esperanza campesina di andrea braggio

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1 Esperanza campesina ANDREA BRAGGIO La Via che eleva l’uomo, vale a dire la coltivazione della propria natura e l’impegno verso i propri simili, tiene conto di una semplicità di vita che non è sinonimo di po- vertà, ma è invece vivo connubio tra felicità e condivisione nella sobrietà. La condivi- sione, in particolare, rappresenta il segno evidente dell’identificazione con Cristo, l’imitazione del quale non consiste solo nel guardare a un Modello realizzato storica- mente duemila anni or sono, ma nel lasciarsi pervadere dal Suo Spirito, che suggeri- sce al cuore risposte alle esigenze storiche dell’oggi. Il fatto che su questo Pianeta non abbiamo in realtà la proprietà di alcun bene, né il dominio assoluto, ma soltanto l’uso, può ben rappresentare una di queste risposte. Ma solo un cuore puro e umile può accettare il fatto che i desideri terreni non danno frutto e che nulla gli appartiene davvero. Da qui l’importanza di fare ritorno al cuore, come giudice e come guida, perché è propria del cuore la comprensione profonda del fatto che all’Eterno appartiene la terra e tutto ciò che è in essa (Salmo 24, 1). L’uomo può solo considerarsi un ammini- stratore di beni che a tempo debito dovrà restituire. Tutto è preso in prestito, compresa la terra da cui dipende per il sostentamento. Coltivazione interiore e coltivazione della terra fanno dunque appello all’humilitas dell’uomo, termine che sottende la parola humus, terra: uno stare con i piedi per terra pur volando alto con lo spirito. Nell’uomo umile e nobile di animo prevale l’interiore ricerca dell’armonia, che non può prescindere da un rapporto di benevolenza con il mondo agricolo e da una lotta al conformismo delle idee e dei costumi. C’è nel mon- do contadino di oggi un richiamo a questa saggezza antica che, tra le tante cose, ci ri- corda la necessità di essere coltivatori di umanità e di avere nei confronti della terra un approccio più umano. È maturo il tempo per una visione dell’agricoltura che muova contemporaneamente dal basso della società e dall’alto del pensiero, facendo leva sulla fatica del lavoro agricolo e la forza morale da una parte e sull’audacia intel- lettuale e la creatività delle nuove generazioni dall’altra. In termini pratici, questo si- gnifica produrre per il benessere dell’umanità rafforzando l’agricoltura familiare, con- tadina e comunitaria, invece di produrre in funzione del mercato, della speculazione e dei profitti dei grandi produttori e distributori di alimenti. Non è niente di meno che una revolución campesina, per la quale il problema alimentare mondiale non è questione di quantità ma di equità o, come direbbe Gandhi, non una produzione di massa, ma una produzione intelligente da parte delle masse, che valorizza e riconosce i saperi locali. Qui entra in gioco il ruolo essenziale delle resistenze contadine di tutto il mon- do nell’affermare la loro dignità e nel rivendicare un approccio alla terra molto diver- so dall’avidità e dal materialismo sfrenato delle corporazioni transnazionali. Il mondo contadino ci ricorda che la fame e la miseria non sono tanto condizionati da fattori naturali e geografici, quanto da fattori sociali ed economici. È chiaro che il cosiddetto Terzo mondo è ormai ovunque ci siano persone senza lavoro a causa di un sistema politico-economico che lo distrugge, è là dove ci sono uomini, donne e bambini im- possibilitati a nutrirsi in modo adeguato. Basta guardare lo stato di insicurezza ali- mentare negli Stati Uniti per rendersi conto che il Sud del mondo non ha più il mo- nopolio della miseria. L’esclusione e la precarietà si stanno diffondendo in modo al- larmante anche in Europa, dove assistiamo anno dopo anno a un impoverimento del- le grandi città davanti al quale i banchi alimentari e i sussidi pubblici sono solo dei

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Esperanza campesina di Andrea Braggio.

