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Facoltà di Economia Corso di Laurea Magistrale in Economia Aziendale TESI DI LAUREA CORPORATE GOVERNANCE NEL SETTORE BANCARIO Effetti sulla performance delle banche italiane RELATORE CANDIDATA Prof.ssa Maria Mazzuca Graziella Mendicino Matr. 136070 Anno accademico 2010/2011 1

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Facoltà di Economia

Corso di Laurea Magistrale in Economia Aziendale

TESI DI LAUREA

CORPORATE GOVERNANCE NEL SETTORE BANCARIO

Effetti sulla performance delle banche italiane

RELATORE CANDIDATA

Prof.ssa Maria Mazzuca Graziella Mendicino

Matr. 136070

Anno accademico 2010/2011

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INDICE

Introduzione…………………………………………………………………………5 CAPITOLO 1 – CORPORATE GOVERNANCE: ASPETTI

DEFINITORI, TEORIE E PROBLEMI APERTI

1.1 Corporate governance: aspetti definitori…………………………………..8

1.2 Corporate governance, teoria dell’agenzia e conflitto d’interesse…….....13

1.2.1 Altri conflitti……………………………………………………....16

1.3 Incompletezza contrattuale........................................................................18

1.4 Meccanismi di corporate governance……………………………………20

1.4.1 Meccanismi di controllo interno…………………………………..20

1.4.2 Meccanismi di controllo esterno…………………………………..25

1.4.3 Product market competition……………………………………….26

1.5 Meccanismi legali e regolamentari………………………………………27

1.5.1 “Famiglie” di diritto commerciale e cenni storici…………............28

1.5.2 Modelli societari…………………………………………………..30

1.5.3 Uno sguardo all’Italia……………………………………………..33

1.6 Alcune prime considerazioni…………………………………………….36

CAPITOLO 2 –CORPORATE GOVERNANCE NELLE BANCHE

2.1 Specificità della corporate governance nelle banche…………………….37

2.1.1 Opacità…………………………………………………………….39

2.1.2 Regolamentazione…………………………………………………41

2.1.3 Banche e corporate governance delle altre imprese………………43

2.2. Sistema bancario italiano………………………………………………..46

2.2.1 Trasformazioni degli anni Novanta……………………………...46

2.2.2 Specificità della legislazione bancaria italiana…………………..51

2.2.3 Consiglio di amministrazione……………………………………53

2.2.4 Controllo interno…………………………………………………54

2.2.5 Particolarità dei nuovi modelli societari: monistico e dualistico..57

2.3 Modello tradizionale, monistico e dualistico: casi scelti di banche italiane…………………………………………………………………...59

2.3.1 Ubi, Intesa San Paolo e Banco Popolare: motivi della scelta.........61

2.3.2 Mediobanca: motivi del ripensamento……………………………64

2.4 Riflessioni finali………………………………………………………….66

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CAPITOLO 3 – EFFETTI DELLA CORPORATE GOVERNANCE

SULLA PERFORMANCE. L’EVIDENZA EMPIRICA PER LE

BANCHE ITALIANE

3.1 Introduzione……………………………………………………………68

3.2 Letteratura……………………………………………………………...70

3.3 Dati e campione………………………………………………………..81

3.4 Indici di corporate governance………………………………………...83

3.5 Metodologia……………………………………………………………93

3.6 Risultati……………………………………………………………….103

3.7 Considerazioni su corporate governance e crisi……………………...120 Conclusioni………………………………………………………………………...124

Bibliografia………………………………………………………………………...128

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INDICE DELLE TABELLE

Tabella 1 – Origini dei sistemi giuridici europei……………………………………30

Tabella 2 – Strutture del Consiglio di Amministrazione in Europa…………………31

Tabella 3 – Campione……………………………………………………………….83

Tabella 4 – Banche del campione che adottano il Codice di Autodisciplina e altri codici di autoregolamentazione……………………………….86

Tabella 5 – Amministratori indipendenti nel Consiglio di Amministrazione delle banche del campione…………………………………………….88

Tabella 6 – Comitati interni al CdA delle banche del campione………………..…..90

Tabella 7 – Azionisti di maggioranza delle banche del campione (anno 2009) ……92

Tabella 8 – Variabili ……………………………………………….……………...102

Tabella 9 – Principali statistiche descrittive ………………………………………103

Tabella 10 – Risultati: indici di corporate governance e ROE…………………….104

Tabella 11 – Risultati: indice “Gov-firm specific” e ROE………………………...107

Tabella 12 – Risultati: indice “Gov-firm specific” e Z-score……………………...109

Tabella 13 – Risultati: indice “Gov-board” e ROE………………………………..111

Tabella 14 – Risultati: indice “Gov-board” e Z-score……………………………..113

Tabella 15 – Risultati: indice “Gov-shareholders” e ROE………………………...114

Tabella 16 – Risultati: indice “Gov-shareholders” e Z-score……………………...116

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INTRODUZIONE

Tra i temi che recentemente hanno attirato l’attenzione di studiosi, managers,

investitori, policy-makers e regulators, va sicuramente menzionata la corporate

governance. Negli ultimi anni, infatti, è stato riportato al centro del dibattito

economico e politico il delicato argomento del governo societario, delle sue finalità e

del funzionamento equilibrato degli organi preposti alla gestione delle imprese.

I recenti scandali societari (dai casi Enron e WorldCome negli Stati Uniti, ai dissesti

di Parmalat e Cirio in Italia, alla crisi delle Banche dei Laender tedeschi), seppur

caratterizzati da diversi aspetti, si sono concentrati in un arco temporale

relativamente limitato, imponendo un ripensamento degli assetti proprietari e dei

meccanismi di governo delle imprese.

La corporate governance è un tema complesso e pluridisciplinare. Non è un caso,

quindi, che si trovino diverse visioni e definizioni di governo societario, a seconda

degli aspetti privilegiati. Esistono studi che attribuiscono alla corporate governance

la finalità di tutelare esclusivamente gli interessi degli azionisti (Shleifer e Vishny,

1997) ed altri secondo i quali, invece, l’attività di governo societario deve

contemplare gli interessi di tutti gli stakeholders (Masera, 2006; Salvatori, 2001).

Analogamente, si registrano posizioni contrapposte circa l’individuazione dei

meccanismi principali di corporate governance: alcuni riconoscono al Consiglio di

Amministrazione un ruolo primario (Hermalin e Weisbach, 2001), altri esaltano la

composizione della struttura proprietaria ed il sistema di regole vigenti in un

determinato Paese (La Porta et al., 1999, 2002).

Elemento comune a molti degli studi in materia, tuttavia, è la ricerca di una qualche

relazione esistente tra la corporate governance e la performance aziendale.

Un’ampia parte della letteratura economica, infatti, ha confrontato e continua a

confrontare i diversi assetti possibili, in un’analisi tra i modelli di governance

dominanti e gli effetti sulla ricchezza prodotta dalle imprese (La Porta et al., 1998;

Core et al., 2006; Iannotta et al., 2007). Si cerca insomma di individuare le principali

determinanti dei meccanismi di governance per poi verificarne l’eventuale impatto

sulla performance delle imprese.

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Se gli studi che hanno indagato l’esistenza di una relazione tra governance e

performance delle imprese industriali si sono moltiplicati negli anni, meno numerose

sono le ricerche che hanno affrontato l’argomento con riferimento alle imprese

finanziarie e, nello specifico, alle banche (Fama, 1985; Levine, 2004).

Gli istituti bancari, tra l’altro, si collocano al centro del processo di intermediazione

fra risparmio e investimento; costituiscono il tessuto connettivo per il sistema dei

pagamenti; sono esposte a rischi finanziari molto più accentuati e suscettibili di

generare effetti sistemici di una certa gravità sull’intero sistema economico.

Il settore bancario, negli ultimi anni, ha affrontato cambiamenti significativi a livello

internazionale. Comprendere come e in che misura i meccanismi di corporate

governance riescono a influenzare la capacità delle banche di produrre valore e di

raggiungere determinati risultati in termini di performance complessiva, diventa

fondamentale per capire ed indirizzare ulteriori cambiamenti ed evoluzioni.

Il presente lavoro ha come obiettivo lo studio della corporate governance nel settore

bancario. A conclusione della tesi viene anche svolta un’analisi empirica volta a

verificare l’esistenza di una relazione tra i meccanismi di corporate governance e la

performance aziendale, misurata in termini di ROE e di Z-score. Il campione oggetto

di studio si compone di tutte le banche quotate italiane nel periodo compreso tra il

2005 e il 2009.

Il lavoro si articola in tre capitoli. Nel primo capitolo si trattano tutti i delicati aspetti

definitori legati alla corporate governance. Vengono poi discusse le teorie che

giustificano il dibattito sul governo societario; tra queste particolare attenzione è

dedicata alla teoria dell’agenzia. Successivamente l’analisi si sposta sui meccanismi

di corporate governance. Principalmente vengono studiati i meccanismi di controllo

interno, quelli di controllo esterno e quelli legali e regolamentari. Il capitolo si

conclude con l’analisi del caso italiano e con alcune prime considerazioni finali.

Nel secondo capitolo l’analisi si concentra sulla corporate governance nel settore

bancario. Ne vengono innanzitutto evidenziate le specificità quali la maggiore

opacità, l’intensa regolamentazione, la complessità derivante dall’attività di

intermediazione finanziaria che lega le banche stesse alle altre imprese del settore

economico. Lo studio prende poi in considerazione il settore bancario italiano.

Innanzitutto si analizzano le importanti trasformazioni degli anni Novanta.

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Successivamente l’analisi si concentra sulla corporate governance bancaria, sulle sue

peculiarità e sui meccanismi di controllo. Il capitolo si conclude con lo studio di

scelti casi emblematici, quali quelli di UBI, Intesa San Paolo, Banco Popolare e

Mediobanca.

Il terzo capitolo, infine, propone l’analisi empirica avente ad oggetto la relazione tra

alcuni indici di corporate governance appositamente costruiti e la performance delle

banche quotate italiane.

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CAPITOLO 1

CORPORATE GOVERNANCE: ASPETTI DEFINITORI,

TEORIE E PROBLEMI APERTI

1.1 CORPORATE GOVERNANCE: ASPETTI DEFINITORI L’etimologia del termine Governance non è del tutto chiara: secondo alcuni il

termine deriva dal sanscrito kubara che significa “timone”; altri ne riconducono

l’origine al greco kubernan ossia “reggere il timone” o al latino gubernare vale a dire

“condurre la nave”.

Indipendentemente dalla derivazione etimologica, il significato appare comunque

facilmente intuibile: la Governance applicata all’impresa1 (da cui il termine

“Corporate”) attiene a quel sistema di regole ed istituzioni che consentono ed

indirizzano l’attività imprenditoriale.

Ciò nonostante è difficile trovare un’unica definizione che sappia riassumere tutti gli

aspetti e le funzioni tipiche della Corporate Governance.

Secondo la Banca Centrale Europea (2004) “The corporate governance structure

specifies the distribution of rights and responsibilities among the different

participants in the organisation – such as the board, managers, shareholders and other

stakeholders – and lays down the rules and procedures for decision-making”.

In base ai principi OCSE, ancora, la Corporate Governance “involves a set of

relationships among a company’s management, its Board, its shareholders and other

stakeholders. Corporate governance also provides the structure through which the

objectives of the company are set, and the means of attaining those objectives and

monitoring performance are determined” (OECD, 1999).

1 In tutto il presente lavoro, il termine di impresa si riferisce essenzialmente alle società di capitali.

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In Italia il Codice Preda2 riporta la seguente definizione: “Corporate Governance, in

the sense of the set of rules according to which firms are managed and controlled, is

the result of norms, traditions and patterns of behaviour developed by each economic

and legal system. . . . the main aim of a good Corporate governance system is

creating shareholder value”.

Onado (2000), invece, considera la Corporate Governance come “il sistema mediante

il quale le imprese vengono gestite e controllate e dunque vengono rappresentati e

composti i molteplici interessi dei vari soggetti (stakeholders) che hanno (o possono

avere) rapporti economici con l’impresa”.

Ponendo l’attenzione sull’aspetto finanziario, si potrebbe giungere alla conclusione

secondo cui la Corporate Governance “deals with the ways in which suppliers of

finance to corporations assure themselves of getting a return on their investment”

(Shleifer e Vishny, 1997).

La definizione più semplice e diffusa, tuttavia, è quella fornita dal Cadbury Report 3

secondo la quale “corporate governance is the system by which businesses are

directed and controlled”.

La presenza di tante, diverse, spiegazioni circa il concetto di governance non è altro

che la prova di quanto acceso e vivo sia il dibattito che in questi anni ha fatto

notevolmente aumentare l’attenzione nei confronti del tema del governo societario.

2 Codice di Autodisciplina per le Società Quotate: è stato redatto dal Comitato per la Corporate

Governance ed emanato da Borsa Italiana nel 1999, edizioni rivisitate nel 2002 e nel 2006. Deve il suo

nome al prof. Stefano Preda, fondatore e presidente del comitato guida sulla corporate governance.

Il Codice si propone di aumentare l’affidabilità delle società quotate attraverso l’applicazione di un

modello organizzativo in grado di gestire correttamente i rischi d’impresa e gli eventuali conflitti

d’interesse tra gestione (amministratori) e proprietà (azionisti), tra minoranze e maggioranze.

La sua adozione è facoltativa.

3 Il “Financial Aspects of Corporate Governance”, meglio noto come “Cadbury Report”, è un

codice di autodisciplina inglese contenente indicazioni circa l’organizzazione dei consigli di

amministrazione e i sistemi contabili al fine di limitare i rischi e i problemi connessi alle questioni di

corporate governance. Il report è stato pubblicato nel 1992 e parzialmente adottato nell’Unione

Europea, negli Stati Uniti e dalla World Bank.

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A partire dall’analisi dell’evoluzione dei mercati, è possibile identificare diversi

fattori che hanno significativamente contribuito all’evoluzione di questo dibattito: il

graduale spostamento dai finanziamenti bancari e privati a favore di un sempre

maggiore ricorso al capitale di rischio; i processi di privatizzazione;l’aumento degli

investimenti cross-border; l’accresciuta importanza del market for corporate control

(si pensi all’ondata di fusioni e acquisizioni realizzate a partire dai primi anni

Ottanta); le pressioni competitive della globalizzazione; lo sviluppo di nuove

tecnologie. Se a tutto ciò aggiungiamo le crisi economiche e finanziarie, il moltiplicarsi

degli scandali finanziari e delle critiche e accuse per il disinteresse verso i diritti dei

lavoratori, la tutela ambientale o più in generale il benessere complessivo della società,

possiamo facilmente comprendere come e perché alla corporate governance sia stato

riconosciuto un ruolo cruciale nel determinare la competitività delle imprese e dei

sistemi economici cui le imprese stesse appartengono.

“L’evoluzione delle norme di corporate governance può dunque essere analizzata

alla stregua di un processo dinamico: i) plasmato dall’innovazione finanziaria, dalla

globalizzazione dei mercati e degli intermediari e, in Europa, dall’integrazione

dell’Unione; ii) volto a riconciliare gli obiettivi di creazione di valore per gli

azionisti, di disciplina e di incentivazione del management, di attenzione ai più ampi

interessi degli stakeholders dell’impresa” (Masera, 2006).

Se la vita di un’impresa si presenta dunque strettamente connessa all’evoluzione dei

mercati, allora la “buona governance” può essere definita soltanto con riferimento ai

vari stakeholders cui si rapporta e alle loro aspettative (Salvatori, 2001).

In linea generale, si annoverano tra gli stakeholders4 diverse categorie di soggetti: gli

azionisti, i creditori, i lavoratori, i fornitori, le istituzioni, i consumatori e la comunità

locale.

4 La prima definizione di stakeholders fu quella elaborata nel 1963 dallo Stanfort Research Institute

per indicare tutti coloro che hanno un interesse nell’attività di un’azienda e senza il cui appoggio

un’organizzazione non è in grado di sopravvivere. Quella tuttavia più utilizzata è la definizione di

Friedman (1984) secondo il quale lo stakeholder è ogni individuo ben identificabile che può

influenzare o essere influenzato dall’attività dell’organizzazione in termini di prodotti, politiche e

processi lavorativi.

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Ognuna di queste categorie valuta la “buona governance” con riferimento ad aspetti

diversi se non addirittura divergenti e contrapposti.

Il concetto di “good governance” è nato peraltro quando l’Organization for

Economic Cooperation and Development (OECD) ha stilato nel 1999 i “Principles on

Corporate Governance”.Lo scopo del documento era quello di stabilire alcuni criteri

che garantissero, nel governo delle imprese, condizioni di trasparenza e

accountability capaci di “assure that corporations use their capital efficently. […]

ensure that corporation take into account the interests of a wide range of

constituencies, as well as of the communities within which they operate, and that

their board are accountable to the company and shareholders. […] to assure that

corporations operate for the benefit of the society as a whole” (OECD, 1999).

Se da un lato si è voluto incidere su quegli aspetti più propriamente legati alla natura

finanziaria dell’impresa per garantirne l’efficienza degli investimenti ed il controllo

nell’operato da parte degli shareholders, dall’altro lato, si è anche voluto favorire il

rispetto degli interessi complessivi della stessa impresa.

Non a caso, infatti, uno dei principles afferma che “The corporate governance

framework should recognise the rights of stakeholders as established by law and

encourage active co-operation between corporations and stakeholders in creating

wealth, jobs, and the sustainability of financially sound enterprises” (OECD, 1999).

La good corporate governance esprime quindi una responsabilità condivisa (shared

responsibility), nei termini in cui essa è anche il risultato dell’azione e delle scelte

operative e strategiche dei diversi soggetti coinvolti. Allora «there is no single model

of good governance» (OECD, 1999) ma, caso per caso, un buon governo societario

dipende da come si combinano i diversi interessi e le diverse ragioni di tutti gli

stakeholders. Da questo punto di vista, gli azionisti giudicheranno una buona

governance in base alla capacità di generare valore e utili in linea con le attese; i

creditori valuteranno positivamente un’informativa che permetta di stimare le

prospettive di business e la capacità dell’impresa di “servire” il proprio debito. I

lavoratori focalizzeranno la loro attenzione sulla possibilità di realizzazione

personale con riferimento alle remunerazioni, agli avanzamenti di carriera, al clima

aziendale. Le istituzioni vedranno la buona governance in termini di osservanza delle

leggi e dei regolamenti, piuttosto che nel pagamento delle imposte dovute. I clienti, i

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partner commerciali e le altre controparti con cui un’impresa si rapporta definiranno

la buona governance sotto il profilo dell’efficienza e della qualità: è ben gestita

un’impresa che offre prodotti e servizi di qualità elevata, in modo efficiente e

tempestivo.

Come spesso accade, però, se le diverse aspettative degli stakeholders non trovano

una comune corrispondenza ma, anzi, si rivelano essere in conflitto tra loro, allora,

proprio una “buona corporate governance”, è chiamata ad intervenire come

strumento regolatore degli interessi in gioco.

Una soluzione possibile diventa così quella della massimizzazione del valore

complessivo dell’impresa che, non necessariamente, coincide con la

massimizzazione dei profitti degli azionisti.

Proprio gli shareholders, però, in quanto titolari dei diritti di proprietà, esercitano una

significativa influenza nell’assunzione delle decisioni di indirizzo strategico a scapito

degli altri soggetti portatori di interesse nell’impresa. Si genera, così, una delle fonti

di conflitto aziendale più enfatizzate dalla letteratura sulla corporate governance.

Se il disallineamento di interessi tra shareholders e altri stakeholders, tuttavia, può

essere incisivo nel breve termine, discussa è la sua durata in un’ottica di lungo

termine. Il Codice Preda, ad esempio, pur identificando l’obiettivo della

massimizzazione del valore per gli azionisti come primario, riconosce che “in the

longer term, the pursuit of this goal can give rise to a virtuous circle in terms of

efficiency and company integrity, with beneficial effects for other stakeholders -

such as customers, creditors, consumers, suppliers, employees, local communities,

and the environment - whose interests are already protected in the Italian legal

system.”

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1.2 CORPORATE GOVERNANCE, TEORIA DELL’AGENZIA E CONFLITTO

D’INTERESSE

Come spiegato nel precedente paragrafo, la corporate governance cerca di mediare

fra gli interessi dei diversi stakeholders al fine di minimizzare le relative situazioni di

“conflittualità”.

Finora si è fatto riferimento solo al generico conflitto di interessi che può sorgere tra

shareholders e le diverse categorie di stakeholders.

La letteratura però approfondisce l’analisi di un caso particolare di conflitto

d’impresa: quello tra shareholders e management. Si solleva il problema della

separazione tra proprietà e controllo.

Già Adams Smith (1776) in An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of

Nations scriveva: “The directors of such [joint-stock] companies, however, being the

managers rather of other people’s money than of their own, it cannot well be

expected, that they should watch over it with the same anxious vigilance with which

the partners in a private copartnery frequently watch over their own. Like the

stewards of a rich man, they are apt to consider attention to small matters as not for

their master’s honour, and very easily give themselves a dispensation form having it.

Negligence and profusion, therefore, must always prevail, more or less, in the

management of the affairs of such a company.”

Se ad Adams Smith va quindi riconosciuto il merito di aver intuito per primo

l’esistenza di questo problema, la sua completa teorizzazione, però, è da attribuire in

parte a Coase nel 1937 e, soprattutto, a Michael Jenses e William Meckling che,

esattamente 200 anni dopo l’opera di Smith, hanno pubblicato il paper Theory of

firm: Managerial Behavior, Agency Costs and Ownership Structure.

Jensen e Meckling (1976) hanno definito una relazione d’agenzia (agency

relationship) come: “… a contract under which one or more persons (the principal(s))

engage another person (the agent) to perform some service on their behalf which

involves delegating some decision making authority to the agent. If both parties to

the relationship are utility maximizers, there is good reason to believe that the agent

will not always act in the best interests of the principal”.

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In ambito prettamente aziendalistico, il principal può essere considerato il

proprietario dell’impresa, vale a dire colui o coloro i quali detengono la quota

azionaria di controllo. Gli agents, di contro, possono essere identificati nei managers

cui gli azionisti delegano la gestione quotidiana dell’impresa.

Jensen e Meckling (1976) hanno supposto che sia azionisti che managers siano

razionali e perciò intenzionati a massimizzare le rispettive utilità. Gli shareholders

mireranno quindi a massimizzare i profitti o il valore dell’impresa; i managers

perseguiranno il raggiungimento di benefici diversi, legati a forme di remunerazione,

bonus e realizzazione personale. È impossibile arrivare alla massimizzazione

congiunta degli interessi di entrambi i soggetti. Allora, secondo i due autori: “the

principal can limit divergences from his interest by establishing appropriate

incentives for the agent and by incurring monitoring costs5 designed to limit the

aberrant activities of the agent. In addition in some situations it will pay the agent to

expend resources (bonding costs) to guarantee that he will not take certain actions

which would harm the principal or to ensure that the principal will be compensated if

he does take such actions” (Jensen e Meckling, 1976). Indirettamente, Jensen and

Meckling hanno esposto un primo, embrionale, modello di corporate governance.

Se la gestione di un impresa è affidata ai managers e non ai soggetti proprietari, è

lecito sospettare che i soggetti gestori, trovandosi ad amministrare denaro altrui,

siano tentati di assumere comportamenti opportunistici. La disgiunzione tra proprietà

e controllo è un fenomeno molto diffuso soprattutto nelle grandi imprese, le

cosiddette public company6, caratterizzate da un’accentuata frammentazione del

capitale proprio. Gli azionisti perdono così la capacità di esercitare di fatto il potere

insito nella loro posizione e la gestione dell’azienda finisce con l’essere affidata a

chi, in effetti, non la possiede.

Si pone, quindi, il problema di come tutelare gli interesse del piccolo azionista. Egli

non controlla nulla della gestione aziendale, che è integralmente delegata ai

managers; non possiede informazioni particolari utili a valutare la fondatezza nel

tempo delle sue aspettative, né ha strumenti idonei a esercitare una sua influenza

5 I costi cui Jensen e Meckling (1976) si riferiscono sono i cosiddetti “costi d’agenzia”.

6 Il termine “public” vuole intendere la presenza di una moltitudine di azionisti.

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sulle scelte”: il rischio maggiore è quello di subire l’espropriazione delle risorse

investite (Forestieri, 2006). Si configura, così, un vero e proprio problema di

governance.

Analizzando il problema della separazione tra proprietà e controllo più nel dettaglio,

è possibile trovare, nella letteratura esistente, l’indicazione di diverse fonti da cui il

conflitto di interesse tra azionisti e managers trae origine.

Denis (2001) individua le seguenti tre cause:

- “Managers’ desire to remain in power”: nessuno vorrebbe perdere il proprio

lavoro e i managers non fanno eccezione. Un principio base è “the right

management team at the right time”. Quando, però, per qualche motivo, il

team management di una particolare impresa non è più capace di garantire

una gestione efficace ed efficiente, nasce un inevitabile conflitto di interessi

tra gli azionisti che vorrebbero nominare nuovi amministratori ed i manager

che tenteranno di proteggere la loro posizione.

- “Managerial risk aversion”: managers e shareholders presentano diversi gradi

di propensione al rischio. Tipicamente, un azionista possiede un portafoglio

di attività ben diversificate, all’interno del quale l’investimento nella singola

impresa rappresenta una minima parte. Ne consegue una certa preferenza ad

intraprendere progetti altamente remunerativi seppur più rischiosi. Di contro,

il manager dell’impresa, ha una propensione al rischio molto più bassa. Se un

nuovo progetto dovesse rivelarsi un fallimento, gli amministratori sarebbero i

primi a pagarne le conseguenze.

- “Free cash flow”: Jensen (1986) ha definito il free cash flow come “cash flow

generated by the firm in excess of the amount required to fund all available

positive NPV [Net Present Value] projects”. Quando un amministratore ha a

disposizione una certa quantità “cash”, in misura superiore al necessario, ha

tre alternative: distribuire dividendi, reinvestire in nuovi progetti oppure

mantenere la liquidità seppur in eccesso. Il conflitto d’interesse nasce nel

momento in cui gli azionisti preferiscono ricevere i dividendi mentre i

managers trattengono la liquidità incrementando gli assets complessivamente

controllati.

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Brealey et al. (2007), invece, individuano cinque fonti:

- “Riduzione dello sforzo”: trovare e realizzare investimenti che creano valore

comporta uno sforzo considerevole e un’attività intensa che i manager

potrebbero essere tentati di evitare.

- “Benefici privati”: gli amministratori di un’impresa potrebbero non

accontentarsi del loro stipendio concedendosi anche uffici lussuosi, incontri

di lavoro in luoghi turistici, aerei personali, autisti e altro, tutto a spese

dell’impresa gestita.

- “Costruzioni di imperi”: coeteris paribus, la gestione di grandi imprese è

motivo di potere e prestigio per gli amministratori. Il passaggio da piccola a

grande impresa, tuttavia, potrebbe non essere un tipo di investimento con

valore attuale netto positivo.

- “Entrenching investment”: Shleifer e Vishny (1999) hanno definito tale un

investimento appositamente progettato per richiedere o premiare le

competenze dei managers esistenti, così da renderli indispensabili per

l’impresa e quindi insostituibili.

- “Rinuncia al rischio”: se un manager finanziario riceve solo uno stipendio

fisso e non può partecipare ai maggiori profitti generati dai progetti rischiosi,

preferirà certamente intraprendere quelli più sicuri.

A questo punto, risulta chiaro che la sopravvivenza dell’impresa dipende dalla

capacità di ridurre quanto più possibile i costi d’agenzia generati dalla separazione

tra proprietà e controllo. Questa capacità è strettamente legata proprio alla presenza

di idonei meccanismi di corporate governance.

1.2.1 ALTRI CONFLITTI Un problema d’agenzia sorge ogniqualvolta l’interesse di un soggetto (principal)

dipende dalla performance di un altro soggetto detto agente (o agent).

Possedendo migliori informazioni del principal, l’agente è incentivato a comportarsi

in modo opportunistico, riducendo la qualità della sua prestazione o, più in generale,

cercando di ottenere dei vantaggi personali.

Hansmann e Kraakman (2004) individuano ben tre generici problemi di agenzia.

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Il primo riguarda il conflitto d’interessi che sorge tra il proprietario dell’impresa e i

managers. Sul tema non mi soffermo oltre, ma rimando a quanto scritto in

precedenza.

Il secondo problema di agenzia sorge a causa del conflitto d’interesse esistente tra gli

azionisti di maggioranza, da un lato, e gli azionisti di minoranza, dall’altro.

Proprio gli azionisti di minoranza (non-controlling owners) assumono il ruolo di

principal mentre quelli di maggioranza (controlling owners) possono essere

considerati degli agents. Nello specifico, il problema riguarda la difficoltà nel

tutelare gli azionisti di minoranza da un’eventuale espropriazione delle risorse

finanziare investite ad opera dei controlling owners.

Il terzo problema d’agenzia identificato da Hansmann e Kraakman (2004) riguarda,

invece, il conflitto d’interessi esistente tra l’impresa nel suo complesso (con

particolare riferimento agli shareholders) e le altre parti con le quali l’impresa stessa

intrattiene delle relazioni contrattuali, come creditori, lavoratori e consumatori. In

questo caso la difficoltà nasce nel garantire che l’impresa, in qualità di agent, non

assuma comportamenti opportunistici a svantaggio dei diversi principals attraverso,

per esempio, l’espropriazione dei creditori, lo sfruttamento dei lavoratori o l’inganno

ai consumatori.

In tutti questi casi, quindi, diventa fondamentale stabilire regole e procedure che

rendano più trasparente l’operato degli agents e più semplice il controllo da parte dei

principals al fine di limitare comportamenti disonesti e negligenti.

Paradossalmente, proteggere i principals dai comportamenti opportunistici degli

agenti, può comportare un beneficio per entrambe le parti.

Il principal, ad esempio, se è sicuro dell’onestà e della qualità della performance

degli agents, sarà disposto ad accordare loro una maggiore remunerazione. Ma

ancora: in caso di regole e procedure che proteggano i creditori dal succitato rischio

di espropriazione delle risorse finanziarie investite, il tasso d’interesse richiesto dagli

stessi creditori potrebbe essere più basso. Allo stesso modo, meccanismi a garanzia

degli interessi degli azionisti di minoranza potrebbero ridurre il costo dell’equity

oppure sistemi che allineino gli interessi dei managers con quelli degli azionisti

potrebbero portare ad una maggiore remunerazione per gli amministratori.

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In generale, ridurre i costi d’agenzia è interesse di ciascun soggetto coinvolto nella

vita aziendale, sia principals che agents. Ancora una volta, un’adeguata corporate

governance può presentarsi come lo strumento privilegiato per la massimizzazione

delle utilità aggregate di tutti gli stakeholders.

1.3 INCOMPLETEZZA CONTRATTUALE

In base alla definizione fornita da Fama e Jensen (1983) un’impresa “is the nexus of

contracts, written and unwritten, among owners of factors of production and

customers”. Questi contratti possono essere considerati come “the rules of the game”

in quanto specificano i diritti di ciascun soggetto coinvolto nell’attività d’impresa.

Allora, come ribadisce Forestieri (2007) se “la corporate governance è il sistema di

meccanismi che regola il governo di un’impresa e definisce le relazioni tra i soggetti

in questione […] si può pensare che i soggetti coinvolti nell’impresa siano coloro che

con essa intrattengono relazioni contrattuali”.

Nelle economie moderne, i contratti si pongono come parte fondamentale di un

sistema di corporate governance in quanto capaci di limitare la discrezionalità dei

soggetti coinvolti.

La discrezionalità dei managers, per esempio, è vincolata da una serie di regole

sancite dalle norme di legge, dallo statuto delle società, dai contratti di debito

bancario e così via. Idealmente, si vuole specificare esattamente ciò che gli

amministratori possono decidere di fare nell’ambito della gestione aziendale.

In realtà, i contratti non potranno mai contenere clausole relative ad ogni possibile

situazione: i managers finiscono perciò con l’essere liberi di prendere quelle

decisioni che non sono già definite contrattualmente. La teoria economica definisce

questa situazione con l’espressione “incompletezza contrattuale”.

Il problema, a questo punto, è quello di distribuire i cosiddetti “diritti residuali di

controllo”, vale a dire i diritti di decidere in occasione di tutte quelle situazioni non

espressamente previste dal contratto (Grossman e Hart ,1986; Hart e Moore, 1990).

Si ripresenta, allora, l’annosa questione riguardante la categoria di stakeholders da

scegliere.

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I diritti residuali di controllo potrebbero essere attribuiti ai finanziatori di un’impresa

(azionisti e creditori) così da evitare il rischio di eventuali espropriazioni o

allocazioni inefficienti di risorse finanziarie. Questa soluzione, tuttavia, non può

funzionare: innanzitutto i soggetti finanziatori non sono sufficientemente coinvolti

nell’attività d’impresa, non possiedono tutte quelle informazioni che sono invece

essenziali per assumere delle decisioni adeguate. Inoltre, pur possedendo le

informazioni necessarie, potrebbero non essere in grado di interpretarle

correttamente e di agire di conseguenza. D’altronde, se hanno assunto dei managers è

proprio per poter usufruire di competenze professionali specifiche.

