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CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI Paolo QUERCIA Flussi migratori attraverso i Balcani occidentali: la rotta balcanica (Codice SMD AM-SMD-03)

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CENTRO ALTI STUDI

PER LA DIFESA

CENTRO MILITARE

DI STUDI STRATEGICI

Paolo QUERCIA

Flussi migratori attraverso i Balcani

occidentali: la rotta balcanica

(Codice SMD AM-SMD-03)

Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.), costituito nel 1987 e situato presso

Palazzo Salviati a Roma, è diretto da un Generale di Divisione (Direttore), o Ufficiale di

grado equivalente, ed è strutturato su tre Dipartimenti (Relazioni Internazionali - Sociologia

Militare - Scienze, Tecnologia, Economia e Politica industriale) ed un Ufficio Relazioni

Esterne e le attività sono regolate dal Decreto del Ministro della Difesa del 21 dicembre

2012.

Il Ce.Mi.S.S. svolge attività di studio e ricerca a carattere strategico-politico-militare, per le

esigenze del Ministero della Difesa, contribuendo allo sviluppo della cultura e della

conoscenza, a favore della collettività nazionale.

Le attività condotte dal Ce.Mi.S.S. sono dirette allo studio di fenomeni di natura politica,

economica, sociale, culturale, militare e dell'effetto dell’introduzione di nuove tecnologie,

ovvero dei fenomeni che determinano apprezzabili cambiamenti dello scenario di

sicurezza. Il livello di analisi è prioritariamente quello strategico.

Per lo svolgimento delle attività di studio e ricerca, il Ce.Mi.S.S. impegna:

a) di personale militare e civile del Ministero della Difesa, in possesso di idonea

esperienza e qualifica professionale, all’uopo assegnato al Centro, anche mediante

distacchi temporanei, sulla base di quanto disposto annualmente dal Capo di Stato

Maggiore dalla Difesa, d’intesa con il Segretario Generale della difesa/Direttore

Nazionale degli Armamenti per l’impiego del personale civile;

b) collaboratori non appartenenti all’amministrazione pubblica, (selezionati in conformità

alle vigenti disposizioni fra gli esperti di comprovata specializzazione).

Per lo sviluppo della cultura e della conoscenza di temi di interesse della Difesa, il Ce.Mi.S.S. instaura collaborazioni con le Università, gli istituti o Centri di Ricerca, italiani o esteri e rende pubblici gli studi di maggiore interesse.

Il Ministro della Difesa, sentiti il Capo di Stato Maggiore dalla Difesa, d’intesa con il

Segretario Generale della difesa/Direttore Nazionale degli Armamenti, per gli argomenti di

rispettivo interesse, emana le direttive in merito alle attività di ricerca strategica, stabilendo

le lenee guida per l’attività di analisi e di collaborazione con le istituzioni omologhe e

definendo i temi di studio da assegnare al Ce.Mi.S.S..

I ricercatori sono lasciati completamente liberi di esprimere il proprio pensiero sugli

argomenti trattati, il contenuto degli studi pubblicati riflette esclusivamente il pensiero dei

singoli autori, e non quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari

e/o civili alle quali i Ricercatori stessi appartengono.

(Codice AM-SMD-03)

CENTRO ALTI STUDI

PER LA DIFESA

CENTRO MILITARE

DI STUDI STRATEGICI

Paolo QUERCIA

Flussi migratori attraverso i Balcani

occidentali: la rotta balcanica

Flussi migratori attraverso i Balcani occidentali:

la rotta balcanica

NOTA DI SALVAGUARDIA

Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dell’autore, e non

quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali

l’autore stesso appartiene.

NOTE

Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte.

Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici

Direttore

CA. Maurizio Ertreo

Vice Direttore - Capo Dipartimento Relazioni Internazionali

Col. A.A.r.n.n. Pil. (AM) Marco Francesco D’Asta

Progetto grafico

Massimo Bilotta - Roberto Bagnato

Autore

Paolo Quercia

Stampato dalla tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa

Centro Militare di Studi Strategici

Dipartimento Relazioni Internazionali

Palazzo Salviati

Piazza della Rovere, 83 - 00165 – Roma

tel. 06 4691 3205 - fax 06 6879779

e-mail [email protected]

Chiusa a novembre 2017

ISBN 978-88-99468-75-0

INDICE

Sintesi dei contenuti 6

Introduzione 7

CAPITOLO 1 - CONCETTI FONDAMENTALI DELLA SICUREZZA MIGRATORIA E ANALISI DEL CORRIDOIO BALCANICO-ANATOLICO VERSO L’EUROPA 16

1.1 Gli antesignani della sicurezza migratoria: gli studi di Weiner e Greenhill 16

1.2 Il nesso crisi migratoria-sicurezza ed il concetto di sicurezza migratoria 21

1.3 La differente natura delle crisi migratorie europee odierne 28

1.4 Descrizione del corridoio balcanico-anatolico verso l’Europa: un’analisi comparativa 30

CAPITOLO 2 - I SINGOLI PAESI DEL CORRIDOIO ANATOLICO-BALCANICO E LE POLITICHE DI GESTIONE DEI FLUSSI 37

2.1. I Paesi di Destinazione 39

2.1.1. La Germania 39

2.1.2. L’Austria 42

2.2. I Paesi di Transito 46

2.2.1. La Grecia 46

2.2.1.1. La questione del confine Grecia - Turchia 51

2.2.1.2. Case study: L’isola greca di Lesbos 54

2.2.2. La Turchia 55

2.2.2.1. La questione dei rifugiati siriani in Turchia 56

2.2.2.2. L’accordo tra Unione Europea e Turchia. 58

2.2.3. La Macedonia 61

2.2.4. L’Ungheria 63

2.2.5. L’Albania 65

CAPITOLO 3 - ANALISI, OSSERVAZIONI, CONLUSIONI E POLICY OPTION 69

3.1. Analisi delle politiche di gestione e contenimento del fenomeno lungo la rotta anatolico – balcanica e fattori che potrebbero incidere nella magnitudine dei flussi 69

3.2. Possibilità di connessioni tra flussi migratori e fenomeni terroristici 73

3.3. Conclusioni: effetti per la sicurezza regionale e nazionali di possibili nuove crisi migratorie e policy options 78

6

Sintesi dei contenuti

La ricerca, partendo da una valutazione della crisi migratoria registratasi nel 2015, studia

la situazione attuale del corridoio balcanico verso l’Europa dei flussi irregolari ed illegali di

migrazioni provenienti da Africa ed Asia e analizza le potenziali interconnessioni con la

sicurezza regionale e con le più generali condizioni di stabilità politica dell’area dell’Europa

Sud Orientale.

Nel primo capitolo viene fatta un’analisi preliminare su cosa è una crisi migratoria

nell’Europa del 2018 e come essa si differenzia dai fenomeni migratori precedenti.

Vengono altresì discusse quali possono essere le correlazioni tra i flussi migratori e la crisi

della sicurezza internazionale attorno all’Europa e viene discusso il nesso sicurezza –

migrazioni. Viene quindi introdotto il concetto di sicurezza migratoria e vengono suddivisi

tre livelli in cui essa si declina (livello dei Paesi di origine, livello dei Paesi di transito e

livello dei Paesi di destinazione).

Nel secondo capitolo vengono invece studiati più da vicino i singoli Paesi della rotta

balcanica, ad iniziare dai due principali Paesi di destinazione, la Germania e l’Austria.

Vengono quindi analizzati cinque Paesi di transito. Quattro (Grecia, Turchia, Macedonia,

Ungheria) interessati nel corso del 2014 – 2015 dalla crisi migratoria, più l’Albania, Paese

che non è stato coinvolto dalla crisi ma che potrebbe avere un suo ruolo nel caso in cui

una nuova crisi dovesse manifestarsi ed il corridoio balcanico dovesse restare chiuso.

Infine, nel terzo capitolo sono state fatte una seria di considerazioni finali su alcuni temi

importanti, come il diverso atteggiamento dei Paesi rispetto alla crisi migratoria, il

problema della magnitudine dei flussi, le possibili connessioni tra fenomeni migratori e

terroristici, il ruolo dell’Europa. Ove possibile sono state indicate alcune opzioni policy

oriented per il decisore italiano.

7

Introduzione

L’evoluzione del fenomeno migratorio. Dalle migrazioni come fenomeno socio-

economico, alla securizzazione degli anni 2000 fino alla crisi migratorie del 2015

Il fenomeno delle migrazioni internazionali è da numerosi anni in cima all’agenda

della sicurezza europea ed internazionale e la crisi migratoria balcanica si inserisce

all’interno di un processo, in corso da almeno un decennio, di progressiva trasformazione

delle questioni migratorie dal piano economico-umanitario a quello politico-strategico.

Le connessioni delle crisi migratorie con i dossier della sicurezza internazionale e la

tendenza alla politicizzazione e anche alla criminalizzazione dei flussi sono ormai un

fenomeno ben noto e studiato da circa un ventennio. Prima di studiare una rotta migratoria

è fondamentale inquadrare cosa stiamo studiando e la natura del fenomeno, ma

soprattutto quanto il contesto in cui esso si svolge e i comportamenti degli attori coinvolti

sono espressione di una dimensione socio – economica o piuttosto di una dimensione

strategica e di sicurezza.

La prima domanda che è necessario porsi è dunque: i flussi migratori sono anche un

problema di sicurezza? la risposta è piuttosto semplice e banale. Dipende. Difatti, la

domanda corretta da porsi non è tanto se le migrazioni sono un problema per la sicurezza

nazionale o internazionale, quanto piuttosto in quali circostanze esse lo possono

diventare. “La magnitudine e la velocità dei fenomeni migratori odierni, la crescente

criminalizzazione dei flussi, l’attraversamento di territori controllati da movimenti qaedisti e

jihadisti e l’incapacità di attuare meccanismi di regolamentazione dei flussi ha reso

l’Unione Europea, da ormai quattro anni, profondamente vulnerabile alle gravi crisi

migratorie le cui modalità generano notevoli ricadute sulla sicurezza, sia interna che

internazionale. Tale vulnerabilità può essere sfruttata anche da attori ostili, sia statuali che

non” (Quercia, 2017 ).

Ecco dunque che sono non i flussi in quanto tali, ma il contesto sociale e geopolitico

attraverso cui essi hanno luogo a determinare il livello di interconnessione tra flussi

migratori e le questioni della sicurezza internazionale, avviando un processo di

interconnessione tra dinamiche migratorie e minacce alla sicurezza. In questa logica, il

nesso sicurezza – immigrazione non è il frutto di un approccio “securitario” da parte della

sicurezza degli Stati e dei confini, come sostiene una parte (es. Weaver, 1995) – forse una

parte maggioritaria – della letteratura specializzata sui temi migratori; essa è piuttosto il

frutto delle contaminazioni che avvengono nei Paesi di origine e nei Paesi di transito.

8

Contaminazioni che possono essere tanto il frutto di un’azione da parte dei governi (in

qualche caso parleremo di una sicurezza migratoria ibrida) che da parte di attori privati e

non governativi (in tal caso parleremo di una sicurezza migratoria asimmetrica).

Nella seguente tabella abbiamo riportato una serie di parametri che, se presenti nei

Paesi di origine o transito, possono essere ritenuti elementi d’attivazione del nesso

migrazioni-sicurezza:

Elementi di attivazione del nesso migrazione – sicurezza Presenza nella rotta anatolico-balcanica

Flussi provenienti da paesi in guerra in cui operano formazioni paramilitari e guerrigliere

SI

Flussi provenienti da paesi in cui sono attivi movimenti islamisti radicali collegati e riconducibili ad al-Qaeda e allo Stato Islamico

SI

Flussi che attraversano territori controllati da organizzazioni jihadiste, terroristiche e criminali

SI

Flussi che si sovrappongono alle rotte gestite da organizzazioni di criminali dedite al traffico transnazionale di armi, droga, carburanti ecc.

SI

Flussi caratterizzati dall’attraversamento di un numero elevato di frontiere, dalla bassa capacità di intelligence migratoria e dalla materiale impossibilità di vagliare le identità delle persone

SI

Flussi provenienti da Paesi in cui le condizioni di amministrazione della giustizia e la situazione carceraria è insufficiente rispetto ai livelli di criminalità presenti nei Paesi

SI

Flussi utilizzati anche dai foreign fighters e che attraversano le rotte di entrata ed uscita dei combattenti stranieri da e per i vari teatri jihadisti

SI

Paesi di origine o transito caratterizzati da una postura geopolitica antagonista rispetto a quella europea, scarsa collaborazione a livello di intelligence e bassa capacità di gestione delle crisi umanitarie e migratorie

SI

Presenza di fenomeni diffusi di radicalizzazione all’interno dei Paesi attraversati dai flussi migratori

SI

La nostra valutazione è che tutti questi elementi individuati sono presenti all’interno

della rotta anatolico-balcanica ed essi, integrandosi e cumulandosi tra di loro, hanno

contribuito a rendere la crisi migratoria degli anni 2014 – 2015, anche in funzione della

enormità dei flussi, una questione di sicurezza nazionale per gli Stati interessati.

9

In questa parte introduttiva vogliamo sottolineare che il nesso migrazioni – sicurezza,

dal punto di vista italiano è ben evidente dall’esperienza della crisi libica che si è

sviluppata nel corso degli anni duemila. In quel decennio, infatti, il regime di Gheddafi ha

spesso fatto ricorso all’utilizzo dello strumento migratorio per premere strategicamente

sull’Italia e condizionare il negoziato politico e le condizioni del riavvicinamento tra Roma e

Tripoli. Questa situazione è evidente se si osserva il flusso degli sbarchi di migranti

provenienti dalla Libia negli anni 2005 – 2007.

Il 2005 rappresenta l’anno di massima crisi migratoria per l’Italia dal secondo

dopoguerra, quando, per via degli sbarchi provenienti dalla Libia, il numero di ingressi

illegali sul territorio italiano ha superato le 20.000 unità (22.824 solo quelle provenienti

dalla Libia). Negli anni successivi, dopo l’avvio del processo di sdoganamento della Libia e

dell’apertura dei negoziati con l’Italia per la negoziazione di un Trattato bilaterale di

amicizia e cooperazione, il numero di sbarchi scende progressivamente. Nel corso del

2008, però, l’anno in cui fu firmato finalmente il Trattato di Bengasi, si assistette

all’esplosione del numero di migranti illegali sbarcati nel nostro Paese, che superarono le

34.000 unità. Il surge negli sbarchi è chiaramente da mettersi in relazione con le difficoltà

intervenute nel negoziato con l’Italia (Trupiano, 2016) ed esso è stato chiaramente

orientato ad influenzare la decisione italiana di accettare le condizioni economiche imposte

da Gheddafi, sulla cui accettazione il governo italiano tentennava. Una conferma di ciò è

rappresentata dal fatto che l’anno successivo alla stipula del trattato di Bengasi, il numero

di sbarchi provenienti dalla Libia è drasticamente crollato, passando dai 34.000 del 2008 ai

9.000 del 2009 e quindi ai 3.000 del 2010.

Tabella 1 Gli sbarchi in Italia via mare dal 2004 al 2010

2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010

12.000 20.000 12.000 20.000 35.000 9.000 3.000

Il caso della crisi migratoria libica, anticipazione della crisi migratoria balcanica,

dimostra con chiarezza la sovrapposizione dei flussi migratori con le vicende politiche

bilaterali, la rilevanza strategica che essi assumono nel contesto delle relazioni con Paesi

in presenza di questioni irrisolte politiche e di sicurezza. Dal caso libico si possono

tipicizzare le seguenti fasi che possono caratterizzare una crisi migratoria guidata

politicamente da finalità strategiche:

10

fase “fisiologica”, caratterizzata da un normale flusso di immigrazione irregolare

attraverso i confini operato da trafficanti e da un normale mercato del contrabbando e

del traffico illecito, solo parzialmente contrastato dalle autorità nazionali del Paese di

transito. Questa fase è alimentata dal normale flusso di entrata / uscita dei cittadini

migranti stranieri presenti illegalmente in un Paese di transito;

fase “aggressiva”, in cui le autorità del Paese di transito riducono le operazioni di

contrasto ai traffici in uscita e spingono i migranti, solitamente illegalmente presenti

nel Paese, attraverso forme diverse di pressioni o vessazioni, ad abbandonare il

Paese. La fase aggressiva è abbinata a un obiettivo strategico politico – diplomatico,

spesso ravvisato all’interno di un negoziato in corso e volta a migliorare il potere

negoziale del Paese di transito. Affinché essa funzioni il Paese di transito deve avere

la capacità tanto di provocare un surge nelle partenze quanto di bloccarle riportando

il flusso ad una situazione di normalità;

fase di “riassorbimento”, in questa fase il Paese di transito ripone in atto le funzioni di

controllo delle proprie frontiere in uscita, portando ad un rapido declino nel numero

dei migranti. Ciò può avvenire attraverso attività di polizia contro le organizzazioni dei

trafficanti o di un normale controllo degli attraversamenti di frontiera. Questa fase

spesso segue la sottoscrizione di accordo di natura onerosa tra il Paese target ed il

Paese di transito.

È importante sottolineare che i Paesi in grado di esercitare il maggior utilizzo

strategico dei flussi migratori illegali sono i Paesi di transito più che i Paesi di partenza. I

primi, difatti, non sono Paesi in cui si originano i flussi ma sono Paesi in cui lo stock di

migranti illegali interno è un differenziale tra i flussi in entrata ed i flussi in uscita. Quando

un Paese è in grado di controllare sia i flussi in entrata che i flussi in uscita può

accumulare all’interno del Paese un stock di migranti illegali che può essere utilizzato

come uno strumento di pressione demografica. Questo potere di minaccia asimmetrica

contro la sicurezza dello Stato target può essere più efficacemente utilizzato da un Paese

di transito che non da un Paese di origine.

Questo perché il Paese di origine ha spesso difficoltà a controllare i flussi in uscita.

Difatti, un Paese in cui - per motivi politici, bellici, umanitari, economici o di altra natura –

ha una pressione di popolazione che preme per abbandonare il Paese per cause interne,

ha oggettivamente delle difficoltà a controllare i confini e ad adottare politiche restrittive di

controllo dei flussi in uscita. Una tale politica, difatti, porterebbe a gravi problemi di stabilità

11

e di sicurezza interni allo Stato d’origine che normalmente impedisce al Paese di partenza

di ottemperare agli accordi di controllo dei flussi. Al contrario i Paesi di transito - in cui la

maggior parte dello stock illegale della popolazione presente internamente non è d’origine

del Paese ma proviene da altri Paesi contermini - possono con maggiore facilità entrare in

accordi con i Paesi di destinazione in quanto il loro stock di migranti irregolari presenti non

è prodotto della stessa società ma è conseguenza della politica migratoria attuata dal

Paese. Questo vuol dire che quando un accordo con i Paesi di destinazione è abbinato

con un accordo (o con politiche restrittive di controllo dei confini) con i Paesi da cui

provengono i flussi, il Paese di transito non paga in termini di stabilità interna gli accordi di

controllo dei flussi, ma bilancia il mancato outflow con una riduzione dell’inflow. Esso ha

cioè la possibilità di mantenere netto il saldo dei flussi migratori, adottando una politica di

apertura degli ingressi / apertura delle uscite o adottando una politica di controllo delle

uscite / controllo degli ingressi. Ovviamente Paesi di carattere autoritario e non soggetti a

controlli degli standard dei diritti umani hanno maggiore libertà di manovra e possibilità di

attuare le proprie politiche espansive o restrittive dei flussi in minor tempo e con minori

costi rispetto a Paesi occidentali. Esistono comunque per tutti i Paesi del mondo condizioni

(magnitudine, velocità, connessioni etnico-politiche-religiose) che pongono diverse

limitazioni alle capacità di controllo dei confini anche da parte dei Paesi che hanno la

volontà di restringere l’accesso ai propri confini.

Ovviamente, quando in questo studio viene considerato che i flussi migratori

possono rappresentare un problema per la stabilità o la sicurezza di un Paese, non si

vuole intendere che è il fenomeno migratorio in quanto tale a rappresentare una minaccia,

di tipo etnico o identitario, alla società di destinazione. Si vuole però sottolineare che sono

le modalità con cui i flussi irregolari hanno luogo che rappresentano un potenziale

problema di sicurezza per le società di destinazione. Ciò è in buona parte il frutto della

magnitudine dei flussi, che comporta problemi logistici, alimentari, sanitari ed organizzativi

non trascurabili, delle situazioni di violenza che caratterizzano molti dei Paesi di

provenienza e del fatto che i flussi stessi sono determinati, regolati e gestiti da

organizzazioni criminali e violente.

L’accoglienza e la sistemazione di migliaia, in alcuni casi decine di migliaia di

persone al giorno, rappresenta una sfida per la protezione civile ed assistenza umanitaria

non trascurabile. Ad essa si aggiungono i problemi di ordine pubblico che derivano dalla

gestione di masse così elevate di persone sia in considerazione del livello sociale –

culturale di provenienza, sia del fatto che molto spesso è assolutamente impossibile

risalire alle reali identità o nazionalità dei migranti: secondo alcune informazioni comparse

12

sulla stampa durante la crisi migratoria, sono centinaia di migliaia le persone entrate in

Germania, durante la crisi migratoria, senza alcun documento d’identità o con documenti

d’identità falsi o contraffatti (normalmente falsi documenti d’identità siriani)1. Questo vuol

dire che ci vorranno anni per identificare reali nominativi e nazionalità delle persone

entrate in Germania durante questa crisi. La questione della mancata conoscenza delle

identità delle persone entrate illegalmente in Europa rappresenta senza dubbio uno dei

principali problemi di sicurezza connessi alla crisi migratoria, come è stato ammesso dal

responsabile di Frontex, Fabrice Leggeri, che ha dichiarato che “The big inflows of people

who are currently entering Europe unchecked are of course a security risk”2. Tale rischio è

ovviamente accresciuto dal fatto che, secondo alcune informazioni giornalistiche che

citano fonti di intelligence, lo stesso Stato Islamico, che controlla le aree da cui

provengono la maggior parte dei migranti, abbia tanto gestito un commercio in nero di

documenti contraffatti, quanto sia entrato in possesso di decine di migliaia di passaporti

iracheni e siriani e di macchinari per la loro produzione in occasione della presa del potere

in vari centri urbani della Siria e dell’Iraq3.

Il flusso migratorio rapido ed incontrollato di un elevatissimo numero di persone, la

cui identità in molti casi è ignota si è naturalmente riflesso in Germania in un aumento dei

reati criminali di cui sono responsabili o vittime i migranti arrivati in Germania nel 2015 –

2016 seguendo la rotta balcanica. Questi dati si evincono dal rapporto annuale pubblicato

dalla Direzione della Polizia Criminale4 (BKA, Bundeskriminalamt) che nel rapporto

annuale per il 2016 registra un aumento drastico del numero di atti criminali commessi da

migranti (174.438, +52,7%). Secondo il rapporto, circa l’8% del totale dei crimini commessi

in Germania nel 2015 sono stati commessi da migranti (non da stranieri residenti) che

sono stimati in circa 2.000.000 di persone5. Secondo il ministro degli interni tedesco il dato

è cresciuto disproporzionatamene nel corso del periodo 2015 – 2016. Allo stesso tempo

sono aumentati nel Paese sia il numero di attacchi contro gli stranieri che il numero di

crimini motivati da motivazioni islamiste (+ 13,7%).

