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Traduzione di sette saggiTRANSCRIPT
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE
Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori
TESI DI LAUREA IN
TRADUZIONE
Traduzione di sette saggi
di Yves-Marie Duval
LAUREANDO: RELATORE: Enrico FUSCO Chiar.mo Prof. Graziano BENELLI CORRELATRICE: Chiar.ma Prof.ssa Manuela RACCANELLO
ANNO ACCADEMICO 2005/2006
In memoria della Prof.ssa Carmen Sánchez Montero
INDICE
I. INTRODUZIONE p. 7
1. Cenni sull’autore p. 9 2. Cenni sulle opere p. 9 3. Rufino di Aquileia p. 10 II. TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE p. 15 III. COMMENTO LINGUISTICO E TRADUTTIVO p. 261 1. Tipologia e funzioni testuali p. 263 2. Approccio traduttivo p. 264 3. Aspetti morfosintattici p. 265
3.1. Struttura del periodo p. 265 3.2. Sistema verbale p. 269
3.3. Stile nominale p. 272 3.4. Particelle pronominali en e y p. 273
4. Aspetti lessicali p. 275
4.1. Toponimi e antroponimi p. 275 4.2. Forestierismi p. 276 4.3. Tecnicismi p. 277 4.4. Espressioni idiomatiche p. 278 4.5. Citazioni e intertestualità p. 279
5. Aspetti stilistici p. 279
5.1. Il registro p. 279 5.2. La mise en relief p. 280
5.2.1. La dislocazione a sinistra p. 281 5.2.2. I presentativi p. 281 5.3. Altre peculiarità stilistiche p. 282
6. Punteggiatura p. 284 6.1. Punto fermo p. 284 6.2. Virgola p. 284 6.3. Punto e virgola p. 286 6.4. Due punti p. 286 6.5. Punto interrogativo p. 287 6.6. Punto esclamativo p. 287 6.7. Puntini di sospensione p. 288
6.8. Virgolette p. 288 6.9. Parentesi e lineette p. 289
7. Procedimenti traduttivi p. 289 7.1. Trasposizione p. 289 7.1.1. Trasposizione delle categorie grammaticali primarie p. 290 7.1.2. Trasposizione delle categorie grammaticali secondarie p. 293 7.1.3. Trasposizione e organizzazione sintattica p. 294 7.2 Modulazione p. 296 7.3. Trascrizione p. 297 7.3.1. Trascrizione e onomastica p. 297 7.3.2. Trascrizione e titoli p. 297 7.4. Strategie di espansione e di riduzione p. 298 BIBLIOGRAFIA p. 301
7
I. INTRODUZIONE
9
1. CENNI SULL’AUTORE
Già professore all’Università di Tours e di Poitiers, attualmente professore emerito
di lingua e letteratura latina all’Università di Paris X-Nanterre, Yves-Marie Duval è
uno dei massimi esperti viventi in materia di letteratura cristiana antica e di
patrologia. Attivo da quasi cinquant’anni (il suo primo articolo risale al 1958),
Duval è autore di numerosi saggi sui più grandi Padri della Chiesa del quarto e del
quinto secolo: da Sant’Agostino, uno dei padri fondatori del Cristianesimo, a
Sant’Ambrogio, vescovo di Milano e consigliere dell'imperatore Teodosio, da Ilario
di Poitiers, grande avversario dell'arianesimo, a San Girolamo, redattore della
versione latina della Bibbia adottata ufficialmente nel Medioevo.
Duval ha altresì dedicato un’attenzione particolare ad Aquileia, importante centro
culturale della cristianità tra gli ultimi decenni del secolo quarto e gli inizi del
successivo, e ad alcune considerevoli figure dell’Italia nordorientale, quali Rufino di
Aquileia (345-410/411), monaco che tradusse in latino, con ampi rifacimenti, le
opere di vari scrittori ecclesiastici greci, Cromazio di Aquileia, amico di San
Girolamo e vescovo della cittadina dal 388 al 408, e Sulpicio Severo, illustre
biografo di San Martino di Tours.
Perennemente in viaggio tra Italia, Svizzera e Inghilterra, Yves-Marie Duval è al
momento impegnato nella stesura di un nuovo saggio, avente per oggetto Rufino e le
Recognitiones di Clemente Romano.
2. CENNI SULLE OPERE Come si è detto, le opere di Yves-Marie Duval offrono un’accorta analisi della
Storia della Chiesa e dell’antichità cristiana, incentrandosi sulle principali
personalità del tempo, sui luoghi di maggiore rilevanza storico-religiosa (Aquileia e
Roma per l’Occidente, Alessandria e Gerusalemme per l’Oriente), sui primi Concili
Ecumenici e sulle relative ripercussioni, senza tralasciare di descrivere con dovizia
di particolari le aspre lotte ai filoni ereticali portate avanti dai più celebri difensori
del Cristianesimo.
10
La traduzione effettuata in occasione del presente elaborato riguarda sette saggi
del patrologo francese, composti tra il 1976 e il 2001. Gli articoli tradotti vertono, in
particolare, su Aquileia e sulle invasioni barbariche, sui rapporti tra la cittadina
friulana e la Palestina, su Rufino di Aquileia e sulla controversia con l’amico
Girolamo (entrambi, ricordiamolo, figure fondamentali nel campo della traduzione
cristiana) intorno all’ortodossia della dottrina di Origene, grande filosofo e teologo
di lingua greca.
3. RUFINO DI AQUILEIA Tirannio Rufino nasce a Iulia Concordia, a 30 miglia da Aquileia, intorno al 345,
da famiglia agiata, se ebbe la possibilità di completare gli studi a Roma, dove
conobbe Girolamo di Stridone (347-420), cui fu legato da profonda amicizia fino
all’insanabile dissidio provocato dalla questione origeniana. Dalla capitale rientrò in
patria intorno al 366; fino alla partenza per l’Oriente nel 373, Rufino fu membro del
gruppo ascetico di Aquileia.
Conversione, istruzione catecumenale e battesimo avvennero dunque ad Aquileia,
sua patria d’adozione, giacché Concordia non aveva ancora, a quel tempo, una
Chiesa gerarchicamente costituita. Nel 373 Rufino si metteva in viaggio per l’Egitto,
la terra dell’anacoresi, dimostrando una profonda attenzione verso le sorgenti della
più genuina vita ascetica, quale quella che nella tradizione orientale veniva praticata
da monaci e anacoreti.
L’alta ascesi non eludeva la cultura religiosa, necessaria per ribattere gli eretici
con argomenti calzanti, ma il panorama teologico di Aquileia era troppo angusto di
fronte alle nuove urgenze: era dall’Oriente che provenivano le maggiori eresie e,
oltre all’Antico e al Nuovo Testamento, occorreva conoscere i metodi esegetici
maturati nelle grandi scuole di Antiochia e di Alessandria, come pure le novità
introdotte da Origene, l’astro del tempo, che aveva scritto in greco.
Durante i cinque lustri del suo lungo soggiorno orientale, Rufino ebbe sempre
presenti due poli d’interesse: l’ascetismo monastico o anacoretico e la teologia di
Origene. Salvo la breve interruzione di un viaggio in Siria nel 378, Rufino trascorse
11
in Egitto otto anni, fondamentali per la sua formazione dottrinale, presso la scuola di
Didimo il Cieco, venerato maestro e capo della celebre scuola catechetica di
Alessandria, che lo introdusse al pensiero e alle opere di Origene (185-253), il più
grande erudito dell’antichità cristiana, sotto molti aspetti il più importante tra i
teologi della Chiesa greca.
Partito per Gerusalemme non prima del 381, Rufino vi fondò un monastero sul
Monte degli Ulivi, la cui comunità si dedicava anche alla trascrizione di manoscritti
di classici e di Padri della Chiesa, che Girolamo stesso commissionava dal proprio
monastero di Betlemme per i propri studenti dopo essersi trasferito definitivamente
in Palestina.
Lo scontro con il grande Stridoniate si verificò nel 393, all’insorgere della
polemica tra Epifanio, vescovo di Salamina, e Giovanni, vescovo di Gerusalemme,
intorno a Origene.
La controversia origeniana, scoppiata appunto in seguito all’attacco condotto dal
vescovo Epifanio contro alcune tesi del maestro alessandrino (come un certo
subordinazionismo da lui introdotto fra le persone della Trinità, l’allegorismo spinto
nell’interpretazione delle Scritture, la dottrina sull’origine delle anime e
l’escatologia), ebbe scarsa risonanza in Occidente, se si eccettua il contrasto tra
Girolamo e Rufino.
Epifanio, oltre a combattere Origene nei suoi scritti, si adoperò anche per ottenere
che fosse condannato, riuscendo, in Palestina, a tirare dalla sua parte Girolamo, fino
ad allora fervente origeniano, ma incontrando una decisa ostilità da parte del
vescovo Giovanni di Gerusalemme e dello stesso Rufino. Il voltafaccia di Girolamo
provocò la rottura con Rufino, complice anche una certa gelosia insorta tra i due
monasteri da loro stessi fondati rispettivamente a Betlemme e a Gerusalemme.
Il doloroso contrasto tra gli amici di un tempo fu innescato dalla prefazione di
Rufino (398) alla sua traduzione dell’opera teologica più importante di Origene, il
Peri Archôn o De principiis, in cui Rufino dichiarava di aver voluto eliminare i passi
di carattere eterodosso che supponevano mere interpolazioni di eretici o comunque
inaccettabili alla fine del quarto secolo, e in cui indirettamente presentava Girolamo
come ammiratore e propagandista di Origene; in effetti lo Stridoniate era stato spinto
a tradurre in latino più di settanta opere minori di Origene, così da renderlo
12
comprensibile ai Romani colti. Non era difficile concludere che Rufino avesse inteso
avvalersi dell’autorità di Girolamo per diffondere più facilmente la sua traduzione,
con il rischio di far passare quest’ultimo per un fautore del teologo alessandrino.