Oltre a non essere qualificati per l’esercizio dei diritti residuali di controllo, alcuni

soggetti potrebbero anche non essere incentivati a farlo. Basti pensare, ad esempio, al

piccolo azionista di una public company: titolare di una minima quota del capitale

societario, giudicherà eccessivamente oneroso esercitare un controllo sui managers.

In generale, il piccolo azionista ritiene ininfluente il controllo che è in grado di

esercitare sugli amministratori e, perciò, sceglie di delegarlo totalmente ad altri

soggetti. Si parla, cioè, del cosiddetto “free riding”.

“Si noti che l’azionista così come il creditore, se pure non hanno il potere di

decidere, vantano diritti sulla ricchezza generata dall’impresa: per il primo si tratta

dei dividendi eventualmente distribuiti, per il secondo degli interessi e del rimborso

del capitale. Il problema della corporate governance può quindi essere riformulato in

termini di disgiunzione tra diritto di prendere le decisioni sulla gestione aziendale

(che di fatto è nelle mani del manager) e diritto sul flusso di cassa prodotto

dall’impresa, che spetta ai creditori prima e, in via residuale, agli azionisti. Quando la

separazione tra questi diritti è marcata (ossia, mancano adeguati strumenti di

informazione, controllo e incentivo), chi decide è soggetto alla tentazione di

appropriarsi del flusso di cassa prodotto dalla gestione” (Forestieri, 2007).

A questo punto, si ripropongono come fondamentali dei meccanismi di corporate

governance tali sia da garantire informazione, controllo e diritti di rivalsa nei

confronti dei managers, sia da favorire l’allocazione delle risorse finanziarie e da

permettere alle imprese di trovare soggetti disposti a investire nelle loro attività, con

capitale proprio o capitale di debito.

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1.4 MECCANISMI DI CORPORATE GOVERNANCE Esistono diversi meccanismi di corporate governance che possono mitigare i

problemi e i conflitti di interessi tra stakeholders, permettendo di gestire e controllare

adeguatamente l’attività d’impresa.

Jensen (1993) ne ha individuato quattro categorie:

- meccanismi legali e regolamentari;

- meccanismi di controllo interni;

- meccanismi di controllo esterni;

- “product market competition”.

Per i meccanismi legali e regolamentari, vista l’ampiezza dell’argomento, si rimanda

la trattazione al prossimo paragrafo. Si prosegue, quindi, con l’analisi degli altri tre

meccanismi di corporate governance.

1.4.1 MECCANISMI DI CONTROLLO INTERNI Tra i meccanismi interni di governance, quelli che la letteratura considera come

principali sono il Consiglio di Amministrazione (board of directors), i piani di

remunerazione dei managers, la struttura proprietaria e la struttura del debito della

società considerata. Ognuno di questi meccanismi è stato oggetto di numerose

ricerche, studi e analisi.

Il Consiglio di Amministrazione è solitamente eletto dagli azionisti ed ha il compito

di nominare e controllare il top management. In teoria, si tratta di un gruppo di

persone con le capacità e l’autorità necessarie ad assicurare agli azionisti il buon

operato del top management.

Se in teoria il CdA è considerato un efficace meccanismo di corporate governance,

sfortunatamente, nella realtà, non è proprio certo che gli amministratori siano

abbastanza incentivati ad assolvere ai loro compiti. Talvolta, può essere difficile

prevenire la nomina di amministratori in qualche modo legati al management e

quindi indirizzati ad assumere comportamenti opportunistici. Non a caso, negli ultimi

anni, molte società hanno cercato di favorire un cambiamento per migliorare la

situazione, realizzando una sorta di board reform (Denis, 2001). In particolare, si è

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cercato di ridurre il numero di amministratori del CdA; di incrementare la presenza

relativa dei cosiddetti outside directors, vale a dire di amministratori che non hanno

legami economici o personali con il top management; di affidare proprio agli outside

directors alcuni compiti quale l’elaborazione dei piani di remunerazione dei

managers; di separare le posizioni di chief executive officer (CEO) e presidente del

Consiglio di Amministrazione; di stabilire che i membri del CdA possiedano azioni

della società gestita.

Da studi recentemente condotti7 è emerso che sono due le caratteristiche del

consiglio di amministrazione meritevoli di maggior interesse: la board size e la

presenza di membri indipendenti nello stesso CdA.

Con riferimento al numero di componenti del Consiglio di Amministrazione,

l’opinione generale è che tanto più piccolo è il board of directors tanto più,

quest’ultimo, riuscirà ad operare in modo efficace: è possibile garantire una

maggiore trasparenza, una maggiore rapidità nell’assunzione di decisioni e, quindi,

un miglior controllo dell’operato del top management.

Riguardo, invece, alla presenza di “outside directors” (amministratori indipendenti

e/o amministratori non esecutivi) il parere più diffuso è che gli “insider directors”

(vale a dire amministratori che sono essi stessi parte del top management) e gli

“affiliated/grey directors” (ossia membri del CdA in qualche modo affiliati a uno o

più managers) esercitino un controllo meno incisivo sull’operato del top management

rispetto agli amministratori indipendenti che non hanno nessun tipo di legame con i

managers. D’altronde anche la Commissione Europea in una raccomandazione del

2005 ha ribadito l’importanza di garantire, all’interno del Consiglio di

Amministrazione, un sufficiente numero di amministratori indipendenti “to ensure

that any material conflict of interest involving directors will be properly dealt with”8.

7 Hermaling, Weisbach, Boards of directors as an endogenously determined institution: a survey of

the economic literature, 2001

8 European Commission Recommendation of 15.2.2005 on the role of non-executive or supervisory

directors of listed companies and on the committees of the (supervisory) board, OJEU L 52/51,

section II no. 4.

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Quello della remunerazione riconosciuta ai managers di una società, è uno degli

argomenti più discussi e criticati degli ultimi anni e che più di ogni altro ha suscitato

e continua a suscitare critiche e polemiche.

Studi e ricerche sulla remunerazione del top management di sono concentrati

soprattutto su due aspetti: il livello della remunerazione e la sua sensibilità rispetto

alla performance aziendale (Jensen e Meckling, 1976; Fama, 1980; Murphy, 1999).

Per quanto riguarda il primo aspetto Murphy (1999) ha sottolineato come la

remunerazione media dei CEOs dell’imprese comprese nell’indice S&P 500 sia

raddoppiata rispetto al 1970. Se poi si considera il totale dei compensi che i

managers ricevono, compresi ad esempio i guadagni per l’esercizio di eventuali

opzioni su azioni della società gestita, risulta che la loro remunerazione è addirittura

quadruplicata in pochi decenni.

Il livello della remunerazione è certamente un fattore di corporate governance:

maggiore è il proprio compenso, maggiore sarà l’attenzione del manager al

mantenimento del proprio posto di lavoro e quindi al raggiungimento di risultati

aziendali soddisfacenti. Allora la remunerazione diventa uno strumento di

governance nella misura in cui riesce ad allineare gli interessi del management con

quelli degli azionisti. A questo punto, è facile comprendere come anche la sensibilità

del compenso dei managers alla performance dell’impresa diventi un altro

importante fattore di corporate governance.

Il management, infatti, sarà tanto più disposto a massimizzare il valore per gli

azionisti, quanto più riuscirà ad ottenerne dei vantaggi. Si parla, in questi casi, dei

cosiddetti incentive contracts i quali, a loro volta, possono assumere una varietà di

forme: dalla sostituzione del management in caso di risultati insoddisfacenti,

all’emissione di stock options. (Jensen e Meckling, 1976; Fama, 1980).

Le soluzioni maggiormente diffuse, tuttavia, sono l’emissione a favore del top

management di azioni ordinarie o di opzioni su azioni ordinarie della società di

riferimento. La scelta di un’alternativa piuttosto che l’altra implica alcune differenze

non trascurabili. Innanzitutto i managers di un’impresa, come molte altre persone,

possono essere avversi al rischio: hanno già investito il proprio capitale umano

nell’impresa per cui lavora, potrebbero essere razionalmente riluttanti nell’investire

in quella stessa impresa anche il proprio capitale finanziario.

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Ancora, stocks o stock options possono essere attribuiti al management come una

forma di compenso. Bisogna però sottolineare come i managers potrebbero preferire

un compenso in contanti: per soddisfare le aspettative del management, l’impresa

dovrà accordare loro azioni o opzioni per un valore superiore rispetto a quello del

compenso cash, andando così incontro a maggiori costi (Denis, 2001).

Core et al. (2001) e Murphy (1999) sottolineano, tuttavia, che la concessione di

opzioni su azioni come forma di remunerazione, non richiede un’uscita monetaria

per l’impresa che, quindi, può meglio affrontare eventuali problemi di liquidità.

Il vero problema, fonte di tante critiche, che induce molti a guardare con sospetto ai

contratti incentivanti, è la possibilità che queste forme alternative di remunerazione,

attraverso azioni e/o opzioni, permettano ai managers di assumere comportamenti

opportunistici. Al riguardo, Yermack (1997) in un suo studio ha rilevato come i

managers ricevano opzioni su azioni appena prima l’annuncio sul mercato di

informazioni positive oppure ne ritardino l’emissione in concomitanza a notizie

negative.

Allineare gli interessi di managers e azionisti non è quindi facile: non esiste

d’altronde un meccanismo di corporate governance capace di risolvere

completamente i problemi d’agenzia.

Un altro mezzo ritenuto utile per la riduzione dei conflitti d’interesse tra shareholders

e management, è la concentrazione della proprietà azionaria in capo ad un numero

limitato di soggetti. Un azionista di maggioranza, infatti, ha la possibilità di

controllare meglio l’operato del consiglio di amministrazione esercitando

un’influenza notevole all’interno dell’assemblea degli azionisti. Nel caso di una

public company, tra l’altro, basta detenere azioni per una percentuale sul capitale

complessivo anche di molto inferiore al 51% per esercitare il controllo.

La letteratura si è dedicata all’approfondimento di questo argomento, studiando le

realtà di diversi Paesi nel mondo: si è dimostrato che imprese caratterizzate dalla

presenza di azionisti di maggioranza sostituiscono il management più di frequente e

sostengono spese in advertising e ricerca e sviluppo inferiori. (Kaplan e Minton,

1994; Yafeh e Yosha, 1996). Come ribadito anche da Shleifer e Vishny (1997) la

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presenza di large shareholders gioca un ruolo fondamentale nei meccanismi di

corporate governance.

Un problema che non può assolutamente essere trascurato, però, è che l’esistenza

nella compagine azionaria di un’azionista di maggioranza, può generare forti conflitti

d’interessi tra i large shareholders stessi e gli altri azionisti di minoranza.

Il rischio è che l’azionista di controllo approfitti del suo potere per ottenere benefici

personali espropriando risorse dell’impresa a danno degli azionisti di minoranza. La

Porta et al. (2000) hanno definito questo fenomeno con il termine tunneling. Dai loro

studi, è emerso che il rischio di tunneling è prevalente in quelle imprese

caratterizzate da una struttura proprietaria piramidale: investendo una quota di

controllo nella sola impresa al vertice della piramide, indirettamente, per l’azionista

di maggioranza è possibile controllare anche tutte le altre imprese collocate lungo la

linea di controllo. A questo punto è facile trasferire risorse dalle imprese ai livelli più

bassi a quelle al vertice: le imprese alla base della piramide potrebbero vendere merci

o assets a quella al vertice ad un prezzo inferiore oppure potrebbero comprarne ad un

prezzo elevato rispetto a quello di mercato.

Altro inconveniente spesso citato dalla letteratura, soprattutto statunitense, è quello

del cosiddetto greenmail. Con questo termine si vuole indicare una particolare

transazione tra l’azionista di maggioranza e la società di riferimento che accetta di

acquistare le azioni del large shareholders ad un prezzo maggiorato. Il rischio, in

alternativa, è che l’azionista di maggioranza venda le proprie azioni ad un altro

soggetto che, di fatto, acquisirebbe il controllo della società.

Non va trascurata, inoltre, l’attribuzione dei diritti di voto. Per quanto riguarda

l’Italia, per esempio, Zingales (1994) in uno studio sulle imprese quotate alla Borsa

di Milano ha rilevato l’esistenza di un problema di espropriazione delle risorse

finanziarie a danno degli azionisti di minoranza a causa dei cosiddetti voting

premium riconosciuti agli azionisti di controllo.

Oltre alla struttura proprietaria, molti autori esaltano anche il ruolo del debito come

meccanismo di governance, capace di ridurre i problemi di agenzia tra managers e

shareholders.

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Shleifer e Vishny (1997), infatti, hanno sottolineato come il debito possa

rappresentare uno strumento di disciplina per gli amministratori. Se infatti il

management può scegliere se distribuire o meno i dividendi agli azionisti, è invece

obbligato a “servire” il debito contratto pagando ai creditori dell’impresa quanto

dovuto alle scadenze prestabilite. Un eventuale inadempimento delle obbligazioni

debitorie potrebbe causare gravi problemi all’impresa e quindi al suo management

fino, nei casi più gravi, alla dichiarazione di fallimento. Per tutti questi motivi, in

caso di indebitamento, i managers sono ancor più incentivati a lavorare in modo

efficiente ed efficace al fine di garantire la capacità dell’impresa gestita di generare

quei flussi di cassa necessari a “servire” il debito.

1.4.2 MECCANISMI DI CONTROLLO ESTERNI Quando si parla di meccanismi esterni di governance, si fa prevalentemente

riferimento all’effetto disciplinante del mercato. In particolare, si vuole sottolineare il

ruolo dei takeovers (meglio ancora se ostili) nel ridurre i conflitti di interesse tra

azionisti e managers.

In una tipica acquisizione ostile, un bidder trasmette un’offerta di acquisto agli

azionisti dell’impresa obiettivo, per ottenerne il controllo. In un certo senso, i

takeovers possono essere considerati come un meccanismo di rapida concentrazione

proprietaria.

Diverse teorie ed evidenze empiriche supportano la tesi secondo la quale le

acquisizioni ostili sono uno strumento di corporate governance capace di risolvere i

problemi di agenzia (Manne, 1965; Jensen, 1988; Scharfstein, 1988).

L’aspetto principalmente evidenziato dalla letteratura è che le acquisizioni ostili

tipicamente generano delle importanti sinergie tra l’impresa target e quella bidder,

incrementandone il valore congiunto (Jensen e Rubaci, 1983).

Si rileva, infatti, come spesso i takeovers riguardino imprese caratterizzate da basse

performance con successiva sostituzione del management (Shleifer e Vishny, 1997;

Franks e Mayer, 1996). È evidente che quanto più un’impresa è sottovalutata dal

mercato e ha a disposizione opportunità di investimento positive, tanto più sarà

attraente per un bidder. Quest’ultimo, quindi, avrà l’obiettivo di acquisire il controllo

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dell’impresa target ad un valore inferiore, realizzare le opportunità di investimento

non sfruttate dal precedente management (perciò rimpiazzato) e ottenere, così, un

profitto. È allora interesse del management di un’impresa lavorare al meglio per

sfruttare ogni opportunità di investimento ed evitare che la propria impresa,

eventualmente sottovalutata dal mercato, diventi obiettivo di acquisizioni ostili.

A tal proposito, comunque, il top management ha a disposizione diverse tattiche

difensive utili per proteggersi ed evitare un’acquisizione ostile. Sotto questo punto di

vista, allora, quello che doveva essere uno strumento capace di risolvere i conflitti

d’interesse tra shareholders e managers, in realtà, finisce con l’esacerbare il problema

d’agenzia.

Una proposta di acquisizione, infatti, che potrebbe essere conveniente per gli

azionisti, con estrema probabilità, verrà ostacolata dal management che teme di

perdere la propria posizione.

In generale, Holmstrom e Kaplan (2001) hanno evidenziato che se negli anni Ottanta

i takeovers ostili erano molto diffusi, dal decennio successivo hanno cominciato ad

essere un pò meno frequenti. I due autori, hanno suggerito che, probabilmente, alle

acquisizioni ostili, si preferiscono orami i meccanismi interni di corporate

governance.

Per quel che riguarda l’Europa continentale, inoltre, i takeovers non sembrano essere

particolarmente diffusi visto la propensione alla concentrazione azionaria.

1.4.3 PRODUCT MARKET COMPETITION Un’impresa che voglia mantenersi competitiva, deve essere in grado di vendere un

prodotto di buona qualità al prezzo di mercato.

Un management inefficiente, però, può diventare fonte di costi aggiuntivi i quali, a

loro volta, si traducono in un aumento del prezzo di vendita o comunque in

performance finali insoddisfacenti. Nel peggiore delle ipotesi, managers

incompetenti possono trascinare un’impresa fino al fallimento.

Jensen (1993) suggerisce allora che la tensione di un’impresa alla vendita di prodotti

che possano essere competitivi sul mercato è, indirettamente, una forma di disciplina

del management e quindi di corporate governance. Lo stesso Jensen (1993), tuttavia,

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riconosce che seppur valido in teoria, nella realtà, si tratta di un meccanismo di

governance trascurabile.

1.5 MECCANISMI LEGALI E REGOLAMENTARI Il sistema di leggi e regole di un Paese che presidiano al governo societario inteso

come meccanismo di corporate governance, fino a qualche tempo fa, ha ricevuto

scarsa attenzione da parte degli studiosi di economia, almeno rispetto all’interesse

rivolto agli altri fattori, interni ed esterni.

Nel 1993, infatti, Jensen definì proprio i meccanismi di governance legali e

regolamentari “…far too blunt an instrument to handle the problem of wasteful

managerial behaviour effectively”.

Più di recente, tuttavia, nuovi studi hanno sottolineato come il sistema legale di un

Paese possa notevolmente influenzare la corporate governance delle imprese. La

Porta et al. (1998, 2000), per esempio, hanno dato prova che sia le leggi vigenti sia la

loro applicabilità hanno un peso notevole nel disciplinare i conflitti di interesse tra

managers e azionisti.

In un’analisi che ha riguardato diverse nazioni, sempre La Porta et al. (1999) hanno

dimostrato che le differenze nella struttura proprietaria, nel mercato dei capitali, nelle

scelte di finanziamento e nelle politiche di distribuzione dei dividendi, sono tutte

strettamente correlate al grado di protezione legale riconosciuto agli investitori

contro il rischio di espropriazione ad opera di managers e azionisti di maggioranza.

In particolare, hanno evidenziato l’esistenza di una relazione inversa tra il grado di

protezione garantito dalla legge di uno Stato e il livello di concentrazione azionaria

delle imprese di quello stesso Paese.

Shleifer e Vishny (1997), inoltre, sostengono che nelle grandi imprese di molti Paesi,

il più grave problema di agenzia non riguarda il conflitto di interesse tra shareholders

e management ma, piuttosto, quello tra azionisti di controllo e di minoranza. Appare,

perciò, chiaro come l’intervento del legislatore a protezione degli azionisti di

minoranza per la risoluzione del conflitto d’agenzia, possa essere a ragione

considerato un meccanismo di corporate governance indispensabile. Quanto più le

leggi di un Paese proteggono i diritti degli investitori, tanto più si faciliterà lo

sviluppo economico ed industriale.

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Se da una parte, allora, gli azionisti di maggioranza sembrano essere utili per

disciplinare l’operato del top management, dall’altra è necessario proteggere gli

investitori di minoranza dall’eventuale espropriazione delle risorse impiegate

nell’impresa. Protezione legale degli azionisti e concentrazione proprietaria possono

considerarsi quindi strumenti complementari di governance.

1.5.1 “FAMIGLIE” DI DIRITTO COMMERCIALE E CENNI STORICI Il diritto commerciale esiste in tutti i Paesi e si occupa di disciplinare i rapporti

giuridici tra l’impresa, in tutte le sue forme, e i relativi stakeholders.

Diritto fallimentare, disciplina su acquisizioni, fusioni e altre operazioni

straordinarie, bilanci e contabilità, trasparenza e informativa obbligatoria, diritti

riconosciuti a protezione di azionisti e creditori, rappresentano tutti degli strumenti

che, disciplinando la gestione e il controllo di un’impresa, si configurano come

meccanismi di corporate governance fondamentali.

Come evidenziato da La Porta et al. (1998), seppur non esistono due nazioni con

leggi esattamente identiche, alcuni sistemi giuridici nazionali sono sufficientemente

simili da permettere di effettuare una loro classificazione in alcune grandi families of

law.

I criteri utilizzati per la classificazione sono i seguenti: (1) background storico ed

evoluzione nel tempo del sistema legale; (2) fonti del diritto; (3) metodologie

giuridiche; (4) principi giuridici di base; (5) istituzioni giuridiche fondamentali; (6)

divisione nelle diverse discipline del diritto (Glendon et al., 1992).

In base a questo approccio, si identificano due tradizioni giuridiche generali: la civil

law e la common law.

La civil law è la più antica e la più diffusa tradizione giuridica del mondo. Ha origine

dal diritto romano e si ritiene che da essa derivino tre famiglie di sistemi giuridici:

quello francese, tedesco e scandinavo.

Il codice commerciale francese fu scritto da Napoleone nel 1807 e venne esteso a

Belgio, Olanda, parte della Polonia, dell’Italia e della Germania. In Europa,

l’influenza francese è stata molto forte in Lussemburgo, Portogallo, Spagna, alcuni

cantoni svizzeri e in Italia (Glendon et al., 1994).

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Il codice commerciale tedesco, invece, fu scritto nel 1897 dopo l’unificazione della

Germania di Bismarck. Non si diffuse tanto quanto quello francese, tuttavia,

influenzò notevolmente la teoria giuridica e la dottrina di alcuni importati Paesi

europei tra cui Austria, Grecia, Ungheria, Italia e svizzera.

Il diritto scandinavo è solitamente considerato come parte della civil law tradizionale

sebbene abbia meno elementi in comune con il diritto romano rispetto alle tradizioni

francese e tedesca. I codici civili dei paesi nordici risalgono al XVIII secolo e la

letteratura ne descrive le leggi come molto simili tra loro ma diverse dagli altri Paesi.

In definitiva, le quattro Nazioni dell’Europa del Nord (Svezia, Norvegia, Finlandia e

Danimarca) sono considerati una categoria a sé stante.

La common law, invece, si basa poco su leggi scritte; si tratta di un diritto

prevalentemente consuetudinario che trova fondamento nelle sentenze giudiziarie

emesse a soluzione delle controversie. Si tratta della tradizione giuridica tipica

anglosassone che, tuttavia, ad eccezione della Gran Bretagna, non ha trovato

particolare diffusione nel resto d’Europa.

Tabella 1 – Origini dei sistemi giuridici europei

Legal Origins

Common Law Civil Law

English Origin

French Origin

Scandinavian Origin

German Origin

Ireland Belgium Denmark Austria

United Kingdom France Finland Germany

Greece Sweden

Italy

Luxemburg

Netherlands

Portugal

Spain

See: La Porta, Lopez-de-Silanes, Shleifer & Vishny (1998); Reynolds & Flores (1989)

Fonte: Gotshal, Manges & Weil, 2002

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Secondo lo studio di La Porta et al. (1998), nei paesi caratterizzati dalla presenza

della common law, la legge riconosce agli investitori importanti diritti legali a

protezione della loro posizione. Di contro, questi diritti si ritrovano sensibilmente

ridotti nella French civil law mentre la Scandinavian e la German civil laws si

collocano in una posizione intermedia.

1.5.2 MODELLI SOCIETARI Passando in rassegna i principali meccanismi di governance, interni ed esterni, come

è stato in precedenza evidenziato, il board of directors rappresenta uno strumento di

corporate governance fondamentale. Altrettanto fondamentale, di conseguenza, è il

sistema di leggi che regola l’organizzazione del board stesso e degli altri organi

societari.

Esistono essenzialmente due modelli di board: uno di origine anglosassone (c.d. one-

tier board), l’altro di origine renana (c.d. two-tier board).

La Tabella che segue classifica i diversi Paesi in base al modello adottato. Si noterà

che si è inclusa una terza classe, in cui hanno trovato collocazione tutti quei Paesi nei

quali è prevista la possibilità di scelta tra i due modelli.

Tabella 2 – Strutture del Consiglio di Amministrazione in Europa

Strutture del consiglio di amministrazione (Board)

Struttura unitaria (one-tier)

Struttura mista (one-tier o two-tier)

Struttura duale (two-tier)

Danimarca Grecia Irlanda Lussemburgo Regno Unito Spagna Svezia Svizzera

Belgio Finlandia Francia Italia Paesi Bassi Portogallo

Austria Germania

Fonte: Commissione Europea e PricewaterhouseCoopers research

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A livello internazionale, è evidente che il modello unitario del one-tier board è il più

diffuso, non solo in Europa ma anche nel resto del mondo.

Di recente nei Paesi in cui è prevalente la scelta della struttura unitaria e soprattutto

nel Regno Unito, si è osservata una sempre maggiore propensione alla presenza nel

board di amministratori indipendenti e alla separazione delle cariche di presidente del

board e CEO. Entrambi i fenomeni sembrano portare ad una sorta di convergenza tra

i due sistemi di one-tier e two-tier board.

Analizzandoli più nel dettaglio, è possibile notare che nel modello anglosassone, le

funzioni di controllo sono concentrate proprio in un solo organismo, da qui

l’espressione one-tier board.

Il modello risponde alle

esigenze di una struttura

attenta ai cambiamenti del

mercato, agile nel decision

making e orientata alla

creazione di valore per gli

azionisti.

Fonte: PricewaterhouseCoopers

Il modello renano (two-tier) prevede invece una suddivisione tra le funzioni di

supervisione e di

controllo.

Risponde ad una

concezione dell’azienda

come istituzione di

carattere sociale in cui

vari soggetti sono titolari

di diritti. In questa

situazione, la struttura di

tipo renano, Fonte: PricewaterhouseCoopers

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potenzialmente, riesce a meglio distinguere tra le funzioni di gestione e di controllo,

con il Consiglio di Gestione a rappresentare gli interessi degli azionisti e quello di

Supervisione a rappresentare invece i diritti degli altri stakeholders.

In effetti, il modello duale deriva dal sistema di codeterminazione tedesco, nato alla

fine del XIX secolo, nel tentativo di conciliare le esigenze di industrializzazione con

il principio democratico di coinvolgimento dei lavoratori nella vita aziendale

(cogestione). In sostanza, si prevedono due Consigli di Amministrazione (Brealey et

al (2007)): il Consiglio di Sorveglianza (Aufsichtsrat) e il Consiglio di Gestione

(Vorstand). La metà dei componenti del Consiglio di Sorveglianza è eletto dai

lavoratori, l’altra metà dagli azionisti. Si tratta sostanzialmente di un organo

societario che rappresenta gli interessi dell’impresa nel suo complesso e che

sovrintende alla strategia aziendale eleggendo e controllando il Consiglio di

Gestione.

Anche in Francia, il modello duale introdotto come facoltativo già da diverso tempo,

è adottato soprattutto dalle grandi imprese operanti nel settore delle public utilities e

da quelle a partecipazione pubblica. L’obiettivo di fondo è sempre lo stesso:

permettere un maggior coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte aziendali.

Nel modello duale francese, infatti, è prevista la presenza del Directoire,

responsabile della gestione dell’impresa e del Conseil de Surveillance, simile al

Consiglio di Sorveglianza tedesco. In questa struttura societaria, però, i dipendenti

non sono rappresentati direttamente: i delegati dei lavoratori hanno il diritto di

assistere alle assemblee degli amministratori in qualità di osservatori.

È evidente, comunque, che in base al modello societario scelto variano i sistemi di

“checks and balance”, variano i giochi di forza tra i diversi stakeholders e le relazioni

tra gli organi societari. Non si può, dunque, non considerare anche i meccanismi

legali e regolamentari come fondamentali strumenti di corporate governance.

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1.5.3 UNO SGUARDO ALL’ITALIA

La riforma del diritto societario italiano del 2003, tra le altre innovazioni, ha

enfatizzato l’autonomia statutaria delle società per azioni prevedendo che, con

espressa indicazione nello statuto, si possa scegliere quale modello societario

adottare tra tre diversi sistemi alternativi di amministrazione: ordinario, dualistico e

monistico.

Senza alcuna pretesa di completezza, passo brevemente in rassegna le caratteristiche

principali di ciascun modello.

Il sistema ordinario o tradizionale, prevede la distribuzione delle prerogative di

governo societario fra tre organi: l’Assemblea degli azionisti, il Consiglio di

Amministrazione e il Collegio Sindacale.

L’Assemblea degli azionisti rappresenta l’organo proprietario, a cui sono riservate

decisioni fondamentali quali la nomina e la revoca degli amministratori e dei sindaci

e l’approvazione annuale del bilancio d’esercizio.

Il Consiglio di Amministrazione è, invece, l’organo cui spetta la gestione

dell’impresa e il potere di compiere le operazioni necessarie all’attuazione

dell’oggetto sociale. Nelle società di più grandi dimensioni, il CdA non si occupa

quotidianamente della gestione, ma delega questa funzione a uno o più dei suoi

membri. Si tratta dei c.d. amministratori delegati (o comitato esecutivo nel caso in

cui la delega sia affidata a più persone).

Il Collegio Sindacale, infine, è l’organo incaricato di controllare la legittimità

dell’operato degli amministratori in termini di conformità alla legge e allo statuto.

Vigila inoltre sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e, in particolare,

sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società.

Il controllo contabile è esercitato da un revisore contabile iscritto all’apposito

registro e nominato dall’assemblea dei soci. Per le società emittenti azioni quotate sui

mercati regolamentati o diffuse fra il pubblico in misura rilevante, il controllo

contabile è svolto da una società di revisione. Le società che comunque non si

rivolgono al mercato di capitali di rischio e che non sono tenute alla redazione del

bilancio consolidato possono anche prevedere che il controllo contabile sia esercitato

dal Collegio Sindacale.

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Il sistema dualistico prevede la presenza oltre che dell’Assemblea degli azionisti, di

altri due organi: il Consiglio di Gestione e il Consiglio di Sorveglianza.

In questo modello societario, all’Assemblea degli azionisti sono attribuite

competenze ridotte rispetto a quelle previste nel sistema tradizionale. Le principali

differenze riguardano l’assemblea ordinaria e, in particolare, l’approvazione del

bilancio e la nomina dell’organo incaricato della gestione che, nel sistema dualistico,

sono sottratte alla competenza assembleare.

Di contro, mentre il Consiglio di Gestione ha un ruolo analogo a quello del Consiglio

di Amministrazione nel modello ordinario, il Consiglio di Sorveglianza è

fondamentalmente configurato come organo di controllo ma, di fatto, è dotato di

competenze molto più ampie rispetto a quelle normalmente attribuite al Collegio

Sindacale. Proprio al Consiglio di Sorveglianza, infatti, spetta il potere di nominare e

revocare gli amministratori e di approvare il bilancio annuale. In caso di espressa

previsione nello Statuto, inoltre, può anche deliberare in ordine alle operazioni

strategiche e ai piani industriali e finanziari della società predisposti dal Consiglio di

Gestione.

Il legislatore, insomma, “consente di attribuire al Consiglio di Sorveglianza sia i) un

potere di autorizzazione sia ii) un potere di approvazione sia iii) un potere di vera e

propria decisione” (Montalenti, 2007).

Per il controllo contabile vale essenzialmente quanto detto per il modello

tradizionale.

Il sistema monistico, infine, prevede la distribuzione delle prerogative di governo

societario sempre fra tre organi: l’Assemblea degli azionisti, il Consiglio di

Amministrazione e il Comitato per il Controllo Interno.

Con riguardo al Consiglio di Amministrazione valgono in sostanza le norme previste

nel modello ordinario, salvo il fatto che almeno un terzo dei suoi componenti debba

essere in possesso dei requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci e, se lo statuto lo

prevede, di quelli eventualmente previsti da codici di comportamento di associazioni

di categoria o società di gestione dei mercati regolamentati.

La differenza con il sistema tradizionale, quindi, è sostanzialmente rappresentata dal

ruolo attribuito al Comitato per il Controllo Interno. Si tratta di un organo che svolge

una funzione analoga al Collegio Sindacale, tuttavia, i suoi membri sono nominati

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dal Consiglio di Amministrazione e scelti tra gli amministratori in possesso di

requisiti di onorabilità, professionalità stabiliti dallo statuto e di requisiti

indipendenza previsti per i sindaci.

Con la riforma del diritto societario, insomma, il legislatore ha inteso accordare alle

società per azioni un maggior grado di libertà nel diversificare la fisionomia

societaria, articolando sistemi in grado di rispondere meglio alle specifiche

caratteristiche delle realtà aziendali sotto il profilo degli assetti proprietari, delle

strutture organizzative, dei settori di appartenenza e delle priorità strategiche

(Bianchi e Conti, 2008).

D’altronde la ricerca di modelli di governance più flessibili e in grado di rispondere

alle nuove condizioni di competitività di mercati sempre più integrati e di

fronteggiare le opportunità e i rischi, coinvolge i sistemi giuridici e le prassi

applicative di tutti i principali Paesi.

In Italia, dove massima era la separazione di funzioni garantita dal modello

tradizionale, si è voluta offrire una strada di maggiore integrazione: l’obiettivo è

quello, non facile, di individuare un equilibrio tra l’esigenza di garantire un adeguato

livello informativo e di conoscenza diretta sulla gestione alle funzioni di controllo e

la necessità di assicurare un’effettiva indipendenza dai possibili condizionamenti da

parte degli interessi gestionali.