1 Vedi ad esempio, Rebecca Perring, Germany migration crisis turns into a nightmare as 80% of refugees have no documents, Express, 9 giugno 2016.

2 Reuters, EU border agency warns of risks from fake passports: reports, 20 dicembre 2015.. 3 Rebecca Perring, Germany migration crisis turns into a nightmare as 80% of refugees have no

documents, Express, 9 giugno 2016. 4 Bundeskriminalamt, Polizei Kriminalstatistik 2016, 24 aprile 2017. www.bka.de 5 Lewis Senders, Two Million: Germany records largest influx of immigrants in 2015, Deutsche

Welle, 21.3.2016.

13

È dunque chiaro che il contesto, le modalità e la magnitudine dei flussi che hanno

caratterizzato il biennio 2014 – 2015 ha comportato, come mai in precedenza, un

rafforzamento del nesso esistente tra flussi migratori e questioni di sicurezza. Il legame tra

migrazioni e sicurezza è stato a lungo un fenomeno poco studiato e poco valorizzato, in

quanto si è ritenuto per molti anni che i fenomeni migratori fossero sostanzialmente dei

fenomeni di natura socio-economica e che gli aspetti di sicurezza fossero marginali per le

società di destinazione, prevalentemente limitati agli episodi di micro-criminalità. La

questione è parzialmente cambiata dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 in America

che portò i Paesi europei e gli stessi USA a modificare le proprie politiche migratorie, fino

ad allora improntate ad una sostanziale politica del “laissez faire” ed una certa tolleranza

rispetto alla violazione delle norme sull’immigrazione. Risalgono a quegli anni le prime

leggi che mirano a regolarizzare e far emergere gli stranieri residenti in molti Paesi europei

(in Italia in particolare ciò fu rappresentato dalla sanatoria del 2002, con cui furono

regolarizzati oltre 700.000 stranieri). Gli attentati di Londra e Madrid del 2004 hanno

ulteriormente spinto ad un irrigidimento dei controlli, così come la crisi migratoria che si

registrò nel 2005 – 2006, interessando prevalentemente la Spagna ed il Marocco6. Allo

stesso anno risalgono i primi accordi tra Italia e Libia in merito al rimpatrio dei migranti

africani sbarcati sulle coste italiane provenienti dalla Libia.

Se per tutto il decennio che ha fatto seguito agli attacchi dell’undici settembre e

all’addio alla war on terror si è assistito ad un continuo processo di maggiore attenzione

agli aspetti di sicurezza interna nella gestione dei flussi migratori, non si può dire che sia

stato stabilito un forte nesso tra sicurezza e migrazione. Si parla solitamente di un

processo di securizzazione delle politiche migratorie, espressione con cui, al di là

dell’accenno polemico che viene normalmente destinato a tale concetto, si indica la

progressiva inclusione di misure di sicurezza o restrittive nella programmazione o nella

gestione dei flussi.

Il contesto si sarebbe ulteriormente modificato con l’avvio delle primavere arabe e gli

impressionanti sommovimenti prodottisi che hanno lasciato molte società della sponda

Sud del Mediterraneo nel caos. Ma questi cambiamenti rappresentavano ancora i

prodromi dei grandi rivolgimenti di sicurezza che stavano per avvenire nell’area e che

hanno radicalmente mutato il contesto geopolitico in cui avvengono i flussi migratori verso

l’Europa, aumentando ulteriormente e significativamente il livello di insicurezza dei flussi

migratori verso l’Europa.

6 Sonia Phalinkar, Europe gets tough on migrant crisis, Dutsche Welle, 7.10.2005

14

Tre sono sostanzialmente i fenomeni che hanno contribuito a trasformare la natura dei

flussi migratori verso l’Europa a causa della trasformazione della situazione politica e di

sicurezza dei territori attraversati: l’esplosione della guerra civile in Siria, la saldatura del

conflitto siriano con il conflitto iracheno, l’ascesa dello Stato Islamico e la guerra civile in

Libia.

Il dibattito dei rapporti tra migrazioni e sicurezza avviato negli anni novanta e che ha

visto prevalere inizialmente la visione economico-umanitaria dei processi migratori con la

prevalenza della human security sulla State – security si è evoluta nel corso dell’ultimo

ventennio, portando sempre più elementi al campo di coloro che sostengono un approccio

politico strategico ai fenomeni migratori, che integri la dimensione della human security

con quella della State – security. Nel nostro approccio, entrambe queste due dimensioni

sono ricomprese nel concetto di sicurezza migratoria, che così definiamo: “la sicurezza,

quella migratoria, è quella condizione in cui un determinato Stato riesce a gestire in

maniera ordinata, regolare e conforme alle proprie leggi le pressioni migratorie che si

sviluppano sui suoi confini e che provengono o hanno attraversato paesi instabili, insicuri,

a bassa statualità ed in cui sono presenti organizzazioni criminali transnazionali e jihadiste

o attori statuali ostili alla sicurezza nazionale”. Ci pare evidente che il carattere anarchico

delle crisi migratorie attuali e di quella balcanica e il ruolo avuto dalle infrastrutture

criminali che le rendono possibili hanno messo l’una contro l’altra due importanti categorie

della sicurezza nazionale contemporanea: la sicurezza umana dei migranti e la sicurezza

degli Stati. Questo scontro tra due dimensioni della sicurezza rappresenta un grave

pericolo e se tale dicotomia non verrà superata, ai problemi per la sicurezza interna degli

Stati membri si sommeranno i problemi per la sicurezza che deriveranno dalla crisi della

stessa architettura di sicurezza europea. La rotta migratoria anatolico-balcanica verso

l’Europa, ma anche le altre rotte migratorie che puntano direttamente all’Italia, sono oggi

chiaramente caratterizzate da una duplice insicurezza: quella dei migranti e quella degli

Stati. Nelle attuali rotte che portano migranti verso l’Europa, quella del Mediterraneo

centrale e quella anatolico-balcanica, il traffico di essere umani si è configurato attraverso

un inaccettabile modello distorsivo che ha ormai poco o nulla a che fare con i fisiologici

fenomeni migratori e spesso rappresenta una illogica torsione dei meccanismi giuridici di

protezione dei rifugiati.

15

La sicurezza migratoria va dunque letta come un bene comune, che necessita il

bilanciamento degli interessi di molteplici stakeholder di natura diversa. Per raggiungere

questo equilibrio è necessario superare l’approccio della sicurezza umanitaria vs la

sicurezza degli Stati in favore di un concetto di sicurezza migratoria che contemperi

entrambe queste due dimensioni. Questo può essere fatto solo attraverso l’adozione di

una serie di misure che inizino con la riduzione dei volumi dei flussi: ciò vuol dire passare

dalle attuali migrazioni insicure per gli uomini e per gli Stati a un sistema di migrazioni

ragionevolmente sicure per entrambi.

16

CAPITOLO 1 - CONCETTI FONDAMENTALI DELLA SICUREZZA MIGRATORIA E ANALISI DEL CORRIDOIO BALCANICO-ANATOLICO VERSO L’EUROPA

1.1 Gli antesignani della sicurezza migratoria: gli studi di Weiner e Greenhill

Uno dei primi studiosi a lavorare sui concetti di analisi strategica dei flussi migratori è

stato Myron Weiner, già capo della Commissione ricerca e consulenza del UNHCR e uno

dei pionieri negli studi sulla sicurezza migratoria con i suoi lavori del 1992e del 2001 sulle

connessioni tra flussi migratori, conflitti e sicurezza. Le analisi di Weiner si svolgono agli

inizi degli anni novanta e all’autore era già evidente come i processi migratori verso

l’Europa sarebbero divenuti un fenomeno di magnitudine crescente e che presto le masse

di persone desiderose di lasciare il proprio Paese sarebbero divenute superiori alla

capacità e alla volontà di accoglienza da parte delle società avanzate. Se l’accoglienza

degli anni novanta era in primo luogo mossa da motivazioni di carattere economico e

sostanzialmente priva di ogni riferimento o connessione con le tematiche di sicurezza,

mano a mano che i flussi si sarebbero ingrossati e si sarebbero connessi con le principali

questioni della sicurezza internazionale ciò avrebbe prodotto una crescente riluttanza da

parte dei Paesi target ad accogliere quantità crescenti di migranti. La valutazione di

Weiner era sostanzialmente che il cambio dell’atteggiamento da parte degli Stati verso i

flussi migratori sarebbe avvenuto non per motivazioni di carattere economico, ma piuttosto

per motivi sempre più di natura politica e di sicurezza nazionale. Weiner è stato il primo

studioso di rilievo a teorizzare la crescente rilevanza della dimensione politico-strategica

nel campo delle migrazioni internazionali, sostenendo la necessità di affiancare la chiave

d’interpretazione socio-economica delle migrazioni con un nuovo schema basato sulle

categorie della sicurezza e della stabilità. I fluissi migratori sarebbero nel tempo divenuti

insicuri e fonti di insicurezza e pertanto i vari governi dei Paesi destinatari avrebbero

dovuto porsi progressivamente il problema di come essi sono connesse con i temi della

stabilità interna e della sicurezza internazionale.

L’importanza degli studi di Weiner risiede nel fatto che egli è stato probabilmente

l’antesignano di un approccio olistico allo studio dei fenomeni migratori che mette al centro

della sua analisi – che è di carattere politico strategico e non economicista o giuridico -

l’analisi politica e di sicurezza non solo come fattore di studio delle cause delle partenze

dai Paesi di origine, ma anche come problema nei Paesi di arrivo.

Con questo approccio, il politologo americano getta le basi per un approccio

integrato allo studio dei flussi migratori che proceda lungo un duplice binario, socio-

economico e politico-sicurezza.

17

Difatti se i flussi migratori sono analizzati e giudicati solo dall’uno o solo dall’altro degli

approcci essi possono dare origine a valutazioni differenti sul costo/beneficio di un

determinato flusso migratorio7. Weiner sostiene che per una opportuna analisi strategica

essi vadano utilizzati in parallelo, affinché il decisore politico possa giungere ad una

corretta e sostenibile valutazione dei costi-benefici di accogliere o meno, con quali

precauzioni ed in quali modalità, uno specifico flusso migratorio. Lo studio del fattore

politico e di sicurezza porta ovviamente a concentrarsi su specifici aspetti della genesi dei

flussi migratori, quali le emigrazioni forzate e indotte con la coercizione o il ruolo di

opposizione politico/militare di una diaspora nei confronti del regime di provenienza e

come esso può influire sulla politica estera di un Paese. Weiner, anche perché i suoi lavori

sul tema sono concentrati tra il 1989 ed il 1999, dà poca attenzione agli aspetti più

asimmetrici della sicurezza migratoria, come quelli relativi al ruolo giocato dalla criminalità

organizzata e dalle organizzazioni proto-statuali di stampo jihadista. Fenomeni che, nel

primo decennio post 1989 erano ancora marginali e poco rilevanti, essendosi intensificati

solo successivamente con l’erosione della sovranità di molti Stati deboli dell’area del Nord

Africa e del Medio Oriente.

Weiner si concentra piuttosto sulle forme di organizzazione politico, militare e anche

terroristica di segmenti delle diaspore nei Paesi di destinazione. Ciò è conseguenza del

fatto che la concessione dello status di rifugiato si basa solitamente sull’esistenza di una

situazione di persecuzione e oppressione dei richiedenti asilo che ha come corollario una

sorta di diritto morale alla resistenza e di legittimità di promuovere il “regime change”.

Le condizioni favorevoli allo sviluppo di una opposizione organizzata ai regimi e ai governi

di provenienza (la protezione politica, l’utilizzo dell’accesso ai media liberi e l’inserimento

della diaspora in un’economia a cui attingere risorse economiche per le attività di

opposizione) consentono di strutturare forme di resistenza che, in alcuni casi, possono

produrre un conflitto tra Stato ricevente e Stato di origine8.

7 Negli esempi portati a sostegno della sua teoria Weiner sostiene che a volte è proprio il framework politico-sicurezza a spingere un governo o uno Stato ad accettare un flusso migratorio per il quale il Paese ricevente non avrebbe un vantaggio economico netto. Ciò accade ad esempio ogni qualvolta uno Stato accoglie dei rifugiati da un altro Stato con cui è in conflitto con l’obiettivo di favorire l’insediamento di una diaspora dissidente. È una politica a cui gli Stati hanno sempre fatto frequentemente ricorso e la sua attualità è dimostrata dalla politica turca nei confronti dei profughi arabo-siriani nel conflitto tutt’ora in corso.

8 Alcuni esempi di questo tipo di connessioni tra migrazioni e sicurezza attraverso i casi di politicizzazione militante della diaspora sono rappresentanti dal caso dei rifugiati cubani negli USA, di quelli afghani in Pakistan, di quelli iraniani in Francia (che poi, avvieranno la rivoluzione islamista contro lo Scià), di quelli palestinesi nei Paesi arabi, fino ai casi contemporanei delle diaspore libiche, curde, kosovare e siriane in Europa.

18

Ovviamente le comunità delle diaspore maggiormente composte da rifugiati rispetto

a quelle composte da migranti economici erano, in teoria, maggiormente propense a

sviluppare forme di opposizione armate che potevano mettere in difficoltà i rapporti

bilaterali con i Paesi di origine, che possono giungere fino all’internazionalizzazione dei

conflitti domestici all’estero, anche con divisioni all’interno delle stesse comunità migranti.

Su queste basi Weiner individua cinque livelli di problemi di sicurezza legati alle questioni

migratorie: per il Paese di provenienza; per il Paese di destinazione; per le relazioni

bilaterali tra i due Paesi; per la sicurezza economica e sociale per il Paese di arrivo; come

strumento di destabilizzazione da parte del Paese ospitante verso il Paese di provenienza.

Al decennio successivo risalgono invece i lavori della studiosa americana Kelly M.

Greenhill, che appartiene al filone dell’individuazione delle “new security challenges” nel

nuovo contesto post 9/11, che mirano a identificare gli aspetti trasformativi dei “war

studies”. È in questo contesto culturale, già più orientato alla sicurezza rispetto a quello in

cui operava Weiner, che la Greenhill analizza le migrazioni avvenute dalla seconda guerra

mondiale al 2006, concludendo che la gran parte di questi fenomeni migratori di massa

non sono il frutto di fisiologici spostamenti di masse di individui, bensì il frutto di forme di

coercizione da parte di attori prevalentemente pubblici (ma anche privati). Secondo

Greenhill molti di questi attori mettono in atto delle forme di migrazione coercitiva con lo

scopo di raggiungere obiettivi politici o economici che non riuscirebbero a raggiungere con

metodi militari a causa della loro debolezza. Nel suo studio la Greenhill analizza 60 casi di

migrazioni di massa in cui identifica un soggetto denominato coercer e un altro soggetto

denominato target. Il coercer provoca (o minaccia di provocare) o comunque facilita in

maniera significativa una crisi migratoria che produce un problema di sicurezza allo Stato

target, con l’obiettivo di raggiungere un risultato politico strategico. Molto spesso questo

tipo di obiettivo è di tipo economico/finanziario, mentre in altri casi è di tipo ideologico o

territoriale.

Dagli studi della Greenhill emerge che la maggior parte delle crisi migratorie è

coronata da successo in quanto circa il 70% dei coercer hanno raggiunto tutti o la maggior

parte dei loro obiettivi. Non sempre i coercer sono Stati ma, sempre più spesso, essi sono

anche soggetti non statali; nel caso in cui sono Stati essi sono normalmente più deboli dei

target, spostando la conflittualità sul piano asimmetrico, in questo caso utilizzando delle

pressioni demografiche pianificate (Greenhill, 2010).

19

La seguente tabella è presa da un articolo della Greenhill del 2010, in cui vengono

identificati 34 casi di “strategic engineerd migration9”.

Tabella 2 – Le migrazioni provocate per fini strategici

Year Challenger/

Coercer Principal Target(s)

Principal Objective(s)

Outcome

1989-90s Vietnam (O) EC, United

States Political-diplomatic

recognition; aid Success

1990-92 Saudi Arabia (G) Yemen Change position on Gulf War/Iraq

Failure

1990s- Israel (AP/O) Palestinians Relinquish claims

on Jerusalem Failure (so

far)

1991-92 United States (O) Israel Stop settlements

in Occupied Territories

Partial Success

1990-91 Albania (G) Italy Food aid, financial

credits & other assist.

Success

1991 Albania (G) Italy EC Financial aid Success

1990-94 Albania (G) Greece Financial aid Success

1991 Poland (G,/AP) EC, United

States Debt relief; financial aid

Indeterminate

1990 Ethiopia (G) Israel Monetary payoff Success

1991 Turkey (O) United States Humanitarian-

military intervention

Success

1992-94 Jean-Bertrand Aristide (AP)

United States Return to power; US military int.

Success

1992-95 Bosniaks (G/AP) UN Security

Council

Troop presence; air evacuation

Partial Success

1994 Poland (O) Germany Monetary payoff Success

1994 Cuba (G) United States Regularized

immigration, etc. Success

mid 90s Zaire (O) Largely US, France and

Belgium

Political-diplomatic recognition, aid

Success

1995 Libya (AP/O) Egypt

Lifting of sanctions; shift in

policy towards Palestinians

Failure

mid 90s North Korea (G) China Financial aid,

political support Success

9 La Greenhill definisce gli “strategic engineered movements” come movimenti di popolazione attraverso i confini che sono artificialmente creati o manipolati con l’obiettivo di produrre concessioni politiche, militari o economiche da uno o più Stati target.

20

1997 Albania (G) Italy Military

intervention Success

1998 Turkey (G) Italy Support/Punishme

nt re: EU bid Indeterm.

1998-99 Kosovar Albanians

(AP) NATO

Military aid, intervention

Success

1998-99 FRY (G)

NATO, Espana,

Germany, Greece and

Italy

Deterrence, then compellence

Failure

1998-99 Macedonia I (O) NATO Financial aid Success

1999 Macedonia II (O) NATO Financial aid Success

2001-03 Nauru (O) Australia Financial aid Success

2002 Belarus (AP) EU Diplomatic

recognition; aid Failure

2002-05 Activists/NGO network (AP)

China Policy shift on NK;

regime collapse Failure

2002-05 Activists/NGO network (AP)

South Korea Policy shift on NK;

regime collapse Failure

2002-06 North Korea (NK)

(G) China

Continued diplomatic support

& aid Success

2004 Nauru (O) Australia Financial aid Success

2004 Haiti (G) United States Military assistance Failure

2004 Belarus (AP) EU Financial aid Failure

2004 Libya (AP) EU Lifting of sanctions Success

2004-05 Chad (G) UN Security

Council Military/political

intervention Indeterminate

2006

Libya (AP/O) EU Financial aid Partial

Success Tratto da K. M. Greenhill, Weapons of Mass Migration (2010). G = Generator; AP = Agent

Provocateur; O = Opportunist; SR = Short Run; LR = Long Run.

21

1.2 Il nesso crisi migratoria-sicurezza ed il concetto di sicurezza migratoria

A nostro avviso sia gli studi di Weiner che della Greenhill affrontano una parte del

dilemma della sicurezza migratoria, ma mancano di cogliere le novità intercorse dopo

l’esplosione delle primavere arabe, il collasso della statualità in Africa, la destrutturazione

del Medio Oriente, il proliferare dei failed states, l’emersione dello Stato Islamico e il

dilagare del gangster-jihadismo in un’ampia area del Sahel. Riteniamo che oggi, in primo

luogo, per poter correttamente inquadrare il fenomeno della sicurezza migratoria

dobbiamo prestare attenzione ed analizzare tre differenti dimensioni geografiche: Paesi di

origine, Paesi di transito e Paesi di destinazione. Questa tripartizione geografica è

riassunta nel seguente schema:

Livello geografico

Definizione Descrizione Rischi per la sicurezza

Sicurezza

migratoria nei

Paesi d’origine

Il livello della sicurezza

interna negli Stati di origine

che può fungere da push

factor dei flussi migratori,

determinandone tempi e

quantità.

Guerre o conflitti interni,

Stock di IDPs, presenza

di proto-stati jihadisti,

livello della protezione

degli sfollati ed IDP;

Sistematica violazione

dei diritti dell’uomo;

sicurezza economica ed

alimentare.

Il livello dei vari tipi di violenza

ed insicurezza nei Paesi di

origine determina quantità e

velocità dei flussi, nonché

attiva in occidente i

meccanismi di protezione

umanitaria.

La direzione geografica dei

flussi non è invece

direttamente collegata

all’insicurezza dei Paesi

d’origine ma ad altre variabili

(geografia, rapporti politici,

affinità culturali, politiche di

attrazione, presenza di campi

profughi gestiti da OI etc.)

22

Sicurezza

migratoria nei

Paesi di transito

Il livello della sicurezza

lungo le rotte e gli Stati dei

Paesi di transito.

Ruolo della criminalità

organizzata e delle

organizzazioni di

trafficking e smuggling;

politiche di accoglienza

dei Paesi di transito e

possibilità di

concessione dello status

di rifugiato; presenza e

capacità dell’UNHCR

nel gestire i campi

profughi;

attraversamento di aree

controllata da formazioni

jihadiste

Le modalità del viaggio e

l’attraversamento di aree di

conflitto o fuori dal controllo

degli Stati, le modalità di

attraversamento dei confini, la

sicurezza umana dei migranti

e le forme di schiavitù, il ruolo

della criminalità organizzata, i

meccanismi finanziari, la

commistione con i flussi

jihadisti, il pagamento di tasse

ad organizzazioni jihadiste, il

livello di corruzione delle

autorità dei Paesi di transito

sono alcuni dei fattori che

influenzano in maniera

determinante la qualità dei

flussi ed il loro maggiore o

minore rischio per la

sicurezza.

Sicurezza

migratoria nei

Paesi di arrivo

Il livello della sicurezza

interna degli Stati di arrivo

dei flussi.

Qui i flussi in arrivo si

mescolano con le

questioni già esistenti di

homeland security o

urban security connesse

ai fenomeni migratori

La radicalizzazione delle

comunità delle diaspore, la

presenza di organizzazioni

criminali che

gestiscono/finanziano i flussi

migratori, l’azione di

movimenti xenofobi, le

strategie di inclusione e di

integrazione, le capacità di

screening dei flussi e la

gestione dei rimpatri per i non

aventi diritto

Il nostro approccio al problema della sicurezza migratoria si basa sulla distinzione tra

tre livelli di carattere geografico / funzionale, distinguendo tra Paesi di provenienza,

transito e destinazione. Tale distinzione, che riteniamo importante al fine di derivare le

varie dimensioni della sicurezza, è però una divisione che va costantemente tenuta

aggiornata in quanto i ruoli e le collocazioni dei vari Paesi nella filiera migratoria cambiano

e si mescolano, anche rapidamente.