La reazione di Girolamo non si fece attendere; sollecitato anche da alcuni amici
degli ambienti antiorigeniani di Roma, lo Stridoniate tradusse integralmente il De
Principiis, onde mostrare i numerosi punti emendati da Rufino; mandò poi una
lettera a quest’ultimo per lamentarsi del torto subito, difendendosi, in un’altra
epistola indirizzata agli amici Pammachio e Oceano, della presunta taccia di
origenista e attaccando i sostenitori di Origene.
Rufino si difese con una breve Apologia indirizzata a papa Anastasio, volta a
riaffermare la sua retta fede, e con la più ampia Apologia contro Girolamo in due
libri (400-401). Girolamo, temendo che un suo possibile coinvolgimento nella
condanna dell’origenismo avrebbe potuto insidiare la larga fama da lui ormai
acquisita, reagì pesantemente con i tre libri dell’Apologia contro Rufino;
quest’ultimo, consigliato in tal senso anche da Cromazio, preferì non replicare più,
ponendo fine alla polemica e dedicandosi a un’intensa attività letteraria di traduzione
di fonti greche.
Al di fuori degli scritti sollecitati dalla controversia con Girolamo sulla questione
di Origene, vale la pena ricordare la traduzione della Storia Ecclesiastica di Eusebio
di Cesarea, che Rufino intraprese su richiesta del vescovo Cromazio di Aquileia,
nonché l’Expositio Symboli, opera originale di Rufino che offre per la prima volta il
testo latino del Simbolo detto Apostolico e propone una completa catechesi
dottrinale, compendiata con chiarezza e aggiornata con gli esiti della più recente
riflessione teologica.
Di fronte alle invasioni dei Goti di Alarico, Rufino abbandonò Aquileia: fra il 407
e il 408, nel monastero del Pineto presso Terracina, dettò i due libri sulle
Benedizioni dei patriarchi, una spiegazione allegorica delle benedizioni di
Giacobbe. Morì in Sicilia tra il 410 e il 411, dopo aver tradotto parte del Commento
al Cantico dei Cantici e una raccolta di omelie sui Numeri di Origene.
Rufino ebbe un peso profondo nella vita culturale dell’Occidente cristiano: fu
stimato da una schiera di dotti del suo tempo, da Cromazio a Palladio, da Gaudenzio
di Brescia a Paolino di Nola e allo stesso Agostino. Con Rufino è avvenuta la prima
13
feconda trasfusione della cultura religiosa orientale nel mondo latino, ad opera di
chierici della Chiesa di Aquileia, arricchiti di esperienza universale dai lunghi
soggiorni in privilegiati centri della cristianità, come Roma, Alessandria,
Gerusalemme.
15
II. TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE
16
Yves-Marie Duval
AQUILEIA SULLA VIA DELLE INVASIONI (350-452)
Se dovessi trattare l’argomento annunciato dal titolo nella sua interezza,
sarei costretto a scrivere tutta la storia militare e politica di Aquileia a partire
dalla fondazione della città: è infatti per opporsi ai Galli, che avevano varcato
le Alpi e cominciato a insediarsi ai piedi delle Alpi Giulie, che la colonia fu
dedotta nel 181 a.C. (di fatto, già nei primi anni, Aquileia dovette far fronte
alle incursioni dei Galli). In realtà non si tratta nemmeno di seguire quello che
chiamerò il movimento di riflusso dell’Impero romano, che ha avuto inizio,
potremmo dire, ad Aquileia, sotto Marco Aurelio, quando i Marcomanni e i
Quadi si aprirono un varco nel fronte del Danubio, giunsero fino alle mura di
Aquileia e, non riuscendo a conquistare la città, andarono a distruggere
Opitergium. Da questo segnale d’allarme si deve trarre una lezione: le vie
romane, che sono state vie strategiche perfette e hanno contribuito in modo
determinante alla conquista, sono state anche meravigliose vie di penetrazione
per i barbari, già nella seconda metà del II secolo, ma soprattutto a partire
dalla metà del IV, che segna l’inizio del presente studio1.
Nel corso del secolo da me scelto (350-452) per illustrare il ruolo di «porta
d’Italia» rivestito da Aquileia, non mi limiterò alle invasioni barbariche.
Tenterò di seguire tutti gli eserciti romani e barbari che si sono
presentati sotto le mura di Aquileia, o che sono stati anche solo avvistati
1 Un esempio è dato dall’incursione dei Leti su Lione, come descritta da Ammiano (XVI,
11). Giuliano, per ostacolarli sulla strada del ritorno, «tria obseruauit itinera, sciens per
ea erupturos procul dubio grassatores. Nec conutas ei insidianti inritus fuit!» (XVI, 11,
5).
17
dall’alto dei colli delle Alpi Giulie. Vedremo che questi eserciti si somigliano,
e che le guerre civili e le incursioni barbariche sono spesso collegate, come i
contemporanei hanno avuto più volte modo di notare.
Riprenderò quindi con voi, ad Aquileia, alcuni testi, scritti ad Atene, a
Milano, a Roma, a Betlemme e in Gallia, a una distanza che va da qualche
mese a una decina d’anni dagli avvenimenti cui si riferiscono, se non
addirittura secoli, testi che non sempre hanno parlato di Aquileia2. A
mio avviso, e non per spirito campanilista3, tale rilettura consente di
esaminare molti eventi da un «punto di vista» inedito4. D’altra parte i
2 Indicherò, in conclusione, gli altri limiti di questi documenti scritti. 3 Mi terrò più vicino possibile ad Aquileia e all’arco orientale delle Alpi, il che non è
privo d’inconvenienti, perché Aquileia è legata non soltanto all’Italia settentrionale, ma
anche alle province d’oltralpe, come figura pure nella nostra documentazione, per quanto
frammentata. Non parlerò della Pannonia e degli studi successivi di A. ALFÖLDI, Der
Untergang der Römerschaft in Pannonien I-II, Berlin 1924-1926 e di L. VARADY, Das
letzte Jahrhyndert Pannoniens (376-476), Amsterdam 1969, quest’ultimo molto discusso
(J. HARMATTA, The Last Century of Pannonia, in Ac. Ant. Hung., 18, 1970, pp. 361-369;
T. NAGY, The Last Century of Pannonia in the Light of a new Monograph, Ibid., 19,
1971, pp. 299-345; A. MÓCSY, recensito in A. Arch. Hung., 23, 1971, pp. 347-360 – con
risposta di L. VARADY, Pannonica, Ibid., 24, pp. 271-276), benché presenti una
frammentazione che rende molto bene l’idea di quanto sia spezzettata la nostra
documentazione. 4 Di grande utilità è stato il confronto tra le mie interpretazioni e quelle di O. Seeck
(Geschichte des Untergangs der antiken Welt, t. IV-VI, Stuttgart, s.d.); E. Stein - J.R.
Palanque (Histoire du Bas-Empire, trad. fr., t. I, Paris 1958); in seguito verranno citati
altri studi più o meno particolari che ho utilizzato. Ma oltre a qualche testo nuovo da
allegare al dossier o la cui datazione va corretta, Aquileia risulta essere un buon
osservatorio per esaminare le ripercussioni di quanto avviene nelle due partes
imperii, il che, a mia conoscenza, è stato fatto solo di rado, anche per quanto riguarda A.
18
testi5 che rievocano Aquileia devono poter essere controllati dall’archeologia;
vanno interpellati sia gli scavatori di Aquileia6 e della regione, sia quelli che
operano al di là delle Alpi. Indubbiamente, nonostante questa duplice via, ci
avvicineremo solo in parte alla gente di Aquileia, che nel corso di questo
secolo ha visto passare gli eserciti, uno dopo l’altro, gli imperatori, vincitori e
vinti, e i capi barbari, trionfanti e sconfitti. Riguardo a tale periodo non
abbiamo nessuna Cronaca della città di Aquileia. Che io sappia, soltanto due
abitanti di Aquileia hanno rievocato, per la loro cittadina, la vicinanza dei
barbari: Cromazio, in un sermone pasquale, e Rufino, nel testo celebre, ma
forse mal compreso, della Prefazione alla Storia della Chiesa. Tuttavia è a
questa folla, ora all’ippodromo e ora sui bastioni, ora coinvolta suo malgrado
nei rovesci e nei successi, ora nell’angoscia dell’invasione, dell’assedio
o della prigionia, che bisogna guardare. Probabilmente, durante i primi
venticinque anni del secolo, il pericolo non è da considerarsi
incombente; ma a partire dal 378 Aquileia si sentirà sempre meno
Calderini (Aquileia romana, Milano, s.d. (1930), pp. 71-90). Sulle questioni
topografiche, che sono state rivedute dai recenti scavi jugoslavi, cfr. O. CUNTZ, Die
römische Strasze Aquileia-Emona, ihre Stationem und Befestigungen, in Jahresh, d. Öst.
Arch. Inst., 5, Beiblatt, 1902, pp. 139-159; K. PICK - W. SCHMID, Die Grenzbefestigung
der Julischen Alpen, Ibid., 21-22, 1922, pp. 295 sgg.; S. STUCCHI, Le difese romane alla
porta orientale d’Italia e il vallo delle Alpi Giulie, in Aevum, 19, 1945, pp. 342-356; A.
DEGRASSI, Il confine Nord-orientale dell’Italia romana, Berna 1954. 5 Per le rappresentazioni figurate cfr. la vignetta del Comes Italiae nella Notitia
dignitatum (Ed. O. Seeck, II ediz. (1962), p. 173) e la rappresentazione di Aquileia sulla
Tabula Peutingeriana. Cfr. fig. 1 e 2. 6 Sulle fortificazioni di Aquileia cfr. G. BRUSIN, Le difese della romana Aquileia e la
loro cronologia, in Corolla memoriae Erich Swoboda dedicata, 1966, pp. 84-94; B.
FORLATI-TAMARO, Le cinte murarie di Aquileia e il suo porto fluviale, in «Atti della
deputazione di Storia patria delle Venezie», 1974, estr.
19
al sicuro dietro il baluardo delle Alpi, e a poco a poco il pericolo si avvicinerà,
con una serie d’ondate che solo di rado raggiungeranno il punto di partenza.
