglia.
9 Nel 1905 i francesi Alfred Binet e Theodore Simon costruiscono la “prima scala metrica d’intelligenza” richiesta dal ministero francese della pubblica istruzione per identificare e separare i bambini ipodotati. Essa rappresenta il primo test della storia della psicologia per la misurazione delle abilità di pensiero e di ragionamento.
10 È da sottolineare come il test Rorschach abbia ora anche validazione statistica, qualificandosi quindi anche come test psicometrico.
24
Non esistono risposte giuste o sbagliate, ma dall’interpretazione di quelle date
a ciascuna tavola è possibile, in funzione delle teorie di riferimento, delineare
un profilo della personalità e delle attitudini del paziente e identificare eventuali
nodi problematici del soggetto.
Il test Blacky viene somministrato ai bambini dai 6 agli 11 anni e consiste di 12
vignette che illustrano le avventure del cane Blacky con la mamma, il papà e
una figura fraterna di sesso ed età non precisati. Al bambino viene chiesto di
raccontare una storia per ciascuna tavola che vede. Al termine del racconto
spontaneo del bambino, vengono rivolte alcune domande di approfondimento
seguendo un protocollo di intervista predefinito.
L’uso dei test in psicologia clinica ha vissuto alterne vicende. In passato venivano
largamente applicati, in modo forse anche eccessivo, poiché veniva attribuita
loro un’attendibilità maggiore di quella reale. In tempi più recenti il loro uso è
stato molto limitato se non respinto, ed i test sono stati visti come strumenti per
discriminare ed emarginare determinati gruppi. Attualmente sembra esserci nei
confronti di questo strumento un atteggiamento più equilibrato da parte degli
addetti ai lavori. Una regola per il corretto utilizzo dei test, in genere, è quella
di pensarli come strumenti che aiutano, ma che non possono in alcun modo
costituire la sola strada per arrivare alla conoscenza e alla comprensione della
persona.
26
Considerazioni conclusive
Vorremmo concludere questo primo capitolo con una osservazione: la
psicologia è per eccellenza la scienza dell’uomo. È una scienza molto articolata
e complessa e al suo interno possiamo individuare due grandi orientamenti: vi
è una parte importante della psicologia che mira a conoscere come funziona la
mente dell’uomo in generale e un’altra parte che, invece, si occupa dell’aiuto
e della cura del singolo paziente. All’interno di tali orientamenti si collocano
differenti metodi e strumenti di approfondimento.
A differenza delle altre scienze, essa è continuamente limitata dall’oggetto di
studio. Essa non può cioè studiare l’uomo alla stregua degli altri oggetti e
fenomeni presenti in natura. Lo psicologo sa di trovarsi di fronte all’uomo, che
è soggetto di diritti che non possono essere violati a nessun prezzo e per
nessun motivo; essi sono la sua libertà, la sua dignità, la sua unicità. Questa
condizione non limita la psicologia, anzi ne fa una disciplina di straordinaria
importanza e di grandissima utilità, non solo per l’individuo che si rivolge allo
specialista, ma per la collettività intera.
È molto importante, quindi, anche per l’operatore di assistenza, raggiungere un
buon livello di conoscenze psicologiche, per riuscire a capire i comportamenti
dei propri utenti. Ciò è possibile se tra operatore e utente esiste un alto livello
di compatibilità, di accettazione, di rispetto. Per questo è necessario, da
parte dell’operatore, realizzare una buona comprensione della propria realtà
psicologica e una buona consapevolezza delle proprie inclinazioni, attitudini,
abilità, sensibilità e motivazioni per attuare un servizio qualificato. Comprendere
i bisogni dell’utente e cercare il più possibile di rispondervi sarà allora un
compito più agevole e gratificante dal punto di vista personale.
27
Questionario di autocontrollo
1) Che cos’è la psicologia?
2) Quali sono le due principali macroaree della psicologia?
3) Vi è un legame tra psicologia orientata alla conoscenza e psicologia
orientata all’aiuto del paziente?
4) Perché la psicologia è una scienza?
5) Quali sono le origini della psicologia?
6) Chi è il padre della psicologia sperimentale?
7) Che cosa intendiamo per introspezione?
8) Perché è importante il metodo sperimentale?
9) Quali sono le variabili e le fasi del metodo sperimentale?
10) Che cos’è il colloquio clinico?
11) Cosa sono i test psicometrici?
12) In che cosa consistono le tecniche proiettive?
13) Quali sono i più noti test di intelligenza?
28
Orientamenti teorici in psicologia
Nel panorama scientifico moderno che si stava configurando in Europa nella
seconda metà dell’Ottocento, si svilupparono le prime scuole psicologiche,
che si possono davvero definire tali, in quanto basate sull’affermazione
dell’autonomia della psicologia come scienza, e sulla definizione di oggetti e
metodi suoi propri1. Alcune delle tendenze più significative di queste scuole
sono sopravvissute fino ai giorni nostri, entrando nella storia della psicologia
come un’eredità stabile; altre linee e metodi di ricerca si sono esauriti, a volte
perché troppo legati a uno o due studiosi dalla grande personalità, ma senza
allievi, a volte perché troppo strettamente legati al contesto culturale del loro
tempo ed incapaci di evolversi o di riconoscersi in orientamenti successivi.
Le prime scuole psicologiche
La Scuola psicofisicaErnst H. Weber (1795-1878) e soprattutto Gustav T. Fechner (1801-1887)
sono considerati i fondatori della “psicofisica”, una scienza nata con l’obiettivo
esplicito di mettere in relazione i dati oggettivi della realtà (come potrebbero
essere studiati dalla fisica) con i dati “immateriali” dell’esperienza umana.
L’ambizione filosofica di Fechner era quella di descrivere con una legge generale
la relazione tra i due mondi contrapposti della “materia” e dello “spirito”, e di
scoprire questa legge studiando gli effetti delle modificazioni indotte dal mondo
materiale nella nostra “anima”.
La grande novità di questo approccio consiste nel mettere in relazione il mondo
esterno (lo stimolo fisico) con il mondo interno (la sensazione soggettiva
dell’individuo) e nell’affermare la misurabilità degli elementi di questa relazione
attraverso leggi matematiche. Da molti autori moderni le ricerche di Weber
e Fechner sono considerate il passo decisivo che permise la nascita di una
Capitolo
2.1
1 Va comunque detto che la psicologia non si è mai potuta avvalere, fin dal suo esordio, di un bagaglio di conoscenze unitario. La sua nascita, infatti, avvenne quasi contemporaneamente in Paesi differenti e relativamente isolati tra loro. Ciò ha impedito, fino a tempi recenti, che ci potesse essere uno scambio di informazioni tra comunità scientifiche diverse, e questo ha favorito il moltiplicarsi di ricerche sugli stessi argomenti e lo sviluppo di molteplici orientamenti teorici.
2.1.1
29
psicologia scientifica. La psicofisica, tra l’altro, continuò a svilupparsi con le
sue scuole ed i suoi metodi ed è ancor oggi molto vitale.
La Reflessologia e la Scuola storico-culturaleAll’interno della storia della psicologia il contributo della Scuola russa ebbe
un grosso peso. Dalla fondazione del primo laboratorio di psicologia (1886)
all’inizio della rivoluzione russa del 1917, gli studi rifletterono sostanzialmente
gli indirizzi europei. Gli psicologi russi avevano due orientamenti di ricerca:
1. il primo si fondava su una concezione spiritualistica della psiche;
2. il secondo, materialistico, tendeva a “ridurre” i fenomeni psichici a processi
fisiologici (seguendo, in questa direzione, la Scuola Neurofisiologica
tedesca, ed in particolare l’insegnamento del suo più noto esponente,
Hermann von Helmoltz, cui abbiamo precedentemente accennato. Suo
il modello dell’arco riflesso, che ora esamineremo).
Successivamente al 1917 ed in relazione ai processi storico-politici, gli psicologi
russi si proposero di rivedere le basi teoriche della disciplina in relazione alle
teorie marxiste e leniniste. Le due scuole sovietiche più importanti furono la
Reflessologia e la Scuola storico-culturale.
La Reflessologia (o Scuola reflessologica russa),i cui principali esponenti
furono Ivan M. Secenov (1829-1905), Vladimir M. Bechterev (1857-1927) e
Ivan Pavlov (1849-1936), si propose di spiegare tutto il comportamento umano
attraverso un meccanismo molto semplice (studiato negli animali), di cui si
conoscevano le basi fisiologiche: l’arco riflesso. Secondo il modello dell’arco
riflesso, tra l’azione di uno stimolo fisico, provocato dallo sperimentatore, e la
risposta corporea viene inserito il sistema percettivo umano e, sulla base delle
osservazioni empiriche, si può dire qualche cosa del funzionamento di questo
sistema. Questo meccanismo spiegava e spiega chiaramente comportamenti
elementari, involontari e automatici (ad esempio, il comportamento di un cane
che ritrae una zampa, dopo aver percepito su di essa uno stimolo doloroso).
Uno stimolo, quindi, colpendo un centro nervoso (cervello o midollo spinale),
provoca una risposta comportamentale.
L’esponente più famoso di questa scuola è certamente Pavlov, che, grazie alle
sue ricerche sulla mucosa gastrica, ottenne nel 1904 il premio Nobel per la
medicina.
2.1.2
30
La sua fama mondiale e il rilievo che egli ha avuto nella storia della psicologia
derivano però dalla sua scoperta del condizionamento, fondata su un grande
numero di scrupolosissime ricerche su soggetti animali, iniziate nel 1902 e
concluse nel 19262.
Riassumendo, si può sostenere che gli esponenti della scuola Reflessologica
pensarono di poter utilizzare il meccanismo dell’arco riflesso per spiegare tutti
i comportamenti dell’uomo, anche quelli più complessi. Il grande merito di
questa scuola fu quello di aver liberato, con fatica e con rigorose ricerche,
la psicologia da ogni componente spiritualistica, nel tentativo di condurre la
ricerca psicologica nei rigidi binari della scienza di quel tempo.
Un limite di questo approccio è dato, evidentemente, dalla pretesa di estendere
un semplice modello esplicativo del comportamento animale al comportamento
umano, che è invece molto più complesso e articolato.
La Scuola storico-culturale annovera tra i suoi principali esponenti Lev
S. Vygotskij (1896-1934) e Aleksander R. Lurija (1902-1977), ai quali va
riconosciuto il merito di aver contribuito allo sviluppo di molte conoscenze che
rimangono ancora oggi attuali.
Essi studiarono in particolare:
› il rapporto tra il comportamento degli animali e quello dell’uomo;
› la continuità dello sviluppo delle funzioni psichiche dal bambino all’adulto.
Il loro fondamentale contributo consiste nell’aver evidenziato le linee di continuità
tra alcuni comportamenti di animali superiori (Primati) e alcuni comportamenti
umani, ma anche nell’aver contribuito a chiarirne le sostanziali differenze.
Studiarono molto anche il linguaggio, accorgendosi che esso svolge due
funzioni fondamentali:
1. quella comunicativa, che si sviluppa nel bambino verso il secondo anno
di vita, consente di comunicare ad altre persone i propri pensieri;
2. la seconda, che compare verso i quattro-sette anni di vita, consiste nella
possibilità di utilizzare il linguaggio per regolare il proprio comportamento
ed interviene quando un bambino, abituato a parlare ad alta voce
raccontandosi quello che sta facendo (ad esempio il gioco), inizia a non
2 Per “condizionamento” Pavlov intende un procedimento sperimentale in cui uno stimolo neutrale (SC = stimolo condizionato) viene associato più volte di seguito ad uno stimolo incondizionato (SI), che solitamente provoca una determinata risposta (RI = risposta incondizionata); dopo un numero sufficiente di queste associazioni (dette “prove di condizionamento”) lo stimolo condizionato provoca da solo, cioè in assenza dello stimolo incondizionato, la risposta che inizialmente era provocata soltanto da quest’ultimo: la risposta incondizionata (RI) si è cioè trasformata in risposta condizionata (RC).
31
parlare più, sviluppando così un linguaggio interno che lo aiuta a regolare
il suo comportamento.
L.S. Vygotskij e A.R. Lurija furono anche i primi a condurre ricerche di tipo
cross-culturale, cioè ricerche che mirano a conoscere come lo sviluppo delle
funzioni mentali avviene in modo diverso in culture e società diverse.
Il laboratorio psicologico di WundtCome abbiamo già accennato nel primo capitolo, Wilhelm Wundt (1832-
1920) è considerato il fondatore della psicologia sperimentale, anche se
inizialmente le sue ricerche non si differenziavano molto da quelle delle altre
scuole di neurologia e di fisiologia. Il suo laboratorio all’Università di Lipsia,
fondato nel 1879, rappresentò per la psicologia la prima rivendicazione di un
ambito autonomo di indagine, quindi l’affermazione che questa scienza era
abbastanza matura da affrancarsi dai metodi e dagli oggetti di studio delle altre
scienze che l’avevano accompagnata nei suoi primi passi.
Secondo Wundt, la psicologia si differenziava dalle altre scienze in quanto il
suo oggetto è “l’esperienza umana immediata”, mentre l’oggetto delle scienze
naturali è “l’esperienza umana mediata”.
La specificità della psicologia, così come la coglieva Wundt, è proprio questa
mancanza di mediazioni tra lo strumento e l’oggetto della conoscenza, che rende
indispensabile la definizione di un metodo di ricerca ad hoc: tale metodo era
per Wundt l’introspezione, insieme all’applicazione del metodo sperimentale
ai fatti dell’esperienza soggettiva. L’introspezione, cioè l’autosservazione dei
propri stati psichici, sembra molto distante da un metodo scientifico basato
sull’oggettività, ma la grande ambizione metodologica di Wundt è stata quella
di applicare il metodo sperimentale ai fatti dell’esperienza soggettiva. All’analisi
oggettiva (realizzata con strumenti di laboratorio) delle caratteristiche fisiche
degli stimoli e dei tempi e delle modalità di reazione dell’organismo si associa
l’analisi delle reazioni soggettive dell’individuo, effettuata con l’introspezione3.
Wundt fu il primo psicologo che elaborò una teoria sistematica dei processi
mentali sostanziata da una grossa mole di dati: con lui, quindi, la psicologia
acquista una dimensione radicalmente nuova, assumendo i criteri metodologici
2.1.3
3 Nell’accezione di Wundt l’introspezione è controllata, cioè non è un vagare libero della mente, ma il tentativo di identificare variabili psichiche quantificabili e misurabili, che subiscono modificazioni in seguito alle variazioni di altre variabili (gli stimoli) del mondo esterno.
32
della sperimentazione e della quantificazione; in questo senso, identificando
la storia della psicologia con la storia della psicologia sperimentale, è lecito
affermare che quest’ultima ha poco più di cent’anni di vita.
Dopo un secolo, molte delle ricerche sperimentali di Wundt ovviamente
mostrano ingenuità teoriche e metodologiche, tuttavia, di questo pioniere oggi
devono soprattutto essere tenute in considerazione, oltre alla rivendicazione
di uno specifico ambito di indagine per la psicologia, la tensione alla ricerca di
una spiegazione causale nei fatti psicologici, che è alla base della costruzione
della psicologia come scienza.
Lo StrutturalismoL’introspezione controllata, come metodo di indagine caratteristico della
psicologia, venne ripresa e approfondita da un allievo di Wundt, l’inglese
(poi trapiantato negli Stati Uniti) Edward B. Titchener (1867-1927). Il centro
della sua attenzione era costituito dall’esperimento di psicologia, in tutti i
suoi aspetti tecnici anche minimi, e dalla formazione rigorosissima di un
gruppo di “sperimentalisti”, cioè di psicologi suoi collaboratori. La parte più
importante di questa formazione consisteva nell’apprendimento del metodo
introspettivo, cioè di un’autosservazione estremamente analitica e sistematica,
volta a registrare le variazioni delle variabili psichiche per sottoporle al vaglio
sperimentale.
I tre elementi dell’esperienza cosciente erano per Titchener le percezioni, le
idee e i sentimenti, che per poter essere studiati andavano però scomposti
in elementi non ulteriormente divisibili (criterio “elementistico”). Le percezioni
potevano essere studiate solo nelle loro componenti di “sensazioni” elementari,
le idee nelle loro componenti di “immagini mentali”, i sentimenti nelle loro
componenti più semplici chiamate “stati affettivi”.
A differenza delle sue molte accezioni successive, il nome di “Strutturalismo”
assunto da questa scuola si riferisce al fatto che oggetto della conoscenza
psicologica è una struttura, cioè un’aggregazione, di molteplici elementi non
ulteriormente riducibili, che si organizzano separandosi e ricomponendosi,
dando così origine ad oggetti diversi.
Il FunzionalismoMentre esiste una continuità culturale tra le scuole sopra descritte (Wundt fu
allievo di Helmholtz e Titchener lo fu di Wundt), il Funzionalismo si oppose
2.1.4
2.1.5
33
profondamente a questi filoni, anzi il nome stesso gli fu attribuito con intento
dispregiativo da Titchener in un suo articolo, in cui accusava i funzionalisti di
non essere interessati alla struttura della mente umana, ma solo alla descrizione
delle sue funzioni.
Infatti il Funzionalismo si richiamava alla teoria evoluzionistica di Charles R.
Darwin (1809-1882) e considerava i processi mentali una funzione sviluppata
dall’organismo umano in una fase molto avanzata dell’evoluzione, ma sempre
al fine di garantire la sopravvivenza e l’adattamento4. In quest’ottica era più
importante capire come funziona un certo meccanismo biologico o psicologico,
a quali bisogni organici risponde e a quale scopo è finalizzato, piuttosto che
descriverlo dettagliatamente nei suoi elementi costitutivi. Per i funzionalisti
l’attività mentale era anch’essa finalizzata ad uno scopo, quello di elaborare,
sulla base delle esperienze precedenti di un individuo, una guida per il suo
comportamento futuro.
Il caposcuola tradizionalmente riconosciuto del Funzionalismo è l’americano
William James (1842-1910), mentre l’inglese Francis Galton (1822-1911)
ha approfondito il metodo di ricerca e gli strumenti di misurazione psicologici
ed è stato il precursore dei moderni test psicometrici. In realtà, la mentalità
pragmatica di questa scuola è tipicamente americana: di tale pragmatismo
fu espressione, dal punto di vista pedagogico e filosofico, John Dewey
(1859-1952). Per i funzionalisti il comportamento umano è adattivo, cioè
teso a soddisfare un bisogno, in modo da permettere la sopravvivenza. Tutti
i comportamenti psicologici, anche le emozioni, venivano, dunque, trattati in
questa scuola sottolineandone il valore di adattamento o disadattamento nelle
varie situazioni. Anche percezione e conoscenza erano prese in considerazione
solo se inserite in un contesto di adattamento dell’organismo all’ambiente. I
funzionalisti utilizzarono come metodo di ricerca sia l’esperimento di laboratorio
sia i metodi osservativi, mentre attribuirono sempre meno importanza al metodo
introspettivo. Di questa scuola sono tuttora valide e accettate pressoché
universalmente alcune indicazioni di lavoro:
› lo studio delle differenze individuali e la loro valorizzazione come possibilità
di adattamenti più efficaci;
› l’importanza data a strumenti metodologici come test e questionari, allo
scopo di avere una misura quantitativa e qualitativa delle funzioni della
mente umana in relazione anche alle differenze tra gli individui.
4 La dottrina darwiniana e, di conseguenza, anche il Funzionalismo si richiamavano nei loro aspetti specificamente filosofici all’Utilitarismo di Jeremy Bentham (1748-1832) e John Stuart Mill (1806-1873).
34
Principali scuole psicologiche del Novecento
All’inizio del Novecento la psicologia era ormai caratterizzata dall’uso di diversi
metodi di indagine (soprattutto quello sperimentale, basato su osservazioni
oggettive e situazioni replicabili, e quello introspettivo, applicato in condizioni
rigorosamente controllate); erano già state introdotte nella ricerca anche le
prime tecniche statistiche di analisi dei dati e i primi strumenti oggettivi di
misurazione delle capacità individuali, precursori della moderna psicometria.
Con alcune scuole del Novecento la psicologia ebbe una certa diffusione
anche a livello di cultura popolare, nei mass media dell’epoca, o nei libri
divulgativi per le famiglie. La psicologia del Novecento è stata naturalmente
influenzata dai grandi eventi storici e dalle trasformazioni culturali e politiche:
con la Prima Guerra Mondiale, in particolare, negli Stati Uniti si realizzarono
le prime applicazioni di massa di test e strumenti psicometrici; inoltre, molte
ricerche fondamentali presero le mosse da studi eseguiti per scopi militari, così
come, sul piano della psicopatologia, la guerra offrì purtroppo molto materiale
per lo studio dei traumi psichici.
La psicologia della GestaltLa Scuola psicologica detta della “Gestalt” (Gestaltpsychologie significa
letteralmente “psicologia della forma”) nacque in Germania nei primi decenni
del Novecento.
Anche se i principali studiosi della Gestalt si riconobbero nella Scuola di Berlino,
si può dire che la prospettiva gestaltista attraversò mezza Europa: esponenti
di questa scuola insegnarono e fecero ricerca in molte sedi universitarie
dell’epoca, come Praga, Würzburg, Vienna, Graz e Padova.
Inoltre, già alla fine degli anni Venti cominciò - per divenire più consistente
con l’avvento di Hitler - un’emigrazione di intellettuali di area tedesca verso
gli Stati Uniti: così, in molti casi, prese questa strada anche la Psicologia della
Gestalt: numerosi tra i suoi fondatori, come Max Wertheimer (1880-1943) e
Kurt Koffka (1886-1941) emigrarono appunto per sfuggire alle persecuzioni
razziali; altri studiosi, come Wolfgang Köhler (1887-1967), pur non essendo
ebrei, lasciarono la Germania per non associarsi all’antisemitismo imperante
anche in campo scientifico e culturale.
Questa scuola studiò in particolar modo le leggi che regolano la percezione,
Capitolo
2.2
2.2.1
35
soprattutto quella visiva5. Il punto di vista dei Gestaltisti pone al centro
dell’interesse dalla psicologia le funzioni psichiche rispetto al loro contenuto,
in opposizione alle scuole che avevano assunto una prospettiva elementista
(Wundt e gli Strutturalisti). Precedentemente, infatti, la tendenza dei ricercatori
del settore era quella di affrontare lo studio di un fenomeno o di un oggetto
attraverso la sua scomposizione in parti elementari, che venivano studiate
singolarmente al di fuori di un contesto generale; essi ritenevano che,
sommando semplicemente tutte queste informazioni parziali, fosse possibile
risalire alla conoscenza completa dell’oggetto o del fenomeno studiato.
I Gestaltisti rifiutarono dunque questa impostazione: secondo loro, infatti,
l’esperienza che abbiamo degli oggetti è quella degli insiemi di elementi che
si presentano alla nostra percezione immediata già come forme, cioè come
strutture ordinate. La conoscenza avviene attraverso un insight (letteralmente
una “intuizione”, a significare che si tratta di un atto immediato, non analitico
ma sintetico). Il campo di studi privilegiato di questa scuola è, come abbiamo
detto, la percezione e l’idea fondamentale è che “il tutto sia di più della somma
delle singole parti”6.
Questo dipende dalle leggi con cui la nostra mente organizza spontaneamente
il materiale percettivo, mediante associazioni o raggruppamenti secondo
determinati criteri7.
La Gestalt contribuì a sgombrare il campo di ricerca e a distinguere la psicologia
scientifica da un lato e la metafisica, lo spiritualismo e la magia dall’altro.
In altri ambiti della psicologia, tra gli studiosi che aprirono nuovi sviluppi si può
citare Kurt Lewin, che applicò prospettive e metodi della Gestalt alla psicologia
sociale e allo studio della personalità, con la sua teoria del campo, che studia
il comportamento umano come una funzione dell’individuo e del contesto in
cui si trova.
5 L’ambito filosofico nel quale nacque la Psicologia della Gestalt è la Fenomenologia, la cui visione psicologica si esprime nella psicologia dell’atto, approfondita soprattutto da Franz Brentano (1838-1917). I fenomenologi, e con loro i gestaltisti, sottolineano l’intenzionalità dei fenomeni psichici (questo è fondamentalmente il senso di “atto” per Brentano).
6 Una singola parte ha caratteristiche differenti se percepita singolarmente o se inserita all’interno di un contesto. Ad esempio, nel caso di percezioni uditive, le voci dei singoli strumenti di un’orchestra ascoltate singolarmente producono un effetto ben diverso rispetto all’ascolto della musica eseguita dall’orchestra intera.
7 Nella concezione che i processi mentali organizzino l’oggetto della conoscenza già a livello percettivo (prima di qualsiasi mediazione teorica) è evidente l’influenza della filosofia di Franz Brentano, e prima di lui, di Immanuel Kant (1724-1804).
36
L’approccio psicologico-sociale - Kurt LewinQuesto indirizzo psicologico si occupa dello studio dei gruppi, della loro struttura
e delle leggi che determinano il loro funzionamento. Esso studia le diverse
specie di gruppo: il gruppo primario, caratterizzato da pochi elementi che
comunicano tra loro faccia a faccia, come il gruppo familiare o il piccolo gruppo
che si costituisce a scopo di studio; il gruppo secondario, più numeroso, nel
quale le comunicazioni avvengono secondo un ordine gerarchico ed escludono
in genere il faccia a faccia, come il gruppo di operai di una fabbrica oppure gli
abitanti di un paese o di una città, i membri di una associazione a carattere
nazionale, ecc.
La psicologia sociale studia le modalità attraverso le quali i gruppi influiscono
sulle singole persone, modalità quali l’imitazione, la suggestione, il conformismo,
ecc. Essa rivolge il proprio interesse anche alle motivazioni per cui il gruppo è
costituito, al modo con cui si organizza, al ruolo e alle caratteristiche del capo,
alle comunicazioni che avvengono al suo interno, alle leggi che determinano il
suo funzionamento.
Come abbiamo già accennato, Kurt Lewin (1890-1947) è uno dei più
importanti rappresentanti della psicologia Gestaltista, che tali teorie applicò allo
studio dei gruppi. Egli, nello studio delle dinamiche di gruppo, non si limitò alla
semplice osservazione, ma introdusse una metodologia di tipo sperimentale
che permetteva un esame sistematico delle variabili in gioco.
Si riuniva, per esempio, un certo numero di persone intorno ad uno scopo
comune, le si organizzava in un certo modo e si osservava l’evoluzione del
gruppo. Partendo dall’ipotesi che all’interno di questo gruppo è più facile
che si verifichino mutamenti di atteggiamenti, di opinioni e azioni, rispetto alle
situazioni individuali, questo tipo di ricerche indaga sul rapporto tra gruppo e
individuo. Ricordiamo, a questo proposito, una famosa ricerca condotta da
Lewin durante la Seconda Guerra Mondiale. L’obiettivo era quello di cambiare,
attraverso fattori di gruppo, alcune abitudini alimentari. Ad alcune neomadri
ospiti di una clinica ostetrica fu insegnato il valore nutritivo per i neonati del
succo d’arancia e dell’olio di fegato di merluzzo.
Al primo gruppo di soggetti le istruzioni vennero date singolarmente, ad ogni
madre, cioè, veniva detto individualmente perché era bene dare ai bambini quei
prodotti alimentari, al secondo gruppo invece le indicazioni vennero date nel
corso di una discussione, in cui le madri riunite in gruppi di sei ascoltavano e
dicevano cosa avevano intenzione di fare. I risultati dimostrarono la superiorità
dei metodi di discussione di gruppo: infatti, dopo due settimane, il succo
2.2.2
37
d’arancia e l’olio di fegato di merluzzo furono dati ai bambini da quasi tutte le
madri del gruppo di discussione, mentre solo dalla metà del gruppo di madri
che erano state consigliate singolarmente.
Oggi, quasi tutti gli psicologi sociali concordano nel sottolineare l’efficacia dei
piccoli gruppi, all’interno dei quali i diversi componenti hanno la possibilità di
confrontarsi, di esporre il proprio punto di vista e di chiarire i propri dubbi.
Ricordiamo a questo proposito che, soprattutto per quanto riguarda gli
operatori sociali, i gruppi di formazione si sono rivelati come uno dei metodi
più produttivi per affinare le capacità relazionali. I gruppi di formazione sono
in genere costituiti da una decina di persone che si riuniscono intorno ad uno
scopo comune, di solito inerente alla loro attività lavorativa. I motivi per cui
un gruppo di lavoro si costituisce sono vari: ci può essere, per esempio, il
desiderio di discutere insieme alcune difficoltà di rapporti con l’utenza, con gli
altri operatori, con il personale amministrativo, e così via.
Altre volte, invece, le persone sono spinte da un’esigenza di apprendimento:
discutere insieme per confrontare e migliorare le proprie competenze, per
imparare tecniche nuove. Lo studio delle dinamiche interne al gruppo ha avuto
ed ha molte applicazioni nel campo della psicologia medica, sia per quanto
riguarda gli aspetti sociali delle malattie, sia per quanto riguarda l’organizzazione
degli ospedali, sia per quanto riguarda la psicoterapia di gruppo.
Il ComportamentismoNell’ambito della cultura americana di inizio Novecento, e precisamente da
alcuni sviluppi del Funzionalismo, prese le mosse una corrente psicologica
che fu la prima scuola di rilievo completamente originata negli Stati Uniti, e non
importata dal pensiero europeo: il Comportamentismo.
Questa scuola restò a lungo un prodotto culturale nordamericano finché, dopo
gli anni Cinquanta, riuscì a trovare spazio e diffusione anche al di fuori degli
Stati Uniti, soprattutto in Europa.
Il Comportamentismo nacque ufficialmente nel 1913 con un “manifesto” dal
titolo Psychology as the behaviorist views it (La psicologia come la vede il
comportamentista).
Autore del manifesto e fondatore riconosciuto della scuola fu John B. Watson
(1878-1958), nella cui opera si riconosce anche l’influenza di Pavlov, autore già
citato nei primi paragrafi.
2.2.3
38
I comportamentisti decisero di avvalersi della sperimentazione sugli animali,
riprendendo uno dei concetti affermati con forza dal Funzionalismo: la
sostanziale continuità tra l’animale e l’uomo.
Una delle prime riflessioni del Comportamentismo sulla possibilità di estendere
all’uomo una legge verificata nel comportamento animale fu che quando
un comportamento può essere spiegato con un meccanismo semplice, già
presente negli animali, non c’è bisogno di presupporre la necessità di una
funzione psichica superiore. Da quest’idea è scaturito il principio che non occorre
postulare costrutti teorici per spiegare comportamenti sperimentalmente
osservabili.
Anche la parola stessa “Comportamentismo” (Behaviorism) indica che
tale scuola di pensiero si concentra solo sugli aspetti visibili, e dunque
scientificamente quantificabili, del pensiero umano, ovvero sul comportamento.
Naturalmente, con questi presupposti, il metodo introspettivo perde qualsiasi
valore e si afferma il primato del metodo sperimentale (cioè di osservazioni
oggettive, in situazioni controllate e ripetibili) come unico strumento di indagine
psicologica.
Non solo, ma alla psicologia si attribuisce lo scopo di affiancare alla conoscenza
la previsione ed il controllo del comportamento.
Si tratta evidentemente di una vera e propria rivoluzione di pensiero, con una
prospettiva anche di controllo e trasformazione sociale.