23

Difatti, la distinzione tra Paesi di transito e Paesi di destinazione è spesso una distinzione

speciosa, in quanto molti Paesi di transito potrebbero essere considerati, rispetto ai

parametri di sicurezza ed economici, come safe third countries valide alternative alla

situazione di conflitto o grave violazione dei diritti umani. Come, ad esempio, la Turchia lo

è per i siriani, per i somali o per gli afghani. Così come, anche i Paesi di destinazione e di

immigrazione possono divenire, al mutare delle condizioni politiche, sociali ed

economiche, Paesi di transito. Limitandoci alla rotta balcanica, questo è stato il caso della

Grecia e della Turchia. Interessante il caso della Grecia, divenuto Paese di attrazione di

immigrazione nel contesto del crollo dei regimi comunisti, allargando successivamente il

bacino di immigrazione al mondo mussulmano e all’area medio-orientale e asiatica e

divenendo, dopo il crollo economico del 2007, il principale Paese di transito ed esportatore

di immigrazione irregolare verso l’Europa. In meno di un decennio la Grecia è di fatto

divenuta da principale Paese di attrazione di immigrati da un’ampissima regione del

pianeta a principale snodo di transito delle migrazioni illegali verso l’Europa.

Detto questo, procediamo con una breve descrizione di quali sono gli aspetti della

sicurezza che attengono a ciascun livello.

Il primo livello, quello connesso alla sicurezza interna, si concentra sui rischi, per la

stabilità sociale e per l’ordine pubblico interno, connessi a rapidi, enormi, illegali e non

pianificati flussi di popolazioni straniere in arrivo. Qui l’azione chiave è quella dello

screening dei flussi, la capacità cioè di identificare velocemente i soggetti pericolosi

socialmente, quelli già radicalizzati o a rischio radicalizzazione, quelli che hanno

esperienze paramilitari, quelli che sono collegati ad organizzazioni criminali e che

hanno contratto debiti con esse per potere finanziare il loro viaggio verso l’Europa. La

seconda dimensione è invece quella dell’integrazione, legata cioè alla necessità di

costruire dei meccanismi di adattamento delle diverse culture e identità dei migranti alla

società ricevente, sia sul piano individuale che di gruppo. Questa è una sfida

estremamente complessa e di lungo periodo, dagli esiti incerti10 e che consiste di patti

sociali che prevedano quali siano i diritti e gli obblighi delle nuove comunità straniere e

le modalità del loro accesso ai servizi sociali e al welfare.

10 Ciò è particolarmente evidente nei Paesi dell’Unione Europea che per primi hanno avviato la costruzione di società multiculturali basate sull’integrazione di culture ed identità differenti, come Germania, Francia, Belgio, Svezia e Gran Bretagna. Nel 2010 i capi di governo di Francia, Gran Bretagna e Germania hanno tutti e tre dichiarato, indipendentemente e pubblicamente il fallimento del modello multiculturale nei loro rispettivi Paesi. Sul piano scientifico, la crisi del multiculturalismo in Europa è stata affrontata, tra gli altri, da Rita Chin, (Chin, 2017).

24

Ovviamente la mancata integrazione costituisce la base per la nascita di nuovi problemi

di sicurezza all’interno della società di accoglienza. È importante ribadire tuttavia che

una buona integrazione è possibile a partire da flussi d’immigrazione che sono stati resi

sicuri, ossia flussi che sono già stati filtrati lungo il percorso di transito,

all’attraversamento dei confini e nel successivo screening di sicurezza dopo l’arrivo, che

dovrebbe filtrare i soggetti pericolosi da un punto di vista di sicurezza da quelli che non

lo sono. Se ciò non avviene, anche per l’impossibilità di gestire quantità enormi di

persone, e prevalgono flussi anarchici e dalla ignota natura, il rischio di futuri fallimenti

dei processi d’integrazione diviene altissimo, aumentando ulteriormente il circuito della

mancata integrazione e la criminalità. Allo stesso tempo, è ben noto e studiato che

esiste una diretta connessione tra criminalità, radicalizzazione e terrorismo (Neuman,

2016), per cui la questione dell’integrazione e della mancata integrazione e le condizioni

a cui esse avvengono rappresenteranno la frontiera delle future sfide per la sicurezza

migratoria interna.

Il secondo livello, quello della sicurezza dei flussi, si concentra invece sui Paesi di

transito, che si trovano tra i Paesi di origine e i Paesi di destinazione. Questo livello di

minacce alla sicurezza è rappresentato dal fatto che la quasi totalità delle rotte terrestri

che alimentano le rotte marittime attraversano aree spesso instabili, non governate,

caratterizzate da guerre civili e da una serie di altri problemi di sicurezza come la

criminalità organizzata, la pirateria, la guerriglia, o il terrorismo. In particolare, fonte di

preoccupazione è il progressivo spostamento verso il business del traffico di esseri

umani di numerosi altri settori criminali, ed in particolare di rami importanti della galassia

jihadista e dello stato islamico, producendo la nuova realtà ibrida del gangster-

jihadismo. Principale preoccupazione di sicurezza di questo livello è la dimensione delle

royalty finanziarie che l’industria delle migrazioni illegali produce verso il mondo in

grande crescita delle organizzazioni criminali e terroristiche transnazionali. A questa

dimensione afferisce anche la questione drammatica della sicurezza umana dei

migranti e la lotta alle forme più odiose di traffico contro la volontà delle persone come

la riduzione in schiavitù, la prostituzione forzosa, il traffico di organi e il reclutamento dei

migranti nelle organizzazioni terroristiche e criminali. Tutte problematiche che sono

presenti sia nella rotta attraverso il Mediterraneo centrale che attraverso la rotta

balcanica. Un aspetto particolare della sicurezza di transito è rappresentata dal fatto

che molti Paesi interessati da flussi massicci di migranti, prima o poi tendono a divenire

25

Paesi di transito e non Paesi di destinazione, trasformando i ruoli e inserendo nuove

dimensioni di sicurezza/insicurezza nei flussi.

Il terzo livello della sicurezza migratoria è quello che studia la sicurezza nei Paesi di

origine, ricercando le cause di instabilità e insicurezza che possono aver originato o

concorso ad originare i flussi, cercando forme di assistenza o stabilizzazione con gli

Stati di partenza per ridurre le partenze. Un problema che può ovviamente essere

affrontato riducendo i conflitti, la loro letalità. La sicurezza e la sostenibilità socio-

economica dei campi profughi nei Paesi in conflitto fa parte di questo livello, così come

le attività di crisis-management. Spesso però, le missioni militari, di polizia, incluse

quelle post-conflict non hanno nel loro mandato o nel loro obiettivo politico-strategico

quello di creare le condizioni di sicurezza economica interna che impediscono la

partenza di flussi incontrollati. Lo studio delle cause di insicurezza nei Paesi di origine,

come push factors, è importante da questo punto di vista per due motivi. Da un lato

consente di programmare interventi che mirino a ridurne l’effetto, dall’altra consentono

di separare i push factors di natura militare/conflittuale da quelli di natura economica. È

difatti ben noto come le motivazioni che spingono a migrare anche dai Paesi in guerra

sono di carattere ibrido e assieme alla preoccupazione per la propria vita in un contesto

di conflitto, sempre più forti appare essere – nel mondo economicizzato delle migrazioni

contemporanee – la dimensione economica dei flussi.

Ovviamente la divisione in tre campi della sicurezza migratoria risponde

prevalentemente a dei bisogni descrittivi di studio e di analisi del fenomeno mentre un

approccio strategico deve essere sviluppato non a compartimenti stagni ma in maniera

integrata. La principale difficoltà in questo senso è quella di mettere in collaborazione le

strutture dello Stato che si occupano di sicurezza interna e quelle che si occupano di

sicurezza esterna. Ma questo è necessario in quanto le organizzazioni criminali trans-

nazionali che rappresentano l’infrastruttura del traffico dei migranti verso l’Europa si

muovono attraverso questi tre livelli, interagendo con gli Stati di origine, transito e arrivo,

divenendo un attore dalla forza para-statuale ma muovendosi in maniera asimmetrica e

irregolare. L’enorme flusso di migrazioni illegali verso l’Europa ha dato a questi attori

privatistici l’opportunità di integrare velocemente verticalmente le tre dimensioni della

sicurezza migratoria, aggiungendo un ulteriore livello di complessità transnazionale, che è

un dominio quasi esclusivo delle organizzazioni criminali, e dunque pone sfide

26

prevalentemente di law enforcement verso cui le politiche estere di sicurezza tradizionali

degli Stati non sono ben preparate.

La sfida della criminalità è ben nota agli Stati, anche se oggi essa è sicuramente più

complessa che in passato a causa della capacità della criminalità transnazionale di

aggredire Stati dalla sovranità sempre più debole e nominale. Una sfida con cui molti Stati

di transito si trovano, non solo per effetti della corruzione o per convenienza, ma perché

spesso non hanno la forza di contrastare il fenomeno e da una contrapposizione frontale

potrebbe derivare una minaccia all’esistenza stessa di essi che, senza il potere di

controllare l’accesso al proprio territorio, perdono la propria legittimità e motivazione

d’esistere. Non bisogna infatti dimenticare che “l’immigrazione illegale pone una sfida alle

autorità statuali nel momento in cui comporta la mobilitazione di vaste risorse economiche

che erodono la capacità di governo e rappresentano delle minacce effettive alla sovranità

nazionale”11.

L’accesso incontrollato, illegale, massiccio e continuativo nel territorio di un Paese di

cittadini stranieri incrina quel rapporto giuridico esclusivo a tre che esiste tra Stato, popolo

e territorio e che è alla base della legittimità costituzionale di ogni Stato sovrano, espressa

attraverso il meccanismo della cittadinanza12.

L’abilità o incapacità di uno Stato di controllare i suoi confini e regolare l’accesso dei

non cittadini al territorio nazionale è comunemente ritenuta la condizione sine qua non per

l’esistenza di uno Stato. Oltre ad essere una condizione necessaria per poter continuare

ad essere uno Stato, tale capacità di controllare l’entrata e l’uscita delle persone dal

proprio territorio è anche uno dei diritti fondamentali attribuiti agli Stati dal diritto

internazionale e ne rappresenta uno dei principi cardini. Il principio che “il controllo di chi

entra e rimane nel territorio di uno Stato è parte integrante della sovranità degli Stati” è

comunemente un principio base del diritto internazionale riconosciuto dalla stessa

Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM).

Ovviamente la percezione della sicurezza migratoria cambia da Paese a Paese a seconda

di quale ruolo nella catena migratoria esso occupa, ossia in quale dei tre livelli che

abbiamo sopra descritto si trova. In linea di massima i Paesi di transito hanno degli

interessi in comune, al di là delle differenze anche politiche, ed essi sono solitamente

11 IOM, World Migration, (2003). 12 Vedi, G. P. Freeman, The decline of Sovereignty? Politics and immigration restrictions in

liberal States in C. Jopke (a cura di), Challange to the Nation-State, Oxford University Press, 1998, e M. N. Shaw, International Law, Cambridge University Press, (1997), Global Commission on International Migration, International Organisation for Migration, (2005).

27

accomunati dal consentire i flussi senza però creare stabili obblighi giuridici e impegni, in

maniera da consentire in qualsiasi momento l’abbandono del Paese da un altro confine.

È tuttavia chiaro che, seppure frazionata in numerosi interessi nazionali spesso

contrastanti, nessuno Stato può realizzare in solitudine la propria sicurezza migratoria e la

governance del fenomeno resta complessivamente una questione multilaterale e questo

aumenta la sua complessità.

28

1.3 La differente natura delle crisi migratorie europee odierne

I flussi migratori verso l’Europa non rappresentano un fatto nuovo, ma totalmente

nuove sono le modalità, la magnitudine e le rotte con cui essi avvengono negli ultimi anni

e gli atteggiamenti strategici adottati dai Paesi di origine e transito.

Dovendo necessariamente partire da una definizione di crisi migratoria, adottiamo

nel presente studio la seguente descrizione:

“Una crisi migratoria è rappresentata da un afflusso rapido, intenso e in

violazione alle norme sull’immigrazione e ai meccanismi di circolazione previsti

da Schengen di masse di persone verso i confini europei. Affinché dei flussi

siano classificati come “crisi migratoria” essi devono essere caratterizzati da

uno o più delle seguenti dimensioni: multi-nazionalità (persone provenienti da

più continenti); carattere ibrido (migranti economici e asylum seekers);

commistione con attori dell’insicurezza le tematiche di sicurezza (criminalità

organizzata transnazionale, terrorismo, radicalizzazione, jihadismo, foreign

fighters); estrema difficoltà di screening selettivi volti a ridurre i rischi per la

sicurezza; inadeguatezza delle strutture di protezione civile, giudiziarie e di

polizia di gestire e governare con basso rischio i flussi; eccessivi oneri

economici per gli Stati di destinazione”

La posizione di questa ricerca è che non sono i flussi migratori in quanto tali o il concetto

di migrazione in sé stesso a rappresentare una crisi per i Paesi europei, ma le modalità

particolari con cui dei flussi migratori possono divenire, per la presenza dei fattori sopra

identificati nella definizione, delle crisi migratorie e, pertanto, esercitare delle pressioni

demografiche portatrici di numerosi elementi di insicurezza. È dunque fondamentale

distinguere tra i normali fisiologici flussi migratori e le crisi migratorie, che ne

rappresentano una patologia. La differenza dei flussi migratori odierni rispetto a quelli

storici (l’Europa ha comunque una storia piuttosto recente di flussi migratori in quanto fino

agli anni sessanta essi erano prevalentemente assenti fino a quando iniziarono ad essere

alimentati sia dai flussi della decolonizzazione che da quelli dei guest-arbeiter attratti dalla

ripresa economica post-bellica) è legata a un sistema internazionale che è totalmente

diverso da quello degli anni 70 e 80, da quello post 1989, ma anche rispetto a quello post

9/11. Il mix del contesto odierno in cui si sviluppano i flussi migratori è segnato da un

mondo destabilizzato della globalizzazione, caratterizzato da un forte deterioramento della

situazione internazionale, da una perdurante crisi economica, dall’esplosione del

fenomeno della radicalizzazione di parte delle diaspore in Europa e dall’allarme terrorismo,

29

dalla creazione di un proto-stato islamico jihadista in Medio Oriente e Nord Africa, dal

disallineamento della Turchia rispetto alla comunità euro-atlantica, dall’apertura di un

complesso contenzioso geopolitico con la Russia che ha visto anche l’annessione della

Crimea e l’avvio delle sanzioni europee, l’esplosione delle primavere arabe, e le guerre

civili libiche, siriane ed irachena collegate tra di loro dal disegno di stato jihadista

transnazionale. Questo

complesso mosaico di

instabilità che investe

Africa, Medio Oriente ed

Eurasia preme sul Mare

Mediterraneo, facendolo

divenire un mare verso

cui si scaricano i conflitti

e le tensioni di molte

regioni che sono andate

incontro a un processo

di destrutturazione, per

motivi di conflitto, ma

anche per fallimento dei

modelli politico sociali e delle leadership post-coloniali.

È in questo contesto, diverso da ogni altro precedente dal secondo dopo guerra, che

le migrazioni verso l’Europa cambiano la propria natura e il proprio significato, si

differenziano enormemente da quelle precedenti, la cui natura era prevalentemente

economica e sociale. Mescolandosi con le principali questioni asimmetriche aperte e

svolgendosi in un contesto di instabilità internazionale, la possibilità che i flussi migratori

odierni possano essere insicuri è certamente molto più elevata che negli ultimi decenni.

Per questi motivi ogni strategia di prevenzione della crisi migratoria, di contrasto alla

sua criminalizzazione e strumentalizzazione deve essere ripensata su nuove basi che non

si limitino al solo “governo” del fenomeno, ma anche alla sua riduzione quantitativa e alla

separazione della minacce per la sicurezza dai flussi. Questo vuol dire optare per una

politica di migrazioni sostenibile e sicura rispetto ad una insostenibile e insicura.

Figura 1 Le tre rotte convergenti verso l’Italia da Africa Occidentale,

Africa Orientale ed Asia centrale

30

1.4 Descrizione del corridoio balcanico-anatolico verso l’Europa: un’analisi comparativa.

Il corridoio anatolico balcanico va inquadrato nel contesto dei tre altri corridoi di accesso

irregolare di migranti e richiedenti asilo verso l’Europa. La pressione migratoria verso

l’Europa, in continuo aumento da diversi anni, proviene da tre diverse direttrici continentali.

Dall’Africa (tanto occidentale quanto orientale), dal Medio Oriente e dall’Asia. Queste tre

macro-direttrici di pressione demografica verso l’Europa sono attratte da una serie di

fattori socio-economici e di stabilità presenti, pur con livelli diversi, in tutti i Paesi europei.

Alcuni di essi –

come la Germania,

l’Austria, l’Olanda, il

Belgio, i Paesi

scandinavi, la

Svizzera, la Francia

- rappresentano dei

Paesi con un

coefficiente di

attrazione molto

elevato, in particolare per il mix che queste società offrono tra welfare state e opportunità

occupazionali.

È importante considerare che i vari Paesi europei, pur facenti parte della stessa area

politica e di sviluppo economico, hanno assunto, con il dilagare della crisi, dei ruoli molto

differenziati. Se di fatto tutta l’Unione Europea è un enorme pull factor di attrazione dei

migranti e alcuni tra i Paesi sono dei target particolarmente ricercati, alcuni Paesi vengono

utilizzati prevalentemente per il transito verso questi target. Quello su cui però poco si

riflette è che vi sono 3 Paesi dell’Unione Europea Spagna, Grecia e Italia che hanno un

valore particolare nella divisione dei ruoli, che non è né quello di Paese di arrivo né quello

di Paese di transito. Bensì il ruolo che essi hanno assunto all’interno delle logiche

geopolitiche stratificatesi anno dopo anno nel sedimentarsi dei flussi e nell’esplosione

della crisi migratoria è più simile a quello di “Paesi trampolino”. È importante distinguere il

ruolo dei Paesi “trampolino” rispetto a quello di semplici “Paesi di transito”. Un Paese

trampolino deve avere alcune caratteristiche particolari: trovarsi innanzitutto alle frontiere

dell’Unione Europea, prossimo alle aree di crisi o di sottosviluppo da cui provengono i

flussi di migranti; avere possibilmente una frontiera marittima, le cui particolarità rendono

estremamente arduo il controllo dei confini senza la collaborazione dello Stato di partenza;

Figura 2 Il diverso peso delle migrazioni irregolare nelle tre principali rotte

d’accesso alla UE

31

essere all’interno dell’area Schengen e il suo territorio essere integrato in una rete di

scambi intra-europei con cui raggiungere rapidamente ogni destinazione desiderata.

I paesi trampolino hanno dunque un ruolo diverso e più strategico rispetto ai normali Paesi

di transito. Essi rappresentano la prima e più indifesa zona dello spazio di libera

circolazione europeo che può essere raggiunto da più continenti. Sono dunque dei Paesi

di transito per flussi trans-continentali la cui appetibilità per i migranti e per i trafficanti è

legata non a pull factors interni ma per il fatto di essere i più facili canali d’eccesso

all’Europa e al suo spazio giuridico-economico-sociale.

Tabella 3 Una rappresentazione di alcuni Paesi europei ed extra-europei della rotta anatolico-balcanica in funzione del loro ruolo nella crisi migratoria

Paese destinazione

prioritario

Paese di

destinazione

secondario

Paese di transito Paese

trampolino

Altri Paesi

scarsamente

interessati dalla

crisi migratoria

Germania, Svezia,

Danimarca, Olanda,

Belgio, Svizzera,

Lussemburgo, UK,

Turchia.

Austria,

Francia,

Ungheria, Croazia,

Slovenia, Austria,

Bulgaria, Serbia,

Turchia.

Grecia,

Italia,

Spagna

Polonia, Romania

Non deve sfuggire il fatto che il ruolo particolare di questi tre Paesi trampolino

europei, Grecia, Italia e Spagna è legato alla loro condizione geopolitica di “peninsularità”

e “marittimità”: la penisola iberica, la penisola italica e la penisola balcanica sono difatti le

tre penisole europee che si inseriscono nel Mare Mediterraneo e avvicinano le coste

dell’Europa alle coste Africane e alla penisola anatolica; quest’ultima rappresenta a sua

volta l’estensione nel Mediterraneo del Medio Oriente e dell’Asia, mettendo di fatto in

circolare comunicazione demografica - attraverso il processo di migrazione verso l’Europa

– ben tre continenti.

Una specificazione va fatta sul ruolo di frontiera migratoria, che è un concetto

particolare. Solitamente sono Paesi di frontiera quelli che non possono, o solo difficilmente

riescono, a sottrarsi al ruolo assegnato dalla loro condizione geografica e geopolitica. Nel

caso delle crisi migratorie, abbiamo osservato come esista una sostanziale differenza

nelle capacità di controllo tra le frontiere marittime e le frontiere terrestri. Le frontiere

marittime, diversamente da quelle terrestri, sono molto più difficili da controllare a causa

della peculiarità dell’ambiente marittimo (che pone notevoli rischi dal punto di vista

operativo e umanitario), ma anche dal punto di vista politico e giuridico. Tra due Paesi che

condividono una frontiera comune non vi sono normalmente spazi geopolitici che possono

essere sfruttati dai trafficanti di uomini, dagli stessi migranti o dai Paesi contermini per

32

aggirare e mettere in difficoltà le politiche restrittive degli accesi dei Paesi su cui si esercita

la pressione demografica. Questo vuol dire che la gestione della massa di migranti

irregolari e dell’eventuale flusso di pressione demografica resta un affare bilaterale. Se un

Paese chiude le proprie frontiere terrestri (e per quanto riguarda le frontiere terrestri

questo è in molti casi materialmente possibile anche se oneroso e complesso) il flusso che

preme sul confine rimane in carico al Paese di provenienza, che si trova a dover gestire il

problema sul suo territorio. Questo vuole dire che ogni politica di chiusura o di apertura dei

confini territoriali tra due Paesi confinanti tende ad avere un carattere bilaterale e

transfrontaliero, normalmente concordato. Tranne nei casi di manifesto uso dei flussi

migratori con finalità di produrre una minaccia di natura asimmetrica, il flusso migratorio

attraverso una regione tende, nel medio termine, a mettere i vari Paesi di transito in una

modalità collaborativa, ovverosia sincronizzata: o tutti orientati ad una politica di “laissez

faire” e di tolleranza dei transiti irregolari o tutti orientati verso una politica restrittiva e di

respingimento dei flussi. La questione dei confini marittimi è invece differente. Tra i Paesi

confinanti separati da una frontiera marittima vi sono le acque internazionali che in realtà

non pongono la questione migratoria solamente in un rapporto bilaterale tra Paesi di uscita

e Paese di entrata del flusso, bensì hanno la funzione di internazionalizzare il flusso. Una

volta uscito dalle acque territoriali il flusso migratorio proveniente da un Paese viene difatti

internazionalizzato, perdendo il carattere transfrontaliero insito nel rapporto bilaterale

terrestre. L’internazionalizzazione del flusso va intesa in due sensi: da un lato nel senso

che una volta che esso entra nelle acque internazionali l’accesso al Paese di destinazione

non avviene più dal territorio dello stato contiguo, ma da una zona speciale internazionale

che è soggetta a un proprio stato giuridico, in cui vigono propri obblighi e che pone delle

impellenti necessità di salvataggio umanitario, spesso sfruttate ad arte dai trafficanti.