Tali ondate hanno un che di monotono, se così si può dire. Cercheremo di
vedere assieme da dove proviene questa monotonia. Non sono lontano dal
credere che le «ondate» siano state sempre meno violente. Probabilmente è per
questo che Aquileia ha impiegato così tanto tempo a morire, se è morta a
causa delle invasioni, se mai è morta!
I. AQUILEIA E LE ALPI GIULIE
DURANTE L’USURPAZIONE DI MAGNENZIO
Aquileia e le usurpazioni
Il secolo che analizzerò si apre con un’usurpazione. Un altro conflitto
interno ci ha portati ad Aquileia dodici anni prima, quando Costantino II viene
ucciso ad Aquileia o nei dintorni. Vedremo spesse volte il destino dell’Impero
decidersi in questo anello di congiunzione tra Oriente e Occidente; ma a dire il
vero, nel conflitto tra Costantino II e Costante, è difficile dire se la città e i
colli alpini abbiano avuto un ruolo considerevole, anche se le nostre fonti
contengono strane e sfortunate lacune. La loro importanza è invece innegabile
nella guerra tra Costanzo II e l’usurpatore Magnenzio. Aquileia e i passi delle
Alpi Giulie avranno la triste particolarità di veder terminare nelle vicinanze un
certo numero di usurpazioni, che si tratti di quella di Massimo nel 388, di
Eugenio nel 394 o di Giovanni nel 425, fino al tempo di Odoacre e di
Teodorico, quando il possesso dei colli segnerà, come all’epoca di Magnenzio
e di Costantino, una svolta nel conflitto.
I cavalieri illirici
Per quanto riguarda l’usurpazione di Magnenzio7 bisogna cominciare
7 Su quest’usurpazione e sul le r ipercuss ioni nel l ’ I ta l ia nordor ienta le e
n e l l ’ I l l i r i c o c f r . s o p r a t t u t t o , o l t r e a l l e o p e r e c i t a t e
20
Fig. 1 – Notitia dignitatum, Occid., XXIV: Vignetta
del Comes Italiae, con la rappresentazione del
Tractus Italiae circa Alpes e delle fortificazioni
poste a difesa delle montagne (Bodleian Library,
Ms. Canon. misc. 378, XV s., f. 155).
21
Fig. 2 – Tabula Peutingeriana. L’Alto Adriatico, con la
città di Aquileia e la via che, attraverso Ponte Sonti,
Fluvius Frigidus, In Alpe Iulia (= Ad Pirum), Longaticum
e Nauportus, porta a Emona oltrepassando le Alpi Giulie.
22
col recarsi in Gallia, ad Autun, dove il 18 gennaio 350 quest’ufficiale mezzo
barbaro è proclamato Augusto8. Zosimo assicura che, in questo
pronunciamento, le truppe illiriche hanno rivestito un ruolo indiscutibile9.
L’Illirico a quel tempo appartiene, certo, a Costante, e non stupisce che le
truppe d’élite costituite dai Pannonici siano state condotte verso il Reno. Allo
stesso modo non va dimenticato che una ribellione di truppe trasferite porterà
all’usurpazione di Giuliano, sempre in Gallia, dieci anni dopo, e soprattutto
che i contingenti illirici spostati dalla Pannonia da Giuliano si fermeranno ad
Aquileia, invece che recarsi in Gallia. Le informazioni di cui disponiamo sono
insufficienti per poter costruire solide ipotesi, ma è lecito pensare che la
presenza di queste truppe illiriche spieghi, anche solo in parte, la rapidità con
cui Magnenzio diventa, in un mese, padrone di tutta l’Italia. Il 28 febbraio 350 entra in
di O. Seeck e di E. Stein - J.R. Palanque, P. BASTIEN, Le monnayage de Magnence, Paris
1964; A. JELOČNIK, Les multiples d’or de Magnence découverts à Emona, in «R. Num»,
1967, pp. 209-235; Quelques remarques sur les émissions de maiorinae frappées par
Magnence à Aquilée, Ibid., pp. 246-251; V. NERI, Il miliario di S. Maria in Acquedotto
alla luce dei più recenti studi magnenziani, in «Studi Romagnoli», 20, 1969, pp. 369-
374; J. SAŠEL, The Struggle between Magnentius and Constantius II for Italy and
Illyricum, in «Živa Antika», 21, 1971, pp. 205-216. 8 L. Laffranchi (Commento numismatico alla storia dell’imperatore Magnenzio e del suo
tempo, in «Atti e Memorie dell’Istituto Italiano di Numismatica», 1930, t. 6, pp. 170-
171) proponeva di vedere nella data del 18 gennaio 350, fornita in modo indifferenziato
dai Consul. Constantinopolitana (Chronica Minora, I; Ed. Th. Mommsen, MGH, AA IX,
p. 237), la data della morte di Costante a Elna e non quella dell’usurpazione di Autun.
P. Bastien (Le monnayage de Magnence, Paris 1964, pp. 9-10) invalida tale ipotesi. 9 ZOSIMO, Historia nova, 2, 42, 4 (Ed. Fr. Paschoud, pp. 114-115). L’intervento dei
cavalieri illirici è un aspetto trascurato dagli storici moderni, che sono soliti opporre,
nello svolgimento dell’usurpazione, truppe «galliche» e truppe illiriche. Magnenzio non
poteva che vedere di buon occhio questa riunione, approfittandone.
23
carica, a Roma, il Prefetto della città nominato da Magnenzio, Fabio Tiziano10,
che rivestirà un ruolo fondamentale durante l’usurpazione di Magnenzio11.
Nelle settimane che precedono Aquileia è caduta nelle mani di Magnenzio,
giacché l’officina monetaria mostra che la città di Aquileia accoglie
Magnenzio acclamandolo con il titolo di Liberator Reipublicae12, dopo avergli
conferito il titolo di Restitutor libertatis13.
I claustra Alpium Iuliarum
Aquileia era una semplice tappa secondo i piani di Magnenzio; in gioco
c’era il vecchio appannaggio di Costante, che andava fino alla Tracia, al cui
riguardo ci si domandava se spettasse a Magnenzio, «successore» di Costante,
o se sarebbe stato accaparrato da Costanzo II, i cui possedimenti erano rimasti
gli stessi dopo la divisione del 337. Magnenzio poteva e doveva trarre
vantaggio dall’effetto sorpresa e dall’allontanamento di Costanzo, fermato
sulle rive dell’Eufrate14. Molti aspetti della vicenda sono noti; inoltre c’è una data che
consente di collocare nel tempo l’insuccesso di Magnenzio: il primo marzo del 350, a
Mursa, è proclamato Augusto il magister peditum Vetranione15, che funge in
10 Cronografo del 354 (Ed. Th. Mommsen, MGH, AA XI; Chron. Min., I, p. 69) – A.
CHASTAGNOL, La préfecture urbaine à Rome, Paris 1960, p. 420. 11 Sarà lui a insultare Costanzo dopo i primi rovesci del 351: ZOSIMO, Hist. nov., 2, 49, 1. 12 Multipli d’oro emessi ad Aquileia: Liberator reipublicae (BASTIEN, op. cit., p. 11;
Catal., n. 302), con la città di Aquileia che si inchina all’imperatore che avanza a
cavallo, non diademato (A. JELOČNIK, Les multiples d’or de Magnence découverts à
Emona, in «R. Num», 6e s., IX, 1967, p. 216 e pl. XXXV, 2, 3, 4). 13 P. BASTIEN, op. cit., pp. 48-49 e Catal., n. 301. 14 Dal 340 Costanzo è intento a difendere la frontiera orientale dalle ripetute offensive di
Shapur. Nel 350 Nisibis per poco non è caduta. Al tempo dell’usurpazione si trova a
Edessa, secondo Filostorgio (Hist. eccles., 3, 22 – Ed. J. Bidez, GCS 21, p. 49, l. 5). 15 I Consul. Constant. (Ed. Mommsen, I, p. 237) propongono Sirmio; ma Girolamo
(Chron. ad. a. 351; Ed. Helm, GCS 47, p. 238) colloca la scena a Mursa.
24
realtà da prestanome per gli intrighi familiari e dinastici di Costantina, sorella
maggiore di Costanzo II16, e del Prefetto del pretorio dell’Illirico, Vulcacio
Rufino, fratello di Galla, moglie di Giulio Costanzo e madre del futuro Cesare,
Gallo17.
Il primo marzo Magnenzio ha dunque fallito. Ci si può chiedere se i ritardi
subiti nel passare le Alpi Giulie abbiano influito su questo fiasco. A tale
proposito esiste un testo di Ammiano Marcellino alquanto enigmatico. Gli
storici18 sono soliti far risalire il suo contenuto al 352; ma la sua struttura
invita a collocarlo nel 350, anno dell’arrivo delle truppe di Magnenzio nei
pressi di Aquileia19. Nel racconto relativo agli avvenimenti dell’estate del 378
Ammiano narra il destino di una piccola truppa, condotta dal magister peditum
Sebastiano, che si vede negare l’accesso alla città di Adrianopoli; gli abitanti
temono di ritrovarsi davanti gli uomini fatti prigionieri dai Goti20, i quali, una
volta accolti nella città, la consegneranno ai Goti. Ammiano aggiunge che i
difensori di Adrianopoli temono che succeda loro ciò che accadde «per
colpa del Conte Atto, il quale, fatto prigioniero dai soldati di
Magnenz io , aveva aper to con l ’ inganno i c laus t ra d e l l e A l p i
16 FILOSTORGIO, Hist. eccles., 3, 22 (Ed. J. Bidez, GCS 21, p. 49, ll. 7 sgg.). 17 È lui che sarà mandato da Costanzo II per conto di Vetranione, insieme con altri
inviati di Magnenzio, e sarà il solo a non essere imprigionato: PIETRO PATRIZIO, fr. 16
(Ed. K. Müller, FHG 4, p. 190). Quest’ambasciata si colloca dopo l’insuccesso di
Magnenzio sull’Illirico e dopo la presa dei Claustra. 18 Così O. SEECK, op. cit., IV, p. 115 e numerosi storici dopo di lui. 19 Che io sappia, il primo ad aver proposto la data del 350 per tale avvenimento è J.