Il tutto non è certo esente da critiche. Per quanto riguardo il modello dualistico,

alcuni evidenziano la possibilità di una separazione più netta fra proprietà (soci) e

management (Consiglio di Gestione) visto la presenza intermedia del Consiglio di

Sorveglianza. Inoltre, proprio quest’ultimo appare più come un organo di indirizzo

che non di controllo professionale.

Per il sistema monistico, invece, la critica più diffusa riguarda il controllo esercitato

dal Comitato per il Controllo Interno che sembrerebbe caratterizzato da forti conflitti

di interessi: i controllati, di fatto, eleggono i controllori.

Resterà da giudicare come si evolverà, con il passare del tempo, la scelta delle

imprese per un modello piuttosto che per un altro.

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1.6 ALCUNE PRIME CONSIDERAZIONI

I temi e i problemi che caratterizzano ciò che si usa definire con l’espressione

corporate governance sono complessi e diversificati.

La governance è un modello di conflict resolution tra attori portatori di interessi

potenzialmente conflittuali e rappresenta un insieme di dispositivi di problem solving

e di governo del conflitto.

Se l’esistenza della corporate governance è spiegata dalla presenza dei problemi

d’agenzia e dall’incompletezza contrattuale, i meccanismi che ne stanno alla base

sono più complessi da individuare.

La letteratura in merito è particolarmente ampia, tuttavia, è possibile ricondurre la

governance societaria a tre meccanismi fondamentali: quelli legali, interni ed esterni.

Un primo filone di studi sulla corporate governance si è prevalentemente concentrato

sui meccanismi di controllo interni ed esterni (Kaplan e Minton, 1994; Hermalin e

Weisbach, 2003). Altre ricerche, invece, hanno riconosciuto anche l’importanza degli

aspetti legali e regolamentari nonché della tendenza ad una sempre più forte

convergenza dei modelli societari internazionali (La Porta et al., 2002; Zingales,

1994).

Il legislatore italiano, negli ultimi anni, ha dimostrato di dedicare particolare

attenzione al tema del governo societario, cercando di offrire alle imprese la

possibilità di scegliere l’assetto di governance più idoneo alle proprie caratteristiche.

Non esiste tuttavia la soluzione giusta per una “buona corporate governance” che

valga in ogni situazione. Ogni Paese, ogni impresa, infatti, si distingue in base a

determinate caratteristiche; la “buona governance” è quella che, caso per caso, riesce

a valorizzare le diverse peculiarità e a limitare le varie fonti di conflitto e di criticità.

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CAPITOLO 2

CORPORATE GOVERNANCE NELLE BANCHE

2.1. SPECIFICITÀ DELLA CORPORATE GOVERNANCE NELLE BANCHE La disciplina dell’attività bancaria costituisce una questione di primaria importanza

per il sistema finanziario ed economico, sia a livello nazionale che internazionale.

Le banche, infatti, si collocano al centro del processo di intermediazione fra

risparmio e investimento; costituiscono il tessuto connettivo per il sistema dei

pagamenti; sono esposte a rischi finanziari molto più accentuati e suscettibili di

generare effetti sistemici di una certa gravità sull’intero sistema economico.

Non è un caso che molti abbiamo ravvisato nell’attività bancaria stessa, interessi e

funzioni di una certa rilevanza pubblicistica9. Fino agli anni Ottanta, d’altronde, in

Italia l’attività bancaria era definita un “pubblico servizio in senso oggettivo”,

indipendentemente dalla natura pubblica o privata dell’ente che in concreto svolgeva

l’attività.

Una parziale inversione di tendenza, almeno per l’Europa, è arrivata con la

cosiddetta Prima Direttiva in materia bancaria10 che, nel suo primo articolo, ha

definito l’ente creditizio come impresa. Ancor più di prima, allora, la nuova banca–

impresa ha avvertito l’esigenza di coniugare la tutela degli interessi del pubblico dei

risparmiatori con il perseguimento dei tipici obiettivi aziendali: dotarsi, quindi, di

nuovi assetti organizzativi e di governo societario efficaci ed efficienti è presto

diventato un presupposto fondamentale.

9 Per esempio, l’articolo 1 della legge bancaria del 1936-38 in Italia recitava così: «La raccolta del

risparmio tra il pubblico sotto ogni forma e l’esercizio del credito sono funzioni di interesse

pubblico».

10 Si tratta delle Direttiva 77/780/CEE del Consiglio, del 12 dicembre 1977, relativa al

«coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l’accesso

all’attività degli enti creditizi e il suo esercizio»

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“L’adozione di un’efficiente governance per le banche è di importanza critica per

l’intero sistema economico. Le banche, infatti, sono una componente fondamentale

di ogni economia. […] Da qui l’esigenza che le banche dispongano di solidi sistemi

di governance, anche al fine di evitare che inefficienze di gestione ed inadeguatezza

di controlli possano determinare dissesti che rischierebbero di produrre effetti

dannosi per una vasta gamma di soggetti con gravi ripercussioni sull’intera economia

di un Paese. Pertanto, l’adozione generalizzata di efficaci sistemi di governo

societario può contribuire a mantenere e sviluppare la fiducia collettiva nel sistema

bancario, fattore essenziale sia per l’ottimale funzionamento del settore, sia per

l’economia in generale” (Masera, 2006).

I mutamenti normativi, l’aumento della competitività di mercato, la

despecializzazione bancaria, l’innovazione di prodotti e processi, soprattutto negli

ultimi anni, hanno insomma acceso il dibattito sulla corporate governance delle

banche.

È possibile ricondurre la letteratura esistente a due diversi filoni: uno secondo il

quale per le banche valgono le stesse considerazioni e gli stessi meccanismi di

governance delle imprese non finanziarie11; l’altro secondo cui, invece, le banche si

differenziano notevolmente a causa di alcune caratteristiche intrinseche.

Ad aprire il dibattito fu Eugene Fama nel 1985 con il suo orami famoso articolo

What’s different about banks?: è quest’ultima, una domanda ancora oggi

particolarmente attuale i cui risvolti hanno un notevole impatto sulle questioni di

governance.

In effetti, sono tre le teorie sull’intermediazione finanziaria che hanno sottolineato le

specificità delle banche, seppur in base a diverse ragioni. In ordine cronologico, si

tratta della teoria classica, della new view (Gurley e Shaw, 1960; Tobin, 1985) e della

teoria sulle asimmetrie informative (Diamond e Dybvig, 1983; Diamond, 1984).

Queste tre teorie hanno focalizzato l’attenzione sui tre ruoli “tradizionali” delle

banche commerciali: il sistema dei pagamenti, la trasformazione delle scadenze e la

creazione di liquidità.

11 Vedi capitolo precedente.

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Di contro, le più recenti teorie sull’intermediazione finanziaria (Allen e Santomero,

1996, 1999; Allen e Gale, 1997) nel descrivere l’attività degli intermediari finanziari

e, quindi, anche delle banche, hanno posto l’accento prevalentemente sulla loro

tendenza all’assunzione di sempre maggiori rischi. Le innovazioni tecnologiche e

finanziarie, la migliore circolazione delle informazioni, la diffusione della tecniche

della cartolarizzazione, infatti, sono tutti fattori che hanno contribuito e stanno

ancora contribuendo al graduale declino dell’attività di intermediazione tradizionale.

Sempre più spesso, ormai, soprattutto per le banche di maggiori dimensioni, le

principali fonti di reddito sono le commissioni da servizi e i guadagni da

negoziazione piuttosto che i ricavi dall’area di intermediazione tradizionale.

In realtà, comunque, i primi a studiare più approfonditamente la corporate

governance delle banche sono stati Caprio e Levine (2002) e Levine (2004). Nei loro

scritti, dopo una breve disamina dei principali elementi di corporate governance in

generale, hanno puntato l’attenzione su tre aspetti caratteristici delle banche: la loro

maggiore opacità rispetto ad ogni altra tipologia d’impresa, la forte e specifica

regolamentazione cui sono sottoposte, il loro modo di essere soggetti attivi nella

corporate governance delle imprese.

Di seguito queste tre peculiarità verranno analizzate più nel dettaglio.

2.1.1 OPACITA’

Le banche sono considerate generalmente più opache rispetto alle altre tipologie di

imprese non finanziarie. Nonostante le asimmetrie informative siano una costante per

ogni settore economico, da diversi studi12 emerge come siano molto più accentuate

per le banche rispetto alle altre imprese non finanziarie.

Nelle banche, la qualità dell’attivo (ad esempio dei prestiti erogati) è più

difficilmente osservabile e può essere nascosta anche per diverso tempo. Le banche,

inoltre, hanno la possibilità di alterare la composizione del loro portafoglio di

12 Furbine, 2001; Caprio e Levine, 2002; Levine, 2004.

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attività, modificando il grado di esposizione al rischio, molto più facilmente rispetto

ad altre tipologie di imprese non finanziarie (Levine, 2004).

Non è un caso, infatti, che le due principali agenzie di rating internazionali, Moody’s

e Standard & Poor’s, nel giudicare le banche, emettano giudizi discordi molto più

spesso rispetto che per ogni altro settore (Morgan, 2002; Iannotta, 2004).

Questa maggiore opacità, quindi, intesa come accentuazione delle asimmetrie

informative, rende più difficoltoso il superamento dei problemi di agenzia e

l’allineamento degli interessi dei diversi stakeholders.

Le banche, come ogni altra impresa, hanno bisogno di essere monitorate dagli

investitori al fine di prevenire i problemi di azzardo morale e selezione avversa.

I depositanti di una banca, tuttavia, quasi sempre, non hanno le competenze e la

capacità di valutare opportunamente gli assets di un istituto bancario che, quindi, in

questo senso, si presentano opachi.

Secondo Iannotta (2004), “banks appear to be among the more opaque industries, but

not the most opaque one […] part of bank uncertainty may be caused by the unclear,

implicit government guarantees on bank liabilities. If government guarantees are

vague, because they are extended beyond their de jure boundaries, market valuation

of bank risk will be more subjective and less certain. Although bank risk is inherently

hard to judge, there are some margins to increase bank transparency in order to

enhance market discipline.” Per Morgan (2002), insomma, “the push for increased

market discipline and disclosure may shed light”.

In letteratura, comunque, esistono anche altre tesi che smentiscono questa presunta

opacità delle banche. Flannery et al. (2004), ad esempio, non hanno rilevato

significative evidenze empiriche a dimostrazione della maggior opacità delle banche,

anzi sostengono che “loan illiquidity and private information about specific

borrowers need not necessarily make banks more difficult to value than nonfinancial

firms are. Just as many loans do not trade in active secondary markets, neither do

many assets of nonfinancial firms: e.g., plant and equipment, patents, managers’

human capital, or accounts receivable. How can outside investors accurately value

the public securities issues by these firms?”. E anche se una certa opacità fosse

intrinseca all’attività bancaria la presenza di apposite autorità di vigilanza, che

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controllano l’operato delle banche, interverrebbe a mitigare l’opacità stessa

garantendo, di contro, una maggiore trasparenza.

Come sostiene Polo (2007) “if a unique conclusion must be drawn, we might say that

there is scope for government intervention to improve governance in banking by

reducing bank opacity. Improving the flow of information through increased

disclosure should enhance market discipline, in other words, it should foster the

different potential bank monitors to do their job well. This is the rationale behind the

third pillar of the New Basel Capital Accord”.

2.1.2 REGOLAMENTAZIONE

L’industria bancaria è una delle più regolamentate al mondo. Le due ragioni

tipicamente addotte a giustificazione di questa forte regolamentazione sono la

necessità di evitare i rischi sistemici intrinseci nell’attività bancaria e la tutela dei

depositanti e del pubblico dei risparmiatori in generale.

Gli istituti bancari d’altronde sono fondamentali per lo sviluppo dell’economia e,

come anche la storia recente ci ha dimostrato, le crisi bancarie possono generare

gravi esternalità negative che finiscono col ripercuotersi pericolosamente su tanti e

diversi settori dell’economia anche internazionale.

Se le banche, inoltre, sono delle tipologie di imprese particolarmente opache, è facile

intuire come proprio una regolamentazione che garantisca una maggiore trasparenza,

diventi essenziale.

D’altronde, fattori quali l’apertura alla concorrenza internazionale, i processi di

privatizzazione e aggregazione, l’affermazione di nuovi modelli di intermediazione,

la rapida innovazione finanziaria e l’integrazione dei diversi segmenti (assicurativo,

bancario e dei servizi di investimento) di mercato hanno spinto le banche ad

attribuire una sempre maggior rilevanza all’assetto organizzativo.

Le autorità di vigilanza bancaria hanno assecondato questa evoluzione attraverso un

graduale passaggio da una vigilanza strutturale, caratterizzata dalla significativa

compressione delle scelte gestionali, alla vigilanza prudenziale, un nuovo impianto di

supervisione delineato dal “Nuovo Accorso di Basilea” del 2006.

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Ciascun ente creditizio deve dotarsi di “solidi dispositivi di governo societario, ivi

compresa una chiara struttura organizzativa con linee di responsabilità ben definite,

trasparenti e coerenti, di processi efficaci per l’identificazione, la gestione, la

sorveglianza e la segnalazione dei rischi ai quali è o potrebbe essere esposto e di

adeguati meccanismi di controllo interno, ivi comprese valide procedure

amministrative e contabili”13.

Il legame tra governance bancaria e regolamentazione è ormai evidenze. Come

sostenuto da Prowse (1997), allora, “the most important corporate control

mechanism in banking is regulatory intervention”.

I sistemi di assicurazione dei depositanti e la presenza delle banche centrali quali

prestatori di ultima istanza, sono alcuni dei principali strumenti pensati per prevenire

il fallimento di una banca e l’eventuale, conseguente, effetto contagio nel resto del

mercato finanziario. Questi meccanismi cosiddetti di safety net, tuttavia, possono

anche accentuare il problema di moral hazard riducendo l’incentivo dei depositanti a

monitorare l’attività bancaria e, contemporaneamente, incentivando la banca stessa

ad incrementare la propria esposizione al rischio. In quest’ottica, si giustificano il

primo e il secondo pilastro di Basilea 2, volti rispettivamente a fissare dei requisiti

patrimoniali minimi e un sistema efficiente ed efficace di controllo.

A proposito dei pilastri di Basilea 2, un lavoro empirico circa gli effetti prodotti da

queste regole è stato condotto da Barth, Caprio e Levine (2006). I tre autori hanno

rilevato che “empowering direct official supervision of banks and strengthening

capital standards neither boost bank development nor improve bank efficiency,

reduce corruption in lending, or lower banking system fragility”. Al contrario, hanno

evidenziato che “fortifying official supervisory oversight and disciplinary powers

impedes the efficient operations of banks, increase corruption in lending and hurts

the effectiveness of capital allocation (although the negative impact vanishes when

countries have extremely open, competitive, democratic political institutions). In

contrast, bank supervisory and regulatory policies that facilitate private sector

monitoring of banks, for example forcing banks to disclose accurate information to

the public (III pillar), improve bank operations, bank efficiency and reduce

corruption in lending”.

13 Cfr. l’art. 22 della direttiva 2006/48/CE.

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Non sorprende quindi che Paesi con sistemi di assicurazione dei depositanti più

generosi, sono soggetti con maggior frequenza a crisi bancarie (Demirguc-Kunt e

Detragiache, 2003).

Ancora Levine (2004) ha analizzato le diverse implicazioni della regolamentazione

per la corporate governance delle banche in ben 107 diverse nazioni. In primo luogo,

ha rivelato che molte regole limitano la concentrazione della proprietà degli istituti

bancari. In alcuni Paesi esistono anche limiti sui soggetti che possono acquisire

azioni del capitale di una banca. Il vincolo più diffuso riguarda, ad esempio, le

partecipazioni bancarie eventualmente detenute da imprese non finanziarie. Si tratta

di limitazioni poste per evitare eventuali concentrazioni di potere economico in mano

a determinati soggetti14. Levine (2004), tuttavia, ha dimostrato che una larga

percentuale (circa il 75%) delle banche del suo campione non sono a proprietà

diffusa ma anzi, in buona parte, controllate da vere e proprie famiglie proprietarie. È

un paradosso: “government regulatory restrictions are often ineffective at limiting

family dominance of banks, but the regulatory restrictions on purchasing equity

actually protect these family-controlled banks from takeover and hinder corporate

governance” (Levine, 2004).

La regolamentazione del settore finanziario diventa, insomma, un aspetto

fondamentale di corporate governance nella misura in cui limita e, in un certo senso,

si sostituisce ai meccanismi di mercato, costituendo così una complessità aggiuntiva

nello schema della teoria dell’agenzia e del rapporto principal – agent (Forestieri,

2007).

2.1.3 BANCHE E CORPORATE GOVERNANCE DELLE ALTRE

IMPRESE

Nell’ambito del sistema economico, sia i mercati che i sistemi finanziari, giocano un

ruolo fondamentale: si ritiene, infatti, che determinino la competitività delle imprese

a cui garantiscono l’approvvigionamento di quelle risorse finanziarie senza le quali le

imprese stesse non potrebbero esistere.

14 Come scrisse Louis Brandeis nel 1914: “A license for banking is a license to steal”.

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In particolare, è possibile affermare che le banche svolgano un funzione importante

anche in quanto soggetti della corporate governance delle altre imprese.

Oggi più che mai, i rapporti banca-impresa tendono ad essere sempre più ampi e

complessi. Le banche offrono ricchi ventagli di servizi alle aziende: forniscono

credito, capitale di rischio, consulenze. Seppur in maniera diversa, a causa dei

differenti possibili contenuti contrattuali, si creano delle relazioni tra l’istituto

bancario e l’impresa che portano a combinazioni di interessi e di incentivi del tutto

peculiari, talvolta anche difficili da gestire (Forestieri, 2007).

L’attività di corporate e investment banking, d’altronde, in molte sue operazioni (dal

venture capital alla gestione delle crisi, dalla quotazione alle operazioni straordinarie

di fusione o acquisizione) si pone come uno degli elementi elettivi per l’eventuale

ristrutturazione degli assetti proprietari e di controllo delle imprese coinvolte. Allora

una banca che gode di una “buona governance” potrà certamente meglio orientare le

scelte delle imprese assistite.

In un’ottica ancor più generale, si può ragionevolmente ritenere che la corporate

governance influenzi, più o meno sensibilmente, l’attività svolta dalle banche, il

costo del capitale oltre che (è questo che nel seguito si cercherà di dimostrare) la

performance e i comportamenti relativi all’assunzione dei rischi.

Se le banche esercitano un impatto notevole sullo sviluppo di un sistema economico,

allora, quando riescono anche ad allocare in modo efficiente le risorse finanziarie di

cui dispongono, potranno garantire: un costo del capitale inferiore per le imprese di

quel sistema economico, la diffusione di maggiori e migliori informazioni e nuovi

stimoli alla crescita economica generale (Levine, 2004).

Quindi “since banks exert corporate governance on firms, as creditors of firms and,

in many countries, as equity holders, the corporate governance of banks becomes

crucial for growth and development” (Polo, 2007).

Alla base della teoria per la quale la banca influenza notevolmente la diffusione di

una buona governance tra le imprese, c’è la capacità propria delle banche di

instaurare delle relazioni di lungo termine con le imprese clienti. È come se la

stabilità del rapporto banca-impresa, legittimasse la banca stessa ad esercitare il

cosiddetto delegated monitoring sull’azienda cliente: la banca, forte delle proprie

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competenze professionali, riesce a meglio limitare i problemi di agenzia, esercitando

il controllo al posto di altri stakeholders (Allen e Carletti, 2008).

Tutto ciò si ritiene possa verificarsi soprattutto in quei Paesi nei quali manchi un

forte mercato del corporate control.

Il rapporto banca-impresa, comunque, dipende, in larga misura, anche dalla tipologia

del sistema finanziario considerato. È possibile, infatti, distinguerne due modelli

alternativi: l’outsider system e l’insider system.

Il primo è tipico del contesto anglosassone (statunitense in particolare), caratterizzato

da proprietà diffusa e grande tutela degli investitori, in cui il mercato finanziario

riveste un ruolo fondamentale.

Il secondo, invece, è orientato agli intermediari finanziari, caratterizzato da strutture

proprietarie concentrate e da un peso rilevante assunto dal sistema bancario. Proprio

le banche, infatti, finiscono col sostituirsi parzialmente al mercato attraverso la

concentrazione del debito accompagnato talvolta dalla partecipazione azionaria e

comunque da un incisivo controllo sul management. Il c.d. relationship banking ne è

un classico esempio: la banca è incentivata a controllare l’operato degli

amministratori e ad intervenire sulla governance aziendale in caso di performance

negative.

In letteratura, tuttavia, non manca chi sostiene che il ruolo delle banche nella

corporate governance delle imprese clienti sia sopravvalutato.

Edward e Fisher (1994), ad esempio, in uno studio che ha riguardato il sistema

finanziario tedesco, hanno mostrato una serie di evidenze empiriche secondo le quali

proprio le banche, in qualità sia di creditori che di azionisti, non esercitano influenze

particolarmente rilevanti.

In generale, le operazioni sul capitale di rischio, sul debito e quelle di advisoring

coinvolgono necessariamente le posizioni dei diversi stakeholders e, in primis, di

azionisti e creditori. Le clausole dei contratti che ne derivano contengono, anche solo

indirettamente, condizioni che si riflettono sulla funzionalità del sistema di corporate

governance delle imprese nella misura in cui possono favorire o frenare la spinta del

management al raggiungimento degli obiettivi aziendali. È quindi possibile affermare

che “un’efficiente governance bancaria è un presidio non solo rispetto a

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comportamenti fraudolenti, ma anche rispetto a “semplici” (e molto più diffusi) casi

di gestione aziendale inefficiente” (Santella, 2006).

2.2. SISTEMA BANCARIO ITALIANO Il sistema bancario italiano, negli ultimi venti anni, è stato interessato da profonde

trasformazioni. Le spinte verso una crescente integrazione dei mercati, soprattutto

finanziari, hanno favorito una progressiva tendenza ad uniformare le caratteristiche e

le specificità dei diversi sistemi bancari, sempre più dominati dal principio della

ricerca della massima redditività anche nelle operazioni finalizzate all’erogazione del

credito. Non sempre, nel passato, è stato così: in alcuni sistemi, proprio come in

quello italiano, si considerava l’attività creditizia, e bancaria in generale, come

equivalente ad una funzione pubblica, svolta nell’interesse dell’intero sistema

economico e, quindi, caratterizzata dalla massiccia presenza di soggetti istituzionali

nel capitale delle banche.

La crescente globalizzazione dell’economia, inoltre, ha imposto la ricerca di

dimensioni sempre più ampie per gli operatori bancari e ciò ha portato a progressive

concentrazioni e alla conseguente scomparsa di molti operatori creditizi minori, che

meglio interagivano con le imprese di dimensioni più modeste presenti in uno

specifico territorio (Panizza, 2002).

Di seguito, si propone un breve excursus storico delle fasi che hanno permesso una

riorganizzazione del sistema bancario italiano; si cercherà poi di esaminare le

particolarità che il legislatore ha previsto per i modelli giuridici bancari e di

analizzare più approfonditamente i motivi che hanno spinto alcune grandi banche

italiane ad adottare recentemente il modello dualistico.

2.2.1 TRASFORMAZIONI DEGLI ANNI NOVANTA Con specifico riferimento al governo societario dell’impresa bancaria, è inevitabile

rilevare come gli interessi pubblici, le peculiarità strutturali e gli specifici problemi di

opacità e asimmetrie informative che la caratterizzano, richiedano l’introduzione di

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adeguati meccanismi di corporate governance, nell’interesse tanto degli azionisti

quanto della pluralità degli stakeholders e delle collettività in generale.

Sulla base di queste considerazioni, l’attenzione non può non rivolgersi anche

all’evoluzione del sistema bancario e del relativo quadro istituzionale per poter

meglio comprendere come il governo societario e, più in generale, la variabile

organizzativa sia diventata un elemento decisivo non solo per la competitività ma

anche per la stabilità degli intermediari. I giusti meccanismi di governace, infatti,

possono diventare lo strumento capace di coniugare correttamente l’interesse alla

massimizzazione del valore dell’investimento azionario e l’interesse alla sana e

prudente gestione della banca (Cappiello e Ronchi, 2009).

Fino agli inizi degli anni Novanta, il sistema creditizio italiano era disciplinato dalla

legge bancaria del 1936-3815 che aveva come obiettivi fondamentali la stabilità e

l’efficienza funzionale degli intermediari del credito. Il fine era quello di prevenire il

ripetersi di una grave crisi bancaria, come quella dei primi anni Trenta, e di garantire

il buon funzionamento del sistema economico. La banca era considerata

un’istituzione incaricata di svolgere un compito con finalità pubbliche: non era

considerata come un’impresa finalizzata a soddisfare logiche di redditività, ma a

compiere il pubblico servizio di erogazione del credito.

Sul piano delle configurazioni istituzionali, i soggetti operanti nel settore del credito

erano distinti, a seconda della loro diversa operatività, in due categorie principali:

istituti di credito e banche di credito ordinario (o aziende di credito).

Gli istituti di credito erano prevalentemente di diritto pubblico e si caratterizzavano

per un’operatività a medio-lungo termine, avente cioè ad oggetto attività finanziarie

con scadenza superiore a 18 mesi, che si concretizzava prevalentemente

nell’erogazione di credito in settori particolari come il credito fondiario, edilizio o

agrario.

15 Si tratta del R. D. L. del 12 marzo 1936, n. 375 sulle “disposizioni per la difesa del risparmio e per

la disciplina della funzione creditizia”. Il decreto fu poi convertito, con rilevanti modifiche, con la

legge del 7 marzo 1938, n. 141. A queste disposizioni si aggiunsero quelle della legge 7 aprile 1938,

n. 636 con cui venne convertito il D. L. 17 luglio 1937, n. 1400. “Il complesso di queste disposizioni

ha dato vita ad un corpo organico di norme comunemente noto come legge bancaria” (Costi, 2001, p.

56).

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Le aziende di credito, invece, erano caratterizzate da un’operatività a breve termine

quindi in attività finanziarie con scadenza pari o inferiore ai 18 mesi, che consisteva

nell’erogazione di credito alle imprese per la copertura del normale fabbisogno

finanziario aziendale. Le aziende di credito, a loro volta, si dividevano in: banche

ordinarie, costituite da privati prevalentemente nella forma di società per azioni;

casse rurali ed artigiane, che erano società cooperative aventi ad oggetto

l’erogazione del credito a favore di artigiani ed agricoltori; banche popolari,

anch’esse società cooperative che tuttavia derogavano in parte alla disciplina

generale in materia di cooperazione; casse di risparmio e monti di pietà, vale a dire

banche di natura pubblica costituite nella forma di enti pubblici economici senza

scopo di lucro; banche di interesse nazionale, cioè banche la cui operatività era tale

da incidere sull’economia nazionale (presupposto fondamentale era, ad esempio,

l’esistenza di filiali in almeno trenta province).

Si trattava, quindi, di una legislazione particolarmente dirigista che delimitava le

azioni degli istituti in mano prevalentemente pubblica. “In sostanza, alla ripartizione

di attività a breve, medio e lungo termine, corrispondeva una specializzazione

dell’attività bancaria, nel senso che determinati settori dell’attività bancaria erano

riservati solo a determinate categorie di soggetti” (Bontempi, 2006).

Con la legge del 30 luglio 1990 n. 218 (nota come legge Amato-Carli) e il decreto

legislativo di attuazione del 20 novembre 1990 n. 356 ha avuto inizio un profondo

processo di cambiamento del sistema bancario italiano. L’obiettivo era ristrutturare e

trasformare le banche pubbliche in società per azioni.

In un libro bianco del 1981, la Banca d’Italia individuò tre limiti delle banche

pubbliche rispetto a quelle private: una ripartizione dei poteri tra gli organi

amministrativi non in grado di assicurare la distinzione tra funzioni di indirizzo e

funzioni di gestione; una generale sottocapitalizzazione dovuta al procedimento di

formazione dei fondi di dotazione e alla difficoltà strutturale di attingere a capitali di

finanziatori esterni, la presenza di limitazioni operative dipendenti dall’esercizio,

oltre che dell’attività bancaria, anche di altre funzioni pubbliche connesse alle origini

degli enti (Clarich, 2001).

Visto, insomma, l’aumento della concorrenzialità e un mercato che, in quegli anni,

tendeva ad assumere dimensioni sempre più internazionali, si è avvertita l’esigenza

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di rivitalizzare la foresta pietrificata degli enti creditizi, esaltandone la natura

imprenditoriale.

Come molti hanno scritto, la legge Amato-Carli ha attuato una privatizzazione fredda

del sistema bancario: non ha infatti messo in discussione né l’esistenza né la natura

giuridica sostanziale degli enti bancari. Per questa ragione è più opportuno parlare di

liberalizzazione della proprietà e del controllo delle banche piuttosto che di

privatizzazione vera e propria (Mottura, 1996).

La consapevolezza che il permanere del controllo pubblico avrebbe potuto

rappresentare un ostacolo alla crescita delle banche e il timore che la gestione delle

imprese bancarie fosse influenzata da interessi estranei ai criteri dell’efficienza

operativa, ha rappresentato il motivo dell’emanazione del D.L. 31 maggio 1994 su

“norme per l’accelerazione delle procedure di dismissioni dello Stato e degli enti

pubblici in società per azioni”. Si è così abrogato l’articolo 19 del decreto legislativo

357/90 con il quale si stabiliva che la maggioranza delle azioni con diritto di voto

nell’assemblea ordinaria delle società bancarie dovesse necessariamente appartenere

a enti pubblici o a società bancarie o finanziarie controllate da enti pubblici. Nella

stessa direzione si è inserita la direttiva del 18 novembre 1994 dell’allora Ministro

del Tesoro Lamberto Dini, tesa ad agevolare la dismissione delle banche da parte

delle fondazioni (Trivieri, 2005).

Rimanevano, però, diverse questioni aperte, alle quali si cercò di trovare una

soluzione con la legge delega del 23 dicembre 1998, n. 461, famosa come legge

Ciampi, poi perfezionata con il decreto legislativo del 17 maggio 1999, n. 153.

L’obiettivo era quello di delegare il Governo ad emanare una serie di decreti

legislativi per il riordino della disciplina civilistica e fiscale delle operazioni di

ristrutturazione bancaria. Con questo provvedimento si stabiliva finalmente che la

dismissione delle partecipazioni detenute dalle fondazioni nelle aziende bancarie

fosse, non più solo possibile, ma proprio necessaria. L’articolo 6 del D.Lgs. 153/99,

infatti, impedisce alle fondazioni bancarie di detenere il controllo di società che non

svolgano attività strumentali al conseguimento dei loro fini di utilità sociale e di

promozione dello sviluppo economico.

Ad oggi, insomma, la categoria delle banche pubbliche non esiste più e le fondazioni

bancarie venutesi a creare sono espressamente qualificate come persone giuridiche

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private. Questo processo di profonda ristrutturazione del sistema bancario ha ottenuto

due risultati importanti: la dismissione delle partecipazioni detenute dallo Stato e la

realizzazione di operazioni di consolidamento tra un numero assai considerevole di

imprese bancarie.

Le necessità imposte dall’adesione al progetto dell’Unione europea, recependo le

Direttive in materia bancaria degli anni Ottanta, hanno reso necessaria una profonda

revisione delle leggi riguardanti il sistema bancario e creditizio in Italia. Le norme

succedutesi su questo tema hanno poi avuto una compiuta espressione nel Testo

unico in materia bancaria e creditizia approvato nel 1993, che ha ulteriormente

incentivato la trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni, con il

formale riconoscimento della loro natura imprenditoriale. Il nuovo quadro

regolamentare ha consentito, quindi, la despecializzazione temporale, funzionale e

territoriale dell’attività creditizia, liberalizzando l’apertura di nuovi sportelli e di

nuove banche. Con questi provvedimenti il legislatore ha perseguito l’obiettivo di

accrescere il grado di concorrenza all’interno del sistema bancario, aumentandone, di

conseguenza, l’efficienza. Tuttavia, simili cambiamenti hanno modificato

profondamente l’ambiente all’interno del quale le banche hanno operato per decenni,

imponendo ad esse di sottoporsi a significativi processi evolutivi, quale unica

condizione per garantire loro la sopravvivenza in un nuovo ambiente che, tra l’altro,

ha visto crescere anche la competitività internazionale. E questa evoluzione, sia

direttamente che indirettamente, non ha potuto non riguardare anche gli assetti di

corporate governance.

In generale, comunque, il sistema economico italiano è ancora considerato da molti

saldamente “bancocentrico”: né la Borsa né il mercato dei finanziamenti non bancari

hanno saputo imporsi come primaria fonte di finanziamento per le imprese. Così,

anche, i legami azionari diretti tra banche e aziende sono aumentati. Alcuni grandi

gruppi bancari hanno assunto un ruolo rilevante nell’azionariato di grande imprese

industriali o società di servizi, entrando spesso nei patti di sindacato che le

controllano; allo stesso tempo un numero crescente di imprese partecipa al capitale

degli istituti di credito, cosa che rende loro più semplice garantirsi protezione

finanziaria. Questo reticolo è ovviamente un freno alla concorrenza, rende più facile

conflitti di interesse e difficile il raggiungimento di una “buona governance”.