Di fatto, l’accesso alle acque territoriali di un Paese avviene dalle acque internazionali (e

non direttamente dal territorio di un Paese confinante). Questo rende estremamente

difficile, se non impossibile in normali condizioni di pace, l’esercizio del blocco delle

frontiere marittime rispetto alle frontiere terrestri, che possono essere protette con più o

meno complesse opere di recinzione e vigilanza, in quanto la massa umana verrebbe

respinta non nel Paese di provenienza ma in un ambiente ostile e fuori da ogni sovranità e

responsabilità. L’altro aspetto del fattore internazionalizzazione del dominio marittimo è

relativo al fatto che una volta che un flusso migratorio ha accesso alle acque

internazionali, esso ha – diversamente dalle frontiere terrestri che il flusso percorre in

maniera consequenziale – numerose opzioni di Paesi target in cui dirigersi, non solo nei

Paesi limitrofi.

33

Anzi, spesso l’accesso alle acque internazionali rende possibili attraversamenti di migliaia

di chilometri e passaggi attraverso i continenti che, lungo la via terrestre, richiederebbero

decine di passaggi di frontiera e – con essi numerosi passaggi da un’organizzazione

criminale all’altra. Tipico è il caso dell’Italia, Paese verso cui approdano flussi migratori

marittimi provenienti non solo dalla Libia ma anche dalla Tunisia, dall’Egitto, dalla Turchia,

dalla Grecia.

Le tre rotte migratorie peninsulari verso l’Europa hanno ciascuna una propria

peculiarità. Quella iberica è la più marginale delle tre in quanto rappresenta lo sbocco

sostanzialmente della sola rotta dell’Africa Occidentale, attraverso Marocco e Algeria.

Quella italica è baricentrica rispetto a tutto il continente africano e verso di essa si

concentrano i flussi tanto dell’Africa Centrale, Occidentale ed Orientale. Quella balcanica è

forse la più diversificate delle tre rotte verso l’Europa ed è in grado di convogliare tanto il

flusso asiatico, demograficamente estremamente rilevante, quella medio-orientale e, in

prospettiva, quello dell’Africa

Orientale, attraverso il Sinai o

la stessa penisola Arabica.

La rotta anatolico-balcanica è

l’unica rotta europea

peninsulare delle 3 che non ha

solo una dimensione

mediterranea (e del Sahel che

grava sempre più sul

Mediterraneo), ma è

chiaramente – per effetto della

contiguità con la penisola

anatolica, un collegamento

euro-asiatico. Difatti, uno degli

aspetti della crisi migratoria del 2015-2016 è stato quello di “allungare” la rotta balcanica

fino all’Asia centrale, estendendo fino al Pakistan e Afghanistan l’elenco dei Paesi che

producono un numero estremamente elevato di migranti verso l’Europa. Secondo dati

della UE, nel 2015 sono stati 213.000 gli afghani arrivati in Europa, di cui 176.900 hanno

fatto richiesta di asilo. Ciò nonostante il fatto che la percentuale di approvazione della

domanda di asilo politico degli afghani non è così elevata come per altri Paesi, quali la

Siria, l’Iraq o l’Eritrea, (nel 2015 superava il 40% del totale) mentre nel caso dei Pachistani

Figura 3 Le tre porte d'accesso alla zona Schengen dell'Unione

Europea

34

o dei cittadini del Bangladesh stiamo chiaramente parlando di una migrazione di carattere

prevalentemente economico. Ciò implica che nella rotta balcanica transitano una quota

importante, stimabile in centinaia di migliaia di persone, di migranti che non hanno diritto

all’asilo ma che non vengono filtrati dai Paesi lungo la rotta. Un’altra particolarità della rotta

balcanica è rappresentata dal fatto che i migranti, siano essi profughi o migranti

economici, entrano in Europa attraverso due Paesi come la Turchia e la Grecia giudicabili

sostanzialmente sicuri per i migranti, entrambi membri della NATO e uno anche membro

dell’Unione Europea, mentre l’altro è Paese candidato. La rotta balcanica - diversamente

da quella italiana ove il principale Paese di partenza è la Libia - è sostanzialmente una

rotta euro-asiatica che transita attraverso un gruppo di Paesi i cui standard sociali, politici

ed economici sono significativamente più elevati rispetto ai Paesi di provenienza e che

possono essere considerati sicuri.

Come nel caso di molte altre nazionalità che provengono da teatri di guerra o di

conflitto, la massa dei richiedenti asilo afghani non proviene direttamente dall’Afghanistan

ma è transitata da due importanti Paesi di transito come Iran e Turchia e, in alcuni casi,

dal vicino Pakistan prima di entrare in Iran. Se si considera che in Iran e Pakistan sono

presenti da decenni ormai vaste comunità di profughi afghani (oltre 2.5 milioni Iran e 2,9

milioni per il Pakistan) e che in Afghanistan almeno 1.1 milione di persone hanno lo status

di Internally Displeaced Persons (IDPs), è chiaro che la questione dei profughi afghani

rischia di essere il principale stock di alimentazione della rotta anatolico balcanica nei

prossimi anni. Per facilitare i rientri verso l’Afghanistan, numerosi Paesi europei (come

Danimarca,

Finlandia, Francia,

Olanda, Svezia e

Gran Bretagna) e

la stessa UE

hanno negoziato

con il governo

afghano pacchetti

di aiuto e di

cooperazione allo

sviluppo

economico –

finanziario in

Figura 4 I Paesi che alimentano le tre rotte

35

cambio (con una significativa condizionalità) di programmi governativi di ritorno volontario.

La stessa Unione Europea ha sviluppato un programma di cooperazione per il periodo

2014 – 2020 con l’Afghanistan di 1.4 miliardi, la più rilevante cooperazione pubblica di cui

beneficia il Paese. Dopo la crisi migratoria del 2015 il budget degli aiuti europei è stato

ulteriormente elevato.

I dati degli sbarchi per il 2017 forniti da IOM dimostrano che circa il 50-60% degli arrivi via

mare nell’Unione Europea provengono dal corridoio italiano, un 20-30% circa dal corridoio

anatolico-balcanico e il restante dalla rotta iberica. Se si osservano le nazionalità che

provengono da ciascuna rotta si vede che l’Italia offre la maggiore differenziazione nella

composizione delle nazionalità, abbracciando tutta la gamma delle rotte provenienti dai tre

continenti. Normalmente lungo la rotta iberica mancano i migranti medio-orientali e asiatici

ed essa è la più marginale e regionalizzata delle tre. Nonostante sia per il momento bassa

la presenza di migranti provenienti dall’Africa nella rotta balcanica, non si può dire che

questi flussi siano

assenti, anzi negli

anni passati si è

assistito ad una

crescente tendenza

verso una maggiore

africanizzazione di

questa rotta. Ciò vuol

dire che in realtà la

rotta italica e la rotta

balcanica possono

essere considerate

come due rotte

alternative, che fanno

perno l’una sul

Mediterraneo

Centrale e sulla Libia, l’altra sul Mediterraneo-Orientale e sulla Turchia. Questo vuol dire

che al chiudersi di una delle due rotte una parte non stimabile ma non trascurabile dei

flussi saranno destinati a travasarsi verso l’altra delle due rotte, attraverso le

interconnessioni orizzontali che passano attraverso l’Egitto, la penisola arabica o le

sempre più frequenti ed economiche vie di collegamento verso Africa e Medio Oriente,

molte delle quali fanno perno sulla Turchia o sul Golfo.

Figura 5 Le rotte penisulari di accesso verso il Mediterraneo

36

Questa commistione tra le due rotte è ben evidente anche dagli sbarchi che avvengono

lungo le coste pugliesi e calabresi dove sbarcano le navi che provengono dalla Turchia o

dall’Egitto.

Ciò vuol dire che ogni duratura soluzione della crisi migratoria europea deve

affrontare parallelamente le due rotte migratorie e, in particolare, i rapporti con i due

principali Paesi sorgenti, la Turchia e la Libia.

37

CAPITOLO 2 - I SINGOLI PAESI DEL CORRIDOIO ANATOLICO-BALCANICO E LE POLITICHE DI GESTIONE DEI FLUSSI

Non tutti i Paesi europei hanno adottato una lista di safe countries, ossia una lista di

Paesi ritenuti sicuri per i propri cittadini e in cui anche i migranti, qualunque sia la natura

della loro migrazione, possono essere considerati relativamente sicuri da forme

sistematiche di oppressione, discriminazione e violenza. L’Italia, ad esempio, come in

generale i Paesi del Sud Europa esposti ai flussi migratori, non ha una tale lista, il che

presenta dei vantaggi e degli svantaggi. Molti Paesi europei l’hanno adottata e la stessa

Unione Europea, dopo la crisi migratoria del 2015, sta pensando di adottarne una. Se

prendiamo la lista dei safe countries che i 7 Paesi europei che hanno adottato tale

approccio hanno sviluppato, ci accorgiamo che pressoché tutti i Paesi del corridoio

balcanico, ad eccezione

della Turchia, sono

prevalentemente

considerati Paesi sicuri.

Ad essi si aggiunge

anche la Grecia che, in

quanto Paese

appartenente all’Unione

Europea, va

automaticamente

considerato come

Paese sicuro.

Anche l’accordo tra Unione Europea e Turchia, ancorché non formalizzato nella

espansione della lista dei Paesi sicuri, si basa sul presupposto di considerare il Paese

come sicuro per quanto riguarda i migranti di Paesi terzi residenti (escludendo dunque le

questioni politiche interne che riguardano i soli cittadini turchi).

Il fatto che la maggioranza dei Paesi della rotta balcanica sono classificabili come

Paesi di origine sicuri caratterizza in modo particolare questa rotta rispetto a quella del

Mediterraneo centrale ove l’identificazione di Paesi sicuri per i propri cittadini si basa su

criteri molto più deboli e discutibili rispetto al relativo consensus che esiste per la rotta

anatolico-balcanica. Ovviamente, la designazione dei Paesi del corridoio-anatolico

balcanico come “safe country of origin” comporta che i Paesi dell’Unione Europea possono

decidere di rigettare le domande da parte dei cittadini dei Paesi del corridoio come

Figura 6 I Paesi della rotta balcanica considerati sicuri da alcuni Paesi

Europei

38

infondate, in quanto siamo in assenza di un sistematico rischio di persecuzione o grave

minaccia alla vita e alle cose. Ciò potrebbe sembrare una questione marginale in quanto

normalmente non vi dovrebbero essere richiedenti asilo provenienti dai Paesi della regione

balcanica ma, come dimostrato dalla crisi migratoria degli ultimi anni, il flusso attraverso la

regione è un flusso misto, che unisce migranti economici extra UE, popolazioni displaced

da vari conflitti e flussi migratori provenienti dalla stessa regione balcanica.

Nei seguenti paragrafi abbiamo selezionato alcuni Paesi appartenenti al corridoio

anatolico-balcanico, che può anche essere descritto come il corridoio del Mediterraneo

Orientale. L’attenzione principale è stata rivolta a Grecia e Turchia, due Paesi chiave di

questo corridoio, membri della NATO ma divisi dall’Egeo oltre che da uno storico conflitto

che la crisi migratoria ha rischiato di esacerbare. Non a caso la NATO ha avviato una

propria missione marittima militare proprio in queste acque, Standing Maritime Group 2

(SNMG2), per assistere i due Paesi a gestire la crisi migratoria, ma con un chiaro intento

di confidence building tra i membri della sua Alleanza.

Gli altri Paesi di questa rotta analizzati sono Macedonia e Ungheria, in quanto

rappresentano i due snodi principali di uscita e di reingresso dei flussi di migranti nell’area

Schengen.

Infine, è stata dedicata dell’attenzione anche all’Albania, Paese non coinvolto nella

rotta balcanica ma che, secondi alcuni, potrebbe essere investito da un flusso di migranti

irregolari qualora una nuova crisi dovesse emergere e il corridoio balcanico dovesse

essere chiuso.

39

2.1. I Paesi di Destinazione

2.1.1. La Germania

Un segnale che il corridoio balcanico non nasce con la crisi migratoria del 2014 –

2015, ma è ad essa pre-esistente è dimostrato dal fatto che la Germania, ed in parte

l’Austria, hanno dovuto far fronte, negli anni precedenti alla crisi migratoria a un massiccio

afflusso di pretendenti asylum seeker dalla regione balcanica. Sono decine di migliaia le

persone provenienti da Albania, Kosovo e in parte Serbia che hanno approfittato del

corridoio migratorio attraverso la regione per unirsi ad esso e sottoporre, prevalentemente

in Germania, domanda di rifugiato.

Ciò nella quasi

certezza che essa

sarebbe stata rifiutata

ma che avrebbe

comunque consentito,

nelle more della

definizione dello

status, di beneficiare

dei significativi

contributi sociali e di

accoglienza per quasi

un anno. Particolarmente abusata è stata la possibilità di usufruire di trattamenti medici

una volta depositata la richiesta di asilo politico. Per far fronte a questa emergenza, che

aveva portato oltre 1500 richieste di asilo politico al mese dal Kosovo in Germania, il

governo tedesco ha provveduto ad inserire il Kosovo nella sua lista dei Paesi sicuri e

avviare un massiccio processo di deportazione degli asilum seeker di origine balcanica ed

ha ridotto a due settimane il tempo massimo per la decisione amministrativa.

Le misure hanno visto passare ad oltre il 99% il tasso di respingimento delle richieste

di asilo politico per i kosovari, provocando una caduta a non più di 100 al mese del

numero di richieste. Buona parte del transito delle persone avvenuto lungo la rotta

balcanica era mosso da organizzazioni criminali specializzate in questo tipo di servizi

Figura 7 L'esplosione delle richieste di asilo politico in Germania

40

illegali a pagamento (circa 3.000 euro fino all’arrivo a destinazione nella meta finale nella

UE13).

Nel 2015, l’anno del grande arrivo dei siriani, a fronte di quasi 300.000 siriani

registrati come profughi in Germania, si registravano 54.000 richiedenti asilo dall’Albania e

37.000 dal Kosovo. Queste due nazionalità si posizionavano al secondo e terzo posto,

superando il numero degli iracheni e degli afgani14. Nel 2016 il governo tedesco ha deciso

di avviare una politica drastica di rimpatri, motivandola con la necessità di fare spazio ai

profughi siriani e di altre nazionalità realmente bisognose di protezione. A tale scopo è

stato utilizzato largamente il sistema delle deportazioni e quello degli incentivi economici

per il ritorno nei Paesi di origine. Questa politica ha inizialmente riguardato i migranti

provenienti dai Paesi dei Balcani, ma si è presto allargata anche ai Paesi dell’Africa o

dell’Asia. Tra questi è stato incluso anche l’Afghanistan

È importante comunque considerare che sia l’Austria che la Germania, due Paesi

chiave di destinazione della rotta anatolico-balcanica, hanno entrambi adottato il metodo

del listing dei “safe country of origin”, che comprende esattamente gli stessi Paesi. Nel

corso della crisi del 2015 – 2016, questa lista aveva come obiettivo quello di evitare che al

flusso di migranti dai Paesi extra-balcanici si unisse anche un flusso di migranti dai Paesi

balcanici.

La normativa tedesca sul diritto di asilo prevede che, nel caso in cui una richiesta di

asilo politico sia stata rifiutata dalle autorità, colui che l’ha presentata è obbligato a lasciare

il Paese entro 30 giorni. Se la domanda viene ritenuta “manifestatamente infondata” il

periodo per abbandonare il Paese si riduce ulteriormente a una settimana. A questo punto

il soggetto a cui è stato rifiutato lo status di rifugiato ha due opzioni: lasciare

volontariamente il Paese, usufruendo dei programmi per il rimpatrio (vedi sotto) o rimanere

non adempiendo all’obbligo di abbandonare il Paese. In questo secondo caso, il migrante

può essere rimpatriato forzosamente, con spese a suo carico e l’adozione di un entry ban

che gli impedisce di entrare legalmente in Germania e nella stessa UE per molti anni. I

tentativi di evitare il rimpatrio forzoso e rimanere in Germania senza un legale permesso

sono puniti con l’arresto e il rimpatrio nel Paese d’origine.

Per il momento il meccanismo delle deportazioni viene applicato forzosamente solo

nel caso di alcune nazionalità e di alcuni individui che hanno commesso crimini e che sono

considerati pericolosi, radicalizzati o rifiutano di cooperare con le autorità d’immigrazione

13 Vedi i resoconti dell’Operazione dell’Europol FALKO, svolta nel marzo 2015 e che ha portato a 77 arresti tra cittadini di Kosovo, Slovacchia Serbia, Bosnia-Herzegovina e Macedonia. Vedi “People trafficking ring cracked-down by Europol”, Deutsche Welle, 25.3.2015.

14 Majia Ristic, Albania, Kosovo top german 2015 asylum list, Balkan Insight 7.1.2016

41

tedesche per accertare la loro reale identità. Nel caso dei cittadini afghani, ad esempio,

pur prevedendo la legge l’opzione dei rimpatri forzati, fino ad oggi sono state rimpatriati

solo poche centinaia15 di soggetti, accompagnati forzosamente in Patria via aereo. Una

situazione che, tuttavia, ha suscitato accesi dibattiti e polemiche per via della ancora

difficile situazione post-bellica del Paese, la presenza di attività terroristiche e le

difficilissime condizioni economiche di vita. Al di là di questi casi specifici, il sistema

tedesco si basa prevalentemente sul meccanismo degli incentivi positivi, sia attraverso il

finanziamento di progetti di cooperazione con i Paesi di origine (de facto condizionati

all’accettazione della riammissione dei migranti respinti), sia con l’adozione di specifici

programmi finanziari per favorire la decisione di ritornare volontariamente nel Paese

d’origine.

Come incentivi ai ritorni volontari16 il governo Tedesco ha varato il programma

REAG/GARP “Reintegration and Emigration Program for Asylum-Seekers in Germany /

Government Assisted Repatriation Program”, finanziato dal governo federale tedesco e

gestito da IOM. Con questo programma i migranti sono assistiti nella pianificazione del

viaggio, nella copertura delle spese, se non ne hanno i mezzi, e nella predisposizione di

programmi di supporto finanziario per avviare attività economiche nei Paesi d’origine. Il

meccanismo prevede il pagamento dei titoli di viaggio da parte del Governo tedesco, 200

euro a persona come costi di viaggio e tra i 300 e i 500 euro come “start-up cash” per le

prime spese di reinserimento. Se la decisione di ritornare in Patria precede la decisione

del tribunale amministrativo (e la domanda di asilo viene ritirata) il migrante può applicare

per un ulteriore assistenza finanziaria (Starthilfeplus) di 1.200 euro a persona. Anche nel

caso in cui il richiedente asilo riceve una risposta negativa ma decide di rientrare nei

termini stabiliti nel Paese d’origine senza fare appello, può applicare al pacchetto

Starthilfeplus, per ottenere ulteriori 800 euro a persona.

A questo schema economico per finanziare il ritorno e i primi costi si possono poi

unire i finanziamenti che possono essere assegnati dai programmi europei ERIN

(European Reintegration Network) per formazione, ricerca, lavoro o avvio di piccole attività

economico – commerciali. Il programma ERIN prevede l’erogazione di servizi di

inserimento occupazionale del valore di circa 2.000 euro a migrante.

15 Sarah Marsh, Germany accused over illegal deportation of afghan asylum seeker, The guardian 5.12.2017. A fine 2017 il numero di afghani deportati dalla Germania in Afghanistan era di 282 da gennaio a giungo 2017 (contro 145 nello stesso periodo dell’anno precedente).

42

2.1.2. L’Austria

L’Austria rappresenta uno dei Paesi chiave per il controllo della rotta balcanica. È

stata Vienna, difatti, a chiudere la rotta dei rifugiati e richiedenti asilo provenienti dalla

Turchia nel febbraio 2016, invertendo il flusso dei Paesi balcanici e creando un effetto

domino di chiusura dei confini. La mossa di Vienna ha seguito quella del premier

ungherese Orban che aveva proceduto alla chiusura della frontiera tra Ungheria e Serbia

nel agosto 2016, divergendo il flusso verso la Croazia, Slovenia e Austria.

Nel febbraio 2017, a crisi migratoria posta sotto controllo, il ministro della Difesa

uscente – certamente complice una campagna elettorale giocatasi sui temi della crisi

migratoria – ha avanzato una proposta di cooperazione militare rafforzata tra i 16 Paesi

della rotta balcanica ossia Austria, Germania, i 4 di Visegrad (Polonia, Ungheria,

Repubblica Ceca, Slovacchia), Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Romania, Bulgaria,

Serbia, Macedonia, Grecia, Albania, Montenegro. Il progetto, di cui non si conoscono i

termini esatti né le reazioni politiche da parte dei vari Paesi che dovrebbero essersene

coinvolti, dovrebbe essere denominato “Balkan Frontier Defence Project” e dovrebbe

sostanzialmente basarsi su un’assistenza solidale alla protezione delle frontiere attraverso

l’impiego congiunto di forze militari a protezione dei confini dei Paesi del Sud. Ovviamente

tale proposta si basa su due presupposti: l’incapacità dei Paesi balcanici di controllare le

proprie frontiere esterne e di far fronte, sul piano interno, a eventuali crisi migratorie;

l’incapacità dell’Unione europea, attraverso le sue relazioni politiche esterne e le sue

agenzie tipo Frontex, di proteggere le frontiere esterne dell’Unione Europea. La proposta

non è stata messa in atto in quanto la legislatura era in chiusura di mandato, ma è

verosimile che essa sarà rispolverata dal nuovo governo che assumerà la guida

dell’esecutivo a gennaio 2018. È verosimile che essa si possa configurare come una

cooperazione di intelligence, early warning e politico-diplomatica nel caso di una crisi. Non

è tuttavia escluso che essa possa comportare anche modalità di cooperazione operativa,

con la creazione di task force di polizia e/o militari per il border management. Ciò è

ipotizzabile in funzione delle dichiarazioni rilasciate dal Ministro austriaco della Difesa,

Doskozil, che ha dichiarato: "Austria is ready to offer the deployment of Austrian troops to

countries both inside and outside the EU, not only for humanitarian reasons, but also for

43

the protection of their borders, if these countries ask us to do so and we have sufficient

capacities"16. Difficile qualificare la reale portata della dichiarazione del Ministro della

Difesa, Doskozil, anche in virtù del fatto che l’esercito austriaco è basato su una forza di

25.000 effettivi, di cui 12.000 coscritti. Verosimilmente, l’iniziativa punterebbe, nel caso di

una crisi migratoria proveniente dalla Turchia, ad assistere le forze di frontiera greche e

bulgare per proteggere il confine terrestre con la Turchia, utilizzando assetti militari di più

Paesi dell’area dell’Europa Centro e Sud Orientale. Qualora l’Austria volesse partecipare

con proprio personale militare a tali operazioni, che difficilmente potranno essere

qualificate come operazioni militari e che si configurerebbero anche al di fuori del quadro

di riferimento militare europeo a cui l’Austria partecipa, sarebbe necessario modificare la

legislazione del Paese che attualmente non consente l’invio di militari all’estero.