SAŠEL, The Struggle between Magnentius and Constantius II for Italy and Illyricum, in
«Živa Antika», 21, 1971, p. 207, n. 11), senza però fornire nessuna giustificazione, salvo
quella strategica. 20 Per poco non saranno sorpresi da un trucco del genere subito dopo il disastro del 9
agosto: AMMIANO, Res Gestae, 31, 15, 7-9.
25
Giulie»21. Benché non motivino la loro interpretazione22, gli storici moderni
pensano forse a quanto successe a Ravenna nel 425, allorché Ardabur, fatto
prigioniero da Giovanni, riuscì a entrare in contatto con le truppe del figlio
all’esterno, a prezzolare la guarnigione ravennate e a consegnare così la città.
In realtà il confronto tra le situazioni del 378 e del 350 impone, se è corretto23,
di vedere nei difensori dei claustra non la schiera di Magnenzio, bensì quella
di Costante24 o di Vetranione25.
La proclamazione di Vetranione a Mursa fu i l punto di
partenza di una serie di trat tat ive diplomatiche, su l l e qu a l i non
21 AMMIANO, Res Gestae, 31, 11, 3: «Qui (Sebastianus) itineribus celeratis conspectus
prope Hadrianopolim obseratis ui portis iuxta adire prohibebatur, ueritis defensoribus ne
captus ab hoste ueniret et subornatus atque contingeret aliquid in ciuitatem perniciem
quale per Actum acciderat comitem quo per fraudem Magnentiacis militibus capto
claustra patefacta sunt Alpium Iuliarum». 22 Seeck (op. cit., IV, p. 115) sembra far dipendere per fraudem da capto e non
dall’insieme della frase o da patefacta sunt. 23 Gli abitanti di Adrianopoli temono che / Sebastiano (a) / preso dai Goti (b) / consegni
(c) / Adrianopoli (d) // come Atto (a’) / preso dai soldati di Magnenzio (b’) / ha
consegnato (c’) / i claustra (d’). In entrambi i casi è necessario che il traditore (a-a’) sia
stato «comprato» dal nemico (b-b’: i Goti o i soldati di Magnenzio) e che appartenga alla
schiera delle future vittime del tradimento: i Romani di Adrianopoli o i difensori (non di
Magnenzio) dei Claustra. 24 Non disponiamo di nessun’altra informazione su Atto; non è possibile dire se si tratti
di un comes di Costanzo (Seeck) invece che di Costante. D’altra parte Magnenzio non ha
dovuto attendere la morte effettiva di Costante per cercare di prendere il sopravvento in
Italia. Atto è forse stato sorpreso ad Aquileia e usato per impadronirsi dei Claustra,
verso cui sarebbe venuto come se restasse fedele a Costante? Va comunque ricordato che
nel 361-362 Aquileia resisterà oltre la morte di Costanzo II. 25 Se gli avvenimenti si verificano dopo il primo marzo.
26
mi soffermerò26. Mi limiterò a dire che i possedimenti iniziali di Costante
nell’Illirico passano in via definitiva a Costanzo II quando, il 25 dicembre del
350, Vetranione depone la porpora a Naisso27. Filostorgio, che attribuisce a
Vetranione ambizioni personali nascoste, dichiara che la posizione ambigua
dell’usurpatore fu risolta quando egli prese la decisione di occupare il passo di
Succi, che impediva a Costanzo l’accesso dalla Tracia. A tale proposito
rievoca «le gole delle Alpi Giulie», senza dire che a quel tempo erano sotto il
suo controllo e tacendo la località esatta di queste gole28.
Atrans come porta d’ingresso d’Italia
Forse si tratta del passo di Atrans29, che Costanzo cercherà di varcare
nella primavera del 351. Fu un insuccesso, tanto che le truppe di Costanzo
dovettero ritirarsi30 inseguite da Magnenzio, p r e s e n t e o r a s u l t e a t r o
26 Cfr. in particolare ZONARA, XIII, 7, 17-21; ZOSIMO, II, 44, 1-2; FILOSTORGIO, 3, 22;
PIETRO PATRIZIO, fr. 16; quadro d’insieme in J. SAŠEL, art. laud., p. 209. 27 Data presente nei Consul. Constant. (Ed. Mommsen, I, p. 238); la scena in Giuliano,
Zosimo ecc; il luogo in Girolamo (Chron. ad. a. 351 – p. 238). 28 FILOSTORGIO, Hist. eccles., 3, 24 (Ed. J. Bidez, GCS 21, p. 50, ll. 13-19). 29 Potrebbe trattarsi del Colle del Pero, ma non bisogna mai dimenticare che la Venetia
et Histria si estende, a nord delle Alpi Giulie, fino ad Atrans, a 45 km a est di Emona,
sulla via Emona-Celeia-Poetovio, luogo in cui si entra a tutti gli effetti, per il rilievo e
per il clima, nel bacino della Drava. L’Itinerarium Burdigalense (Ed. P. Geyer – O.
Cuntz, CC 175, p. 5) riporta: «Mansio Hadrante milia XIII – Fines Italiae et Norci»; la
Tabula Peutingeriana colloca prima di Atrans una stazione Ad Publicanos, altamente
significativa. Cfr. A. CALDERINI, op. cit., pp. 243-244. 30 Il nome di Adrana è indicato da Zosimo (II, 45, 3) in un racconto ingarbugliato e
palesemente errato. Giuliano parla nei suoi due discorsi (I, 28-29 e III, 36)
dell’insuccesso dell’avanguardia di Costanzo, presentato altrove come una trappola tesa
a Magnenzio (III, 7).
27
delle operazioni. Il vantaggio resta, grosso modo31, a favore di Magnenzio fino
alla fine di settembre e fino alla sanguinosa battaglia di Mursa, che graverà
pesantemente sulla debolezza dell’esercito romano, nel mezzo secolo a
venire32. La battaglia era stata troppo incerta e ottenuta a un prezzo troppo
elevato perché Cromazio, definito da Ammiano amministratore del sangue
delle truppe33, abbia cercato di far pendere definitivamente la bilancia dalla
propria parte. D’altronde l’anno era già inoltrato34 e Costanzo preferì lanciare
un’offensiva generalizzata contro tutto il Mediterraneo.
31 Per la testimonianza delle monete e in particolare per le emissioni di Siscia durante
l’estate del 351 cfr. P. BASTIEN, op. cit., pp. 18-19 e A. JELOČNIK, art. cit., p. 228; per il
piano della campagna J. SAŠEL, The Struggle cit., pp. 211-213. Mi sembra che gli eserciti
di Costanzo siano prima avanzati e si siano poi ritirati lungo le due valli della Drava e
della Sava; da qui il passaggio dalla Drava alla Sava (Siscia) lungo l’asse Poetovio-
Andautonia (a N-O di Siscia). Probabilmente Costanzo aveva provato a prendere Emona
da entrambi gli accessi. Confronta la campagna di Teodosio contro Massimo nel 388. 32 Sul disastro romano di Mursa: AURELIO VITTORE, De Caesaribus, 42: «in quo bello
paene nusquam amplius Romanae consumptae sunt uires totiusque imperii fortuna
pessumdata»; GIROLAMO, Chron. ad a. 351 (Helm, p. 238): «Magnentius Mursae uictus;
in quo proelio Romanae uires conciderunt». Zonara fornisce numeri impressionanti
(54.000 morti su circa 120.000 uomini) e dichiara che Costanzo piangerà sul campo di
battaglia cosparso di corpi (XIII, 8, 16-17). Il giudizio più dettagliato, interessante in
quanto illustra le conseguenze di quest’ecatombe sulla difesa delle frontiere, è dato da
Eutropio (Breu. X, 6): «Ingentes romani imperii uires ea dimicatione consumptae sunt ad
quaelibet bella externa idoneae quae multum triumphorum possent securitatisque
conferre». 33 AMMIANO, Res Gestae, 21, 16, 3: «in conseruando milite nimium cautus...». 34 La battaglia di Mursa si tiene il 28 settembre. Giuliano insiste su questo motivo (Or. I,
3, 38 b). Ciò solitamente basta perché lo si consideri insufficiente. Aurelio Vittore
(Caesar. 42, 5) rievoca l’hiems aspera clausaeque Alpes. L’autunno fu forse brutto in
quell’anno?
28
Magnenzio ad Aquileia
Mentre Costanzo festeggiava la vittoria facendo erigere un arco di trionfo
nella Pannonia35, restaurava le vie d’accesso verso l’Italia che doveva
conquistare36 e tentava di vincere le popolazioni dell’Illiria e d’Italia con varie
misure37, Magnenzio si trovava ridotto alla difensiva: da Aquileia sorvegliava
sia le vie delle Alpi Giulie, sia le coste del golfo dell’Adriatico, dove avrebbe
potuto aver luogo uno sbarco che lo avrebbe attaccato da dietro. Un certo
numero di misure e di avvenimenti relativi alla campagna del 352 ci è noto
grazie a due panegirici di Giuliano, da cui tuttavia non si può pretendere
un’obiettività assoluta38, specie nel descrivere l’attività di Magnenzio ad Aquileia.
Riguardo ad Aquileia, Giuliano dichiara che si tratta di una
«città voluttuosa e opulenta»39, un «mercato assai florido e
traboccante di ricchezze»40. Ma al quadro oggettivo si mescola la
35 AMMIANO, Res Gestae, 21, 16, 15; GIULIANO, Or., I, 30 (37 b). Su questo trionfo in
una guerra civile cfr. le mie Remarques sur la venue à Rome de l’empereur Constance II
en 357 d’après Ammien Marcellin, in Caesarodunum, 5, 1970, pp. 299 sgg. 36 Lavoro attestato nel miliare del CIL III, 3705 (ILS 732), datato 353, che rievoca
l’usurpazione: «... viis munitis, pontibus refecti[s], recuperata re publica, quinarios
lapides per Illyricum fecit ab Atrante ad flumen Savum milia passus CCCXLVI». Si
tratta dell’ingresso in «Italia»; Costanzo si vede elogiato in un territorio che possiede per
la prima volta. 37 GIULIANO, Or., I, 31 (38 b-c). Poiché la storia religiosa è relativamente ben nota, si
amplifica l’interesse di Costanzo per la «teologia», mentre egli si comporta da
imperatore romano, attento in egual misura agli aspetti religiosi e politici del suo
incarico. 38 Il primo panegirico risale alla fine del 356 – inizio del 357 (Or. I: Elogio di Costanzo).