Sintetizzando, diciamo che, per questa Scuola, l’obiettivo primario fu quello
della misurazione dei comportamenti.
In altri termini, i comportamentisti non sono mai stati interessati a conoscere
ciò che avviene nel cervello, ma solo lo stimolo che vi entra e la risposta che ne
esce. Il paradigma utilizzato era:
S n R
dove S = stimolo, n = cervello, R = risposta.
Il cervello veniva chiamato “scatola nera” (black box), e tutto ciò che avviene
al suo interno non era oggetto di interesse. Ciò che importava era misurare
esattamente S ed R, cioè uno stimolo ed una risposta comportamentale.
Secondo Watson, questo schema è applicabile non solo a situazioni
39
semplici, come quella in cui un ratto apprende a raggiungere il cibo, ma
anche a comportamenti umani complessi, comprendenti apprendimenti sia
strettamente cognitivi sia emozionali.
Per Watson, infatti, le emozioni (tra cui quelle elementari: paura, rabbia,
amore) sono comportamenti appresi e come tali possono essere sottoposte a
condizionamento8.
La portata educativa di un simile punto di vista fu enorme. Infatti, la psicologia
comportamentista riscosse subito notevole successo anche in opere
divulgative rivolte ai non esperti, agli insegnanti e alle famiglie, come testimonia
la diffusione, a livello popolare, di manuali per l’educazione dei figli.
Gli psicologi iniziarono a svolgere la loro attività al di fuori dell’università, in
settori quali la pubblicità e l’organizzazione del lavoro.
Alla vigilia dell’intervento degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale, inoltre,
metodi di misura e test attitudinali furono applicati su vasta scala: un grande
lavoro, mai affidato prima d’allora agli psicologi, in collaborazione con l’esercito
per la selezione e l’assegnazione dei militari ai vari servizi.
La scuola comportamentista conobbe quindi un rapido sviluppo anche grazie
alla grande quantità di fondi che in America vennero stanziati per la psicologia,
a differenza di quanto avveniva e avviene in Europa.
Il CognitivismoIl Cognitivismo, il cui manifesto, pubblicato nel 1967, è considerato il
lavoro Cognitive Psychology del tedesco-americano Ulrich Neisser
(1928), si preoccupò di approfondire il funzionamento della mente.
Il Cognitivismo nasce, infatti, dall’interesse per ciò che avviene tra stimolo
(S) e risposta (R), per ciò che accade nel cervello, nella “scatola nera” dei
comportamentisti che i cognitivisti cominciarono a riempire. Vennero così
elaborati i primi modelli logici del funzionamento mentale, che hanno il compito
di spiegare qual è il percorso che l’informazione compie dopo essere entrata
nel cervello e prima di uscirne. Questi modelli si ispirano solo vagamente al
8 Un’idea di fondo dei comportamentisti fu quella di ritenere che i bambini, alla nascita, potessero essere considerati una “tabula rasa”, privi cioè di qualsiasi bagaglio ereditario, come ad esempio componenti istintuali, il temperamento, ecc. Oggi è unanimamente riconosciuto che questo bagaglio ereditario esiste e che i bambini alla nascita non sono affatto tutti uguali e che la personalità viene influenzata e plasmata dalle esperienze, intese in termini di apprendimenti attraverso i quali l’uomo acquisisce un repertorio di comportamenti motori, verbali e sociali che vanno a costituire la personalità.
2.2.4
40
funzionamento del sistema nervoso centrale (SNC), ma, essendo modelli logici,
non ritengono necessario trovare conferma della propria validità attraverso un
confronto con gli studi neurofisiologici. L’uomo è concepito come un “elaboratore
di informazioni” in analogia al funzionamento dei computer, che negli anni di
sviluppo del Cognitivismo incominciarono a trovare ampie applicazioni9.
Un’importante caratteristica del Cognitivismo fu l’assenza di tentativi di
formulare una teoria generale che spiegasse tutto il funzionamento della mente
in interazione con l’ambiente.
Questa parcellizzazione dei fenomeni da studiare è stata spesso rimproverata
al Cognitivismo, perfino da alcuni dei suoi più significativi esponenti, sebbene
essa sembri strettamente legata ad esigenze metodologiche10. I cognitivisti,
elaborando i loro modelli puramente logico-astratti del funzionamento mentale,
reintroducono implicitamente una visione dualistica del rapporto mente-corpo,
all’interno della quale si pretende di studiare la mente come se fosse qualcosa
di astratto, disinteressandosi completamente dell’anatomia e della fisiologia
del sistema nervoso.
9 Oggetto di studio privilegiato dei cognitivisti furono i processi cognitivi (come attenzione, memoria, pensiero, ragionamento e apprendimento), che sostanzialmente si prestavano meglio alla simulazione al computer. Tuttavia l’approccio cognitivista è stato in seguito applicato anche allo studio delle emozioni e della personalità, nonché ad alcuni aspetti della vita affettiva.
10 Infatti, il processo stesso di ricerca sperimentale è rivoluzionato nella sua procedura. Se lo scopo è capire che cosa succede nella famosa “scatola nera”, l’oggetto di indagine è un comportamento (un processo mentale) non osservabile. Possiamo però avanzare delle ipotesi sulle caratteristiche di questo comportamento non osservabile ricavando delle inferenze dalle sue conseguenze osservabili. Si parte, cioè, da un’ipotesi che descrive il funzionamento di un processo mentale come un modello che abbia conseguenze osservabili (se “p”, allora “q”), e la si verifica confrontando le conseguenze del modello con i dati empirici della realtà (che in quest’ottica costituiscono l’ultima fase della ricerca, non più la prima).
41
Considerazioni conclusive
Gli orientamenti teorici descritti in questo capitolo sono molti e molto differenti
tra loro. Risulta difficile sintetizzare in poche righe i contenuti di queste scuole
di pensiero e risulta altresì complicato orientarsi tra tante proposte teoriche
apparentemente equivalenti.
Attualmente, però, solo alcuni di questi modelli sono accreditati scientificamente
e trovano larga diffusione nei contesti di ricerca, clinici e terapeutici. Una
disamina della letteratura internazionale, infatti, rivela chiaramente come, allo
stato attuale, i modelli teorici che trovano più ampia applicazione sono: quello
psicodinamico (derivato dalla Psicoanalisi) e quello cognitivo-comportamentale
(che somma i contributi del Comportamentismo e del Cognitivismo).
42
Questionario di autocontrollo
1) In cosa consiste la grande novità della Scuola psicofisica?
2) Qual è stato il merito principale della Scuola reflessologica?
3) Che cosa studiò in particolare la Scuola storico-culturale?
4) In cosa, secondo Wundt, la psicologia si differenzia dalle altre scienze?
5) Di che cosa si interessarono lo Strutturalismo e il Funzionalismo?
6) Qual è l’idea fondamentale della psicologia della Gestalt?
7) Chi, e con quali risultati, applicò la psicologia della Gestalt allo studio dei
gruppi?
8) Qual è stato il limite della Scuola comportamentista?
9) Quali sono i contributi apportati dalla teoria cognitivista?
43
Psicologia dello sviluppo
Introduzione
Nelle pagine precedenti si è presentata una panoramica delle differenti correnti
psicologiche che si sono succedute negli anni.
Tuttavia, particolare attenzione meritano tre autori che si collocano nell’ambito
della psicologia dello sviluppo e che hanno modificato in modo fondamentale
la psicologia moderna: Jean Piaget, Sigmund Freud ed Erik Erikson.
Piaget approfondisce principalmente lo sviluppo cognitivo, Freud lo sviluppo
psico-sessuale ed Erikson lo sviluppo psico-sociale.
È interessante vedere come i tre autori, pur analizzando aspetti differenti,
identifichino in età molto simili i momenti di transizione da una fase all’altra.
Questi momenti di transizione, inoltre, corrispondono in modo abbastanza
preciso alle fasi di transizione scolastica, ovvero l’entrata nella scuola
dell’infanzia, nella scuola primaria e nella scuola secondaria, a riprova che,
effettivamente, tali momenti segnano dei cambiamenti sostanziali nel modo di
ragionare e comportarsi del bambino.
Capitolo
3.1
45
Capitolo
3.2 Jean Piaget e la Scuola svizzera
Un importante precursore del Cognitivismo fu Jean Piaget (1896-1980) con la
sua Scuola di Ginevra.
Elaborata una propria originalissima metodologia di ricerca, Piaget dimostrò
non solo la differenza qualitativa fra il pensiero adulto ed il pensiero infantile, ma
anche l’esistenza di fasi differenziate dello sviluppo cognitivo.
Razionalista convinto, Piaget lottò tutta la vita contro l’empirismo filosofico
e l’associazionismo psicologico (contrapponendosi pertanto anche al
Comportamentismo) sulla base dell’assunto che l’attività cognitiva costituisce
una struttura estremamente complessa, irriducibile alle leggi della natura fisica
e biologica di tipo elementare. A lui si deve la prima grande teoria sistematica
dello sviluppo infantile, ancora molto vitale e largamente accettata.
Piaget, nel corso della sua lunga carriera, produsse un’enorme quantità di
lavoro (pubblicazioni e libri sulla psicologia dell’età evolutiva1), elaborando una
teoria a stadi (tappe) dello sviluppo del pensiero, ma il suo contributo iniziò a
trovare diffusione solo alla fine degli anni Sessanta.
Secondo Piaget, l’apprendimento avviene attraverso due meccanismi:
l’assimilazione e l’accomodamento.
L’assimilazione consiste nell’incorporazione di un evento o di un oggetto
nuovo in uno schema comportamentale o cognitivo già acquisito.
In pratica, il bambino utilizza un oggetto nuovo per effettuare un’attività che fa
già parte del suo repertorio motorio o decodifica un evento in base a elementi
che gli sono già noti (l’esempio è il caso di un bambino di pochi mesi che
afferra un oggetto nuovo e lo porta alla bocca, l’afferrare e il portare alla bocca
sono movimenti già acquisiti che vengono però applicati ad un nuovo oggetto).
L’accomodamento consiste nella modifica della struttura cognitiva o dello
schema comportamentale per accogliere nuovi oggetti o eventi che fino a quel
1 Fra le sue opere ricordiamo: Introduzione all’epistemologia sistematica (3 voll., 1950), Logica e conoscenza scientifica (1967), Biologia e conoscenza (1967), Lo strutturalismo (1968), Saggezza e illusioni della filosofia (1968), Logica e psicologia (1968), Epistemologia delle scienze dell’uomo (in collaborazione con vari autori, 1972).
46
momento erano ignoti (nel caso del bambino precedente, se l’oggetto è difficile
da afferrare dovrà per esempio modificare la modalità di presa)2.
La dinamica assimilazione-accomondamento come base di ogni apprendimento
è caratteristica del bambino, fin dalla nascita, ma si manifesta anche nell’adulto
durante tutta la vita. Si pensi ad un adulto che impara a guidare l’automobile
dopo che per anni ha utilizzato solamente la bicicletta. Per curvare, inizialmente
utilizzerà il medesimo schema che applicava alla bicicletta, ovvero “freno-
rallento-curvo”, successivamente, però, adatterà il proprio schema mentale di
“azione di curvare” alle possibilità del nuovo mezzo di trasporto modificando
così il precedente schema che ora diverrà “scalo la marcia, rallento, curvo”.
Lo sviluppo psicologico, secondo Piaget, procede passando attraverso alcuni
stadi fondamentali, che hanno una collocazione non rigida in diverse età
cronologiche. Il raggiungimento di ognuno di essi non avviene in un continuum,
ma è una specie di gradino, caratterizzato dall’acquisizione di una capacità
cognitiva che non era presente nello stadio precedente. Non è detto, però,
che queste acquisizioni siano definitive: incertezze, oscillazioni, regressioni
temporanee ad uno stadio inferiore sono sempre possibili.
Fase senso motoria (0-2 anni)
Come implica il nome, il bambino utilizza i sensi e le abilità motorie per
comprendere ciò che lo circonda, affidandosi inizialmente ai soli riflessi
e, più avanti, a combinazioni di capacità senso-motorie. I primi schemi di
comportamento sono innati (come succhiare o afferrare) e privi d’intenzionalità.
1. Reazioni circolari primarie (fini a se stesse): 1-4 mesi
Consistono in movimenti semplici che coordinano l’azione di vari apparati
(come il guardare, il prendere, il portare alla bocca e succhiare) e che
vengono ripetuti (questo è il senso di “circolari”) perchè ritenuti piacevoli.
Prima dei tre mesi, l’ambiente fisico, cioè gli oggetti esterni, non si sono
ancora “organizzati” costituendosi come qualcosa di diverso e separato
2 Uno dei criteri per distinguere un comportamento intelligente da uno che non lo è può essere dato dalla velocità con la quale si verifica l’adattamento a situazioni nuove: situazioni all’interno delle quali l’uso di procedimenti abituali risulta inadeguato o insufficiente (può risultare inadeguato quindi non intelligente, il semplice uso degli schemi comportamentali istintivi tipico degli animali). Piaget sostenne, in senso molto innovativo, l’esistenza di una continuità “genetica” tra comportamenti istintivi, abitudinari ed intelligenti e le forme via via più complesse di intelligenze: ad esempio, l’intelligenza verbale si fonda su un’intelligenza pratica/sensomotoria, che si fonda a sua volta sulle abitudini, che si fondano a loro volta sui riflessi, ecc. Vi è quindi continuità tra processi biologici ed intelligenza verbale.
47
dall’esperienza che il bambino ha di sé. L’esempio è la suzione del dito:
trovandola piacevole il bambino la ripete per lunghi periodi.
2. Reazioni circolari secondarie (finalizzate ad uno scopo): 4-12 mesi
Consistono nella ripetizione di movimenti che non sono più centrati su
loro stessi, ma su un risultato da ottenere dall’ambiente3. Il bambino, ad
esempio, cerca di afferrare e muovere gli oggetti e osserva i risultati delle
sue azioni, oppure lancia il ciuccio al suolo e osserva la mamma che si
precipita a raccoglierlo. In questo periodo, le azioni divengono sempre più
intenzionali. Secondo Piaget, ad una sequenza di azioni si può attribuire
l’intenzionalità quando, tra lo stimolo che provoca un comportamento
ed il risultato finale, vengono realizzate delle azioni intermedie; è come
se il bambino, anche durante lo svolgimento di queste ultime, fosse in
grado di tenere in mente il suo obiettivo.
3. Reazioni circolari terziarie (sperimentazione): 12- 18 mesi
In questo periodo, vengono utilizzati non solo schemi già noti, e messi
in atto le prime volte per caso, ma anche schemi nuovi, creati per
l’occasione. Il bambino assomiglia ad uno sperimentatore: non attende
solo risultati casuali, ma prova e riprova schemi di comportamento che
gli facciano raggiungere il suo obiettivo, cerca, cioè, nuove relazioni tra
gli oggetti. Diventa così in grado di usare chiaramente un mezzo per
ottenere un fine, per esempio, un bastone per raggiungere un oggetto
lontano. Tale processo si realizza in modo subitaneo ed è un atto
d’intelligenza.
4. Intelligenza rappresentativa: 18-24 mesi
Il livello di età dei 18 mesi è cruciale per il passaggio dall’intelligenza
percettivo-motoria (con cui il bambino può risolvere un problema solo se
gli elementi della situazione cadono tutti sotto la sua percezione) e quella
“rappresentativa”, che permette di considerare mentalmente anche
3 Il bambino, per esempio, potrebbe scoprire che con un urto del braccio può far ondeggiare un oggetto sospeso e, in seguito alla ripetizione di quel gesto, imparare che può regolare l’oscillazione dell’oggetto con movimenti intenzionali del suo braccio.
48
elementi non presenti percettivamente (per esempio oggetti non visibili,
ma che erano in quel luogo un giorno prima, oppure oggetti che sono
nella stanza accanto)4. Se la mamma, ad esempio, mostra la pallina al
bambino e poi la nasconde dietro la schiena, il bambino si sporgerà oltre
le sue spalle per cercarla. Dopo i 18 mesi, quindi, il bambino sviluppa
la capacità d’immaginare gli effetti delle azioni che sta eseguendo,
di eseguire e descrivere azioni differite o oggetti non presenti nel suo
campo percettivo, di eseguire sequenze di azioni come per esempio
appoggiare un oggetto per aprire la porta; cominciano inoltre i primi
giochi simbolici, il “fare finta di ...”.
Le varie tipologie d’intelligenza sopra descritte sono definite, come abbiamo già
accennato, sensomotorie, sono tipiche dei primi due anni di vita del bambino
e, d’altra parte, costituiscono il limite delle forme d’intelligenza raggiungibili
dagli animali superiori nella scala evolutiva. Si tratta di forme d’intelligenza
limitate, perché presuppongono la presenza (la percezione) di tutti gli oggetti
che si devono utilizzare. Inoltre, l’uso di mezzi e/o strumenti per raggiungere un
obiettivo è possibile solo se mezzo e obiettivo da raggiungere sono visibili: ciò
si riflette nella possibilità di fare solo sequenze di azioni molto brevi5.
Fase pre-operatoria/intuitiva (2-5 anni)
In questa fase l’atteggiamento del bambino è ancora molto egocentrico dato
che vede la realtà solo dal proprio punto di vista. I racconti del bambino sono
difficilmente comprensibili per l’adulto, poichè il piccolo narratore tralascerà
molti elementi essenziali, trovando inconcepibile che ciò che è evidente per lui
non lo sia anche per altri. Il bambino in questo periodo è in grado di fingere e
quindi apprende ad usare i simboli, ovvero un oggetto che ne rappresenta un
altro.
La costruzione di legno diviene una macchinina e la scatola delle scarpe, il
letto delle bambole. Il bambino non è però ancora in grado di compiere le
4 Secondo Piaget, la stabilizzazione della capacità rappresentativa è favorita dal ripetersi di alcune attività (che senza intelligenza rappresentativa non sarebbero possibili): l’imitazione differita (cioè il tentativo del bambino di rifare, in assenza del modello, azioni che ha visto compiere da altri); il gioco simbolico (cioè l’utilizzazione di oggetti presenti in modo da evocarne altri assenti, per esempio l’uso di elementi di varia forma nel “ruolo” di persone, cose e animali); infine, lo sviluppo del linguaggio verbale.
5 Per esempio, una scimmia in una stanza vuole raggiungere una banana appesa molto in alto; prima prova a saltare, ma non ci arriva, poi vede in un angolo una cassa, vuole spostarla per poterci salire sopra e raggiungere la banana. La cassa però è piena di pietre e per essere spostata deve essere svuotata. A questo punto la scimmia inizia a svuotarla dalle pietre, ma, così facendo, poco alla volta, si dimentica del perché lo fa, dell’obiettivo del raggiungimento della banana.
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operazioni logiche tipiche della fase successiva.
Un esempio. Si mostrino al bambino di quattro anni due bottiglie identiche
riempite con la stessa quantità di liquido e, successivamente, davanti ai suoi
occhi, si travasi il liquido di una delle due in una ciotola bassa e larga. Il bambino
sarà convinto che la quantità di liquido contenuto nella bottiglia sia maggiore di
quella contenuta nella ciotola e a nulla varranno dimostrazioni e travasi.
Fase delle operazioni concrete (6-11 anni)
Il termine “operazioni” si riferisce a operazioni logiche o a strategie utilizzate nella
soluzione di problemi. Intorno ai 6/7 anni, il bambino acquisisce la capacità di
comprendere la conservazione delle quantità numeriche, delle lunghezze e dei
volumi liquidi e, successivamente, la capacità di conservare i materiali.
Prendendo una palla di creta e manipolandola per trasformarla in tante palline,
il bambino è conscio del fatto che riunendo le palline la quantità sarà invariata.
Questa capacità prende il nome di reversibilità, ed esprime la consapevolezza
che ad un’azione può corrisponderne una uguale e contraria. Il bambino di
questa età non è in grado di formulare pensieri astratti, come quello ipotetico.
Ad esempio, se un adulto gli dice: “Non prendere in giro Luca perché è basso,
come ti sentiresti se lo facessero a te?” la sua risposta sarebbe “Io non sono
basso”. Calarsi in una realtà diversa dalla sua è un’operazione troppo astratta.
Fase delle operazioni formali o del pensiero astratto (dagli 11 anni)
Dagli 11 anni, e in modo più completo dai 12, il bambino diventa capace di
operazioni formali (cioè di ragionamento logico) su dati astratti e raggiunge
il livello del pensiero ipotetico-deduttivo, inteso come la capacità di fare
ragionamenti logicamente corretti senza la necessità di partire da un dato
dell’esperienza (per esempio, il concetto di infinito, di luogo geometrico, di
probabilità, di ipotesi, ecc.).
Tipico di questa fase è il gioco di strategia che implica di mettersi nei panni
dell’avversario, anticipare le sue mosse e reagire di conseguenza.
Oggi, scomparso Piaget, la sua opera è proseguita da B. Inhelder e da altri
studiosi presso il Centro internazionale ed interdisciplinare di epistemologia
genetica, fondato a Ginevra nel 1955 con l’aiuto della Fondazione Rockfeller.
Numerosi sono stati i contributi degli studiosi neopiagetiani. Essi hanno
50
evidenziato le seguenti condizioni e fattori che favoriscono l’accelerazione
dello sviluppo cognitivo:
› attività del soggetto: una situazione di apprendimento è tanto più
fruttuosa quanto più il soggetto è attivo;
› coordinazione degli schemi: ogni nuova struttura mentale si forma
coordinando vecchi schemi e strutture già presenti. Da ciò deriva
che, davanti a un bambino in difficoltà, non serve fornirgli soluzioni
preconfezionate; viceversa è molto utile aiutarlo/accompagnarlo verso la
formulazione di nuove soluzioni;
› tappe di evoluzione: lo sviluppo cognitivo si fonda su di un percorso che
prevede tappe evolutive in sequenza. Ogni proposta di apprendimento
deve tenere in debita considerazione lo stadio di sviluppo cognitivo
raggiunto in relazione all’età.
Pertanto è possibile accelerare i processi di sviluppo (concepito come la
successione di stadi caratterizzati da modificazioni qualitative e quantitative)
solamente rispettando le tappe obbligate, non pretendendo di saltarle e
favorendo l’attività del soggetto, non la sua passività.
La Psicoanalisi: Sigmund Freud
A parte i diversi metodi adottati, tutte le scuole psicologiche fin qui esaminate
avevano come oggetto di indagine l’esperienza cosciente. L’affermazione che la
coscienza non è l’unico contenitore dell’esperienza psichica rappresentò, nella
storia della psicologia, la più grande rivoluzione operata dalla Psicoanalisi. In
questa disciplina aspetti teorici e metodo terapeutico sono strettamente legati:
il metodo stesso di ricerca è spesso coincidente con il metodo terapeutico.
Infatti, la ricostruzione delle primissime relazioni affettive del bambino avviene
attraverso il trattamento psicoanalitico dei pazienti.
Il metodo di indagine della psicologia andava quindi profondamente modificato
per adeguarlo al nuovo oggetto, cioè ai processi inconsci, che determinano
desideri, fantasie, pensieri e comportamenti umani, ma non si lasciano
cogliere dalle attività coscienti. Una piccola parte di questi contenuti inconsci
può essere portata a galla fino ad entrare nei fatti di coscienza attraverso
un’attività introspettiva (da parte del paziente) e interpretativa (da parte dello
psicoterapeuta) strettamente connesse.
Capitolo
3.3
51
L’espressione dei contenuti inconsci deve essere interpretata secondo una
logica diversa da quella della coscienza: e infatti oggetto dell’analisi non sono
solo i pensieri e i ragionamenti (ambito della coscienza), ma anche un certo
materiale (come le associazioni libere, i lapsus, i sogni) che si associa in base a
regole diverse, per cui spazio, tempo, causalità non sono gli stessi della logica
cosciente. In quest’ottica e con le tecniche messe a punto dalla Psicoanalisi, il
mondo degli istinti non viene considerato un substrato insensato e inconoscibile,
ma un mondo dotato di senso e in parte portabile alla coscienza.
L’indiscusso fondatore della Psicoanalisi, come dottrina scientifica e anche
come psicoterapia, fu Sigmund Freud (1856-1939). Dopo una formazione
medica nell’ambito della neurofisiologia viennese, Freud cominciò ad elaborare
l’idea di un’origine psichica e non fisica della malattia mentale e si accostò
agli studi di Jean-Martin Charcot (1825-1893) sull’applicazione dell’ipnosi
come cura per l’isteria. Il passo successivo fu l’utilizzazione dell’ipnosi per far
riemergere nel soggetto (attraverso una verbalizzazione, cioè una descrizione
spontanea fatta con le sue parole) ricordi di esperienze dolorose del passato
dimenticate, e la connessione di queste ad un trauma di cui l’isteria era solo
un sintomo.
Il portare alla coscienza i contenuti dimenticati (perché attivamente “rimossi”)
permetteva l’attenuazione del sintomo e talvolta la sua scomparsa. Questo
metodo, a cui Freud lavorò inizialmente con Josef Breuer (1842-1925) fu
detto “catartico” (in riferimento alla liberazione da un sovraccarico emozionale
doloroso). Ma Freud si distaccò da Breuer, approfondendo ulteriormente la
sua visione delle dinamiche psichiche sottostanti allo sviluppo della patologia e
mettendo in evidenza il conflitto tra la parte cosciente dell’esperienza adulta e i
contenuti rimossi delle esperienze infantili (che le difese psichiche del soggetto
relegavano nell’inconscio). In particolare, secondo Freud, tendenze, desideri,
pensieri legati alla sessualità infantile erano banditi dalla coscienza adulta,
nonostante svolgessero ancora un ruolo potente nel determinare tendenze,
desideri e pensieri dell’adulto stesso, e quindi, in definitiva, le sue scelte di
comportamento.
Il concetto di una sessualità infantile scandalizzò l’ambiente culturale e
scientifico a cui fu proposto, e questo fu certamente uno dei principali motivi
per cui inizialmente la Psicoanalisi fu rifiutata dagli accademici. Un altro
importante motivo di opposizione alla teoria di Freud fu l’affermazione che la
malattia mentale ha origine in un trauma psichico ed è curabile con metodi e
strumenti psicologici, ribaltando i punti di vista neurofisiologico e psichiatrico
dominanti. Ma la “cura delle parole”, come la definì un paziente di Freud, si
affermò comunque in una cerchia di studiosi che diventava sempre più ampia,
52
e nel 1910 fu fondata la Società Psicoanalitica Internazionale.
Dal filone principale della Psicoanalisi di Freud presero le mosse alcune scuole
psicoanalitiche che fecero capo a suoi allievi, e si differenziarono fino ad arrivare
alla rottura con il maestro: le più importanti furono quella dello svizzero Carl G.
Jung6 (1875-1961) e quella del’austriaco, poi emigrato negli Stati Uniti, Alfred
Adler (1870-1937).
Anche dopo Freud la Psicoanalisi è rimasta un filone vitale, in continua
evoluzione, di teorie e tecniche terapeutiche, pur con molte differenze fra le
varie posizioni7.
Conscio, Preconscio e Inconscio
Quello che noi conosciamo della nostra personalità (cioè delle motivazioni
e pulsioni che ci muovono), secondo Freud, è solo la punta di un iceberg:
la maggior parte delle forze che determinano i nostri atteggiamenti e
comportamenti agisce sotto il livello di coscienza.
Per questa importanza data ai contenuti inconsci della nostra mente, la teoria
psicoanalitica della personalità si differenzia profondamente dalle altre: la
differenza metodologica più evidente è che, per conoscere la personalità di un
individuo, non ci si potrà basare sulle sue autodescrizioni, come nella maggior
parte delle altre teorie successive, ma bisognerà ricorrere ad un metodo di
conoscenza totalmente diverso.
L’approccio metodologico freudiano è assolutamente “idiografico”, ovvero:
1. la conoscenza del singolo individuo è strettamente dipendente dalla sua
storia personale;
2. è realizzabile nella relazione terapeutica;
3. non è generalizzabile a categorie di individui.
6 Jung, fondatore della psicologia analitica, è autore di opere quali Studi di associazione diagnostica (1906), Trasformazioni e simboli della libido (1912), Tipi psicologici (1921), Psicologia e religione (1940), L’Io e l’inconscio (1945), Psicologia del transfert (1946), Risposta a Giobbe (1952). Ricordiamo brevemente che, secondo Jung, la mente è strutturata in una parte conscia (pensieri, emozioni e ricordi presenti alla coscienza), in un inconscio personale (contenuti rimossi della propria esperienza) e in un inconscio collettivo, e proprio in questo concetto consiste la maggiore innovazione rispetto al pensiero di Freud. Nell’inconscio collettivo sarebbero contenuti gli archetipi, cioè le rappresentazioni di contenuto emozionale e comportamentale insite nella nostra specie, che unificano l’esperienza umana, ma non sono parte di quella individuale. L’inconscio collettivo costituisce un patrimonio ereditario dell’umanità e del singolo individuo. Gli archetipi sono espressi, per esempio, dai miti classici e dalle fiabe o dalle creazioni artistiche e letterarie, cioè da quelle espressioni che tendono a ripresentarsi in tutte le culture, emergendo anche nei sogni e nelle fantasie degli individui.
7 Tra le scuole più strettamente ortodosse si possono ricordare quella della figlia Anna Freud (1895-1982), nonché quella dell’austriaca (poi trasferitasi a Londra) Melanie Klein (1882-1960), per quanto presenti sostanziali innovazioni, e quella dell’inglese Donald W. Winnicott (1896-1971); tra le scuole più divergenti dall’ortodossia freudiana si collocano quella dell’austriaco Wilhelm Reich (1897-1957) e quella del francese Jacques Lacan (1901-1981).
53
Secondo il modello “topografico” di Freud, la nostra mente funziona a tre
differenti livelli: il conscio, il preconscio e l’inconscio.
Il livello conscio (la punta dell’iceberg) comprende pensieri, ricordi, desideri,
atteggiamenti e sentimenti che abbiamo presenti alla coscienza senza difficoltà.
Il livello preconscio (il ghiaccio dell’iceberg a filo dell’acqua) agisce invece
con materiale non presente immediatamente alla coscienza, ma che
possiamo evocare, magari attraverso una catena associativa di pensieri, e
riportare alla memoria (per esempio un episodio dimenticato, ma che ci torna
spontaneamente alla mente).
Il livello inconscio (la parte sommersa dell’iceberg) riguarda invece processi,
contenuti o impulsi che agiscono al di sotto del livello di coscienza e di cui la
persona non è consapevole. In tale “luogo”, sottolinea Freud, non sono riposte
le informazioni poco importanti e che pertanto vengono dimenticate, bensì
tutti quei ricordi, pensieri e stati d’animo troppo dolorosi che la nostra mente
elimina dalla coscienza attraverso un meccanismo di difesa, non consapevole,
detto rimozione. I contenuti inconsci influenzano fortemente pensieri, azioni e
comportamenti della persona e possono dare origine a problemi o patologie
anche a distanza di anni.
Es, Io, Super-Io
Alla base del comportamento umano sono, secondo Freud, tre “istanze
psichiche”, cioè tre sistemi che funzionano autonomamente in relazione con
la realtà interna e con quella esterna.