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2.2.2 SPECIFICITA’ DELLA LEGISLAZIONE BANCARIA

ITALIANA

La profonda revisione della disciplina di diritto comune, operata con la riforma del

diritto societario del 2004, ha indotto il legislatore e le autorità di vigilanza ad

occuparsi delle implicazioni della stessa riforma rispetto all’ordinamento bancario.

Nel valorizzare l’autonomia imprenditoriale delle banche rispettando comunque gli

interessi generali alla sana e prudente gestione, le autorità di vigilanza hanno scelto

di coordinare la novella del codice civile con la normativa di settore in modo da

perseguire due obiettivi: consentire alle banche di sfruttare le nuove opportunità di

miglioramento dell’efficienza gestionale, scegliendo il modello societario più

adeguato; definire le condizioni minime volte a prevenire il rischio che queste stesse

opportunità si traducano in assetti organizzativi invece pregiudizievoli per

l’efficienza della gestione e l’efficacia dei controlli.

In particolare, a fronte della criticità dei nuovi modelli, “la soluzione perseguita è

stata quella di un equilibrato dosaggio di autoregolamentazione ed

eteroregolamentazione, così da consentire alle banche di fruire degli spazi concessi

all’autonomia statutaria nella scelta e nella conformazione dei propri assetti di

governo societario e, al tempo stesso, introdurre le integrazioni e i correttivi

necessari ad assicurarne la compatibilità con l’interesse pubblico alla sana e prudente

gestione” (Cappiello e Ronchi, 2009).

Il primo passo è stato rappresentato dall’emanazione, da parte del ministro

dell’Economia e delle Finanze in qualità di presidente del Comitato interministeriale

per il credito ed il risparmio, del decreto del 5 agosto 2004 (Organizzazione e

governo societario). Con tale provvedimento si è rimesso alla Banca d’Italia il

compito di emanare disposizioni attuative, individuare principi e fornire indicazioni

di carattere generale in merito agli assetti di governance.

Il legislatore, insomma, si è limitato a specificare che le banche devono dotarsi “di

un assetto organizzativo e di corporate governance tale per cui:

- il modello di amministrazione e controllo prescelto garantisca l’efficienza della

gestione e l’efficacia dei controlli. Tale modello deve essere coerente con: la struttura

proprietaria e il grado di apertura della società al mercato del capitale di rischio; le

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dimensioni, la complessità e le strategie aziendali; l’organizzazione della banche e

del gruppo in cui essa è eventualmente inserita;

- i compiti gestionali, esecutivi e di controllo siano ripartiti in modo da favorire la

dialettica interna alla società, assicurando il bilanciamento dei poteri dei diversi

organi sociali;

- i flussi informativi siano idonei a consentire a ciascun organo sociale e ai suoi

componenti di disporre, anche a livello di gruppo, delle informazioni necessarie allo

svolgimento effettivo e consapevole dei compiti loro affidati;

- la gestione dei rischi da parte degli organi aziendali competenti sia consapevole e

coerente con le strategie prescelte;

- i poteri e le responsabilità per ogni livello decisionale siano precisamente definiti,

anche mediante un chiaro sistema di deleghe interne;

- la composizione degli organi sociali sia quantitativamente e qualitativamente

adeguata alle esigenze gestionali e di controllo proprie della singola banca e tale da

consentire l’efficiente assolvimento dei compiti;

- i meccanismi di remunerazione e di incentivazione degli amministratori e del

management non incoraggino scelte gestionali incoerenti con gli interessi aziendali e

con le strategie di lungo periodo della banca;

- il sistema di controllo contabile sia adeguato alla dimensione, alla complessità

operativa e alla situazione tecnica della banca, con riguardo sia alla professionalità e

all’esperienza del revisore prescelto sia al raccordo e coordinamento di quest’ultimo

con l’organo e le funzioni di controllo”16.

Senza alcuna pretesa di completezza, di seguito si cercherà di approfondire alcuni

degli elementi che, caratterizzando la governance bancaria, permettono di

raggiungere questi obiettivi.

16 Parte del testo del decreto del 5 agosto 2004.

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2.2.3 CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE

Si tratta di un organo fondamentale nell’ambito della struttura di governo della banca

come di ogni altra impresa: ad esso la legge e le disposizioni dell’autorità di

vigilanza, attribuiscono la responsabilità organizzativa, di indirizzo gestionale e di

controllo.

La legge per la tutela del risparmio, emanata nel 2005, ha in parte modificato le

regole sulla composizione dell’organo amministrativo delle società con azioni

quotate: “lo statuto prevede che i componenti del Consiglio di Amministrazione

siano eletti sulla base di liste di candidati e determina la quota minima di

partecipazione richiesta per la presentazione di esse, in misura non superiore a un

quarantesimo del capitale sociale o alla diversa misura stabilita dalla Consob con

regolamento17”. Inoltre, si deve eleggere almeno un amministratore dalla lista di

minoranza.

Nelle Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia è stabilito che: “la composizione

del Consiglio di Amministrazione va resa coerente con le caratteristiche operative e

dimensionali dell’intermediario e vanno evitate composizioni pletoriche. Per

garantire unità di conduzione, oltre alle attribuzioni non delegabili per legge, va

riservata alla competenza decisionale del consiglio la definizione delle linee

strategiche, la nomina del direttore generale, l’assunzione e la cessione di

partecipazioni che determinano variazioni del gruppo, l’approvazione e la modifica

di regolamenti interni, l’eventuale costituzione di comitati o commissioni con

funzioni consultive o di coordinamento18”.

Circa la composizione del Consiglio di Amministrazione, la legge per la tutela del

risparmio stabilisce (art. 1) che: “qualora il consiglio di amministrazione [nel sistema

tradizionale] sia composto da più di sette membri, almeno uno di essi deve possedere

i requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci”. Il Codice di Autodisciplina19

17 Parte dell’art. 147-ter del Testo Unico della Finanza novellato dalla legge 262/2005.

18 Istruzioni di Vigilanza per le banche, Circolare n. 229 del 21 aprile 1999 e successivi

aggiornamenti.

19 Si tratta del codice in materia di corporate governance, elaborato nel 1999 dal Comitato per la

Corporate Governance delle Società Quotate (vedi nota n. 2)

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auspica, inoltre, la presenza di amministratori non esecutivi e, tra questi, di

amministratori indipendenti in numero adeguato, tale da poter esercitare un ruolo

significativo.

Il Comitato per la Corporate Governance delle Società Quotate rileva che, nelle

società ad azionariato diffuso, l’aspetto più delicato consiste nell’allineamento degli

interessi degli amministratori delegati con quelli degli azionisti. In tali società,

quindi, prevale la caratteristica della loro indipendenza dagli amministratori delegati.

Viceversa, nelle società con proprietà concentrata, o dove sia comunque

identificabile un gruppo di controllo, pur continuando a sussistere la problematica di

allineamento degli interessi, emerge la necessità che alcuni amministratori siano

indipendenti anche dagli azionisti di controllo. È ulteriormente confermata,

l’importanza assunta dagli amministratori indipendenti nell’ambito dei meccanismi

di governance al fine di risolvere i problemi di agenzia.

2.2.4 CONTROLLO INTERNO

“Il sistema di controllo interno ha la funzione di supportare e guidare il management

nell’orientamento dei comportamenti gestionali. L’istituzione di un adeguato sistema

di controllo interno è, quindi, una componente fondamentale per l’attuazione di un

efficace ed efficiente sistema di corporate governance” (Masera, 2006).

Tale sistema è definito dalle Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia come:

“l’insieme delle regole, delle procedure e delle strutture organizzative che mirano ad

assicurare il rispetto delle strategie aziendali e il conseguimento delle seguenti

finalità:

i) l’efficacia e l’efficienza dei processi aziendali (amministrativi, produttivi,

distribuitivi, ecc);

ii) la salvaguardia del valore delle attività e la protezione dalle perdite;

iii) l’affidabilità e integrità delle informazioni contabili e gestionali;

iv) la conformità delle operazioni con la legge, la normativa di vigilanza

nonché con le politiche, i piani, i regolamenti e le procedure interne”.

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Secondo il Codice di Autodisciplina, invece, “il sistema di controllo interno ha il

compito di verificare che vengano effettivamente rispettate le procedure interne, sia

operative, sia amministrative, adottate al fine di identificare, prevenire e gestire nei

limiti del possibile rischi di natura finanziaria ed operativa e frodi a danno della

società”.

Il sistema di controllo interno può articolarsi organizzativamente in diversi assetti,

modulati sulla realtà di ciascuna società. Il Comitato per la Corporate Governance

delle Società Quotate raccomanda, però, che i preposti al controllo interno siano

liberi da vincoli gerarchici nei confronti dei soggetti sottoposti al loro controllo, così

da evitare interferenze con la loro autonomia di giudizio.

È bene, inoltre, che il sistema di controllo interno si estenda sia ai rischi finanziari,

sia ai rischi operativi, inclusi quelli sull’efficacia e sull’efficienza delle operazioni e

sul rispetto delle leggi e dei regolamenti. Non è un caso, ad esempio, che proprio la

gestione del compliance risk abbia acquisito, negli ultimi tempi, una sempre

maggiore importanza, presentandosi come un ulteriore e qualificante elemento di

corporate governance. Diverse banche europee, infatti, “hanno istituito al loro interno

una funzione di compliance, il cui responsabile assiste e consiglia i vertici aziendali

nell’individuazione, valutazione e controllo di questa specifica categoria di rischio”

(Masera, 2006).

Vista, quindi, l’importanza del sistema di controllo interno, molte banche hanno

costituito, all’interno dei Consigli di Amministrazione, dei veri e propri Comitati di

Controllo Interno, detti anche comitati audit.

Secondo quanto consigliato dal Codice di Autodisciplina, infatti, il Comitato per il

Controllo Interno, composto da un adeguato numero di amministratori non esecutivi,

assolve a funzioni consultive e propositive proprio in tema di controllo interno.

“In particolare il comitato per il controllo interno:

a) valuta l’adeguatezza del sistema di controllo interno;

b) valuta il piano di lavoro preparato dai preposti al controllo interno e riceve le

relazioni periodiche degli stessi;

c) valuta le proposte formulate dalle società di revisione per ottenere

l’affidamento del relativo incarico, nonché il piano di lavoro predisposto per

la revisione e i risultati esposti nella relazione e nella lettera di suggerimenti;

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d) riferisce al consiglio, almeno semestralmente, in occasione dell’approvazione

del bilancio e della relazione semestrale, sull’attività svolta e sulla

adeguatezza del sistema di controllo interno;

e) svolge gli ulteriori compiti che gli vengono attribuiti dal consiglio di

amministrazione, particolarmente in relazione ai rapporti con la società di

revisione”20.

Più nello specifico, le Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia, attribuiscono una

certa importanza anche all’attività di revisione interna delle banche, detta internal

audit. Si tratta di una funzione “volta da un lato a controllare, anche con verifiche in

loco, la regolarità dell’operatività e l’andamento dei rischi, dall’altro a valutare la

funzionalità del complessivo sistema dei controlli interni e a portare all’attenzione

del consiglio di amministrazione e dell’alta direzione i possibili miglioramenti alle

politiche di gestione dei rischi, agli strumenti di misurazione e alle procedure”21.

Affinché l’internal audit possa operare liberamente ed efficacemente, è necessario

che “non dipenda gerarchicamente da alcun responsabile di aree operative; sia dotato

di personale qualitativamente e quantitativamente adeguato ai compiti da svolgere;

abbia accesso a tutte le attività della banca22”.

Anche se il Comitato per la Corporate Governance delle Società Quotate nulla dice

in merito, come invece ribadito da Masera (2006), è opportuno che l’internal audit

sia indipendente non solo dalle strutture operative ma anche dal vertice operativo.

“Appare, infatti, contraddittorio rendere autonomo l’internal audit rispetto alle

funzioni produttive e, al contempo, porla alle dipendenze di chi coordina ed è

responsabile dell’operato di tali funzioni” (Masera, 2006).

20 Codice di Autodisciplina, art. 10.2 21 Istruzioni di Vigilanza per le banche, Circolare n. 229 del 21 aprile 1999, Titolo IV, Sezione II. 22 Ibidem

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2.2.5 PARTICOLARITA’ DEI NUOVI MODELLI SOCIETARI:

MONISTICO E DUALISTICO

L’introduzione nell’ordinamento italiano della possibilità di scelta tra tre modelli

societari alternativi (tradizionale, monistico e dualistico) ha aperto una nuova fase

nella corporate governance delle imprese italiane e, di conseguenza, anche delle

banche.

In generale, alla base dell’evoluzione del nostro ordinamento è possibile rintracciare,

come filo conduttore, la ricerca di un equilibrio tra le manifestazioni dell’autonomia

imprenditoriale, riconosciute e valorizzate dal diritto comune, e la necessità che

queste siano sempre coerenti con i criteri prudenziali presidiati dalla vigilanza

bancaria.

Sotto questo punto di vista la riforma societaria introduce qualche elemento di

discontinuità perché da un lato riprende, con riferimento ai sistemi di governo

tradizionali, alcune soluzioni di fatto già sperimentate nell’ambito delle norme di

vigilanza, ma dall’altro, nel configurare i modelli alternativi, demanda l’applicazione

all’autonomia statutaria, segnando così uno squilibrio con l’impostazione delle

norme codicistiche (Vella, 2008).

In altri termini, al fine di graduare le esigenze di efficacia ed efficienza aziendali con

quelle di una sana e prudente gestione bancaria, la Banca d’Italia, nelle disposizioni

di vigilanza23, ha stabilito, per le banche, delle deroghe alla normativa generale.

Per quanto riguarda il sistema monistico, mentre nel codice civile è scritto che “salvo

diversa disposizione dello Statuto, la determinazione del numero e la nomina dei

componenti del Comitato per il controllo sulla gestione spetta al Consiglio di

Amministrazione24”, le disposizioni della Banca d’Italia stabiliscono che “lo Statuto

delle banche che adottano il modello monistico deve attribuire all’Assemblea il

compito di nominare e revocare i componenti del Comitato per il controllo sulla

23 “Disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle banche”, del 4

marzo 2008.

24 Articolo 2409-octiesdecies, comma 1 del c.c.

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gestione”. La Banca d’Italia, insomma, ha sottratto al Consiglio di Amministrazione

un potere invece riconosciutogli dalla normativa generale, rendendo obbligatoria una

soluzione che il diritto societario considera solo come eventuale e comunque

subordinata ad un’espressa previsione statutaria.

È evidente, in questo caso, l’intenzione della Banca d’Italia, di porre un argine al

principale “difetto” del modello monistico evitando che i controllati eleggano i

controllori.

Per il sistema dualistico, l’articolo 2409-terdecies, al comma 4, del codice civile,

prevede che “i componenti del Consiglio di Sorveglianza possono assistere alle

adunanze del Consiglio di Gestione e devono partecipare alle assemblee”.

Le disposizioni della Banca d’Italia, invece, dopo aver previsto che nel Consiglio di

Sorveglianza deve essere nominato un Comitato per il Controllo Interno qualora il

consiglio stesso svolga una funzione di supervisione strategica o sia di ampia

composizione, precisa che il presidente del Consiglio di Sorveglianza non può far

parte di tale comitato e che, comunque, almeno un componente del Consiglio di

Sorveglianza deve partecipare alle riunioni del Consiglio di Gestione. Si specifica,

però, che tale partecipazione, strettamente connessa allo svolgimento delle funzioni

di controllo, va riservata ai soli componenti del Comitato per il Controllo Interno.

In sostanza, per le banche, è fatto divieto al presidente del Consiglio di Sorveglianza

di partecipare alle adunanze del Consiglio di Gestione (Costi, 2008). Inoltre, mentre

per le altre società che scelgono il modello dualistico, la nomina di un Comitato per

il Controllo Interno è facoltativa, per le banche è obbligatoria.

In un certo senso, è possibile interpretare queste deroghe alla normativa generale del

codice civile come un’ulteriore dimostrazione della specificità delle banche rispetto

ad altre tipologie di imprese.

Gli istituti di credito, infatti, devono contrapporre alle ragioni di mercato gli interessi

e la tutela dei depositanti. È fisiologico quindi che le scelte di governance

fuoriescano dal terreno tipico delle società di diritto comune per divenire il

presupposto di obiettivi diversi, volti alla ricerca di un equilibrio tra l’autonomia

imprenditoriale e la sana e prudente gestione (Favella, 2008).

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Seguendo la traccia già segnata dai principi di Basilea II, la Banca d’Italia, con le sue

Disposizioni, ha ribadito l’importanza della governance societaria nella gestione

dell’impresa bancaria. Nel disciplinare certi aspetti della struttura di comando e

gestione, con divergenze rispetto ai modelli legali, quindi, l’Autorità di vigilanza ha

mostrato di credere nella relazione fra corretta ed efficace gestione e performance

positiva dell’azienda (Costi e Vella, 2008).

2.3 MODELLO TRADIZIONALE, MONISTICO E DUALISTICO:

CASI SCELTI DI BANCHE ITALIANE.

La riforma del diritto societario ha aperto un ventaglio di possibilità agli operatori

che si accingono a disegnare le strutture di governo della società bancaria.

La loro libertà di scelta deve essere guidata da una precisa valutazione del modello

che appare più idoneo e confacente a realizzare i disegni imprenditoriali, nell’ambito

del principio della equivalenza di tutti i modelli (Costi e Vella, 2008).

D’altronde come dichiarato da Draghi (2008/1) “assieme all’adeguamento del

patrimonio e dell’organizzazione, il terzo presidio cui è affidata la stabilità del

sistema bancario è la qualità del governo societario”.

Con l’obiettivo, quindi, di garantire al sistema bancario italiano i necessari presidi di

good governance, la Banca d’Italia, nelle “Disposizioni di vigilanza in materia di

organizzazione e governo societario delle banche” del 2008, ha imposto agli istituti

bancari italiani di dotarsi, entro il 30 giugno 2009, di un sistema di governo

societario coerente con i modelli disciplinati dalle norme codicistiche a seguito della

riforma del 2003.

Nonostante le diverse prescrizione alle quali le banche devono attenersi, è comunque

concesso ampio spazio all’autonomia statutaria cosicché gli istituti bancari abbiano

la possibilità di applicare le disposizioni alla propria realtà nel rispetto del principio

di proporzionalità (Brogi, 2009).

Le banche italiane che, ad oggi, si sono organizzate secondo il modello dualistico

sono il Banco Popolare, Intersa San Paolo e UBI Banca. Mediobanca, invece, dopo

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aver adottato il modello dualistico per circa un anno (dal 2 luglio 2007 al 28 ottobre

2008) è tornata al modello tradizionale.

Già il legislatore della Riforma del diritto societario del 2003, vedeva nel modello

dualistico una soluzione organizzativa in grado di agevolare il governo societario in

presenza di compagini sociali diffuse dove, in maggior misura, si “realizza la

dissociazione tra proprietà (dei soci) e potere (degli organi sociali)”25.

Le banche italiane, tuttavia, sembrano imputare le potenzialità del modello

dualistico, non tanto alle ragioni addotte dal legislatore, quanto, piuttosto, alla

possibilità di raggiungere un equilibrio di poteri in caso di processi di aggregazione.

“Nel modello dualistico il Consiglio di Sorveglianza, ben distinto dal Consiglio di

Gestione, a cui spettano le decisioni operative, è frapposto tra azionisti e manager ed

esercita funzioni di supervisione che nel sistema tradizionale spettano agli azionisti

stessi. In presenza di strutture azionarie particolarmente complesse, tale modello può

consentire un controllo più efficace dell’operato dei gestori. Nel caso di recenti

operazioni di aggregazione bancaria, i promotori hanno visto nel modello dualistico

uno strumento per valorizzare tradizioni e patrimonio di esperienza delle realtà

bancarie preesistenti” (Draghi, 2007).

La previsione di un Consiglio di Gestione, infatti, affiancato da un Consiglio di

Sorveglianza titolare delle funzione di controllo ma anche della supervisione

strategica e d’indirizzo, permette di coinvolgere un numero più ampio di soggetti e

organi dei processi decisionali (Favella, 2009).

Per quanto concerne il sistema monistico, invece, bisogna rilevare come, per il

momento, non sia stato adottato da nessuna banca italiana. Il modello monistico, in

effetti, può essere considerato più adatto a realtà aziendali caratterizzate da un

azionariato diffuso, da notevole dimensioni e quindi maggiormente sottoposte

all’effetto disciplinante del mercato. Inoltre, a differenza del sistema dualistico, non

consente il coinvolgimento nei processi decisionali di diversi soggetti e/o organi.

Non si deve, ad ogni modo, escludere la possibilità di una sua maggiore diffusione

nel futuro. Come rileva Brogi (2008), infatti, “per le banche italiane che hanno

adottato il dualistico a seguito di fusioni, raggiungendo una dimensione che consente

25 Dalla relazione al d.lgs. 6, 17/1/2003.

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loro la competizione sui mercati dei capitali con le grandi società quotate europee, il

modello dualistico potrebbe rappresentare un passaggio intermedio prima

dell’approdo al sistema monistico, come del resto è recentemente avvenuto per

alcune grandi società francesi del campione Eurotop”.

2.3.1 UBI, INTESA SAN PAOLO E BANCO POPOLARE: MOTIVI

DELLA SCELTA

Le ragioni in base alle quali l’Unione delle Banche Italiane (UBI Banca) ha optato

per il modello dualistico possono essere rinvenute nella “Relazione di UBI Banca in

materia di governo societario”26 nella quale è scritto, appunto, che il sistema duale è

“ritenuto maggiormente rispondente alle esigenze di governance della nuova

Capogruppo UBI Banca e al contempo più appropriato per rafforzare la tutela degli

azionisti-soci, soprattutto per il tramite dell’attività del Consiglio di Sorveglianza,

organo nominato direttamente dai soci e rappresentante degli stessi”.

Il caso UBI27, d’altra parte, si colloca proprio in quel contesto di processi di

aggregazione che guarda con maggior interesse al sistema dualistico e al

bilanciamento tra poteri che questo stesso sistema permette di realizzare,

“garantendo per il tramite della scorporazione della funzione amministrativa in

gestione e supervisione, un posto al sole a più interessati” (Favella, 2009).

In quest’ottica, quindi, UBI Banca ha inteso attribuire al Consiglio di Sorveglianza,

oltre alle normali funzioni di controllo, anche quelle di supervisione strategica e

indirizzo; mentre al Consiglio di Gestione sono affidate la gestione ordinaria e

straordinaria della banca. In altri termini, il Consiglio di Sorveglianza non solo può

nominare i consiglieri di gestione e approvare il bilancio, ma può anche svolgere

funzioni tipicamente gestionali.

Nello Statuto di UBI Banca, infatti, si legge che il Consiglio di Sorveglianza “su

proposta del Consiglio di Gestione, delibera sulla definizione degli indirizzi generali 26 Scaricabile dal sito www.ubibanca.it 27 Il gruppo UBI Banca, è nato il 1 aprile 2007 dalla fusione tra Banca Lombarda e BPU Banca.

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programmatici e strategici della Società del Gruppo”, “delibera sulle autorizzazioni

relative ai piani industriali e/o finanziari e ai budget della società e del Gruppo” e

“relative altre operazioni strategiche”, oltre ad essere competente per una serie di

altre funzioni che confermano l’importanza del ruolo rivestito da questo organo

sociale.

A scegliere il sistema duale è stato anche il Gruppo Intesa San Paolo nato dalla

fusione, avvenuta nel 2007, tra Banca Intesa e Banca San Paolo IMI.

Come si legge dalla “Relazione sul Governo Societario e Informazione sugli Assetti

Proprietari” del 2009, Intesa San Paolo ha avviato nel 2008 “un approfondito esame

del proprio assetto organizzativo, con particolare riferimento alla struttura e al

funzionamento dei propri Organi sociali, al fine di verificarne la rispondenza al

nuovo contesto normativo e di procedere, se del caso, ai conseguenti adeguamenti.

[…] Dall’analisi condotta è emerso che il sistema di amministrazione e controllo

dualistico adottato rappresenta in concreto il modello di governo societario più

idoneo ad assicurare una gestione della Banca efficiente, in linea con le strategie

aziendali di lungo periodo, controlli efficaci ed una supervisione strategica articolata;

si è rilevata inoltre una sostanziale coerenza del sistema adottato non soltanto con le

Nuove Disposizioni di Vigilanza ma anche con il generale contesto normativo e

regolamentare vigente.”

Come UBI Banca, quindi, anche l’istituto piemontese ha scelto di conferire al

Consiglio di Sorveglianza funzioni di supervisione strategica e di indirizzo aggiuntivi

rispetto a quelle di controllo.

Le ragioni di fondo sono sempre specificate nella Relazione della Gestione. “In

primo luogo, tale modello determina una migliore demarcazione tra proprietà e

gestione, in quanto il Consiglio di Sorveglianza si pone quale filtro tra gli azionisti e

l’organo gestorio – il Consiglio di Gestione – e sembra quindi poter rispondere più

efficacemente rispetto al modello tradizionale alle esigenze di maggior trasparenza e

riduzione dei potenziali rischi di conflitto di interessi. Inoltre, il ruolo attribuito al

Consiglio di Sorveglianza enfatizza la distinzione tra la funzione del controllo e degli

indirizzi strategici, da un lato, e la funzione della gestione dell’altro, consentendo di

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delineare al meglio ruoli e responsabilità degli organi sociali, anche a garanzia di una

sana e prudente gestione della banca”.

Altra banca nata da un importante processo di aggregazione di precedenti istituti

bancari e che ha scelto di adottare il modello dualistico è il Banco Popolare28.

Le ragioni della scelta possono essere individuate nella “Relazione sulla corporate

governance e sull’adesione alle raccomandazioni contenute nel codice di

autodisciplina delle società quotate”.

Il Banco Popolare ha ritenuto il modello duale “più adeguato alla nuova realtà

aziendale” e capace di “contemperare l’esigenza di una salda unità di direzione e

governo, con la necessità di una rappresentanza delle componenti originarie

nell’aggregato bancario e con la presenza di principi di democrazia economica tipici

del modello del credito popolare”29.

Sempre il modello dualistico, inoltre, “consente di definire in maniera più nitida le

differenze tra l’organo gestorio e l’organo deputato alla vigilanza e sembra poter

rispondere più efficacemente del modello tradizionale all’esigenza di maggior

trasparenza e riduzione dei potenziali rischi di conflitto di interessi”30.

Quindi, come le due precedenti banche, anche per il Banco Popolare, lo Statuto

riconosce al Consiglio di Sorveglianza una serie di rilevanti poteri di alta

amministrazione, affidandogli il compito di assolvere a funzioni di indirizzo e

controllo, anche di merito, sulla gestione dell’istituto bancario.

28 Il Banco Popolare è nato nel 2007 dalla fusione della Banca popolare italiana (ex Banca Popolare di

Lodi) e della Banca Popolare di Verona e Novara.

29 Relazione sulla corporate governance e sull’adesione alle raccomandazioni contenute nel codice di

autodisciplina delle società quotate.

30 Ibidem

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2.3.2 MEDIOBANCA: MOTIVI DEL RIPENSAMENTO

Particolare è il caso di Mediobanca che, dopo aver adottato il modello dualistico per

circa un anno, è ritornata a quello tradizionale.

Nella delibera del 23 maggio 2007, con la quale il Consiglio di Amministrazione

approvava l’adozione del sistema duale, si spiegava che la separazione di ruoli e

responsabilità tra l’attività di controllo e di indirizzo, attribuito al Consiglio di

Sorveglianza, e quella di gestione ed amministrazione del Gruppo, affidata al

Consiglio di Gestione, poteva consentire un funzionamento della governance più

consono all’assetto dell’azionariato di Mediobanca ed alle sue esigenze operative.

Inoltre, avrebbe potuto anche meglio assecondare la crescente presenza del Gruppo

sui mercati internazionali.

Si prevedeva, comunque, l’attribuzione al Consiglio di Sorveglianza, oltre che delle

competenze ordinarie di controllo, anche della facoltà di approvazione delle proposte

del Consiglio di Gestione in merito ai piani industriali e finanziari, al progetto di

bilancio, alle proposte di modifiche statutarie e alle operazioni sul capitale.

Il 30 luglio 2008, tuttavia, il Consiglio di Sorveglianza si è riunito per deliberare in

ordine all’elaborazione di un nuovo modello di governace da proporre

all’approvazione dell’Assemblea dei Soci. Si sentiva la necessità di rivedere l’intero

sistema di governance tenendo conto delle criticità emerse in ordine al

funzionamento del sistema dualistico e “dell’opportunità di valutare l’adozione del

sistema tradizione, il quale, peraltro, nelle sue concrete applicazioni, può atteggiarsi

in vari modi”31.

Con la redazione di un nuovo Statuto, si sono quindi apportati significative

innovazioni al sistema di governo societario del Gruppo bancario, proponendo un

modello di governance che potesse essere interpretato come un’evoluzione che ha

fatto propria l’esperienza maturata con il sistema dualistico superandone, al

contempo, alcune problematiche applicative.

31 Comunicato stampa del Consiglio di sorveglianza del 30/07/2008 consultabile sul sito internet

www.mediobanca.it.

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Mediobanca è così ritornata ad un sistema di governance tradizionale, improntato ad

una valorizzazione del management ed ad una maggiore chiarezza dei ruoli dei

diversi organi societari.

Il risultato finale è stato particolare e, ad oggi, difficile da riscontrare in altre società

quotata.

Se in genere l’amministratore delegato è il solo a rappresentare l’anima operativa

dell’azienda, nel nuovo assetto di Mediobanca, tutti i top managers (in questo caso

cinque) sono consiglieri, partecipano al Comitato Esecutivo e sono presenti nei

comitati tecnici.

I più critici attribuiscono la “diversità” di Mediobanca alla presenza di un patto di

sindacato che vincola quasi metà del capitale e a cui partecipano soci che, nella

maggioranza dei casi, sono in potenziale conflitto di interessi o parti correlate.

L’adozione del sistema dualistico, per Mediobanca, è avvenuta quando nel 2007 i

soci più importanti, Unicredit e Capitalia, avevano deciso di fondersi. Nella delibera

dell’assemblea dei soci di approvazione del nuovo modello societario si specificava

che i soci concordavano “nel ravvisare nel sistema dualistico un presidio essenziale

per salvaguardare fisionomia, funzione e tradizione d’indipendenza dell’istituto e per

assicurare allo stesso unità di indirizzo di gestione”.

Mediobanca, insomma, a differenza delle altre tre banche italiane, non ha adottato il

modello duale a seguito di un’operazione di aggregazione ma dopo modifiche della

compagine societaria.

La scelta era stata, quindi, quella di prevedere un Consiglio di Sorveglianza con

funzioni di indirizzo e controllo che rappresentasse i soci e un Consiglio di Gestione,

composto dai soli cinque top managers più un amministratore indipendente.

Il ripensamento, tuttavia, e il conseguente ritorno ad un Consiglio di amministrazione

tradizionale che riunisse le funzioni di indirizzo strategico e di gestione, è stato

motivato da esigenze di “responsabilità”.

Il timore era infatti legato alla possibile riduzione di autonomia dei managers visto la

responsabilità attribuita al Consiglio di Sorveglianza per decisioni assunte da quello

di gestione.

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Nel nuovo modello di governance, allora, si è riconosciuto ai managers un peso

determinante nel Consiglio di Amministrazione e decisivo nel Comitato Esecutivo,

così da garantire loro una maggiore autonomia operativa.

2.4 RIFLESSIONI FINALI

Dopo aver passato in rassegna alcuni dei più importanti meccanismi di governo

societario analizzati dalla letteratura circa la governance delle imprese non

finanziarie, in questo secondo capitolo sono stati presi in considerazione alcuni tra i

più importanti contributi sullo specifico tema della governance bancaria.

Le banche sono imprese diverse dalle altre, non solo per la tipologia di attività svolta

ma anche e soprattutto per la capacità di influenzare notevolmente il sistema

economico generale in virtù degli interessi pubblici coinvolti nella gestione bancaria

stessa.

Se la “good governance” è già importante per le imprese non finanziarie, tanto più lo

sarà, evidentemente, per le banche.

Gli studi di Caprio e Levine (2002) hanno permesso di individuare alcune peculiarità

proprie degli istituti bancari: le banche sono caratterizzare da un’opacità più

accentuata, sono soggette ad una maggiore regolamentazione, influenzano il governo

societario delle altre imprese. Tutte queste peculiarità richiedono, perciò,

un’attenzione particolare nella gestione dei conflitti aziendali e nell’implementazione

di idonei meccanismi di corporate governance.

D’altronde, l’attenzione che il legislatore ripone nel disciplinare l’attività bancaria

altro non è che la prova della stessa specificità e originalità delle banche rispetto alle

altre imprese.

Il legislatore italiano, negli ultimi decenni, si è particolarmente dedicato a rinnovare

la disciplina bancaria anche e soprattutto con riferimento agli assetti di governance.

Ne è derivata una disciplina specifica seppur ancora in evoluzione.

Certamente la riforma del diritto societario del 2003 e l’introduzione dei nuovi

modelli di corporate governance hanno spinto le banche ad un processo di auto-

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valutazione dei propri assetti di governo societario. Processi che hanno favorito

cambiamenti e miglioramenti in termini di governance e che, in alcuni casi, si sono

addirittura tradotti nell’adozione di modelli di corporate governance del tutto nuovi e

diversi.