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Esperanza campesina

ANDREA BRAGGIO La Via che eleva l’uomo, vale a dire la coltivazione della propria natura e l’impegno verso i propri simili, tiene conto di una semplicità di vita che non è sinonimo di po-vertà, ma è invece vivo connubio tra felicità e condivisione nella sobrietà. La condivi-sione, in particolare, rappresenta il segno evidente dell’identificazione con Cristo, l’imitazione del quale non consiste solo nel guardare a un Modello realizzato storica-mente duemila anni or sono, ma nel lasciarsi pervadere dal Suo Spirito, che suggeri-sce al cuore risposte alle esigenze storiche dell’oggi. Il fatto che su questo Pianeta non abbiamo in realtà la proprietà di alcun bene, né il dominio assoluto, ma soltanto l’uso, può ben rappresentare una di queste risposte. Ma solo un cuore puro e umile può accettare il fatto che i desideri terreni non danno frutto e che nulla gli appartiene davvero. Da qui l’importanza di fare ritorno al cuore, come giudice e come guida, perché è propria del cuore la comprensione profonda del fatto che all’Eterno appartiene la terra e tutto ciò che è in essa (Salmo 24, 1). L’uomo può solo considerarsi un ammini-stratore di beni che a tempo debito dovrà restituire. Tutto è preso in prestito, compresa la terra da cui dipende per il sostentamento. Coltivazione interiore e coltivazione della terra fanno dunque appello all’humilitas dell’uomo, termine che sottende la parola humus, terra: uno stare con i piedi per terra pur volando alto con lo spirito. Nell’uomo umile e nobile di animo prevale l’interiore ricerca dell’armonia, che non può prescindere da un rapporto di benevolenza con il mondo agricolo e da una lotta al conformismo delle idee e dei costumi. C’è nel mon-do contadino di oggi un richiamo a questa saggezza antica che, tra le tante cose, ci ri-corda la necessità di essere coltivatori di umanità e di avere nei confronti della terra un approccio più umano. È maturo il tempo per una visione dell’agricoltura che muova contemporaneamente dal basso della società e dall’alto del pensiero, facendo leva sulla fatica del lavoro agricolo e la forza morale da una parte e sull’audacia intel-lettuale e la creatività delle nuove generazioni dall’altra. In termini pratici, questo si-gnifica produrre per il benessere dell’umanità rafforzando l’agricoltura familiare, con-tadina e comunitaria, invece di produrre in funzione del mercato, della speculazione e dei profitti dei grandi produttori e distributori di alimenti. Non è niente di meno che una revolución campesina, per la quale il problema alimentare mondiale non è questione di quantità ma di equità o, come direbbe Gandhi, non una produzione di massa, ma una produzione intelligente da parte delle masse, che valorizza e riconosce i saperi locali. Qui entra in gioco il ruolo essenziale delle resistenze contadine di tutto il mon-do nell’affermare la loro dignità e nel rivendicare un approccio alla terra molto diver-so dall’avidità e dal materialismo sfrenato delle corporazioni transnazionali. Il mondo contadino ci ricorda che la fame e la miseria non sono tanto condizionati da fattori naturali e geografici, quanto da fattori sociali ed economici. È chiaro che il cosiddetto Terzo mondo è ormai ovunque ci siano persone senza lavoro a causa di un sistema politico-economico che lo distrugge, è là dove ci sono uomini, donne e bambini im-possibilitati a nutrirsi in modo adeguato. Basta guardare lo stato di insicurezza ali-mentare negli Stati Uniti per rendersi conto che il Sud del mondo non ha più il mo-nopolio della miseria. L’esclusione e la precarietà si stanno diffondendo in modo al-larmante anche in Europa, dove assistiamo anno dopo anno a un impoverimento del-le grandi città davanti al quale i banchi alimentari e i sussidi pubblici sono solo dei

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palliativi. Affinché l’Era della condivisione generi qualcosa di diverso dalla rovina verso cui l’uomo sta dirigendosi, occorre che fin da ora nascano coraggiose alternati-ve alla crescita e alla competizione perseguite a tutti i costi. Negli ultimi anni è stata avanzata dall’economista Serge Latouche la proposta della decrescita, motivata soprattutto dall’insostenibilità dell’attuale ordine economico a cau-sa del suo impatto distruttivo sulle risorse ambientali del pianeta, impatto che reca con sé la minaccia di immense catastrofi1. La decrescita raccoglie gruppi e individui che hanno formulato una critica radicale dello sviluppo e sono interessati a individua-re gli elementi di un progetto alternativo per una politica del doposviluppo. Oggi molte idee espresse da Latouche e condivise da altri studiosi vengono però banalizzate o accuratamente nascoste dalle leadership politiche e mediatiche che compongono l’opinione pubblica mondiale e in gran parte la determinano, così che quest’ultima viene privata della possibilità di riflettere e prepararsi consapevolmente alla non rin-viabile necessità di mutare abitudini, modi di lavorare e di consumare.