Il più arcaico è l’Es, che alla nascita comprende tutta l’esperienza dell’individuo
ed è totalmente inconscio: nell’Es sono contenute le due principali pulsioni,
quella di vita e quella di morte, che motivano tutti i movimenti intrapsichici
(dentro la mente) e verso l’esterno. Con la parola “Es” Freud indica quindi
quella parte di noi che non è cosciente, ma nella quale vi è la sede degli istinti,
con tutta l’energia che essi contengono oltre al bagaglio di materiale che noi
chiamiamo “filogenetico”, in cui cioè è nascosta e registrata l’evoluzione della
specie umana. L’energia che sottosta agli istinti vitali è la “libido”, energia
sessuale in senso lato, che permette all’organismo di sopravvivere cercando
la soddisfazione dei suoi bisogni primari. L’Es è dominato dal “principio del
piacere” e cerca la gratificazione immediata, ma non è in contatto con la realtà
e non è capace di mettere in atto un piano per procurarsi questa gratificazione.
La funzione di realizzare i desideri dell’Es, tenendo conto però del “principio di
realtà”, cioè delle risorse e degli ostacoli presenti nell’ambiente fisico e sociale,
54
è svolta dall’Io, che si muove nel campo della coscienza. Con il termine “Io”
intendiamo quindi quella parte di noi che è quasi completamente cosciente,
che è collegata con la realtà e con il mondo esterno, con tutte le attività della
vita quotidiana, che è capace di essere logica, di ragionare secondo spazio e
tempo. All’Io noi riferiamo quella parte di noi che riusciamo a dire a noi stessi
e agli altri con le parole. Le funzioni cognitive dell’individuo si sviluppano in
questo processo di crescita, in cui l’Io cerca di mediare i desideri dell’Es e di
raggiungere obiettivi, risolvere problemi, valutare vantaggi e svantaggi delle
diverse situazioni. L’Io però non deve fare i conti solo con la realtà esterna,
ma anche con il Super-Io, che comprende le regole sociali interiorizzate
durante l’educazione attraverso l’autorità delle figure genitoriali, i doveri e le
proibizioni derivanti dal vivere insieme agli altri. Con il termine “Super-Io” Freud
intende riferirsi al codice morale che si forma molto precocemente in ogni
uomo e che è per tanti aspetti non conscio, responsabile di tanti sentimenti di
colpa che noi proviamo, anche se magari la situazione non lo richiederebbe. Si
tratta di un’istanza universale, presente in ogni uomo, spesso assai più severa
della stessa morale sociale e religiosa. Nella sua ricerca di dare gratificazione ai
bisogni dell’Es nel mondo reale, l’Io deve dunque mediare anche con il Super-
Io, cioè con la considerazione di ciò che è permesso e di ciò che è proibito.
Quando i conflitti tra i bisogni dell’Es e le esigenze autoritarie del Super-Io sono
troppo forti, e l’Io non riesce a fare loro fronte, è possibile che si sviluppi una
patologia. I meccanismi di difesa sono una specie di “aggiramento” dell’Es,
con cui l’Io qualche volta è capace di mediare i conflitti tra Es e Super-Io8.
I concetti ora espressi sono piuttosto difficili da cogliere e assai più complessi
di quanto non possa emergere dalla lettura di queste righe. Li abbiamo riportati
più per completezza culturale che non per l’uso che l’Operatore ne può fare.
Anzi, il loro uso disinvolto e superficiale può essere molto dannoso.
Le fasi dello sviluppo
La teoria che più di ogni altra ha approfondito gli aspetti affettivi dello sviluppo
è quella di Freud sullo sviluppo psicosessuale. Con parole semplici, e ancora
una volta senza pretendere di esprimere tutto quanto vuole significare, noi
8 Il più importante meccanismo di difesa è la rimozione, attraverso cui vengono allontanati dalla coscienza pensieri o sentimenti inaccettabili per la loro spiacevolezza o perché proibiti. Il materiale rimosso continua però ad influenzare pensieri e desideri, e quindi anche il comportamento, restando sotto il livello della coscienza. Il metodo di ricerca psicoanalitico ha la possibilità di accedere, in piccola parte, proprio a pensieri e desideri rimossi. Altri meccanismi sono lo spostamento, con cui un’emozione viene spostata da un soggetto verso cui ci proibiamo di esprimerla (per esempio, la rabbia verso una persona amata) ad un altro (per esempio un estraneo con cui ci arrabbiamo senza motivo); la proiezione, per cui attribuiamo ad un’altra persona un sentimento o un’intenzione che riteniamo intollerabile riconoscere in noi stessi; la regressione, con cui, per evitare responsabilità o conflitti del presente, ritorniamo ad atteggiamenti tipici di uno stadio di sviluppo precedente (è il caso di un bambino di sei anni che, non sapendo affrontare lo stress della nascita di un fratellino, regredisce allo stadio in cui bagnava il letto); infine la sublimazione, con cui impulsi e sentimenti vissuti come proibiti vengono incanalati in attività accettabili (per esempio la curiosità sessuale di un bambino, sublimata, potrà portarlo a diventare uno scienziato).
55
potremmo considerare le fasi dello sviluppo come una storia per capitoli in cui
si vede maturare la capacità dell’uomo di amare gli altri in modo da essere egli
stesso felice e contribuire alla felicità degli altri.
In psicoanalisi la spinta all’amore viene chiamata, come abbiamo già accennato
in precedenza, con una parola che è stata spesso fraintesa: libido. Con fasi
dello sviluppo si intende allora il modo con cui, in diversi tempi, la libido si
sposta da sé agli altri. È più completo, perciò, parlare di fasi dello sviluppo
libidico. Queste fasi sono le seguenti.
La fase orale (dal latino os, oris = bocca): è lo stadio più precoce, che caratterizza
all’incirca il primo anno e mezzo di vita, durante il quale il bambino trae il
massimo piacere dalla bocca nell’atto di succhiare e dalla pelle quando viene
a contatto con il corpo della madre. In questo periodo, dunque, l’allattamento,
il bagno, la rifasciatura, la bocca e la pelle danno un piacevole contatto con la
madre, con la quale si forma una sola unità.
Più tardi, dopo il sesto mese, il bambino renderà più complessa la ricerca del
contatto attraverso altre due modalità: il mordere e l’afferrare. In questa fase,
dunque, si passa da una iniziale fusione con la madre ad una separazione in
cui tuttavia il controllo cutaneo e le modalità di alimentazione rimangono molto
importanti. Sempre alla fase orale appartengono momenti fondamentali per la
crescita del bambino, quali lo svezzamento, la comparsa del gioco, lo stare
seduto ed il muovere i primi passi, il pronunciare le prime parole, la comparsa
della prima dentizione, il riuscire ad afferrare e manipolare gli oggetti, ecc. Se
nel periodo orale il bambino è sufficientemente accudito e gratificato, proprio in
questa fase si instaura un atteggiamento di fiducia verso l’ambiente.
La fase anale: il secondo stadio, quello anale, è collocato all’incirca tra un
anno e mezzo e 3 anni, ed è connotato dall’attenzione del bambino al suo
apparato escretorio e alle operazioni di evacuazione. Il piacere che prova deriva
dal trattenere o dall’espellere le feci, operazioni che, a causa della maturazione
neurologica, cominciano a diventare almeno in parte intenzionali e volontarie.
Proprio in relazione a questi comportamenti, possibili grazie alla capacità di
controllo degli sfinteri, in questa fase il bambino comincia a manifestare la sua
autonomia, ad essere in grado di opporsi alla volontà degli altri e a sviluppare
il controllo e l’autocontrollo anche in altre aree.
La fase fallica: il terzo stadio, dai 3 ai 5 anni circa, è quello fallico, in cui
avviene un investimento di attenzione e di piacere nella zona genitale.
Il comportamento in questa fase è caratterizzato da maggiore autonomia e
capacità di iniziativa, mentre comincia a precisarsi l’identità sessuale della
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persona: cruciale è lo sviluppo di un’attrazione per il genitore di sesso opposto
(complesso di Edipo) che, attraverso il conflitto con il genitore del proprio
sesso, dovrebbe condurre ad un’identificazione con lui o con lei. Se vissuto
male, questo periodo può portare a molte difficoltà nella vita adulta, quando il
bambino sarà coniuge e genitore e sentirà il peso di un problema non risolto
con i propri genitori, che potrebbe impedirgli di avere una relazione piena e
soddisfacente con il proprio partner. Tanti legami con i propri genitori, che
rimangono troppo stretti quando una persona è diventata adulta, tante difficoltà
di relazione con il proprio coniuge, trovano la loro radice in questo periodo: può
essersi svolto con difficoltà e senza che ci sia stato un suo vero superamento.
La fase di latenza: la fase seguente, detta “di latenza”, che va dai 6 agli 11 anni
circa, sembra essere invece contraddistinta dalla caduta dell’interesse sessuale
e da una maggiore serenità per quanto riguarda la vita affettiva; l’attenzione del
bambino pare indirizzata ad acquisizioni intellettuali e sociali. Questo periodo
coincide con la scolarizzazione, con lo stare nel gruppo imparando a rispettare
le sue regole, con molti altri appuntamenti anche della vita etica.
Successivamente il ragazzo entrerà nell’adolescenza ed infine riprenderà la
tempesta degli affetti, passata la quale sarà diventato adulto.
La Psicoanalisi è entrata profondamente nella cultura del Novecento, sia
come teoria generale della conoscenza e dello sviluppo mentale (applicabile
non solo all’esperienza psicologica dell’individuo, ma anche a fatti storici e ad
espressioni letterarie ed artistiche), sia come pratica psicoterapeutica sempre
più raffinata e differenziata.
Dal punto di vista della storia della psicologia, i cambiamenti più importanti
introdotti dalla Psicoanalisi sono tre nuove acquisizioni largamente condivise:
› innanzitutto la consapevolezza che i fatti della coscienza non
esauriscono l’esperienza psichica dell’individuo e che i metodi
tradizionali di ricerca possono dare accesso solo ad alcuni dei processi
mentali. L’apporto di teorizzazioni e tecniche basate sull’analisi di
esperienze cliniche, condotte con rigore metodologico, va pertanto
valorizzato, anche se metodi, strumenti e tecniche di addestramento
non sono quelli della ricerca scientifica di laboratorio. All’interno della
pluralità degli oggetti della psicologia, questo dualismo “esperienza
cosciente/non cosciente” impone infatti l’uso di metodi diversi di ricerca,
e non deve portare a respingere come irrazionali gli oggetti che non
sono direttamente presenti alla coscienza: la storia della Psicoanalisi può
57
essere letta anche come un tentativo scientifico di descrivere e rendere
comprensibile una parte dell’esperienza umana inconscia, ma non per
questo priva di senso;
› il riconoscimento dell’importanza (se non del primato) della vita
affettiva, soprattutto nei suoi stadi precoci, per lo sviluppo cognitivo,
sociale e della personalità dell’individuo. Da questo punto di vista,
nessuna funzione psicologica è indipendente dal retroterra di motivazioni,
desideri, pulsioni che muovono il comportamento individuale. In questo
senso l’infanzia e le esperienze buone e cattive dell’infanzia diventano
importantissime nel determinare la vita futura di ogni uomo. In particolare,
le vicissitudini affettive dei primi anni di vita possono massimamente
contribuire a far sviluppare una personalità equilibrata o disturbata9.
Facciamo attenzione, però, a non prendere questi concetti in senso
troppo rigidamente deterministico, cioè come se ad un’infanzia difficile,
con poche soddisfazioni affettive, dovesse corrispondere inevitabilmente
una vita adulta disturbata, piena di ansia o di comportamenti
insoddisfacenti. Anche se spesso si verifica proprio questo, non è detto
che debba essere sempre così. Quello che è sicuro è che una persona
non può mai prescindere da quanto è accaduto nei primi anni di vita,
anche se può mettere in atto dei meccanismi e dei comportamenti adatti
a ridurre gli effetti della sofferenza provata da bambino e costruirsi una
vita soddisfacente ed equilibrata. il periodo di vita che viene considerato
così importante per i suoi influssi sul futuro va in genere dagli zero ai sei
anni, ed in questo lasso di tempo si costruiscono le caratteristiche della
personalità di ciascuno;
› l’importanza delle relazioni interpersonali, nelle quali nessuno si può dire
estraneo all’altro. In ogni relazione fra le persone, infatti, ciascuna di esse
porta un contributo anche se non se ne accorge. Questo contributo
agisce sempre sull’altra persona. In ogni incontro le persone vengono
coinvolte al di là di quello che dicono, e anche se non dicono nulla.
Poniamo il caso che due persone si incontrino e che una di loro, che
chiameremo Mario, parli molto e dica cose molto importanti su di sé,
mentre l’altra, Guido, stia in silenzio, non si pronunci su niente di quello
che sente, non lasci intravedere nessuna emozione. Guido influirà
ugualmente su Mario, che dopo poco penserà: “Che cosa sente lui di
9 Una delle maggiori critiche rivolte alla teoria freudiana è quella di ritenere determinanti per la formazione della personalità solo i primissimi anni di vita, e di non valorizzare sufficientemente altri periodi (per esempio la fase di latenza, in cui, secondo alcuni cognitivisti, si sviluppano curiosità e abilità cognitive non necessariamente legate alla repressione della curiosità sessuale).
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quello che dico? Come mi sta giudicando?”. Dunque, Guido, stando
zitto, agisce su Mario molto più che non se rispondesse liberamente, al
di là delle sue intenzioni.
Erik Erikson
Erik Erikson (1902-1994), nato a Francoforte, viaggiò molto, emigrato nel 1933
a Vienna, conobbe Freud e divenne uno dei più noti psicoanalisti infantili. Il suo
merito è di aver approfondito il rapporto tra il soggetto e la realtà sociale in cui
vive, sottolineando come tale rapporto influisca sullo sviluppo della persona
dalla nascita fino all’età anziana. Secondo Erikson ogni fase è caratterizzata da
specifiche crisi psico-sociali, che consistono nella presenza di due dimensioni
opposte, una negativa e una positiva, che convivono per un certo periodo
ponendo il soggetto quasi di fronte ad un bivio. Solitamente, con il passare dei
mesi, prevale la dimensione positiva permettendo così uno sviluppo sereno e
regolare. Se questo non avviene, si manifestano delle difficoltà nello sviluppo
della persona.
1° STADIO - Fiducia opposta a sfiducia (0-12 mesi)
Il bambino, che teme l’abbandono ogni volta che la mamma si allontana,
supera il problema della sfiducia solo attraverso una buona relazione con la
mamma stessa, che permette l’instaurarsi di un legame di fiducia solido. Se la
relazione con la figura materna si presenta disturbata, il bambino svilupperà un
intenso senso di sfiducia nei confronti di se e degli altri che, gradualmente, si
espanderà a tutta la realtà che lo circonda.
2° STADIO - Autonomia opposta a vergogna o dubbio (1-3 anni)
In questo stadio il bambino inizia a camminare e ad esplorare in autonomia
l’ambiente circostante, ma è sempre intimorito dalla possibilità di non riuscire
o fallire. Se i genitori porranno eccessivi divieti alla ricerca di autonomia del
bambino egli perderà la sua naturale inclinazione all’autonomia, tipica di
questa fase e sentirà l’autonomia come un agente negativo, fonte di vergogna
e frustrazioni.
Capitolo
3.4
59
3° STADIO - Iniziativa opposta a senso di colpa (3-5/6 anni)
A questa età il bambino è sempre più autonomo, esplora lo spazio e desidera
“fare da solo” e provare nuove esperienze. Il bambino, inoltre, diventerà più
curioso, ponendo continue domande sul mondo circostante e sul proprio
corpo (anche in relazione alle funzioni sessuali). Se i genitori scoraggeranno tali
curiosità e ricerche di autonomia, indurranno nei bambini lo sviluppo di sensi di
colpa e paure immotivate.
4° STADIO - Industriosità opposta a senso di inferiorità (6-10 anni)
Questo è il periodo in cui i bambini iniziano la scuola, apprendono ogni giorno
nuove abilità e competenze, si danno da fare e desiderano riuscire bene ed
essere “capaci” di affrontare queste continue prove. Il timore di non essere
abbastanza abili o di non essere all’altezza dei compagni, tuttavia, è sempre in
agguato. Sarà compito di insegnanti e genitori dare gli strumenti e sostenere il
bambino affinché egli si senta effettivamente “capace”.
5° STADIO - Identità opposta a dispersione e confusione di ruoli (12-18
anni)
Il ragazzo in questi anni è impegnato a cercare di comprendere che “persona
vuole essere”, ovvero a costruire la propria identità personale. L’adolescenza
vede un continuo alternarsi di tentativi di affermare la propria identità e di
momenti di confusione e disorientamento.
Con il passare del tempo e con il sostegno di genitori e insegnanti tale fase si
supera, aprendo alla conquista dell’identità adulta. È importante che i genitori
affrontino con serenità questo periodo rimanendo un punto stabile di riferimento
permettendo però contemporaneamente il naturale allontanamento dei figli, e
garantendo loro una dose accettabile di autodeterminazione.
6° STADIO - Intimità opposta ad isolamento (18-30 anni)
Il giovane avverte alternativamente il desiderio di autonomia e di totale libertà
e il desiderio di una relazione intima appagante che può trasformarsi in una
relazione stabile e duratura, sia come unione tra sessi opposti (relazione
sentimentale), sia come non di coppia (amicizia). Se negli anni la persona
non sarà in grado di superare la propria individualità a favore di un progetto
comune, egli sarà destinato ad un triste futuro di solitudine.
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7° STADIO - Generatività opposta a stagnazione (30-65 anni)
L’uomo e la donna di questa fascia d’età sono combattuti tra il desiderio di
realizzare sé stessi in modo totale (carriera, denaro, fama) e il desiderio di
dare la vita a qualcuno (o a qualcosa) di esterno da se. Con generatività non
s’intende solo procreazione intesa in senso letterale, ma un concetto più ampio
che consiste nella possibilità di lasciare qualcosa alle generazioni successive.
Come nel caso dell’Insegnante, dello scienziato, dell’educatore, ecc. Chi non
avrà successo in questo, sperimenterà un senso di stagnazione, di immobilità
e soprattutto di inutilità riferita alla propria esistenza.
8° STADIO - L’integrità dell’IO opposta a disperazione (oltre i 65 anni)
La persona, che si avvicina al compimento della propria vita, si “guarda
indietro” e osserva il cammino percorso, con vittorie ed errori. Se egli sarà in
grado di osservare soddisfatto il proprio passato, cogliendo in tale percorso
l’espressione e l’evoluzione della propria identità, potrà affrontare con serenità
il futuro. Se, invece, voltandosi al passato, proverà solamente rimpianti e
fallimenti, la consapevolezza delle occasioni perse lo farà sprofondare in un
senso di disperazione e inadeguatezza.
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Considerazioni conclusive
La psicologia dello sviluppo approfondisce come si modifica la mente dei
bambini e degli uomini con il passare degli anni. Vengono considerati tre grandi
autori della psicologia: J. Piaget, S. Freud e E. Erikson.
Piaget indaga lo sviluppo cognitivo della persona, individuando diversi stadi
di maturazione, e approfondisce il concetto di apprendimento, che egli vede
come una combinazione di assimilazione e accomodamento.
Freud introduce il concetto di inconscio, suggerendo che gran parte di ciò
che accade nella mente dell’uomo e che influenza le sue azioni non sia noto al
soggetto stesso. L’autore approfondisce la fase dello sviluppo psico-sessuale
del bambino e del ragazzo.
Erikson, infine, si preoccupa dello sviluppo psico-relazionale della persona,
individuando per ogni fase due dimensioni opposte che convivono per un
certo periodo fino a vedere, nel caso di uno sviluppo corretto, il prevalere del
polo positivo.
È importante sottolineare come Erikson, a differenza degli altri due autori,
individui fasi differenti capaci di indagare lo sviluppo dell’uomo fino all’età
anziana.
62
Questionario di autocontrollo
1) Gli studi di Piaget si occupano solo dell’infanzia?
2) Che cos’è l’adattamento secondo Piaget?
3) Quali sono gli aspetti principali della teoria psicoanalitica?
4) Quali sono le fasi dello sviluppo secondo Freud?
5) Quale fascia di età è approfondita dagli studi di Erikson?
6) Quali sono le fasi identificate da Erikson?
63
I processi cognitivi - che comprendono la sensazione, la percezione, il pensiero,
l’apprendimento, la memoria, l’intelligenza e il linguaggio - sono la modalità con
cui cerchiamo di dare un significato al mondo che ci circonda. Indirettamente,
quindi, essi sono la base per il nostro orientamento nell’ambiente e i nostri
piani d’azione.
Sensazione e percezione sono il modo in cui il cervello elabora l’informazione
che, attraverso gli organi di senso, gli arriva dall’ambiente (lo stimolo può
essere il rumore prodotto dal passo di una persona o il profumo di una tazza
di caffè), oppure dall’organismo stesso (in questo caso lo stimolo può essere
il senso di formicolio ad una gamba su cui siamo stati seduti a lungo, oppure il
nostro batticuore mentre assistiamo al momento cruciale di una gara sportiva).
Il sistema nervoso gioca un ruolo molto importante nel permettere la vita
psichica nella sua completezza. Studiando il testo di Anatomia, è possibile
vedere quanto sia importante, delicato e complesso questo sistema. Esso è
implicato in tutti i processi psichici, sia che questi riguardino aspetti interni,
sia che si rivolgano alla vita di relazione. Ma qual è la via attraverso cui si
arriva al pensiero e quali strutture nervose vengono coinvolte per arrivare ad
esso? Senza addentrarci in particolari che esulano dai fini di questo testo,
possiamo dire che il pensiero è il risultato dello sviluppo sano del Sistema
Nervoso Centrale che inizia durante le prime settimane di gravidanza.
La sensazione
La sensazione è un fenomeno soggettivo che avviene ogni volta che uno
stimolo colpisce o arriva al recettore di un organo di senso (udito, vista, olfatto,
gusto, terminazioni tattili). I recettori sono minuscoli organi che si trovano
sparsi su tutta la superficie corporea. Quelli distribuiti sulla superficie esterna
del corpo trasmettono le sensazioni di freddo, di caldo, di pressione, di peso,
ecc. Esistono anche dei recettori situati sulle superfici interne del corpo, per
esempio quelli che danno un senso di sazietà dopo mangiato.
I sistemi sensoriali e gli organi recettori sono molteplici e a stimoli diversi
Le basi della conoscenza: i processi cognitivi
Capitolo
4.1
64
corrispondono canali sensoriali diversi. La relazione psicofisica tra stimolo
fisico e risposta sensoriale non è però sempre presente; infatti, per ogni canale
sensoriale, solo una certa gamma di possibili stimoli fisici è percepibile (per
esempio, le nostre orecchie, a differenza di quelle di alcuni animali, sono
sensibili solo a suoni di una determinata fascia di altezza): siamo quindi
attrezzati a ricevere soltanto una parte delle informazioni che provengono dalle
variazioni del mondo fisico1. Pur essendo il primo gradino della conoscenza,
la registrazione sensoriale non è ancora conoscenza. Tuttavia, la sensorialità
sollecita successivamente un’attività psichica: l’attività percettiva.
La percezione
La percezione è il primo sistema di elaborazione a cui sottoponiamo gli stimoli
sensoriali che riceviamo dall’ambiente e dal nostro corpo: il primo tentativo
di dare significato alle informazioni acquisite attraverso gli organi di senso.
Con la percezione tante sensazioni vengono unificate a formare un soggetto
identificato, ritrovabile e riconoscibile2. La percezione più studiata in psicologia
è senz’altro quella visiva, per molti motivi: la prevalenza dell’informazione visiva
nel contatto con l’ambiente, la complessità dell’elaborazione che il cervello
realizza sul materiale visivo e, non ultima, l’importanza per la sopravvivenza
della nostra specie di una buona esplorazione visiva per guidare le nostre
azioni nell’ambiente.
Non tutta la grande quantità di materiale che stimola gli organi di senso viene
percepita: su di essa noi operiamo una selezione, cosciente o meno, che ci
permette di lavorare solo su una parte dell’informazione.
La percezione è quindi un’attività mentale complessa che integra ed organizza
in un insieme significativo le molteplici stimolazioni che arrivano dagli organi di
senso. Nella percezione interviene qualcosa di più che non una registrazione
Capitolo
4.2
1 Si dice “soglia” la grandezza minima che uno stimolo deve raggiungere per essere percepito da un apparato sensoriale (umano, ma anche di altri animali). Nello studio della sensazione, si considerano due tipi di soglia: la soglia assoluta, che è appunto quella sotto la quale uno stimolo non può essere percepito, e la soglia differenziale, che è la differenza minima che due stimoli devono avere per essere percepiti come distinti. Per misurare la prima, si usa di solito il metodo degli aggiustamenti: nel caso della luce, si chiede al soggetto di regolare con un apparecchio l’intensità di un punto luminoso finché diventa a lui visibile o, viceversa, di abbassarne l’intensità fino a farlo scomparire. Misurare la soglia differenziale, invece, comporta il confronto tra coppie di stimoli luminosi (per restare nell’esempio) e la valutazione della loro uguaglianza o differenza.
2 Per esempio, se guardo su un tavolo una penna nera, la mia retina viene colpita da migliaia di singole informazioni circa la superficie della penna, il colore, la forma. Il mio occhio infatti, con movimento di scansione, la analizza nei minimi particolari, e successivamente tutte queste informazioni raccolte dalla retina vengono inviate attraverso le vie ottiche al cervello, ma sempre in modo separato l’una dall’altra. Ed è proprio qui, nel cervello, che l’oggetto penna, prima scomposto in migliaia di piccole parti, ritrova la sua unità, viene ricostruito, si crea l’immagine mentale dell’oggetto, ciò che gli psicologi della percezione chiamano l’“oggetto fenomenico”. Questa ricostruzione dell’oggetto fisico (penna) all’interno del cervello avviene non certo casualmente, ma secondo leggi della percezione che sono state tra l’altro molto studiate dagli psicologi padovani e triestini.
65
e trasmissione di stimoli dagli organi di senso al cervello. Attraverso la vista e
l’udito, sensi che maggiormente ci mettono in contatto con l’ambiente esterno,
vediamo ad esempio segni e figure e non punti di luce isolati, udiamo delle
parole o una musica e non toni puri isolati. L’individuo impara a conoscere il
mondo attraverso i dati che gli arrivano per mezzo degli organi di senso, tuttavia
ciò che lui percepisce dipende anche dalle esperienze passate, dai bisogni,
dai desideri, dallo stato affettivo con cui si pone nei confronti dell’ambiente.
Alla percezione sono anche legati degli affetti, gli organi possono quindi, in
determinate condizioni, influenzare l’attività percettiva.
Così, la penna che vedo sul tavolo potrà suscitarmi del piacere o essere
una cosa sgradevole a seconda, per esempio, che mi ricordi il regalo di
una persona cara oppure mi richiami un dovere sgradito. Anche il tempo,
lo spazio, l’ambiente sociale in cui viviamo sono oggetto della percezione.
L’attività percettiva, come ogni altro aspetto dell’attività psichica, ha accanto
ad una componente interrelazionale (la percezione avviene in relazione ad un
ambiente di oggetti, persone, cose da percepire) una componente evolutiva,
nel senso che si sviluppa e si fa più precisa e sofisticata con la maturazione e
l’accumularsi delle esperienze.
Quando il processo della percezione si altera notevolmente ci troviamo di solito
di fronte ad una patologia. Un fenomeno di cui tutti hanno sentito parlare è
rappresentato dalle allucinazioni, che sono delle percezioni che si provano
senza che ci sia l’oggetto fisico, reale che viene percepito, quindi in assenza di
uno stimolo esterno3.
La percezione è un fenomeno soggettivo individuale. Entro certi limiti essa varia
da persona a persona, anche a seconda della personalità di chi percepisce,
tuttavia per le cose dell’ambiente abituale la nostra percezione è molto simile
a quella delle altre persone e questo garantisce la possibilità di conoscenze
comuni e quindi oggettive. Conoscere un oggetto significa perciò percepire le
sue caratteristiche fisiche e la sua funzione. Conoscere una persona significa
percepire la sua personalità, che è un oggetto di conoscenza molto più
complesso.
Attraverso la percezione noi apprendiamo. Abbiamo detto che l’uomo conosce
l’ambiente e può interagire con esso attraverso i dati che gli arrivano mediante
3 Può accadere, ad esempio, nelle situazioni di etilismo avanzato, di vedere dappertutto mosche anche quando non ve n’è nessuna: questo è un indice di grave intossicazione del sistema nervoso. Inoltre le allucinazioni si possono avere anche in certe malattie mentali gravi ed allora indicano una situazione di angoscia molto forte ed una perdita del contatto con la realtà. Comunque possono intervenire allucinazioni in molti casi di malattie che provocano una degenerazione del sistema nervoso centrale. Con una frase molto sintetica, ma esatta, le allucinazioni vengono chiamate anche percezioni senza oggetto.
66
gli organi di senso, che lo mettono in contatto con l’esterno. È questo un
primo gradino del percorso conoscitivo: attraverso l’attività cognitiva noi ci
arricchiamo di dati informativi sull’ambiente che poi verranno utilizzati per
ulteriori apprendimenti. Per poter apprendere, è fondamentale riuscire a
prestare attenzione a determinati stimoli tralasciandone altri. Prima di parlare
del pensiero e dell’apprendimento, dunque, vediamo meglio cos’è l’attenzione.
L’attenzione
L’attenzione è il meccanismo di filtro che consente di selezionare dalla massa
di stimoli in arrivo quelli che possiamo elaborare. Il problema che gli psicologi
si sono posti è dove sia collocato questo filtro. È stato ipotizzato che si trovi “in
entrata” degli stimoli: in questo caso avrebbero accesso soltanto le informazioni
che il filtro lascia passare, e solo queste potrebbero, pertanto, essere trattenute
nella memoria. Un’altra ipotesi è che penetrino molte più informazioni di quante
ne possiamo elaborare, e che il filtro intervenga proprio al momento della loro
elaborazione, lasciandone pervenire alla coscienza solo alcune4.
L’attenzione agisce quindi in due modi: è sia un filtro che inibisce la molteplicità
di stimolazioni che arrivano ai nostri organi di senso dall’ambiente esterno, sia
un amplificatore rispetto a quegli stimoli che sono stati selezionati, filtrati e
sui quali vogliamo concentrare e mantenere per un tempo idoneo l’attenzione.
Ciò permette di “elaborare cognitivamente” la particolare configurazione
che vogliamo appunto conoscere, integrandola tra le cose già stabilmente
possedute dal punto di vista cognitivo.
L’attenzione può essere disturbata in modo più o meno grave e patologico;
quando ciò avviene nell’età evolutiva, allora vediamo che il bambino si distrae
facilmente, ha difficoltà a mantenere l’attenzione o a seguire compiti che
richiedono uno sforzo mentale protratto o a prestare ascolto a quanto gli
viene detto. Quando queste alterazioni si verificano in maniera significativa,
compromettono nel bambino in età scolare la possibilità che questi possa
apprendere in modo soddisfacente le abilità scolastiche di base e in seguito gli
apprendimenti scolastici più complessi.