Su alcune questioni è più preciso rispetto al Costanzo o sulla regalità (Or. III), datato
358-359. Ma in entrambi i casi bisogna tener conto sia del genere letterario, sia dei
rapporti molto particolari tra Giuliano e Costanzo. 39 GIULIANO, Or., I, 31 (39 d). 40 GIULIANO, Or., III, 17 (71 d).
29
volontà di dipingere il «tiranno» immerso nel lusso e nella dissolutezza. Da
buon filosofo, Giuliano descrive Magnenzio «in mezzo alle feste e ai
piaceri»41; sembra che questi sia occupato a guardare le corse all’ippodromo42,
quando gli arriva la notizia che Costanzo si è impadronito delle fortificazioni
del colle43.
La fortezza del Colle del Pero
È la prima volta nel IV secolo che appare la menzione di questi castra.
Giuliano dice esplicitamente che si trattava di un’«antica fortezza che il
tiranno scelse per la fuga, e che mise a nuovo con l’aiuto di nuove
fortificazioni»44. Stando a quanto afferma Giuliano, non si poteva «né piantare
un accampamento, né uno steccato a portata della fortezza, né far avanzare le
macchine da guerra e le elepoli»45. Ma i due racconti di Giuliano differiscono
quanto alla maniera in cui fu presa questa temibile fortezza. Nel secondo
racconto Costanzo non perse nemmeno un uomo durante l’attacco46. Nel
primo l’attacco avviene in due tempi: un assalto ebbe luogo alle prime luci
dell’alba, a partire da un «sentiero sconosciuto da tutti»47. Solo
quando il nemico è alle prese con questo commando, Costanzo fa avanzare il
grosso dell’esercito48. Manovra di accerchiamento, possibile se consideriamo
41 GIULIANO, Or., I, 31 (39 d). 42 Ibidem (39 c-d). Nel secondo discorso Giuliano riconosce che Magnenzio «si
allontanava poche volte» dalle fortificazioni (Or. 3, 17 – 71 d). 43 Secondo A. Degrassi (Il confine nord-orientale dell’Italia romana, Berne 1954, p.
140) si tratterebbe della fortezza di Ajdovščina, alle falde occidentali del Colle del Pero,
dove si terrà la battaglia del fiume Frigido. Ciò però contrasta con la descrizione di
Giuliano di una fortezza inaccessibile, senza neanche un filo d’acqua nelle vicinanze
(Or. III, 18-72 d). Così A. JELOČNIK, art. cit., p. 229 e n. 6. 44 GIULIANO, Or., III, 17 (71 c). 45 Ibidem, III, 18 (72 d). 46 Ibidem (73 a-b). 47 GIULIANO, Or., I, 32 (39 b). 48 Ibidem (39 b-c).
30
che Arbogaste nel 394 ne tenterà una – dello stesso genere? – contro Teodosio,
ma che cozza con la presentazione di una fortezza inaccessibile, specie per
gran parte dell’esercito49.
È qui che andrebbe collocata, secondo Seeck, l’allusione di Ammiano
Marcellino, che abbiamo visto collocata nel 350. Magnenzio e i suoi ufficiali
si sarebbero lasciati prendere da uno stratagemma già tentato contro Costanzo,
secondo il racconto di Zonara50: l’avvenimento si colloca dopo la sconfitta di
Mursa, senza ulteriori precisazioni. Non sappiamo chi fossero i vescovi che
Magnenzio mandò, senza successo, da Costanzo51. Fortunaziano di Aquileia
faceva forse parte della delegazione? È impossibile dirlo, come impossibile è
sapere in quale momento ottenne la fiducia di Costanzo. Zonara dice che molti
soldati di Magnenzio, di fronte all’avanzata dell’esercito di Costanzo, lo
abbandonarono e consegnarono le piazzeforti (φρούρια) in cui si trovavano52,
ma la reazione attribuita a Magnenzio lo mostra in Gallia, sicché è impossibile
sapere in quale posto e in quale preciso momento si collochino tali defezioni e
se queste riguardino la frontiera delle Alpi Orientali e la città di Aquileia, che
Magnenzio non lasciò prima della fine dell’estate del 35253.
49 Si può pensare che il commando abbia interrotto le comunicazioni del forte con
Aquileia e che, non potendo più essere soccorsi, i difensori abbiano preferito capitolare.
Anche il denaro e le promesse hanno fatto il loro dovere. 50 ZONARA, XIII, 8, 20. 51 Ibidem, XIII, 8, 21-22. 52 Ibidem, XIII, 8, 23. 53 Il 27 maggio 352 Costanzo è ancora a Sirmio secondo C. Theod. VII, 1, 2, risalente
allo stesso anno. La prima misura che presuppone la sua presenza in Italia
ha come data il 26-9-352 (Cronogr. del 354; Ed. Mommsen, Chron. Min. I, p. 69); P.
Bastien (op. cit., pp. 68-69) e A. Jeločnik (art. cit., p. 230 e n. 2) collocano quindi la
presa di Aquileia a inizio settembre, il che mi sembra plausibile, ma come data
limite, perché Magnenzio nomina Settimio Mnasea alla Prefettura della città il
9 settembre, s e c o n d o i l C r o n o g r a f o d e l 3 5 4 ( M O M M S E N , C h r o n .
31
La spedizione marittima
Se Magnenzio fu colto di sorpresa e non si trovava né a Emona54 né al
Castellum alpino, bensì ad Aquileia, non era solo per stare, da bravo
imperatore, in mezzo al suo popolo all’ippodromo55. Il soggiorno ad Aquileia
è dovuto alla volontà di opporsi a un’operazione marittima di Costanzo56. A
tale proposito vorrei fare un’osservazione, che andrebbe ripetuta ogni qual
volta Aquileia vedrà affrontarsi nei suoi paraggi truppe romane (intendendo
cioè le truppe di due contendenti romani all’Impero), riguardante il
coordinamento di una spedizione terrestre e di una manovra marittima. È forse
quello che differenzia maggiormente le guerre civili dalle incursioni barbariche:
i barbari non possiedono nessuna flotta fino alla metà del V secolo circa57. Partita la
campagna contro Magnenzio, Costanzo lancia la sua flotta contro l’Italia, l’Africa,
Min., I, p. 69 – A. CHASTAGNOL, op. cit., p. 422). Le ultime emissioni monetarie di
Aquileia sarebbero cominciate nel luglio del 352 (A. JELOČNIK, Quelques remarques sur
les émissions de Maiorinae frappées par Magnence à Aquilée, in «R. Num.», 1967, p.
251). Come si spiega, però, che Magnenzio non abbia cercato di resistere ad Aquileia,
che viene descritta come una città inespugnabile? Oltre al timore di essere accerchiato
dalla spedizione marittima di cui si parlerà qui di seguito, mi domando se non si debbano
chiamare in causa gli avvenimenti occorsi in Gallia, dove, dopo le vittorie rievocate
dall’emissione in argento Triumfator gentium barbarorum (BASTIEN, p. 63 – Catal. n.
346), avviene la cruenta invasione del 352 (J. SCHWARTZ, Trouvailles monétaires et
invasions germaniques sous Magnence et Décence, in «Cahiers alsaciens d’archéologie,
d’art et d’histoire», 33, 1957, pp. 33-49). 54 La città è troppo poco fortificata per resistere a un lungo assedio. 55 Non è infatti per gusto personale, ma per dovere nei confronti della sua carica, che
Magnenzio si trova all’ippodromo; ci si può chiedere se l’ora indicata – mezzogiorno –
non sia scelta da Giuliano per screditare Magnenzio. 56 Giuliano cita le spedizioni contro la Sicilia, contro l’Africa e contro le foci del Po (Or.
III, 1974 c-d). 57 Prima menzione nel Cod. Theod., 9, 40, 24, con data 24-9-419, di punizioni nei
confronti di coloro «qui conficiendi naues incognitam ante peritiam barbaris
tradiderunt», sul Ponto Eusino.
32
la Spagna, ma innanzitutto contro l’Alto Adriatico, descritto due volte da
Giuliano58. Nel 387 è la flotta che permette a Valentiniano II di sfuggire a
Massimo; vedremo in seguito l’importanza della spedizione marittima del 388
contro Massimo. Si comprende allora che Stilicone, nel 408, ha chiuso i porti
d’Italia59, cominciando probabilmente da quello di Aquileia, per impedire
l’accesso alla flotta orientale; capiamo inoltre perché Attalo, nel 409-410, fece
di tutto per non consegnare ad Alarico la flotta che gli avrebbe consentito di
passare in Africa60. Il pericolo barbaro, fino al 440 per l’Italia occidentale e
fino a molto più tardi per l’Adriatico, giungerà solo via terra; si profila così il
destino di Aquileia, che la condurrà su di un’isoletta difficile da raggiungere
dall’interno, pur permettendole di rimanere in qualche modo quel «mercato di
mesici, di pannonici e di italiani dell’interno» che Giuliano ritrae in piena
attività nel secondo Panegirico di Costanzo61. Ciò che ha fatto l’opulenza di
Aquileia e l’ha trasformata in granaio per gli eserciti, in centro di scambio per
i vari commerci e in quartier generale per unire le operazioni terrestri e
marittime fa anche la sua disgrazia, attirando verso di essa le incursioni
barbariche, che iniziano a moltiplicarsi in questa metà di secolo.
Guerre civili e invasioni barbariche
Giuliano paragona l’irruzione delle truppe di Magnenzio in Italia e verso
Aquileia a una vera e propria invasione barbarica. Alle fila dell’esercito
dell’usurpatore, infatti, si sono uniti non soltanto i Celti e i Galli, ma
anche i Franchi e i Sassoni62. Questo esercito fa «tremare gli Illirici, i
Pannonic i , i Trac i , g l i Sci t i e l ’Asia s tessa» 63, f a c e n d o t e m e r e
58 GIULIANO, Or., I, 31 (38 d); III, 17 (72 d). 59 Cod. Theod., VII, 16, 1. 60 ZOSIMO, Hist. nov. 6, 12. 61 GIULIANO, Or., III, 17 (71 d). 62 GIULIANO, Or., I, 28 (34 d). 63 Ibidem (35 b-c).