Dai dati degli ingressi irregolari si evince che la crisi migratoria in Austria si registra

nel solo 2015, con oltre 70.000 ingressi. Gli altri anni, con valori al di sotto dei 30.000, ci

appaiono essere (pur a fronte di quantitativi rilevanti in valore assoluto) sostanzialmente al

di sotto di un livello da “crisi migratoria”. Difatti, il governo austriaco ha posto un numero di

80 accessi al giorno, corrispondenti ad uno stock annuo attorno alle 30.000 unità, che non

possono dunque essere considerate una soglia di emergenza. Significativo è anche

constatare la rapidità con cui è stato chiuso il

corridoio austriaco, con un rapido crollo del

numero degli ingressi tra il 2015 ed il 2016;

mentre in Grecia nel 2016 sbarcavano ancora

quasi 200.000 persone e centinaia di migliaia

erano in transito lungo la rotta balcanica, in

Austria veniva drasticamente ridotto il numero

di richiedenti asilo. Segno che anche l’Austria

va considerata tanto un Paese di destinazione

quanto un Paese di transito nella via verso la

Germania e la Scandinavia.

16 L’intervista originale del ministro Hans-Peter Doskozil è comparsa sul quotidiano Die Welt il 7 febbraio 2017, Christoph B. Schiltz “Europäische Außengrenzen nicht ausreichend geschützt”.

Figura 8 La rotta verso l'Austria via Croazia e

Slovenia

44

Tabella 4 Principali nazionalità che hanno richiesto asilo politico in Austria nel

periodo 2013 - 2016

2013 2014 2015 2016 2017

fino ottobre Totali per

nazionalità

Afgani 2589 5070 25475 11742 3251 48.127

Siriani 1991 7754 24538 8845 6522 49.650

Iracheni 468 1107 13602 2837 1202 19.216

Pakistani 1037 745 3023 2494 1330 8.629

Iraniani 595 597 3432 2454 821 7.899

Totali per anno 6.680 15.273 70.070 28.372 13.126

Una delle più importanti misure prese dall’Austria per bloccare il flusso dei migranti

dalla rotta balcanica è stata la decisione del febbraio 2016 di mettere un tetto massimo al

numero di migranti e richiedenti asilo che possono accedere al Paese per i prossimi 5

anni. Tale tetto massimo, che appare contrastare nettamente con la legislazione

dell’Unione Europea e con gli obblighi internazionali, è stato posto ad un massimo di 80

domande depositate al giorno, dopo di che il confine sarà chiuso. Raggiunto il tetto

massimo annuo di domande l’Austria continuerà a ricevere le domande ai propri confini

ma non le processerà fino all’anno successivo, quando sarà stata presa una decisione

sulla nuova quota. Non è chiaro se i richiedenti asilo in eccesso saranno nel frattempo

respinti dal Paese o saranno alloggiati temporaneamente lungo i confini in zone di transito

o buffer zones senza consentire loro l’accesso nel Paese.

È alla luce di questa misura che va letta la proposta austriaca di una comunità

militare per la difesa dei confini dell’Europa Sud Orientale, un progetto che dovrebbe dare

praticabilità al numero chiuso, allontanando la pressione migratoria dal confine austriaco.

Se difatti il flusso migratorio dovesse raggiungere la Croazia o l’Ungheria, potrebbe non

essere possibile per il governo austriaco chiudere i confini e far rispettare le quote senza

la cooperazione degli Stati contermini. Solo alleggerendo la pressione alla frontiera

esterna della UE ed evitando che i Paesi dei Balcani si lascino attraversare dai flussi può

essere possibile per l’Austria mantenere la politica del numero chiuso massimo giornaliero

dei rifugiati.

La proposta è stata lanciata in fine legislatura dal Ministro della Difesa austriaco,

Doskozil, e, nonostante i dettagli siano poco chiari, essa è stata presentata come

45

un’alleanza di sicurezza tra i 16 Paesi coinvolti dalla rotta migratoria balcanica, più la

Polonia. L’oggetto di tale iniziativa dovrebbe essere la creazione di una forza multilaterale

di protezione dei confini da dispiegare per mettere in sicurezza i confini e rispondere alle

emergenze umanitarie nel caso in cui una nuova crisi migratoria non possa essere

affrontata da uno dei Paesi della rotta balcanica. Essa potrebbe essere dispiegata

verosimilmente o a supporto della Grecia o della Macedonia. Il Ministro non ha specificato

se, per quanto riguarda l’Austria, il progetto riguarderebbe forze di polizia o forze militari.

Se dovessero essere interessate le Forze Armate, sarebbe necessaria una modifica della

Legge sulla neutralità che proibisce la partecipazione dell’Austria ad alleanze militari.

È importante considerare che il rispetto delle quote austriache sul numero chiuso non

riguarda solo l’Austria ma diviene fondamentale per ridurre l’afflusso irregolare di migranti

verso la Germania, Paese chiave nel determinare la quantità di flussi verso l’Europa. Nelle

consultazioni per la formazione del nuovo esecutivo che sono ancora in corso, il partito di

maggioranza ha anch’esso inserito la questione di un tetto massimo di rifugiati ammissibili

giornalmente ed annualmente che la Germania è disposta ad accettare.

46

2.2. I Paesi di Transito

2.2.1. La Grecia

Il Collasso della Grecia come precursore della Crisi. Non è possibile capire come si è

arrivati alla crisi migratoria lungo la rotta balcanica senza focalizzare l’analisi sulla Grecia e

ripercorrere lo sviluppo delle sue politiche migratorie e la questione dei flussi irregolari

attraverso il confine (conteso) con la Turchia. Atene rappresenta il primo e principale hub

di alimentazione del flusso lungo la rotta balcanica, già ben prima della crisi migratoria del

2014. In particolare dopo il 2001, quando fu adottata la seconda legge17 quadro per la

sanatoria degli immigrati irregolari (Kasimis, 2004), la Grecia è divenuta un grande Paese

di immigrazione di forza lavoro a basso costo dall’Asia e dal Medio-Oriente, oltre che dagli

stessi Paesi balcanici. Già nel 2008 oltre il 50% degli accessi irregolari di stranieri

all’interno dei confini Schengen erano relativi alla Grecia. Questi flussi venivano

prevalentemente dalla vicina Turchia, che negli stessi anni aveva costruito una politica

migratoria estremamente liberale e politicamente indirizzata a favorire i flussi di

popolazione di un’ampia fascia di Paesi mussulmani dell’Asia e del Medio Oriente,

perseguendo l’obiettivo di sostituire

la propria mancata integrazione nella

UE in un progetto di area di libero

scambio dei Paesi mussulmani. Nel

2010 il volume di transiti illegali

attraverso la Grecia dalla Turchia

era ulteriormente cresciuto,

arrivando, secondo Frontex, a raggiungere il 90% di tutti gli accessi illegali all’interno dei

confini europei (Migration Policy Institute, 2010), al punto che il Ministero greco della

Protezione Civile ha dovuto invocare l’aiuto di Frontex per inviare un team di guardie di

frontiera europeo in supporto alla polizia greca. Questo è stato il primo caso in cui

l’Agenzia dell’Unione Europea incaricata del controllo dei confini ha dispiegato un tipo di

forze di polizia (175 uomini da 26 Paesi) a protezione di una frontiera Schengen per

17 È la Legge 2910/2001, conosciuta anche come Secondo Programma di regolarizzazione.

Nazionalità Asylum seekers entrati in Grecia per le

prime 4 nazionalità 2010 - 2015

Siriani 548.981

Afghani 305.991

Iracheni 103.535

Somali 17.991

Figura 9 Tabella 5 Le prime nazionalità entrate in Grecia durante la crisi migratoria

47

contrastare una pressione migratoria non sostenibile da parte di uno Stato membro

(Migration Policy Institute, 2010).

Buona parte di questi flussi irregolari provenivano dal confine terrestre con la Turchia

ove si registravano anche picchi di oltre 350 fermi di migranti irregolari al giorno nei pressi

della citta greca di Orestiada.

I Paesi di

provenienza erano,

ad eccezione dei

siriani,

sostanzialmente gli

stessi della crisi

migratoria che

esploderà qualche

anno dopo:

Afghanistan in

primo luogo, ma

anche Pakistan,

Iraq ed altre nazionalità provenienti dall’Africa. Non solo dall’Africa Orientale, come

Somalia o Egitto, ma anche da paesi dell’Africa Occidentale, come l’Algeria o la Nigeria. Il

fenomeno della crisi migratoria che dopo il 2010 esploderà ulteriormente, in particolare per

via dell’apertura del confine turco – greco, era dunque già da tempo in gestazione e la

Grecia nel corso degli anni duemila era divenuto un Paese. Nel 2010 ben 132.524

persone sono state intercettate in Grecia per ingresso o soggiorno illegale nel Paese. Le

deportazioni immediate riguardano sostanzialmente il solo caso dei cittadini albanesi,

mentre per tutte le altre nazionalità l’espulsione equivale alla trasformazione in una

condizione di clandestinità all’interno del Paese.

La Grecia del 2010, prima dello scoppio delle primavere arabe e del conflitto siriano,

era già divenuta per l’effetto combinato del regolamento di Dublino e della pressione

demografica illegale che la Turchia non controllava più attraverso le frontiere comuni, la

principale “storehouse” dell’immigrazione illegale in Europa, con un numero di immigrati

assolutamente sproporzionato rispetto all’entità della forza lavoro del Paese, del livello di

disoccupazione interna e della capacità del sistema produttivo ed economico. La crisi

economica della Grecia ha ulteriormente peggiorato la situazione in quanto ha ridotto le

risorse e i mezzi a disposizione del Paese per contrastare il fenomeno e, al tempo stesso,

Figura 10 Il confine tra Bulgaria, Grecia e Turchia

48

ha reso sempre più “preziose” le risorse economiche e finanziarie (in buona parte frutto

dell’economia grigia) legate all’industria illegale delle migrazioni. Secondo alcune stime del

network investigativo Balkan Analysis, la scala finanziaria del traffico illegale di migranti

attraverso la Grecia è cresciuto negli anni finendo per divenire un giro d’affari superiore ai

2.2 miliardi di euro. Un valore davvero importante se confrontato con quello della crescita

annua del PIL greco, che nel 2016 ha segnato una crescita di circa 1 miliardo di euro.

Questa stima è stata fatta nel 2015 da due analisti greci, Michaletos e Deliso. Secondo i

loro studi il flusso dei migranti illegali verso la Grecia si è da anni attestato attorno alle

90.000 unità medie. Al valore di 2.2 miliardi si arriva considerando pari a circa 20.000 euro

annui il valore che ogni migrante illegale produce nell’economia nera e grigia del Paese a

cui si aggiungono altri 5.000 euro di costi e servizi spesi per lasciare il Paese. Viene difatti

calcolato che circa il 50% di coloro che entrano in Grecia proseguono il proprio viaggio

verso l’Europa.

Quello dell’immigrazione illegale in Grecia è un fattore relativamente nuovo, che è

esploso a livelli incontrollabili nell’ultimo decennio. Un fenomeno pressoché totalmente

assente nei primi anni novanta (la Grecia era anzi un Paese di emigrazione) è

velocemente divenuto un fattore determinante della società greca, che ormai si stima

abbia superato 1.2 milioni di popolazione straniera (oltre il 10%) ed un flusso di

immigrazione illegale che continua ad incrementare questo stock del 10% annuo.

La Grecia appare aver raggiunto un punto di saturazione demografico legato alla

capacità di assorbire nuova popolazione straniera, che continua ad entrare illegalmente

nel Paese. Ciò è stato evidente già dagli anni precedenti all’esplosione della crisi

migratoria del biennio 2014 – 2015. Questa situazione di saturazione economico-sociale

appare difficilmente modificabile in futuro. È pertanto difficilmente immaginabile che se

non si controlleranno i flussi migratori dalla Turchia alla Grecia, si interrompa il flusso in

uscita dalla Grecia dei migranti provenienti dal Medio Oriente e dell’Asia, provocando una

pressione demografico-migratoria o lungo la rotta balcanica o attraverso il Mare

Mediterraneo, quest’ultima in direzione dell’Italia.

Questa situazione cronicizzata è evidente se si analizzano i flussi di migrazioni

illegali dalla Grecia attraverso la frontiera turca. Da ormai un decennio, con l’eccezione del

2013, il volume dei flussi illegali dalla Turchia alla Grecia ha superato le 20.000 persone

annue. La caduta dei flussi nel 2013 è in buona parte il frutto del completamento delle

barriere lungo il confine terrestre. Tali valori saranno tuttavia immediatamente recuperati

dall’apertura di una massiccia rotta marina, che nel 2014 trasporterà illegalmente sulle

coste greche più di 45.000 persone.

49

Anno Attraverso il confine

terrestre Attraverso il confine

marittimo Totale ingressi illegali

dal confine turco

2009 6.600 18.000 24.600

2010 47.200 6.200 53.400

2011 54.974 600 55.574

2012 30.400 3.600 34.000

2013 1.100 11.000 12.100

2014 2.300 43.000 45.300

2015 4.900 870.000 874.900

2016 3.800 175.000 178.800

2017 * 4.500 25.000 29.500

Totali 151.274 1.152.400 1.308.174

Calcolo dell’autore sulla base di dati della polizia di frontiera greca. * solo i primi dieci mesi

La Grecia appare destinata in un prossimo futuro a rimanere un Paese di transito,

per un misto di motivazioni. Sul piano interno, la durezza della crisi economica e le

persistenti difficoltà dell’economia non appaiono indicare possibilità del ricrearsi di

condizioni economiche per il mantenimento nel Paese delle masse di migranti che

continueranno a premere sulle frontiere marittime e terrestri della Grecia. In aggiunta a

questo fattore vi è l’altro fattore, spesso tenuto in scarsa considerazione, della volontà dei

migranti. I migranti che arrivano in Grecia oggi non vogliono in alcun modo rimanere nel

Paese, che usano come base logistico – economica prima di tentare l’ultimo parte del

viaggio intra UE, quello dall’Europa “giuridica” di Schengen a quella del Welfare, Germania

e Paesi scandinavi in particolare. Questa realtà è evidente nel caso dei Siriani, che pur

fuggendo da un conflitto non vogliono in alcun modo rimanere protetti in “Grecia”, come

risulta dal manifesto risentimento espresso dagli asylum seeker siriani in Grecia nel

momento in cui, nel 2014, fu introdotto solo per i provenienti dalla Siria un percorso di asilo

fast-track che consentiva loro di avere la risposta nello stesso giorno della domanda

(Mogiani, 2016).

La terza dimensione che spinge verso un futuro della Grecia come hub di transito e

non come primo Paese europeo di destinazione è deducibile dall’approccio adottato dalla

50

giurisprudenza di molti Paesi europei e dalla Corte dei Diritti umani dell’Unione sulla

compatibilità del sistema greco con gli standard dei diritti dell’uomo riservati ai migranti. In

numerosi casi Paesi europei che hanno espulso un richiedente asilo verso la Grecia in

applicazione del Regolamento Europeo 343/2003 che prevede, come ribadito dalla Court

of Justice dell’Unione Europea che “only a member state is responsible in asylum cases. If

a third-country national has applied for asylum in a member state which is not primary

responsible for examing the application, the regulation sets mechanism for transferring the

asylum seeker to the responsible member State”. Member State che, nella quasi totalità

delle persone entrate in Europa attraverso il corridoio anatolico-balcanico, sarebbe la

Grecia. A partire dal settembre 2011, tuttavia, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha

sostenuto – a margine di un caso di un cittadino afghano riportato in Grecia dallo UK – che

“i richiedenti asilo non possono essere riportati in uno stato membro se possono andare

incontro aserie violazioni dei loro diritti fondamentali”. In altre sentenze (vedi ad esempio

M.S.S. vs Belgium e Greece) la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sostenuto che le

condizioni di vita per i richiedenti asilo sono così deteriorate che non solo la Grecia è in

violazione della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo ma lo sono anche i Paesi che, come il

Belgio, hanno riportato in Grecia richiedenti asilo provenienti dalla rotta balcanica.

Il combinato di questi tre fattori – sostenibilità economica interna, volontà dei

migranti, giurisprudenza europea sui ricollocamenti ex regolamento di Dublino – hanno di

fatto posto la Grecia di diritto e di fatto fuori dal sistema di Dublino, “assegnandole”, anche

per il prossimo futuro, un ruolo di camera di compensazione, o di hub di smistamento dei

migranti irregolari verso altri Paesi dell’Unione Europea. Paesi che, nel corso della crisi del

2014 – 2015 sono stati l’Austria e la Grecia, ma che in futuro potrebbero essere altri Paesi

dell’Unione Europea, inclusa anche l’Italia.

51

2.2.1.1. La questione del confine Grecia - Turchia

La rotta migratoria anatolica preme lungo le frontiere greche lungo due assi, quello

del confine terrestre attorno alla città di Orestiada a ridosso della cittadina turca di Edirne e

quello marittimo verso le isole di Samos, Chios, Lesbos e del Dodecaneso. Il confine

greco – turco terrestre corre lungo 182 chilometri e per molti anni dopo il conflitto cipriota è

stato un confine militarizzato, con

campi minati e recintati18. Il confine

segue il corso del fiume Evros/Meric (in

italiano Marizza, translitterato dal

Bulgaro), ma vi è una striscia di terra

turca, lunga una dozzina di chilometri

oltre il corso del fiume, da cui flussi

consistenti di migranti hanno

attraversato il confine con la Grecia.

Questa piccola striscia di terra ha

rappresentato per molti anni la

principale porta d’ingresso illegale

all’interno dello spazio Schengen

europeo. La pressione lungo il confine

terrestre inizia a divenire

particolarmente rilevante ben prima

dello scoppio delle primavere arabe, a

partire dal 2008, quando si registrano

incrementi molto consistenti dei flussi (+35%). Dopo due anni consecutivi (2010 e 2011) in

cui il confine greco – turco nell’area di Edirne ha fatto registrare più di 150 transiti illegali

intercettati al giorno, la Grecia ha deciso di procedere ad un rafforzamento del controllo

del confine. Agli inizi nei mesi tra febbraio e marzo 2012 la Grecia ha sottoscritto un

accordo con Frontex per il pattugliamento congiunto lungo il fiume Evros ed ha annunciato

la costruzione di una barriera di confine lungo i 12 chilometri del confine terrestre che sarà

completata nel dicembre dello stesso anno per un costo di 3 milioni.

18 Saltuariamente vi sono morti accidentali in alcuni punti del confine di migranti che tentano di attraversare illegalmente il confine. Vedi BBC news, 29 settembre 2003, Landmine deaths on Greek border. Il confine è stato in buona parte bonificato nel 2010.

Figura 11 Il confine tra Grecia e Turchia

52

Il 2010 rappresenta dunque l’anno in cui si assiste ad un’escalation nel numero dei

migranti che escono illegalmente dalla Turchia ed entrano nello spazio Schengen europeo

attraverso il confine terrestre della Grecia. È importante sottolineare come questo “surge”

nella pressione demografica illegale dalla Turchia alla Grecia non è legata né alle

primavere arabe né al conflitto siriano e ai flussi di displaced da quel conflitto che sarebbe

scoppiato solo nel 2011. Difatti le quattro principali nazionalità che alimentano questi flussi

sono gli afgani (28.300), i pachistani (8.830), i palestinesi (7.561) e gli algerini (7.340),

questi ultimi arrivati attraverso la rotta aerea ad Istanbul19. Anche nel 2011 la massa di

migranti non provenienti dal Paesi in conflitto è maggioritaria sul totale degli arrivi ed il

numero dei siriani (il Paese più vicino e quello con il conflitto più letale in corso per

quell’anno) rimarrà relativamente basso, sotto le duemila unità.

Tabella 5 Principali nazionalità in arrivo in Grecia nel periodo 2010 - 2012

2010 2011 2012

Afghanistan 28.299 28.269 16.584

Pakistan 8.830 19.975 11.136

Bangladesh 3.264 5.416 7.863

Algeria 7.336 5.398 4.606

Marocco 1.645 3.404 2.207

Iraq 1.133 2.838 2.212

Somalia 6.525 2.234 1.765

Palestina 7.561 1.980 1.718

Congo - 1.855 -

Siria - 1.439 7.927

19 Vi sono 3 voli diretti dall’Algeria ad Istanbul da Algeri, Orano e Costantina. I cittadini algerini sotto i 18 anni e sopra i 35 anni possono ottenere un visto rapido per trenta giorni ottenibile on-line.

53

Un fenomeno interessante da annotare lungo il confine Greco – Turco è

rappresentato dallo switch tra l’utilizzo, da parte delle organizzazioni criminali del confine

terrestre e marittimo. Mano a mano che la Grecia – e la Bulgaria – procedevano alla

costruzione delle barriere lungo il confine terrestre si è assistito ad un progressivo

passaggio dei traffici al confine marittimo, molto più lungo e difficile da controllare, sia per

le specificità delle frontiere marittime, sia per la lunghezza della linea di costa. Negli scorsi

anni, mano a mano che la Grecia proteggeva il suo confine terrestre il volume dei traffici è

aumentato e la sua logistica si è spostata lungo la costa.

Nel 2012 la pressione demografica e migratoria illegale verso la Grecia era divenuta

insostenibile lungo il confine terrestre tra i due Paesi al punto che la Grecia aveva iniziato

a contrastare il fenomeno attraverso la costruzione di una barriera di sicurezza lungo il

confine terrestre di circa 130 miglia (UNHCR, 2015), per un costo complessivo di circa 8

milioni di euro. L’incrementato controllo del confine terrestre da parte della Grecia ha fatto

esplodere, nel corso del 2013, il numero di migranti in arrivo in Grecia via mare che sono

passati da 3.600 del 2012 ad oltre 11.000. Era solo l’anticipo di quello che sarebbe

accaduto l’anno successivo, quello della crisi migratoria, con oltre 43.000 sbarcati

illegalmente sulle isole greche.