Capitolo
4.3
4 Questo spiegherebbe perché, per esempio, quando in una stanza affollata ascoltiamo quello che ci dice il nostro interlocutore e non quello che ci dicono altre due persone a noi vicine, possiamo poi avere un vago ricordo anche di questa seconda conversazione. Il fenomeno per cui, se ci interessa ascoltare una voce in particolare, riusciamo ad escludere le altre, viene comunemente chiamato “effetto cocktail party”, L’esclusione però non è totale: se qualcuno, nella conversazione a cui non prestiamo orecchio, dice il nostro nome, è impossibile non dirigere là l’attenzione.
67
L’attenzione può risentire inoltre dell’affaticamento psicofisico della persona
adulta ed essere influenzata dal suo stato affettivo, come una depressione
o uno stato maniacale euforico: anche in questi casi abbiamo alterazioni
dell’attenzione nel senso della labilità o difficoltà a soffermarsi su un compito
in modo adeguato. L’attenzione non ha un effetto solo sulla percezione, ma
anche sulla memoria: infatti, in genere, ha maggiore probabilità di essere
trattenuto nella memoria a lungo termine il materiale stimolo a cui abbiano
prestato attenzione (anche se a volta possiamo ricordare qualcosa che
abbiamo elaborato inconsapevolmente).
Il pensiero
Chiamiamo pensiero qualsiasi nostra attività mentale che abbia contenuti
simbolici, che cioè si avvalga di rappresentazioni astratte e non sia per necessità
dipendente dai dati percettivi.
Noi pensiamo quando facciamo dei ragionamenti, cerchiamo di risolvere un
problema, riflettiamo su un avvenimento passato, decidiamo che cosa dire,
programmiamo una domenica pomeriggio, elaboriamo progetti, facciamo sogni
ad occhi aperti: insomma, mentre ci dedichiamo ad attività molto differenti.
L’uso del pensiero è essenziale anche nei processi cognitivi di apprendimento,
memoria, linguaggio, così come di percezione, per integrare una serie di
informazioni, non date immediatamente (come la costanza di forma o colore,
o la valutazione della profondità).
Una complicazione della definizione di “pensiero” è dovuta al fatto che molto
spesso esso si accompagna ad attività percettive o motorie senza però
essere necessario alla loro realizzazione: possiamo, per esempio, pensare
camminando, mangiando o ascoltando musica. Quello che comunque
accomuna le diverse attività di pensiero è appunto l’elaborazione (cioè la
creazione, la messa in relazione, il riconoscimento o la rappresentazione) delle
informazioni, traendole dall’esperienza percettiva attuale o dalla memoria.
Il confronto tra i dati di realtà e le rappresentazioni astratte presenti nella
memoria è una delle nostre esperienze quotidiane dell’uso del pensiero: quando
riconosciamo il volto di una persona, per esempio, confrontiamo l’immagine
che percepiamo in quel momento con quella contenuta nella nostra memoria
e, se decidiamo che esse sono abbastanza simili, scatta il riconoscimento
(tutto questo processo in genere dura qualche decimo di secondo). In tal caso
abbiamo operato su un contenuto percettivo (quindi in parte già elaborato
Capitolo
4.4
68
mentalmente) e uno mentale (l’immagine che conserviamo in memoria). In
altri casi, invece, operiamo su contenuti totalmente mentali e allora possiamo
anche pensare a occhi chiusi, anzi, isolarci dall’ambiente ci aiuta: per esempio,
prima di andare a una festa, ci chiediamo se vestirci da sera o meno;
oppure cerchiamo di ricordarci quali siano per Tommaso d’Aquino le prove
dell’esistenza di Dio. Infatti, anche quando i contenuti sono tutti nella nostra
mente, possiamo essere più o meno concreti (il vestito da sera) o astratti (la
filosofia tomista): sempre astratta è invece la rappresentazione che abbiamo
di questi contenuti, che è simbolica5.
L’apprendimento
L’apprendimento è la capacità degli esseri umani e animali di modificare il
proprio comportamento, solitamente per raggiungere uno scopo; è quindi
il processo cognitivo attraverso il quale noi elaboriamo diverse strategie di
comportamento per poter fronteggiare al meglio le situazioni che nella vita
continuamente si presentano. Tutte le specie hanno dei comportamenti
innati, che permettono la loro sopravvivenza più elementare, ma l’uomo e la
maggior parte degli animali hanno la possibilità di ampliare la gamma dei loro
comportamenti, accumulando esperienze e conoscenze sia proprie sia delle
generazioni passate.
I comportamenti umani che possono essere acquisiti o modificati con
l’apprendimento comprendono anche aspetti mentali, quali pensiero e
ragionamento. Il fatto che l’apprendimento è una capacità che abbiamo in
comune con gli animali ci permette di esaminare i suoi meccanismi nelle situazioni
più semplici. La situazione più tipica in cui è stato studiato l’apprendimento è il
condizionamento, cioè la formazione di abitudini, consistente nell’associazione
tra classi di stimoli e specifiche risposte. Su questo punto non c’è accordo tra
le diverse posizioni della psicologia attuale.
L’apprendimento è la caratteristica per eccellenza dell’uomo, che, a causa della
sua infanzia prolungata, ha bisogno di apprendere per sopravvivere, svilupparsi
e progredire. L’apprendimento avviene gradualmente e solitamente in presenza
di una figura adulta con l’aiuto della quale il bambino acquisisce le varie abilità
5 I contenuti simbolici del pensiero si possono chiamare concetti. Il concetto, in questo caso coincidente con la categoria, è un modo che la nostra mente ha adottato per dare ordine alle informazioni e per economizzare tempo ed energia. Infatti, se invece del nostro concetto, per esempio, di cavallo, avessimo in mente tutte le immagini dei cavalli visti nella nostra vita, dovremmo tenere occupata una grandissima quantità di memoria solo per loro. La funzione di categorizzazione e semplificazione del concetto ci permette di unificare una molteplicità di esperienze tutte leggermente diverse.
Capitolo
4.5
69
che gli occorrono per adattarsi all’ambiente e per vivere in modo autonomo.
L’uomo apprende abitudini e abilità sensomotorie complesse, prima fra tutte
il linguaggio; apprendere ed elaborare informazioni che gli arrivano attraverso
gli organi di senso con la mediazione sempre più importante del linguaggio
verbale.
Alcuni di questi apprendimenti avvengono in fasi molto precoci dello sviluppo,
ad esempio i primi apprendimenti sensomotori che avvengono a partire dei
riflessi e che poi si fanno sempre più complessi. Altri invece si realizzano “per
prove ed errori”, altri ancora li cogliamo in qualche occasione per intuizione
(o insight). L’intuizione è un modo di apprendere “con un colpo d’occhio”,
riuscendo ad avere molto rapidamente presenti tutti i dati percepiti di un
oggetto o di una situazione. Essa è dipendente dall’esperienza: il soggetto
deve avere una certa familiarità con il problema per poter avere l’intuizione di
come risolverlo.
I nostri apprendimenti vengono facilitati dalla motivazione, cioè dal desiderio
che sentiamo di raggiungere uno scopo, e sono rafforzati dal nostro successo.
Fondamentalmente l’apprendimento è un continuo adattamento del
soggetto sollecitato dall’ambiente. Tali adattamenti diventano poi un
patrimonio che viene mantenuto nel tempo attraverso la memoria e vengono
utilizzati per acquisire apprendimenti sempre più complessi. Sulle capacità
di apprendimento dell’uomo intervengono molti fattori: substrato biologico
(sistema nervoso), cultura, motivazione, ambiente socio-familiare, scuola
frequentata, ecc.
La memoria
La memoria è la capacità di conservare l’informazione nel tempo, funzione
indispensabile per l’apprendimento, che non potrebbe mai avere luogo se non
avessimo accesso alle nostre esperienze precedenti, codificate nella mente.
Persino la formulazione della più semplice abitudine è basata sulla ripetizione
di esperienze che lasciano nella memoria una traccia che viene attivata dalla
presentazione di uno stimolo o di un contesto, o anche spontaneamente.
A seconda che quanto immagazzinato nella memoria venga rievocato subito
dopo o a distanza, si parla di memoria a breve termine (MBT) o di memoria a
lungo termine (MLT). Nessun tipo di apprendimento sarebbe possibile se non si
consolidasse in un insieme di tracce mnestiche per conservare le informazioni
e le esperienze. Le attività umane sostenute dalla memoria sono moltissime e,
Capitolo
4.6
70
come molte altre capacità che riteniamo scontato possedere, si evidenziano
soprattutto quando esiste un deficit di memoria; in altre parole, ci accorgiamo
di avere una memoria quando questa non funziona bene.
Non solo quando rispondiamo alle domande del professore durante un esame,
quando riconosciamo una persona per la strada e la salutiamo per nome,
quando componiamo un numero di telefono senza andarlo a cercare nella
rubrica noi utilizziamo informazioni conservate in memoria; ma anche quando
leggiamo, riconoscendo le parole dalle loro caratteristiche visive e dal confronto
con quelle imparate in precedenza, o quando parliamo e - nel completare una
frase complessa - teniamo in mente le parole con cui l’abbiamo cominciata
alcuni secondi prima.
Ancora, usiamo la memoria quando ci organizziamo per assolvere un impegno
preso (per esempio, andare a trovare un amico a cui l’abbiamo promesso),
o quando guardiamo una partita di calcio alla televisione: nel primo caso, di
solito sappiamo bene quali azioni abbiamo già compiuto e quali ci restano da
compiere per realizzare il nostro piano; nel secondo teniamo in mente, almeno
a grandi linee, gli eventi principali accaduti nel primo tempo e prevediamo, sulla
base di questi, i possibili esiti nell’immediato futuro.
I piccoli deficit di memoria nella vita quotidiana sono più o meno frequenti e
variano secondo le caratteristiche individuali: a tutti è capitato di dimenticare di
fare una telefonata o gli auguri di compleanno a qualcuno, oppure il nome di
una persona da rintracciare. Molto spesso queste cadute sarebbero evitabili se
non ci fidassimo così tanto della nostra memoria e usassimo un aiuto esterno,
come un appunto su un’agenda o un calendario; difficilmente, comunque, le
conseguenze di tali piccole dimenticanze sono disastrose.
Anche sotto l’effetto di forti emozioni si può avere una perdita di memoria,
limitata al periodo corrispondente all’emozione provata, oppure si può non
ricordare una sola cosa, che pure si esperimenta continuamente, perché
legata ad un affetto spiacevole. Si parla allora di amnesia elettiva, mentre nel
caso precedente si parla di amnesia lacunare. Deficit di memoria più gravi,
come dimenticare sistematicamente gli eventi degli ultimi minuti o, viceversa,
ricordare solo quelli e dimenticare intere parti dell’esistenza passata, di solito
sono connessi a lesioni neurologiche o a malattie mentali, o almeno a stati di
coscienza alterati (dovuti, per esempio, ad assunzione di sostanze psicotrope
o a forme di intossicazione).
Un’importante funzione che la memoria adempie nella nostra vita è quella
di dare una continuità, nel tempo, a noi stessi grazie alla memoria di eventi,
emozioni, relazioni che hanno determinato la nostra identità personale. I
71
vuoti di memoria, o le amnesie più gravi, hanno anche questa conseguenza
angosciosa: separando un soggetto dal suo passato, gli fanno perdere la
certezza della propria identità.
Il linguaggio
Una delle più specifiche caratteristiche che permette di definire il linguaggio è la
sua esclusiva appartenenza alla specie umana. Benché molti animali utilizzino
sistemi di comunicazione anche abbastanza complessi, il linguaggio implica
capacità di simbolizzazione e astrazione, come la formazione di concetti, che
richiedono abilità cognitive che gli animali non hanno. Lo scopo principale
del linguaggio è quello di comunicare informazioni, cioè di far passare da una
mente all’altra contenuti che vi sono rappresentati.
Il linguaggio verbale fa parte dell’insieme più ampio dei sistemi di comunicazione,
cioè di quei comportamenti che hanno la funzione di trasmettere conoscenze
tra gli individui. Di regola nello stesso individuo è presente sia la capacità
di produrre il segnale (cioè il comportamento comunicativo), sia la capacità
di capirlo, cioè la capacità di cogliere da esso le conoscenze che vengono
trasmesse. Come vedremo in seguito, il linguaggio ha diverse funzioni, una delle
quali è favorire l’accrescimento e l’aggiustamento continuo delle conoscenze
intorno alla realtà, anche ad una realtà che non è percettivamente presente,
ma che è lontana nel tempo e nello spazio, e ancora possiede la funzione di
strumento di elaborazione interna delle conoscenze, quello che costituisce il
pensiero.
Nell’uomo è presente una specifica predisposizione genetica all’apprendimento
del linguaggio, ma affinché questa predisposizione si traduca nell’acquisizione
del linguaggio ed in un’effettiva capacità di parlare e di capire, è necessario
l’incontro con un ambiente umano idoneo e stimolante, e tale da fornire al
bambino anche le informazioni sullo specifico sistema linguistico che deve
imparare. La predisposizione a recepire e ad elaborare in modo specializzato
l’informazione linguistica, e quindi i suoni verbali e le parole, rispetto ad altri
suoni come rumori e musica, è presente nell’uomo fin dalle primissime fasi
di vita. Attraverso osservazioni sperimentali, gli studiosi dello sviluppo hanno
potuto dimostrare che il neonato dirige l’attenzione verso il suono della voce
umana, quella materna innanzitutto, che seleziona e predilige rispetto ad un
suono prodotto da un rumore o anche dalla musica. Ciò vuol dire che fin
dalla nascita vi sono nel nostro cervello, e precisamente nell’emisfero sinistro
dell’encefalo, delle aree specifiche disposte per “trattare” il suono della voce
Capitolo
4.7
72
umana e per elaborare l’informazione che arriva attraverso la voce. Queste aree
del cervello sono principalmente due e prendono il nome dai loro scopritori,
Broca e Wernicke.
Lo sviluppo del linguaggio è uno dei traguardi più significativi della prima
infanzia. È ad esempio la stessa acquisizione del linguaggio che determina, nel
periodo simbolico ed intuitivo, la trasformazione e l’arricchimento del pensiero
attraverso la formazione di nuove relazioni sociali. Il modo, tuttavia, in cui un
processo così complesso possa avvenire in un bambino il cui pensiero astratto
è per vari aspetti molto limitato, rimane ancora in gran parte un enigma per i
ricercatori che si occupano dello sviluppo.
Le teorie più recenti sull’acquisizione del linguaggio prendono in considerazione
sia l’esistenza di un’abilità innata sia le esperienze verbali precoci (il neonato
è immerso attraverso la sua prima relazione in un bagno sonoro) come fattori
di estrema importanza per l’apprendimento del linguaggio. La funzione del
linguaggio non è unicamente sociale e può svolgersi anche all’interno del
singolo individuo. Quasi nessun processo cognitivo, infatti, è indipendente
dal linguaggio: formazione di concetti, concreti o astratti, e processi di
ragionamento sono strettamente legati all’uso di strumenti linguistici.
Si può comunicare anche attraverso linguaggi non verbali, come la lingua dei
segni, utilizzata dai sordi. Il linguaggio non verbale si avvale prevalentemente
di segnali non verbali, espressioni facciali, contatto visivo, contatto corporeo,
postura e orientazione del corpo, gesti e distanza tra gli interlocutori. In rari
casi la comunicazione orale è isolata dal canale visivo, per esempio nell’ascolto
radiofonico; molto più spesso l’informazione orale si integra con quella visiva
(espressione del volto di chi parla, ma anche lettura dei suoi movimenti labiali).
La psicolinguistica è la branca della psicologia che studia il linguaggio,
innanzitutto nei suoi aspetti di produzione, comprensione, sviluppo e patologia,
ma anche dal punto di vista antropologico e culturale. Ha una precisa data di
nascita, il 1951, anno in cui si tenne un convegno che riuniva all’Università
dell’Indiana (Stati Uniti) psicologi, linguisti, antropologi culturali e informatici.
Funzioni del linguaggio
Il linguaggio serve prevalentemente a mettere in comunicazione o in
contatto le persone tra loro, e questa è sempre stata considerata la sua
funzione fondamentale. È tuttavia importante sottolineare che non vi è solo
la comunicazione con gli altri, ma che si comunica anche con se stessi:
talvolta, infatti, ci si scopre a parlare da soli. Questo comunicare con se stessi
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parlandosi, producendo un discorso, delle parole o attraverso il linguaggio
interno, il parlarsi mentalmente, svolge un’importante funzione di regolazione
del comportamento che inizialmente viene attuata da parte degli altri (per il
bambino dall’adulto), e poi da se stessi passando dal linguaggio effettivamente
emesso al linguaggio interno. Quando siamo di fronte ad una situazione
complessa o problematica, ci sorprendiamo ad usare il linguaggio verbale. È
verosimile pensare che ciò non avvenga per sprecare energie, quanto per il
valore di supporto che ha il verbalizzare nel compito che stiamo affrontando.
Un’altra importante funzione assolta dal linguaggio è infatti, come abbiamo
già accennato, quella cognitiva, cioè il favorire il pensiero, l’attività di analisi, di
sintesi, l’astrazione, la memorizzazione. In questo ci aiutiamo spontaneamente
con il linguaggio verbale. Quando siamo di fronte ad un problema complesso,
diciamo o pronunciamo qualche parola o frase che hanno il valore di guida
nello svolgimento del ragionamento e ci aiutano a chiarirci e a raggiungere la
soluzione.
Infine, ricordiamo la funzione espressiva del linguaggio verbale, che si ha
quando l’espressione verbale ha soprattutto - se non esclusivamente -
la funzione di permetterci di scaricare o allentare la tensione interna; allora
l’aspetto comunicativo, seppure presente, passa in secondo piano rispetto a
quello emotivo.
Questa funzione può venire alterata da molti disturbi che possono collocarsi a
diversi livelli. Per esempio, essi possono riguardare l’articolazione delle parole
(disartria), la loro emissione (blesità), la loro formazione (afasia, mutismo) oppure
la loro comprensione (sordità).
L’intelligenza
L’intelligenza non è una caratteristica unitaria, ma consiste in un insieme di
abilità che si sviluppano e si manifestano durante il periodo evolutivo, cioè
le abilità cognitive, linguistiche, motorie e sociali. La si può definire come
la capacità di percepire la realtà non solo per quello che è, ma anche per
quello che significa, di adattarsi ad essa e di agire per modificarla in funzione
delle proprie necessità e dei propri bisogni. Si tratta perciò della capacità di
percepire, di ragionare, di utilizzare simboli, di prevedere, di immaginare, di
creare, di trasformare la realtà.
Essa nasce dall’azione, dalla manipolazione, divenendo in seguito “azione
interiorizzata”, cioè pensiero, ragionamento. È inizialmente intelligenza
Capitolo
4.8
74
sensomotoria per divenire poi intelligenza rappresentativa, sempre più sganciata
dal dato percettivo concreto e capace di operare con le rappresentazioni, cioè
con le immagini mentali delle cose, con i simboli, fino ad arrivare al ragionamento
matematico più astratto. Un altro aspetto dell’intelligenza che è stato messo in
luce nelle ricerche psicologiche è la competenza sociale, cioè la capacità di
muoversi nelle relazioni con gli altri sulla base della sensibilità ai loro bisogni e
alle loro richieste. In questo senso si parla di intelligenza emotiva.
Per arrivare alla sua forma più completa, intorno ai 16 anni di età, l’intelligenza
percorre quindi un suo cammino evolutivo, attraverso delle tappe abbastanza
precise nel loro susseguirsi, che si riscontrano in tutti i soggetti, anche se
appartengono a realtà culturali diverse. L’intelligenza è in parte ereditaria, si
trasmette geneticamente e si distribuisce nella popolazione.
L’intelligenza, per svilupparsi, ha bisogno di un ambiente idoneo. Il neonato
– e poi il bambino – ha bisogno di incontrare un ambiente umano stimolante,
affettivamente caldo, con il quale entrare in contatto ed interagire fin dai
primi istanti di vita. Il primo ambiente è la madre o una figura di accudimento
significativa; solo attraverso il rapporto, la relazione primaria con questa figura,
le potenzialità genetiche, ereditarie, potranno dispiegarsi o, viceversa, rimanere
inespresse.
Vi sono delle condizioni che possono compromettere le capacità intellettive, per
esempio il ritardo mentale (argomento approfondito nel capitolo 9), condizione
in cui, per cause molto precoci, si verifica un danno che impedisce lo sviluppo
completo dell’intelligenza e una maturazione completa della personalità.
Altra condizione è rappresentata dalla demenza, che è la compromissione di
facoltà intellettive già acquisite. Si parla di demenza se, dopo aver concluso
lo sviluppo intellettivo, interviene un trauma o un processo patologico che
provoca un deficit nel funzionamento intellettivo o un deterioramento delle
capacità acquisite.
Dobbiamo ricordare, poi, come talora l’intelligenza possa venire più o meno a
lungo alterata anche per effetto di fattori emotivi, come avviene in seguito ad
emozioni molto forti.
L’intelligenza e il quoziente intellettivo
L’intelligenza è formata da più funzioni, come, ad esempio, la memoria,
l’attenzione, il pensiero logico, il linguaggio, ecc. Tutte queste funzioni sono
valutate e misurate singolarmente all’interno delle prove di intelligenza (test).
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Tutte queste misure, per semplificare, vengono riunite in un unico punteggio,
chiamato Quoziente Intellettivo (Q.I.), di cui abbiamo già parlato nel primo
capitolo.
Il Q.I. viene ottenuto dividendo l’età mentale (E.M.), ricavata dal test, per l’età
cronologica (E.C.) e moltiplicando il quoziente per il numero fisso 1006.
Facciamo un esempio per meglio comprendere: se una persona ha 30 anni di
età (età cronologica) e i test dimostrano che ragiona proprio come una persona
di 30 anni (età mentale) il suo Q.I. sarà 100 (30:30 =1 ;1x100= 100), ovvero
perfettamente nella norma.
Se una persona invece ha 20 anni d’età (età cronologica) ma ragiona come un
bambino di 10 (età mentale) il suo Q.I. sarà 50 (10:20= 0,5 ; 0,5 x 100=50) e
avrà un ritardo mentale.
L’intelligenza di una persona comune avrà quindi un punteggio vicino a 100, e
si può dire che si è in presenza di un’intelligenza nella norma; se il punteggio
è molto inferiore si è in presenza di un ritardo mentale; se il punteggio è molto
superiore a 100 punti, abbiamo un’intelligenza al di sopra della norma. Esiste
una convenzione tra gli studiosi del settore che considera:
› Q.I. sotto il 70 = ritardo mentale;
› Q.I. tra 71 e 85 = funzionamento intellettivo limite della normalità;
› Q.I. compreso tra 86 e 130 = intelligenza nella norma;
› Q.I. superiore a 130 = intelligenza al di sopra della media.
Il ritardo mentale verrà meglio approfondito nell’ultimo capitolo al paragrafo
9.2.1.
6 L’età mentale, di per sé, ci dice il livello di prestazione che ci possiamo aspettare da un individuo, ma non se è intelligente: un’età mentale di sette anni può essere un indice di buona intelligenza in un soggetto di cinque anni, ma anche di un grave deficit in uno di quindici. Il maggior pregio di questa formula è che la normalità è predefinita, e corrisponde a 100; è perciò più facile stabilire i limiti superiore e inferiore tra i quali si può dire che un soggetto abbia un’intelligenza normale. Il maggior inconveniente, invece, è che una scala basata sull’età non vale più nella popolazione adulta, perché oltre i 7/8 anni non possiamo prevedere che le abilità cognitive si sviluppino ancora.
Q.I. = E.M.
E.C.X 100
76
Una intelligenza o molte intelligenze?
Le prime teorie dell’intelligenza si dividono in due grandi gruppi: quelle che
presumono l’esistenza di un fattore generale in base al quale si determina se il
soggetto è intelligente o meno, e questo vale per tutti gli aspetti dell’intelligenza,
e le teorie multifattoriali, che postulano l’esistenza di molte diverse capacità
mentali (anche centinaia), per cui i soggetti possono essere intelligenti per alcuni
aspetti ed esserlo poco per altri. Il più noto fautore di una teoria del primo tipo
fu l’inglese Charles E. Spearman, che pubblicò nel 1904 la sua classificazione
basata su un fattore G (generale), ma anche su fattori S (specifici) relativi alle
varie abilità. Le critiche alla sua ipotesi puntano sul fatto che è esperienza
comune verificare l’esistenza in un individuo di alte abilità di un tipo (per esempio
linguistiche) e scarse di un altro (per esempio matematiche), mentre, secondo
questa teoria, chi ha una valutazione alta nel fattore G dovrebbe averla anche
in tutti gli altri fattori.
Tra i teorici del secondo tipo (molti fattori), il più noto è l’americano Joy P.
Guilford, attivo dagli anni Settanta, che affermò l’esistenza di 120 diverse abilità
mentali, ognuna potenzialmente indipendente dalle altre. Merito di Guilford
è stato quello di introdurre la differenza tra pensiero convergente (capace
di elaborare soluzioni sulla base di conoscenze ed esperienze accumulate
e di ragionamenti logici) e pensiero divergente (capace di pensare soluzioni
originali), cioè una prima definizione e valorizzazione della creatività.
Tra le teorie classiche una molto nota e ancora abbastanza attuale è quella di
Leonard Thurstone, che divide l’intelligenza in sette componenti, chiamate
abilità primarie: la comprensione verbale, la fluidità verbale (che differisce dalla
comprensione e indica la capacità di produrre rapidamente un certo numero
di parole, data una certa iniziale), l’abilità numerica, l’abilità visuo-spaziale
(confronto tra immagini), la memoria, il ragionamento e l’abilità percettiva.
Come è evidente, queste abilità implicano capacità di ragionamento astratto,
linguistiche, matematiche, spaziali e anche rapidità di decisione e di esecuzione.
Negli anni Ottanta Robert J. Sternberg ha invece proposto, nell’ambito del
Cognitivismo, una teoria che comprende tre tipi di intelligenza: intelligenza
contestuale (abilità di adattarsi al proprio ambiente, di adattarlo a sé o di
cambiare ambiente); intelligenza empirica (abilità di rendere facili o automatiche
molte operazioni della vita quotidiana); intelligenza componenziale (abilità
di eseguire compiti di pianificazione e di esecuzione, nonché capacità di
apprendere nuove conoscenze).
Importante è anche il contributo di H. Gardner che verrà approfondito nel
testo di psicopedagogia.
77
Considerazioni conclusive
Abbiamo visto in questo capitolo che alla base di ogni conoscenza si pone il
processo della percezione. Le informazioni percepite vengono successivamente
rappresentate, collegate ed elaborate nel cervello, consentendo così lo sviluppo
del pensiero. La conoscenza è direttamente influenzata dall’intelligenza e
dal linguaggio maturo. La prima permette di vedere all’interno delle cose,
distinguendo la loro natura, il secondo permette di esprimere in modo simbolico
la realtà delle cose e di comunicarla agli altri.
Abbiamo così percorso, sia pure rapidamente, la strada attraverso la quale
l’uomo arriva a pensare su se stesso e sulla realtà che lo circonda. Egli può fare
questo grazie alle funzioni e alle capacità che abbiamo descritto. Tutte insieme
queste capacità fanno sì che l’uomo sia in grado di costruirsi il proprio destino,
difendendo il progetto della sua esistenza dalle aggressioni che possono venire
dall’ambiente circostante.
78
Questionario di autocontrollo
1) Come funziona il meccanismo della percezione e perché è così importante?
2) Che cos’è l’attenzione?
3) Che cos’è il pensiero?
4) Che cos’è la memoria?
5) Che cos’è l’apprendimento?
6) Che cos’è il linguaggio?
7) Quali possono essere i disturbi più frequenti della percezione,
dell’intelligenza e del linguaggio?
8) Come avviene l’apprendimento?
9) Esiste una sola intelligenza?
10) Cos’è il Q.I.?
79
La persona
Il termine “persona” indica “l’individuo umano senza specificazione di nome o
di sesso, considerato nell’ambito delle funzioni e dei rapporti sociali” (Devoto
Oli, 1998). Come si vede, la definizione pone l’accento sull’aspetto relazionale,
sul fatto che una persona è tale in quanto entra in relazione con gli altri. Come
sostiene Immanuel Kant (1724-1804), l’uomo è persona in quanto portatore
della legge morale e capace di autonomia, e perciò degno di rispetto, dotato
di dignità e senza prezzo (contrariamente alle cose, che hanno un prezzo in
quanto ammettono equivalenti). Nel secolo scorso, Max Scheler (1874-1928)
ha definito la persona in base al suo rapporto col mondo, per la capacità di
agire su di esso, e quindi il mondo come il correlato della persona, sostenendo
una corrispondenza fra ogni persona e il suo proprio mondo.
Il concetto di persona comprende l’aspetto della corporeità, della psiche, della
socialità. Nello studio della persona noi distingueremo questi aspetti, ma lo
faremo a scopo puramente pratico, per capirci meglio, non dimenticando mai
che essi si trovano nella realtà tutti in uno a formare la persona. In altre parole, il
corpo, la mente, le relazioni con gli altri sono presenti nella persona e ciascuno
di essi è presente all’altro in un rapporto che non si può scindere, se non
a scopo di studio e sperimentazione. Quando questi aspetti della persona
vengono distinti, si crea una situazione “artificiale”, una situazione che non
esiste nella realtà.
Fattori ereditari e ambiente
Sullo sviluppo della persona e delle sue caratteristiche influiscono molti fattori.
Di due di essi vorremmo occuparci, per l’importanza che essi rivestono. Essi
sono l’ereditarietà e l’ambiente. A questo proposito, esistono valutazioni
molto diverse fra gli studiosi, alcuni dei quali sottolineano molto di più il ruolo
dell’ereditarietà, altri il ruolo dell’ambiente. I primi sostengono che l’ereditarietà
è tutto e che l’ambiente influisce in modo molto modesto a modificare quanto
Aspetti pratici
Capitolo
5.1
Capitolo
5.2
80
l’ereditarietà ha determinato. I secondi, al contrario, sottolineano l’importanza
degli apporti dell’ambiente e la proprietà dell’organismo umano di lasciarsi
plasmare e modificare da essi, considerando secondario e di scarsa incidenza
il ruolo dell’ereditarietà.
Dalla prima posizione deriva una concezione abbastanza pessimistica
dell’uomo, visto come un essere per larga parte già determinato fin dalla
nascita. Dalla seconda posizione nasce invece una concezione più ottimistica,
con una maggiore possibilità di sviluppare e migliorare le doti e le capacità di
base al miglioramento degli apporti ambientali. Senza voler prendere posizione,
possiamo comunque dire che la componente ereditaria e quella ambientale
agiscono in modo simultaneo. Anche quando i fattori esterni (ambientali)
sembrano predominanti, i fattori interni assumono importanza sotto forma
di risposta a stimoli esterni. Ad esempio, una malattia infettiva è dovuta ad
agenti microbici (fattori esterni), ma perché si possa sviluppare è necessario
che incontri un certo tipo di sostanza nell’organismo con cui viene in contatto
(fattori interni). Allo stesso modo, certe caratteristiche sicuramente ereditarie
(ad esempio la statura) necessitano di un determinato ambiente per potersi
manifestare (per esempio l’alimentazione).
In questa azione simultanea, ereditarietà e ambiente non si sommano, ma
interagiscono. Questo spiega come mai due persone collocate nello stesso
ambiente reagiscono diversamente in relazione agli aspetti ereditari caratteristici
di ciascuno di essi e spiega come mai due persone con lo stesso patrimonio
genetico (per esempio alcuni gemelli) possano reagire in modo simile, anche
se collocati in ambienti profondamente diversi.