I limiti della crescita sono definiti sia dalla quantità disponibile di risorse natu-rali non rinnovabili sia dalla velocità di rigenerazione della biosfera per le risorse rin-novabili. Allo stesso tempo, però, il filosofo Ervin Laszlo ricorda che i veri limiti dell’umanità sono anzitutto interni piuttosto che esterni. Non si tratta cioè solo di limiti fisici dovuti alle dimensioni finite o alla vulnerabilità del pianeta, ma «psicologici, cul-turali e, soprattutto, limiti politici interni alle persone e alle società, manifestati da una cattiva gestione, da una irresponsabilità e da una miopia individuale e collettiva»2.

Nell’opera intitolata Il punto del caos (2007), Laszlo ritiene che l’umanità soffra di una sorta di ritardo culturale e che non esista problema mondiale che non possa essere ricondotto all’azione umana e risolto da cambiamenti appropriati nel compor-tamento dell’uomo. Trovare una direzione per la prossima trasformazione di civiltà significa però evolvere una cultura e una coscienza molto diverse da quelle materiali-ste e manipolative, guidate dalla ricerca di ricchezza e potere che hanno caratterizzato il ventesimo secolo. Con l’ossessivo inseguimento della ricchezza, del potere e del dominio, con i valori patriarcali consolidati di continua sottovalutazione sia delle qua-lità femminili sia delle donne, e con la violazione dei diritti e l’oppressione di una considerevole parte di umanità incapace di rappresentare con efficacia i propri biso-gni e la propria difficile situazione, la civiltà moderna ha rivolto contro l’uomo il suo lato violento. Da qui la necessità di un cambiamento educativo che porti a un risve-glio del senso di comune solidarietà umana, di cura e di un’autentica sensibilità verso il prossimo, che è parte di una visione dell’uomo secondo cui non c’è autorealizza-zione senza l’altro.

Non si tratta di scegliere tra la propria felicità e quella altrui, perché non si può essere felici da soli. La dimensione sociale è costitutiva dell’essere umano e non la si può negare senza negare quest’ultimo; e neppure si tratta di moralismo altruisti-co, perché non si deve rinunziare alla qualità della propria vita, ma perseguire la sola che sia capace di rendere felici, quella che include anche la vita degli altri.

1 Rimando in particolar modo a S. Latouche, La Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Bollati Boringhieri, Torino 1995; S. Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolo-nizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa, Bollati Boringhieri, Torino 2005; S. Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2007; S. Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 2 E. Laszlo, I limiti interni della natura umana. Pensieri eretici sui valori, la cultura e la politica, Feltrinelli, Mila-no 1990, p. 25.

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L’economia funziona, è sana, se è un’economia di servizio. Non può essere un’economia di mercato, di stato, un’economia del capitale e neppure del la-voro come fine in sé. Dev’essere invece un’economia di servizio ai bisogni delle persone e dei popoli, di servizio alla convivenza con la natura, di servizio all’accoglienza delle nuove generazioni. Se non è di servizio, l’economia di-venta una macchina che produce morte3.

Trovare una direzione per la prossima trasformazione di civiltà significa dun-

que evolvere una cultura animata da un desiderio di giustizia che produce non ven-detta ma futuro comune, non esclude ma genera libera integrazione, non lascia gli e-sclusi al loro destino ma li risolleva. Questo significa prendere le distanze da una cul-tura consumista, che consiste nel dare la priorità alle motivazioni estrinseche come il denaro, i beni di consumo e il successo, per lavorare su una cultura delle relazioni, che riparte cioè dalla persona e dai suoi affetti, dalla famiglia e da tutti quei comporta-menti pro-sociali mutilati dall’attuale economia di mercato e dalle sue istituzioni for-mative.