33
una nuova invasione gallica64. Ma oltre al riferimento storico al tumultus
gallicus e al desiderio di trasformare Magnenzio nel capo di un esercito
barbaro, c’è dell’altro. Giuliano rimprovera a Magnenzio di aver utilizzato
contro l’Impero «i preparativi che aveva messo in atto contro i barbari»65 e
soprattutto di aver evacuato «dalle loro guarnigioni tutte le città e le fortezze
vicine al Reno e di averle consegnate, senza difese, ai barbari»66. Non sarà
l’ultima volta in cui constateremo la coincidenza tra guerra civile in Italia e
attacco barbarico sul Reno, nonché sul Danubio. Ma su Costanzo grava
un’accusa che sarà ribadita dallo stesso Giuliano, seppure dopo l’usurpazione
del 360: quella di aver provocato l’attacco degli Alamanni contro Magnenzio,
in Alsazia e nel Palatinato. Se l’accusa è fondata, gli avvenimenti che riguarda
– e che in ogni caso hanno avuto luogo, a prescindere dall’origine – mettono
in luce un fenomeno che comparirà più volte nel secolo successivo: il
collegamento tra il Danubio e il Reno attraverso la Baviera e la Svevia e le
ripercussioni in una delle due regioni di tutto quel che riguarda l’altra, con
conseguenze immediate sull’Italia settentrionale, se non addirittura sulla
regione di Aquileia.
II. AQUILEIA DAL 352 AL 375
Spostamento degli assi strategici
Paradossalmente, infatti, Aquileia si ritroverà al sicuro dalle minacce barbariche per
un quarto di secolo. Cionondimeno, da circa due secoli, il pericolo barbaro non è mai
troppo lontano e dopo la tetrarchia non è più stato possibile sguarnire né le
64 Ibidem (34 c-d). 65 Ibidem, I, 27 (34 b-c). 66 Ibidem, I, 28 (c. 35 a).
34
rive del Danubio, né le alte valli alpine. Al contrario, una pressione sulla
Raetia si rivela in diverse occasioni un modo per alleggerire l’attacco dei
barbari sul Reno. Vediamo così che Costanzo attacca, nei pressi del Lago di
Costanza67, gli Alamanni Lentiensi nel 355, più a nord nel 35668 e più a est gli
Iutungi nel 35769. Nello stesso anno Costanzo deve lasciare Roma a fine
maggio, per rispondere a un attacco degli Svevi nella Raetia, dei Quadi nella
Valeria e dei Sarmati nella Mesia Superiore e nella Pannonia II70. Passa per
Trento, racconta Ammiano, fortifica le vie d’accesso alla Raetia71, prima di
raggiungere Sirmio attraverso la Pannonia72.
Vale la pena fermarsi un istante per segnalare un fatto frequente nel corso
del secolo: Aquileia non è più un punto di passaggio obbligato tra est e ovest,
e viceversa73. È del tutto normale che l’Imperatore, da Ravenna, abbia
raggiunto la Raetia attraverso la valle dell’Adige. Ma lo vediamo poi seguire il
Danubio per raggiungere, attraverso la Pannonia I e la Valeria, la città di
Sirmio, dove trascorre l’inverno74. Lo stesso vale per Giuliano, quando lascia
la Gallia nel 360, segue il Danubio e coglie di sorpresa Sirmio. Non credo
abbia considerato in quel momento Aquileia e i claustra dell’Illirico un
ostacolo75. La lunga resistenza di Aquileia fu quasi inaspettata. La spedizione
di Giuliano mostra che la via di Costantinopoli verso la Gallia settentrionale passa
67 AMMIANO, Res gestae, 15, 4. 68 Ibid., 16, 12, 15-16. 69 Ibid., 17, 6. 70 Ibid., 16, 10, 20. 71 Ibid., 17, 13, 28. 72 Ibidem. 73 Questo corridoio di penetrazione verso il Reno sarà usato dai Vandali nel 405-406 e da
Attila nel 450-451. 74 AMMIANO, Res gestae, 17, 17, 1. 75 Memore degli errori di Magnenzio, Giuliano voleva evitare quanto accaduto a Mursa
nel 350. Da qui la fretta di impadronirsi di tutta quella parte dell’Impero che non era di
sua competenza.
35
ora più a nord, il che è attestato più volte. Ma tale situazione non durerà a
lungo, perché il pericolo barbaro riporterà viaggiatori e soldati sulla via più
meridionale.
Giuliano e Aquileia
L’importanza strategica di Aquileia è indicata chiaramente da Ammiano e
riconosciuta da Giuliano. Quando questi viene a sapere, a Naisso, che le
truppe trasferite dall’Illirico in Gallia si sono fermate ad Aquileia, invia
immediatamente il comandante di cavalleria Giovino, perché, come informa
Ammiano, «sapeva, grazie alle letture e a quanto gli era stato detto, che la città
era stata più volte invasa, ma non era mai stata presa, né si era mai arresa»76.
La situazione avrebbe potuto prendere una brutta piega per Giuliano, se si
fosse seguito l’esempio di Aquileia77 e se il nuovo Augusto fosse stato
bloccato nella Pannonia o nella Mesia, mentre gli eserciti di Costanzo
marciano a est, verso il Passo di Succi, e a ovest, attraverso il Colle del Pero78.
In ogni caso, ancora una volta Aquileia non smentì la sua fama e non fu presa,
nonostante i vari assalti e i tentativi che si susseguirono contro di essa79.
Bisogna pensare a questa fama per comprendere l’emozione con cui un giorno
si acclamerà la presa e la distruzione. Ma ci vorranno quasi due secoli, durante
i quali, fortunatamente, le ondate barbariche non oltrepasseranno, per lo meno
non tutte, i colli delle Alpi Giulie.
Minacce sul Danubio
Il primo grave allarme si registrò nel 373. Nel narrare la rivolta dei Quadi e dei Sarmati,
Ammiano sottolinea come questi popoli avessero fortunatamente perso parte del loro
76 AMMIANO, Res gestae, 21, 12, 1. 77 Ibid., 21, 11, 3. 78 Ibid., 21, 12, 21-22. 79 Il lungo racconto è offerto solo da Ammiano (21, 12, 4-20). Non mi soffermerò su
questo punto.
36
potere e rievoca l’assedio di Aquileia e il sacco di Opitergium, sotto Marco
Aurelio, il che permette di intuire uno dei precedenti storici scoperti da
Giuliano nelle sue letture80. Ad ogni modo la minaccia doveva essere seria,
giacché si arrivò quasi a evacuare Sirmio81 di fronte all’avanzata del nemico,
che alla fine cambiò rotta verso la Valeria82. Ignoriamo completamente quello
che accadde l’anno successivo e non abbiamo nessuna informazione riguardo
a ciò che successe nell’Illirico occidentale nel 375-377. La gente di Aquileia
ha forse visto passare le truppe di Tribigildo, che venivano in soccorso della
Tracia83? Deve aver visto arrivare i Taifali prigionieri, sistemati nella regione
«di Modena, di Reggio (Emilia) e di Parma»84. Poco dopo arrivarono i
profughi, che fuggivano l’avanzata dei Goti, degli Unni e di tutte le tribù
messe in moto per la traversata in massa del Danubio inferiore85.
III. LA PROTEZIONE DELL’ITALIA ORIENTALE
SOTTO GRAZIANO E VALENTINIANO II Il dopo-Adrianopoli
Conosciamo i famosi testi di Ambrogio del 378 e del 379 e quelli
di poco successivi di Girolamo86: «Gli Unni si sono scagliati contro
80 AMMIANO, Res gestae, 29, 6, 1. 81 Ibid., 29, 6, 9. 82 Ibid., 29, 6, 12. 83 Ibid., 31, 7, 3. 84 Ibid., 31, 9, 4. 85 Vediamo insediarsi i profughi illirici nella regione di Imola, secondo l’Ep. 2, 28 di
Ambrogio a Costanzo (da Claterna?). 86 GIROLAMO, In Sophoniam, 1, 2-3, nel 391-392, sulla Tracia, sull’Illirico e sulla
regione natale; De uiris, 135, nel 392, su Stridone; Ep. 60, 16, nel 396, sui vari disastri,
dalla Tracia alle Alpi Giulie. Nuovo grido di dolore nel 406, sulla decadenza diffusa
dalla Propontide e dal Bosforo fino alle Alpi Giulie (In Osee, I, 4, 3).
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gli Alani, gli Alani contro i Goti, i Goti contro i Taifali e contro i Sarmati; noi,
in Illiria, siamo stati esiliati dalla nostra patria dai Goti esiliati. E non è ancora
finita. Carestia ovunque, peste bovina e umana; tanto che, senza aver subito la
guerra, la peste ci ha resi simili a un paese conquistato!»87. All’inizio del 379,
di fatto, Ambrogio conosce a Milano le vie dell’invasione: dalla Tracia un
«diluvio», come dirà poco dopo Pacato88, si è diffuso su tutto l’Illirico,
seguendo il Danubio attraverso la Dacia Ripensis, la Mesia, la Valeria, fino
alla Pannonia89, per raggiungere, informa Ammiano, «i piedi delle Alpi Giulie,
che gli Antichi chiamano Venete»90. All’inizio del 379 Ambrogio nutre
fiducia nell’azione di Graziano, che «ha protetto l’Italia»91; ma qualche mese
prima non era così, quando Ambrogio pronunciava l’orazione funebre
del fratello Satiro92. Questi era rientrato dall’Africa a Roma non appena
87 AMBROGIO, In Lucam, X, 10. 88 PACATO, Pan. lat., XII (II), 3, 3. 89 AMBROGIO, De fide, II, 140 – Su questa data cfr. P. NAUTIN, Les premières relations
d’Ambroise avec l’empereur Gratien: Le De fide, livres I et II, in Ambroise de Milan,
XVIe centenaire de son élection épiscopale, Dieci studi riuniti da Y.M. Duval, Paris
1974, pp. 231 sgg. 90 AMMIANO, Res gestae, 31, 16, 7. Il che non significa che tutte le città furono prese.