Non resta che valutare, allora, se e in che misura questi stessi modelli di governo

societario influenzino la performance delle banche.

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CAPITOLO 3

EFFETTI DELLA CORPORATE GOVERNANCE SULLA

PERFORMANCE DELLE BANCHE. L’EVIDENZA EMPIRICA PER LE BANCHE ITALIANE.

3.1 INTRODUZIONE Uno dei temi che, negli ultimi anni, è stato posto al centro del dibattito economico e

politico internazionale è quello della corporate governance.

Il governo dell’impresa, la disciplina dei conflitti e l’assetto equilibrato degli

organismi preposti alla gestione aziendale sono argomenti ormai oggetto

dell’attenzione di studiosi, managers, policy-makers e regulators.

Nei precedenti capitoli si è cercato di analizzare le principali teorie generali sulla

corporate governance e le implicazioni che queste teorie comportano se applicate alle

banche, intese come particolare categoria di impresa con le proprie peculiarità e

specificità.

Il presente capitolo, invece, si propone di verificare l’esistenza di una relazione tra i

diversi meccanismi di corporate governance e la performance delle imprese creditizie

del nostro Paese.

L’interesse per questo tema di ricerca è da ricondurre alle importanti implicazioni

economiche ad esso connesse. Comprendere se e in che misura i meccanismi di

governo societario esercitano un’influenza sui risultati di performance aziendali,

infatti, significa avere la possibilità di favorire lo sviluppo delle imprese e,

conseguentemente, la crescita economica.

Come ormai più volte ribadito, proprio nei processi di sviluppo economico, gli

istituti bancari rivestono un ruolo cruciale, non solo perché costituiscono un canale di

trasmissione della politica monetaria e per il ruolo di intermediari finanziari, ma

anche per la funzione di rilievo che possono svolgere nel governo societario delle

imprese clienti.

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Negli ultimi anni, perciò, si sta sempre più diffondendo l’interesse per il filone di

ricerca che studia i legami tra i meccanismi di corporate governance, l’efficienza e la

redditività nel settore bancario.

Se le imprese finanziarie hanno cominciato ad attrarre l’attenzione degli esperti di

governo societario solo negli ultimi anni, le ricerche che hanno indagato l’esistenza

di una relazione tra governance e performance delle imprese industriali sono state

molto più numerose ed hanno raggiunto la massima popolarità in concomitanza degli

scandali societari32 verificatisi agli inizi del nuovo millennio.

Managers, investitori e legislatori hanno ormai acquisito la consapevolezza di quanto

importante sia cercare di stimare l’impatto dei meccanismi di corporate governance

sui processi di decision-making e di creazione del valore.

In altri termini, si tratta di analizzare come e in che misura i meccanismi di governo

societario riescono a risolvere i conflitti di interessi tra principal e agent,

permettendo all’impresa di massimizzare il valore per i propri stakeholders.

Tanto più i meccanismi di corporate governance si rivelano idonei a garantire un

buon governo societario e un corretto funzionamento degli organismi preposti alla

gestione d’impresa, tanto più si possono raggiungere risultati aziendali soddisfacenti.

Di contro, meccanismi di governo societario poco adatti non riescono a risolvere o,

comunque, a limitare i conflitti d’interesse ed, inevitabilmente, producono effetti

negativi sulla performance aziendale e sul valore d’impresa.

La difficoltà principale sta nel tradurre aspetti solitamente qualitativi della vita

d’impresa in fattori quantitativi da rapportare ad opportune misure di redditività,

rischiosità ed efficienza.

Si è cercato di trovare una soluzione al problema attraverso la costruzione di appositi

indici di corporate governance.

In realtà, stabilire una relazione tra corporate governance e performance può essere

difficile visto i possibili problemi di endogeneità, tuttavia, nel proseguo del lavoro, si

32 I casi più eclatanti sono numerosi e diffusi in tutti i paesi con economia capitaliste: Enron,

WorldCom, Adelphia e Tyco negli USA; Ahold in Olanda, le sventure di Parmalat, Cirio,

Freedomland e Giacomelli in Italia, gli scandali minori delle Banche dei Laender tedeschi e della

Volkswagen (Pugliese, 2008).

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cercherà proprio di costruire indici di corporate governance originali e di stimare gli

effetti prodotti su alcune misure di performance delle banche quotate italiane.

Il settore bancario a livello internazionale sta affrontando dei cambiamenti

significativi. Comprendere se i meccanismi di corporate governance riescono a

influenzare la capacità delle banche di produrre valore diventa allora fondamentale

per capire ed indirizzare ulteriori cambiamenti ed evoluzioni.

Il presente capitolo è così articolato: si inizia con lo studio dei principali indici di

corporate governance utilizzati in letteratura. Successivamente alla definizione del

campione oggetto di analisi, si procede alla descrizione dei tre indici di corporate

governance costruiti. Dopo la spiegazione della metodologia adottata, si continua

riportando i risultati ottenuti. Il capitolo, infine, si conclude con alcune

considerazioni circa il possibile legame tra la corporate governance e la recente crisi

finanziaria.

3.2 LETTERATURA

Il filone di ricerca che studia come le regole di corporate governance di un paese o le

pratiche di governo societario delle singole imprese possano influenzare il valore

complessivo e la performance aziendali, è ormai ben noto ed ha avuto origine dagli

studi di La Porta, Lopes-de-Silanes, Shleifer and Vishny (1997).

La Porta et al. (1998, 2002), infatti, furono i primi a mettere in evidenza come nei

Paesi caratterizzati da una maggiore protezione legale degli azionisti di minoranza, le

imprese vantino un maggior valore dei titoli azionari.

A partire dalla fine degli anni Novanta, comunque, sono stati realizzati diversi studi

in cui si è cercato di analizzare l’impatto su valore e performance aziendali di diversi

aspetti di corporate governance.

Nella maggior parte dei casi, le ricerche si sono concentrate su elementi specifici del

governo societario. Ne sono degli esempi: il board, lo shareholders’ activism, i piani

di remunerazione, gli strumenti di difesa da eventuali takeovers ostili, l’investor

protection (Hermalin e Weisbach, 1991; Black, 1998; Shleifer e Vishny, 1997).

In realtà, però, la letteratura empirica che ha investigato l’esistenza di una relazione

tra governance e performance non ha ancora raggiunto delle conclusioni univoche.

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Non sempre, infatti, sono state confermate evidenze di relazioni positive

statisticamente significative.

Tantissimi sono gli studi che hanno esaminato l’impatto della board composition

sulla performance aziendale e non tutti hanno confermato, per esempio, l’esistenza di

una relazione positiva tra la presenza di amministratori indipendenti e la performance

d’impresa33.

Allo stesso modo, altri studi hanno cercato di misurare l’impatto sulla performance

del cosiddetto shareholders’ activism inteso come capacità degli azionisti di

influenzare la vita e le decisioni di impresa (Black, 1998).

La relazione diretta tra esercizio dei diritti di voto e performance, tuttavia, non è stata

esaminata tanto quanto quella con il Consiglio di Amministrazione, cui è stata

sempre rivolta maggiore attenzione.

Poiché esercizio dei diritti di voto e struttura proprietaria sono considerate due facce

di una stessa medaglia, gli studi34 circa la relazione esistente proprio tra struttura

proprietaria e performance sono valutati come equivalenti a quelli tra esercizio dei

diritti di voto e performance (Bhagat et al. 2007).

Massimo comune denominatore di quasi tutte le ricerche sul legame tra performance

e governo societario è stata la costruzione di indici di corporate governance, cioè di

misure che potessero riassumere in un unico numero i diversi e complessi aspetti di

governo societario.

33 Si possono leggere al riguardo: Sanjai Bhagat e Bernard Black, The Uncertain Relationship

Between Board Composition and Firm Performance, (1999) Roberta Romano, Corporate Law and

Corporate Governance, (1996). Ma ancora: Hermalin e Weisbach, The effects of board composition

and direct incentives on firm performance, Financial Management, (1991) ed anche Bhagat e Black,

The non-correlation between board independence and long-term firm performance, Journal of

Corporation Law, (2002).

34 Si possono leggere al riguardo: Randall Morck, Andrei Shleifer e Robert Vishny, Management

Ownership and Corporate Performance: An Empirical Analysis, (1988); John J. McConnell e Henri

Servaes, Additional Evidence on Equity Ownership and Corporate Value, (1990).

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Uno dei primi e più importanti indici di corporate governance è stato quello costruito

da Paul Gompers, Joy Ishii and Andrew Metrick (2003). Dalle iniziali dei suoi autori

si parla di “GIM Index”.

L’indice fu elaborato con riferimento ad un largo numero di imprese statunitensi (ben

1.500) e i tre studiosi rilevarono una relazione positiva tra l’indice stesso e il valore

delle azioni delle imprese considerate.

Il “GIM Index” si componeva di 28 elementi, poi ridotti a 24 e classificati in 5

diverse categorie:

- “Delay” e “other”: sono due diverse categorie che contemplano fattori di

difesa adottati dalle imprese contro eventuali takeovers ostili;

- “Voting”: riguardante l’esercizio dei diritti di voto da parte degli azionisti;

- “Protection”: circa le forme di protezione degli amministratori da eventuali

responsabilità nonché le loro particolari forme di remunerazione;

- “State”: riguardante le leggi di uno stato circa i casi di takeovers ostili.

Gompers, Ishii e Metrick (2003), insomma, costruirono un indiche che ritenevano in

grado di riflettere “the balance of power between shareholders and managers”.

L’indice poteva assumere un valore da zero a 24: si assegnava un punto per la

presenza di ogni fattore di restrizione dei diritti degli azionisti.

L’indice così costruito è stato poi rapportato a diverse misure di performance: “stock

returns”, la Q di Tobin e le tre misure contabili “net profit margin”, “return on

equity” e “sales growth”.

Il risultato è stata una relazione statisticamente significativa tra l’indice di corporate

governance e le due misure non contabili di performance, lo “stock returns” e la Q di

Tobin. “Firms with the weakest shareholder rights (high values of G) significantly

underperformed firms with the strongest shareholder rights (low values of G) during

the 1990s” (Gompers e Metrick, 2003).

Gompers, Ishii e Metrick (2003) rilevarono, quindi, che le imprese caratterizzate da

un migliore assetto di corporate governance (e un più basso valore del “GIM Index”),

riuscivano sistematicamente a raggiungere delle performance superiori rispetto a

quelle contraddistinte da meccanismi di governo societario di “qualità” inferiore (e

caratterizzate da valori elevati del “GIM Index”).

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Nel 2005 Lucian Bebchuk, Alma Cohen e Allen Ferrell (BCF) proposero un nuovo

indice di corporate governance, in alternativa a quello costruito da Gompers, Ishii e

Metrick (2003).

Condividendo la tesi dimostrata dal “GIM Index”, secondo la quale esiste una

relazione positiva tra una buona corporate governance e la performance aziendale, i

tre autori hanno cercato di costruire quello che loro consideravano “a better

motivated index”. Per far ciò hanno selezionato sei dei fattori considerati da

Gompers, Ishii e Metrick che più di altri sono in grado di rafforzare, se non

addirittura trincerare, la posizione dei managers nell’impresa35. L’indice è stato poi

costruito usando la stessa tecnica del “GIM Index”, vale a dire assegnando un punto

per la presenza di ogni elemento considerato e riconoscendo a tutti gli elementi lo

stesso peso.

Il nuovo indice, non a caso, è stato definito “Entrenchment Index” o più brevemente

“E Index”36.

I sei fattori considerati da Bebchuk, Cohen e Ferrell (2005), risultarono comunque

essere i soli statisticamente significativi tra i 24 elementi complessivamente

esaminati nell’indice di Gompers, Ishii e Metrick (2003) nel caso di una regressione

che stimi gli effetti sulla performance d’impresa di tutti i 24 fattori considerati

separatamente.

Bebchuk, Cohen e Ferrell (2005) hanno concluso, perciò, che la correlazione

esistente tra corporate governance e performance aziendale, rilevata nello studio di

35 Fattori inseriti nell’indice costruito da Bebchuk, Cohen e Ferrell (2005) (GIM’s grouping in

parentheses):

1. Classified boards (Delay)

2. Limitations to shareholders= ability to amend the bylaws (Voting)

3. Supermajority voting for business combinations (Voting)

4. Supermajority requirements for charter amendments (Voting)

5. Poison pills (Other)

6. Golden parachutes (Protection)

36 Entrenchment in inglese significa proprio “trinceramento”.

73

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Gompers, Ishii e Metrick (2003), fosse interamente determinata dal sottoinsieme di

fattori inseriti nell’“Entrenchment Index”.

Esaminando la relazione tra “E Index” e le due misure di performance “stock

returns” e “Tobin’s Q” (le stesse utilizzate da Gompers, Ishii e Metrick), Bebchuk,

Cohen e Ferrel (2005) hanno ulteriormente confermato la presenza di una

correlazione positiva tra corporate governance e performance aziendale.

Si potrebbe quindi considerare l’“E Index” preferibile al “GIM Index” in quanto

permette di ottenere lo stesso risultato ma “it is more parsimonious” e “better

motivated”.

Un anno dopo l’elaborazione dell’“Entrenchment Index”, i due studiosi Brown e

Caylor (2006) hanno creato un nuovo indice di corporate governance molto più

completo e complesso del “GIM Index” e dell’“E index”.

Definito “Gov-score”, il nuovo indice di governo societario riassume ben 51 diversi

fattori, compresi anche alcuni di quelli inseriti nel “GIM Index”.

I fattori di corporate governance inseriti nel “Gov-Score” possono essere

ulteriormente classificati nelle seguenti categorie:

- “Audit”: quattro fattori relativi alla presenza di comitati di controllo interni al

Consiglio di Amministrazione;

- “Board of directors”: diciassette diversi elementi riferiti alla composizione e al

funzionamento del Consiglio di Amministrazione:

- “Charter/bylaws”: sette fattori circa alcune precise previsioni statutarie capaci di

influenzare l’esercizio dei diritti di voto;

- “Director education”: un solo elemento circa la formazione dei managers;

- “Executive and director compensation”: dieci fattori riguardanti i piani di

remunerazione degli amministratori;

- “Ownership”: quattro elementi circa la composizione della struttura proprietaria di

impresa;

- “Progressive practise”: sette elementi riguardanti altri particolari aspetti della vita

d’impresa (ad esempio: “mandatory retirement age for directors);

- “State of incorporation”: un solo componente relativo alla presenza nello statuto di

regole circa i takeovers.

74

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Per semplicità comunque, i due autori hanno selezionato anche un sottoinsieme di

sette elementi tra i 51 iniziali, con i quali elaborare un altro indice sintetico definito,

non a caso, con il nome di “Gov-7”37.

L’indice “Gov-Score” ha il vantaggio, riconosciuto dai suoi creatori, di fornire una

migliore misura della qualità della corporate governance di un’impresa grazie alla

possibilità di includere un vasto set di componenti sul governo societario che

trascendono e completano le cinque categorie previste da Gompers, Ishii e Metrick

(2003).

Altro elemento a suo favore è che la sua costruzione si basa sui dati raccolti rispetto

ad un numero elevato di imprese (più di 2.000).

Il difetto principale, però, è legato all’orizzonte temporale di riferimento. I dati

raccolti per la costruzione dell’indice, infatti, sono soltanto quelli relativi al 2003. Il

“GIM Index” e l’“Entrenchment Index”, di contro, si riferiscono ad orizzonti

temporali più lunghi, garantendo perciò una maggiore completezza e attendibilità

delle stime.

Brown e Caylor (2006) nell’esaminare la relazione esistente tra la corporate

governance e la performance aziendale hanno rapportato l’indice “Gov-score” con la

Q di Tobin, misura di performance peraltro utilizzata anche in relazione sia del “GIM

Index” che dell’“Entrechment Index”.

I risultati ottenuti hanno ancora una volta confermato l’esistenza di una relazione

positiva tra un buon livello di corporate governance e la performance aziendale.

37 Il sottoinsieme di fattori inseriti nell’indice sintetico “Gov-7” è composto dai seguenti elementi:

1. Annual director elections (Board of directors);

2. No poison pill or shareholder approved pill (Charter/bylaws);

3. No option repricing in past three years (Executive and director compensation);

4. Directors subject to stock ownership guidelines (Ownership);

5. All directors attended at least 75% of board meetings or had valid excuse for non-attendance

(Board of directors);

6. Average options granted in past three years as percentage of basic shares outstanding no

more than 3% (Executive and director compensation);

7. Board guidelines are in each proxy statement (Board of directors);

75

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La differenza principale tra i risultati raggiunti da Brown e Caylor (2006) e quelli dei

due studi precedenti è rappresentata dalla relazione esistente tra la performance di

impresa e gli strumenti di difesa contro eventuali takeovers ostili.

Brown e Caylor (2006), infatti, hanno rilevato che i fattori di corporate governance

relativi alla composizione e al funzionamento del Consiglio di Amministrazione e

quelli relativi alla remunerazione dei managers, nel loro indice, presentavano una più

forte correlazione con la performance aziendale rispetto alle tecniche di difesa dai

takeovers, invece alla base della costruzione del “GIM Index” e, in parte,

dell’“Entrechment Index”.

Nell’approfondire il loro studio, i due economisti hanno disaggregato l’indice e,

regredendo ciascuno dei 51 componenti rispetto alla Q di Tobin, hanno potuto

identificare un sottoinsieme di elementi con la maggiore significatività statistica.

Sono arrivati così ad individuare i sette componenti della versione sintetica

dell’indice “Gov-score” denominata appunto “Gov-7”.

Poiché due componenti del “Gov-7” sono presenti anche nell’“Entrenchment Index”,

Brown e Caylor (2006) hanno cercato di investigare quale dei due indici permettesse

di ottenere le stime migliori: secondo il risultato finale ottenuto, proprio il “Gov-7”

pare possa meglio spiegare la relazione tra corporate governance e performance

aziendale.

Esistono poi anche altri indici elaborati da specifiche organizzazioni e definiti

“commercial index” per distinguerli dagli indici accademici elaborati dagli studiosi

di economia.

Tra gli indici commerciali si può segnalare il “Board effectiveness” elaborato dal

Corporate Library una società americana di ricerca specializzata sulla corporate

governance. L’indice è simile ad un rating: varia dalla lettera A alla lettera F.

L’assegnazione avviene mediante il calcolo di una media pesata di sette componenti

di governo societario ed è, però, influenzata anche da una valutazione soggettiva

degli analisti della società. I sette elementi dell’indice riguardano: la composizione

del board; la remunerazione del CEO; i poteri riconosciuti agli azionisti; la modalità

di risoluzione di eventuali contenziosi; le tattiche di difesa dai takeovers ostili; il

sistema di accounting; i processi di decision-making. I primi due componenti relativi

76

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alla board composition e alla remunerazione del CEO, tuttavia, coprono la metà

dell’intero indice visto il particolare sistema di pesi previsto per la determinazione

dell’index.

Un altro indice commerciale è quello costruito dal GovernanceMetrics International,

un’altra organizzazione internazionale specializzata nel condurre ricerche di mercato

sul tema della corporate governance.

L’indice è il “Market and Industry index” e può variare in un range di valori

compreso tra 0 e 10, assegnati in base a determinati algoritmi statistici legati a sei

aree generali di governance: board accountability, financial disclousure and internal

controls, shareholder rights, executive compensation, market for control and

ownership base, corporate behavior and corporate social responsibility issues.

Altrettanto noto è il “Corporate Governance Quotient” elaborato dall’Institutional

Shareholder Services (ISS), leader di mercato nel settore dell’advisory e dei servizi

in tema di corporate governance.

L’indice deriva la sua composizione da ben 63 fattori di governo societario,

raggruppati in quattro categorie: board of directors, compensation, takeover

defenses, audit. Ad ogni componente è attribuito un peso proporzionale alla sua

correlazione con alcune determinate misure di performance, a loro volta divise in

altre quattro categorie: risk, market, valuation e profitability.

È insomma chiaro che l’approccio dominante nella valutazione della qualità della

corporate governance di un’impresa è rappresentato dalla costruzione di indici che,

comprimendo diversi fattori, offrono un misura sintetica della qualità del governo

societario.

La letteratura, nonostante gli indici costruiti, però, non ha ancora trovato una risposta

soddisfacente alla domanda circa l’esistenza o meno di una relazione significativa tra

una buona corporate governance e un’elevata performance aziendale.

Nonostante Gompers, Ishii e Metrick (2003), Bebchuk, Cohen e Ferrell (2005),

Brown e Caylor (2006), attraverso i loro indici, abbiano tutti trovato una correlazione

positiva tra qualità della corporate governance e performance di impresa, non è detto

77

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che questa correlazione implichi che un’effettiva relazione positiva esista

necessariamente.

Lo studio di Gompers, Ishii e Metrick, subito dopo la sua pubblicazione, ha suscitato

una forte attenzione: realizzato nel 2001, pubblicato nel 2003, la ricerca è stata citata

in 50 articoli del “Social Sciences Research database” nei tre anni successivi. Il

numero delle citazioni è più che raddoppiato a ben 104 se si considerano anche i 16

mesi successivi38.

Conseguentemente all’attenzione suscitata, diversi studi hanno confutato la relazione

trovata tra corporate governance e performance aziendale.

Tra i principali studi, Lehn et al. (2006) hanno rilevato che la relazione trovata da

GIM su dati relativi agli anni Novanta, sparisce se l’analisi viene ripetuta

considerando come orizzonte temporale di riferimento gli anni Ottanta.

Nello spiegare il risultato ottenuto, gli studiosi hanno proposto l’esistenza di una

relazione in base alla quale sia la performance aziendale ad influenzare la corporate

governance e non viceversa.

Le imprese che presentano un basso valore azionario, potrebbero essere mal gestite e

anche più esposte ad eventuali takeovers ostili. È inevitabile, perciò, che nell’ambito

della corporate governance di quella stessa impresa, si cerchi di adottare idonei

strumenti di difesa dalle acquisizioni ostili. A questo punto non sono gli strumenti di

difesa dai takeovers a influenzare negativamente la performance ma viceversa è la

performance aziendale negativa che determina l’adozione di determinati elementi di

corporate governance.

La ricerca di un legame tra corporate governance e performance ha seguito sempre

un percorso unidirezionale, nel senso cioè di verificare l’impatto di un determinato

modello di governo sul valore delle imprese, e diretto, senza considerare la possibile

esistenza di relazioni intermedie. Negli ultimi anni, tuttavia, ci si è chiesti se al

contrario, potesse essere la performance delle imprese a impattare sul modello di

38 I dati si riferiscono ad una ricerca condotta dall’ ISI Web of Science nell’ottobre 2007 e citata nello

studio di Bhagat et al. 2007 (p. 34).

78

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governance adottato (e non viceversa) o addirittura se si tratti di una relazione

bidirezionale e non univoca39 (Pugliese, 2008).

Ancora Core et al. (2006) hanno approfondito uno dei problemi aperti lasciato dallo

studio di Gompers, Ishii e Metrick (2003), vale a dire perché la relazione tra

corporate governance esista rispetto alla “Q di Tobin” e allo “stock returns” ma non

rispetto alle misure contabili di performance.

Nell’approfondire lo studio, Core et al. (2006) hanno addirittura rilevato una

relazione negativa tra il “GIM Index” e le misure di “operating performance”.

In tutti gli studi appena esaminati, inoltre, l’oggetto esclusivo d’indagine è stata la

grande impresa, generalmente quotata, in cui gli organi della governance sono

formalizzati e facilmente identificabili.

Recentemente ha cominciato ad attirare l’interesse degli studiosi anche l’impresa di

dimensioni ridotte, che presenta criticità differenti rispetto alla corporation quotata,

ma ugualmente meritevoli di attenzione40.

In generale, dall’analisi della letteratura in materia, si può chiaramente evincere che

non esiste un indice di corporate governance considerato completamente attendibile.

Una buona misura di governo societario varia in base al contesto e al settore di

riferimento. Non è quindi possibile costruire un unico indice che si adatti ad ogni

tipologia di impresa. Per di più, è impensabile poter definire delle regole e delle

procedure che identifichino in modo univoco la “buona” corporate governance.

39 Huse, in Human Side, sottolinea che le analisi unidirezionali (governance-performance) non

consentono di cogliere a pieno l’intensità della relazione. Su questo stesso tema Airoldi si chiede

provocatoriamente perché l’assetto istituzionale non possa essere considerato il frutto di una scelta

strategica dell’impresa, al pari della struttura organizzativa o del mercato e delle modalità con cui

competere. L’accettazione di una tale impostazione logica, potrebbe favorire anche un approccio

metodologico differente rispetto a quello attuale che considera il modello di governance come un

“dato”, come una variabile statica che interviene sulla performance aziendale (Pugliese, 2008).

40 Uno degli studi più importanti sulle imprese di minori dimensioni è quello di Gabrielsson J.,

Correlates of board empowerment in small companies. Entrepreneurship theory and practice,

Working papers, 2007

79

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Quelli che infatti possono considerasi meccanismi di governo societario di buona

qualità per una determinata tipologia di impresa, non necessariamente devono valere

per imprese differenti in settore o contesto di operatività.

Se identificare una misura di governance è un’idea apprezzabile in teoria, in pratica

si devono sempre ricordare alcuni aspetti fondamentali.

In primo luogo è raro che si arrivi a costruire un indice che presenti una relazione

significativa con ogni tipo di misura di performance aziendale.

In secondo luogo, gli indici sono costruiti nell’ipotesi base che gli elementi che li

compongono siano tra loro complementari. In realtà, spesso i dati hanno evidenziato

come alcuni meccanismi di corporate governance possano essere non complementari

ma sostitutivi.

In definitiva, la “good governance is therefore best understood as highly context-

specific, something that even the best-constructed index simply cannot capture and

convey” (Bhagar et al., 2007).

80

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3.3 DATI E CAMPIONE

Per analizzare la relazione esistente tra corporate governance e performance delle

banche quotate italiane, è stato costruito un apposito database.

I dati su base consolidata sono stati raccolti relativamente alle sole banche quotate

italiane nel periodo compreso tra il 2005 ed il 2009. Si è adottato il criterio della

quotazione sui mercati regolamentati sulla base di alcuni importanti studi41 che,

nell’esaminare la relazione esistente tra corporate governance e performance,

prendono in considerazione solo le grandi imprese quotate. Non si esclude,

comunque, che una relazione statisticamente significativa possa esistere anche per le

banche non quotate e di minori dimensioni. La questione potrebbe anzi essere

oggetto di ulteriori ricerche e approfondimenti.

L’orizzonte temporale di riferimento è composto da cinque anni (dal 2005 al 2009).

Il lustro preso in considerazione è caratterizzato da diversi cambiamenti nei sistemi

di corporate governance delle banche italiane. Non è un caso che, ad esempio,

proprio nel 2008 la Banca d’Italia abbia emanato delle nuove disposizioni di

vigilanza in materia di organizzazione e governo societario. In ogni caso, anche la

riforma del diritto societario del 2004 ha prodotto effetti significativi. Certo un

orizzonte temporale di riferimento più ampio avrebbe permesso una maggiore

variabilità dei dati e quindi una maggiore attendibilità delle stime. Si ritiene tuttavia

che il periodo preso in considerazione sia sufficiente per l’analisi empirica proposta.

La fonte da cui sono state tratte alcune delle informazioni necessarie alla stima è

stata Bankscope, un database che offre dati su migliaia di banche, pubbliche e

private, con una copertura geografica mondiale.

I dati relativi agli specifici elementi di corporate governance utilizzati nella

costruzione dell’indice, tuttavia, sono stati tratti dai bilanci consolidati annuali e dalle

relazioni sulla corporate governance dei singoli istituti bancari.

Le banche inserite nel database di riferimento della stima sono 30 per un totale di

126 osservazioni.

Il database così ottenuto si presenta come un panel non bilanciato. Viste le recenti e

numerose operazioni di fusioni ed acquisizioni che hanno riguardato il settore

41 La Porta et al. 1998; Adams e Mehran 2005; Laeven e Levine 2008.

81

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bancario italiano, alcune banche sono uscite dal mercato mentre altre nuove sono

state costituite.

La seguente Tabella riporta l’elenco delle banche inserite nel database con il relativo

periodo di osservazione.

Tabella 3 – Campione

BANCHE PERIODO

D'ANALISI

ANTONVENETA 2005 - 2007

BANCA LOMBARDA 2005 - 2006

BANCO DESIO BRIANZA 2005 - 2009

BANCO POPOLARE 2007 - 2009

BANCO SARDEGNA 2005 - 2009

BNL 2005 - 2009

CARIGE 2005 - 2009

CR FIRENZE 2005 - 2009

CREDITO ARTIGIANO 2005 - 2009

CREDITO BERGAMASCO 2005 - 2009

CREDITO EMILIANO 2005 - 2009

CREDITO VALTELLINESE 2005 - 2009

FINNAT 2005 - 2009

INTESA 2005 - 2006

INTESA SAN PAOLO 2007 - 2009

IW BANCA 2005 - 2009

MEDIOBANCA 2005 - 2009

MELIORBANCA 2005 - 2009

MPS 2005 - 2009

POP. EMILIA ROM. 2005 - 2009

POP. ETRURIA 2005 - 2009

POP. SONDRIO 2005 - 2009

POP. SPOLETO 2005 - 2009

POPOLARE INTRA 2005 - 2009

POPOLARE ITALIANA 2005 - 2006

POPOLARE MILANO 2005 - 2009

RETI BANCARIE 2005

SAN PAOLO IMI 2005 - 2006

UBI BANCA 2007 - 2009

UNICREDIT 2005 - 2009

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3.4 INDICI DI CORPORATE GOVERNANCE

Sono stati elaborati tre diversi indicatori della qualità del governo societario delle

banche inserite nello studio. Ogni indicatore, infatti, fa riferimento a degli “aspetti”

particolari di corporate governance.

Obiettivo dell’indagine è capire anche quali meccanismi di governo societario

risultino esercitare la maggior influenza sulle misure di performance aziendali.

Per una sintesi di tutte le variabili inserite nel modello e delle dummy utilizzate nella

costruzione dei tre indici si rimanda alla Tabella 8.

Il primo indice elaborato è il Gov-firm specific Index: si tratta di un indice il cui

valore può oscillare da 0 a 4 e che comprende alcuni elementi caratterizzanti gli

assetti generali della corporate governance delle banche.

I quattro fattori riassunti dall’indice in questione sono:

- l’adozione o meno del Codice di Autodisciplina delle Società Quotate;

- l’adozione di altri codici di autoregolamentazione interna;

- la previsione di apposite procedure o regolamenti interni disciplinanti le

operazioni con parti correlate;

- la presenza di un giudizio di rating rilasciato da una delle agenzie

internazionali e reso noto al pubblico dei risparmiatori.

Il Codice di Autodisciplina, elaborato dal Comitato per la Corporate Governance

delle Società Quotate, prevede una serie di regole circa i meccanismi di corporate

governance da adottare in linea con un comune orientamento internazionale.

Inserendo questo componente nell’indice si vuole verificare se l’adozione di questo

codice e, quindi, l’adeguamento alle pratiche di “good governance” di respiro

internazionale producano effetti positivi in termini di performance.

In generale, si ipotizza l’esistenza di una relazione positiva in quanto le regole

previste dal Codice circa i meccanismi di governo societario dovrebbero migliorarne

la qualità. In un quadro sempre più internazionale e istituzionale, la competizione sui

mercati finanziari e la massimizzazione del valore, dipendono anche dall’efficienza e

dall’affidabilità del sistema di corporate governance delle imprese.

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La redazione di un Codice di Autodisciplina proprio in tema di corporate governance

è quindi da intendersi come un’offerta alle imprese quotate italiane (e perciò anche

alle banche) di uno strumento capace di renderle ancora più competitive.

Il Codice, inoltre, rappresenta un modello di organizzazione societaria adeguato a

gestire il corretto controllo dei rischi di impresa e i potenziali conflitti di interessi,

che sempre possono interferire nei rapporti tra amministratori e azionisti e fra

maggioranze e minoranze. Il Codice di Autodisciplina si pone quindi come

un’occasione di ulteriore sviluppo per le imprese quotate, sia finanziarie che non.

Allo stesso modo, anche l’adozione di altri codici di autoregolamentazione possono

essere considerati come opportunità aggiuntive di miglioramento della corporate

governance e quindi di crescita delle performance aziendali.

La Tabella 4 riporta i dati circa l’adozione o meno del Codice di Autodisciplina e di

altri codici di autoregolamentazione da parte delle banche inserite nello studio per gli

anni di osservazione 2005 e 2009. Si può facilmente notare che nell’orizzonte

temporale di riferimento le banche hanno provveduto a dotarsi di codici di

autoregolamentazione interni, oltre al solo Codice di Autodisciplina.

In generale, i più diffusi sono il “Codice Etico” e il “Codice di comportamento per

l’internal dealing”.

Il primo si presenta come il principale strumento di implementazione dell’etica

all’interno dell’impresa; il secondo, invece, in base a quanto disciplinato anche

dall'art. 114 comma 7 del Testo Unico della Finanza e dagli articoli 152 sexies/152

octies del Regolamento Emittenti, integrato dalla Delibera Consob 15232/2005, si

rivolge alle operazioni a qualsiasi titolo effettuate dai “Soggetti Rilevanti", aventi ad

oggetto strumenti finanziari quotati.