Tabella 6 Rapporto tra numero di stranieri irregolari segnalati in Grecia dalla polizia e domande di asilo politico fatte in Grecia per le quattro nazionalità che hanno un tasso di riconoscimento delle domande superiore al 50%.

2010 2011 2012 2013 2014 2015 Totale 2010-15

Afghanistan 28.299 28.528 16.584 6.412 12.901 213.267 305.991

Somalia 6.525 2.238 1.765 1.004 1.876 4.583 17.991

Iraq 4.968 2.863 2.212 700 1.023 91.769 103.535

Siria n.a. 1.522 7.927 8.517 31.520 499.495 548.981

Totale 39.792 35.151 28.488 16.633 47.320 809.114

Totale

richieste di

asilo fatte

in Grecia

per tutte le

nazionalità

10.275 9.310 9.575 8.225 9.435 13.205

54

Figura 12 Rapporto presenze irregolari e richieste di asilo in Grecia per cittadini siriani, iracheni, somali e afghani nel periodo 2010 - 2015

2.2.1.2. Case study: L’isola greca di Lesbos

Durante la crisi migratoria del 2015 l’isola greca di

Lesbos ha rappresentato uno dei principali punti di accesso

dei flussi di migranti irregolari provenienti dalla Turchia e

diretti in Europa. A fronte di una popolazione di appena

80.000 persone, la cui economia era già provata dalla crisi

economica. L’isola ha visto sbarcare sulle sue coste dal

gennaio al dicembre del 2015 circa 500.000 persone. Nel

mese di dicembre 2015 il numero medio di sbarchi ha

raggiunto le 2.000 unità.

Tra le principali nazionalità arrivate sull’isola vi sono

migranti provenienti per il 60% da Siria ed Afghanistan, più

o meno in proporzioni equivalenti, con una leggera prevalenza siriana; un 15% degli

sbarchi sono costituiti da iracheni, mentre il resto è diviso tra iraniani, marocchini,

pachistani, curdi ed altre nazionalità. I dati della nazionalità siriana sono probabilmente

gonfiati, in quanto si ritiene che molte nazionalità, come i palestinesi o gli iracheni, siano

arrivati in Turchia via aereo dalla Giordania e al momento dello sbarco a Lesbos si sono

registrati come siriani per avere la facilità del trattamento come rifugiati (Rantsiou, 2016).

Nell’isola di Lesbos non arrivano dunque solo profughi siriani provenienti dalla Siria, ma

anche migranti provenienti da teatri non di reale conflitto, ma piuttosto definibili come post-

conflict, come sono quelli somalo o quello afgano.

Figura 13 La posizione dell'isola

greca di Lesbos

55

Dal medio oriente e dall’africa i profughi diretti all’isola di Lesbos e verso le altre isole

greche non arrivano via terra, attraversando la Siria e l’Iraq, ma piuttosto via aerea,

volando in Turchia via Giordania, o direttamente dall’Africa. Gli sbarchi nell’isola di Lesbos

provenivano prevalentemente dalla cittadina turca di Ayvalik e dalle vicine spiagge, con

una traversata in mare di circa due ore.

2.2.2. La Turchia

È evidente che la Turchia ha avuto un ruolo chiave nella genesi della crisi migratoria

europea del biennio 2014 e 2015, visto che circa 900.000 del 1.2 milioni di migranti

irregolari giunti nell’Unione Europea nel corso del 2015 avevano attraversato la Turchia. In

un solo anno dalla Turchia sono giunti in Europa mezzo milione di siriani, più di 200.000

afgani, quasi 100.000 iracheni, 20.000 pachistani e circa 50.000 cittadini di altri paesi

mussulmani come Iran, Palestina, Marocco, Somalia, Bangladesh, Libano, Algeria ed altri

Paese.

È importante sottolineare che una parte sostanziale di questa massa di migranti

illegali è giunta in Turchia regolarmente, attraverso i normali canali migratori, utilizzando

una rete di accordi di libera circolazione delle persone che il governo di Ankara ha firmato

con molti Paesi, in particolare mussulmani, tanto in attuazione della politica islamista

perseguita da Erdogan che di quella di buon vicinato nell’area d’influenza ex ottomana.

Questi flussi, al di là delle specifiche cause belliche che possono averli ingigantiti e attuati,

facevano parte di una specifica politica migratoria e demografica che la Turchia ha iniziato

a praticare con costanza a partire dalla seconda metà degli anni 2000, attuando una

politica dei visti estremamente liberale, ed in particolare a partire dal 2008. Tali politiche di

liberalizzazione dei visti alimentate sia dalla volontà di promuovere l’industria del turismo

del Paese e gli scambi commerciali, ma anche basate sulla costruzione di un soft power

politico culturale di Ankara verso il mondo mussulmano in attuazione della politica di “zero

problemi con i vicini” che più in generale del nuovo indirizzo pro-islamista varato dal

governo del AKP. È in questo contesto che va letta la politica di immigrazione e libera

circolazione adottata dalla Turchia dopo il 2008. In un quadro geopolitico di rottura con il

sistema tradizionale euro-atlantico, assicurare alla grande rete delle alleanze turche la

libertà di movimento tra Maghreb, Africa, Medio Oriente e Asia Centrale prende il senso di

una grande Schengen islamica, di cui molti Paesi, come Siria, Iran, Kazakhistan,

Kirghizistan hanno goduto per molti anni totalmente visa-free, mentre molti altri hanno

potuto contare sul sistema facilitato dagli e-visa, ossia delle procedure di ottenimento

56

automatico di un visto elettronico per entrare in Turchia se il viaggiatore dichiara di

possedere un visto Schengen sul proprio passaporto o altro titolo per poter soggiornare in

Europa.

2.2.2.1. La questione dei rifugiati siriani in Turchia

Considerato lo stock dei siriani presenti in Turchia, un valore che supera i 3.000.000

di persone tra residenti e rifugiati, è chiaro che la questione dei cittadini di origine siriana in

Turchia rappresenta la principale potenziale

fonte di preoccupazione per i flussi migratori

irregolari verso l’Europa attraverso il corridoio

anatolico-balcanico. È importante considerare

che se la Turchia è stata estremamente

accogliente nei confronti dei profughi siriani,

anche in virtù della propria politica interventista

contro il regime di Damasco e mirante a

produrre un regime change, il sistema di

accoglienza turco non prevede la possibilità di

concedere, solo in casi particolari, lo status di

rifugiati ai profughi che decide di accogliere sul

proprio territorio. Questo in virtù della

legislazione turca e alla, tuttora vigente,

limitazione geografica con cui la Turchia ha aderito alla Convenzione di Ginevra sui

Turchia

Rifugiati e asylum seekers (2016) Stranieri (nati all’estero) residenti Totale

Siriani 2.769.991 76.413 2.846.404

Iracheni 125.879

97.528 223.407

Afghani 113.756

38.692 152.448

Iraniani 28.534 36.226 64.760

Figura 14 Il numero di rifugiati siriani in

Turchia

57

Rifugiati. Secondo questa impostazione la Turchia nega la possibilità, per le persone il cui

Paese di origine non sia in Europa, di ottenere lo status di rifugiato definitivo e di lungo

periodo. Concede solamente, in funzione di una nuova legge varata nel 2013 (Law on

Foreigners and International Protections) delle forme legali di protezione temporanea

denominata “conditional refugee status”. Questo status si differenzia da quello

propriamente detto di rifugiato in quanto non garantisce un titolo sicuro per ottenere un

soggiorno legale in Turchia e non prevede i ricongiungimenti familiari. I Siriani rientrano in

questa categoria. Dal punto di vista di politica di insediamento, la Turchia ha seguito solo

una limitata politica del encamping dei rifugiati, e meno del 10 % dei profughi sono

accomodati in campi (26, prevalentemente nella parte Sud-Orientale del Paese). La

maggior parte di essi vive liberamente nelle città turche in abitazioni private. Ad altre

nazionalità viene, invece, offerta la cosiddetta “subsidiary protection”, che prevede una

serie di garanzie ma un minor numero di diritti e di accesso ai servizi del Paese20.

Dal punto di vista della sicurezza migratoria, un fattore di rischio è rappresentato dal

fatto che la Turchia ospita un numero estremamente elevato di rifugiati e di migranti ma il

sistema di accoglienza previsto è sostanzialmente di natura temporanea. Permangono

dubbi su cosa accadrà nel medio periodo ai milioni di siriani e di altri rifugiati e migranti

presenti in Turchia. Nel corso del 2016 e del 2017 la Turchia ha avviato limitate operazioni

di rimpatrio dei rifugiati siriani in collaborazione con l’UNHCR che, per la fine del 2017,

dovrebbero riguardare circa 100.000 siriani. Si stima tuttavia che circa la metà dei rifugiati

siriani in Turchia potranno fare ritorno nel Paese al termine del conflitto quando saranno

ripristinate le condizioni minime di vita21. L’altra metà della popolazione siriana in Turchia,

tra il milione ed il milione e mezzo di persone resterà verosimilmente nel Paese anche

quando sarà terminato il conflitto e la maggior parte delle aree saranno pacificate. È

opinione di chi scrive, difatti, che i push factors che spingono le persone ad abbandonare i

Paesi in conflitto non sono esclusivamente di natura militare, ma un misto di fattori legati ai

pericoli bellici e al deterioramento della condizione economica. Come il caso del Kosovo

dimostra, a oltre 16 anni dalla fine del conflitto il Paese continua a produrre un numero

sproporzionatamente elevato di emigrati e di richiedenti asilo e i Kosovari che sono

emigrati precedentemente e durante il conflitto e che sono rientrati in Kosovo sono solo

piccole minoranze. Il rientro non è avvenuto né dopo la fine del conflitto nel 1999, né dopo

la dichiarazione d’indipendenza.

20 Vedi Asylum Information Database, Introduction to the asylum context in Turkey, www.asylumineurope.org

21 Vedi Fevzi Kızılkoyun, Around 100.000 syrians aspected to return from Turkey to Syria, Hurriyet Daily News, 7 agosto 2017.

58

Non è dato da capire se la gran parte dei profughi siriani che resteranno in Turchia

rimarranno nel Paese o procederanno con migrazioni secondarie verso l’Europa. Ciò è in

parte legato al livello di integrazione economica e sociale che sarà loro disponibile in

Turchia, questo legato a vari fattori, ad iniziare dallo status giuridico di lungo periodo che

essi potranno raggiungere. Si possono tuttavia nutrire molti dubbi sul fatto che la Turchia

sia disponibile a creare e ad integrare una così massiccia minoranza etnica araba

all’interno del suo Paese, soprattutto in un contesto in cui il conflitto siriano è terminato con

la sconfitta del fronte anti Assad che Ankara sosteneva. Doveroso menzionare anche il

fatto che all’interno dei profughi siriani presenti in Siria sono presenti anche un numero

imprecisato di profughi palestinesi senza cittadinanza siriana che erano nei campi profughi

al momento del conflitto. La categoria dei profughi palestinesi in Siria, molti dei quali

arrivati in Europa durante la crisi migratoria del 2015, è costituita da profughi palestinesi

nati in Siria ma normalmente non in possesso della cittadinanza siriana e che presentano

un chiaro profilo di problematicità da molti punti di vista, ad iniziare da quello giuridico e

umanitario. Prima della guerra si stimavano in oltre mezzo milione (560.000) i rifugiati

palestinesi che vivevano in Siria come minoranza invisibile nella popolazione, ma con un

discreto livello di integrazione sociale. Secondo le Nazioni Unite, con lo scoppio della

guerra almeno 100.000 hanno lasciato il Paese e la restante parte è stata ricollocata

all’interno della Siria come IDPs22. La maggior parte di coloro che hanno lasciato la Siria

si è diretta verso l’Europa, anche in virtù del fatto che Giordania e Libano nel 2015 hanno

chiuso i confini per i siriano-palestinesi.

2.2.2.2. L’accordo tra Unione Europea e Turchia.

Il mese di marzo 2016 è stato considerato il momento della risposta europea alla crisi

migratoria balcanica. Più o meno a partire dagli inizi del 2016 gli Stati della rotta balcanica

hanno modificato la propria politica di trasportare i migranti da una parte all’altra

dell’Unione Europea e hanno iniziato ad adottare una politica di contenimento e riduzione

dei flussi. A partire dal mese di aprile 2016 i Balcani non erano più attraversati da miglia di

rifugiati trasportati dal Mar Egeo verso la Germania. L’accordo tra EU – o meglio tra i

singoli Stati europei - e la Turchia ha cambiato il significato ed il ruolo ricoperto dai Paesi

dei Balcani: non più traghettatori ufficiali dei flussi ma parte di un sistema di restrizioni e

respingimenti che può funzionare fin quando rimarrà in piedi l’accordo con la Turchia.

22 Kaith Bolongaro, Palestinian Syrians, twice refugee, Al Jazeera, 23 marzo 2016.

59

L’accordo tra Turchia ed Unione Europea è stato chiuso, sotto forti pressioni

tedesche, il 18 marzo 2016. Esso prevede da un lato il riconoscimento dello status di Safe

Third Country per la Turchia (presupposto per poter rimandare indietro i migranti fermati

lungo la rotta balcanica), la disponibilità di Ankara di riprendere tutti i migranti entrati che

entreranno via Grecia attraverso l’Egeo; l’accordo prevede però che i migranti irregolari

della rotta Balcanica ricollocati in Turchia saranno compensati da un ugual numero di

rifugiati presenti nei campi profughi in Turchia. La particolarità dell’accordo sta nel fatto

che mentre i migrati in viaggio lungo la rotta balcanica sono prevalentemente indirizzati ad

entrare in Germania, il programma di resettlement riguarda – teoricamente – tutta l’Unione

Europea e non solo la Germania. L’accordo appare dunque ridurre, nel caso di una nuova

crisi migratoria, non il numero complessivo di migranti diretti verso l’Europa ma piuttosto

quello diretto verso la Germania. Questa natura del meccanismo 1-to-1 è evidente se si

analizza il numero dei rifugiati siriani che sono stati accolti in Europa nel primo anno di

applicazione dell’accordo. Su 4.200 rifugiati siriani in Turchia che sono stati accolti in

Europa la Germania ne ha accolti circa un terzo, mentre gli altri sono stati ricollocati in 12

dei 28 Paesi europei. L’Austria, uno dei Paesi d’arrivo del corridoio balcanico non ha

accettato nessun profugo in forza dell’accordo nel primo anno in cui esso era in vigore.

Tabella 8 Resettlement di rifugiati siriani in Turchia nei Paesi europei dopo l’accordo EU – Turchia

Germania 1584

Olanda 849

Francia 622

Finlandia 285

Svezia 278

Belgio 242

Italia 121

Lussemburgo 98

Spagna 57

Lituania 25

Estonia 20

Portogallo 12

Lettonia 10

60

In aggiunta all’accordo sul numero di migranti, l’Unione Europea si impegna per il

prossimo futuro a farsi carico del resettlement della gran parte dei 3 milioni di rifugiati

siriani presenti in Turchia, di accelerare la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi e

per il finanziamento di 3 miliardi di euro in aiuti per i rifugiati.

2011 2012 2013 2014 2015

Letalità del conflitto

siriano, numero di vittime

annue

7.841 49.294 73.447 76.021 55.219

Numero di siriani sfollati in

Turchia annui 9.000 152.000 434.000 1027000 881.000

Siriani identificati in Grecia

come migranti irregolari

annui

1.522 7.927 8.517 31.520 499.495

9.000 161.000 595.000 1.622.000 2.503.000

61

2.2.3. La Macedonia

La Macedonia rappresenta, per la sua posizione strategica e per il fatto di trovarsi

lungo la principale rotta di collegamento tra il Mare Egeo e la Pianura Pannonica, la più

breve e più pianeggiante via di accesso

all’Europa centrale dall’Europa Sud Orientale.

Lungo la Macedonia passa l’autostrada

europea E75, che in parte si basa sul vecchio

tracciato dell’autostrada jugoslava “Fratellanza

ed Unità”. Da un punto di vista logistico, è

naturale che la rotta dei migranti dalla Grecia

all’Austria segua il X° corridoio trans-europeo,

quello Salonicco – Salisburgo, che ha come

prima tappa la capitale macedone

Skopje, per poi proseguire per Belgrado,

Zagabria, Lubiana, Klagenfurt e

Salisburgo, al confine con la Germania.

La crisi migratoria in Macedonia

inizia nel mese di settembre 2014,

quando il numero di migranti che entrano

illegalmente nel Paese inizia ad

aumentare esponenzialmente. Un trend

che continuerà per tutto il 2015 ed i primi

mesi del 2016. Dopo i primi scontri al confine e realizzata la magnitudine del fenomeno la

Macedonia ha adottato una politica di libero transito attraverso il suo territorio. Il 18 giugno

2015 un emendamento viene introdotto nella legislazione sull’immigrazione del Paese

consentendo un transito legalizzato ed organizzato per 72 ore da un confine all’altro del

Paese. Ai migranti che arrivavano al confine meridionale del Paese veniva data

immediatamente la possibilità di fare richiesta di asilo politico in Macedonia o, in caso

contrario, veniva dato un lasciapassare per abbandonare il Paese entro 72 ore. Allo

scopo di gestire questi flussi con questo meccanismo sono stati costruiti due centri di

transito contemporaneo, uno al confine meridionale (Gevgelija) ed un altro al confine

settentrionale (Kumanovo). Questi centri, della capacità di 2.000 persone, dovevano

servire alla registrazione dei migranti e all’assistenza medica ed umanitaria.

Figura 15 Il corridoio macedone tra Grecia e

Serbia

Figura 16 L'autostrada jugoslava Unità e Fratellanza

62

Il trasporto dall’uno all’altro di questi centri avveniva con mezzi pubblici a carico dello

Stato nelle 72 ore previste, riducendo il tempo di soggiorno dei migranti e richiedenti asilo

sul territorio macedone ed evitando che il transito fosse gestito dalle organizzazioni

criminali.

Tuttavia, questo modello non ha retto a lungo, a causa delle ridotte capacità

macedoni sia in termini di gestione degli aspetti umanitari che di quelli di sicurezza. Presto

la situazione ad entrambe le frontiere del Paese, quella del Sud con la Grecia e quella del

Nord con la Serbia, è divenuta preoccupante raggiungendo livelli di emergenza. Il 19

agosto 2015 la Macedonia ha dichiarato l’esistenza lungo i due confini meridionale e

settentrionale del proprio territorio una situazione di emergenza, anche a causa degli

incidenti riportati tra migranti e polizia. L’altra debolezza del modello macedone era che

esso doveva fare i conti con le politiche di apertura o di chiusura degli altri Paesi del

corridoio balcanico. Quando, a partire dal mese di gennaio 2016, Croazia e Serbia hanno

comunicato che avrebbero iniziato a ridurre il flusso di migranti e ad adottare delle liste di

migranti ammesse al transito, la Macedonia è stata costretta ad adottare un approccio

selettivo al passaggio dei migranti ed un tetto massimo piuttosto elevato di 3.000 transiti al

giorno. A partire dal novembre 2015, il governo macedone ha iniziato ad applicare una

lista di nazionalità autorizzate al transito, riservando questo diritto “speciale” in deroga alla

normale legislazione solo per siriani, afghani ed iracheni. Questa misura ha

progressivamente ridotto il numero dei migranti in transito, dirottando le altre nazionalità o

verso altri confini o ritornando alla “ordinaria” rotta dei trafficanti di esseri umani. Solo a

partire dal febbraio 2016 il governo macedone ha messo in piedi delle misure strutturate di

controllo dei documenti di identità e di verifica delle prove che potessero documentare la

reale identità ed il tragitto svolto per arrivare in Grecia. Solo ai migranti con una sufficiente

e convincente documentazione, provenienti dalle aree di guerra ed entrati dal confine

greco era consentito di procedere, nella consapevolezza che questa tipologia di migranti

sarebbe stata accolta anche dagli altri Paesi della rotta. Importante diveniva la

dichiarazione della final destination del viaggio, che nel caso di Austria o Germania

equivaleva ad un lasciapassare, fin quando la politica migratori di questi due Paesi non è

mutata. Sono state necessarie numerose riunioni delle forze di polizia dei Paesi della rotta

balcanica che hanno successivamente coordinato le varie politiche nazionali e

nell’applicazione delle singole policy nazionali. Il governo macedone si è avvalso della

collaborazione anche delle altre forze di polizia della regione per controllare il confine con

la Grecia.

63

2.2.4. L’Ungheria

L’Ungheria rappresenta un caso particolare tra i Paesi di transito verso l’Europa per

via della peculiare posizione di politica migratoria che il Paese ha assunto già prima che la

crisi raggiungesse il suo apice. La linea scelta dall’Ungheria e proposta da Budapest

all’Unione Europea era quella della chiusura dei confini esterni dell’Unione, muovendo la

procedura di verifica dei possibili richiedenti asilo nei flussi fuori dai confini della UE in

appositi Hot Spot da posizionare

al di fuori del territorio della UE.

Di fatto l’Ungheria è stato il primo,

e per lungo tempo unico, Paese

della UE che ha proposto

l’adozione di una politica di

respingimenti collettivi lungo la

frontiera esterna della UE

piuttosto che una politica di

gestione, integrazione e

redistribuzione dei flussi.

L’Ungheria ha resistito alle

pressioni e alle critiche

provenienti dall’Unione Europea

e dagli altri Paesi europei e, a

partire dal giugno 2015, ha iniziato a chiudere il confine europeo con la Serbia e a

costruire una barriera lungo il confine del Paese.

La mancanza di confini naturali come fiumi o montagne tra i due Paesi ha spinto

l’Ungheria alla realizzazione di una barriera di contenimento della pressione migratoria

lungo tutto il confine del Paese con la Serbia per un’estensione totale di 175 km. Oltre ad

essere la prima barriera costruita essa è anche la più lunga. La rete con filo spinato è alta

3,5 metri ed è stata realizzata dalle forze armate ungheresi con il concorso di lavoro civile.

La barriera non sigilla totalmente il confine ma lascia aperti due varchi attraverso cui

possono accedere solo i migranti intenzionati a fare in Ungheria domanda di rifugiato

politico mentre gli altri non in possesso di un legale permesso di accesso sono respinti.