L’economia di mercato è il tentativo di costruire un sistema economico che faccia a meno delle motivazioni intrinseche. Si tratta di un sistema che mette in relazione gli individui per motivi strumentali. Così facendo influenza la percezione del perché stiamo in relazione, fornisce un senso al nostro stare insieme, al nostro costituire una società, suggerisce che il motivo è strumenta-le, cioè poggia sull’interesse personale e materiale. In sostanza, il mercato en-fatizza la capacità umana di stare in relazione per motivi estrinseci. L’appello al vantaggio personale come motivazione alle relazioni ridefinisce le motiva-zioni alle relazioni stesse, non risparmiando neanche quelle intime4.

Si tratta dunque di rigettare il fatto che ci si possa conformare completamente

al sistema economico vigente, adottandolo come una cultura globale che decide di ogni atto quotidiano e persino dei sentimenti e delle relazioni interpersonali. In un frangente simile, il filosofo Roberto Mancini ricorda che tornare a pensare in modo critico l’economia è qualcosa di irrinunciabile se desideriamo che l’uomo abbia un fu-turo.

Pensare l’economia. Può sembrare una formula astratta e di poco conto, quando invece si tratta di cambiarla con urgenza. Eppure questa espressione vale a ricordare un conflitto e un compito ineludibili. Che l’economia vada ri-pensata e profondamente ristrutturata è evidente a chiunque abbia mantenuto una coscienza desta. Proprio per questo è però necessario non sottrarsi al conflitto tra il pensiero critico e l’economia vigente. L’economia del capitali-smo globale si è trasformata in pensiero corrente, cultura totale, sguardo ubi-quo. La metafisica del nostro tempo. Quasi tutti sono costretti di fatto a pen-sare immersi nella sua logica. Così, per esempio, ci siamo ridotti a chiamare le strutture di cura della salute umana “aziende sanitarie”, gli studenti “clienti” e i progetti per la loro educazione “offerta formativa”. Quando vogliamo evi-denziare che qualcuno è generoso ci viene spontaneo dire che “si spende” per gli altri. L’avvenire lo pensiamo nelle percentuali del Pil e l’identità umana è

3 R. Mancini, Idee eretiche. Trentatré percorsi verso un’economia delle relazioni, della cura e del bene comune, Altra Economia, Milano 2010, p. 65. 4 S. Bartolini, Manifesto per la felicità. Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere, Donzelli Editore, Roma 2010, p. 27.

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fissata e divisa in due grandi categorie: le risorse, cioè gli abili a produrre pro-fitto, e gli esuberi, quelli che sono d’intralcio e verso i quali la società non si riconosce obbligata a nulla5.

Nel pensare in modo critico l’economia del capitalismo globale – che peraltro

rappresenta un compito di tutti nonostante possa richiedere certe competenze e crea-tività intellettuali – entrano in gioco delle capacità educative. In Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (2013), la filosofa Martha Nussbaum sot-tolinea il fatto che i cittadini non possono relazionarsi bene alla complessità del mondo che li circonda soltanto grazie alla logica e al sapere fattuale. La terza componen-te del cittadino, strettamente correlata alle prime due, è quella che lei chiama immagi-nazione narrativa, vale a dire la capacità di pensarsi nei panni di un’altra persona, di es-sere un lettore intelligente della sua storia, di comprenderne le emozioni, le aspettati-ve e i desideri. La ricerca di tale empatia, che è parte essenziale delle migliori conce-zioni di educazione alla democrazia, avviene in buona parte all’interno della famiglia e della scuola. Proprio queste due realtà assolvono, o dovrebbero assolvere, al delicato compito di coltivare una formazione che attivi e perfezioni la capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi di un’altra persona. Qui è possibile sviluppare un’autentica sensibilità verso gli altri e confrontarsi con le inadeguatezze e le fragilità umane, insegnando a non vergognarsi del bisogno e delle difficoltà, che rappresenta-no invece occasioni di cooperazione e reciprocità.