Il problema è quindi non tanto quello di stabilire se ereditarietà e ambiente
agiscano su una persona, ma quale sia il contributo di ciascuna di queste due
componenti: si tratta di un problema ancora aperto.
Il comportamento
Il comportamento si può definire come l’espressione esterna, osservabile, di
una serie di fattori, che si possono definire “dinamiche consce e inconsce
dell’individuo”.
Molti processi della vita cognitiva (sensorialità, percezione, ricordi, riflessioni,
ecc.) e della vita affettiva (sentimenti, emozioni, passioni, desideri, ecc.) si
esteriorizzano sotto forma di movimenti, di azioni, di gesti: in una parola, in
comportamenti. I comportamenti variano perciò da persona a persona, e
Capitolo
5.3
81
nella stessa persona da momento a momento, in relazione alle situazioni, alle
persone con le quali un individuo viene in contatto, agli scopi che si propone di
ottenere, alle possibilità di scelta consentite dalla situazione e dalla realtà. Da
questo punto di vista, le azioni possono essere classificate come segue.
Azioni riflesse: si tratta di risposte obbligate a determinati bisogni dell’individuo,
senza che vi sia una partecipazione cosciente del soggetto; sono presenti già
alla nascita (per esempio, suzione e prensione) e costituiscono una parte del
bagaglio ereditario dei bambini. Negli adulti comprendono tutti i movimenti
automatici del corpo, alcune reazioni incontrollate, come ad esempio i tic, ma
anche tanti altri movimenti dettati da bisogni di varia natura.
Azioni istintive: sono simili alle azioni riflesse, ma sono corredate da una
carica affettiva non facilmente definibile. Spesso le azioni istintive risalgono ad
esperienze che vanno al di là dell’individuo, attingono ad un patrimonio ereditario
tipico di un certo gruppo etnico, o addirittura a tutta l’umanità. Quando noi
pensiamo all’istinto, corriamo con la mente agli animali e diciamo che l’animale,
ad esempio quando prepara il suo nido, segue un istinto, un impulso interiore
di cui ignoriamo la natura e la forza. Sigmund Freud, riferendosi all’uomo,
parlò di istinti e di pulsioni, i più importanti dei quali sono l’istinto sessuale e
l’istinto aggressivo. Possiamo ritenere che nell’essere umano adulto gli istinti
subiscano profonde modificazioni ad opera dell’ambiente, dell’intelligenza
e della coscienza. È compito dell’educazione orientare il modo in cui gli
istinti possono essere manifestati in maniera utile e socialmente accettabile,
costruendo le premesse per uno sviluppo armonico della personalità. Inoltre, le
modalità attraverso le quali gli istinti possono essere espressi sono strettamente
correlate alla tipologia di cultura nella quale si è inseriti.
Azioni volontarie: sono azioni alla base delle quali si pone una scelta fra più
alternative. Ciò comporta da parte del soggetto di:
› rappresentarsi mentalmente la realtà e poter valutare una serie di
alternative;
› decidere in relazione alle convenienze e alle opportunità;
› eseguire un’azione in modo da manifestare esteriormente la propria
capacità di scelta.
Si può dire che le attività eminentemente volontarie sono azioni intelligenti,
azioni in cui la persona può manifestare la propria abilità nell’elaborare una serie
di elementi, nel porsi in modo nuovo e originale, nel ricostruire creativamente
momenti operativi nuovi.
82
Gran parte del comportamento umano è spiegato in base a emozioni e
motivazioni; gli unici comportamenti esclusi da questa dinamica sono quelli
fisiologici involontari, come il battito cardiaco o la digestione. Alle emozioni
e alla loro influenza sui processi cognitivi dedicheremo il prossimo capitolo.
Vediamo invece subito che cosa s’intende in psicologia per “motivazione”.
La motivazione
La motivazione può essere definita come uno stato psicobiologico in cui un
individuo è orientato a raggiungere qualche tipo di soddisfazione di un bisogno.
In questo senso, la motivazione ha un’azione regolatrice sul comportamento,
sotto due aspetti principali: quello energetico (nel senso di attivarlo) e quello
direzionale (nel senso di indirizzarlo verso una meta).
Il bisogno, che è sempre alla base della motivazione, si può definire come il
sentire la mancanza di determinati elementi, nell’ambiente o in noi stessi. Nel
caso del bisogno biologico, è avvertita una mancanza a livello dell’organismo;
nel caso del bisogno psicologico, è avvertita una tensione ad attivare un
comportamento (motorio, cognitivo o emozionale). Il bisogno provoca
nell’equilibrio energetico dell’individuo un’alterazione che può essere ridotta
con un’attività “consumatoria” (come il mangiare, se la motivazione è la fame; o il
riuscire in una determinata impresa, se la motivazione è il successo personale).
Alcuni stati motivazionali sono essenziali per la sopravvivenza (per esempio la
fame, la sete e il sonno), fanno parte del nostro patrimonio biologico e sono
universali. Altri sono legati alla cultura in cui è inserito un soggetto o anche
alla sua storia personale (per esempio la motivazione a superare un esame,
o a fare collezione dei dischi dei Beatles); quest’ultimo tipo di motivazioni può
essere condiviso da gruppi più o meno grandi, o anche essere valido per un
singolo individuo.
Altri stati motivazionali in certi individui sono diventati permanenti e si possono
considerare caratteristiche stabili della personalità, come, per esempio,
l’altruismo o l’aggressività. Mentre di alcune di queste motivazioni dei nostri
comportamenti siamo consapevoli, di altre non lo siamo; anzi, a volte succede
anche che attribuiamo un certo comportamento (nostro o altrui) al motivo
sbagliato.
Una motivazione inconscia, secondo l’ipotesi psicoanalitica, fa sì che siano
presenti nel nostro comportamento azioni di cui non siamo coscienti e che
si esprimono in parte attraverso lapsus, sogni e, nei casi patologici, sintomi
Capitolo
5.4
83
e disturbi psicotici. Ma, anche senza un approfondimento psicoanalitico, può
essere a volte interessante interrogarci sulle motivazioni per cui abbiamo fatto
un apparente “errore di comportamento”. È tipico, per esempio, il caso di una
persona che si prepara per uscire la sera dopo cena e va nella sua camera
per cambiarsi d’abito, ritornando poco dopo in pigiama: l’intenzione cosciente
era quella di vestirsi per uscire, quella non consapevole, ma evidentemente
sostenuta da una motivazione più potente, di stare a casa e di andarsene a
letto.
Attitudini e inclinazioni
Abbiamo potuto cogliere in più occasioni, durante la lettura di questo testo,
come la continua interazione di più elementi nella vita interiore di un individuo
determini degli esiti del tutto particolari. Esistono poi dei fattori che, per
comodità di trattazione, possiamo classificare in attitudini e inclinazioni. Che
cosa vogliamo realmente indicare con queste parole? Quando esiste una
forte carica emotiva o affettiva di un certo individuo verso stili di vita conformi
al suo modo di vivere, di pensare, di agire, quella “carica” noi la chiamiamo
inclinazione. L’inclinazione ha dunque bisogno di un movimento esterno che
faccia scattare una disposizione naturale ad agire in una certa direzione. Una
volta realizzata l’inclinazione, l’individuo è pervaso da uno stato di piacere di
grande intensità, e possiamo affermare con una certa tranquillità che il piacere
si trova alla base di moltissime operazioni umane.
Le attitudini si possono definire come abilità innate, naturali, in grado di
facilitare lo svolgimento di un lavoro, di una professione, di una determinata
occupazione. Le attitudini si possono manifestare precocemente, come nei
“bambini prodigio”, o restare in uno stato di latenza durante tutta la vita, perché
non si sono realizzate le opportunità per poterle estrinsecare. Le attitudini
sono in qualche modo facilmente individuabili, perché le loro caratteristiche
consentono una buona riuscita in certe attività fisiche e psichiche. Ecco quindi
il manifestarsi delle tendenze: quando un individuo avverte una certa affinità
verso determinati comportamenti o interessi e si realizzano le condizioni per la
loro attuazione, e magari si associano anche attitudini confacenti, nasce una
forte tendenza, un vero e proprio bisogno, la cui realizzazione provoca piacere,
mentre il contrario provoca disagi e disturbi.
Esiste la possibilità di misurare le attitudini di un soggetto attraverso l’uso dei test
psicologici. Essi servono per prevedere ciò che una persona sarà più o meno in
grado di fare. È risaputo che, per svolgere determinati lavori o compiti, oltre ad
Capitolo
5.5
84
un’adeguata intelligenza è necessario possedere specifiche abilità. Esistono
test in grado di misurare la capacità di ragionare, di riconoscere le relazioni
spaziali, la capacità di risolvere problemi di tipo meccanico, ecc. Tali batterie
di test sono utili per riconoscere le proprie attitudini e per dare suggerimenti
circa il tipo di studi o di lavoro da intraprendere. La somministrazione dei test e
la loro lettura è competenza esclusivamente degli specialisti. In funzione della
scelta di diventare un Assistente, appare utile sottolineare come una riflessione
preliminare su se stessi, alla ricerca di attitudini quali il desiderio di porgere
aiuto, la sensibilità verso i problemi sociali, il piacere di stare con gli altri, sia
quanto mai indispensabile.
85
Considerazioni conclusive
Abbiamo visto in questo capitolo che la persona è il risultato di due ordini
di fattori: ereditari, interni all’individuo e presenti già alla nascita (patrimonio
genetico) ed esterni ad essa (ambiente). L’incontro di un determinato patrimonio
genetico di uno specifico individuo con un determinato ambiente dà luogo
all’originalità e all’unicità di ogni persona.
Fondamentali, in funzione dello sviluppo della personalità, sono gli istinti. È infatti
possibile, da un certo punto di vista, concepire tutto il percorso evolutivo di un
individuo, che si estende dalla nascita fino al raggiungimento dell’età adulta,
come un insieme di strategie finalizzate ad orientare il bagaglio istintuale verso
le finalità principali della specie umana: lavorare, amare, riprodursi, aumentare
le proprie conoscenze (aspetto culturale).
86
Questionario di autocontrollo
1) Che cosa comprende il concetto di persona?
2) Che cosa sono i fattori ereditari?
3) Spiega il rapporto fra fattori ereditari e ambiente.
4) Qual è il significato del termine “comportamento”?
5) Che cos’è la motivazione?
6) Che cosa sono gli istinti?
7) A cosa servono le azioni volontarie?
8) Che cosa si intende con i termini “attitudini” e “inclinazioni”?
9) Perché attitudini e inclinazioni sono importanti in funzione delle scelte
scolastiche e lavorative?
10) Come sono classificabili le azioni dell’uomo?
87
Definizione
Le emozioni sono esperienze soggettive di intensità rilevante, accompagnate
sempre da modificazioni fisiologiche e spesso da modificazioni comportamentali
ed espressive dell’organismo. Le emozioni non sono mai neutre, ma piacevoli
(la gioia, la soddisfazione) o spiacevoli (la paura, la collera). Le definizioni di
“emozione” riportate nella letteratura psicologica sono molte: alcune pongono
l’accento sugli aspetti cognitivi, altre su quelli espressivi, motivazionali, sociali
o culturali. In generale, però, i modelli più completi prendono in considerazione
almeno quattro componenti:
› affettiva: un’esperienza piacevole o spiacevole, che suscita attrazione
o repulsione;
› cognitiva: percezione, valutazione ed eventuale etichettamento
linguistico di uno stimolo “emotigeno”, cioè che provoca emozione;
› fisiologica: adattamenti fisiologici, per esempio rossore o batticuore;
› comportamentale: modificazione dell’espressione facciale e della
postura, predisposizione all’azione.
Il contenuto “affettivo” dell’emozione si riferisce alla valenza positiva o negativa
dell’attrazione tra il soggetto e un determinato oggetto (in questo caso lo
stimolo emotigeno o l’esperienza emozionale stessa).
La più completa e nota teoria degli affetti è stata elaborata all’interno della
psicoanalisi: qui basti sottolineare che lo stato affettivo è caratterizzato non
solo dal “tono edonico” (piacere/dispiacere), ma anche da un’energia che
predispone l’organismo ad avvicinarsi ad un oggetto oppure a evitarlo.
L’affetto è modulato anche nell’intensità e nella modalità - più focalizzata o più
diffusa - di rapporto col suo oggetto. In sintesi, un’emozione è caratterizzata
da un’esperienza di piacere o di dolore, accompagnata da un’elaborazione
cognitiva, da un’attivazione fisiologica e da una disposizione comportamentale.
Ciascuna di queste componenti, a seconda del soggetto e del contesto,
può avere una rilevanza relativa diversa: comunque, si attivano tutte quasi
Le emozioni
Capitolo
6.1
88
contemporaneamente e hanno una breve durata. L’emozione, infatti, è uno
stato affettivo di forte intensità e breve durata: non si può dire di aver
provato un’emozione, per esempio di tristezza, per una settimana; infatti,
almeno i correlati fisiologici dovuti alla subitaneità dell’emozione sono destinati
ad estinguersi rapidamente.
Stati affettivi prolungati e di bassa intensità, che compaiono magari senza una
causa immediatamente identificabile, vengono generalmente chiamati stati
d’animo o sentimenti, anche se spesso - sia nel linguaggio psicologico sia in
quello corrente - la denominazione generale di “emozione” viene estesa anche
a questi casi. Ma essi, rispetto alle emozioni, che hanno anche la caratteristica
di interrompere il corso dei pensieri, possono al massimo avere l’effetto di
modificarlo.
L’ordine di comparsa delle quattro componenti delle emozioni non è definito e
varia in base alle diverse teorie, che però concordano nel ritenere necessario
che questi elementi vi siano tutti. Se, per esempio, una persona ha paura dei
cani e improvvisamente nella stanza in cui si trova ne entra uno, l’elaborazione
percettivo-cognitiva fa riconoscere al soggetto lo stimolo emotigeno cane;
è presente una sensazione affettiva spiacevole, di repulsione, insieme al
desiderio di allontanarsi da questo stimolo, mentre l’organismo si attiva,
facendo aumentare il ritmo cardiaco e la frequenza respiratoria: tale attivazione
provoca una maggiore ossigenazione e una maggiore tensione muscolare, che
rendono l’individuo pronto alla fuga. Questa sarà realizzata o meno a seconda
della valutazione cognitiva del soggetto stesso, che potrebbe scegliere una
strategia diversa, come chiedere al padrone del cane di far uscire dalla stanza
l’animale. È evidente che la risposta psicologica non è sempre adeguata al
contesto: per esempio, in una situazione di paura per un esame l’aumento del
battito cardiaco e la predisposizione alla fuga non sono funzionali alla difesa.
Molte delle nostre risposte fisiologiche alle emozioni sono innate e hanno avuto
un ruolo importante nell’evoluzione: determinati tipi di attivazione fisiologica
mettono in grado l’organismo di instaurare comportamenti di lotta o di fuga.
Altri comportamenti, quali le espressioni facciali, hanno avuto nell’evoluzione la
funzione di segnalare ai membri del gruppo la presenza di un pericolo, come
nell’espressione di paura, oppure di dare l’avvertimento di non mangiare un
certo cibo, come nell’espressione di disgusto.
89
Le diverse emozioni
Le emozioni hanno complessità e sfumature differenti. Alcuni autori le
descrivono in base a poche polarità, come gioia/tristezza, paura/rabbia,
accettazione/disgusto, attivazione/sopore. Le combinazioni di varie posizioni
tra queste polarità darebbero luogo alle singole emozioni. In generale, però, si
distinguono alcune emozioni semplici, di base, innate e universalmente diffuse
anche nei modi di espressione, e altre complesse, ottenute da mescolanze
di emozioni di base e influenzate da processi sociali, quindi potenzialmente
differenziate, almeno nell’espressione, nelle diverse culture. Tra le prime sono
comprese, in genere, gioia, tristezza, paura, rabbia, imbarazzo, senso di colpa,
invidia e gelosia.
La vergogna, per esempio, è determinata dalla valutazione che il nostro
comportamento non sia conforme a quello che idealmente dovremmo
mantenere per conservare la stima degli altri; si può quindi provare vergogna
solo all’interno di una rete di regole sociali condivise, e solo se ci sentiamo
valutati da qualcuno. Se, per esempio, viaggiamo in autobus senza aver
acquistato il biglietto e veniamo scoperti da un controllore, ci vergogniamo;
se invece la facciamo franca, il sentimento di disagio che potrebbe rimanerci
dentro non è vergogna, ma senso di colpa, perché il nostro disagio non dipende
dal giudizio altrui, bensì dal nostro.
Quasi sempre le emozioni hanno una causa riconoscibile, benché talvolta
per breve tempo possa capitare che ci domandiamo quale emozione stiamo
provando o che cosa ci abbia emozionato. La componente cognitiva delle
emozioni comprende il riconoscimento dello stimolo o della situazione
emozionante: in assenza di tale riconoscimento non possiamo dire di essere
emozionati. I segnali fisiologici, infatti, non bastano: per esempio, il batticuore
e il respiro frequente possono essere associati anche all’aver salito le scale di
corsa; la ipermotilità viscerale a problemi di digestione; il rossore a un aumento
improvviso di temperatura.
Riconoscere ed etichettare correttamente un’emozione può avere l’effetto
di aumentare le nostre possibilità di far fronte alla situazione, ma può anche
aggiungere intensità all’emozione stessa: per esempio, nel caso della paura,
è possibile che la nostra capacità di prendere le decisioni giuste per tirarci
fuori dal pericolo sia compromessa da un sovraccarico emozionale, perché la
percezione della nostra stessa paura la fa aumentare.
Gli stati emozionali dipendono da processi improvvisi, che interrompono altri
Capitolo
6.2
90
processi e comportamenti in atto, come se uno stimolo cognitivo colorito
di emotività avesse la precedenza sugli altri. Se siamo colti da una paura
subitanea, “ci dimentichiamo” di quello che stavamo facendo e ci mettiamo
rapidamente a pianificare un modo per far fronte alla situazione. Ma anche
un’inattesa emozione di gioia, di sorpresa o di tristezza può interrompere il
corso dei nostri pensieri e rendere meno efficiente il nostro comportamento.
Gli “antecedenti” delle emozioni sono le situazioni interne o esterne che possono
scatenare una determinata emozione, e che differiscono non solo nelle varie
culture, ma anche tra le persone di una stessa cultura, in base a caratteristiche
di personalità, esperienze, convincimenti personali e motivazioni. Ne è un
esempio il caso della gelosia: una stessa scena (vedere la persona amata che
abbraccia affettuosamente qualcuno) può suscitare un violento sentimento di
gelosia in una cultura in cui sia praticata una rigida separazione tra i sessi,
ma può essere uno stimolo assolutamente neutro in un altro contesto (per
esempio tra i giovani della nostra società). Tuttavia, dato che la gelosia ha
anche componenti come dipendenza affettiva e bassa autostima, perfino in un
contesto in cui i più sarebbero indifferenti, qualcuno con queste caratteristiche
potrebbe sentirsi profondamente ferito. Anche le esperienze precedenti hanno
un peso nel far riconoscere uno stimolo come emotigeno o neutro: nel caso
degli antecedenti della gelosia, una scena potrebbe evocare nel soggetto
esperienze passate e quindi suscitare emozioni simili a quelle già provate; e
questo può avvenire a livello consapevole oppure in relazione ad esperienze
molto remote e non presenti attualmente alla coscienza.
Antecedente della rabbia può essere una situazione di ingiustizia o di
aggressione, e anche in questo caso le valutazioni cognitive personali hanno
una forte influenza nel far percepire una circostanza come emotigena. Il
disgusto ha, in genere, una connessione con l’alimentazione, e in questo senso
è un’emozione di base, molto legata alla sopravvivenza; il suo antecedente più
tipico è la situazione in cui una persona mangia o annusa un cibo avariato,
ma attraverso l’apprendimento altri stimoli più morali che materiali sono entrati
nella nostra concezione del disgusto.
La tristezza è basata su uno stato affettivo negativo, la cui principale caratteristica
è il senso di perdita di qualcosa che amiamo: al di là della subitaneità della
sensazione di tristezza (per esempio all’annuncio di una brutta notizia, come
un incidente capitato ad un amico o la decisione di una persona amata di
lasciarci) uno stato d’animo più attenuato ma pervasivo di tristezza può durare
anche molto a lungo ed essere accompagnato da sentimenti di rabbia e di
colpa, portando ad una perdita di interesse per il mondo che ci circonda e al
lutto.
91
La gioia o felicità è forse l’emozione più difficile da definire: assolutamente
insufficiente è qualificarla come assenza del suo contrario, l’infelicità; ma porre
l’accento solamente sul senso di soddisfazione rispetto ai bisogni essenziali
o anche rispetto alla propria vita e ai propri obiettivi è ancora un po’ riduttivo.
Comunque, lo stato affettivo marcatamente piacevole che sostiene questa
emozione la fa avvicinare ai sentimenti connessi all’amore e all’innamoramento
(per persone o cose). I suoi antecedenti, poi possono essere i più vari, infatti
la ricerca psicologica è ben lontana dall’aver compreso se la prevalenza in un
individuo di uno stato di gioia sia più legata ad eventi esterni della sua vita o
a tratti della sua personalità (come l’estroversione o il senso di controllo sulla
propria esistenza).
La sorpresa è invece un’emozione affettivamente ambigua, legata ad
un’alta attivazione dell’attenzione: la sua coloritura piacevole o spiacevole è
determinata fortemente dal contesto e dai tratti personali del soggetto. Il suo
antecedente è la percezione di una situazione inaspettata, ma che non porta,
di per sé, né gioia né tristezza né paura. La capacità del soggetto di tollerare
o addirittura di amare un cambiamento dipende da molti fattori, tra cui il suo
stadio di sviluppo psicologico, il suo senso presente di sicurezza e la sua
motivazione all’avventura.
Espressione e riconoscimento delle emozioni
All’interno del linguaggio non verbale l’espressione delle emozioni ha il ruolo
molto importante di comunicare bisogni e stati d’animo in uno stadio di sviluppo
prelinguistico o anche, successivamente, di accompagnare l’uso del linguaggio
verbale, ma con effetto di arricchimento di significato e di maggiore velocità di
espressione. Come nelle altre espressioni del linguaggio non verbale, anche
nella comunicazione emozionale è importante la capacità dei due soggetti
dell’interazione rispettivamente di codificare un’emozione e di decodificarla.
Il luogo privilegiato dell’espressione di emozioni è il volto, in particolare due
zone: quella superiore, composta da occhi, sopracciglia e fronte e quella
inferiore, composta da bocca e naso. La capacità di esprimere alcune emozioni
è innata e si manifesta già nel bambino molto piccolo. Pur essendo inizialmente
involontaria e inconsapevole, fornisce a chi si prende cura del bambino dei
segnali importanti sui suoi stati fisici e psicologici; successivamente le stesse
espressioni, come pure le vocalizzazioni e le altre comunicazioni prelinguistiche,
si possono arricchire di intenzionalità e diventare vere e proprie comunicazioni
volontarie.
Capitolo
6.3
92
Anche il volto dell’adulto, con le emozioni che esprime, diventa presto l’oggetto
privilegiato dell’attenzione del bambino: un oggetto che, oltre a favorire uno stato
di benessere psicologico, e ad indurre le prime risposte di sorriso, permette
la costruzione delle prime relazioni tra il bambino e il mondo esterno a lui. La
questione di quanta parte del comportamento espressivo sia innata e quanta
sia appresa non sembra rilevante, in quanto in genere tutti gli adulti all’interno
di una certa cultura, se non intervengono particolari patologie neurologiche,
sono capaci di codificare e di decodificare le espressioni di emozione, allo
stesso modo in cui sono in grado di parlare e di comprendere la lingua madre.
Più interessante sembra la questione dell’universalità delle espressioni facciali
associate alle emozioni principali.
Sono stati realizzati diversi studi, soprattutto su soggetti europei, statunitensi
e giapponesi: il risultato più importante - che conferma la base neurologica, e
quindi comune, dell’espressione delle emozioni - è che la capacità di codifica
e decodifica è sostanzialmente omogenea. Variano invece le regole sociali
secondo cui un’emozione può essere espressa e - come prevedibile - gli
antecedenti causali.
Per quanto riguarda la gioia, la sua manifestazione più tipica è il sorriso, che si
produce con un movimento del muscolo zigomatico che fa alzare gli angoli della
bocca e socchiudere gli occhi. Nella tristezza, viceversa, gli angoli della bocca
si piegano all’ingiù, e così gli angoli esterni degli occhi: una manifestazione
espressivo-comportamentale aggiuntiva può essere il pianto.
Nell’espressione tipica di paura gli occhi sono sbarrati, a volte la bocca è aperta
e i muscoli del viso sono tesi in una posizione immobile. Quando invece un
individuo prova rabbia, le sue sopracciglia sono aggrottate, i suoi denti sono
scoperti e digrignanti, oppure la bocca è chiusa strettamente. Se poi prova
sorpresa, le sopracciglia sono sollevate e la bocca è aperta; se è disgustato,
le narici sono arricciate e la bocca è deformata e protesa in avanti, come a
sputare un boccone di cibo stomachevole.
Mentre nell’espressione facciale delle emozioni, pur su una base neurologica
comune, possono intervenire differenze di intensità determinate dal contesto
socioculturale, nel riconoscimento intervengono invece anche differenze
individuali, tra le quali una delle più costanti nei risultati della ricerca psicologica
è quella del genere: in quasi tutte le situazioni le femmine hanno una maggiore
capacità di riconoscere le situazioni rispetto ai maschi.
La spiegazione più convincente che finora è stata data a questo fenomeno è
che tradizionalmente le donne sono più impegnate nell’allevamento e nella cura
93
dei bambini molto piccoli (prima dell’acquisizione del linguaggio), e quindi sono
più specializzate a decodificare segnali comunicativi non verbali: nell’evoluzione
potrebbe essersi selezionata questa capacità dei membri femminili della specie,
in quanto essenziale per la sopravvivenza dei piccoli; abilità che si traduce, sul
piano comportamentale, in una maggiore attenzione al volto dell’interlocutore
nelle varie forme di comunicazione, e in una maggiore prontezza a riconoscere
emozioni e stati fisici o psicologici non espressi verbalmente.
Infine, è necessario sottolineare che, per quanto la mimica facciale resti il mezzo
privilegiato per l’espressione non verbale delle emozioni, anche le modificazioni
della voce e della postura del soggetto, insieme ai gesti, veicolano informazioni
sul suo stato emozionale. In una situazione di imbarazzo o di vergogna, per
esempio, il soggetto potrebbe abbassare il tono della voce e parlare in modo
esitante, con pause eccessive; potremmo decodificare il suo stato emozionale
anche osservando la sua tensione muscolare, la sua posizione contratta e non
rilassata, nonché alcuni tipici gesti di automanipolazione (toccarsi la faccia,
coprirsi la bocca, giocare con i capelli).
Regolazione sociale delle emozioni
Anche se l’espressione delle emozioni (verbale o non verbale) parte da un
substrato neurologico innato, ben presto intervengono fattori sociali, relativi alle
regole che in un determinato contesto culturale stabiliscono come e quando
vanno manifestate le emozioni, e quale tipo di controllo l’individuo debba usare
nelle varie situazioni. In altre parole, alle componenti delle emozioni elencate
sopra bisognerebbe aggiungere, almeno come possibilità, l’apprendimento
emozionale.
Già nei primi due anni di vita i bambini imparano abbastanza bene quali sono
le situazioni in cui l’espressione di una particolare emozione è considerata
adeguata. La paura, per esempio, insorge naturalmente, ma viene anche
insegnata dall’educazione: il bambino spontaneamente non avrà mai paura di
mettere le dita in una presa di corrente, ma imparerà che è una situazione in
cui i suoi genitori si spaventano, quindi, come tanti altri apprendimenti, questo
pericolo e la conseguente paura entrerà nel suo patrimonio di informazioni e di
piani di azione. Ma le regole sociali dettano anche chi può provare emozione e
in che circostanze.
Nella nostra cultura, per esempio, ai maschi è permesso piangere assai meno
che alle femmine: tutti possono piangere ai funerali, ma solo le femmine
Capitolo
6.4
94
possono farlo al cinema, o se la macchina non si mette in moto. Alcune
ricerche mostrano che, anche nell’educazione dei bambini di pochi anni, le
mamme sono più tolleranti verso il pianto delle femmine che dei maschi. Al
contrario, la rabbia è un’emozione più tollerata se espressa da un maschio che
da una femmina: sempre nell’esempio della macchina che non parte, se un
uomo si arrabbia e inveisce ad alta voce, questa sarà considerata una reazione
adeguata, non così se ad imprecare è una donna.
Con l’educazione si impara che piangere, ridere, arrossire, urlare di rabbia
o gridare di gioia sono comportamenti che in certe situazioni bisogna saper
reprimere, mentre in altre è fortemente opportuno saper esprimere. Avere l’aria
sorridente e soddisfatta mentre si fanno le condoglianze a qualcuno, arrossire
nel dire una bugia diplomatica o fare un urlo di gioia quando ci viene annunciata
l’assenza di un professore sono comportamenti che suscitano la riprovazione
sociale. L’autocontrollo della propria espressività emotiva, sia facciale sia
comportamentale, è anch’esso frutto dell’apprendimento emozionale.
Infine, come possibile via d’uscita ad un eccessivo controllo delle emozioni,
esistono perfino luoghi e tempi deputati alla libera espressione di sentimenti di
entusiasmo, ammirazione, aggressività, rabbia, trionfo o disperazione con toni
enfatici non accettabili in nessun’altra sede: sono, per esempio, alcuni grandi
riti collettivi come le partite di calcio e i concerti rock, ma anche, su scala meno
grandiosa, semplici competizioni come le gare sportive dilettantistiche, i giochi
di carte e perfino le estrazioni del lotto e la tombola. Si tratta sempre di situazioni
estremamente ritualizzate, a cui le persone partecipano con grande trasporto
affettivo, esprimendo e quasi mettendo in scena molte emozioni diverse.
Le regole di esibizione - come sono chiamate le regole sociali che determinano
il modo ed il tempo adatto a manifestare le varie emozioni - dipendono in gran
parte dalla valutazione cognitiva che viene fatta degli antecedenti (componente
cognitiva delle emozioni). Naturalmente non esiste regola al mondo che possa
sopprimere completamente l’attivazione fisiologica emozionale (l’autocontrollo
non impedisce, per esempio, di arrossire): queste regole servono semplicemente
a far sì che un soggetto attenui o, al contrario, enfatizzi una reazione emozionale
che ritiene non del tutto adeguata alla situazione del momento. Sono utili
anche, simmetricamente, per decodificare le espressioni emozionali altrui e
per valutare se sono adatte o meno, ricavandone informazioni sulle intenzioni
e sulle caratteristiche personali del soggetto osservato.