Questa politica ha prodotto un numero elevato di decine di migliaia di migranti intrappolati

tra Serbia, Bosnia Erzegovina e Macedonia. Per mantenere l’efficacia di questa barriera si

è resa necessaria la costruzione di una seconda barriera di confine lungo tutto il confine

Figura 17 La rotta balcanica punta dalla Grecia alla Pannonia

via Ungheria

64

con la Croazia, per un totale di ulteriori 348 chilometri ed è stata completata nel corso del

2015

Sempre nel corso del 2015 l’Ungheria ha

adottato (Decreto governativo n.191 del 2015)

una lista di Paesi di origine sicuri (safe countries

of origin) e di Paesi terzi sicuri (safe third

countries). La cosa interessante è che le due

categorie coincidono e tutti i Paesi della lista

sono sia safe countries of origin che safe third

countries. Questa lista in particolare ha

significato per la rotta balcanica in virtù della

designazione di tutti i Paesi di transito, Grecia

inclusa, come Paesi terzi sicuri. In funzione

della nuova legge saranno considerati sicuri tutti

i Paesi europei ed i Paesi candidati quali

l’Albania, la Bosnia Erzegovina, la Macedonia, il

Kosovo, il Montenegro e la Serbia. In base a

questa designazione come “safe third country”

le autorità ungheresi potranno dichiarare

inammissibili e respingere i richiedenti asilo che

provengono dalla rotta balcanica basandosi

sull’assunto che i richiedenti asilo che hanno

avuto nei Paesi di transito della regione delle

opportunità di ricercare ed ottenere protezione.

Ciò vuol dire che in base a questa normativa

l’Ungheria potrà rifiutare di vagliare le richieste

di asilo politico e respingere alla frontiera le

persone che sono arrivate sul suo territorio

attraverso la rotta balcanica (Serbia in particolare).

È importante riconoscere che l’adozione di queste politiche, che ha comportato

anche l’apertura di un contenzioso istituzionale molto forte tra le istituzioni europee ed il

governo ungherese (ma anche con tutti e 4 i Paesi di Visegrad) sono (al di là delle pur

importanti differenze politiche che esistono tra l’approccio europeo alle migrazioni e la

linea adottata dal governo di centro – destra di Orban) in buona parte la conseguenza di

come la crisi del 2015 si è abbattuta sui confini ungheresi, dopo che l’ondata migratoria,

Figura 18 L'Ungheria come Paese con le

maggiori richieste di asilo politico nel 2015

65

proveniente dalla Turchia, ha travolto la Grecia ed ha attraversato i Paesi dei Balcani

Occidentali. Nel 2015 l’Ungheria è il Paese che più di ogni altro in Europa ha ricevuto

domande di asilo politico.

2.2.5. L’Albania

L’Albania è un Paese che solo marginalmente è stato toccato dalla crisi migratoria

balcanica ma dovrebbe essere incluso tra i Paesi della rotta, o quanto meno come uno dei

Paesi da cui potrebbe originarsi un ramo “B” della rotta. Nel marzo 2016 vi sono stati

numerosi allarmi, poi rivelatisi infondati, sul fatto che dopo la chiusura del confine

macedone l’Albania sarebbe divenuto

il Paese che sarebbe stato invaso dal

flusso di rifugiati che avrebbero poi

proseguito verso l’Italia attraverso una

ipotetica rotta marittima. Ciò non si è

poi verificato e, nonostante milioni di

persone hanno attraversato la rotta

balcanica principale e decine di

migliaia sono rimaste bloccate tra

Grecia, Macedonia e Serbia, la

possibile rotta albanese non si è

attivata e sono stati poche migliaia i

migranti che sono arrivati in territorio

albanese. Il governo di Tirana ha

specificato che la frontiera con la Grecia e con la Macedonia sarebbe rimasta chiusa ai

migranti e solo un numero molto basso di infrastrutture ricettive di emergenza per poche

migliaia di migranti sono state approntate al confine con la Grecia.

Ci sono vari motivi a nostro avviso perché l’Albania non è divenuta né un ramo della

rotta balcanica né è stata interessata dal riflusso di migranti una volta chiusi i confini

macedone e ungherese. La prima spiegazione è quella più logica ed apparente. I Balcani

sono una regione difficile da attraversare, montuosa, con scarsi collegamenti e numerosi

ostacoli sociali e culturali. I migranti non si muovono da soli o liberamente ma possono

riuscire ad attraversare un Paese della regione solo affidandosi o al sistema di trasporto

dello Stato o ad una rete privata di persone. In entrambi i casi l’integrazione della

Figura 19 Possibili opzioni alternative del traffico

di migranti via Albania

66

Macedonia con la Serbia è molto più forte di quella esistente con la Macedonia. Una fonte

di preoccupazione è ovviamente rappresentata dal fatto che il confine tra Albania e Grecia

è difficilmente controllabile a fronte di flussi migratori illegali di massa. Esso è difatti un

confine montuoso con un numero molto elevato di sentieri accessibili di difficile controllo.

Ma l’asperità del territorio, la mancanza di

mezzi di trasporto ed i lunghi tratti da

affrontare a piedi una volta giunti in

territorio albanese rappresentano a loro

volta una difficoltà all’accesso. Solo a

fronte di una politica dello Stato albanese

di trasportare i migranti al mare Adriatico e

una disponibilità di organizzazioni di

trafficanti di portare via mare verso l’Italia i

migranti è ipotizzabile che possa aprirsi un

ramo di una rotta albanese – adriatico

verso il nostro Paese. Tuttavia, le basse

capacità di accoglienza albanese e la necessità dell’attraversamento del confine marittimo,

assieme all’assenza di mezzi di trasporto pubblici sono i tre colli di bottiglia che

dovrebbero prevenire un numero massiccio di migranti dal partire alla volta dell’Albania.

Ricordiamo che la crisi migratoria del 2015 è arrivata nel cuore dell’Europa non soltanto

perché vi era un flusso in entrata dalle isole greche ma anche perché vi era da parte dei

Paesi riceventi una serie di condizioni, tra cui una minima capacità di accoglienza di

emergenza da parte dei Paesi di transito, mezzi ed infrastrutture di trasporto con cui

organizzare spostamenti di massa di decine di migliaia di persone in poco tempo, volontà

dei Paesi sotto pressione migratoria di movimentare le masse dei migranti attraverso il

proprio Paese in violazione degli obblighi internazionali.

La rotta balcanica si è costruita verso Nord perché lungo questa rotta vi erano una serie di

Paesi relativamente bene collegati tra loro, caratterizzati da frontiere relativamente

semplici da attraversare con una serie di governi che, sotto l’influsso politico proveniente

dalla Germania e dall’Austria hanno deciso di favorire il transito dei migranti per alleggerire

la pressione migratoria gravante sulla Grecia. Più i migranti venivano trasportati lungo la

rotta, più l’effetto svuotamento delle strutture logistiche di accoglienza consentiva una

rapida sostituzione con i nuovi migranti, secondo un processo che si autoalimentava.

Queste condizioni non sono presenti lungo la rotta balcanica propriamente detta a causa

della marginalità della regione, della sua relativa asperità ed inaccessibilità, alla mancanza

Figura 20 La rete ferroviaria macedone mostra la

scarsità di collegamenti con l’Albania

67

di infrastrutture di collegamento e alla assenza di centri di accoglienza che possano

essere utilizzati come posti di transito. Difficilmente la rotta dalconfine greco – albanese /

austriaco potrebbe essere percorsa in poche decine di ore come accaduto per quella

greco – macedone / ungherese. Ovviamente, come alcuni temono, la pressione migratoria

dalla Grecia all’Albania potrebbe non cercare di risalire la penisola attraverso i Balcani

propriamente detti (attraverso le impervie vie di Albania, Montenegro, Bosnia Erzegovina

per giungere alla

Croazia) ma puntare al

mare mediterraneo e

proseguire da qui verso

l’Italia. La difficoltà di

questo tragitto è

ovviamente che esso

non può essere

affrontato con mezzi

propri, come è stato il

caso della rotta

balcanica via

Macedonia/Serbia, ma

avrebbe bisogno di

un’efficiente rete di trafficanti via mare che a loro volta dovrebbero beneficiare delle

compiacenze del governo albanese per poter avviare il traffico verso l’Italia. Governo che

dovrebbe, a sua volta, organizzare dei campi profughi e di accoglienza lungo la costa da

cui poi i migranti potrebbero collegarsi con i trafficanti e tentare la traversata. A parte che

non si capirebbe perché questa traversata verso le coste italiane dovrebbe essere fatta

dall’Albania (ove non ci sono campi profughi) e non dalla Grecia stessa da dove il flusso di

migranti proviene e dove vi sono i campi profughi di partenza. Ci appare abbastanza

evidente che a fine 2017, non vi sono le condizioni affinché una tale rotta si materializzi.

Se il governo albanese non avvierà una politica di ricezione e di facilitazione dei

transiti lungo il suo territorio ci pare molto difficile che possano attivarsi le condizioni che

porteranno i flussi migratori provenienti dalla Turchia a premere sul Mare Adriatico verso la

Puglia. E’ invece più probabile che una chiusura della rotta balcanica porti i migranti

presenti sul territorio della Grecia e della Turchia ad incrementare la rotta del Mediterraneo

Orientale che già porta qualche migliaia di migranti dalla Turchia o dall’Egitto – in molti

casi attraversando le acque territoriali greche – sulle coste di Calabria e Puglia.

Figura 21 Richiedenti asilo in Albania 2014 - 2016

68

Questa rotta, che è diminuita drasticamente con l’apertura della rotta balcanica, ha visto

un massimo di circa 5.000 transiti annui.

Non bisogna dimenticare che, se è vero che in Albania in passato vi erano

organizzazioni criminali specializzate nel traffico di esseri umani attraverso l’Europa,

anche via mare, queste organizzazioni hanno in buona parte abbandonato questo settore

nel momento in cui vi è stata una liberalizzazione dei visti, per cui non vi sono attualmente

organizzazioni significative dedite a questo tipo di traffico. Ad ogni modo, nel ottobre 2015

il governo albanese ha varato dei piani di emergenza per far fronte a potenziali crisi

migratorie provenienti dal confine con la Grecia simulando una possibile pressione

massima giornaliera di 1.000 individui.

69

CAPITOLO 3 - ANALISI, OSSERVAZIONI, CONLUSIONI E POLICY OPTION

3.1. Analisi delle politiche di gestione e contenimento del fenomeno lungo la rotta anatolico – balcanica e fattori che potrebbero incidere nella magnitudine dei flussi

Un’analisi delle politiche di gestione e contenimento del fenomeno migratorio deve

partire dalla constatazione che sia l’Unione Europea che i suoi stati membri hanno

largamente fallito ad anticipare la scala dei flussi migratori, le loro connessioni con le

principali questioni di sicurezza europee e gli effetti che la crisi produce sulle relazioni

politiche e di sicurezza tra gli Stati europei e tra gli Stati dell’Unione Europea ed i Paesi

dell’area di vicinato. Buona parte della crisi migratoria europea è collegata con i flussi dalla

rotta anatolico-balcanica in quanto quella attraverso il Mediterraneo Centrale è stata in

buona parte assorbita dall’Italia. I Paesi della rotta anatolico-balcanica hanno mancato o

della volontà o della capacità di arginare il flusso che si è direttamente riversato verso

l’Europa continentale. Da qui esso potrà anche redistribuirsi tra i vari Paesi europei

utilizzando le vigenti libertà di spostamento intra-europea e l’assenza di controllo nello

spazio Schengen. L’Unione Europea in quanto tale, ed in particolare la politica estera e di

sicurezza europea è apparsa assolutamente impreparata a fronteggiare la crisi e le

debolezze degli Stati della rotta balcanica. La crisi migratoria di fatto è stata tamponata

attraverso l’assorbimento delle masse di migranti irregolari che premevano sulle frontiere

europee da parte di alcuni Stati membri (Italia per la rotta del Mediterraneo centrale),

Ungheria, Germania, Austria e Svezia per quella anatolico-balcanica. L’Unione Europea

ha dimostrato non solo l’inadeguatezza dei suoi meccanismi di early-warning e di

diplomazia preventiva ma anche l’assenza di strutture e meccanismi con cui reagire alla

crisi, anche ai soli aspetti umanitari. Buona parte del supporto ricevuto dalla Grecia al

collasso è stato difatti fornito da organizzazioni come UNHCR.

Pur con una serie di cautele, l’accordo con la Turchia ha sicuramente rappresentato

una forma politica di gestione della crisi, lavorando sul ruolo fondamentale della Turchia

come principale Paese di origine dei flussi verso l’Europa. L’accordo, tuttavia, più che il

frutto di un negoziato europeo con Ankara è il risultato di un’intesa politica di alcuni singoli

Paesi europei ed in particolare della Germania.

L’accordo non è dunque un trattato giuridicamente vincolante dell’Unione Europea – i

cui organi giurisdizionali si sono difatti dichiarati non competenti a giudicarne la

compatibilità con i Trattati europei – quanto piuttosto un accordo politico basato sulle

70

relazioni di singoli Paesi europei con Ankara e riconosciuti dall’Unione stessa affinché la

Turchia blocchi i flussi. Ciò comporta che si riconosce che tali flussi hanno un carattere

secondario e non emergenziale, in quanto partono da un Paese sicuro ed

economicamente stabile che già fornisce protezione internazionale a coloro che fuggono

dai conflitti. Sicuramente la Turchia non è però in grado di assorbire milioni di migranti

economici, come d’altronde nessuna area del mondo appare essere più in grado di

sostenere. Tutti i Paesi o le regioni che in passato hanno rappresentato dei poli di

attrazione di massa della manodopera proveniente da Paesi in via di sviluppo (come il Sud

Africa, la Penisola arabica, la Libia, l’Australia, gli Stati Uniti d’America, UK, Francia,

Germania) hanno invertito da alcuni anni la tendenza, limitandosi ormai a politiche

selettive e qualitative di accettazione di un numero limitato di persone. Questo tratto della

chiusura delle politiche migratorie delle principali aree di traino e sviluppo economico del

mondo deve essere considerato come un aspetto scarsamente modificabile del contesto

globale almeno per il medio-periodo.

Al tempo stesso aumenta notevolmente il numero di persone che - facilitate

dall’abbattimento dei costi di trasporto globale e alla riconversione ai transiti illegali di

massa di molte organizzazioni criminali, dall’aumentare del numero di Stati in situazione di

sovranità precaria (failed or failing) e dal numero di conflitti territoriali che si diffondono in

più punti dell’estero vicino europeo – puntano a raggiungere l’Europa con migrazioni

indirette, ossia che attraversano Paesi socialmente ed economicamente stabili. A questi

flussi, che interessano milioni di persone, si aggiungono le decine di milioni di persone che

già vivono come IDP o come rifugiati nei Paesi contermini ai luoghi di conflitti ereditati

negli ultimi trent’anni e i normali migranti economici che abbandonano per motivi sia

economici che di standard democratici i Paesi di origine. L’UNHCR stima che solo le

migrazioni in vario modo forzate del passato e del presente interessino oltre 60 milioni di

persone.

La sostenibilità di lungo periodo dell’accordo con la Turchia non può essere

considerata garantita per la prevalente natura politica e non giuridicamente vincolante

dell’accordo e dal mix piuttosto confuso ed incoerente di elementi che sono stati messi ad

oggetto dell’accordo stesso. Ma anche per la continua tensione che caratterizza le

relazioni tra Germania, Austria e Turchia e che più volte sono arrivate sul punto di una crisi

diplomatica nel corso del 2017. Certamente il corridoio balcanico è ora relativamente

chiuso, con l’apprestamento di misure di controllo delle frontiere e sono state rafforzare le

capacità dei Paesi della regione di ispezionare i propri confini e gestire con maggiore

capacità una eventuale prossima crisi migratoria. Il controllo dei confini e la maggiore

71

capacità di gestione, unita ad una politica restrittiva degli accessi non dovrebbe portare al

verificarsi di una situazione simile a quella accaduta nel 2015 – 2016. Ciò non vuol dire

che non si verificherà una prossima crisi migratoria, ma piuttosto che, se essa si dovesse

verificare in Grecia – il Paese debole della catena balcanica sia per le condizioni interne

che per la presenza di una frontiera marittima con la Turchia – tale crisi non si ripercuoterà

molto meno che in passato lungo la rotta Balcanica ed essa potrebbe, piuttosto dirigersi o

essere diretta verso la rotta del Mediterraneo centrale che interessa direttamente l’Italia.

Rispetto alla crisi del 2015, inoltre, gli anni avvenire dovrebbero essere

caratterizzanti da un realistico miglioramento della situazione interna alla Siria che

dovrebbe consentire sia una riduzione dei flussi in uscita per motivi umanitari, sia un

progressivo rientro dei profughi sfollati nei Paesi limitrofi: Turchia, Giordania, Libano. Da

questo punto di vista è importante che il processo di rimpatrio dei profughi dai Paesi vicino

non produca, a fronte ovviamente delle difficoltà del reinserimento dei profughi nella

società siriana post-bellica (come avvenuto nei casi dell’Afghanistan o della Somalia) un

nuovo processo di flusso verso l’Europa. È pertanto importante che l’Unione Europea

completi il proprio piano di chiusura della rotta balcanica con una strategia di investimenti

in Siria ad in Iraq volti al riassorbimento abitativo ed occupazionale dei profughi e degli

Internal Displaced Persons. Parliamo di una massa tra i 5 ed i 10 milioni di persone che va

in qualche modo ricollocata nella società del Paese. È certamente un’operazione non

facile, sia da un punto di vista materiale che politico, in quanto presuppone una

collaborazione nella ricostruzione con il governo di Damasco che appare essere molto

lontana dalle intenzioni dell’Europa.

La crisi migratoria ha evidenziato una questione fondamentale, ossia se il controllo

delle frontiere esterne è responsabilità dello Stato di confine o è una responsabilità

collettiva dell'UE a cui tutti i Paesi devono contribuire. Ad ogni modo, fin quando da questa

cooperazione tra Stati di frontiera ed Unione Europea non si sviluppi una capacità di

controllo dei flussi (dove come controllo intendiamo sostanzialmente sia quello qualitativo,

del riconoscimento delle persone che accedono, che quello quantitativo, relativo alla

massima quantità di migranti che un Paese può accogliere senza abbassare i suoi

standard della sicurezza interna) la tendenza da parte di alcuni Paesi europei che hanno

una precaria situazione di homeland security (in particolare radicalizzazione e terrorismo)

di ripristinare i propri controlli sui passaporti all'interno dell'area Schengen (in violazione

dei principi di Schengen) proseguirà. Se questi comportamenti dovessero proseguire a

lungo, segno di una persistente e sistematica sfiducia sull’integrità della frontiera esterna

di Schengen e sulle capacità degli Stati di frontiera di garantirle, l’intero principio della

72

libertà di circolazione intra-europea e probabilmente la stessa integrazione europea

saranno sospese o abbandonate.

La proposta della Commissione Europea di riformare Frontex e di trasformarla in

un’agenzia incaricata della protezione esterna dei confini dell’Unione va sicuramente in

questa direzione. Quello che però ancora manca è la consapevolezza che la nascente

Guardia di frontiera europea non sarà chiamata a svolgere il proprio ruolo solo ai confini

dell’Unione, ma bensì prevalentemente verso i territori di transito ove i flussi migratori

irregolari si generano, si moltiplicano e si criminalizzano. In altre parole, un sussidio

europeo alle forze nazionali di protezione dei confini Schengen sortirà a nostro avviso

effetti probabilmente trascurabili, mentre quello di cui ci sarà davvero bisogno in futuro è la

proiezione delle forze europee di controllo dei confini all’estero, lungo le frontiere

incontrollate ed attraversate dai traffici di ogni natura, inclusa quella criminale e

terroristica. La proiettabilità di tali forze nell’Africa Sub Sahariana nel Sahel o in Medio

Oriente rappresentano senza dubbio l’anello mancante della strategia difensiva

dell’Unione Europea.

La creazione nel 2016 da parte dell’Unione Europea all’interno di Europol di due

centri operativi dedicati al contrasto al terrorismo (European Conter Terrorism Center) e al

contrasto al traffico di esseri umani (European Migrant Smuggling Center), così come la

creazione della EU Passenger Name Record Directive rappresentano certamente alcuni

concreti passi per il coordinamento e la collaborazione tra i Paesi europei in materia di

protezione delle frontiere comuni, che si sommano alla creazione di una European Border

and Coast Guard Agency e all’accordo migratoria con la Turchia.

73

3.2. Possibilità di connessioni tra flussi migratori e fenomeni terroristici

Un gran numero di migranti non registrati che si spostano nell'area Schengen è

riconosciuto da parte di tutti i governi europei e delle principali agenzie di polizia e di

intelligence come un fattore che aggrava le attuali minacce alla sicurezza in tutta l’area

Schengen e – a causa delle libertà interne di circolazione - rischia di compromettere i

controlli migratori e le misure anti-terrorismo in altri paesi, incluso l’Italia.

La domanda che viene spesso posta (esistono connessioni tra il fenomeno

migratorio ed il fenomeno terroristico? domanda a cui solitamente si dà risposta negativa)

è in realtà una domanda mal posta. Messa in questi termini essa è formulata non per fare

un assesment del rischio ma per indurre una risposta negativa, in quanto è evidente che il

concetto di migrante ed il concetto di terrorista sono due concetti diversi. Quello su cui

bisogna invece riflettere è quale connessione esiste su come i flussi migratori incontrollati

impediscano la border security, creando i presupposti di vulnerabilità delle frontiere in cui

si possono inserire individui o già appartenenti a cellule terroristiche o radicalizzati ed

intenzionati a diffondere i messaggi dell’Islam radicale nelle comunità mussulmane

residenti in Europa. La prima di queste ipotesi, l’infiltrazione di terroristi nello spazio

europeo attraverso i flussi incontrollati delle persone che sono entrate nell’Unione del

corso della crisi migratoria, non è più un ipotetico caso di scuola – come si è a lungo

sostenuto – ma si sono registrati sicuramente almeno due precedenti pubblicamente noti.

Due dei terroristi coinvolti negli attacchi del novembre 2015 a Parigi, difatti, hanno

attraversato il confine greco approdando sulle isole greche con i barconi dei migranti

provenienti dalla costa turca, utilizzando falsi passaporti siriani per evitare che le loro

identità – note ai database anti-terroristici europei – fossero identificate. Questi sono casi

ovviamente non di migranti divenuti terroristi ma, molto più verosimilmente, di terroristi che

si sono infiltrati in Europa mischiati al flusso dei migranti. L’intenzione dell’ISIS di utilizzare

il flusso di migranti per infiltrare in Europa terroristi è stata più volte dichiarata nel corso del

2015 (Funk, 2016) quando lo Stato Islamico ha proclamato di aver infiltrato in Europa

migliaia di terroristi via Turchia.