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Tabella 4 – Banche del campione che adottano il Codice di autodisciplina e altre forme di autoregolamentazione

2009 2005 BANCHE CODICE

AUTODISCIPLINA ALTRI

CODICI CODICE

AUTODISCIPLINA ALTRI

CODICI

ANTONVENETA

BANCA LOMBARDA √ √ √

BANCO DESIO BRIANZA √ √

BANCO POPOLARE √ √

BANCO SARDEGNA

BNL √ √

CARIGE √ √ √

CR FIRENZE √ √ √

CREDITO ARTIGIANO √ √ √ √

CREDITO BERGAMASCO √ √ √ √

CREDITO EMILIANO √ √

CREDITO VALTELLINESE √ √ √ √

FINNAT √ √ √

INTESA √ √ √ √

INTESA SAN PAOLO √ √

IW BANCA √ √ √ √

MEDIOBANCA √ √ √ √

MELIORBANCA √ √

MPS √ √ √ √

POP. EMILIA ROM. √ √

POP. ETRURIA √ √ √

POP. SONDRIO

POP. SPOLETO √ √

POPOLARE INTRA √ √ √ √

POPOLARE ITALIANA √ √ √

POPOLARE MILANO √ √

RETI BANCARIE √

SAN PAOLO IMI √ √

UBI BANCA √ √

UNICREDIT √ √

Fonte: nostra elaborazione su dati di bilancio e relazioni di corporate governance (anni 2005 e 2006)

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Un altro importante elemento di corporate governance, capace di contenere e limitare

i potenziali conflitti di interesse, è rappresentato dai provvedimenti interni relativi

alla disciplina delle operazioni con parti correlate.

Per circa il 34% delle osservazioni, risulta l’adozione di specifici regolamenti o,

comunque, la previsione di particolari procedure interne da seguire nello svolgimento

delle operazioni con parti correlate. Si tratta, anche in questo caso, di uno strumento

di governo societario che, nel contrastare i possibili conflitti di interesse, rende le

operazioni svolte dalla banca più trasparenti: ciò, con molta probabilità, può avere

ripercussioni positive sulla performance aziendale.

L’ultimo componente inserito nell’indice è la presenza di un giudizio di rating.

Anche in questo caso la pubblicazione del rating da parte di una banca rientra negli

strumenti utili ad ottenere una sempre maggiore fiducia del mercato.

Poiché i quattro fattori considerati, a rigor di logica, dovrebbero esercitare un effetto

positivo in termini di qualità della corporate governance, ci si aspetta di ottenere

delle stime che confermino una relazione positiva tra l’indice Gov-firm specific e le

misure di performance scelte.

Il secondo indice di corporate governance costruito è il Gov-board Index: è

caratterizzato da un range di oscillazione compreso tra 0 e 5, riassumendo, infatti, i

seguenti cinque elementi di governance attinenti la composizione, l’organizzazione e

il funzionamento del Consiglio di Amministrazione delle banche considerate:

- numero di amministratori che compongono il Consiglio di Amministrazione;

- numero di meeting annui del Consiglio di Amministrazione;

- numero di amministratori indipendenti presenti nel CdA;

- presenza di eventuali piani di stock option riconosciuti come ulteriore forma

di remunerazione degli amministratori;

- presenza di almeno due comitati interni al Consiglio di Amministrazione.

Il Consiglio di Amministrazione42 è il meccanismo interno di corporate governance

più studiato, analizzato e indagato negli studi riguardanti la relazione tra governo

societario e performance d’impresa.

42 Vedi par. 1.4.1. e 2.2.3.

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La letteratura in merito è molto ampia, i contributi sono numerosissimi e per la

maggior parte si concentrano su due caratteristiche fondamentale del board: la

dimensione e la presenza di outside directors (Hermalin e Weisbach, 2001; Kaplan e

Minton, 1994).

Per quel che riguarda il numero di componenti del Consiglio di Amministrazione, si

ritiene che tanto più ridotto è il numero dei managers, tanto più sarà possibile

assumere delle decisioni rapide, trasparenti e condivise, tanto migliori quindi saranno

i risultati in termini di performance (Hermalin e Weisbach, 2001). Anche la Banca

d’Italia, d’altronde, nelle sue Istruzioni di Vigilanza ha ribadito l’esigenza di evitare

composizioni pletoriche dei consigli di amministrazione.

Tanto maggiore, inoltre, è l’outsider ratio, vale a dire il rapporto tra amministratori

indipendenti e totale degli amministratori del CdA, tanto più incisivo sarà il controllo

esercitato sull’operato del board e tanto più efficace sarà, di conseguenza, il

contenimento dei conflitti di interessi.

La Tabella 5 riporta l’outsider ratio delle banche inserite nel campione per l’anno

2009.

Tabella 5 – Amministratori indipendenti presenti nel CdA delle banche del campione

BANCHE OUTSIDER RATIO (%)

BANCO POPOLARE 28,57

BANCO SARDEGNA 60

BNL 40

CR FIRENZE 50

CREDITO ARTIGIANO 36,36

CREDITO BERGAMASCO 80

CREDITO EMILIANO 20

CREDITO VALTELLINESE 40

FINNAT 18,182

IW BANCA 30,769

MEDIOBANCA 21,739

MELIORBANCA 46,667

MPS 16,667

POP. EMILIA ROM. 52,632

POP. SONDRIO 26,667

POP. SPOLETO 78,571

POPOLARE MILANO 50

UNICREDIT 73,913

Fonte: nostre elaborazioni su dati di bilancio e delle relazioni di corporate governance (anno 2009).

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Altro importante aspetto di corporate governance legato al funzionamento del

Consiglio di Amministrazione, è rappresentato dal numero di riunioni effettuate

all’anno. Si è ipotizzato, infatti, che un numero elevato di meeting annui dimostri un

buon funzionamento del board e un certo impegno degli amministratori nella vita

d’impresa: ciò non può che avere effetti positivi in termini di performance aziendale.

Nell’indice Gov-board è stato poi inserito anche un altro elemento di corporate

governance molto dibattuto: la concessione di stock option agli amministratori.

Si tratta di un sistema di incentivazione dei managers, ormai particolarmente diffuso,

attraverso il quale allineare gli interessi del management con quelli degli azionisti.

L’effetto di questo elemento sulla performance d’impresa non è certo, anzi in molti

criticano l’adozione delle stock option ritenendo che alimentino ulteriori conflitti di

interesse tra managers e azionisti invece che limitarli. Nel presente studio, invece, le

stock options sono state considerate strumenti di incentivazione del management,

capaci di produrre effetti positivi in termini di corporate governance e, quindi, di

performance complessiva.

Nell’indice, infine, si è presa in considerazione anche la presenza dei comitati interni

al Consiglio di Amministrazione. Si tratta di comitati con diverse funzioni, spesso

costituiti dagli amministratori indipendenti, che hanno il compito di decidere e/o

vigilare su determinate questioni particolarmente sensibili ad eventuali conflitti di

interessi.

Le tipologie di comitato più diffuse sono le seguenti:

- Comitato per le nomine: è il comitato preposto all’individuazione e alla

nomina dei nuovi consiglieri di amministrazione. Nella maggior parte dei casi

deve essere composto da amministratori esterni o indipendenti per garantire

che il processo di selezione e nomina sia gestito in maniera indipendente dal

top management.

- Comitato per la remunerazione: ha il delicato compito di stabilire il compenso

per l’alta direzione. La funzione principale del comitato è quella di evitare

che i compensi siano definiti dai diretti interessati e non siano vincolati ad un

reale processo di creazione di valore per gli azionisti.

- Comitato per il controllo interno (o Audit commitee): nasce con una funzione

di interfaccia verso il revisore esterno; se a quest’ultimo viene attribuito il

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Nella Tabella di seguito si riportano i comitati presenti nel Consiglio di

Amministrazione di ognuna delle 30 banche del campione di osservazioni.

Tabella 6 – Comitati interni al CdA delle banche del campione

BANCHE COMITATI PRESENTI

ANTONVENETA Controllo per il controllo interno e comitato per la remunerazione

BANCA LOMBARDA Controllo per il controllo interno e comitato per la remunerazione

BANCO DESIO BRIANZA Comitato per il controllo interno, Comitato D.lgs 231

BANCO POPOLARE Comitato per il controllo interno, comitato nomine e comitato per la remunerazione

BANCO SARDEGNA Nessuno

BNL Controllo per il controllo interno e comitato per la remunerazione

CARIGE Controllo per il controllo interno e comitato per la remunerazione

CR FIRENZE Controllo per il controllo interno e comitato per la remunerazione

CREDITO ARTIGIANO Comitato per le proposte di nomina, comitato per la remunerazione, comitato per il controllo interno, comitato di vigilanza e controllo (ex d.lgs 231/01)

CREDITO BERGAMASCO Comitato per la remunerazione

CREDITO EMILIANO Comitato auditing

CREDITO VALTELLINESE Comitato nomine, comitato per la remunerazione e comitato per il controllo interno

FINNAT Controllo per il controllo interno e comitato per la remunerazione

INTESA Controllo per il controllo interno e comitato per la remunerazione

INTESA SAN PAOLO Comitato nomine, comitato per le strategie, comitato per il controllo interno, comitato per il bilancio, comitato per la remunerazione

IW BANCA Comitato per il controllo interno, comitato per la remunerazione, comitato credito e investimenti, comitato sicurezza.

MEDIOBANCA Comitato per il controllo interno, comitato nomine e comitato per la remunerazione

MELIORBANCA Controllo interno e remunerazione

MPS Comitato per il controllo interno, comitato per la remunerazione, comitato per la responsabilità sociale d'impresa, comitato per la comunicazione

POP. EMILIA ROM. Comitato per il controllo interno, comitato nomine e comitato per la remunerazione

POP. ETRURIA Comitato per il controllo interno

POP. SONDRIO Nessuno

POP. SPOLETO Comitato per il controllo interno

POPOLARE INTRA Comitato per il controllo interno e comitato per la remunerazione

POPOLARE ITALIANA Comitato controllo interno, Comitato Indirizzo strategico, Comitato esecutivo crediti

POPOLARE MILANO Comitato di finanziamento, comitato per la remunerazione, comitato per il controllo interno, comitato per i rapporti con i soci, comitato di vigilanza ex d.lgs 231/01

RETI BANCARIE Comitato per il controllo interno

SAN PAOLO IMI Nessuno

UBI BANCA Comitato nomine, comitato per la remunerazione, comitato per il controllo interno, comitato per il bilancio

UNICREDIT Comitato strategico, comitato per la remunerazione, comitato nomine, comitato audit

Fonte: nostre elaborazioni su dati di bilancio e delle relazioni di corporate governance (anno 2009).

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Anche rispetto al Gov-board Index, visto le ipotesi sui fattori che lo compongono, ci

si aspetta che le stime confermino l’esistenza di una relazione positiva rispetto alle

misure di performance considerate.

Il terzo indice di governance costruito è il Gov-shareholders Index: anche questo è

un indice che può variare da zero a quattro e che riassume, al suo interno, quattro

fattori di governance legati alla struttura proprietaria e azionaria delle banche del

campione.

Subito dopo il Consiglio di Amministrazione, le diverse conformazioni di strutture

proprietarie sono i fattori di corporate governance più studiati da chi ricerca una

relazione tra governo societario e performance aziendale.

I quattro fattori che compongono l’indice sono i seguenti:

- la presenza di almeno un azionista di maggioranza tra la compagine

societaria;

- la stipulazione di eventuali patti di sindacato;

- la presenza nel portafoglio azionario delle banche del campione di azioni

proprie;

- l’esistenza di diverse categorie di azioni.

Per quanto riguarda il primo elemento inserito nell’indice, nel definire l’azionista di

maggioranza si è adottato lo stesso criterio stabilito da Caprio, Laeven e Levine

(2007). Secondo i tre autori, infatti, si può affermare che la struttura proprietaria di

una banca sia caratterizzata dalla presenza di un’azionista di maggioranza quando

almeno un socio possiede, direttamente o indirettamente, una partecipazione nel

capitale sociale, con diritto di voto, pari per lo meno al 10%.

La presenza di un azionista di maggioranza potrebbe essere fonte di conflitti di

interessi tra maggioranza e minoranza; conflitti di interesse che si ipotizza possano

generare effetti negativi sulla performance aziendale.

La Tabella 7 riporta le quote azionarie di maggioranza detenute sul capitale sociale

delle banche inserite nel campione di osservazione per l’anno 2009.

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Tabella 7 – Azionisti di maggioranza delle banche del campione (anno 2009)

BANCHE AZIONISTI DI MAGGIORANZA

ANTONVENETA Banco Santander (69% circa) (dato per l'anno 2007)

BANCA LOMBARDA Nessuno

BANCO DESIO BRIANZA Nessuno

BANCO POPOLARE Nessuno

BANCO SARDEGNA Banca popolare dell'Emilia Romagna (51,209%), Fondazione Banco di Sardegna (48,714%)

BNL BNP Paribas (48%)

CARIGE Fondazione cassa di risparmio di Genova e Imperia (44,06%) e Caisse Nationale des Caisses d'Epargne (14,98%)

CR FIRENZE Intesa San Paolo (89%)

CREDITO ARTIGIANO Nessuno

CREDITO BERGAMASCO Nessuno

CREDITO EMILIANO Credito Emiliano Holding spa (76,87%)

CREDITO VALTELLINESE Nessuno

FINNAT Famiglia Nattino

INTESA Credit agricole (17,84%) (dato per l'anno 2006)

INTESA SAN PAOLO Nessuno

IW BANCA UBI Banca (80,469%)

MELIORBANCA Banca BPER

MPS Fondazione MPS (55,489%)

POP. EMILIA ROM. Nessuno

POP. ETRURIA Nessuno

POP. SONDRIO Nessuno

POP. SPOLETO Spoleto Crediti e Servizi Società Cooperativa (51,03%), Banca MPS (25,93%)

POPOLARE INTRA Veneto Banca S.c.p.a. (76,305%)

POPOLARE ITALIANA Nessuno

POPOLARE MILANO Nessuno

RETI BANCARIE Nessuno

SAN PAOLO IMI Compagnia di San Paolo (14,187%) (dato per l'anno 2006)

UBI BANCA Nessuno

UNICREDIT Nessuno

Fonte: nostre elaborazioni su dati di bilancio e delle relazioni di corporate governance (anno 2009).

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Se tra i meccanismi di corporate governance è importante considerare l’eventuale

presenza di un azionista di maggioranza, capace di esercitare una certa influenza in

assemblea, soprattutto sulla nomina degli amministratori, altrettanto importante è

prendere in considerazione l’esistenza di eventuali patti di sindacato.

Gli accordi parasociali, infatti, rappresentano il mezzo attraverso il quale più soci

possono accordarsi su come esercitare i loro voti in assemblea; di conseguenza può

essere considerato uno strumento capace di influenzare alcune fasi fondamentali

della vita d’impresa, alimentando altri conflitti di interessi.

Si ritiene ragionevole ipotizzare che anche la presenza di eventuali patti di sindacato

possa influenzare la performance aziendale.

Nel campione di banche considerate, in circa il 21% delle osservazioni è risultato

essere stato stipulato un patto di sindacato.

Se il modo in cui i soci esercitano il loro diritto di voto è un importante fattore di

corporate governance, non si può non prendere in considerazione anche la presenza

di diverse classi di azioni.

Nel caso delle banche inserite nel campione oggetto d’analisi, è abbastanza diffusa la

presenza di azioni di risparmio43. Quest’ultime sono caratterizzate dall’assenza del

diritto di voto: il socio è, insomma, escluso dalle decisioni aziendali.

Allo stesso modo, la presenza in portafoglio di azioni proprie impedisce, per quelle

stesse azioni, l’esercizio dei relativi diritti di voto.

Questi ultimi due elementi, quindi, possono essere considerati degli strumenti di

difesa per gli eventuali azionisti di maggioranza.

Si ritiene, in generale, che i quattro fattori considerati abbiano un effetto negativo

sulla qualità della corporate governance delle banche e, di conseguenza, sui relativi

indici di performance aziendale. Nelle regressioni di stima del modello, quindi, ci si

aspetta che questo indice, a differenza dei due precedenti, presenti segno negativo.

43 Le azioni di risparmio possono essere emesse solo da società quotate. Il titolare dell’azione di

risparmio non ha diritto di voto né nell’assemblea ordinaria né in quella straordinaria. Ha tuttavia

diritto a percepire un dividendo maggiorato rispetto a quello riconosciuto all’azionista ordinario.

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3.5 METODOLOGIA

Passando a considerare la metodologia empirica impiegata nel lavoro, si precisa che

è stata stimata una regressione lineare con regressori multipli, attraverso il metodo

dei Minimi Quadrati Ordinari (OLS).

Poiché a livello generale, la teoria economica raramente offre ragioni per credere che

gli errori standard siano omoschedastici44, nelle stime sono stati utilizzati gli errori

standard robusti all’eteroschedasticità.

La verifica econometria si è basata sul seguente modello:

Yit = β0 + β1Xit + β2Zi + β3St + β4Cit + εit

con i = 1,……,30; t = 1,….,5

dove i sottosimboli i e t denotano rispettivamente la banca i-esima e l’anno t.

La variabile dipendente Y rappresenta un indicatore di performance della singola

banca considerata, nel nostro caso ROE e Z-score.

Tra le variabili indipendenti, invece, X rappresenta l’indice di corporate governance

costruito in base alla caratteristiche di governo societario specifiche della i-esima

banca al tempo t di riferimento. Il vettore Z controlla per i cosiddetti effetti fissi di

stato, si tratta cioè delle dummy relative ad ogni singolo istituto bancario inserito

nello studio. Il regressore S, di contro, misura gli effetti temporali, vale a dire le

dummy corrispondenti ai periodi considerati nella verifica empirica (gli anni dal

2005 al 2006). Sia nel caso degli effetti fissi che degli effetti temporali, nell’inserire

44 Secondo la prima assunzione nei minimi quadrati, la distribuzione condizionata di ui data Xi deve

avere media nulla. Se anche la varianza di questa distribuzione condizionata è nulla (non dipende cioè

da X) si dice che gli errori sono omoschedastici, altrimenti di definiscono eteroschedastici.

Se gli errori standard classici e quelli robusti all’eteroschedasticità sono simili, la stima non verrà

distorta dall’utilizzo di quelli robusti; se invece differiscono bisogna usare quelli che tengono conto

dell’eteroschedasticità perché sono gli unici a fornire stime affidabili e non distorte. Ecco perché nelle

regressioni conviene sempre utilizzare gli errori standard robusti all’eteroschedasticità.

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le variabili binarie nella regressione, si è tenuto conto degli eventuali problemi di

collinearità perfetta (la cosiddetta “trappola delle dummy”).

Il regressore C rappresenta una serie di variabili di controllo, capaci di spiegare il

modello come la variabile “mutual” che controlla per la forma societaria o i quozienti

derivanti dalla scomposizione del ROE.

In ultimo, il termine ε indica il generico termine di errore che bisogna sempre

considerare nell’ambito di un modello di stima.

Il modello elaborato tramite il software Stata, ha l’obiettivo di verificare l’esistenza

di una relazione statisticamente significativa tra gli indici di corporate governance

costruiti e alcune misure prescelte di performance aziendali.

La performance di una banca può essere misurata in base alla sua capacity to

generate sustainable profitability (ECB, 2010).

La creazione di valore, per una banca, è la principale linea difensiva contro perdite

inattese e dà la possibilità di incrementare il capitale rafforzando la posizione di

mercato.

In effetti, l’espressione “performance aziendale” vuole sintetizzare gli aspetti di

redditività, equilibrio patrimoniale ed efficienza che, congiuntamente, disegnano la

capacità della banca di ottenere determinati risultati, in funzione dei rischi assunti

(Mottura e Paci, 2009).

Le misure di performance adottate nell’ambito di questo studio sono state il ROE e

lo Z-score (De Nicolò, 2001). La prima è una profitability-accounting-based

measure; la seconda è da ritenersi invece una risk-adjusted performance measure.

Il ROE è la misura di performance/profitability più diffusa. È calcolato come

rapporto tra il reddito netto d’esercizio e il patrimonio netto in essere alla fine dello

stesso esercizio. Il pregio di questo indicatore è l’estrema semplicità di calcolo, vista

anche la facilità di reperimento dei dati necessari. Il suo principale difetto, invece, è

che non tiene conto dei diversi livelli di rischiosità, non è cioè un indicatore risk-

sensitive. Come specificato dall’European Central Bank (2010): “A decomposition of

ROE shows that a risk component represented by leverage can boost ROE in a

substantial manner. Other risk elements, on the other hand, are missing in the ROE

figure (e.g. the proportion of risky assets and the solvency situation). ROE is

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therefore not a stand-alone performance measure, and decomposition or further

information is necessary to identify the origin of developments and possible

distortions over time. […] The recent crisis has shown how ROE failed to

discriminate the best performing banks from the others in terms of sustainability of

their results. ROE is a short-term indicator and must be interpreted as a snapshot of

the current health of institutions” (ECB, 2010). Il ROE, insomma, non prende in

considerazione gli effetti prodotti dalle strategie di lungo termine o i danni di lungo

termine causati da una crisi.

Nel tentativo di superare i limiti del ROE, è stata scelta anche una seconda misura di

performance da inserire nella regressione: l’indice Z-score. Si tratta di una risk-

adjusted performance measure; una misura, cioè, in grado di fornire il livello del

rendimento ottenuto rettificato per il grado di rischio assunto.

Così come definito in De Nicolò (2001), il Z-score è determinato dalla seguente

formula:

dove: µi e σi indicano rispettivamente la media e deviazione standard del return on

assets della i-esima banca; (E/A)i invece rappresenta la media del capital – to – asset

ratio.

Anche Laeven e Levine (2008) hanno utilizzato lo Z-score come indice della

rischiosità cui una banca si espone. Come spiegato dai due autori: “the Z-score

measures the distance from insolvency (Roy, 1952). Insolvency is defined as a state

in which losses surmount equity (E<-π) (where E is equity and π is profits). The

probability of insolvency, therefore, can be expressed as prob (-ROA<CAR), where

ROA (=π/A) is the return on assets and CAR (= E/A) is the capital assets ratio. If

profits are normally distributed, then the inverse of the probability of insolvency

equals (ROA+CAR)/σ(ROA), where σ(ROA) is the standard deviation of ROA.

Following the literature, we define the inverse of the probability of insolvency as the

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Z-score” (Laeven e Levine, 2008). Di conseguenza, un valore elevato del Z-score

indica che la banca opera in uno stato di relativa stabilità mentre uno Z-score basso si

riferisce ad un istituto bancario particolarmente esposto al rischio e alla probabilità di

insolvenza45.

Nel modello stimato, inoltre, al fine di evitare eventuali distorsioni da variabili

omesse, sono stati inseriti alcuni fattori che si ipotizzano essere in qualche modo

legati alle variabili dipendenti. Si tratta delle cosiddette variabili di controllo.

Le variabili prese in considerazione sono state le seguenti (per una sintesi di tutte le

variabili del modello si rimanda alla Tabella 8):

- “loans to asset ratio”: è un quoziente che rapporta il totale dei crediti concessi

rispetto al totale degli assets della banca. Indica la percentuale dell’attivo che

è stata “immobilizzata” sotto forma di crediti concessi alla clientela. Tanto

maggiore è il valore di questo indice, tanto minore sarà la liquidità a

disposizione della banca considerata;

- Ln(assets): si tratta del logaritmo naturale del totale attività dell’istituto

bancario preso in considerazione. L’ammontare totale degli assets, infatti, è

una variabile molto diffusa nelle analisi che hanno ad oggetto il settore

bancario ed è utilizzata per classificare le banche secondo un criterio

45 In molti studi (Caprio, Laeven, Levine, 2003; Gompers, Ishii e Metrick, 2003; Adams e Mehran,

2005) che indagano l’esistenza di una relazione statisticamente significativa tra meccanismi di

corporate governance e performance aziendale, uno degli indicatori di performance più utilizzati è la

Q di Tobin. Per definizione, la Q di Tobin è pari al rapporto tra la somma del valore di mercato

dell’equity e del valore contabile della passività e, il valore contabile degli assets. Una misura elevata

della Q di Tobin indica buone opportunità di investimento e di crescita e, presumibilmente, un buon

sistema di corporate governance.

Un recente studio (Dybvig H. P. e Warachka M., 2010), tuttavia, ha dimostrato che un elevato valore

della Q di Tobin può essere legato ad un problema di “underinvestment”. Si è dimostrato, infatti, che

un miglioramento dell’efficienza operativa e della corporate governance, mitigando proprio il

problema dell’underinvestment, determina un decremento della Q di Tobin e non un suo incremento.

Per questi motivi, si è ritenuto l’indice Z-score una misura più attendibile del rendimento e della

rischiosità cui una banca si espone.

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dimensionale46. Come in quasi tutti gli altri studi, si è deciso di considerare il

logaritmo naturale del valore degli assets totali, per sfruttarne le utili

proprietà. I logaritmi, infatti, convertono le variazioni nelle variabili in

variazioni percentuali, rendendone più facile l’interpretazione e, inoltre, sono

meno sensibili alla presenza di eventuali outlier;

- “tier 1 ratio”: è un indice di patrimonializzazione dato dal rapporto tra il

patrimonio di base e il valore delle attività ponderate per il rischio;

- “total capital ratio”: altro indice di patrimonializzazione, è determinato dal

rapporto tra il patrimonio di vigilanza (patrimonio di base + patrimonio

supplementare, meno le deduzioni previste) e il valore delle attività ponderate

per il rischio. A seguito dell’introduzione delle regole di Basilea, tale

rapporto non deve essere inferiore all’8%.

- “loan loss provision to net interest revenue”: è il rapporto tra

l’accantonamento per rischi sui crediti effettuato prudenzialmente della banca

e il margine di interesse. È una misura della rischiosità potenziale a cui è

esposto l’istituto bancario considerato;

- “impaired loans to gross loans”: è il rapporto tra i crediti deteriorati e il totale

dei crediti. Anche questa variabile è una misura di rischiosità della banca. In

particolare è un indicatore della qualità del portafoglio prestiti concessi dalla

banca;

- gli indici ottenuti tramite la scomposizione del ROE.

Si tratta di sei diversi quozienti:

reddito netto su reddito lordo (RN/RL): misura implicitamente il peso

dell’imposizione fiscale sui risultati della banca:

46 A titolo di esempio, la Banca d’Italia classifica le banche sottoposte alla sua vigilanza secondo la

seguente scala dimensionale:

- banche minori: totale dell’attivo inferiore a 1,3 miliari di euro;

- banche piccole: totale dell’attivo compreso tra 1,3 e 9 miliardi di euro;

- banche medie: totale dell’attivo compreso tra 9 e 26 miliardi di euro;

- banche grandi: totale dell’attivo compreso tra 26 e 60 miliardi di euro;

- banche maggiori: totale dell’attivo superiore a 60 miliardi di euro.

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reddito lordo su reddito di gestione (RL/RG): misura il segno e il peso

assunto dalle componenti valutative del conto economico, tra le quali

spiccano le rettifiche di valore su crediti;

reddito di gestione su margine di intermediazione (RG/MIT): misura

l’incidenza dei costi operativi sui risultati economici della banca. È un

indicatore di efficienza operativa;

margine di intermediazione su margine di interesse (MIT/MI): misura

il contributo delle aree di attività finanziaria non prettamente

creditizia alla redditività della banca;

margine di interesse su totale attivo (MI/TA): esprime il contributo

alla redditività complessiva dell’attività di intermediazione creditizia

in senso stretto;

totale attivo su patrimonio netto (TA/PN): è un classico indice di leva

finanziaria.

Questi quozienti non sono stati però inseriti contemporaneamente nelle

regressioni stimate che presentano il ROE come variabile dipendente, per

evitare problemi di distorsioni da causalità simultanea.

Altra variabile di controllo molto importante inserita nelle regressioni stimate è la

dummy “mutual” il cui valore è pari ad 1 se la i-esima banca considerata è una

cooperativa. Viceversa, la variabile binaria assume valore 0 in corrispondenza di

banche costituite sotto forma di società per azioni.

Il sistema bancario italiano è caratterizzato dalle presenza di numerose banche

costituite sotto forma di società cooperative per azioni: le banche popolari e le

banche di credito cooperativo.

Tra i numerosi studi che hanno contribuito ad indagare la relazione esistente tra

corporate governance e performance aziendale, alcuni si sono concentrati

nell’esaminare questa relazione rispetto proprio alle banche cooperative.

De Bonis, Manzone e Trento (1994) sono stati tra i primi a dedicarsi a questo campo

di ricerche valutando le performance di 266 banche popolari in un periodo di tempo

compreso tra il 1986 ed il 1993. I tre autori hanno rilevato che le banche oggetto

della loro analisi avevano fatto registrare indicatori di redditività,

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patrimonializzazione e rischiosità migliori rispetto a quelli medi dell’intero sistema

bancario italiano (Trivieri, 2005).

Altro autore che si è occupato di banche cooperative è Masciandaro (1996, 1997,

1998, 1999). Quest’ultimo sottolinea che l’aspetto più rilevante che caratterizza le

banche popolari è la struttura proprietaria. Composita ed eterogenea, infatti, deve

regolare l’interazione di almeno quattro diversi soggetti: gli amministratori, i

dipendenti, finanziatori e gli utenti. Allora, secondo Masciandaro, la stabilità della

banche popolari “dipende da quanto efficaci sono i soci amministratori nel

massimizzare la probabilità della loro rielezione, tenendo conto delle funzioni

obiettivo delle altre tipologie di soci, che – pur se interessati alla remunerazione del

capitale investito – si differenziano tra loro, in quanto avremo: i soci finanziatori

attenti esclusivamente alla redditività del capitale investito; i soci utenti interessati

anche all’accesso e alla qualità dei servizi bancari; i soci dipendenti attenti anche alle

condizioni e alla remunerazione del capitale umano” (Masciandaro,1999).

Masciandaro regredendo un indicatore di stabilità del controllo su variabili di

redditività, ha potuto rilevare una correlazione positiva e statisticamente

significativa. Ne ha concluso che, se è rispettato il requisito della crescita e della

redditività, le banche popolari rappresentano un modello di impresa potenzialmente

flessibile nel tempo.

Più recentemente Iannotta, Nocera e Sironi (2007) hanno analizzato alcuni indicatori

di rendimento di 181 banche di 15 paesi europei per il periodo 1999-2004, cercando

di trovare una qualche relazione tra le misure di performance e tre diverse tipologie

di banche: banca pubblica, banca privata e banca cooperativa.

I tre autori hanno così rilevato che le banche cooperative riescono a stabilire delle

migliori relazioni con la clientela, attraverso le quali mantenere una più elevata

qualità del portafoglio prestiti e minori costi operativi.

I livelli inferiori di redditività fatti registrare dalle banche cooperative rispetto alle

banche “private” sembrerebbero legati alle minori dimensioni ed al diverso “assets

mix”: le banche costituite sotto forma di cooperative, infatti, concentrano la loro

operatività prevalentemente sull’attività di intermediazione tradizionale.

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Altri studi si sono concentrati sulle sole banche di credito cooperativo47. Mettendo in

evidenza le specificità di governance connesse al modello societario delle BCC, con

dati relativi alla fine degli anni Ottanta e alla prima metà degli anni Novanta, si è

dimostrato che le banche di credito cooperativo hanno presentato, rispetto alle altre

banche, migliori performance in termini di redditività e rischiosità, a cui però si sono

accompagnate peggiori risultati in termini di produttività del personale e di offerta di

servizi innovativi.

Al di là della letteratura esistente in merito, è comunque evidente l’importanza che la

tipologia di banca (cooperativa o no) riveste in termini di corporate governance e,

conseguentemente, di performance aziendale. Per tutti questi motivi, si è quindi

ritenuto necessario inserire la variabile “mutual” nel modello.

Nelle tabelle di seguito, si riassumono le variabili indipendenti inserite nel modello e

le principali statistiche descrittive di tutti i regressori considerati.

47 Cesarini F., Ferri G., Giardino M., Credito e sviluppo. Banche locali cooperative e imprese minori,

Il Mulino, 1997. Di Salvo R., Schena C., Assetti societari e di governo delle BCC. Quali effetti sulla

performance?, Cooperazione e credito, 1998. Ferri G., Di Salvo R., Il governo societario nella banche

di credito cooperativo: fondamenti teorici e riscontri empirici, 1999.