95
Influenza delle emozioni sui processi cognitivi
Le prestazioni cognitive su cui è stata verificata con più chiarezza l’influenza
delle emozioni sono l’attenzione e la memoria. Si è già detto che una
caratteristica importante dell’insorgere di un’emozione è la sua capacità di
interrompere gli altri processi cognitivi in atto, come se il normale funzionamento
psichico desse la precedenza ad uno stimolo nuovo, emozionale, che arriva
alla coscienza per una via privilegiata e richiama l’attenzione, ritirandola in
un certo modo dai compiti che il soggetto stava eseguendo in precedenza
per spostarla su altri. Questo comportamento risponde certamente ad un
meccanismo adattivo: come quella fisiologica, anche l’attivazione attentiva è
funzionale ad individuare rapidamente le migliori strategie di reazione, tuttavia
non sempre porta alla massima efficienza dell’organismo: se, per esempio,
stiamo guidando in autostrada e contemporaneamente ci arrabbiamo con la
persona seduta vicino a noi, la nostra attenzione, in precedenza concentrata
sulla guida, sarà distribuita tra due stimoli diversi, con un possibile danno per
l’efficienza del nostro comportamento.
Anche la memoria è influenzata dagli stati emotivi. Esistono due teorie relative
alla memoria che mettono in rapporto lo stato d’animo del soggetto con la
sua capacità di ricordare: la teoria dello stato-dipendenza e quella della
congruenza. La prima afferma che il materiale appreso quando il soggetto è
in un certo stato emotivo sarà ricordato meglio se il soggetto viene sottoposto
ad una prova di rievocazione mentre si trova in quello stesso stato emotivo,
piuttosto che in uno neutro o di segno opposto. La seconda teoria è abbastanza
simile, ma mette l’accento sul contenuto emozionale del materiale da ricordare
e sullo stato d’animo al momento della rievocazione: sarebbe facilitato il ricordo
di materiale della stessa polarità emozionale di quella indotta nel soggetto al
momento della rievocazione. Questa è certamente un’esperienza comune
nella vita quotidiana, per quanto riguarda la memoria autobiografica: se siamo
in un momento di depressione, ricorderemo più facilmente gli episodi tristi che
quelli allegri della nostra vita. Anche in questo caso, però, materiale di polarità
diversa non influenza allo stesso modo la prestazione di memoria: mentre
uno stato d’animo positivo ha certamente un effetto selettivo nel ricordo (nel
senso che un soggetto di buon umore ricorda meglio il materiale positivo di
quello negativo), l’effetto corrispondente dello stato d’animo negativo è meno
evidente.
Si può supporre, anche se non esistono ancora evidenti prove sperimentali,
un peggioramento generale della memoria quando il soggetto è in uno stato
Capitolo
6.5
96
d’animo depresso; a sostegno di questa ipotesi sta il fatto che i soggetti affetti
da depressione patologica hanno un reale calo di rendimento nella memoria,
che sembra dovuto anche ad una sfiducia nelle proprie capacità e ad una
rinuncia a sforzarsi per realizzare una buona prestazione.
A parte la relazione tra stato d’animo del soggetto e tipo di materiale da
ricordare, in generale si riscontra una tendenza - chiamata “ipotesi dell’ottimismo
mnestico” - a ricordare meglio materiale gradevole che sgradevole ed eventi
positivi piuttosto che negativi. Per quanto riguarda gli eventi autobiografici,
questo potrebbe avvenire perché rievochiamo e rielaboriamo il materiale positivo
più spesso di quello negativo, anche senza esserne pienamente consapevoli,
come una difesa per mantenerci in uno stato di benessere psicologico. Si tratta,
comunque, di una linea di ricerca non ancora sufficientemente approfondita.
È nell’esperienza di tutti noi il fatto che una moderata dose di ansia (cioè uno
stato d’animo sgradevole di paura generalizzata e non focalizzata su un oggetto
specifico) in occasione di un esame ha una funzione attivante e ci rende più
svegli e pronti a rispondere. Abbiamo, però, anche l’esperienza contraria di
casi in cui siamo sopraffatti dall’ansia, per esempio rendendo meno bene in
una situazione d’esame che in una normale interrogazione scolastica1.
1 Questi due fenomeni di segno contrario sono stati sintetizzati nella legge di Yerkes e Dodson, che prende nome dai suoi due autori, gli americani Robert M. Yerkes, uno studioso del comportamento animale, e J.D. Dodson, i quali, all’inizio del Novecento, svolsero una serie di esperimenti sui ratti la cui validità fu poi provata anche per i soggetti umani. Secondo la legge di Yerkes e Dodson, quando il compito cognitivo è abbastanza impegnativo, la prestazione è favorita da una moderata attivazione dell’ansia (per esempio, in una situazione d’esame è meglio essere ben svegli e leggermente eccitati che in una situazione soporifera), ma è danneggiata da un’eccessiva eccitazione ansiosa (che, sempre nella stessa situazione d’esame, può interferire con il normale svolgimento dei processi cognitivi).
97
Considerazioni conclusive
Vogliamo concludere questo capitolo riportando le parole del neurologo
Antonio R. Damasio, che all’emozione e al sentimento ha dedicato gran parte
dei suoi studi e delle sue opere più importanti:
“Senza eccezione, uomini e donne di ogni età, cultura, livello di istruzione e
professione hanno emozioni, pongono mente alle emozioni degli altri, coltivano
passatempi che manipolano le proprie emozioni e, in misura rilevante, regolano
la propria vita in funzione della ricerca di un’emozione, la felicità, evitando
le emozioni spiacevoli. A prima vista, le emozioni non paiono affatto una
caratteristica distintiva dell’uomo, poiché è chiaro che esistono moltissime
altre creature che provano emozioni in abbondanza. Tuttavia, vi è senz’altro
qualcosa di distintivo nel modo in cui le emozioni si sono collegate a idee
complesse, valori, principi e giudizi che soltanto gli esseri umani possono
avere, ed è su tale legame che si basa la sensazione legittima che l’emozione
umana sia speciale. L’emozione umana non riguarda soltanto il piacere
sessuale o la paura dei serpenti. Riguarda anche l’orrore di essere testimoni
della sofferenza e la soddisfazione di veder servita la giustizia; il piacere per il
sorriso sensuale di Jeanne Moreau e per l’intensa bellezza di parole e idee nei
versi di Shakespeare; la stanchezza del vivere nella voce di Dietrich Fischer-
Dieskau che canta Ich habe genug di Bach; i fraseggi a un tempo terreni e
ultraterreni di Maria João Pires in un brano di Mozart o di Schubert; riguarda
l’armonia che Einstein ricercò nella struttura di un’equazione. Di fatto, persino
la musica e il cinema ordinari scatenano in noi emozioni sottili, il cui potere non
andrebbe mai sottovalutato. Tutte queste cause di emozione, raffinate e non
tanto raffinate, e le sfumature emotive che inducono, sottili e non tanto sottili,
hanno sugli esseri umani un effetto che dipende dai sentimenti che queste
emozioni suscitano. È attraverso i sentimenti - i quali sono diretti verso l’interno
e privati - che le emozioni - le quali sono dirette verso l’esterno e pubbliche
- iniziano ad avere effetto sulla mente. Ma l’effetto completo e durevole dei
sentimenti richiede la coscienza, poiché è soltanto con l’avvento di un senso
di sé che l’individuo viene a conoscenza dei sentimenti che ha”.
A.R. Damasio, Emozione e coscienza, Adelphi,Milano, 2000, p. 51-52.
98
Questionario di autocontrollo
1) Da cosa è caratterizzata un’emozione?
2) Quali sono le componenti fondamentali per definire un’emozione?
3) Le emozioni hanno una base fisiologica innata?
4) Quali sono considerate le principali emozioni di base? Quali quelle
complesse?
5) Cosa comprende la componente cognitiva delle emozioni?
6) Quali sono gli antecedenti delle emozioni?
7) Qual è, all’interno del linguaggio non verbale, il ruolo dell’espressione delle
emozioni?
8) Le femmine hanno una maggiore capacità di riconoscere le emozioni
rispetto ai maschi. Perché?
9) Esiste una regolazione sociale delle emozioni?
10) Qual è la funzione delle regole?
11) Che cosa sostiene la teoria dello stato-dipendenza e quella della
congruenza?
12) Come influiscono sulla memoria il buonumore e l’ansia?
99
Normalità e norma sociale
La psicologia ci permette di capire chi è la persona normale, o meglio, che
cosa intendiamo quando parliamo di “normale” e di “normalità”. Cerchiamo
ora di capire questo concetto così importante nel determinare tanti nostri modi
di pensare e tanti nostri atteggiamenti nei confronti di noi stessi e degli altri.
In generale, nell’uso corrente, possiamo definire “normale” tutto ciò che
rientra dentro certe norme o regole (norma = regola generale cui tende ad
uniformarsi la maggioranza delle persone); quando, però, tentiamo di definire
queste regole, ci troviamo subito in difficoltà, perché spesso non riusciamo
a capire da chi siano state fatte. Inoltre, vediamo che spesso queste regole
riguardano certi ambienti, mentre non hanno valore in altri.
In alcune società è normale, per esempio, comportarsi in un determinato
modo, mentre lo stesso comportamento diventa anormale in altre società. In
certi luoghi, come le spiagge d’estate, è normale passeggiare seminudi, cosa
che apparirebbe quantomeno strana in città o in paesi di campagna. Inoltre,
il concetto di normalità, già così difficile e problematico, è stato sottoposto ad
una critica serrata di natura psicologica e sociale. Paradossalmente, potremmo
dire anche che si tratta di un concetto del tutto fumoso, perché ci dice un po’
tutto e nulla. Infatti, a seconda dei fattori che prendiamo in considerazione,
possiamo dire che ogni fenomeno rientra nella normalità oppure che niente è
normale.
Fattori che determinano la normalità
La normalità non è un concetto assoluto. Un medesimo gesto o atteggiamento
può divenire normale o non normale in funzione del “punto di vista” da cui lo
cogliamo e dei fattori che prendiamo in considerazione.
Per fattore si intende qualsiasi caratteristica della vita psichica, che vogliamo
porre sotto il nostro controllo, in grado di determinare un qualche cambiamento
Il concetto di normalità
Capitolo
7.1
Capitolo
7.2
100
nella vita interiore di un individuo. Prendiamo in esame diversi fattori: il fattore
frequenza, il fattore etico-sociale, il fattore individuale e il fattore storia.
Fattore frequenza
Secondo questa prospettiva un atteggiamento è “normale” se è comune a
molte, o alla maggior parte, delle persone. Quanto più noi asseriamo che un
fenomeno accade, tanto più siamo portati a dire che si tratta di un fenomeno
normale.
Se vediamo, ad esempio, una donna con il volto interamente coperto
giudichiamo tale comportamento non-normale poiché nella nostra società
pochissime persone lo adottano. Tuttavia, il medesimo abbigliamento, se noi
ci trovassimo ad esempio in alcuni paesi arabi, sarebbe molte frequente e
quindi “normale”.
Fattore etico-sociale
Secondo questa prospettiva un atteggiamento è “normale” se risponde ai
valori condivisi in una data società.
L’etica è la dottrina dei valori, che stabilisce, cioè, quali comportamenti l’uomo
deve assumere per perseguire il bene e quali deve rifiutare perché rappresentano
il male. Si tratta, perciò, di una valutazione molto rigida, assoluta, che non
ammette trasgressioni nel modo di comportarsi. Di conseguenza, sarà presente
una tipologia di educazione finalizzata a trasmettere i valori da perseguire.
Un esempio evidente è quello della poligamia, ovvero la possibilità per una
persona di sposare contemporaneamente più partner. In alcuni paesi tale pratica
è assolutamente “normale”, mentre in Italia viene considerata moralmente
inadeguata, in quanto contraria ai principi etici condivisi.
Alcuni sostengono una diversa concezione: i soli comportamenti non bastano
a stabilire la normalità di una persona. Questa si configura come un mosaico
di funzioni, di bisogni, di pensieri, di azioni, unici e non ripetibili, e perciò validi
in sé e per sé. Ed è questo ciò che conta: i valori dentro alle persone, non solo
quelli esteriori; dall’insieme degli uni e degli altri si determina una particolare
situazione di normalità.
101
Fattore individuale
Secondo questa prospettiva un atteggiamento è “normale” se, all’interno del
percorso di vita di una persona, vi sono specifiche motivazioni o situazioni che
lo giustificano.
Ad esempio, comunemente si ritiene “non normale” per un bambino di sette
anni camminare sempre appoggiandosi con le mani al muro. Tuttavia, se questo
bambino ha delle difficoltà motorie dalla nascita, questo comportamento risulta
normale per tutti coloro che conoscono la storia individuale del bambino.
“Ogni persona ha una storia alle spalle”, si dice, intendendo con ciò riferirsi a
quel bagaglio di esperienze su cui si innesta la vita di ogni giorno.
Ogni persona non può prescindere dal percorso che l’ha portata ad essere ciò
che oggi effettivamente è.
Fattore storia
Secondo questa prospettiva un atteggiamento è “normale” se è accettato e
condiviso dalle persone che vivono il medesimo periodo storico. Ad esempio, i
nostri nonni trovavano inaccettabile che le ragazze uscissero con gonne corte,
gambe scoperte o che si baciassero con i ragazzi in pubblico. Tutti questi
atteggiamenti oggi sono largamente diffusi e considerati “normali”.
La storia è una sequenza di cambiamenti, trasformazioni, evoluzioni.
Periodi diversi generano bisogni, situazioni, priorità differenti e, di conseguenza,
differenti valori e comportamenti.
Questa spiegazione ci aiuta a comprendere come non esista un concetto di
normalità sempre e comunque valido, ma variabile in funzione del punto di
vista che noi adotteremo sulla persona e i sui suoi comportamenti. Dunque,
piuttosto che etichettare un comportamento, o peggio la persona che lo mette
in atto, come “anormale”, dando dei giudizi a priori, dovremo sforzarci di
comprenderne il significato.
102
FATTORE AFFERMAZIONE
FrequenzaÈ normale ciò che è condiviso dalla maggior parte delle persone, in un determinato contesto.
Etico-socialeÈ normale ciò che risponde a delle regole etico-morali condivise
IndividualeÈ normale ciò che è giustificato da un determinato percorso di vita individuale.
StoriaÈ normale ciò che in un determinato periodo storico viene accettato e condiviso.
Anormalità e diversità sociale
Il termine “anormale” tende oggi ad essere sostituito con quello di “diverso”,
parola che meglio esprime una realtà oggetto di grande dibattito ed attenzione
sociale. Riferendoci invece più strettamente al concetto di “norma”, nel campo
sociale si usa anche il termine “deviante”, per indicare la persona che, con il
proprio comportamento, si allontana dalle norme stabilite in base agli accordi
che intendono regolare la convivenza sociale.
Questo termine, molto generico, lo troviamo indistintamente applicato con
riferimento a persone ammalate, quali i dipendenti, o a coloro che hanno
problemi di dipendenze patologiche (per esempio alcol o farmacodipendenza),
ma anche alle persone che semplicemente non hanno un comportamento
sessuale che segue una certa morale, alle persone che violano le leggi scritte
o anche le norme non scritte che regolano la vita quotidiana, come ad esempio
quelle relative all’educazione, ecc.
Per fare chiarezza, si può sostenere che le persone che violano le leggi, e
che quindi non rispettano i diritti degli altri, attualmente vengono definite
“antisociali”, mentre quelle devianti sono perlopiù quelle che in un gruppo o
in una comunità inquietano per la loro originalità e per la facilità con cui non
considerano le convenzioni, giuste o sbagliate che siano, stabilite da molto
tempo (tradizioni) o anche recenti. A tal proposito, basta pensare come il solo
fatto di vestirsi in un certo modo, piuttosto che in un altro, magari solo per
abitudine, possa di per sé essere sufficiente per far considerare una persona
come “deviante” o pericolosa.
Capitolo
7.3
103
Utilità pratica del concetto di normalità
Vorremmo concludere questo capitolo dedicato al concetto di normalità con
una riflessione connotata da un aspetto pratico. Vediamo come la parola
“normalità” porti a molte disquisizioni teoriche e come poi sia difficile applicarla
a persone, avvenimenti o situazioni. Ci sembra giusto dire che ognuno debba
utilizzarla con molto equilibrio e molta cautela. Essa non è del tutto inutile, anzi
può aiutare concretamente a distinguere fra serenità e sofferenza, fra bisogni
diversi per natura e intensità, fra domande alle quali è facile rispondere ed altre
più difficili da comprendere oltre che da soddisfare. Usata invece come criterio
per porre in risalto negativo certe persone rispetto ad altre, finisce per essere
puro strumento di emarginazione.
Con queste precisazioni si può tenere presente il concetto “normalità” ed
utilizzarlo positivamente. Negarlo invece completamente può far correre dei
rischi, un po’ come succedeva anni fa, quando alcuni sostenevano che tutte
le persone sono uguali.
Riteniamo utile, da parte dell’operatore, l’adozione di un lessico comune, una
terminologia tecnica i cui contenuti siano stati preventivamente concordati.
Potrà sembrare una questione di poco conto ma, come emerge anche in
altri punti del testo, è indispensabile riuscire a strutturare un vocabolario con
cui costruire tutta una serie di contenuti e di definizioni. La normalità non è
e non può essere un concetto assoluto. Occorre perciò raggiungere una
definizione di volta in volta diversa in relazione ad una serie di fattori. Il rischio
di partire da considerazioni preconcette è elevato. Esse vanno affrontate ed
eliminate, per non determinare una serie controproducente di operazioni inutili,
se non anche lesive della personalità degli utenti.
Capitolo
7.4
104
Considerazioni conclusive
Il concetto di “normalità” appare problematico e di difficile definizione. Esso è
influenzato dai fattori che si prendono in considerazione e dai criteri ai quali si
fa riferimento. Esistono, infatti, criteri molto differenti tra loro, per certi aspetti
anche indipendenti l’uno dall’altro, come quello della frequenza statistica, della
norma sociale, delle caratteristiche particolari delle persone, rispetto ai quali noi
definiamo la normalità. Questo concetto rappresenta, per certi aspetti, un’arma
a doppio taglio, in quanto può essere utilissimo per discriminare e riconoscere
condizioni patologiche, ma, se utilizzato male, rappresenta uno strumento di
emarginazione. Sebbene esso venga usato spesso ed il suo contenuto sia
dato per scontato, è necessario che l’operatore ripensi continuamente al suo
significato
105
Questionario di autocontrollo
1) Che cosa s’intende per normalità?
2) Quali sono i criteri per definire la normalità? Spiegali provando a fare degli
esempi tratti dalla tua esperienza personale.
3) Che cosa s’intende per atteggiamento deviante?
4) Che atteggiamento è opportuno adottare per evitare di giudicare una
persona “normale” o “non normale”?
5) Quale risvolto pratico può avere la riflessione sulla normalità?
106
Che cosa s’intende per personalità e identità personale
In un testo che intende mettere a fuoco i principali contenuti della psicologia,
non possono mancare riferimenti al concetto di personalità. Nel Capitolo 5
abbiamo accennato al concetto di “persona”, riferendoci con tale termine
all’uomo come unità individuale, responsabile socialmente e fonte di diritti e di
doveri. La parola “persona” indica quindi un oggetto dell’indagine psicologica,
ma essa costituisce fondamentalmente il centro di interesse della filosofia.
Il termine “personalità” ci introduce maggiormente nella psicologia. Con
esso intendiamo riferirci all’insieme dei modi di essere dell’uomo, a ciò che
lo caratterizza e che lo distingue da un altro uomo. La personalità, quindi,
si può definire come una disposizione ad atteggiamenti e comportamenti
che caratterizza stabilmente un individuo; è cioè quell’insieme di opinioni,
sentimenti, motivazioni, atteggiamenti e comportamenti che sono in lui
abbastanza costanti, e che lo rendono riconoscibile e diverso dagli altri.
Di qualcuno, per esempio, possiamo dire, basandoci su una prolungata
osservazione del suo modo di agire, che è un tipo amichevole (o egoista o
freddo o indipendente o spiritoso). Con ognuna di queste descrizioni parziali,
noi individuiamo una disposizione personale (cioè sua, che lo differenzia da
un altro), stabile nel tempo e valida in molti contesti: perciò non diciamo che
questa persona ci ha trattati in modo amichevole, ma che “è” amichevole, cioè
che presumibilmente tratta tutti in modo amichevole.
Gli atteggiamenti indicati nell’esempio possono essere considerati “tratti”
della personalità, cioè dimensioni secondo le quali ad un individuo può
essere attribuita stabilmente una certa disposizione. È importante distinguere
fra “tratto” e “stato”: il primo è una disposizione stabile, che l’individuo esprime
con atteggiamenti e comportamenti nelle situazioni appropriate, mentre il
secondo è una disposizione temporanea.
Per restare nell’esempio precedente, qualcuno può non essere amichevole
come disposizione permanente, ed essere diverso sotto questo aspetto da
altri individui che invece lo sono: tuttavia, in una particolare situazione e con
una particolare persona può sentirsi (e manifestarsi) amichevole. Sarebbe
Identità personale
Capitolo
8.1
107
però un errore prendere questo atteggiamento momentaneo per una sua
caratteristica stabile. In questo senso la psicologia della personalità è molto
vicina alla psicologia sociale, in quanto l’analisi dell’ambiente (fisico e umano)
in cui vengono osservati i comportamenti è essenziale al riconoscimento
dell’influenza di disposizioni e motivazioni personali rispetto all’influenza della
situazione esterna.
Non tutti gli autori che si occupano della personalità sono d’accordo su due
problemi principali:
› il numero delle dimensioni significative per descrivere la personalità (si
va da teorie che postulano due o tre dimensioni principali ed altre che
individuano addirittura migliaia di etichette di tratti);
› il fatto che una caratteristica della personalità debba essere
necessariamente stabile durante la vita (rispetto agli eventi esterni
dell’esistenza, o al semplice sviluppo e invecchiamento, oppure ad un
intervento psicoterapeutico finalizzato ad un cambiamento).
Vogliamo sottolineare che nella parola “personalità” rientra tutta la persona,
con tutti i suoi aspetti collegati fra di loro. Li distingueremo ora solo per motivi
di studio, in quanto essi nella realtà non sono distinguibili facilmente.
Questo fatto è ben chiarito nel concetto di unità e identità personali. Con la
parola “unità” intendiamo sottolineare come una persona agisca sempre con
tutta se stessa, non come una somma di elementi sovrapposti.
Con la parola “identità” intendiamo sottolineare come una persona colga la
propria unità nel tempo. Nonostante tante cose cambino continuamente fuori
e dentro una persona, essa coglie sempre se stessa con la propria unità. In
altri termini, l’identità personale si può definire come l’unità della storia di una
persona.
Ora, se tutto l’uomo rientra nel termine “personalità”, quali sono gli aspetti che
più la caratterizzano?
108
La coscienza di sé
Con questo termine indichiamo tutto ciò che una persona ha presente di sé,
dei propri sentimenti, del proprio corpo1. Ognuno di noi, entro certi limiti, può
pensare di sé come se questo se stesso fosse un altro, cercando quasi di
vedersi al di fuori e al di sopra di se stesso. Ma può anche pensare di sé in termini
più sociali, per esempio quello che uno è rispetto alla propria professione, alla
propria famiglia, alla propria religione, alle proprie idee, ai propri gusti. Questa
coscienza di sé non è innata, ma si viene formando lentamente con il progredire
dell’età ed è più completa nel periodo della maturità.
Il proprio corpo
Il corpo è un elemento della personalità non solo per come è, ma anche
per come viene percepito dalla coscienza. Le caratteristiche fisiche non
solo estetiche, ma anche funzionali, le capacità e le abilità, le qualità come
la prestanza, la bellezza, l’armonia fisica, sono componenti essenziali della
personalità. Il corpo entra nella personalità proprio per quello che una persona
pensa di sé, immagina di essere, si rappresenta nella mente.
Soltanto alla luce della totalità della persona è possibile comprendere e valutare
il significato umano del corpo e delle azioni corporali. Il significato “umano”
del corpo viene dal fatto che è il corpo di una persona umana: dimensione
di una persona che condivide la sua sorte con quella dell’organismo stesso.
In questo senso, il significato umano del corpo non viene da una qualche
interiorità chiusa, ma da tutta la persona umana nelle sue relazioni e aspetti
costitutivi. Quali saranno, quindi, i significati umani fondamentali del corpo alla
luce di questa totalità dell’esistenza umana? Essi saranno sostanzialmente tre:
1. riguardo alla singola persona che deve vivere la propria esistenza nel
corpo e attraverso il corpo, il significato fondamentale del corpo è di
Capitolo
8.2
1 La nozione di coscienza meriterebbe una trattazione più approfondita, per la complessità e l’importanza che questo termine riveste nella storia del pensiero occidentale. Qui ci limiteremo solo a ricordare che, nel Novecento, la nozione di coscienza, nel senso di consapevolezza di sé e degli oggetti, ai quali essa si rivolge, è importante soprattutto in E. Husserl e poi in alcune varianti dell’esistenzialismo, per esempio in Karl Jaspers (1883-1969) e in Jean Paul Sartre (1905-1980). Alla certezza interiore come pretesa via d’accesso diretto alla verità vengono oggi contrapposti i metodi propri delle scienze, teoriche o empiriche. In psicologia, il punto estremo di questa critica è rappresentato, come abbiamo visto, dal Comportamentismo, il quale, proprio sul terreno dei fenomeni psichici, rifiuta le pretese conoscitive del ricorso all’interiorità e propone, in alternativa, una metodologia fondata sui dati oggettivamente osservabili, nella convinzione che l’introspezione sia una fonte di autoinganno. L’introspezione, quale modo di conoscenza dei fenomeni psichici, è contestata, su un altro versante, dalla Psicoanalisi, secondo la quale la genesi profonda di tali fenomeni sfugge alla normale consapevolezza del soggetto.
Capitolo
8.3
109
essere luogo di attuazione e di realizzazione dell’uomo;
2. riguardo agli altri uomini, verso i quali la persona è fondamentalmente
orientata, il corpo ha come significato fondamentale la comunione con
altri. E ciò da un triplice punto di vista: il corpo è fondamentalmente
dipendenza; esso è un luogo di incontro con l’altro; esso è luogo e
mezzo di riconoscimento dell’altro;
3. riguardo al mondo materiale e umano, al quale ogni persona appartiene
in forza della stessa unità con il corpo, il corpo è fondamentalmente
la sorgente dell’intervento umanizzante nel mondo, origine della
strumentalità e della cultura.
Il carattere
Il carattere è un aspetto della personalità che è in parte legato a fattori
costituzionali, in parte determinato dalle influenze ambientali.
Anche i bambini appena nati hanno già un loro carattere, determinato da un
bagaglio ereditario che li fa essere da subito differenti l’uno dall’altro. Infatti,
ci sono bambini che sono più facilmente consolabili di altri, più interessati
all’ambiente di altri, che dormono e si alimentano seguendo ritmi anche molto
diversificati: l’insieme di questi aspetti individuali presenti fin dalla nascita è
definito temperamento.
Negli adulti il carattere ci permette di distinguere una persona da un’altra sulla
base del suo comportamento. Infatti, noi definiamo come carattere quella
parte di noi che si manifesta soprattutto attraverso le nostre azioni. Definiamo
poi tratto di carattere quel particolare modo che abbiamo di comportarci,
quando ci troviamo in situazioni tra di loro simili. Così distinguiamo, a seconda
del carattere, le persone generose, gentili, calme, rigide, colleriche, avare,
puntigliose, ecc. Con questi aggettivi intendiamo definire il modo con cui esse
affrontano spesso le situazioni della vita e intendiamo che questo modo è
abituale per loro. Il carattere ha la funzione di permettere il rapporto con il
mondo esterno attraverso una sorta di compromesso in cui siano presenti i
nostri bisogni e le esigenze degli altri.
Riprendendo un concetto di Wilhelm Reich (1897-1957) - un importante
psicoanalista che si occupò del carattere oltre ad essere stato uno dei primi
studiosi ad introdurre il metodo sperimentale nello studio delle componenti
psicologiche - possiamo dire che il carattere costituisce una specie di corazza
Capitolo
8.4
110
difensiva fra il mondo interno ed il mondo esterno di una persona. Quando
questa corazza è troppo rigida, oppure presenta maglie troppo larghe,
possiamo comportarci in modo da renderci molto difficile lo stare con gli altri
ed essere vissuti da loro con disagio.
Molti studiosi hanno studiato il carattere, alcuni hanno anche asserito che esso
non è distinguibile dalla personalità; questi studiosi hanno anche proposto
molte tipologie, diverse tra loro a seconda dell’orientamento seguito. Così,
alcuni hanno studiato i tratti di carattere che erano in diretta relazione con
i bisogni delle persone, altri invece i tratti che più avevano attinenza con le
competenze sociali, altri ancora i tratti che richiamavano aspetti fisici, altri
infine i tratti correlati al giudizio morale2. Tuttavia, quando si definisce un tipo di
carattere rispetto ad un altro, si deve stare attenti a non essere semplicistici,
altrimenti si finisce per cadere nello stereotipo e nell’errore. Quando certi tratti
di carattere si accentuano troppo, si può finire per cadere nel patologico,
intendendo con questa parola quella condizione che è fonte di sofferenza per
se stessi e per gli altri.
Le funzioni intellettive
Le funzioni intellettive che formano il patrimonio di una persona sono l’intelligenza,
la memoria, la capacità di intuizione (insight), l’immaginazione, la creatività, la
capacità di entrare in rapporto con gli altri e di identificarsi con loro (queste
ultime rappresentano più che altro competenze sociali), ecc. Come si vede, si
tratta di funzioni che si riferiscono a molteplici aspetti della vita psichica in modo
non troppo distinguibile fra loro e che maturano con l’età e con l’esperienza.
Esse rendono una persona completa, permettendole di soffrire e di gioire, di
provare simpatia e antipatia, di accettare e di opporsi, di dare e di ricevere,
determinano la quantità e la qualità dello scambio con gli altri, intervenendo
tutte insieme ogni volta che ci sia un incontro. Queste funzioni sono anche in
relazione con la qualità delle azioni ed hanno un valore morale nella misura in
cui contribuiscono a creare certi comportamenti, a stabilire dei limiti, a tenere
conto degli altri. Ma cerchiamo di prendere in esame separatamente queste
2 Recentemente si è sviluppata la tendenza comune, per quanto riguarda le teorie dei tratti, a prenderne in considerazione un numero ridotto, in particolare quelli che si sono rivelati, anche alla luce di analisi statistiche, più stabili e coerenti, ovvero i cinque chiamati “Big Five”: 1) estroversione/introversione; 2) amicalità/ostilità; 3) coscienziosità; 4) stabilità emotiva/nevroticismo; 5) disponibilità alle esperienze/chiusura. Questa posizione è nata anche come critica all’eccessiva frammentazione dell’analisi della personalità nelle teorie basate su molti tratti, e si è rivelata proficua anche per lo studio dello sviluppo della personalità, dall’infanzia all’età anziana. In particolare, una tendenza in atto è quella di cercare, in questi tratti, dei predittori del benessere psicologico nell’invecchiamento: un primo dato abbastanza certo è, per esempio, che le persone che si collocano in un punto sufficientemente alto della scala di estroversione hanno una maggiore probabilità di mantenere uno stato psicologico soddisfacente nell’età anziana.
Capitolo
8.5
111
differenti funzioni, in modo da precisarne le caratteristiche.
L’intelligenza è, si può dire sinteticamente, la capacità di risolvere in modo
rapido e adeguato dei problemi posti da situazioni nuove o vissute come
nuove. L’intelligenza tiene quindi conto di una serie di esperienze precedenti,
elabora una serie di dati, si adatta fattivamente alla realtà ed escogita risposte
personali, utili e produttive.