Per quanto riguarda invece il caso di individui che probabilmente erano entrati in

Europa come migranti e che successivamente si sono resi responsabili di attacchi di tipo

terroristico, si sono registrati quattro episodi (di diversa gravità) tutti in Germania tra il

gennaio 2016 e l’aprile 2017. Due di questi (attacco al treno di Wurzburg del luglio 2016 e

l’attentatore suicida di Ansbach sempre del luglio 2016) sono stati realizzati da richiedenti

asilo di nazionalità pachistana e siriana entrati in Germania attraverso la rotta balcanica. In

74

aggiunta, alcuni cittadini europei che hanno combattuto in Siria/Iraq come foreign fighters

sono rientrati in Europa mischiandosi al flusso di migranti durante la crisi migratoria

(Danish Institute for International Studies , 2017). Questi dati, per quanto parziali e non

rappresentativi non consentono né di confermare né di escludere l’esistenza di un nesso

tra fenomeno migratorio e terrorismo. Certamente, essi devono piuttosto far riflettere sul

fatto che esistono numerosi punti critici tra rischio terrorismo e crisi migratoria lungo la

rotta balcanica che possiamo così esemplificare:

Rischio vulnerabilità: una delle maggiori fonti di preoccupazione dovrebbe riguardare il

fatto che la categoria dei migranti irregolari in viaggio verso l’Europa è da considerarsi

una categoria sociale debole, che le problematiche economiche, le disumane condizioni

di viaggio, i meccanismi di sfruttamento espongono ad un alto rischio di

strumentalizzazione, tanto da parte del mondo criminale quanto di quello terroristico. La

Germania ha segnalato che, nel solo 2016, vi sono stati oltre 300 tentativi da parte

dell’ISIS di fare proseliti tra i migranti (Danish Institute for International Studies , 2017).

Il fatto che i flussi migratori della rotta balcanica si originino da Paesi come la Sira, l’Iraq

e l’Afghanistan che sono caratterizzati da una presenza ed un radicamento diffuso di

organizzazioni jihadiste rende ovviamente significativo il rischio non solo che membri

delle organizzazioni terroristiche si possano infiltrare tra i flussi migratori, ma che essi

trovino un ambiente favorevole al reclutamento. Sono difatti noti numerosi casi di come

lo Stato Islamico abbia usato i flussi migratori – gli spostamenti di persone che

ambiscono a recarsi in Europa per trovare migliori condizioni di vita – per reclutare,

forzosamente o a pagamento, propri miliziani o operativi. La commistione dei flussi

migratori da o attraverso Paesi in cui opera lo Stato Islamico o organizzazioni qaediste

è sicuramente una fonte di rischio importante per la sicurezza europea. Al punto che i

flussi provenienti da questi Paesi dovrebbero andare incontro a molteplici forme di

screening e ad interviste estremamente accurate e dettagliate, in particolare sul piano

psicologico, che non ci risulta siano state fatte lungo la rotta balcanica. Anzi, il fatto che

gli stessi Paesi di operatività dello Stato Islamico sono anche i Paesi da cui sia più facile

ricevere lo status di rifugiato, rende paradossalmente meno efficace lo screening alle

frontiere. Ovviamente l’accuratezza dello screening e delle procedure di determinazione

dello status dei migranti e dei richiedenti asilo è inversamente proporzionale rispetto ai

volumi dei flussi e alla loro velocità.

75

Rischio della incapacità di filtro dei flussi ibridi: A fronte di processi migratori dal

carattere estremamente ibrido e complesso, uno dei rischi connessi alla crisi migratoria

europea è legato alla magnitudine e velocità del fenomeno e dell’incapacità dei sistemi

di controllo e di sicurezza di distinguere tra le diverse anime e motivazioni delle persone

che alimentano i flussi. La categoria di migrante viene normalmente utilizzata per

descrivere chiunque migri e ad essa vengono assegnati dei caratteri giuridici, ma

spesso si riflette molto poco sul fatto che il termine migrante è un aggettivo e non un

sostantivo. Esso cioè non qualifica l’identità o la qualità della persona che si sposta, ma

l’atto di spostarsi da A a B e la condizione di vulnerabilità o di precarietà con cui si

realizza lo spostamento. In altre parole il concetto di migrante è un concetto

temporaneo e che indica le modalità e la tipologia di uno spostamento ma non l’identità,

le intenzioni e le capacità soggettive del soggetto migrante. In linea teorica, dunque,

così come si può avere il caso di un “minore migrante”, di una “famiglia migrante”, di un

“lavoratore migrante” eccetera, allo stesso modo il fenomeno migratorio può interessare

soggetti negativi e pericolosi per la società e possono verificarsi i casi di “criminali

migranti”, “radicali migranti”, “combattenti migranti” o “terroristi migranti”. Soprattutto è

inevitabile che ciò avvenga quando le migrazioni diventano bibliche e, anche per la

semplice teoria dei grandi numeri, bisogna accettare che ogni categoria sociale di una

società in guerra che accede alle migrazioni irregolari internazionali sia rappresentata

all’interno dei flussi. Ecco dunque che la tendenza ad utilizzare correntemente

l’aggettivo in senso sostantivizzato “il migrante / i migranti” (o in maniera ancora più

spersonalizzata “i flussi migratori”, ove addirittura non ci si concentra più sull’elemento

umano ma sul processo storico) non deve far dimenticare la ricchezza e complessità

del mondo in migrazione e della necessità per le società riceventi di mettere in atto,

oggi più che in passato, tutte le misure necessarie per contrastare il rischio di

genericizzazione e standardizzazione di flussi che non sono né generici né standard,

ma presentano al loro interno forti elementi potenziali di devianza rispetto a quello che è

il concetto che in Europa abbiamo di “migrante medio”. Questo non vuole affatto dire

che bisogna avete un approccio cosiddetto “securitario” rispetto ai flussi migratori, ma

conoscitivo e selettivo sì. Solo se riusciamo ad avere un processo di screening degli

ingressi nell’Unione Europea e a tenere bene distinte le varie categorie che possono

migrare irregolarmente/illegalmente verso l’Europa (profughi, richiedenti asilo, migranti

economici, migranti irregolari/ avventurieri/opportunisti, foreign-fighters, terroristi ecc.)

sarà possibile dare una risposta alla domanda se è alto o basso il rischio di

contaminazione dei flussi migratori con pericoli per la sicurezza.

76

Rischio della permeabilità delle frontiere. Un altro rischio che potenzialmente collega la

crisi migratoria al rischio terrorismo è che il flusso migratorio, nelle modalità con cui si è

riversato sulle frontiere europee e degli altri Paesi della rotta balcanica, è quello di

creare delle vulnerabilità nella gestione delle frontiere costringendo i Paesi europei ad

aprire indiscriminatamente anche a fronte di un mancato controllo delle identità delle

persone che entrano nell’Unione. Flussi migratori costanti e sostenuti irregolari aprono

di fatto alla criminalità organizzata le porte dell’Unione Europea mettendo in contatto le

organizzazioni criminali operanti all’interno dell’Europa con quelle presenti nei Balcani,

nel Medio Oriente ed in Africa. La facilità con cui le organizzazioni criminali dedite al

trafficking e allo smuggling degli esseri umani verso l’Europa possono gestire fiumi di

denaro con cui corrompere funzionari, investire per la falsificazione dei documenti o la

creazione di safe houses in zone franche non controllate dalla forze dell’ordine crea

attraverso le frontiere europee e nel territorio EU delle infrastrutture di traffico di

persone il cui scopo è quello rendere permeabili le frontiere europee di fatto “vendendo”

opzioni di accesso illegale all’Europa che possono essere utilizzate da chiunque. La

permeabilità delle frontiere europee diviene dunque un ulteriore costo

Rischio dei ritorni economici Tuttavia, ciò che a nostro avviso rappresenta una delle

principali preoccupazioni relative alle possibili connessioni tra flussi migratori e

terrorismo è legato ai collegamenti finanziari che si possono stabilire tra i due fenomeni.

Le attività di human smuggling hanno dimostrato essere le attività illegali più redditizie e

meno perseguite di oggi. In particolare, l’industria del traffico di esseri umani verso

l’Europa movimenta miliardi di euro ogni anno generando redditi cash superiori a quelli

derivabili da altre attività criminali (più rischiose) come il traffico di droga o di

stupefacenti. Secondo alcune stime il traffico di esseri umani che ha portato in Europa

oltre 1 milione di persone ha generato profitti vicini al miliardo di euro23. Al punto che

numerose organizzazioni criminali o addirittura organizzazioni jihadiste hanno deciso di

spostare la propria attività ad includere anche il traffico di uomini. In virtù del fatto che lo

Stato Islamico o altre organizzazioni di stampo jihadista assimilabili controllano o le

aree di partenza o, in molti casi, corridoi di transito delle rotte dei traffici, è evidente che

una parte dell’economia dello smuggling dei migranti finisce in un modo o nell’altro a

finanziare attività di organizzazioni jihadiste. La cosa non deve sorprendere visto che è

ben noto anche per indagini avvenute sul territorio nazionale italiano come esistano

23 Vedi Claudio Gatti, Il dottore, il sudanese, il siriano: i boss di un traffico di uomini sa 3 miliardi che alimenta il terrorismo. Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2015.

77

delle organizzazioni jihadiste operanti sul territorio nazionale italiano che si finanziano

con il traffico di migranti dal loro Paese all’Italia24. La stessa rotta balcanica è in buona

parte movimentata da organizzazioni criminali di smugglers siriani che sono basati sia

in Turchia che in Grecia. Le possibili connessioni di questi trafficanti con le

organizzazioni siriane jihadiste e dello Stato Islamico o con altri attori paramilitari della

guerra civile è attività un’eventualità tutt’altro che improbabile.

24 Vedi Bepi Castellaneta, Terroristi finanziati con le traversate. Allarme somali, scatta l’inchiesta. Corriere della Sera, 1 dicembre 2016.

78

3.3. Conclusioni: effetti per la sicurezza regionale e nazionali di possibili nuove crisi migratorie e policy options

La crisi migratoria non avviene in un periodo qualsiasi della storia dell’Unione

Europea, ma in uno caratterizzato da due altre importanti crisi: quella della sicurezza

interna, legata ai fenomeni di radicalizzazione e terrorismo che tra il 2015 ed il 2016 hanno

colpito massicciamente diversi Paesi dell’Unione, Germania in particolare; l’altra è la crisi

della sicurezza esterna, con un’impressionante numero di Stati nella cintura dell’estero

vicino europeo che sono andati incontro a guerre civili (Libia, Siria, Ucraina), rivolte

(Tunisia, Egitto) o colpi di Stato (Turchia). A questi problemi geopolitici si sommano due

altri fattori, quello del collasso degli stati deboli dell’Africa e del Medio Oriente e quello del

ritorno delle tensioni tra grandi potenze, in particolare nel rapporto Usa – Russia e nel

rapporto interno al mondo islamico tra sunnismo e sciismo.

La somma di questi elementi produrrà, nel prossimo decennio, uno scenario in cui le

crisi legate agli spostamenti di popolazione ed i problemi di sicurezza migratoria saranno

crescenti ed essi riguarderanno o attraverseranno aree in subbuglio geopolitico. Ecco

dunque - riprendendo il concetto che abbiamo espresso nel primo capitolo che i problemi

migratori non sono per sé collegati alla sicurezza ma lo divengono a seconda del contesto

geopolitico in cui essi avvengono - deve essere considerato elevato il rischio che i flussi

migratori futuri nel Mediterraneo Centro-Orientale saranno flussi migratori insicuri.

Riteniamo difatti che le migrazioni possono essere sicure o insicure a seconda delle

modalità e del contesto geopolitico attraverso cui esse avvengono e che il contesto

geopolitico attuale tende a renderle decisamente insicure e strumentalizzabili.

Se dal Medio-Oriente, per via di nuovi conflitti o per via della implosione di altri Stati,

dovessero generarsi nuovi flussi di ampia magnitudine attraverso il Mediterraneo

Orientale, essi si riverserebbero in maniera più o meno intercambiabile tra le due rotte del

Mediterraneo centrale (via Libia) e quella anatolico-balcanica (via Turchia). Entrambi i

Paesi, tuttavia, ci appaiono che non saranno in grado di gestire nuove pressioni migratorie

di ampia magnitudine avendo entrambi raggiunto la massima capacità in proporzione alle

rispettive capacità. Le misure messe in piedi dall’Unione Europea non hanno una

prospettiva strategica, ma lavorano prevalentemente alla riduzione dell’impatto sui confini

esterni della UE e – paradossalmente – alla deviazione dei flussi verso altri Paesi della

stessa UE. Non bisogna aspettarsi troppo dal miglioramento della situazione siriana,

Paese che potrebbe essere indirizzato verso uno scenario post-conflict, in quanto i disastri

economici sono ugualmente, se non ancora più forti, dei conflitti bellici nel produrre

79

emigrazioni verso l’estero (mentre i conflitti sono prevalentemente responsabili della

produzione di IDPs e campi profughi interni allo stesso Paese di conflitto).

Inoltre, non bisogna sottovalutare il fatto che una prossima pacificazione della Siria

se avrà un effetto, almeno giuridico, sul numero di rifugiati/migranti provenienti da questo

Paese, potrebbe avere come conseguenza anche quello di ripristinare

un’interconnessione geopolitica tra la rotta anatolico – balcanica e la rotta via Libia del

Mediterraneo centrale. Se la Turchia o i Paesi europei della rotta balcanica che hanno

ricevuto flussi di richiedenti asilo siriani avvieranno nei prossimi anni una politica di rimpatri

verso la Siria (volontari, assistiti o forzosi) è verosimile che una parte anche non piccola di

questi returnees potranno proseguire nuovamente la loro ricerca di altre modalità di arrivo

verso l’Unione Europea. Che potrebbero aprire una nuova rotta marittima nel Mediterraneo

Orientale o terrestre via Egitto – Libia che andrebbe ad agganciarsi a quella del

Mediterraneo Centrale verso l’Italia. Una situazione similare si è verificata in Somalia nel

2011, quando un miglioramento delle condizioni interne di sicurezza ha spinto i Paesi

limitrofi, Kenya in particolare, ad avviare programmi di chiusura dei campi profughi somali

e di rimpatrio in Somalia. Una parte importante di questi returnees ha poi proseguito, lungo

la rotta del Sahel verso la Libia o verso la Turchia per proseguire poi verso l’Europa,

alimentando sia la rotta centro-mediterranea che, in parte minore, quella anatolico-

balcanica.

La condizione geopolitica europea rispetto alla crisi migratoria viene spesso

identificata come conseguenza del trovarsi al centro di flussi epocali di popoli (su scala

globale le stime indicano 60 milioni di rifugiati e almeno una cifra 4 volte superiore di

migranti economici). A nostro avviso, l’Europa è invece un continente marginale rispetto

alle principali crisi migratorie permanenti mentre rimane centrale rispetto ad un’ampia area

di conflittualità e di implosione della statualità che la circonda pressoché per tutte le sue

frontiere esterne, sia marittime che terrestri.

Questo punto di vista porta a due considerazioni:

È la crisi di sicurezza attorno ai confini europei (che ha una dimensione sia di conflitti tra

potenze per l’egemonia regionale che di conflitti interni dovuti al fallimento di numerosi

stati post-coloniali) che fa sì che i flussi migratori provenienti da altri continenti finiscono

per convergere verso l’Europa e assumono dei caratteri di insicurezza che normalmente

non sono ad essi connaturati.

È il problema della sicurezza interstatuale e infra-statuale nel bacino del Mediterraneo a

moltiplicare enormemente il valore dei flussi, a farli convergere verso l’Europa e a

trasformarli in flussi insicuri, dando agli antagonisti a ridosso dei confini europei – siano

80

essi statuali o non statuali – un potere di minaccia asimmetrica sulle cose e sulle

società dell’Europa.

A nostro avviso, per iniziare ad uscire dalla crisi migratoria è necessario un cambio di

prospettiva, ossia portare la riflessione strategica dall’interno delle frontiere europee verso

l’esterno e riflettere sul fatto che una parte importante della crisi migratoria europea non è

di origine demografica ma di prevalente origine politica. E che essa afferisce più al

problema dello state-building, del post-conflict e della destrutturazione del sistema

internazionale che si è creata nel Mediterraneo ed in Africa con il ritirarsi delle presenze

russo – americane legate alla guerra fredda e l’illusione europea che questo estero vicino

potesse rimanere in piedi solamente grazie ai flussi economici globali e al rapporto

migratorio con l’Europa. L’Unione Europea sta vivendo una duplice crisi migratoria e di

sicurezza perché nella sua visione strategica ha rifiutato, pur avendone i mezzi e gli

strumenti, di darsi una soggettività geopolitica verso l’Africa e verso il Medio Oriente e di

sviluppare una reale politica di CSDP nell’Africa Sub Sahariana ed in Medio Oriente. La

crisi migratoria può essere tamponata con l’utilizzo degli strumenti interni di polizia e

border security ma non può essere controllata o governata senza un’adeguata politica

estera e di difesa europea (o tra Paesi europei in coordinamento tra loro) che avvii una

cooperazione con i principali Paesi di transito nel border management.

In questo contesto, ci pare di che mentre tutti i Paesi europei abbiano ormai da

tempo riclassificato la crisi migratoria europea o direttamente come un problema di

sicurezza o quantomeno come una questione strategica, in grado cioè di impattare sulla

sicurezza nazionale e sulla stabilità dell’Europa, ed abbiano avviato misure interne di

protezione dei loro confini, uguali iniziative non sono state prese dall’Unione nella sua

Politica Estera e di Difesa. Se è normale che i singoli Stati membri ricorrano

prevalentemente a misure interne di protezione dei confini Schengen – o addirittura di

quelli intra Schengen – è invece sorprendente la mancanza di una progettualità di

proiezione esterna della UE lungo le principali rotte di transito o verso i principali Paesi di

provenienza dei flussi. Da questo punto di vista parrebbe che l’iniziativa di concepire e

spingere verso gli altri Paesi dell’Europa questo tipo di missioni di CSDP (che ricordiamo

non è fatto solo di missioni militari ma consente l’utilizzo misto di missioni militari e civili,

ossia di law enforcement) possa essere proposta solo da Paesi interessati dai flussi

migratori e con una politica estera e di difesa importante. Di questi solo l’Italia parrebbe

averne il carattere ed i mezzi e sarebbe pertanto auspicabile che nei prossimi anni,

superata la fase emergenziale dell’Unione Europea, promuovesse un’adeguata ed

81

integrata strategia di border control nel Sahel e nel Medio Oriente, coinvolgendo

prevalentemente i principali Paesi di transito disposti a collaborare.

Affinché questa azione possa essere efficace, essa dovrebbe basarsi su dei

meccanismi di monitoraggio e early warning dei conflitti nei Paesi di origine che possono

produrre flussi di massa di migranti ed una valutazione della situazione interna e della

sostenibilità del peso dei rifugiati dei Paesi che ospitano un numero di rifugiati e IDPs

superiore alle 200.000 persone.

Tuttavia, prevenzione dei conflitti e delle crisi rischiano di non essere efficaci da soli

in quanto oramai le reti di migrazione irregolare verso l’Europa sono state create e sono

attive ed operative, parallele e molteplici; esse coinvolgono decine di migliaia di persone

che sono al tempo stesso beneficiari, gestori, sfruttati e sfruttatori e movimentano risorse

economiche notevoli. Appare dunque che – almeno temporaneamente – sarà necessario

anche lavorare per una maggiore definizione giuridica dei titoli per entrare nell’Unione

Europea, rivedendo se necessario i meccanismi di concessione dello status di rifugiato per

limitarne gli abusi e tutelare i rifugiati davvero bisognosi. Ciò potrebbe essere fatto

attraverso una definizione di una lista di Paesi di transito relativamente sicuri (safe third

countries) per ogni specifica nazionalità interessata dai flussi ed in grado di fornire, anche

con il sostegno europeo, standard accettabili di assistenza ai rifugiati. Ciò vorrebbe dire

che sarebbe necessario ridurre ai casi più gravi, individualmente valutati, le migrazioni

secondarie da questi Paesi e valutati sul posto con i meccanismi degli hot-spot. Questo

approccio, in realtà è quello che è stato più o meno seguito per il caso della Turchia, ma

appare essere non il frutto di una strategia ma di un approccio ad hoc, fatto nel momento

di maggior debolezza dell’Unione Europea. Rivedere i meccanismi di concessione dello

status di rifugiato per limitarne gli abusi, non è solo un modo di evitare il tracollo dei flussi

dai Paesi di transito verso l’Europa ma rappresenta anche una realistica strategia per

tutelare i veri rifugiati. A questo fine, l’Unione dovrebbe procedere con la definizione di una

lista di Paesi di transito relativamente sicuri per ogni specifica nazionalità interessata dai

flussi ed in grado di fornire, anche con il proprio sostegno di emergenza umanitaria in loco

e di border control, standard accettabili nei controlli di confine, nella gestione dei profughi

e richiedenti asilo e nei respingimenti e riaccompagnamenti. Ciò consentirebbe di

ricondurre il meccanismo della tutela dei rifugiati a casi di inoppugnabile protezione e

contrastare il fenomeno degli abusi dello status di rifugiato che danneggia i Paesi di

destinazione dei flussi, i migranti regolari e le stesse categorie vulnerabili davvero

bisognose di tutela e protezione.

82

Tuttavia, gli accordi con i Paesi di transito ed il sostegno alle loro capacità di gestione

dei rifugiati e di border control potrebbero non bastare nel momento in cui si possono

verificare casi di Paesi che, non per incapacità o perché a loro volta interessati da una crisi

migratoria, ma per interesse strategico o volontà di mettere in atto minacce asimmetriche,

attuano o favoriscono un uso indiscriminato degli spostamenti di popolazione verso

l’Europa. In questi casi, lo strumento di collaborazione politico – militare non è applicabile

ma potrebbe comunque essere necessario ricorrere a misure preventive o ritorsive non

implicanti l’uso della forza e che potrebbero essere rappresentante da meccanismi europei

di sanzioni economiche da attivare nei confronti di Paesi di origine o transito che

provochino volontariamente pressioni demografiche di massa verso l’Europa con finalità di

coercizione politico-strategica e si rifiutino di cooperare con l’UE nel contrasto ai traffici di

esseri umani. Molto più realisticamente, le sanzioni economiche sarebbero efficaci non

contro i singoli Paesi ma contro i singoli individui ed organizzazioni criminali responsabili

dei traffici e che movimentano cifre importanti di denaro tra Europa, Paesi di transito e

Paesi di origine. Colpire queste transazioni finanziarie che rendono possono il traffico e la

tratta degli esseri umani verso l’Europa potrebbe essere una strada che potrebbe essere

esplorata per ridurre buona parte dei flussi. Ciò potrebbe essere fatto adottando alcuni

degli stessi meccanismi che furono messi in atto per il contrasto alla pirateria marittima nel

Golfo di Aden, un fenomeno la cui dimensione finanziaria, portata criminale e gli effetti sui

Paesi europei era molto inferiore a quanto prodotto dalla crisi migratoria. A questo

proposito, andrebbe sostenuta la possibilità di creare, in ambito Unione Europea, un

gruppo di lavoro di intelligence finanziaria per lo studio della dimensione economica del

traffico di migranti verso l’Europa e dei canali di riciclaggio dei proventi.

83

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Stampato dalla Tipografia delCentro Alti Studi per la Difesa