100

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Tabella 8 – Variabili

Nome Variabile Descrizione Effetto atteso

Gov-firm specific Indice relativo gli assetti generali di corporate governance delle banche +

Codice_autodisciplina Dummy pari a 1 quando la banca adotta il Codice di Autodisciplina per le Società Quotate

+

Altri_codici Dummy pari a 1 quando la banca adotta codici di autoregolamentazione diversi da quello di autodisciplina

+

Parti_correlate Dummy pari a 1 quando la banca prevede una specifica disciplina interna sulle operazioni con parti correlate

+

Rating Dummy pari a 1 quando la banca presenta un giudizio di rating +

Gov-board Indice di corporate governance riferito a composizione e funzionamento del CdA

+

N. amministratori Dummy pari a 1 se il numero dei componenti del CdA di una banca è inferiore alla media calcolata rispetto a tutte le banche quotate italiane

+

N. meeting Dummy pari a 1 se il numero delle riunioni annue del CdA di una banca è superiore al numero medio per le banche quotate italiane

+

Outsider_ratio Dummy pari a 1 se la percentuale di amministratori indipendenti del CdA di una banca è superiore alla media calcolata rispetto a tutte le banche quotate italiane

+

Stock option Variabile binaria che assume valore pari a 1 se la banca prevede piani di stock option a favore degli amministratori

+

Almeno2comitati Variabile binaria pari a 1 se nel CdA della banca sono presenti almeno due comitati interni

+

Gov-shareholders Indice di corporate governance relativo alla struttura proprietaria -

Az_maggioranza Dummy pari a 1 se è presente almeno un azionista che detiene più del 10% del capitale sociale

-

Patti_parasociali Dummy pari a 1 se sono in corso patti di sindacato -

Classi_azioni Variabile binaria che è pari ad 1 se sono presenti diverse tipologie di azioni (ordinarie, di risparmio, etc.)

-

Az_proprie Variabile binaria pari a 1 se la banca detiene azioni proprie -

Mutual Variabile binaria che assume valore pari a 1 per le banche cooperative +/-

Rem_on_assets Rapporto tra la remunerazione riconosciuta agli amministratori e il totale assets della banca

+/-

Rn/rl Rapporto tra il reddito netto e il reddito lordo +/-

Rl/rg Rapporto tra il reddito lordo e il reddito di gestione +/-

Rg/mit Rapporto tra il reddito di gestione e il margine di intermediazione +/-

Mit/mi Rapporto tra il margine di intermediazione e il margine di interesse +/-

Mi/ta Rapporto tra il margine di interesse e il totale attivo +/-

Ta/pn Rapporto tra il totale attivo e il patrimonio netto +/-

Loans_to_assets Rapporto tra i crediti verso la clientela e il totale attivo +/-

Ln_asset Logaritmo naturale del totale attivo +/-

Loan_loss Rapporto tra l’accantonamento per rischi su crediti e margine di interesse

-

Impaired_loans Rapporto tra crediti deteriorati e totale crediti -

Tier 1 ratio Rapporto tra il patrimonio di base e il valore delle attività ponderate per il rischio

+/-

Total capital ratio Rapporto tra patrimonio di vigilanza e valore delle attività ponderate per il rischio

+/-

Y05 Dummy pari ad 1 per l’anno 2005 +

Y06 Dummy pari ad 1 per l’anno 2006 +

Y07 Dummy pari ad 1 per l’anno 2007 -

Y08 Dummy pari ad 1 per l’anno 2008 -

Y09 Dummy pari ad 1 per l’anno 2009 -

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Tabella 9 – Principali statistiche descrittive

Variabile Osservazioni Media Deviazione standard

Minimo Massimo

ROE (%) 119 8,529 5,683 -2,965 27,591

Z-score 108 28,3944 22,120 2,442 103,055

Gov-firm specific 126 2,595 1,174 0 4

Codice_autodisciplina 124 0,814 0,39 0 1

Altri_codici 124 0,508 0,502 0 1

Parti_correlate 126 0,643 0,481 0 1

Rating 92 0,891 0,313 0 1

Gov-board 126 1,952 1,123 0 5

N. amministratori 125 0,416 0,494 0 1

N. meeting 83 0,385 0,489 0 1

Outsider_ratio 84 0,498 0,249 0 1

Stock option 126 0,373 0,485 0 1

Almeno2comitati 126 0,619 0,488 0 1

Gov-shareholders 126 1,555 1,099 0 4

Az_maggioranza 126 0,476 0,501 0 1

Patti_parasociali 126 0,230 0,422 0 1

Classi_azioni 126 0,341 0,476 0 1

Az_proprie 126 0,508 0,502 0 1

Mutual 126 0,278 0,450 0 1

Rem_on_assets 125 0,930 1,976 0,00126 10,981

Rn/rl 126 0,567 1,093 -10,099 5,175

Rl/rg 115 0,033 1,658 -17,427 0,998

Rg/mit 115 5,019 7,450 -42,684 57,273

Mit/mi 115 0,823 1,427 -0,044 12,273

Mi/ta 115 0,022 0,0049 0,007 0,0324

Ta/pn 126 13,774 5,815 2,115 46,138

Loans_to_assets 126 64,262 16,981 3,660 86,624

Ln_assets 126 16,934 1,742 12,827 20,768

Loans_loss 115 23,025 25,811 -4,39 228,82

Impaired_loans 100 5,823 4,035 0,17 22,74

Tier 1 ratio 123 9,768 7,660 4,8 54,9

Total capital ratio 112 11,651 5,067 8,2 38,8

Y05 126 0,214 0,412 0 1

Y06 126 0,206 0,406 0 1

Y07 126 0,198 0,4 0 1

Y08 126 0,190 0,394 0 1

Y09 126 0,190 0,394 0 1

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3.6 RISULTATI L’analisi condotta ha permesso di ottenere diversi risultati.

La Tabella 10 riporta alcune stime della relazione tra i tre indici di corporate

governance e il ROE, ottenute combinando diversamente le variabili di controllo.

Tabella 10 – Risultati: indici di corporate governance e ROE

Modello (1) Modello (2) Modello (3) Modello (4) Gov- firm specific 0,003

(0,910) 0,086

(0,044) 0,09

(0,028) 0,0996 (0,017)

Gov-board -0,026 (0,208)

0,009 (0,751)

0,007 (0,797)

-0,022 (0,561)

Gov-shareholders -0,023 (0,424)

-0,13 (0,049)

-0,14 (0,035)

-0,18 (0,010)

Mutual 0,08 (0,180)

0,108 (0,027)

Y06 0,01 (0,684)

-0,003 (0,951)

-0,013 (0,805)

-0,092 (0,134)

Y07 0,04 (0,162)

0,026 (0,744)

0,015 (0,856)

-0,024 (0,682)

Y08 -0,029 (0,372)

0,17 (0,123)

0,16 (0,155)

0,063 (0,375)

Y09 -0,001 (0,970)

0,16 (0,137)

0,15 (0,164)

0,0897 (0,225)

Rl/rg -0,067 (0,000)

-0,066 (0,000)

Rg/mit -0,007 (0,085)

-0,007 (0,092)

Mit/mi 0,07 (0,097)

0,073 (0,109)

Mi/ta 26,94 (0,022)

27,21 (0,022)

23,54 (0,024)

Ta/pn 0,003 (0,720)

Loans to assets -0,014 (0,021)

-0,041 (0,014)

-0,013 (0,035)

Ln_assets -0,09 (0,734)

-0,042 (0,877)

Tier 1 ratio -0,019 (0,098)

-0,019 (0,088)

Intercetta 0,21 (0,003)

1,89 (0,676)

1,16 (0,801)

0,46 (0,270)

Numero osservazioni 126 113 113 115 R-squared 0,4671 0,7468 0,75 0,5335 Adj. R-squared 0,2515 0,5950 0,6 0,3094 F-test 2,47 10,70 10,58 1,69

Note: la tabella riporta quattro diverse stime del modello elaborato per verificare l’esistenza di una relazione tra i tre indici di corporate governance e il Roe. Le quattro stime variano in base ai diversi regressori inclusi. Gov-firm specific, Gov-board e Gov-shareholders sono gli indici di corporate governace costruiti; “mutual” è una variabile dummy uguale ad 1 se la banca è costituita sotto forma di cooperativa e 0 se è una spa; Y06-Y09 sono le variabili binarie che controllano per gli effetti temporali degli anni 2006-2009; Rl/rg indica il rapporto tra reddito lordo e reddito di gestione; Rg/mit è pari al reddito di gestione su margine di intermediazione; Mit/mi equivale al margine di intermediazione sul margine di interesse; Mi/ta rapporta il margine d’interesse al totale assets; Ta/pn è pari al totale attivo sul patrimonio netto; “loans to assets” è il rapporto tra i crediti verso la clientela e il totale attivo; “ln_assets” è il logaritmo del totale attivo “Tier 1 ratio” è il rapporto tra patrimonio di base e valore delle attività ponderate per il rischio. Per tutte le regressioni i corrispondenti p-value sono riportati in parentesi.

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Delle quattro stime riportate nella Tabella 10, la prima è riferita ad una regressione

effettuata senza inserire variabili di controllo. Nessun regressore presenta però

significatività statistica e anche il valore dell’R-squared pari a 0,4671 dimostra che la

regressione spiega poco la variazione della variabile dipendente.

Nella seconda regressione, sono state inserite otto variabili di controllo: il “Gov-firm

specific index” e il “Gov-shareholders Index” raggiungono entrambi una

significatività statistica del 5%.

A partire dalla terza regressione, invece, è stata aggiunta anche la variabile dummy

“mutual” per controllare l’effetto prodotto dalla forma societaria delle banche

osservate (cooperative o s.p.a.).

L’ultima regressione, infine, escluse le variabili di controllo che in quella precedente

erano non statisticamente significative, presenta i minori valori di p-value per i due

indici di corporate governance “Gov-firm specific” e “Gov-shareholders”.

L’indice “Gov-firm specific”, infatti, con un valore del p-value di 0.017, presenta

una significatività statistica del 5% e una correlazione positiva con il ROE:

l’aumento di un punto dell’indice determina un aumento del Roe di circa 0,1 punti

percentuali.

Il “Gov-shareholders Index” è statisticamente significativo all’1%, e presenta, come

ipotizzato, segno negativo: l’aumento di un punto dell’indice causa una diminuzione

del ROE di 0,18 punti percentuali.

Diversamente da quanto ipotizzato in teoria, invece, la relazione tra il ROE e l’indice

“Gov-board” risulta negativa e comunque non statisticamente significativa.

Nella quarta regressione, poi, la dummy “mutual” sembra avere un effetto positivo

sulla redditività delle banche e statisticamente significativo al 5% in linea con alcune

delle ricerche precedentemente ricordate (De Bonis et al., 1994; Masciandaro, 1999).

Il presente studio, d’altronde, è stato condotto in riferimento ad un arco temporale

caratterizzato dagli effetti della recente crisi finanziaria. Da questo punto di vista, le

banche costituite sotto forma di cooperative, destinando la loro operatività

prevalentemente alle attività di intermediazione tradizionale, sono state meno esposte

alle perdite finanziarie causate dalla crisi e hanno potuto meglio limitare gli effetti

negativi in termini di redditività. Viceversa, le banche costituite sotto forma di

società per azioni, solitamente caratterizzate da un’operatività più ampia,

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differenziata e maggiormente esposta a rischi, durante la crisi, hanno subito riduzioni

maggiori nei livelli di redditività.

Le altre variabili di controllo con una buona significatività statistica sono il rapporto

tra margine di interesse e totale attività, che presenta segno positivo, e il “loan to

assets ratio” che, invece, ha segno negativo. Si tratta, in effetti, di due grandezze che

si riferiscono rispettivamente alla redditività generata dall’attività d’intermediazione

tradizionale e all’equilibrio finanziario della banca.

Se alla variabile dipendente ROE, si sostituisce lo Z-score, le stime relative ai tre gli

indici di corporate governance considerati congiuntamente risultano essere,

purtroppo, non statisticamente significative, indipendentemente dal set di variabili di

controllo inserite nel modello.

In realtà, è possibile che le stime soffrano di una qualche forma di distorsione causata

dalla probabile correlazione esistente proprio tra gli indici di corporate governance.

Nel tentativo di limitare questa fonte di distorsione, di seguito si procederà ad

effettuare delle altre stime attraverso le quali analizzare le relazioni esistenti tra le

misure di performance scelte e i tre indici di corporate governance considerati però

singolarmente.

Iniziamo con l’esaminare la relazione esistente tra le misure di performance scelte e

il “Gov-firm specific Index”.

La Tabella 11 mostra quattro regressioni dell’indice sul ROE, caratterizzate dalla

diversa composizione delle variabili di controllo.

Per evitare distorsioni da variabili omesse, nelle regressioni, sono stati inseriti anche

alcuni dei fattori compresi negli indici “Gov-board” e “Gov-shareholders”, così da

controllare per ogni meccanismo di corporate governance.

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Tabella 11 – Risultati: indice “Gov-firm specific” e ROE Modello (1) Modello (2) Modello (3) Modello (4)

Gov-firm specific -1,33 (0,080)

0,32 (0,414)

2,91 (0,073)

3,46 (0,021)

Mutual 4,17 (0,029)

Y06 1,37 (0,214)

1,02 (0,460)

2,94 (0,219)

3,10 (0,145)

Y07 1,08 (0,434)

1,05 (0,424)

0,53 (0,755)

0,78 (0,631)

Y08 1,21 (0,555)

-1,68 (0,313)

-1,27 (0,611)

-1,85 (0,451)

Y09 3,24 (0,182)

2,32 (0,126)

-0,06 (0,986)

-0,38 (0,917)

N. amministratori 3,27 (0,349)

4,56 (0,143)

N. meeting -0,37 (0,885)

-1,08 (0,668)

Outsider ratio 4,38 (0,134)

5,89 (0,032)

Stock option 9,57 (0,005)

10,16 (0,002)

Az_maggioranza 30,52 (0,002)

36,51 (0,000)

Az_proprie 0,07 (0,959)

Rem_on_assets 1,64 (0,015)

1,77 (0,005)

Rn/rl -0,08 (0,695)

Rl/rg 17,13 (0,068)

0,40 (0,015)

15,14 (0,030)

13,49 (0,021)

Rg/mit -0,09 (0,161)

Mit/mi 4,59 (0,131)

2,32 (0,091)

Ta/pn 0,29 (0,038)

-0,61 (0,249)

-0,59 (0,170)

Loans to asset 0,07 (0,529)

0,09 (0,192)

0,13 (0,517)

0,07 (0,731)

Ln_assets -2,61 (0,541)

0,95 (0,004)

3,03 (0,595)

5,31 (0,349)

Tier 1 ratio 2,11 (0,002)

0,64 (0,112)

1,01 (0,281)

1,53 (0,109)

Loan_loss -0,16 (0,000)

-0,27 (0,000)

-0,06 (0,116)

-0,05 (0,131)

Impaired loans -1,11 (0,014)

-0,75 (0,000)

-1,31 (0,049)

-1,37 (0,027)

Total capital ratio -2,21 (0,000)

-1,49 (0,002)

-1,45 (0,111)

-1,97 (0,036)

Intercetta 62,42 (0,400)

-4,26 (0,721)

-60,66 (0,565)

-99,29 (0,330)

Numero osservazioni 98 98 53 53 R-squared 0,9601 0,8695 0,9881 0,9904 Adj. R-squared 0,9320 0,8467 0,9614 0,9689 F-test 65,48 37,67 153,61 239,14

Note: la tabella riporta quattro stime del modello che verifica l’esistenza di una relazione tra l’indice “Gov-firm specific” e il Roe. Le stime variano in base ai regressori inclusi. “Mutual” è una variabile dummy uguale ad 1 se la banca è una cooperativa; Y06-Y09 sono le dummy temporali per gli anni 2006-2009; “N. amministratori” è un dummy pari a 1 se il numero degli amministratori del CdA è inferiore al numero medio di settore; “N. meeting” è una dummy pari a 1 se il numero di riunioni annue del CdA è superiore alla media di settore; “outsider_ratio” è una dummy pari a 1 se l’outsider ratio è superiore alla media di settore; “stock option” è una variabile binaria pari a 1 se la banca adotta stock option; “Az_maggioranza” è una dummy uguale a 1 se è presente un socio di maggioranza; “rem_on_assets” indica il rapporto tra remunerazione degli amministratori e totale attivo; Rn/rl è pari a reddito netto su reddito lordo; Rl/rg indica il rapporto tra reddito lordo e di gestione; Rg/mit è il reddito di gestione sul margine di intermediazione; Mit/mi equivale al margine di intermediazione sul margine di interesse; Ta/pn è pari al totale attivo sul patrimonio netto; “loans to assets” è il rapporto tra i crediti verso la clientela e il totale attivo; “ln_assets” è il logaritmo del totale attivo; “Tier 1 ratio” è il rapporto tra patrimonio di base e valore delle attività ponderate per il rischio; “loan_loss” indica il rapporto tra l’accantonamento per rischi su crediti e il margine d’interesse; “impaired loans” è la frazione di crediti deteriorati sul totale crediti; “Total capital ratio” è il rapporto tra patrimonio di vigilanza e attività ponderate per il rischio. Per tutte le regressioni i corrispondenti p-value sono riportati in parentesi.

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Delle quattro regressioni presentate in Tabella 11, le prime due stimano l’effetto

dell’indice “Gov-firm specific” sul Roe attraverso l’inserimento di alcune variabili di

controllo. I risultati in termini di significatività statistica sono però insoddisfacenti.

Nella terza regressione sono state inserite anche le variabili che controllano per i

meccanismi di corporate governance considerati negli altri indici costruiti.

La differenza sostanziale tra la terza e la quarta regressione consiste nell’aggiunta

della variabile “mutual” tra quelle indipendenti. Proprio nella quarta regressione,

però, si ottengono i risultati migliori in termini di significatività statistica.

L’indice “Gov-firm specific”, infatti, risulta statisticamente significativo al 5%.

L’aumento di un punto dell’indice determina un incremento di quasi 3,5 punti

percentuali del ROE.

La variabile binaria “mutual” risulta statisticamente significativa e si stima abbia un

effetto importante sulla redditività: secondo la regressione, le banche cooperative

presentano un ROE più alto di circa 4 punti percentuali rispetto alle banche non

cooperative.

Tra le variabili che controllano per i diversi meccanismi di corporate governance,

quelli che presentano la maggiore significatività statistica sono: la presenza di

almeno un azionista di maggioranza nella compagine sociale della banca che,

diversamente da quanto ipotizzato, presenta segno positivo; l’esistenza di piani di

stock option; l’outsider ratio e il rapporto tra remunerazione riconosciuta agli

amministratori della banca e il totale degli assets. Gli ultimi tre fattori risultano

esercitare un’influenza positiva sulla redditività bancaria confermando quanto

ipotizzato in teoria.

Se si stima la relazione esistente tra il “Gov-firm specific Index” e la misura di

performance Z-score, dalle stime ottenute, non si rilevano relazioni statisticamente

significative.

Per completezza, nella Tabella12, si riportano quattro delle regressioni stimate.

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Tabella 12 – Risultati: indice “Gov-firm specific” e Z-score Modello (1) Modello (2) Modello (3) Modello (4) Gov-firm specific -6,72

(0,269) 2,72

(0,230) 1,77

(0,196) 2,87

(0,153) Mutual -2,08

(0,347) Y06 -13,25

(0,242) 0,37

(0,880) 0,55

(0,710) 0,79

(0,646) Y07 -7,03

(0,330) -0,03

(0,995) 0,36

(0,886) 0,69

(0,668) Y08 -10,00

(0,277) 0,38

(0,944) 1,50

(0,597) 1,61

(0,491) Y09 -14,22

(0,205) -0,82

(0,900) 0,999

(0,783) 0,52

(0,812) N. amministratori -4,02

(0,270) -5,82

(0,023) -5,10

(0,103) N. meeting 1,84

(0,437) 3,47

(0,142) 2,83

(0,309) Outsider ratio -3,67

(0,272) -2,64

(0,394) -4,68

(0,205) Stock option -1,58

(0,712) -7,86

(0,265) Az_maggioranza -7,57

(0,392) -10,78 (0,135)

Rl/rg 11,55 (0,467)

-1,24 (0,791)

Mit/mi -1,00 (0,862)

Ta/pn -2,17 (0,006)

-2,37 (0,000)

-2,28 (0,000)

Loans to asset 0,26 (0,305)

0,22 (0,491)

0,03 (0,866)

Ln_assets 4,66 (0,702)

-4,64 (0,668)

0,66 (0,923)

Tier 1 ratio 2,07 (0,351)

1,65 (0,066)

0,18 (0,162)

1,03 (0,214)

Loan_loss 0,07 (0,390)

-0,008 (0,849)

-0,026 (0,261)

-0,014 (0,564)

Impaired loans 1,61 (0,237)

0,033 (0,932)

0,079 (0,790)

Total capital ratio -0,47 (0,808)

-1,33 (0,158)

-0,21 (0,415)

-0,85 (0,331)

Intercetta 111,24 (0,611)

122,19 (0,502)

49,29 (0,689)

59,19 (0,001)

Numero osservazioni 98 53 61 53 R-squared 0,9998 0,9957 0,9949 0,9955 Adj. R-squared 0,9997 0,9875 0,9892 F-test 0,80 5,22 6,35 4,05

Note: la tabella riporta quattro stime del modello che verifica l’esistenza di una relazione tra l’indice “Gov-firm specific” e lo Z-score. Le stime variano in base ai diversi regressori inclusi. “Mutual” è una variabile dummy uguale ad 1 se la banca è costituita sotto forma di cooperativa e 0 se è una spa; Y06-Y09 sono le dummy temporali per gli anni 2006-2009; “N. amministratori” è un dummy uguale a 1 se il numero degli amministratori del CdA è inferiore al numero medio di settore; “N. meeting” è una variabile binaria pari a 1 se il numero di riunioni annue del CdA è superiore al numero medio di settore; “outsider_ratio” è un dummy pari a 1 se l’outsider ratio è superiore alla media; “stock option” è una variabile binaria pari a 1 in presenza di piani di stock option; “Az_maggioranza” è una dummy uguale a 1 se è presente un socio che detiene almeno il 10% del capitale sociale; Rl/rg indica il rapporto tra reddito lordo e di gestione; Mit/mi equivale al margine di intermediazione sul margine di interesse; Ta/pn è pari al totale attivo sul patrimonio netto; “loans to assets” è il rapporto tra i crediti verso la clientela e il totale attivo; “ln_assets” è il logaritmo delle attività; “Tier 1 ratio” è il rapporto tra patrimonio di base e valore delle attività ponderate per il rischio; “loan_loss” indica il rapporto tra l’accantonamento per rischi su crediti e il margine d’interesse; “impaired loans” è la frazione di crediti deteriorati sul totale crediti; “Total capital ratio” è il rapporto tra patrimonio di vigilanza e attività ponderate per il rischio. Per tutte le regressioni i corrispondenti p-value sono riportati in parentesi.

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Anche per indagare la relazione esistente tra il ROE e il “Gov-board Index”, sono

state elaborate diverse stime.

Come si può osservare dalla Tabella 13, la prima regressione è stata effettuata

considerando le diverse variabili di controllo.

Nella seconda regressione, invece, sono state aggiunte anche le variabili che

controllano per i meccanismi di corporate governance diversi da quelli prettamente

legati al funzionamento e alla composizione del Consiglio di Amministrazione.

Nella terza regressione sono state eliminate alcune delle variabili si controllo che

presentavano i maggiori valori di p-value (e quindi le minori significatività

statistiche).

Nella quarta stima, invece, è stata semplicemente aggiunta la variabile binaria

“mutual”. Nonostante quest’ultima variabile non risulti statisticamente significativa,

nemmeno al 10%, proprio la quarta regressione presenta la maggiore significatività

statistica dell’indice di corporate governance considerato.

L’indice “Gov-board”, infatti, risulta essere positivamente correlato al ROE con una

significatività statistica del 5%. L’aumento di un punto dell’indice genera un

incremento nel ROE di circa 1,3 punti percentuali.

Relativamente alle variabili inserite per controllare gli altri elementi di corporate

governance, anche questa volta la presenza di azionisti di maggioranza risulta essere

correlata positivamente con la redditività della banca e statisticamente significativa

all’1%.

Le altre variabili di controllo significative sono i tre quozienti reddito netto su reddito

lordo, reddito lordo su reddito di gestione e margine di interesse su totale attivo con

un effetto ovviamente positivo sulla redditività e l’indice di patrimonializzazione

“total capital ratio”. Quest’ultimo esercita però un effetto negativo sul ROE:

un’elevata patrimonializzazione può garantire una maggiore stabilità finanziaria per

la banca (con effetti potenzialmente positivi sul Z-score) ma, contemporaneamente,

può avere effetti negativi in termini di redditività e, quindi, di ROE.

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Tabella 13 – Risultati: indice “Gov-board” e ROE Modello (1) Modello (2) Modello (3) Modello (4)

Gov-board -0,093 (0,877)

1,06 (0,177)

1,17 (0,088)

1,29 (0,050)

Rem_on_assets 0,214 (0,381)

-0,11 (0,533)

-0,11 (0,475)

-0,46 (0,188)

Mutual -4,89 (0,192)

Y06 0,75 (0,413)

0,62 (0,686)

0,57 (0,705)

0,77 (0,568)

Y07 -0,10 (0,930)

-2,22 (0,297)

-2,37 (0,253)

-2,12 (0,269)

Y08 -0,39 (0,837)

-4,43 (0,140)

-4,75 (0,094)

-4,34 (0,096)

Y09 4,18 (0,050)

-2,15 (0,489)

-2,73 (0,392)

-2,71 (0,375)

Parti_correlate -3,48 (0,124)

-2,68 (0,221)

-3,008 (0,156)

Rating 1,40 (0,357)

2,05 (0,135)

2,16 (0,075)

Az_maggioranza 18,37 (0,001)

21,4 (0,000)

21,23 (0,000)

Altri codici -3,74 (0,127)

-3,02 (0,155)

-3,34 (0,089)

Az_proprie 0,48 (0,726)

0,43 (0,734)

0,96 (0,557)

Rn/rl -0,24 (0,079)

1,71 (0,202)

1,79 (0,167)

2,67 (0,035)

Rl/rg 13,85 (0,112)

36,30 (0,003)

36,94 (0,000)

41,35 (0,000)

Rg/mit -0,04 (0,199)

0,04 (0,503)

Mit/mi 6,86 (0,028)

1,38 (0,729)

Mi/ta 562,73 (0,010)

498,82 (0,086)

469,18 (0,031)

494,93 (0,015)

Loans to asset 0,015 (0,892)

Ln_assets 3,76 (0,444)

11,71 (0,114)

12,08 (0,101)

10,89 (0,092)

Tier 1 ratio 1,48 (0,023)

0,85 (0,225)

Loan_loss -0,19 (0,000)

-0,05 (0,161)

-0,04 (0,096)

-0,029 (0,187)

Impaired loans -1,61 (0,000)

-0,305 (0,556)

-0,189 (0,706)

0,002 (0,996)

Total capital ratio -1,69 (0,003)

-0,58 (0,009)

-0,53 (0,014)

Intercetta -56,68 (0,509)

-199,23 (0,125)

-207,72 (0,103)

-188,52 (0,094)

Numero osservazioni 97 73 73 73 R-squared 0,9655 0,9865 0,9856 0,9870 Adj. R-squared 0,9363 0,9652 0,9666 0,9688 F-test 125,01 339,80 493,57 1048,15

Note: la tabella riporta quattro stime della relazione tra indice “Gov-board” e ROE. Le stime variano in base ai regressori inclusi. “Mutual” è una dummy pari a 1 se la banca è costituita sotto forma di cooperativa; Y06-Y09 sono le dummy temporali per gli anni 2006-2009; “rem_on_assets” misura il rapporto tra la remunerazione dei managers e il totale attivo; “Altri codici” è una dummy pari a 1 quando la banca adotta codici di autoregolamentazione; “Parti_correlate” è una variabile binaria pari a 1 se la banca prevede speciali procedure interne per le operazioni con parti correlate; “rating” è un dummy uguale a 1 se la banca ha un giudizio di rating; “Az_maggioranza” è una dummy uguale a 1 se è presente un socio di maggioranza; “Az_proprie” è una variabile binaria pari ad 1 se la banca detiene azioni proprie; Rn/rl è pari a reddito netto su reddito lordo; Rl/rg indica il rapporto tra reddito lordo e di gestione; Rg/mit è il reddito di gestione sul margine di intermediazione; Mit/mi equivale al margine di intermediazione sul margine d’interesse; Mi/ta misura il rapporto margine d’interesse su totale attivo; “loans to assets” è il rapporto tra i crediti verso la clientela e il totale attivo; “ln_assets” è il logaritmo dell’attivo; “Tier 1 ratio” è il rapporto tra patrimonio di base e valore delle attività ponderate per il rischio; “loan_loss” è il rapporto tra accantonamento per rischi su crediti e margine d’interesse; “impaired loans” è la frazione di crediti deteriorati sul totale crediti; “Total capital ratio” è il rapporto tra patrimonio di vigilanza e attività ponderate per il rischio. Per tutte le regressioni i corrispondenti p-value sono riportati in parentesi.

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Bisogna poi rilevare che la variabile “rem_on_assets” presenta segno negativo. La

mancanza comunque di una significatività statisticamente rilevante non permette di

trarre conclusioni particolarmente indicative. Il risultato ottenuto, tuttavia, lascerebbe

intuire che un’elevata remunerazione accordata agli amministratori riduce la

redditività: da strumento di incentivo per i managers, la remunerazione può diventare

un’ulteriore fonte di conflitti di interesse.

Se si passa a considerare la misura di performance “Z-score”, anche in questo caso,

le regressioni ottenute e riportate nella Tabella 14, non forniscono risultati

statisticamente significativi per l’indice “Gov-board”.

Le variabili che presentano i minori valori di p-value sono il rapporto totale attivo su

patrimonio netto, il logaritmo delle attività totali e il “total capital ratio”.

Il primo ha segno negativo a dimostrazione che all’aumentare del livello di leverage

aumentano anche i rischi cui la banca si espone.

Il secondo presenta segno positivo: una banca di maggiori dimensioni, dovrebbe

essere anche più stabile e quindi meno rischiosa.

Il terzo, ha pure segno positivo: la maggiore patrimonializzazione, infatti, implica

una minore rischiosità.

Nell’ultima delle regressioni riportate in Tabella, però, si nota un risultato

contraddittorio, relativo alla variabile “rl/rg” che misura il rapporto tra il reddito

lordo e il reddito di gestione.

Si tratta di un indicatore sulla qualità del portafoglio della banca: tanto maggiore è il

suo valore, tanto minore è il peso delle rettifiche negative di valore su crediti. Non ci

si spiega come sia possibile, quindi, che un aumento nel valore di questo rapporto,

implichi una riduzione dello Z-score interpretabile come un aumento della

rischiosità.

Visto questa contraddizione, è molto probabile che la stima sia affetta da una qualche

distorsione.

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Tabella 14 – Risultati: indice “Gov-board” e Z-score Modello (1) Modello (2) Modello (3) Modello (4)

Gov-board 1,34 (0,548)

1,17 (0,304)

1,14 (0,297)

0,94 (0,166)

Rem_on_assets 1,71 (0,347)

0,31 (0,402)

0,30 (0,339)

-0,07 (0,765)

Mutual -1,69 (0,607)

Y06 -12,97 (0,271)

-2,62 (0,136)

-2,71 (0,065)

-2,22 (0,066)

Y07 -5,48 (0,355)

-5,86 (0,008)

-5,86 (0,002)

-5,81 (0,000)

Y08 -5,61 (0,412)

-10,46 (0,020)

-10,47 (0,008)

-9,15 (0,003)

Y09 -3,90 (0,548)

-10,996 (0,018)

-11,74 (0,007)

-11,04 (0,002)

Parti_correlate -0,46 (0,889)

Rating 1,78 (0,430)

2,04 (0,363)

-1,10 (0,615)

Az_maggioranza -0,49 (0,941)

2,20 (0,407)

2,95 (0,107)

Rn/rl -0,10 (0,717)

Rl/rg 2,18 (0,784)

-2,97 (0,621)

-0,16 (0,030)

Rg/mit 0,019 (0,866)

0,06 (0,239)

0,06 (0,205)

0,04 (0,364)

Mit/mi -7,83 (0,409)

Mi/ta -431,28 (0,590)

24,899 (0,904)

Ta/pn -2,20 (0,000)

-2,59 (0,000)

Loans to asset -0,17 (0,595)

0,34 (0,197)

0,34 (0,166)

0,28 (0,094)

Ln_assets -13,25 (0,556)

27,11 (0,010)

27,57 (0,003)

26,28 (0,000)

Tier 1 ratio 1,93 (0,288)

0,62 (0,416)

Loan_loss 0,05 (0,439)

-0,02 (0,515)

Impaired loans -1,08 (0,348)

-0,47 (0,389)

-0,24 (0,496)

Total capital ratio -1,77 (0,347)

0,48 (0,550)

1,10 (0,032)

0,75 (0,046)

Intercetta 511,34 (0,241)

-316,87 (0,080)

-329,60 (0,041)

-306,46 (0,012)

Numero osservazioni 97 73 73 85 R-squared 0,9998 1,0000 1,0000 1,0000 Adj. R-squared 0,9997 1,0000 1,0000 1,0000 F-test 1,67 11,42 16,86 10,99

Note: la tabella riporta quattro stime del modello che verifica l’esistenza di una relazione tra l’indice “Gov-board” e lo Z-score. Le stime variano in base ai regressori inclusi. “Mutual” è una variabile dummy uguale ad 1 se la banca è costituita sotto forma di cooperativa; Y06-Y09 sono le dummy temporali per gli anni 2006-2009; “rem_on_assets” misura il rapporto tra la remunerazione dei managers e il totale attivo; “Parti_correlate” è una variabile binaria pari a 1 se la banca prevede speciali procedure interne per le operazioni con parti correlate; “rating” è un dummy uguale a 1 se la banca presenta un giudizio di rating; “Az_maggioranza” è una dummy uguale a 1 se è presente un socio che detiene almeno il 10% del capitale sociale; “Az_proprie” è una variabile binaria pari ad 1 se la banca detiene azioni proprie; Rn/rl è pari a reddito netto su reddito lordo; Rl/rg indica il rapporto tra reddito lordo e di gestione; Rg/mit è il reddito di gestione sul margine di intermediazione; Mit/mi equivale al margine di intermediazione sul margine d’interesse; Mi/ta misura il rapporto margine d’interesse su totale attivo; Ta/pn è pari al totale attivo sul patrimonio netto; “loans to assets” è il rapporto tra i crediti verso la clientela e il totale attivo; “ln_assets” è il logaritmo dell totale attivo; “Tier 1 ratio” è il rapporto tra patrimonio di base e valore delle attività ponderate per il rischio; “loan_loss” è il rapporto tra accantonamento per rischi su crediti e margine d’interesse; “impaired loans” è la frazione di crediti deteriorati sul totale crediti; “Total capital ratio” è il rapporto tra patrimonio di vigilanza e attività ponderate per il rischio. Per tutte le regressioni i corrispondenti p-value sono riportati in parentesi.