La spinta al profitto induce molti leader a pensare che la scienza e la tecnolo-gia siano di cruciale importanza per il futuro dei loro paesi. Non c’è nulla da obiettare su una buona istruzione tecnico-scientifica, e non sarò certo io a suggerire alle nazioni di fermare la ricerca a questo riguardo. La mia preoccu-pazione è che altre capacità, altrettanto importanti, stiano correndo il rischio di sparire nel vortice della concorrenza: capacità essenziali per la salute di qualsiasi democrazia al suo interno e per la creazione di una cultura mondiale in grado di affrontare con competenza i più urgenti problemi del pianeta. Tali capacità sono associate agli studi umanistici e artistici: la capacità di pensare criticamente; la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali come «cittadini del mondo»; e, infine, la capacità di raffigurarsi sim-pateticamente la categoria dell’altro6.

Nussbaum offre una descrizione del mondo dove ogni essere umano manife-

sta debolezze e ha bisogno di trovare sostegno in qualcun altro e dove oggi, più che in ogni altra epoca del passato, tutti noi dipendiamo da persone che non abbiamo mai visto, le quali a loro volta dipendono da noi. In linea con il pensiero di Laszlo, Nussbaum fa emergere il fatto che negli ultimi decenni, con la corsa al profitto sul mercato mondiale, questa interdipendenza è stata completamente trascurata.

Oggi, invece, persone di ogni parte del mondo iniziano a capire che il pianeta che abitano non è un fondale passivo delle azioni umane e che l’agire individuale ha un impatto immediato, anche se non sempre immediatamente evidente, sugli altri e sull’ambiente.

5 R. Mancini, Idee eretiche. Trentatré percorsi verso un’economia delle relazioni, della cura e del bene comune, Altra Economia, Milano 2010, p. 15. 6 M. C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, Bo-logna 2013, p. 26.

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Non possiamo comprendere da dove viene anche solo una bibita senza pen-sare a come si vive in altre nazioni. Allora, quando lo facciamo, ha senso do-mandarsi quali siano le condizioni di lavoro di queste persone, la loro istru-zione, i loro rapporti di lavoro. E quando ci poniamo tali domande, dobbia-mo pensare alle nostre responsabilità verso queste persone, in quanto noi concorriamo a creare le loro condizioni di vita. In che modo il network inter-nazionale di cui noi consumatori siamo parte essenziale determina le loro condizioni di lavoro? Quali opportunità hanno? Dobbiamo accettare di essere parte dell’ingranaggio che produce la loro situazione, oppure dobbiamo pre-tendere dei cambiamenti? Come potremmo promuovere una vita dignitosa per coloro che, al di fuori dei nostri confini, producono ciò di cui abbiamo bisogno – esattamente come ci sentiamo, di solito, di contribuire a farlo per i lavoratori del nostro paese7?

Affrontare tali questioni in modo adeguato significa avere una comprensione

minima del funzionamento dell’economia mondializzata e della sua storia, capire per esempio il ruolo svolto dal colonialismo nel passato, degli investimenti esteri e delle società multinazionali più di recente.

Da questo punto di vista, fanno oggi scuola molti movimenti che lottano per la sovranità alimentare, per affermare il diritto e il dovere di proteggere, sostenere e supportare tutte le condizioni necessarie a incoraggiare una produzione alimentare abbondante, sana, accessibile a tutti e tale da conservare la terra, l’acqua e l’integrità ecologica dei luoghi in cui viene prodotta, rispettando e sostenendo i mezzi di sussi-stenza dei produttori.