L’intelligenza si avvale quindi della memoria, intesa come capacità di fissare
e di rievocare tracce mnestiche. La memoria permette la continuità della vita
psichica attualizzando il passato: i ricordi vengono elaborati e condizionano
in modo diretto il comportamento. Moltissime esperienze vissute dalla mente
vengono dimenticate: l’oblio, infatti, cancella tutto ciò che non serve, che
non è utile all’attività dell’individuo o che è vissuto come spiacevole. La teoria
psicoanalitica elaborata da Sigmund Freud sostiene che l’oblio è come un
ostacolo che impedisce al ricordo di risalire a livello di coscienza. Si ipotizza
l’esistenza di un meccanismo psichico detto rimozione, il quale respinge
nell’inconscio tutte le rappresentazioni, i ricordi spiacevoli o comunque in urto
con le norme morali dettate dal Super-Io.
Un altro aspetto della vita psichica è la capacità di insight; la si può definire
come una sorta di rivelazione improvvisa, un contatto diretto, essenziale
con un oggetto. Si tratta di una scoperta per niente eccezionale, anzi la
possiamo ritenere abbastanza comune e può apparire attraverso alcune
acute osservazioni, attraverso taluni pensieri estremamente originali; tutti noi la
possediamo, anche se sviluppata in modi differenti.
L’immaginazione, invece, può essere considerata come la capacità di
rappresentare in modo sintetico un oggetto o una costruzione della fantasia.
Si può avere un’immaginazione di tipo imitativo oppure un’immaginazione
creativa, che è quella che trasforma i dati in complesse strutture spesso del
tutto nuove, come per esempio un’opera d’arte o un’invenzione. Della creatività
hanno parlato molti studiosi, i quali hanno tentato in vari modi di darne una
definizione, di coglierne gli aspetti più specifici, caratterizzanti, e di suggerire
indicazioni metodologiche al fine di educare alla creatività.
Non è facile dire che cosa sia la creatività, ma possiamo comunque elencare
brevemente alcune caratteristiche della personalità creativa. In genere, le
persone creative sono anche molto curiose, si interessano di tutto e vogliono
entrare nel merito di tante cose, manifestano una grande fiducia nei propri
mezzi e cercano di non ripetersi mai: infatti il loro modo di atteggiarsi risponde
ad esigenze di grande originalità. Dispongono di notevoli doti inventive, di
un’agilità mentale non comune, per cui colgono i dati emergenti con la rapidità
112
di un flash e li sanno elaborare, reinventare e valorizzare.
Come tutto questo avvenga e perché avvenga, non è facile a dirsi. A seconda
dell’emergere dell’uno o degli altri aspetti presentati abbiamo perciò personalità
inventive, immaginative, creative, ecc.
La vita affettiva
Le funzioni intellettive sono sostenute dalle caratteristiche della vita affettiva.
Le costruzioni della mente possono essere cariche di vitalità e calore, oppure
di freddezza e spente, di libertà nell’esprimersi oppure di grande controllo,
di ricchezza di emozioni, oppure di povertà. Con questo vogliamo dire che
le funzioni intellettive si alimentano dell’energia della vita affettiva, e questa
viene incanalata a sua volta e riceve forma e costruttività proprio dalle funzioni
intellettive. Nella personalità, intelletto e sentimenti formano un unico dato,
ciascuno influendo sull’altro per svilupparlo o per soffocarlo. Intelletto e
sentimenti permettono, per così dire, di conoscere con amore e di amare con
conoscenza. Quando la vita affettiva e quella dell’intelletto si separano, allora
l’uomo può vivere con grande sofferenza, sviluppando importanti forme di
psicopatologia. In modo molto semplice, possiamo rappresentare graficamente
questi aspetti secondo lo schema sotto riportato.
Capitolo
8.6
VITA AFFETTIVA
COSCIENZA
DI
SÉ
CORPO
VIT
A
INT
ELL
ET
TU
ALE C
AR
ATT
ER
E
PERSONALITÀ
113
Nell’uomo esistono varie componenti - la vita intellettiva, la vita affettiva,
il carattere, il corpo - ciascuna delle quali ha influenza sulle altre. Dalla
particolare combinazione delle singole componenti e dalle interrelazioni che
ne conseguono, si viene a determinare la coscienza di sé. In pratica quello
che ciascuno pensa di essere, aspira ad essere, si impegna di essere e lascia
apparire.
Teorie ingenue della personalità
Per quanto riguarda la personalità, esistono negli individui delle teorie ingenue,
basate sul senso comune, che utilizzano in genere stereotipi per semplificare la
realtà. Siamo infatti in grado di muoverci più facilmente nel mondo, se riusciamo
a prevedere i comportamenti degli altri in base a certe loro caratteristiche
stabili. Da una persona amichevole ci aspettiamo che sia gentile con un nuovo
amico che le presentiamo, da uno studente testardo che faccia gli esami nei
tempi stabiliti e da un tipo antisociale che rifiuti l’invito ad una festa. Anche in
questo caso, meno conosceremo una persona, più i tratti che le assegneremo
saranno generali e meno saranno predittivi (cioè capaci di predire il suo
reale comportamento). Quando poi attribuiamo tratti di personalità ad intere
categorie (sessuali, sociali, etniche), il processo di semplificazione del pensiero
induce facilmente il pregiudizio (secondo cui, per esempio, le donne sono
cattive guidatrici, gli ebrei sono intelligenti, i meridionali sono cordiali, gli anziani
sono saggi, ecc.).
Un altro tipo di teorie ingenue della personalità, molto radicate storicamente,
è quello che basa la previsione di atteggiamenti e comportamenti di una
persona sul periodo astronomico della sua nascita: le persona nate nel segno
zodiacale della Bilancia sono equilibrate, quelle dell’Ariete sono energiche e
passionali, quelle dei Gemelli sono ambivalenti, e così via. L’idea sottostante
è che la personalità sia qualcosa di biologicamente determinato dalla nascita,
e che le influenze ambientali siano più o meno insignificanti. Una buona
teoria psicologica della personalità deve invece rispondere ad almeno alcune
questioni fondamentali: spiegare perché una persona è diversa dall’altra;
chiarire le motivazioni del comportamento individuale, in funzione della sua
prevedibilità; fornire possibilmente un quadro teorico che permetta anche la
comprensione degli arresti dello sviluppo, delle involuzioni e dei disturbi della
personalità, e quindi delineare anche le possibilità di intervento e di cura.
Capitolo
8.7
114
Considerazioni conclusive
La personalità definisce una persona nella sua unità e nella sua identità, nel
suo essere e nel suo modo di essere, ora e nel tempo. Comunemente, la
personalità viene definita in base a certi tratti più o meno accentuati, tuttavia
in essa è compreso tutto l’uomo, con il suo corpo, con il suo carattere, con la
sua capacità di essere se stesso, presente a se stesso. La personalità risulta da
tutte queste componenti, non sommate ma interagenti fra di loro. I disturbi della
personalità compaiono proprio quando queste componenti tendono ad agire in
modo separato o molto rigido e stereotipato o quando tendono ad avere vita
autonoma l’una dall’altra.
115
Questionario di autocontrollo
1) Che cosa s’intende con il termine “personalità”?
2) Quali fattori concorrono nella formazione della personalità?
3) Che cos’è il carattere?
4) I bambini hanno già il loro carattere?
5) Che cosa si intende per “coscienza di sé”?
6) In che senso il corpo contribuisce alla formazione della personalità?
7) Quale rapporto esiste tra le funzioni intellettive e la vita affettiva?
8) Esponi le caratteristiche di alcune funzioni intellettive.
9) Quando una persona si dice creativa?
10) Esponi alcune teorie ingenue della personalità.
116
Le malattie mentali
Esistono moltissime malattie mentali, ognuna con le proprie caratteristiche,
diagnosi, prognosi, gravità, andamento nel tempo, ecc.
Risalgono alla fine del XIX secolo i primi tentativi fatti dagli psichiatri di classificare
queste malattie (chiamate attualmente anche disturbi), di dare loro un nome
specifico in modo da differenziarle le une dalle altre. Classificare le malattie
mentali è da sempre un compito arduo. In medicina, infatti, tendenzialmente
alcuni sintomi corrispondono ad una determinata malattia e viceversa ogni
malattia o condizione patologica si manifesta in tutti gli individui con sintomi
tendenzialmente sempre uguali. In psicopatologia, psichiatria e soprattutto in
psichiatria infantile spesso non esistono sintomi “patognomici”, cioè sintomi
la cui evidenza sia di per sé indicativa della presenza di una determinata
malattia. Una stessa malattia o uno stesso disturbo, infatti, si può manifestare
in persone diverse con sintomi relativamente differenti, oppure con sintomi che
nella stessa persona cambiano, si modificano nel tempo. Il tutto si complica
in età evolutiva, nei bambini e negli adolescenti, quando è ancora più difficile
collegare automaticamente sintomi e malattie.
I bambini e gli adolescenti, infatti, possono, durante il loro iter evolutivo,
produrre transitoriamente sintomi anche importanti, che però possono non
essere indici di uno stato o di una condizione psicopatologici (ad esempio, nei
bambini piccoli sono frequenti e assolutamente normali piccoli rituali prima di
addormentarsi oppure paure collegate al buio, agli animali, ecc.). Tornando al
problema della classificazione di queste malattie, è importante sapere che fino
a tempi recenti venivano elaborate numerose classificazioni in Paesi diversi,
a causa della diversa estrazione degli studiosi (ricercatori e clinici) e della loro
difficoltà a comunicare con comunità scientifiche diverse da quella nella quale si
erano formati. Succedeva, di conseguenza, che condizioni patologiche uguali
venivano chiamate con nomi diversi e ciò non poteva che creare confusione
e difficoltà di comunicazione tra gli specialisti, oltre che dare un’immagine non
chiara della psicopatologia e della psichiatria nei confronti delle altre discipline
ritenute più scientifiche.
Elementi di psicopatologia
Capitolo
9.1
117
Attualmente, la maggior parte degli specialisti del settore utilizza come
riferimento la classificazione dei disturbi mentali contenuta nella classificazione
generale di tutte le malattie ICD-10, formulata e periodicamente rivista ed
aggiornata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Questa classificazione contiene un capitolo dedicato alle malattie mentali,
capitolo rivisto e notevolmente ampliato dall’Associazione Americana di
Psichiatria (APA), che lo pubblica con il nome di DSM (Manuale Diagnostico
e Statistico dei Disturbi Mentali).
In questo testo si farà riferimento, anche se non esclusivamente, a questa
classificazione ed alla terminologia in essa utilizzata, cercando così di fornire
all’operatore un’occasione di apprendimento aggiornata e universalmente
comprensibile.
Per convenzione e semplificazione, si usa suddividere le malattie mentali in
disturbi dell’età evolutiva (infanzia e adolescenza), dell’età adulta e dell’età
senile.
Disturbi caratteristici dell’età evolutiva
PsicopatologieLe problematiche descritte in questo paragrafo sono vere e proprie patologie
che caratterizzeranno tutta la vita della persona.
Dall’autismo e dal ritardo mentale non è possibile “guarire”. È però possibile
trovare strategie e percorsi che permettano di convivere con queste patologie
e di ridurre in parte alcuni sintomi.
Il ritardo o insufficienza mentale
Il ritardo mentale (in altri tempi chiamato anche debilità o insufficienza mentale)
è una malattia caratterizzata dalla presenza di un’intelligenza al di sotto della
norma, da un disadattamento sociale e da un’insorgenza in età inferiore ai
18 anni. Ciò significa che patologie che inducono un’insufficienza mentale in
soggetti che hanno superato i 18 anni e che fino a tale età non hanno evidenziato
alcuna difficoltà non sono da ricondurre al ritardo mentale. L’intelligenza va
intesa come capacità di adattamento (J. Piaget). Come abbiamo visto, i
tentativi di misurare l’intelligenza risalgono ai primi anni del XX secolo, quando
in Francia furono ideati, ad opera di A. Binet e T. Simon, i primi strumenti
Capitolo
9.2
9.2.1
118
(test) per misurare le funzioni che compongono l’intelligenza. In quel periodo,
infatti, il Ministero della Pubblica Istruzione voleva incominciare a formulare dei
programmi rieducativi e didattici per bambini ritardati, programmi che fossero
però differenziati e che tenessero conto delle differenze e delle caratteristiche
di ciascun bambino. La possibilità di misurare l’intelligenza di ciascuno di loro
con degli strumenti attendibili permetteva di discriminare, ad esempio, tra un
bambino con un lieve ritardo mentale ed un bambino con ritardo moderato
o grave, operazione che favoriva la creazione di programmi riabilitativi ed
educativi differenziati e specifici. Da allora la misurazione dell’intelligenza ha
potuto avvalersi di strumenti più scientifici, attendibili, fino ad arrivare alla
situazione attuale, in cui le scale Wechsler sono ritenute in tutto il mondo lo
strumento più utilizzato ed oggettivo.
La malattia Ritardo Mentale implica, oltre ad una intelligenza al di sotto della
norma, ovvero un Q.I. inferiore a 70, anche un disadattamento del soggetto.
Ciò si riferisce all’incapacità dell’individuo di far fronte in termini sufficienti ad
un’attività scolastica e/o lavorativa, alla sua incapacità di essere autonomo,
di sbrigare le normali faccende e compiti della vita quotidiana, di sposarsi o
di avere una relazione stabile, di comunicare, di saper fare i conti, le spese, di
sapersi amministrare, ecc. Queste capacità nei soggetti con Ritardo Mentale
risultano compromesse in vari gradi, a seconda del grado di gravità.
Il Ritardo Mentale lieve corrisponde ai soggetti con Q.I. compreso tra 50
e 70. Tra tutti i ritardati, quelli con ritardo lieve sono i più numerosi. Si tratta
di persone relativamente autonome, capaci di mantenere un semplice lavoro
e che, con adeguati sostegni, possono arrivare fino ad un apprendimento
scolastico corrispondente alla V elementare o al massimo alla I media inferiore.
Il Ritardo Mentale moderato (medio) corrisponde ad un Q.I. compreso tra
35 e 50. In questo caso si parla di persone che possono arrivare fino ad un
apprendimento scolastico corrispondente alla III elementare.
Con grandi aiuti possono lavorare ed imparare a prendersi cura di se stessi.
Devono vivere e lavorare in strutture protette.
Il Ritardo Mentale grave corrisponde ad un Q.I. compreso tra 20 e 35. Si
tratta di persone con importanti difficoltà motorie e scarsissime capacità
comunicative. Possono imparare l’alfabeto ed alcune parole essenziali per la
sopravvivenza.
Il Ritardo Mentale gravissimo corrisponde ad un Q.I. inferiore a 20 e ad una
quasi totale assenza di capacità motorie e comunicative.
119
Ritardo mentale
lieveQ.I. 70-50
Buona autonomia nelle attività quotidiane. Possibilità di inserimento lavorativo e vita autonoma con parziale aiuto esterno. Età mentale 11-12 anni.
Ritardo mentale
moderatoQ.I. 50-35
Discreta autonomia. Possibilità di inserimento lavorativo e vita parzialmente autonoma in strutture protette. Età mentale 8-10 anni.
Ritardo mentale
graveQ.I. 35-20
Linguaggio comunicativo molto ridotto, poca autonomia, il tutto associato a importanti difficoltà motorie.
Ritardo mentale
gravissimoQ.I. inferiore a 20
Nessuna autonomia, ridottissime capacità motorie e comunicative.
I soggetti con Ritardo Mentale hanno spesso anche altre condizioni patologiche
che si sommano alla condizione di ritardo. Le patologie più frequenti sono di
tipo neurologico, neuromuscolare, visive, uditive, la sindrome di Down, ecc.
A livello del comportamento, i soggetti con ritardo mentale hanno spesso poca
autostima, scarsa tolleranza alle frustrazioni, passività, tendenza ad essere
dipendenti da un’altra persona, difficoltà a controllare gli impulsi sessuali ed
aggressivi. Un bambino con ritardo può evolvere in modi assai differenti, a
seconda delle sue condizioni fisiche (se ha o meno un sistema nervoso
integro o compromesso) e delle opportunità ambientali (famiglie con genitori
che stimolano lo sviluppo intellettivo, scuole con programmi e insegnanti
adeguatamente preparati). Questi soggetti hanno anche un’alta probabilità di
sviluppare altre malattie mentali, tra cui disturbi depressivi e della personalità.
Sono inoltre persone che, a causa del loro ritardo, possono essere facilmente
sfruttate, maltrattate e abusate sessualmente.
Le cause del ritardo mentale sono molteplici, diversamente interagenti e
indicativamente riconducibili a due ordini di fattori:
› fattori di ordine fisico (compromissione del sistema nervoso);
› fattori di ordine psicosociale (ambiente di vita poco stimolante).
Non bisogna tuttavia credere che la persona con ritardo mentale sia una “eterna
bambina” o comunque una persona sempre bisognosa di aiuto in tutto. Le
120
persone con ritardo mentale possono aspirare, se aiutate e sostenute, ad una
buona qualità di vita, ad una vita relazionale soddisfacente e ad una certa
autonomia, se pur in funzione del livello del ritardo.
Spesso le persone con ritardo mentale lieve o moderato sono consapevoli
della propria situazione e delle difficoltà che esperiscono quotidianamente e
soffrono profondamente della stigmatizzazione sociale che viene loro imposta.
Riportiamo un testo scritto da un ragazzo con sindrome di Down, che evidenzia
la sua consapevolezza rispetto alla propria situazione.
“Come sapete ci sono tanti ragazzi e insieme a loro ci sono i “Down”, e devo
dire che sono dei bravi ragazzi, ma non fanno male a nessuno, io ne faccio
parte dell’aipd e vi garantisco che non siamo stupidi, ma intelligenti.
Il fatto di essere “Down” non vuol dire che siamo imbecilli come voi pensate,
ma noi siamo l’esatto contrario, sappiamo bene quali sono i nostri difetti e gli
errori e qualche volta ci correggiamo da soli, anche se qualche consiglio ci
farebbe bene averlo dagli altri che ne sanno più di noi...”1.
L’AIPD (Associazione Italiana Persone Down) ha condotto un’interessante
ricerca sui luoghi comuni che vengono associati alla sindrome di Down, nello
sforzo di sfatarli e proporre un’immagine più realistica della quotidianità di
queste persone2.
Stereotipo
Le persone con sD (Sindrome di Down) sono tutte uguali (affettuose, amanti
della musica, bionde, ecc.).
Realtà
Non è così. Le uniche caratteristiche che hanno in comune sono un cromosoma
in più rispetto agli altri (47 invece che 46), difficoltà cognitive e alcuni aspetti
somatici. Per il resto, ogni persona con sD è diversa dall’altra. Le differenze
dipendono da fattori genetici, costituzionali, dal tipo di educazione ricevuta in
famiglia e a scuola, dalla presenza o meno di servizi specifici sul territorio.
1 Testimonianza diretta di un ragazzo con sindrome di Down in QuadernoAIPD19a.
2 A. Contardi, M. Berarducci (a cura di), Parliamone... Chi è una persona con la sindrome di Down, Periodico quadrimestrale dell’Associazione Italiana Persone Down Onlus, anno VIII, n. 2/2009 pp. 9-12 . Disponibile in http://www.aipd.it/cms/parliamone.
121
Stereotipo
Le persone con sD sono sempre felici e contente.
Realtà
È lo stereotipo più comune. Come per chiunque altro, la serenità di un bambino,
di un adolescente, di un adulto con sD è legata al suo carattere, all’ambiente
e al clima familiare, alle sue attività sociali e dunque alla qualità della sua vita.
Una persona con sD manifesta in modo molto esplicito le sue emozioni (felicità,
tristezza, gratitudine, ostilità, tenerezza, ecc.) e qualsiasi comportamento
affettivo.
Stereotipo
Le persone con sD hanno genitori anziani.
Realtà
Attualmente in Italia l’80% circa dei neonati con sD ha genitori sotto i 35 anni.
La distribuzione è variabile nel tempo e tra popolazioni diverse perché legata a:
› distribuzione nella popolazione delle nascite, in generale;
› diffusione della diagnosi prenatale;
› proporzione di gravidanze interrotte dopo diagnosi prenatale.
Stereotipo
Le persone con sD sono incapaci di avere rapporti interpersonali che possano
portare ad amicizia, fidanzamenti o matrimoni.
Realtà
Falso. L’affettuosità delle persone con sD è selettiva e intelligente. L’inserimento
scolastico nel nostro Paese ha permesso nel periodo della scuola un inserimento
sociale soprattutto nell’età in cui le amicizie vengono, almeno in parte, gestite
dai genitori. Tuttavia, l’adolescenza coincide con il periodo della vita di un
giovane con sD nel quale i compagni, gli amici e anche i fratelli cominciano ad
allontanarsi e a includerlo sempre meno nelle loro attività: quando desidera (e
avrebbe bisogno) di staccarsi dal suo nucleo familiare, la sua unica alternativa è
di stare a casa o uscire solo con i genitori. In questa età è più facile che rapporti
affettivi e amicizia possano nascere in condizioni “alla pari”, tra persone con
la stessa disabilità, con interessi e capacità di comunicazioni simili. È stato
122
verificato che tra persone con sD o con problemi analoghi, possono nascere
amicizie e fidanzamenti. Ci sono anche alcuni casi, anche se molto rari, di
matrimonio in cui la coppia è in grado di vivere da sola in modo relativamente
autonomo (col supporto di familiari o di servizi di appoggio). Stare insieme tra
pari non significa un ritorno all’emarginazione, ma avere la possibilità di coltivare
amici con cui svolgere varie attività, quando, l’alternativa è l’isolamento a casa.
Stereotipo
Le persone con sD non sanno di avere difficoltà cognitive.
Realtà
Un bambino con sD è in grado di capire fin da quando è piccolo la propria diversità
rispetto ai compagni e ai fratelli. Può approfittarsi della propria condizione per
ottenere ciò che desidera più facilmente. Può angosciarsi quando non riesce
nel proprio compito e fingere di leggere e di scrivere come i compagni quando
ancora non è in grado di farlo. Per una persona con sD il rapporto con le
proprie difficoltà sarà tanto più armonioso quanto più i suoi genitori riusciranno
ad affrontare con lui il discorso sulla sindrome e rispondere alle sue domande.
Più ci sarà la possibilità di parlare esplicitamente dei suoi limiti e al tempo
stesso di mettere in evidenza le sue capacità, tanto più la consapevolezza della
propria identità di persona con sD sarà vissuta serenamente.
È sembrato opportuno dilungarsi su questi aspetti del Ritardo Mentale e della
sindrome di Down perché spesso gli operatori entrano in contatto con questa
realtà. Coloro che si occupano di soggetti in età evolutiva hanno spesso
occasione di lavorare nelle scuole materne ed elementari con bambini ritardati,
con i loro insegnanti, con gli insegnanti di sostegno (figure professionali che la
legge permette di affiancare ai bambini ritardati in funzione dell’apprendimento).
Questo vale anche per gli operatori che si occupano di handicap, in quanto
molti soggetti portatori di handicap, a causa delle compromissioni del loro
sistema nervoso, hanno anche un ritardo mentale. Per l’età senile vale lo
stesso discorso. Il ritardo mentale, quando è diagnosticato negli anziani, si
chiama demenza. Gli anziani possono sviluppare condizioni di questo tipo
a causa di varie malattie organiche e solitamente l’esordio di una demenza è
caratterizzato da un problema di memoria.
123
Disturbi Pervasivi dello Sviluppo e Autismo
I Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (o psicosi precoci, o disturbi generalizzati dello
sviluppo) rappresentano le malattie più gravi dei bambini. Più comunemente
conosciuti come psicosi infantili o autismo, sono caratterizzati da una
precoce comparsa nei primi anni di vita. Si tratta di bambini che dimostrano
una chiusura verso il mondo esterno, con il quale rifiutano di comunicare,
temendone spesso anche il contatto più semplice, come lo sguardo o il
contatto fisico.
Esistono varie tipologie di questa malattia: semplificando, verranno elencate le
principali caratteristiche che le accomunano.
1. Disturbo dell’interazione sociale: si tratta di bambini che non entrano
in relazione e sembrano disinteressarsi agli altri (sembrano, poiché in
realtà non si conosce cosa prova un bambino in queste condizioni). Nei
bambini piccoli questo disinteresse si può manifestare con l’incapacità
di afferrare oggetti o con il rifiuto del contatto fisico (il bambino non vuole
essere preso in braccio, non vuole guardare negli occhi la mamma), tanto
insistente che i genitori a volte sospettano che il bambino sia sordo. Il
neonato con autismo spesso è un bambino tranquillo, che piange poco,
che non richiama l’attenzione dei genitori e che resta rigido e contratto
(oppure “floscio” e ipotonico) quando il genitore lo prende in braccio.
2. Disturbo del linguaggio: sono bambini che in molti casi non parlano
o, se imparano a parlare, utilizzano termini fuori luogo, non appropriati e
comunque che non servono a comunicare con gli altri. Hanno anche un
vocabolario molto limitato, povero, con uno stile di linguaggio monotono
e ripetitivo. Anche la loro comunicazione non verbale è carente: infatti,
hanno una mimica facciale poco espressiva o bizzarra, magari ridono
quando si fanno male o piangono senza alcun motivo apparente.
3. Repertorio di interessi ed attività: tutti i bambini sono caratterizzati,
durante il loro sviluppo, da un crescente interesse verso giochi e
interazioni con gli adulti sempre più ricchi e complessi, si stancano subito
e vogliono sempre cose nuove. I bambini psicotici, invece, sono carenti a
livello di immaginazione, hanno poca fantasia e scarsa capacità di gioco
simbolico. Non giocano, nel senso comune del termine, ma prediligono
movimenti stereotipati, cioè ripetono in continuazione, anche per ore e
tutti i giorni, la stessa azione. Ad esempio, possono divertirsi a sbattere
ripetutamente un oggetto in terra per fare rumore e possono andare
avanti per ore a fare la stessa cosa. Solitamente sono molto metodici e
cercano schemi rigidi e ripetitivi sia nell’organizzazione della giornata che
124
nella gestione degli spazi e degli oggetti. Possono, ad esempio, mettere
ossessivamente in fila le macchinine in ordine di grandezza o in una
sequenza precisa, nota solo a loro. Se tale ordine viene alterato, anche
di poco, si verificano stati di agitazione, disagio e ansia.
Riportiamo alcune testimonianze di adulti che raccontano la realtà di persone
autistiche:
“Luca è stato un bambino molto dolce e molto passivo, ma a tratti si trasformava
e faceva capricci terribili e immotivati, che duravano anche per ore. Non giocava
con i giochi, non era interessato se non a oggetti che emettevano suoni o
luci. Poteva passare delle ore a far roteare gli oggetti, a correre in tondo, a
guardare l’acqua che usciva dal rubinetto, ad aprire e chiudere le porte, ad
accendere e poi spegnere le luci. Era affascinato dai treni e dalle cose che si
muovevano, come ventilatori e lavatrici; era terrorizzato da alcuni rumori, come
quello dell’aspirapolvere, del frullatore e del rasoio elettrico. A tre anni diceva
qualche parola, ma non sapeva dire nè sì, nè no, non chiedeva, non chiamava,
non rispondeva se era chiamato”3.
“Marco è un ragazzone di 14 anni con autismo. Resta raramente in classe,
la confusione e il “disordine” lo infastidiscono e spesso diventa violento nei
confronti dei compagni, anche perché non sa valutare la sua forza. Ovunque
passa chiude porte, finestre e cassetti, allinea i libri, impila i cd e non si dà
pace finché l’ordine non è, a suo parere, ripristinato. Io ho i capelli lunghi,
ma devo tenerli legati: se non sono tutti allineati dietro le spalle me li sistema
continuamente, anche dieci volte in un minuto. Un giorno, nella fretta, ho
indossato per sbaglio due orecchini simili, ma differenti… questa anomalia lo
ha a tal punto agitato da costringermi a toglierli. Non uso più le gonne corte
poiché, se non sono perfettamente allineate sulle ginocchia, lui continua a
sistemarle, e se non ci riesce, le solleva!”4.
È importante sottolineare che bisogna rispettare questi bambini ed avvicinarli
con cautela. È difficile per un operatore tollerare di vedere un bambino, magari
di otto o dieci anni, fare in continuazione un gioco banale stereotipato, senza
cercare di intervenire per insegnarli un gioco più creativo. Se l’operatore
interviene senza essere preparato in tal senso, rischia di spaventare ed
3 Tratto da una testimonianza di genitori di un bambino autistico all’interno del sito internet www.genitoricontroautismo.org.
4 Tratto da una testimonianza diretta di un insegnante di sostegno, in occasione di un gruppo di lavoro dal titolo “autismo a scuola”.
125
angosciare il bambino, provocando in lui un’ulteriore chiusura verso il mondo
esterno. I bambini psicotici, per una serie di cause non ancora perfettamente
conosciute, sono chiusi nel loro impenetrabile mondo. Tutte le loro energie non
vengono spese per stare e comunicare con gli altri bambini e con gli adulti,
per giocare con loro, per imparare, apprendere e così avviarsi poco alla volta
verso il mondo adulto. I bambini psicotici stanno talmente male che devono
spendere tutte le loro risorse per chiudersi verso il mondo esterno, per mettere
una barriera tra loro e gli altri, per non sentire gli stimoli che provengono anche
dal loro mondo interno, per non sentire i loro sentimenti, le loro emozioni.
Probabilmente perché questi stimoli, esterni ed interni, sono vissuti come
troppo pericolosi, troppo intensi, troppo violenti per essere tollerati.
Il risultato è che questo isolamento li porta, con il passare del tempo, a perdere
tutte quelle opportunità che arricchiscono e permettono la crescita psicologica
dei bambini normali. I bambini psicotici non apprendono, se non con grosse
difficoltà, possono essere inseriti nella scuola elementare, ma con un insegnante
di sostegno e con un programma didattico individualizzato. Tutto ciò causa il
fatto che i bambini psicotici possono, con il tempo, sviluppare quadri clinici
molto simili a quelli dei ritardati mentali.
Ovviamente esistono moltissime forme di tali disturbi (psicosi), con vari gradi
di gravità e con forti differenze individuali per cui ogni bambino è diverso da un
altro, può socializzare in modo diverso da un altro, può apprendere in modo
diverso da un altro.
Tendenzialmente, però, il decorso di questa malattia è cronico, anche se ci
possono essere dei miglioramenti nel linguaggio e nella capacità di interazione
sociale. I bambini che hanno una prognosi migliore sono quelli più intelligenti,
con un Q.I. più alto, quelli con capacità sociali ed un linguaggio più sviluppato
e comunicativo.
Per gli operatori che si occupano di infanzia è importante la conoscenza
di questa categoria di malattie. Spesso, infatti, questi bambini sono inseriti
nelle scuole materne ed elementari, dove è tentata un’integrazione con gli
altri coetanei. Anche per gli operatori che si occupano di handicap queste
informazioni sono indispensabili, perché molti bambini con compromissioni
del sistema nervoso sviluppano malattie simili ai disturbi pervasivi, alle psicosi
infantili.
126
Disturbi dell’età evolutivaI disturbi che presentiamo nelle pagine seguenti non sono vere e proprie
patologie, ma solo espressioni, o meglio, sintomi di una difficoltà specifica che
il soggetto sta vivendo.