Mursa capitola (Ep. Nisi Clementiae di Massimo a Valentiniano II nel 386 – Coll.
Avellana I; Ed. O. Günther, CSEL 35, p. 89, ll. 21-26), ma non Sirmio (AUSONIO,
Gratiarum actio, 42) né, a quanto pare, Poetovio (R. EGGER, Die Zerstörung Pettaus
durch die Goten, in Jahresh. d. österr. Inst. In Wien, 18, Beiblatt, 1915, pp. 253-266).
Sulla decadenza della Pannonia a partire da questo periodo cfr. A. MÓCSY, art. cit., p.
350. 91 AMBROGIO, De fide, II, 1942 (Ed. O. Faller, CSEL 78, p. 107): «(Italia) quam dudum
ab hoste barbaro defendisti, nunc etiam uindicasti». Contrariamente a quanto dice Faller
(ad. loc.) non si tratta della campagna di Graziano contro gli Alamanni Lentiensi, bensì
della difesa delle Alpi Giulie e successivamente dell’offensiva ripresa contro i Goti. 92 È nel 378 e non nel 374 che va collocata la morte di Satiro e la sua Orazione funebre.
Cfr. O. FALLER, CSEL 73, pp. 81-88.
38
riaperti i porti e, nonostante i consigli di Simmaco, che era già a conoscenza
delle minacce incombenti sull’Italia settentrionale93, era arrivato a Milano,
dove sarebbe morto di lì a poco. Durante la sua ultima malattia Ambrogio gli
fa esprimere il suo timore di fronte all’avanzata del nemico, con tutto il
seguito di saccheggi e di atrocità, nonché l’inadeguatezza della fortificazione
dei passi alpini, unico rimedio contro l’avanzata dei barbari94.
Ci troviamo, pare, ad Aquileia e nelle Alpi Giulie, e non nei colli della
Raetia, dato che l’asse d’attacco degli Alamanni Lentiensi era rivolto a ovest
e a nordovest, e non verso sud95. Possiamo così intuire che fu attuata la
difesa delle Alpi Giulie e che la cittadina di Aquileia dovette stare all’erta
dopo il 377, a fortiori dopo il crollo di Adrianopoli. Nonostante le vittorie
riportate nel 37996 e nel 38097, l’insicurezza regnerà ormai sovrana oltre le
montagne. Le testimonianze che ci sono giunte fanno il conto dei danni, in
termini di uomini da riscattare, di città distrutte, di campagne devastate e
mezze rovinate, di regioni abbandonate dai funzionari nelle quali è
imprudente spingersi.
Il foedus di Graziano in Pannonia
C iononos t an t e l a v i t a ha r i p re so , i n t u t t i i t e r r i t o r i , neg l i
a n n i 3 8 0 e s e g u e n t i , g r a z i e n o n s o l t a n t o a l t r a s f e r i m e n t o
93 AMBROGIO, De excessu fratris, I, 32 ad f. 94 AMBROGIO, De excessu fratris, I, 31 (Ed. O. Faller, CSEL 73, pp. 226-227): «Nam qui
eras sanctae mentis misericordia in tuos, si nunc urgeri Italiam tam propinquo hoste
cognosceres, quantum ingemisceres, quam doleres in Alpium uallo summam nostrae
salutis consistere lignorumque concaedibus construi murum pudoris!». 95 AMMIANO, Res gestae, 31, 10, 4: «(Lentienses) conferti in praedatorios globos,
Rhenum gelo peruium pruinis...». Il Reno alpestre non ha bisogno di essere ghiacciato
per essere attraversabile. 96 SIMMACO, Ep. I, 95, 2: Consul. Constant., ad a. 379 (Ed. Mommsen, Chron. Min., I, p.
243). 97 Consul. Constant., ad a 380 (Ed. Mommsen, Ibid., p. 243 c).
39
di Teodosio in Oriente e alla «riconquista» quanto meno della Tracia, se non
addirittura di tutti i Balcani, al di qua dei quali s’insediano i Goti, dopo il
foedus del 382. Questo, com’è noto, è stato preceduto da un altro patto,
firmato da Graziano, che consente l’insediamento degli Ostrogoti e degli Unni
nella Pannonia, vale a dire molto più vicino alle nostre Alpi Giulie e sempre al
di qua del Danubio98. Bisogna forse pensare che questi popoli raggiungano in
quegli anni la città di Iovia, che Egger collega al vescovo Amanzio, la cui
pietra tombale è stata trovata proprio qui, e di cui viene detto che fu «degno di
essere voluto da un popolo straniero», che fece conoscere la fede cristiana «a
due capi, guidandoli con i suoi consigli» e si trovò «alla testa di un doppio
popolo (binis populis), per due volte dieci anni» (bis denis)99? Non credo si possa
98 Spesso viene taciuto questo foedus di Graziano, attestato in Zosimo (Hist. nov., 4, 34,
1-2) e in Giordane (Getica, 140-141), i quali mettono entrambi in relazione il trattato con
la malattia di Teodosio, che ha posto fine ai successi del 379-380. Cfr. L. VARADY, op.
cit., p. 36. 99 CIL V, 1623 – R. EGGER, Amantius Bischof of Iovia, in «Jahreshefte des österr.
Archäolog. Institutes in Wien», 21-22, Beiblatt, 1922-24, pp. 327-341, seguito da L.
VARADY, Das letze Jahrhundert Pannoniens (376-476), Amsterdam 1969, pp. 168 sgg.
Si pongono numerosi problemi. Il primo riguarda la sede di Amanzio, presente ad
Aquileia nel 381. Come si può immaginare per un nome proprio e per una tradizione
manoscritta molteplice, l’accordo è lungi dall’essere unanime. Egger si è basato sul
Paris. 8907 e sui relativi manoscritti per difendere la grafia Ioviensium e proporre la
borgata di Iovia; ma la tradizione più comune riporta Nicensis o Niciensis, il che rimanda
a Nizza. F. Quai, riprendendo un’ipotesi degli scopritori dell’epitaffio di Amanzio,
confida in una deformazione paleografica del nome della città e suggerisce di leggere
Iuliensium, ovvero Iulium Carnicum, l’attuale Zuglio. Per difendere Nizza anche J.R.
Palanque (Saint Ambroise et l’Empire romain, Paris 1933, p. 82, n. 16) si basa sulla
località di Amanzio, dopo i nomi dei vescovi di Orange, di Octodurum e di Grenoble (PL 16, c. 939
B-C). È pur vero che l’ordine d’intervento durante la seduta del 3 settembre è analogo (§ 62-64 – c.
935 C – 936 A), ma è difficile vedere una ripartizione strettamente geografica in questi elenchi, in
cui sono in gioco gli ordini di varie prerogative. L’elenco dei partecipanti (§ 1 – c. 916 A-B)
40
identificare questo Amanzio con colui che tiene la cattedra episcopale
di Aquileia nel 381100; pertanto l’identificazione proposta da Egger dei
«due capi» con Alateo e Safrace, capi degli Ostrogoti nella battaglia
non presenta lo stesso ordine di quello delle firme; a sua volta questo è diverso dalla fine
della Sinodale Benedictus Deus (AMBROGIO, Ep. X), per la quale il Par. 8907, fol. 339-
332 (KAUFFMANN, pp. 37-38) fornisce un elenco di firme non pubblicato (l’elenco
comprende qualche nome sconosciuto). D’altra parte Iovia (l’attuale Felsöheténypuszta,
secondo J. Harmatta, art. cit., p. 368, n. 10), piccolo borgo a est di Poetovio, sulla via di
Mursa, non avrebbe altre testimonianze, oltre a questa, della presenza di un vescovo.
Nessun vescovo attestato nemmeno a Iulium Carnicum, prima della fine del V secolo.
Per quanto riguarda Nizza, se la sede è attestata solo dopo il celebre Concilio di Orléans
del 549, in cui un prete rappresenta «il vescovo di Cimiez e di Nizza» (Ed. Ch. de
Clercq, CC 148 A, p. 160), il «porto di Nizza» è rappresentato al Concilio di Arles del
314 da un diacono e da un esorcista (Ed. Ch. de Clercq, CC 148, p. 14, 16 ecc), alla
stregua di altre sedi episcopali. Tuttavia conosciamo le metamorfosi delle due sedi nel V
secolo, sotto Leone e sotto Ilario (L. DUCHESNE, Fastes épiscopaux de l’Ancienne Gaule,
t. I, Paris 1907, pp. 296-297). L. Duchesne, che non esita a riconoscere nell’Amanzio del
381 un vescovo di Nizza (Ibid., p. 296), fa tuttavia notare come, vista la dipendenza di
Nizza nei confronti di Marsiglia, la presenza o l’assenza di un rappresentante di Nizza a
un Concilio sia legata a quella del vescovo di Marsiglia, sempre assente, in realtà, nei
Sinodi in cui interviene il vescovo di Ales. Le lacune riguardanti i titolari di Nizza
sarebbero quindi giustificate, mentre per Iovia potrebbe essere invocata solo la fine
dell’impresa romana. Stupisce dunque che Varady abbia riposto tutta questa fiducia in
Amanzio e in Iovia. Nessuno dei suoi recensori, che riprendono tutti questo problema
(HARMATTA, p. 365; NAGY, p. 331; MÓCSY, p. 355), sembra riconoscere la fragilità dell’ipotesi.
«Molto incerta», asseriva L. Schmidt (Die Ostgermanen, II ediz., München 1934, p. 261). 100 L’interpretazione di F. Quai (La sede episcopale del Forum Iulium Carnicum, Udine
1973, pp. 35-85), se può essere sostenuta sul piano paleografico, non regge quando
propone di riconoscere in Amanzio colui che avrebbe portato le Sinodali ai due
imperatori (in realtà a quel tempo sono tre, fino al 383), presentando le conclusioni con
buon senso (p. 59), e colui che sarebbe stato vescovo, prima di Iulium Carnicum, poi di
Como, per vent’anni da ambo le parti (pp. 61-62). Si fa fatica a immaginare il
trasferimento di un vescovo viste le condizioni canoniche dell’epoca, senza contare le
altre difficoltà.