È un paradosso dei tempi in cui viviamo il fatto che questo principio, questo diritto, debba essere riaffermato e si debbano lanciare continui appelli perché venga riconosciuto ai popoli. In fondo parrebbe la cosa più normale: ho un campo, ci coltivo quello che cresce meglio, le varietà locali, e lo faccio per me e per la mia famiglia prima di tutto, dopodiché posso vendere quello che pro-duco in più, perché ci sono persone sul mio territorio e nei territori vicini che apprezzano il mio lavoro, la mia cura nel produrre cibo e mi pagano il giusto. Se dovessimo fare la nostra particolare analisi logica anche di questa lunga concatenazione di periodi, scopriremmo che queste semplici affermazioni non sono più così scontate e che predicati verbali come coltivare, vendere, apprezzare, pagare, sono diventati tutti una trappola; tanto per i contadini quanto per chi mangia. Gli intermediari che si trovano in mezzo al percorso che il cibo fa dal campo alla tavola, hanno stravolto questi significati, li hanno plasmati in funzione del loro profitto e ricostringono a rivendicare cose che dovrebbero essere normali. Prendiamo ad esempio il concetto di “biologico”. Se ci si pensa bene, al di là delle tante considerazioni che si possono fare, co-me idea di base il “biologico” è una sorta di controsenso: dobbiamo certifica-re ed etichettare il naturale, ciò che cresce senza additivi, su terreni fertili e puliti; ciò che dovrebbe essere la norma, perché la natura funziona così. Inve-ce, assurdamente, è diventata l’eccezione da certificare, mentre il resto, viziato da ogni sorta di artifizio e immissione esterna nel ciclo naturale, si è trasfor-mato nel “normale”8.

7 Ivi, p. 98. 8 C. Petrini, Terra Madre. Come non farci mangiare dal cibo, Giunti Editore, Firenze 2009, p. 103.

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La lotta per la conquista della sovranità alimentare rappresenta un modo per valorizzare l’insieme dei saperi delle comunità del cibo e un’agricoltura contadina dai tratti distintivi: uso della terra piuttosto che possesso, lavoro prevalente di tipo familiare e non salariato, autoconsumo che viene prima della vendita dei prodotti, aiuto reciproco senza competizione, lavoro agricolo che deriva dal saper fare locale e dalle esperien-ze, promozione di una razionalità ecologica e non economica, resistenza e ricontadi-nizzazione9.

Da una parte il sistema contadino prevede una struttura sociale che permette di condividere e fare crescere la conoscenza collettiva. In termini informatici si direbbe cloud. Mentre nel sistema classico dell’agricoltura industriale, si pre-vede l’intervento di pochi soggetti terzi che forniscono ciò di cui l’agricoltore ha bisogno per coltivare, ma possedendone la “proprietà intellettuale”: quella dei semi, dei concimi, dei diserbanti etc. L’idea di condividere i semi, fare e-volvere le piante, la terra e la cultura in un sistema condiviso somiglia dunque alla “nuvola di internet” dove le informazioni sono liberamente accessibili e il patrimonio intellettuale è fornito dalla collettività a beneficio degli utenti10.

L’agricoltura contadina fa il possibile per creare filiere corte e virtuose, predi-

lige l’economia di relazione con forme di solidarietà concreta fra consumatori e pro-duttori, protegge e perpetua la biodiversità e le sementi contadine.

Da moltissimo tempo le comunità di tutto il mondo hanno selezionato e cu-stodito con cura le varietà locali più importanti per loro, sviluppando le cono-scenze sulle loro specifiche proprietà ed esigenze. Il libero scambio di mate-riali da semina tra i coltivatori è stato fondamentale per la biodiversità e la si-curezza alimentare e rappresenta una conoscenza popolare accumulatasi nei secoli. Lo scambio si basa sulla cooperazione e la reciprocità e si accompagna a uno scambio di idee e di conoscenze, di cultura e di tradizioni11.

L’idea di una agricoltura contadina, ecologica e a basso impatto ambientale,

che prevede schemi di sviluppo differenti da quelli dell’agricoltura convenzionale, viene dal passato ma guarda al futuro, è innovativa e rappresenta una riconquista di ci-viltà:

[…] i contadini possono alimentare il mondo, lo hanno fatto per migliaia di anni, e possono inoltre contribuire a raffreddare il pianeta, a ridurre l’uso dei combustibili e pesticidi, alla produzione ecologica, alla cattura dell’anidride carbonica nei boschi e nelle foreste in modo da ridurre gli effetti del cambia-mento climatico12.