Questi disturbi non modificano in modo drammatico la quotidianità del
bambino che andrà a scuola, avrà amici, uscirà a giocare esattamente come
ogni altro. Molti di questi disturbi spariscono con l’età se il bambino viene
seguito da specialisti che diagnosticano e intervengono tempestivamente sul
problema. Altri disturbi, come la dislessia, spesso non scompaiono del tutto,
ma si riducono d’intensità anche in funzione delle strategie che il soggetto
stesso trova per gestirli.
Disturbi dell’apprendimento
È una forma di disturbi molto diffusa. Si tratta di bambini e adolescenti che
non riescono ad avere a scuola un rendimento sufficiente. La loro intelligenza
è normale, ma esistono in loro singole funzioni deficitarie. Per definizione,
infatti, un disturbo dell’apprendimento implica una buona intelligenza, ma
un fallimento selettivo e specifico in alcune aree dell’apprendimento. Non si
tratta, quindi, di ritardo mentale, nel qual caso generalmente il bambino va
male in tutte le materie. Un bambino con disturbo dell’apprendimento può
avere un rendimento scolastico buono in linea generale, ma non riuscire per
niente in matematica o in qualche altra materia. I disturbi dell’apprendimento
più importanti sono:
1. disturbo della lettura o dislessia. Si tratta di bambini che hanno
difficoltà a riconoscere le parole o a capirle, oppure quando leggono
distorcono le parole o le omettono;
2. disturbo della scrittura o disgrafia. Si caratterizza per una scrittura
carente, con errori di grammatica o di punteggiatura, per sostituzioni o
inversioni di sillabe o lettere;
3. disturbo delle capacità di calcolo o discalculia. Si va dall’incapacità
di riconoscere i numeri e i simboli all’incapacità di capire le operazioni
matematiche o i concetti matematici astratti.
Sebbene l’intelligenza di questi ragazzi sia assolutamente normale, spesso il
loro percorso scolastico è molto sofferto e faticoso.
Queste tipologie di problemi non sono sempre diagnosticate rapidamente, e
9.2.2
127
vengono invece confuse con scarso impegno o scarsa intelligenza.
Pertanto, la scuola e gli insegnanti, non riconoscendo l’effettivo problema, si
rapportano in modo inadeguato con questi studenti, creando spesso in loro
situazioni di frustrazione e umiliazione e influenzando negativamente la loro
autostima.
Riportiamo ora alcune testimonianze relative a disturbi dell’apprendimento.
“Aisha spessissimo scriveva speculare e non capiva la differenza tra scrivere da
sinistra verso destra o viceversa, spesso non sapeva con che mano scrivere.
A tutto ciò si aggiunga che Aisha ha uno zio materno dislessico e un cugino di
parte paterna dislessico”5.
“…Ma io sono diverso o sono diversi gli altri? Mi chiamo Davide. Al ritorno dal
primo giorno di scuola butto via la cartella e dico che non ne voglio più sapere.
Il mio ostacolo è la lettura: quando leggo, le sillabe che sono dietro le metto
davanti, cambio le parole, ma nonostante tutto capisco il significato del testo.
Ogni scusa è buona per evitare quell’ingarbugliare che poco somiglia alla lettura.
Un giorno una psichiatra infantile pronuncia la parola dislessia. Non voglio dire
a nessuno che sono dislessico, nessuno sa che cosa sia la dislessia. Dalla
prima elementare alla prima superiore, ogni mattina, prima di andare a scuola,
accuso dolori e coliche addominali: a nulla valgono le medicine calmanti e le
visite dal gastroenterologo. Rimango bocciato, ed ecco la svolta”6.
Disturbi del linguaggio
Esistono diverse forme di disturbi del linguaggio. La prima è data da
un’insufficiente capacità di articolazione delle parole, come ad esempio parlare
come un bambino piccolo. La seconda è data da un linguaggio espressivo
carente, vale a dire un vocabolario limitato (poche parole, difficoltà a imparare
parole nuove, omissioni di parole, linguaggio “lento”). La terza forma del
disturbo implica un’incapacità della ricezione del linguaggio e va dall’incapacità
di capire alcune parole, all’incapacità di capire frasi semplici, ad un’incapacità
di comprensione del linguaggio altrui.
5 Dalla testimonianza della mamma di una bambina disgrafica in www.dis-blog.it.
6 Testimonianza di un ragazzo dislessico in Storie di dislessia, AAVV, 2002, Edizioni Libri Liber.
128
Difficoltà della coordinazione motoria
Si tratta di bambini che manifestano un insufficiente sviluppo motorio,
caratterizzato da goffaggine nei movimenti e scarsa coordinazione, come ad
esempio difficoltà nei movimenti per abbottonarsi i vestiti, per giocare, ecc.
Disturbi della condotta
Si tratta di bambini e adolescenti che in una varietà di situazioni, come a scuola,
con il gruppo dei coetanei, ma anche a casa, producono comportamenti
che violano i diritti degli altri e si rifiutano di accettare e di rispettare le regole
di condotta relative alla loro età. Possono essere aggressivi e crudeli verso
persone e animali, possono commettere furti, scappare da scuola, rientrare a
casa a tarda notte, ecc.
Un’altra loro caratteristica è quella di non avere molto rispetto per i sentimenti
degli altri e di non sentirsi in colpa o provare rimorso per le conseguenze delle loro
azioni. Un tempo definiti bambini “caratteriali” o bambini “con comportamenti
disturbanti”, rappresentano un importante problema, in quanto spesso tali
disturbi hanno un esordio precoce e si mantengono per molti anni, a volte
fino all’età adulta, dando origine a personalità di tipo antisociale (delinquenza,
devianza, ecc.).
Nei bambini si assiste in molti casi all’abbandono scolastico e alla tendenza a
ricercare gruppi di coetanei di tipo “marginale”. È durante l’adolescenza, però,
che tali problemi si accentuano e sfuggono di mano ai genitori e agli altri adulti.
Per una serie di fattori di ordine psicosociale (aumento delle fasce di popolazione
povere, delle situazioni di degrado, di fenomeni quali maltrattamenti, abusi fisici
e sessuali, ecc.), la cui trattazione richiederebbe ben altri spazi di discussione,
il numero di persone con tali disturbi è verosimilmente destinato ad aumentare
in modo rilevante durante i prossimi anni.
Disturbi da deficit dell’attenzione con iperattività
Ci sono dei bambini, un tempo chiamati ipercinetici o instabili, che soprattutto
a scuola non riescono a stare fermi per più di qualche attimo, si spostano
in continuazione, non riescono a stare attenti e quindi ad imparare, si fanno
distrarre da qualsiasi stimolo e sono molto impulsivi.
Questa difficoltà a mantenere l’attenzione, e la conseguente instabilità motoria,
si rendono evidenti maggiormente a scuola, dove è richiesto un alto livello
129
di concentrazione, ma sono presenti anche in tutti gli altri momenti della vita
quotidiana. Si tratta di bambini che danno l’impressione di non ascoltare ciò
che viene loro detto, bambini che fanno fatica ad aspettare il loro turno, che
rispondono in modo frettoloso ed impulsivo alle domande che gli vengono
poste, magari prima che la domanda sia stata formulata per intero, fornendo
di conseguenza una risposta non appropriata.
Disturbi d’ansia
Come per gli adulti esiste una serie di malattie la cui caratteristica principale è la
presenza di ansia, anche per i bambini esiste una serie di condizioni all’interno
delle quali l’ansia costituisce il problema fondamentale. Il primo e forse più
conosciuto è chiamato “problema di ansia da separazione”, caratterizzato da
un’intensa ansia che si manifesta quando il bambino viene separato dalle figure
genitoriali o dagli ambienti a lui familiari, come l’ambiente domestico. Nei casi
più gravi il bambino sta male solo all’idea di separarsi, anche cioè senza che
questo fatto accada. I bambini tendono così a rimanere attaccati ai genitori, e
non riescono a vivere serenamente tutte le opportunità della vita, come lo stare
insieme con i coetanei o il semplice andare a scuola.
Questi bambini hanno una preoccupazione irrealistica che se i genitori si
allontanano potrà succedergli qualcosa di terribile: incidenti, disgrazie o il non
fare più rientro a casa e forse, per evitare questi timori, vogliono averli sempre
sott’occhio anche a costo di rifiutare la scuola. Una variante di questo problema
è data dai disturbi di evitamento, caratterizzati non da ansia di separazione
dai genitori, ma dal rifiuto di avere contatti con persone al di fuori del nucleo
familiare, mentre all’interno delle mura domestiche tali contatti sono ricercati.
A questa stessa tipologia di problemi appartiene il disturbo iperansioso,
caratterizzato da un’ansia eccessiva e costantemente presente nel tempo,
durante tutto l’arco della giornata ed in qualsiasi ambiente si trovi il bambino.
Si tratta di bambini e/o adolescenti che si preoccupano eccessivamente per
qualsiasi cosa, passando la maggior parte del proprio tempo a rimuginare e a
cercare rassicurazioni da parte dei grandi.
Disturbi alimentari
Disturbi dell’alimentazione, quali anoressia nervosa o bulimia, di cui si sente oggi
tanto parlare, non rappresentano problemi dei bambini, in quanto solitamente
fanno la loro comparsa verso l’adolescenza e l’età adulta. Nei bambini esistono
130
altre forme di disturbo alimentare. I problemi alimentari diventano malattia
quando comportano una rilevante perdita peso e/o implicano l’incapacità di
raggiungere un peso adeguato all’età e all’altezza.
Esiste un disturbo detto di “ruminazione” o, in altri tempi, “mericismo”, in cui
il bambino, anche dopo aver in parte digerito, rigurgita il cibo, che gli torna in
bocca, dopodiché lo rideglutisce o lo sputa, provocandosi a lungo andare una
marcata perdita di peso.
Altro fenomeno curioso è la “pica”, che è l’ingestione ripetuta di sostanze
non nutritive, che caratterizza bambini che mangiano qualsiasi cosa trovano
lungo la strada, come piccoli oggetti, stoffa, carta, ecc., rischiando tra l’altro di
provocarsi infezioni o di avvelenarsi.
Disturbi delle funzioni evacuative
L’encopresi è la ripetuta involontaria evacuazione di feci in posti non adeguati,
come i vestiti, in terra, ecc.
L’enuresi è la ripetuta e spesso involontaria emissione di urine diurna e notturna
(ad esempio nei vestiti o nel letto).
Tali fenomeni mettono estremamente a disagio il bambino e possono essere
di tipo primario o secondario, vale a dire che possono intervenire fin da subito
(primario) o dopo un periodo in cui il controllo sfinterico era già stato raggiunto
(secondario).
Disturbi caratteristici dell’età adulta
Convenzionalmente si usa distinguere le malattie e/o i disturbi psicologici che
fanno la loro comparsa durante l’età evolutiva, quelli che compaiono durante
l’età adulta e quelli caratteristici dell’età senile. Ciò significa che un bambino
con un disturbo psicologico non necessariamente se lo trascinerà per tutta la
vita, e anche un adulto può ammalarsi anche se precedentemente era stato
bene. A volte, invece, una stessa malattia assume configurazioni diverse a
seconda del fatto che si manifesti, per esempio, in adolescenza o in età più
avanzate.
In tal senso, si può sostenere che è molto più difficile, una volta fatta una
diagnosi di malattia (da parte di uno specialista) fare delle previsioni esatte sul
suo andamento nel tempo, riuscire a prevedere come si evolverà in futuro. Il
Capitolo
9.3
131
decorso di una malattia dipende, infatti, non solo dalla tipologia di malattia in sé,
ma anche da un’infinità di altri fattori, quali la presenza o meno di componenti
genetiche o biologiche, l’adattamento sociale del soggetto, le caratteristiche
del suo entourage familiare e da tutto ciò che è l’ambiente che lo circonda, la
possibilità di accedere a cure adeguate (psicofarmacologia o psicoterapia),
ecc.
Di alcune malattie, però, quelle da più tempo studiate, si conosce a grandi linee
l’evoluzione, la possibilità di guarigione con o senza cure (remissione spontanea),
la possibilità che il soggetto torni ad ammalarsi dopo un’eventuale guarigione
(recidiva). Descrivere tutte le malattie dell’età adulta richiederebbe uno spazio
troppo ampio e non rientra comunque nella finalità di questo testo. Per chi fosse
interessato ad approfondimenti, rimandiamo alle voci bibliografiche. Appare
comunque utile fare una rapida panoramica dei disturbi mentali più diffusi negli
adulti: questo perché riteniamo opportuno che l’operatore possa familiarizzare
con una terminologia ed un linguaggio specialistici, in modo tale che, quando
si troverà ad operare concretamente, possa padroneggiare un bagaglio
linguistico e terminologico sufficiente, che gli consenta di comprendere ciò che
viene detto dagli altri operatori, per poter quindi partecipare al lavoro di équipe.
Segue un elenco delle principali condizioni psicopatologiche degli adulti, con
una breve descrizione degli aspetti più caratteristici.
Disturbi di tipo schizofrenico
Si tratta delle malattie più gravi in assoluto. Sono caratterizzate, oltre che
da un distacco dalla realtà, da sintomi importanti, quali deliri e allucinazioni
(soprattutto uditive, come sentire voci), contenuti bizzarri del pensiero,
agitazione o rallentamento psicomotorio. Si tratta di persone che ad un certo
momento della loro vita smettono più o meno rapidamente di funzionare, si
deteriorano, in aree quali il funzionamento lavorativo, sociale, e nella cura di
se stessi. Solitamente questa malattia è cronica, non curabile, ma contenibile
con gli psicofarmaci. Generalmente il malato passa tutta la vita alternando
periodi in cui i sintomi si accentuano a periodi di relativa tranquillità, tra una
crisi e l’altra, fino a che, dopo molti anni di malattia, interviene una condizione
di appiattimento affettivo (sintomatologia negativa). Per queste persone molto
si può fare, ma solo in termini di riabilitazione psicosociale, vale a dire affinché
possano mantenere la cura di se stessi ed un lavoro (generalmente in strutture
protette).
132
Riportiamo ora alcune testimonianze di familiari di persone con disturbo
schizofrenico:
“Andrea era appena tornato da una vacanza sciistica con gli amici. Brillante
studente dell’ultimo anno del Liceo, aveva organizzato durante le ferie di Natale
una settimana bianca con i compagni di classe. Tornato a casa stranamente
silenzioso, si era ritirato in camera. Ne era uscito, barcollando, stravolto, dopo
una mezzora. Aveva cominciato a smaniare accusando strani malesseri. La testa
gli scoppiava, non capiva più niente. Mentre i genitori e i fratelli terrorizzati gli
stavano intorno, la crisi era andata aumentando. Alternava scoppi di pianto a
strani mutismi. Alla fine era stato giocoforza chiamare un’autoambulanza, che
aveva portato il ragazzo al Neurodeliri. Da quel momento la sua vita e quella della
famiglia cambiano totalmente: in casa è entrata la schizofrenia. La scuola viene
interrotta, gli amici non lo vogliono più vedere, la ragazza lo lascia. Incomincia la
solitaria esistenza del malato di mente che, chiuso in casa, alterna crisi violente
a lunghi periodi di totale abulia. I familiari si trovano di fronte ad un individuo
completamente diverso: il ragazzo intelligente, gentile e volitivo che conoscevano
si trasforma lentamente in un abulico a tratti violento. Sciatto e trasandato l’igiene
personale diventa un dramma di tutti. Fargli fare una doccia e convincerlo a
lavarsi i denti costituisce un evento memorabile. Il rapporto con il cibo è difficile
e causa di continue, violenti liti: alterna periodi di diete inverosimili ad altri in cui
saccheggia tutto ciò che c’è in casa. La convivenza è a volte impossibile: a parte
le botte, c’è da parte sua una continua violazione degli spazi degli altri familiari,
specie dei fratelli più piccoli. D’altra parte rivendica di continuo il suo diritto a fare
tutto ciò che gli piace, anche quello che chiaramente causa disturbo a tutti gli altri
membri della famiglia. Il sonno è un problema: non ha lavoro e non ha nessun
hobby. Dorme di giorno e sta sveglio di notte, camminando continuamente nella
sua camera e tenendo svegli i terrorizzati fratelli”7.
“…mio fratello improvvisamente decideva di partire per andare a parlare col
Presidente della Repubblica. Se questo accadeva in inverno, lui partiva anche
in maniche di camicia, s’imbarcava sul primo treno. Mancava per giorni interi
durante i quali, ovviamente, non assumeva alcuna terapia. Finalmente, colto
da crisi, veniva soccorso da qualcuno e ricoverato. I sanitari rintracciavano mio
padre, il quale lo andava a recuperare a Roma, a Napoli, a Milano, ecc., dopo
avere pagato le multe salatissime perché ovviamente mio fratello viaggiava
7 Testimonianza del padre di un ragazzo schizofrenico in www.vittimedella180.org.
133
privo di biglietti. D’altra parte era uno “stretto collaboratore” del Presidente della
Repubblica. A casa: 4 pacchetti di sigarette al giorno e un paio di litri di caffè.
Voleva caffè a tutte le ore del giorno e della notte e se mia madre non gli faceva il
caffè erano urla e botte. Poi al telefono, 15 ore al giorno al telefono; quasi sempre
chiamando il 113 perché lui ha sempre avuto il fascino della divisa e dal telefono
doveva dirigere il traffico delle volanti. Poi faceva numeri a caso e i miei genitori
pagavano qualcosa come ottocento mila lire, un milione di bolletta ogni 2 mesi.
I vicini di casa si lamentavano perché urlava. Usciva di casa e veniva investito
dalle autovetture. In casa fumava anche a letto; la brace gli cadeva addosso e
gli bruciava prima la camicia, poi la maglia ed infine la pelle. Aveva tutto il corpo
costellato da bruciature”8.
Disturbi dell’umore
Sono caratterizzati da importanti alterazioni del tono dell’umore. L’umore di una
persona sana potrebbe essere descritto, semplificando, come relativamente
stabile nel tempo. Solitamente, infatti, si vive in una condizione all’interno della
quale ci possono essere variazioni dell’umore anche rapide (all’interno della
stessa giornata o nell’arco di più giorni): queste variazioni sono i nostri momenti
di tristezza e di gioia. Succede infatti a tutti di avere dei momenti difficili, tristi o
magari “grigi”, e dei momenti allegri, addirittura euforici. Tali alterazioni di umore
nella persona malata assumono caratteristiche eclatanti, di particolare intensità,
andando a strutturare vere e proprie malattie con manifestazioni differenti e
specifiche.
Riportiamo ora alcuni dei principali disturbi dell’umore:
› depressione: questa patologia è caratterizzata da umore depresso
durante tutto il giorno, dalla perdita di interesse per tutte le attività prima
svolte con piacere e da una serie di sintomi accessori, quali difficoltà del
sonno e alimentari, pensieri tristi e legati al suicidio. Una condizione di
depressione che non è certo da confondere con la tristezza che ognuno
di noi può provare in determinate occasioni;
› maniacalità: questa patologia è caratterizzata da una “accelerazione”
generalizzata del funzionamento con instancabilità, ridotto bisogno di
cibo e di sonno, tantissime idee e progetti che affollano la mente, senza
però la capacità di portarne a termine neanche uno; inoltre è presente un
8 Testimonianza di un fratello di un ragazzo schizofrenico in www.vittimedella180.org.
134
senso di grandiosità del sé;
› disturbi ciclotimici: questa patologia è caratterizzata da un’alternanza
secondo fasi abbastanza prevedibili, spesso associabili a determinati
periodi dell’anno, nelle quali depressione e maniacalità possono alternarsi
secondo configurazioni specifiche e ricorrenti;
› disturbi bipolari: questa patologia definisce una forma più grave del
disturbo ciclotimico. È caratterizzata infatti da repentini sbalzi d’umore
molto più frequenti e talvolta imprevedibili.
Tutte queste condizioni necessitano di cure specialistiche e in alcuni casi sono
curabili.
Riportiamo uno stralcio di una lettera di una donna affetta da depressione, che
ben esprime il senso di vuoto e disperazione, che coglie questi pazienti.
“Ho perso la fiducia in me stessa, vedo tutto nero e mi sembra di percorrere un
tunnel che non finisce mai... Mi sento sola, anche se tutti intorno cercano di farmi
distrarre. Un’unica idea continua a frullarmi per la testa: non riuscirò più a essere
me stessa. Non so perché, si è rotto qualcosa e non riesco più a raccogliere i
cocci. Sono disperata”9.
Disturbi d’ansia
Gruppo di condizioni patologiche caratterizzate dalla presenza di ansia
(indicativamente l’ansia è una condizione di paura e/o allarme, accompagnata da
componenti psicofisiologiche, quali, ad esempio, modificazioni della frequenza
cardiaca, secchezza delle fauci, ecc.). L’ansia può manifestarsi in modo
costante durante tutto l’arco della giornata, come accade nel disturbo d’ansia
generalizzato, oppure solo quando la persona si trova davanti a particolari stimoli
o situazioni. Un esempio di questo è dato dalle risposte di tipo fobico, vale a dire
che in una persona si attiva una risposta ansiosa quando incontra un certo tipo
di persone, animali, oggetti, situazioni (spazi aperti, chiusi come un ascensore,
ecc.). Se la stessa persona non incontra tali stimoli o situazioni non diventa
ansiosa. Si tratta di malattie curabili.
9 Testimonianza di una donna con depressione in www.dinamica2000.it.
135
Malattie psicosomatiche o somatoformi
Condizioni patologiche all’interno delle quali il malessere e la sofferenza di un
soggetto si esprimono attraverso la malattia di un organo o di una funzione del
corpo. Rientrano in questo gruppo anche alcune forme di psoriasi, asma, ulcera
e molte altre (malattie trattabili).
Problemi della sessualità
Si parla, in questo caso, di disfunzioni e perversioni sessuali (queste ultime
dette anche parafilie). Per “perversione” si intende una condotta o tendenza
psicosessuale diversa dal coito o ad essa non orientata. Generalmente vengono
definite perversioni il feticismo, il sadomasochismo, il voyeurismo, il travestitismo,
l’esibizionismo, la necrofilia, la zoofilia, ecc. Nelle perversioni, dunque, il piacere
deriva da condotte sessuali non consuete; li suo obiettivo non è lo scambio
amoroso con il partner, che viene invece usato come strumento.
Problemi del sonno
Sono dati da tutte le situazioni in cui esso non è quantitativamente o
qualitativamente sufficiente, oppure ha un ritmo alterato.
Disturbi delle condotte alimentari
Sono condizioni patologiche che hanno la loro insorgenza in età adulta, ma
spesso iniziano già durante l’adolescenza. Le più conosciute sono l’anoressia
e la bulimia nervosa. Nell’anoressia nervosa la persona rifiuta di mantenere il
proprio peso corporeo al di sopra del minimo indispensabile insieme ad una forte
paura di diventare grassa e alla percezione del proprio corpo o di parti di esso
come troppo grassi, anche quando oggettivamente non lo sono. La perdita di
peso è l’obiettivo principale e viene perseguito con tutti i mezzi a disposizione
(farmaci, diete). La bulimia è caratterizzata invece da frequenti episodi di abbuffate
di cibo seguite dal vomito autoindotto. Tali abbuffate sono progettate, si fanno di
nascosto e sono accompagnate da una sensazione di perdita di controllo.
Disturbi della personalità
Categoria di malattie molto ampia, comprende un insieme di condizioni all’interno
delle quali si assiste all’irrigidimento dei tratti di personalità. Un tratto di personalità
136
è dato da un modo costante di percepire se stessi e di rapportarsi con il mondo.
Quando i differenti e molteplici tratti di personalità che caratterizzano una persona
sono troppo rigidi e stereotipati, dando origine ad una condizione patologica.
Ad esempio, la tendenza a non fidarsi troppo, se portata all’estremo, può sfociare
nella convinzione che ogni persona desideri farci del male o tramare contro di
noi. La tendenza alla prudenza può aprire a disturbi fobici, in cui il paziente ha il
terrore a svolgere anche semplici gesti quotidiani.
Tra i più importanti disturbi di personalità accenniamo ai seguenti:
› Il disturbo paranoide di personalità: è un disturbo caratterizzato da
profonda diffidenza e sospettosità nei confronti anche delle persone più
vicine che spingono a interpretare le motivazioni degli altri sempre come
malevole per la propria persona. Queste persone hanno pensieri fissi di
persecuzione, timore di venir danneggiati, paura continua di subire un
tradimento anche da persone amate, senza che però l’intensità di tali
pensieri si trasformi in delirio, perdendo completamente il contatto con
la realtà.
› Il disturbo ossessivo compulsivo di personalità: È un disturbo nel quale
la persona è “costretta” a ripetere una determinata azione, o sequenza
d’azione, secondo uno schema molto preciso. Se ciò non accade,
viene colto da ansia fortissima e panico. Ad esempio, una persona può
sentire l’irrefrenabile bisogno di disporre tutti gli abiti in scala di colore
nell’armadio oppure di aprire e chiudere 4 volte la porta prima di uscire
di casa.
› Il disturbo narcisistico di personalità: è un disturbo caratterizzato
dall’incapacità di provare empatia verso altri individui. La persona si
percepisce come potentissima, famosa e importante. Questa percezione
di sé del soggetto è definita “Sé grandioso”. Questa patologia spinge il
paziente a svalutare gli altri e a ritenersi superiore ad ogni altro.
I disturbi di personalità sono molti e descriverli singolarmente è impossibile. Vale
la pena di dire, però, che essi sono caratteristici di persone che a volte riescono
a mantenere un minimo adattamento, che difficilmente si fanno curare in
quanto non si percepiscono come ammalati, che in occasioni di eventi della vita
particolarmente stressanti (perdita di lavoro, lutti, ecc.) cedono e vanno incontro
a periodi di intenso malessere e di incapacità di funzionamento.
137
Esistono infine malattie mentali tipiche dell’età senile, cioè della fascia di età
che va dai 65 anni in poi. Le più note sono le demenze, che sono caratterizzate
da un deterioramento del funzionamento cognitivo (memoria, intelligenza, ecc.)
con risvolti sul comportamento. Ma esistono anche altre condizioni psicologiche
verso le quali solo recentemente si è cominciato a dedicare attenzione da parte
di una disciplina relativamente nuova: la psicogeriatria.
138
Considerazioni conclusive
La psichiatria e la psicopatologia, discipline che studiano le malattie mentali, si
occupano di un numero elevatissimo di condizioni patologiche. Descriverle tutte
sarebbe impossibile, richiederebbe uno spazio ben più ampio di questo libro
e implicherebbe conoscenze specialistiche. L’operatore, durante il suo lavoro
quotidiano, si può trovare in contatto con molte persone (bambini, adulti, anziani)
sofferenti di malattie mentali, e può essere chiamato a lavorare in équipe. Da qui
la necessità, affinché il confronto con gli specialisti sia proficuo, di possedere un
bagaglio di conoscenze che gli permetta di sapere quali sono le caratteristiche
principali di ogni patologia.
Aggiornamenti Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali - DSM
Nell’edizione del DSM- 5 sono cambiate alcune categorie.
I disturbi evolutivi sono definiti “Disturbi del neurosviluppo”, la cui origine avviene
nello sviluppo e che comportano menomazioni di funzionamento personale,
sociale, scolastico ed occupazionale.
All’interno di questa macro-categoria segnaliamo:
› Il ritardo mentale è stato sostituito dalla categoria della “Disabilità
intellettive” o anche Disturbo Dello sviluppo intellettivo (ICD) che
non è più legato al punteggio del Q.I. La gravità è legata al deficit di
funzionamento adattivo nell’autonomia e nella responsabilità richieste
dalle varie attività quotidiane, se non si ha un supporto costante.
› I Disturbi pervasivi dello sviluppo o Autismo sono confluiti nel Disturbo
(al singolare) dello Spettro dell’autismo.
› I disturbi dell’apprendimento vengono definiti “Disturbo specifico
dell’apprendimento” che combina insieme i 3 tipi di disturbi: della
lettura, del calcolo e dell’espressione scritta, valutando le specifiche
difficoltà per ciascuna area.
Il disturbo quindi può avere una compromissione da lieve a grave in tre aree:
lettura, espressione scritta e calcolo.
139
Questionario di autocontrollo
1) Da che cosa è caratterizzata una condizione di ritardo mentale?
2) Come si manifesta l’autismo?
3) Come si manifestano i disturbi d’ansia nei bambini?
4) Quali sono le malattie mentali più gravi degli adulti?
5) Perché è importante conoscere, almeno a grandi linee, quali sono le
malattie mentali più frequenti utilizzando un linguaggio specifico?
6) Da che cosa sono caratterizzati i disturbi di personalità e quali sono i
principali?
7) Quali sono i disturbi psicologici più diffusi negli anziani?
140
Come la ricerca biomedica, anche quella psicologica è regolamentata dal punto
di vista dell’etica in quasi tutti i Paesi in cui si svolge. Dopo il famoso Codice di
Norimberga, che nacque nel secondo dopoguerra in seguito alle riflessioni sui
crimini nazisti nel campo della sperimentazione su esseri umani, sono ormai noti
a tutti i danni che in nome della scienza possono essere fatti ai soggetti di una
ricerca. Tali danni non sono meno pericolosi se sono relativi all’ambito psicologico
anziché a quello biologico. In Italia esiste un Codice Deontologico degli Psicologi
Italiani (formulato dall’Ordine Professionale degli Psicologi) che riguarda la
pratica professionale in tutti i campi della psicologia, e un Codice Etico della
Ricerca e dell’Insegnamento in Psicologia (più ristretto, dedicato specificamente
alla ricerca), formulato dall’Associazione Italiana di Psicologia, che raccoglie gli
psicologi che lavorano nelle Università e negli Enti di ricerca. Inoltre, anche molte
associazioni di psicoterapeuti hanno degli specifici codici di comportamento. I
codici deontologici non hanno valore di legge (alla quale, naturalmente, fanno
riferimento per i danni civili e penali), ma sono validi all’interno delle comunità
scientifiche e professionali che li hanno espressi e, nel caso di trasgressioni,
comportano sanzioni che arrivano fino alla sospensione e all’espulsione dei
colpevoli.
Alcuni dei principi fondamentali sono:
› la protezione del soggetto da possibili danni fisici o psicologici;
› la riservatezza relativamente alle informazioni che lo riguardano, anche
nella diffusione dei dati della ricerca;
› la necessità di avere sempre il suo “consenso informato” su ogni
procedimento a cui lo si sottopone;
› il trattamento “umano” del soggetto animale.
Un aspetto importante della protezione del soggetto è il segreto professionale,
cioè la garanzia data al soggetto che niente di quello che lo psicologo verrà a
sapere durante la relazione professionale sarà rivelato a estranei (con alcune
eccezioni, come la consultazione di colleghi pure vincolati al segreto): questo è
essenziale per garantire quel rapporto di fiducia senza il quale una consulenza o
una psicoterapia non può funzionare. In Italia, con più sicurezza che in altri Paesi,
Scheda: l’etica della ricerca psicologica
141
il segreto professionale è tutelato anche dalla legge, che permette allo psicologo
(come al medico, all’avvocato e al ministro del culto) di potersi sottrarre all’obbligo
di testimoniare in tribunale quando si tratta di un suo cliente.
142
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