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Tabella 15 – Risultati: indice “Gov-shareholders” e ROE Regressione (1) Regressione (2) Regressione (3) Regressione (4)

Gov-shareholders 0,87 (0,445)

-0,16 (0,957)

-2,48 (0,037)

-2,59 (0,012)

Mutual -0,07 (0,954)

-8,38 (0,251)

-16,2 (0,000)

-16,2 (0,000)

Y06 0,88 (0,384)

1,40 (0,755)

2,33 (0,133)

2,52 (0,110)

Y07 0,26 (0,839)

0,84 (0,910)

0,28 (0,922)

0,83 (0,757)

Y08 0,28 (0,897)

4,39 (0,676)

2,67 (0,551)

3,81 (0,357)

Y09 4,16 (0,095)

4,82 (0,530)

2,22 (0,637)

2,75 (0,517)

Rating 1,60 (0,698)

3,62 (0,296)

2,95 (0,340)

Parti correlate -14,30 (0,113)

-23,29 (0,001)

-22,84 (0,001)

N. amministratori 0,19 (0,979)

Outsider ratio 3,62 (0,662)

5,66 (0,364)

3,63 (0,499)

N. meeting -0,29 (0,946)

2,19 (0,172)

1,81 (0,208)

Rn/rl 2,88 (0,039)

2,68 (0,059)

Rl/rg 14,22 (0,112)

25,27 (0,241)

52,56 (0,000)

51,23 (0,000)

Rg/mit -0,03 (0,225)

0,29 (0,027)

0,27 (0,024)

Mit/mi 6,86 (0,023)

12,11 (0,146)

6,25 (0,047)

6,23 (0,046)

Mi/ta 510,93 (0,027)

482,96 (0,571)

161,09 (0,396)

Ta/pn -0,06 (0,844)

Loans to asset 0,01 (0,927)

Ln_assets 1,45 (0,793)

-5,37 (0,822)

-1,59 (0,881)

-4,79 (0,622)

Tier 1 ratio 1,6 (0,024)

0,93 (0,681)

Loan loss -0,18 (0,000)

-0,099 (0,360)

Impaired loans -1,40 (0,002)

-0,64 (0,463)

0,29 (0,314)

0,316 (0,352)

Total capital ratio -1,88 (0,007)

-1,40 (0,541)

-0,63 (0,025)

-0,57 (0,020)

Intercetta -16,80 (0,866)

95,66 (0,820)

37,64 (0,838)

96,2 (0,566)

Numero osservazioni 98 37 37 37 R-squared 0,9639 0,9980 0,9994 0,9993 Adj. R-squared 0,9339 0,9821 0,9955 0,9957 F-test 125,11 549,81 8797,85 1421,41

Note: la tabella riporta quattro stime della relazione tra “Gov-shareholders Index” e ROE. Le stime variano in base ai regressori inclusi. “Mutual” è una dummy pari a 1 se la banca è una cooperativa; Y06-Y09 sono le dummy temporali per gli anni 2006-2009; “Parti_correlate” è una variabile binaria pari a 1 se la banca adotta procedure interne per le operazioni con parti correlate; “rating” è un dummy uguale a 1 se la banca ha un rating; “N. amministratori” è una dummy uguale a 1 se il numero degli amministratori del CdA è inferiore alla media di settore; “N. meeting” è una variabile binaria pari a 1 se il numero di riunioni annue del CdA è superiore alla media di settore; “outsider_ratio” è un dummy pari a 1 se l’outsider ratio è superiore alla media di settore; “rem_on_assets” misura il rapporto tra remunerazione dei managers e totale attivo; Rn/rl è pari a reddito netto su reddito lordo; Rl/rg indica il rapporto tra reddito lordo e di gestione; Rg/mit è il reddito di gestione sul margine di intermediazione; Mit/mi equivale al margine di intermediazione sul margine d’interesse; Mi/ta misura il rapporto margine d’interesse su totale attivo; Ta/pn è pari al totale attivo sul patrimonio netto; “loans to assets” è il rapporto tra i crediti verso la clientela e il totale attivo; “ln_assets” è il logaritmo dell’attivo; “Tier 1 ratio” è il rapporto tra patrimonio di base e valore delle attività ponderate per il rischio; “loan_loss” è il rapporto tra accantonamento per rischi su crediti e margine d’interesse; “impaired loans” è la frazione di crediti deteriorati sul totale crediti; “Total capital ratio” è il rapporto tra patrimonio di vigilanza e attività ponderate per il rischio. Per tutte le regressioni i corrispondenti p-value sono riportati in parentesi.

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Con la Tabella 15 si è analizzata la relazione tra performance e il “Gov-shareholders

Index”.

Dalla quarta regressione si evince l’esistenza di una relazione negativa

statisticamente significativa all’1%. Si conferma, quindi, quanto precedentemente

ipotizzato riguardo la composizione della struttura proprietaria di una banca: tanto

più questa risulta concentrata, con limitazioni all’esercizio dei diritti di voto

soprattutto rispetto alle minoranze, tanto maggiore sarà l’effetto negativo prodotto

sulla qualità della corporate governance e, di conseguenza, rispetto alla redditività

dell’istituto bancario.

La variabile binaria “mutual”, sia nella terza che nella quarta stima, risulta esercitare

un forte impatto negativo sul ROE con un’elevata significatività statistica.

In entrambe le regressioni, si conferma anche l’effetto negativo prodotto dal “total

capital ratio” sulla redditività delle banche.

Appare anomalo rispetto a quanto precedentemente teorizzato che, la variabile circa

l’esistenza di apposite procedure interne di disciplina delle operazioni con parti

correlate, abbia un impatto negativo sul ROE, con un livello di significatività

statistica dell’1%.

Se si ripete la stima, considerando lo Z-score in sostituzione del ROE, dalla diversa

composizione delle variabili di controllo, si ottengono i risultati riportati nella

Tabella 16.

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Tabella 16 – Risultati: indice “Gov-shareholders” e Z-score Modello (1) Modello (2) Modello (3) Modello (4)

Gov-shareholders 7,72 (0,411)

-1,72 (0,332)

-4,77 (0,173)

-3,55 (0,090)

Mutual -42,71 (0,211)

-15,04 (0,002)

-18,19 (0,079)

-18,40 (0,002)

Y06 -10,08 (0,202)

-6,53 (0,071)

-6,79 (0,226)

-5,13 (0,106)

Y07 -0,86 (0,814)

-8,30 (0,026)

-4,30 (0,282)

-4,89 (0,129)

Y08 -1,75 (0,796)

-8,15 (0,025)

0,48 (0,940)

-2,17 (0,598)

Y09 -5,97 (0,463)

-3,70 (0,410)

11,92 (0,513)

2,94 (0,554)

Parti correlate 12,03 (0,358)

20,79 (0,510)

7,02 (0,112)

Rating 5,40 (0,442)

10,736 (0,103)

10,30 (0,065)

N. meeting 10,49 (0,005)

13,54 (0,084)

10,65 (0,010)

Outsider ratio 0,30 (0,986)

9,00 (0,440)

10,79 (0,226)

Rem_on_assets 1,29 (0,096)

2,41 (0,117)

1,83 (0,054)

Rl/rg 9,92 (0,565)

-4,01 (0,855)

Rg/mit 0,006 (0,947)

-0,22 (0,511)

-0,079 (0,386)

Mit/mi 4,01 (0,582)

Mi/ta -168,99 (0,793)

Ta/pn -1,81 (0,109)

-2,89 (0,016)

-3,66 (0,001)

-3,74 (0,000)

Loans to asset 0,23 (0,559)

-0,65 (0,167)

-1,63 (0,284)

-0,86 (0,077)

Ln_assets -13,57 (0,535)

13,06 (0,142)

Tier 1 ratio -1,77 (0,555)

Loan_loss 0,09 (0,290)

-0,07 (0,145)

-0,13 (0,460)

-0,058 (0,120)

Impaired loans 0,05 (0,960)

-1,31 (0,049)

-2,99 (0,265)

-1,79 (0,060)

Total capital ratio 3,58 (0,324)

0,94 (0,305)

Intercetta 422,23 (0,250)

-120,50 (0,419)

172,40 (0,060)

134,93 (0,002)

Numero osservazioni 98 37 37 37 R-squared 0,9999 0,9990 0,9986 0,9985 Adj. R-squared 0,9998 0,9942 0,9897 0,9921 F-test 0,79 146,90 22,66 58,00

Note: la tabella riporta quattro diverse stime della relazione tra il “Gov-shareholders” e il ROE. Le stime variano in base ai regressori inclusi. “Mutual” è una variabile dummy uguale ad 1 se la banca è costituita sotto forma di cooperativa e 0 se è una spa; Y06-Y09 sono le dummy temporali per gli anni 2006-2009; “Parti_correlate” è una variabile binaria pari a 1 se la banca prevede procedure interne per le operazioni con parti correlate; “rating” è un dummy uguale a 1 se la banca ha un giudizio di rating; “N. meeting” è una variabile binaria pari a 1 se il numero di riunioni annue del CdA è superiore al numero medio di settore; “outsider_ratio” è un dummy uguale ad 1 se l’outsider ratio della singola banca è superiore alla media di settore; Rl/rg indica il rapporto tra reddito lordo e di gestione; Rg/mit è il reddito di gestione sul margine di intermediazione; Mit/mi equivale al margine di intermediazione sul margine d’interesse; Mi/ta misura il rapporto margine d’interesse su totale attivo; Ta/pn è pari al totale attivo sul patrimonio netto; “loans to assets” è il rapporto tra i crediti verso la clientela e il totale attivo; “ln_assets” è il logaritmo dell’attivo; “Tier 1 ratio” è il rapporto tra patrimonio di base e valore delle attività ponderate per il rischio; “loan_loss” è il rapporto tra accantonamento per rischi su crediti e margine d’interesse; “impaired loans” è la frazione di crediti deteriorati sul totale crediti; “Total capital ratio” è il rapporto tra patrimonio di vigilanza e attività ponderate per il rischio. Per tutte le regressioni i corrispondenti p-value sono riportati in parentesi.

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Nella prima regressione, non sono state inserite le variabili che controllano per gli

altri meccanismi di corporate governance: l’indice “Gov-shareholders” presenta

segno positivo ma è comunque non statisticamente significativo.

Le successive stime, invece, sono caratterizzate propria dalla presenza dei regressori

che controllano per gli altri aspetti di governo societario: già nella seconda l’indice

riacquista il segno negativo e nella quarta stima raggiunge una significatività

statistica del 10%.

Per quanto riguarda la variabile binaria “mutual” si riconferma, anche questa volta,

l’esistenza di una relazione negativa rispetto al livello di rischiosità con un’elevata

significatività statistica, soprattutto nelle seconda e nella quarta stima.

Con riferimento all’ultima stima presentata in Tabella 16, tra le variabili che

controllano per gli altri elementi di corporate governance, risultano avere un effetto

positivo e statisticamente significativo in termini di riduzione della rischiosità

bancaria: la presenza di un giudizio di rating, il numero di riunioni annue del

Consiglio di Amministrazione e il rapporto tra la remunerazione riconosciuta agli

amministratori e il totale delle attività.

Viceversa, con una buona significatività statistica, esercitano un impatto negativo

sulla misura Z-score, incrementando quindi il livello di rischio cui la banca si

espone: la misura di leverage “ta/pn”, il rapporto “loans to assets” e quello “impaired

loans to gross loans”. Non stupisce certo che un aumento nell’indebitamento, nel

livello di immobilizzazione dell’attivo e di rischiosità dei prestiti concessi sia legato

ad un aumento della rischiosità complessiva di una banca.

In generale, comunque, le stime effettuate sembrano risentire, almeno in parte, di una

qualche forma di distorsione.

Già la letteratura in materia, ha spesso evidenziato diverse fonti di endogeneità tra le

variabili considerate nei modelli analizzati.

È poi da sottolineare anche l’ambiguità dell’effetto prodotto da alcuni fattori di

corporate governance utilizzati nella costruzione degli indici qui elaborati.

Circa, ad esempio, il numero di amministratori del CdA, nel presente modello, si è

ipotizzato che tanto più piccolo è il Consiglio di Amministrazione, tanto maggiore è

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la qualità della corporate governance con un conseguente effetto positivo in termini

di performance.

In effetti, però, esistono diversi studi48 nei quali si sostiene che Consigli di

Amministrazione numerosi possono offrire il vantaggio di mettere a disposizione

dell’impresa considerata un “pool” di esperti e, più in generale, un insieme di risorse

umane più ricco e completo, tale da influire positivamente sulle scelte aziendali e,

quindi, sui risultati di performance complessivi.

La presenza di almeno un azionista di maggioranza è ritenuto un elemento

peggiorativo della qualità della corporate governance in quanto fonte di ulteriori

conflitti di interessi tra la maggioranza e la minoranza (La Porta et al., 1998). Si è

perciò ipotizzato che eserciti un effetto negativo in termini di performance

complessiva. In alcune delle stime effettuate, però, la presenza di almeno un socio

che detenga una partecipazione superiore al 10%, pare influenzare positivamente il

ROE. I risultati ottenuti possono essere spiegati alla luce di uno studio condotto da

Laevin e Levine (2009). I due autori, infatti, hanno dimostrato che la presenza di

azionisti di maggioranza incrementa l’esposizione al rischio delle banche. Se i

managers, nel tentativo di tutelare la loro posizione, sono spesso restii all’assunzione

di rischi elevati, gli azionisti, con una maggiore capacità di diversificazione degli

investimenti, preferiscono intraprendere progetti più rischiosi e più remunerativi. In

presenza di azionisti di maggioranza, in grado di influenzare le decisioni di nomina e

revoca degli amministratori, i managers devono assecondarne le esigenze: la banca

finisce, così, con l’essere caratterizzata da una maggiore esposizione al rischio.

Proprio la maggiore esposizione al rischio, però, può spiegare la più alta redditività.

Per quanto riguarda, ancora, l’impatto dell’outsider ratio, Adams e Mehran (2005)

non hanno trovato una relazione significativa con la performance aziendale (la

misura utilizzata dai due autori, però, è stata la Q di Tobin).

Al di là dell’eventuale endogeneità, la distorsione delle stime può anche essere legata

ad un problema di causalità in quanto la relazione tra performance e corporate

governance potrebbe essere bidirezionale invece che unidirezionale (Lehn et al.

48 Si legga al riguardo: Dalton D., Daily C., Johnson J., Ellstrand A., Number of directors and

financial performance: a meta-analysis, Academy of management Journal, 1999.

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2006). In alcune circostanze, infatti, potrebbe essere la performance aziendale a

determinare alcune scelte di governance e non viceversa.

D’altronde, i recenti scandali societari dell’ultimo decennio hanno mostrato che

meccanismi di governance inefficaci comportano una distruzione di valore per

azionisti e tutti gli stakeholders, mentre non è sufficiente che si abbia una buona

governance per garantire risultati significativamente positivi sul lungo termine.

Uno dei casi ipotizzati a dimostrazione della relazione bidirezionale tra performance

e corporate governance riguarda la presenza degli amministratori indipendenti nel

CdA. Le imprese, infatti, sembrerebbero più propense ad aumentare il numero degli

outside directors successivamente a delle performance aziendali insoddisfacenti

(Denis, 2001). Ciò, quindi, potrebbe erroneamente condurre a pensare che esista una

relazione negativa tra la performance aziendale e la presenza di amministratori

indipendenti.

Anche il numero di riunioni annue effettuate dal Consiglio di Amministrazione è una

variabile di corporate governance abbastanza discussa: esistono studi49 in cui si è

dimostrata una correlazione negativa tra il numero di meeting del board e le misure

di performance.

Altre ricerche, come quella di Demsetz e Lehn (1985), individuano un problema di

endogeneità tra le variabili relative alla struttura proprietaria e quelle indicative della

performance aziendale.

L’adozione dei codici di autoregolamentazione è un elemento che, a rigor di logica,

dovrebbe produrre effetti positivi in termini di miglioramento della qualità

complessiva della corporate governance e, quindi, della performance. Tuttavia, per le

banche italiane, l’adozione dei codici di autoregolamentazione è una scelta

relativamente recente. È ragionevole pensare che gli eventuali effetti positivi

collegati alle forme di autoregolamentazione si producano in un arco di tempo

medio-lungo. Da questo punto di vista, potrebbe essere utile anche ampliare il

periodo di osservazione per la raccolta dei dati.

49 Vedi Vafeas N., Board meeting frequency and firm performance, Journal of Financial Economics,

1999

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In fine, la variabile “mutual” in alcune stime esercita un effetto positivo sulle misure

di performance, in altre presenta segno negativo.

Valutati complessivamente i risultati ottenuti dall’indagine econometria realizzata in

questo lavoro, nonostante gli evidenti problemi di distorsione delle stime, portano

comunque a concludere che esiste una relazione positiva tra corporate governance e

performance aziendale.

In base ai risultati ottenuti nelle diverse stime effettuate, possiamo affermare che

l’indice di corporate governance che esercita una maggiore influenza su entrambe le

misure di performance considerate è il “Gov-shareholders Index”.

Sembrerebbe, quindi, che i fattori di governo societario che incidono maggiormente

sulla performance complessiva delle banche sono quelli relativi alla struttura

proprietaria e all’esercizio dei diritti di voto.

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3.7 CONSIDERAZIONI SU CORPORATE GOVERNANCE E CRISI

“The correct system of corporate governance can be graphically compared with the

relationship of a patient with his doctor”, said a leading German finance director in

1994. “As long as there are no acute pains there is no reason to see the doctor. At

best one might think about talking over preventative measures50.”

La grave crisi finanziaria iniziata sul finire del 2007 e che, dagli Stati Uniti, si è

presto estesa a livello internazionale, ha rappresentato il “malore” che, recentemente,

ha ulteriormente spinto diversi studiosi a focalizzare la propria attenzione sul tema

della corporate governance.

La corporate governance, infatti, viene considerata, da alcuni, la vera causa della

crisi, da altri, una delle possibile cure.

Molti hanno sostenuto che la recente crisi finanziaria abbia fatto emergere la fragilità

dei sistemi bancari a livello mondiale proprio rispetto agli assetti di governo

societario (Brogi, 2009).

Il Governatore della Banca d’Italia, nel pieno della crisi, è velocemente passato

dall’auspicare un sistema con regole diverse e più efficaci (Draghi, 2008/1), a un

sistema con più regole (Draghi, 2008/2).

Il sistema bancario è già di per sé caratterizzato da una forte regolamentazione.

Certamente l’efficacia del sistema di regole deve essere misurata non solo in termini

di capacità di determinare una condotta uniforme delle banche a livello

internazionale, ma anche in base alla capacità di disciplinare una serie di elementi

suscettibili di creare importanti benefici nel medio - lungo periodo: una chiara

distinzione nelle competenze da attribuire ai diversi organi societari, la centralità

dell’assemblea degli azionisti, la corretta gestione dei sistemi di remunerazione dei

managers, il ruolo delle informazioni, la presenza di amministratori indipendenti ne

sono solo alcuni esempi.

Si tratta evidentemente di meccanismi di corporate governance fondamentali per il

corretto andamento della vita aziendale.

50 Price Waterhouse in Europe, Converging Cultures Trends in European Corporate Governance

(1997), p. 9.

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La crisi finanziaria globale pare, allora, essere stata connotata proprio

dall’inadeguatezza del governo societario: per un completo superamento della crisi è

evidente l’esigenza di adottare nuovi modelli che garantiscano la sostenibilità dei

risultati economici nel lungo termine e non dei profitti di breve termine con elevati

rischi.

Anche Masera (2009) si è recentemente chiesto se, alla luce degli accadimenti del

2007-2008, i modelli di governance delle banche si siano rivelati inefficaci. La

risposta che fornisce si articola su due fronti. Con riferimento alle grandi banche (e

alla banche di investimento) internazionali e ai modelli monistici anglosassoni, la

conclusioni derivante dalla crisi finanziaria è inequivocabilmente negativa. Con

riguardo all’Italia, invece, Masera (2009) sostiene che la forza intrinseca del modello

tradizionale, fondato su un’opportuna separatezza tra la funzione di gestione e quella

di controllo, la presenza di banche ancorate al territorio, la stabilità dell’azionariato,

la qualità e l’esperienza della sorveglianza affidata alla Vigilanza della Banca

d’Italia, per quanto possibile, hanno concorso a porre al riparo il nostro sistema

finanziario dalla crisi globale.

L’analisi della crisi, delle sue cause e del suo legame con i meccanismi di governo

societario, tuttavia, non è univoca.

Esistono recenti studi che hanno indagato la relazione esistente tra corporate

governance e performance proprio negli anni della crisi finanziaria.

Erkens et al. (2010), analizzando i dati di 296 società finanziarie di 30 diversi Paesi

colpiti dalla crisi, hanno dimostrato che le imprese con una migliore qualità della

corporate governance, durante la crisi finanziaria, hanno presentato peggiori risultati

in termini di stock returns.

Anche Beltratti e Stulz (2010) hanno cercato di indagare l’effetto che la struttura

proprietaria ha avuto in termini di stock return durante la crisi.

Se è vero che una good corporate governance influenza positivamente la

performance, i risultati ottenuti avrebbero dovuto dimostrare che le banche con un

migliore governo societario avevano meglio affrontato gli anni della crisi, limitando

le perdite.

In realtà, dal loro studio, non emerge una tale evidenza: le banche che prima della

crisi avevano una corporate governance di migliore qualità, proprio durante gli anni

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della crisi, non hanno performato meglio delle banche con condizioni di governo

societario pre-crisi peggiori.

Con riguardo al presente lavoro, può essere interessante indagare l’esistenza di un

eventuale cambiamento dell’incidenza degli indici di corporate governance sulle

misure di performance dal periodo pre-crisi a quello in cui la crisi ha raggiunto il suo

picco massimo.

Una tale indagine necessita una segmentazione del campione dei dati in due gruppi:

il primo composto dalle osservazioni relative al periodo dal 2005 al 2007, il secondo

relativo agli anni 2008 e 2009.

Le stime così ottenute, tuttavia, indipendentemente dalle variabili di controllo

inserite nel modello, non hanno condotto a risultati statisticamente significativi.

Si ritiene che il risultato insoddisfacente sia prevalentemente dovuto all’esigua

numerosità campionaria. A seguito della segmentazione, infatti, si finisce con lo

stimare delle regressioni utilizzando campioni composti da un numero di

osservazioni sensibilmente inferiori a 100. Affinché possano valere la legge dei

grandi numeri e il teorema del limite centrale51, invece, è necessario disporre di un

numero di osservazioni campionarie almeno pari a cento.

Indipendentemente dalle diverse conclusioni a cui i vari ricercatori in materia sono

giunti, emerge un elemento abbastanza chiaro: la gestione operativa e il controllo dei

rischi, soprattutto nelle banche di maggiori dimensioni, nel corso della crisi e negli

anni immediatamente precedenti, hanno costituito il punto debole del sistema

bancario.

Le banche e le autorità che avevano contribuito a sviluppare nuovi e sofisticati

modelli di analisi, gestione e controllo dei rischi complessivi, paradossalmente,

hanno mostrato debolezze e carenze proprio nell’assunzione dei rischi.

51 La legge dei grandi numeri stabilisce che la media campionaria approssima con probabilità molto

alta la media della popolazione quando il numero n delle osservazioni campionarie è grande. Questa

proprietà è detta di convergenza in probabilità o, più concisamente, consistenza.

Il teorema del limite centrale, invece, afferma che la distribuzione campionaria è ben approssimata da

una distribuzione normale quando il numero n di osservazioni campionarie è grande.

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I meccanismi di corporate governance, con la loro intrinseca capacità di limitare i

conflitti di interesse, rivestono necessariamente un ruolo fondamentale nella vita

aziendale e, conseguentemente, nella gestione dei rischi stessi.

Politiche macroeconomiche poco attente ai rischi dei prodotti derivati,

l’insostenibilità dei mutui cartolarizzati, l’inadeguatezza nell’analisi dei rischi e della

valutazione di ABS e CDO, la prociclicità degli standard dei capitali sono cause che

insieme alla parziale inadeguatezza della corporate governance hanno generato la

recente crisi finanziaria (Masera, 2009).

È perciò lecito pensare che una sempre maggiore attenzione per un buon governo

societario possa aiutare a curare gli effetti della crisi e a prevenirne altre.

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CONCLUSIONI

Oggetto di studio nell’ambito di questa tesi è stata la corporate governance nel

settore bancario. L’obiettivo dell’analisi empirica condotta è stato quello di verificare

l’esistenza di una relazione tra la corporate governance e la performance delle

banche quotate italiane.

Con l’espressione corporate governance si vuole indicare l’insieme di strumenti,

metodi, regole e assetti organizzativi sulla base dei quali l’impresa monitora e

governa il complesso delle relazioni che si instaurano tra i diversi stakeholders al fine

di superare i potenziali problemi associati alla separazione della proprietà dal

controllo (Masera, 2006).

Nonostante la letteratura in merito sia particolarmente ampia, è stato possibile

ricondurre la governance societaria ai tre meccanismi fondamentali individuati da

Jensen (1993): quelli legali, interni ed esterni. Per meccanismi legali si intende

l’impianto legislativo vigente in un determinato Paese con il relativo sistema di leggi

e regole che presidiano al governo societario. I meccanismi interni sono

prevalentemente individuati dagli elementi attinenti la composizione ed il

funzionamento del Consiglio di Amministrazione (o comunque dell’organo preposto

alla gestione dell’impresa), i piani di remunerazione dei managers, la struttura

proprietaria e la compagine societaria, il livello di indebitamento. I meccanismi

esterni, infine, fanno riferimento all’effetto disciplinante del mercato e in particolare

agli strumenti di difesa dai takeovers ostili.

Un primo filone di studi sulla corporate governance si è prevalentemente concentrato

sui meccanismi di controllo interni ed esterni (Kaplan e Minton, 1994; Hermalin e

Weisbach, 2003; Jensen, 1988; franks e Mayer, 1996). Altre ricerche, invece, hanno

riconosciuto anche l’importanza degli aspetti legali e regolamentari nonché della

tendenza ad una sempre più forte convergenza dei modelli societari internazionali

(La Porta et al., 2002; Zingales, 1994).

La considerazione di fondo dalla quale non si può assolutamente prescindere è che,

comunque, non tutte le imprese hanno o necessitano di un medesimo assetto

istituzionale o di uno stesso modello di governo societario. Le caratteristiche

intrinseche di ciascuna impresa, assieme ai condizionamenti esterni, rappresentano

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elementi fondamentali in base ai quali definire l’assetto di governo ottimale per

ciascuna entità.

È impensabile poter definire delle regole e delle procedure che identifichino in modo

univoco la good corporate governance. Quelli che infatti possono considerasi

meccanismi di governo societario di buona qualità per una determinata tipologia di

impresa, non necessariamente devono valere per imprese differenti in settore o

contesto di operatività.

Le banche possono essere considerate una tipologia d’impresa diversa dalle altre,

non solo per l’attività svolta ma anche e soprattutto per la capacità di influenzare

notevolmente il sistema economico. Se la good governance, allora, è importante per

le imprese non finanziarie, tanto più lo sarà, evidentemente, per le banche.

Con riguardo alla corporate governance delle banche, gli studi di Caprio e Levine

(2002) hanno permesso di individuare alcune specificità proprie di questi

intermediari finanziari. Le banche sono più opache di altre imprese, sono soggette ad

una stringente regolamentazione, riescono ad influenzare, anche significativamente,

il governo societario delle imprese clienti. Tutte queste peculiarità richiedono,

quindi, un’attenzione particolare nella gestione dei conflitti aziendali e

nell’implementazione di idonei meccanismi di corporate governance.

Con specifico riferimento all’Italia, il legislatore nazionale, negli ultimi anni, si è

dedicato a rinnovare la disciplina bancaria: la foresta pietrificata del sistema

bancario italiano, a partire dagli anni Novanta, si è gradualmente trasformata in un

nuovo sistema più competitivo e moderno. Successivamente alla riforma del diritto

societario del 2003, anche per le banche è stato possibile scegliere tra diversi modelli

societari e, quindi, tra differenti assetti di corporate governance. La Banca d’Italia,

con le sue Disposizioni di Vigilanza, è sempre attenta ad elaborare e stabilire regole

che garantiscano la qualità dei governi societari.

Sotto l’effetto di tutti questi fattori, insomma, il sistema bancario italiano ha

conosciuto un’intensa evoluzione che certamente proseguirà nel tempo: è perciò

quanto mai importante identificare quegli elementi di corporate governance che più

di altri influenzano la vita d’impresa.

L’analisi empirica condotta ha avuto come obiettivo ricercare l’esistenza di una

relazione positiva tra la qualità della corporate governance e alcune misure di

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performance delle banche quotate italiane osservate in un periodo di tempo compreso

tra il 2005 e il 2009.

La qualità della corporate governance è stata misurata tramite la costruzione di tre

indici originali di governo societario: il Gov-firm specific Index che comprende

alcuni elementi caratterizzanti gli assetti generali della corporate governance delle

banche, come l’adozione di codici di autoregolamentazione o la presenza di un

giudizio di rating; il Gov-board Index che riassume cinque elementi di governance

attinenti la composizione, l’organizzazione e il funzionamento del Consiglio di

Amministrazione e il Gov-shareholders Index che si riferisce alla struttura

proprietaria e azionaria delle banche inserite nel campione.

Le misure di performance, invece, scelte come variabili dipendenti sono state: il

ROE, indicatore immediato di redditività/profittabilità, e lo Z-score come misura del

grado di rischiosità cui le banche considerate si sono esposte.

Selezionate le opportune variabili di controllo, sono state quindi effettuate le apposite

regressioni con il metodo dei minimi quadrati ordinari (OLS).

I risultati ottenuti hanno attestato una buona significatività statistica rispetto ad

entrambe le misure di performance per il “Gov-shareholders Index”: pare trovare

conferma la teoria di La Porta et al. (1998) che identificano nella struttura

proprietaria e nell’esercizio del diritto di voto i meccanismi di corporate governance

più importanti.

Di contro, il “Gov-board Index” e il “Gov-firm specific Index” sono risultati

statisticamente significativi (rispettivamente al 5% e al 2,1%) solo se regrediti

rispetto al ROE.

In generale, si ritiene che le stime effettuate abbiano risentito di alcune forme di

distorsione, peraltro presenti in molti altri studi in materia e nei confronti delle quali

non è stata ancora trovata una soluzione definitiva.

Pare evidente, insomma, che non si possa negare l’esistenza di una relazione tra i

meccanismi di corporate governance e i risultati dell’impresa sia in termini di

performance complessiva che di produzione di valore per il mercato.

La composizione, le strutture, gli obiettivi e i meccanismi di governo societario

possono essere mutevoli e devono sempre essere considerati in chiave dinamica, sia

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per effetto delle modifiche nel contesto competitivo, sia per effetto delle evoluzioni

dell’impresa stessa.

Se è possibile riconoscere che alcuni meccanismi di corporate governance sono in

grado di assicurare una migliore qualità del governo societario rispetto ad altri, non è

però possibile stabilire aprioristicamente degli assetti di corporate governance che

siano sempre validi, né per le banche né per qualsiasi altra tipologia di impresa.

D’altronde la recente crisi finanziaria ha dimostrato che, nonostante il tema della

corporate governance rivesta da tempo un ruolo centrale nel dibattito economico,

restano numerosi i casi in cui ci si trova dinanzi al fallimento della governance delle

imprese, pur di fronte ad una proliferazione di codici e di “best practices”

internazionali condivisi e largamente applicati.

Il presente lavoro, insomma, ha cercato di dimostrare l’esistenza di una relazione tra

corporate governance e performance nel sistema bancario italiano per identificare

quei meccanismi che, meglio di altri, possono garantire un buon livello di governo

societario per le banche del nostro Paese.

Restano però tanti interrogativi e problemi aperti: come superare i problemi di

endogeneità, verificare l’esistenza di una relazione che può essere bidirezionale e

non unidirezionale, valutare la relazione con riferimento anche alle banche di minori

dimensioni.

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