Il movimento internazionale La Via Campesina, che dichiara di lottare contro

il modello neoliberista che organismi come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio vogliono imporre in tut-to il mondo, è una delle espressioni più concrete e vivaci di questa riconquista. Nello

9 D. Ciccarese, I semi e la terra. Manifesto per l’agricoltura contadina, Altra Economia, Milano 2013, p. 85. 10 Ivi, pp. 87-88. 11 Ivi, pp. 22-23. 12 E. Ladrón de Guevara Alafita, Sovranità alimentare e lotta contro la fame: UNORCA – La Via Campesina in Messico, in Sicurezza alimentare nei Paesi in via di sviluppo, a cura di C. Tornimbeni, Aiep Editore, Re-pubblica di San Marino 2010, p. 120.

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specifico, lo scopo de La Via Campesina è quello di tentare un approccio alternativo riguardante il cibo e l’agricoltura, basato su equità, giustizia sociale e sostenibilità eco-logica, in modo da garantire e proteggere lo spazio, la capacità e il diritto delle perso-ne a definire i propri modelli di produzione, distribuzione e consumo13. La Via Campe-sina, il cui motto è «globalizziamo la lotta, globalizziamo la speranza», traduce quell’umanesimo rivoluzionario di cui parla l’economista Raj Patel quando si riferisce a una nuova coscienza dei gravi problemi che oggi abbiamo di fronte e di una nuova volontà personale e politica di risolverli, soprattutto in riferimento alla lotta per l’affermazione di un paradigma alternativo per il cibo, l’agricoltura e il benessere u-mano14. Tale umanesimo altro non è che ricerca di felicità e di benessere individuale e sociale, fatti certamente di aspetti materiali, ma anche di salute, conoscenza e cultura, opportunità di lavoro e relazioni interpersonali. Una ricerca che parte dal cibo, con-cepito come un diritto umano fondamentale: a tutti deve essere garantito l’accesso a un cibo sano, nutriente e culturalmente appropriato che sia sufficiente, per quantità e qualità, a sostenere una vita salutare assicurando allo stesso tempo una piena dignità umana. Include poi la valorizzazione di comportamenti individuali e collettivi animati da spirito di servizio e reciproca solidarietà, orientati alla cooperazione e al bene co-mune, a stili di vita attenti alla sobrietà nella soddisfazione dei bisogni materiali, alla cura nell’evitare sprechi, a un uso dei beni economici e del denaro che non li trasfor-mi in un fine in se stessi. Un umanesimo della responsabilità fondato sulla compas-sione nel rapporto degli esseri umani tra loro e con la natura, sul comunitarismo co-me condizione del vivere insieme armoniosamente nel pieno rispetto della libertà e dei diritti delle persone, sul mantenimento degli equilibri ecologici, sulla valorizzazio-ne dei saperi e delle tradizioni locali.

Ne Il punto del caos anche Laszlo descrive questa aspirazione diffusa a vivere una vita semplice, sana, integra ed etica. Egli affronta l’affermarsi di una cultura

costituita da persone che stanno ripensando i propri comportamenti, priorità, valori e preferenze, passando da un consumo basato sulla quantità verso una selettività in vista della qualità definita da minor impatto sull’ambiente, soste-nibilità ed etica della produzione e dell’uso. In questa cultura, gli stili di vita in cui vi è ostentazione dello spreco di materiali ed energia si stanno spostando verso modalità di vita contrassegnate da una volontaria semplicità e dalla ri-cerca di una nuova moralità e armonia con la natura15.

Questi mutamenti di valori e comportamenti, che guardano come irrinuncia-

bili e inseparabili ecologia (equilibrio fra sistemi umani ed ecosistemi, e dunque rifon-dazione del modello produttivo, di consumi e di pensiero), eguaglianza (accesso parita-rio ai beni comuni naturali e ai servizi collettivi) ed empatia (rispetto degli animali e in generale della componente vivente dell’ecosistema), insistono poi sull’affermazione del carattere di beni comuni – dunque collettivi e non privatizzabili – delle risorse natu-rali a cominciare dall’acqua.

Quattro quinti della superficie del pianeta sono ricoperti d’acqua, e l’idea che l’umanità possa restare senz’acqua sembra balzana. Ma per essere usata

13 Per un approfondimento rimando a A. A. Desmarais, La Via Campesina. La globalizzazione e il potere dei contadini, Jaca Book, Milano 2009; E. Holt-Giménez, Campesino a Campesino. Voices from Latin Ameri-ca’s Farmer to Farmer Movement for Sustainable Agriculture, Food First Books, San Francisco 2006. 14 R. Patel, Global Fascism, Revolutionary Humanism and the Ethics of Food Sovereignty, «Development», 48, 2, 2005, pp. 79-83. 15 E. Laszlo, Il punto del caos. Guerre, catastrofi naturali, sistemi sociali in difficoltà: che cosa fare prima che sia trop-po tardi?, Urra, Milano 2007, p. 72.

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dall’uomo l’acqua dev’essere dolce e l’acqua salata negli oceani e dei mari co-stituisce il 97,5% del volume d’acqua totale del pianeta. Due terzi dell’acqua restante sono concentrati nelle calotte polari e nel sottosuolo. L’acqua dolce rinnovabile potenzialmente disponibile per il consumo umano (acqua nei la-ghi, nei fiumi e nelle riserve idriche) non è più dello 0,007% dell’acqua pre-sente sulla superficie della terra. Questa goccia relativamente piccola è essen-ziale: una persona può sopravvivere per circa un mese senza cibo, ma non più di una settimana senz’acqua16.

Il bene naturale più importante è oggi inquinato dagli usi umani, prosciugato

da modelli di sviluppo e stili di vita idrovori, sconvolto dai cambiamenti climatici, dalla deforestazione, mercificato e sprecato in lussi ed eccessi, conteso da un numero crescente di persone e attività. La crisi idrica globale riguarda un terzo del pianeta e, assieme all’effetto serra che la aggrava, rappresenta la minaccia più preoccupante alla sopravvivenza umana e dell’ecosistema. Carenza d’acqua significa carenza di cibo a breve termine, e senza un grande sforzo collettivo l’acqua da condividere sarà sempre più oggetto di contesa17.

Il problema dell’acqua, l’erosione, la desertificazione e la salinizzazione dei suoli, la perdita di biodiversità di specie animali e vegetali che minaccia il pool geneti-co della stessa specie umana, l’accumulazione di rifiuti tossici, sono tutti aspetti di una violenza dell’uomo sulla natura, di un deterioramento sistemico dell’ambiente terrestre che è il prodotto diretto e indiretto di una civiltà che, in base alle teorie neo-liberiste che la orientano, attribuisce valore principalmente al consumo delle risorse naturali18.

Una crescita illimitata e puramente quantitativa nella produzione e nel con-sumo di energia e materiali non è possibile su un pianeta che non è infinito e che possiede una biosfera dall’equilibrio delicato; alla fine, è destinata a diven-tare una crescita molto simile a un cancro19.

Inutile dire che l’umanità è incamminata su una strada che sta per giungere a

un bivio. Nello spazio dei prossimi anni l’evoluzione della nostra civiltà sarà obbligata a prendere una nuova direzione e ad affrontare il disastro ambientale – e il dissesto ali-mentare che ne fa parte – in base a programmi di lungo periodo e per mezzo di cam-biamenti dei modi di vivere, produrre e consumare, rimettendo totalmente in discus-sione l’idea che oggi abbiamo di crescita e competizione. In un mondo attraversato da questioni decisive per le sorti dell’umanità quali il rapido aumento della povertà, della disoccupazione e degli squilibri fra ricchi e poveri da una parte e la difficoltà di com-porre benessere economico, coesione sociale e libertà politica dall’altra, lo scenario recessionista dell’economia liberal-produttivista dei prossimi anni ci farà «compren-dere che utopistico non è voler cambiare il sistema, ma pretendere di mantenerlo»20. 16 Ivi, p. 39. 17 L. R. Brown, 9 Miliardi di posti a tavola. La nuova geopolitica della scarsità di cibo, Edizioni Ambiente, Mi-lano 2012, pp. 91-105. 18 S. Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 34-36. 19 E. Laszlo, Il punto del caos. Guerre, catastrofi naturali, sistemi sociali in difficoltà: che cosa fare prima che sia trop-po tardi?, Urra, Milano 2007, pp. 56-57. 20 R. Mancini, Idee eretiche. Trentatré percorsi verso un’economia delle relazioni, della cura e del bene comune, Altra Economia, Milano 2010, p. 88.