41
di Adrianopoli, di cui sappiamo che hanno raggiunto l’Illirico occidentale,
diventa problematica101. Ma la menzione dei «due popoli» corrispondenti ai
«due capi» lascia chiaramente intendere che ci troviamo di fronte a due
popolazioni barbare, e non semplicemente a una comunità composta sia da
Romani sia da barbari102. In particolare, a fortiori, se Amanzio era davvero
originario di Aquileia103, abbiamo in quest’epitaffio una prova, forse, del ruolo
svolto da Aquileia nell’evangelizzazione dei nuovi arrivati, e sicuramente dei
legami intercorsi con i vicini più o meno lontani, per i quali, al tempo in cui ci
troviamo, cristianizzazione e romanizzazione andavano di pari passo. Il caso
mi sembra analogo a quello della regina dei Marcomanni, negli anni 395-397:
il marito di Fritigilde ha organizzato la difesa sulle sponde del Danubio alpino,
difesa che, dietro cessione territoriale, è stata affidata da Graziano ai
contingenti che, nel 378-379, come viene detto, avevano raggiunto i piedi
delle Alpi Giulie.
Graziano e la frontiera nordorientale dell’Italia
Non bisogna dimenticare che l’insediamento degli Ostrogoti e degli
Unni nell’Illirico è collegato alla minaccia sul Reno, che si era fatta
sentire già nel 378 e che si ripresenterà, in vari punti del Reno e
dell’Alto Danubio, nel decennio successivo. Si spiega così l’andirivieni
101 AMMIANO, Res gestae, 31, 12, 17; ZOSIMO, Hist. nov., 4, 34. 102 Come suggerisce E.A. Thompson (Christianity and the Northern Barbarians, in The
Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, by A. Momigliano,
Oxford s.d. (1963), p. 66, n. 3). 103 Come sembra suggerire la menzione della plebs aliena. Solo la data è in dubbio; si è
indecisi tra il 398 (Egger) e il 413, date che appartengono entrambe a un’indizione XI.
Egger stabiliva un nesso tra quest’epitaffio e il ripiegamento delle comunità dinanzi
all’invasione di Alarico. L’ipotesi è verosimile, a prescindere dal luogo, purché sia
situato o a nord, o a est di Aquileia.
42
di Graziano, dal 380 al 383, tra Treviri, Milano, Aquileia e Sirmio. Questo
viavai ha come scopo sia quello di sorvegliare l’insediamento – il che
presuppone espropriazioni104, approvvigionamenti ecc. – sia quello di far
fronte a nuove minacce e contenere l’attacco di questi «federati», che
potrebbero voler avanzare ancora. Diverse nuove incursioni hanno luogo nella
Raetia, cosicché Aquileia si ritrova nelle immediate vicinanze di due pericoli,
andando forse a costituire l’obiettivo delle due vie d’invasione. Se ritroviamo
Graziano ad Aquileia nel maggio105 e nel dicembre 381106, egli non ha
trascorso lì l’estate, e non mi pare verosimile che si sia trovato ad Aquileia a
inizio settembre, mentre si teneva il Concilio di Aquileia: allora doveva essere
in spedizione nella Raetia o nell’Illirico107. In ogni caso lo vediamo prendere
la via dell’Illirico nella primavera del 382, quando lascia Milano108 per
trovarsi poi a Viminiacum ai primi di luglio109, il che fa supporre che la
campagna sia stata concertata con Teodosio110 e che s’inserisca nel contesto
del foedus del 382. L’anno successivo troviamo Graziano a Verona, a
metà giugno111. Questa presenza si ricollega alle affermazioni di
Ambrogio riguardo a un’incursione di barbari affamati nella Raetia II112,
104 Da qui l’allusione di Ambrogio ai «Romani esiliati dai Goti esiliati». 105 Cod. Theod., XV, 7, 7 e 8, dell’8 maggio. 106 Ibid., XI, 1, 18, del 26 dicembre. Varie costituzioni invece non riportano nessuna
indicazione di luogo. 107 Palladio avrebbe richiesto che l’Imperatore venisse informato se questi era stato
presente ad Aquileia il 3 settembre. 108 Cod. Theod., XII, 12, 9: Graziano è a Brescia il 10 maggio. 109 Cod. Theod., I, 10, 1 e XII, 1, 89, del 5 luglio. Il 22 novembre è nuovamente a Milano
(Cod. Theod., I, 6, 8). 110 Cod. Theod., XI, 16, 15, del 9 settembre 382, rievoca, con tutta una serie di misure e
di privilegi, l’expeditio Illyrica. 111 Cod. Theod., I, 3, 1, dopo essere avanzato fino a Padova, gli ultimi dieci giorni di
maggio. 112 AMBROGIO, Ep. 18, 21: «secunda Rhetia fertilitatis suae nouit inuidiam. Nam quae
solebat tutior esse ieiunio, fecunditate hostem in se excitauit».
43
mentre la Pannonia conosce raccolte abbondanti e, dichiara Ambrogio,
«vendeva il grano che non aveva seminato»113, probabilmente perché i barbari
che vi abitavano erano stati – temporaneamente – scacciati.
Valentiniano II e la frontiera nordorientale
A prescindere dal senso di quest’ultima frase, mi sembra che sia il
proseguimento della politica di Graziano che bisogna vedere negli
spostamenti di Valentiniano II verso est114, in particolare verso Aquileia,
durante le estati che vanno dal 384 al 387. Di fatto sappiamo che gli Iutungi
113 Ibid. Sull’interpretazione di L. VARADY, op. cit., pp. 39-41, cfr. J. HARMATTA, art.
cit., p. 367; A. MÓCSY, art. cit., pp. 43-44 e la ripresa più prudente di VARADY,
Pannonica, p. 265. L’Ambrosiaster, che scrive sotto Damaso e, stando a quel che
conosce Girolamo della sua opera, verso la fine, sembra, del pontificato, non prende
forse di mira la carestia del 383, quando attacca la concezione del fatum dei pagani:
«Ecce scimus fame laborasse Italiam et Africam, Siciliam et Sardiniam. Dicant
mathematici si omnes hi unum fatum habuerunt (...)? Erubescant et taceant, et Deo
subplices manus tendant in cuius potestate sunt omnia! Sed hoc forte subreptum est
fatis? Qui dicemus de Pannonia quae sic erasa est ut remedium habere non possit?»
(Quaestio 115, 49 – Ed. A. Souter, CSEL 50, p. 334, ll. 11-17)? 114 Non credo, come neppure V. Grumel (L’Illyricum de la mort de Valentinien I – 375 –
à la mort de Stilicon – 408 –, in REByz. IX (1951), p. 16, n. 5), che Teodosio sia giunto
fino a Verona nell’estate del 384: è materialmente impossibile che Teodosio, che si trova
a Eraclea il 25 luglio (C. Theod., XV, 9, 1), sia a Verona il 31 agosto (C. Theod., XII, 1,
107) e soprattutto che sia nuovamente a Costantinopoli il 16 settembre (C. Theod., VII,
8, 3). Bisogna quindi pensare a una corruzione del luogo di origine; il pensiero va, con
Godefroy (Comm. ad., XII, 1, 107; t. IV, Leipzig, 1740, p. 478, n. «i», che rinvia alla
Tabula Peutingeriana dove, di fatto, Verona è indicata come Beroea), a Berea di Tracia,
dove Teodosio sorveglia la via dell’importantissimo colle di Šipka, porta del Grande
Balcano. Il che non implica che non vi fosse con Massimo un accordo, esplicitamente
menzionato da Pacato (Pan., 30, 1) e da Zosimo (Hist. nov., IV, 37, 5). Sulla data cfr. A. CHASTAGNOL
44
devastarono i Rezi115 e che furono mobilitati contro di loro, alle loro spalle, gli
Unni e gli Alani116. Si andò oltre l’effetto sperato, poiché i tumulti causati
dall’avanzamento degli Unni e degli Alani furono tali che le ripercussioni si
fecero sentire sul Reno e si dovette dirottare gli invasori verso nord117.
D’altronde è noto che nel 384 Bautone riporterà più a est una vittoria sui
Sarmati, che gli valse il consolato nel 385118. L’estate di quell’anno (385) la
passa nuovamente lontano da Milano119; ritroveremo il giovane imperatore ad
Aquileia nell’estate del 386120. Ritornato a Milano, adotta alcune misure
contro i procuratori delle miniere della Macedonia, della Dacia Inferiore, della
Mesia e della Dardania, che, con la scusa del pericolo barbaro, non si
trovano al proprio posto121. Il pericolo esisteva, benché non fosse
particolarmente grave e minaccioso. Se negli anni 385 e 386
Valentiniano II si era già allontanato da Milano per paura di Massimo,
come sostiene Seeck122, mentre Ambrogio mette in guardia il giovane
imperatore dalle intenzioni dell’usurpatore, che di pacifico hanno solo
(in Les empereurs romains d’Espagne, Paris 1965, p. 264), che fornisce
un’argomentazione a silentio molto importante contro un accordo nell’agosto del 384.
Bisognerebbe scendere di 6-8 mesi. 115 AMBROGIO, Ep. 24, 8. Gli Iutungi approfittano della controversia interna. 116 Ibidem. 117 Ibid., 24, 8. 118 SIMMACO, Relat. 47. 119 Il 4 agosto Valentiniano II è a Verona e passa la fine dell’anno ad Aquileia. 120 Il 20 aprile (Cod. Theod., XIII, 5, 17) è ad Aquileia; ma è ritornato a Milano il 6
giugno (Cod. Theod., VI, 35, 13). 121 Cod. Theod., I, 32, 5, del 29-7-386. 122 O. SEECK, op. laud., V, p. 202, secondo cui il viaggio del 385 è motivato dalla paura
nei confronti di Massimo e Valentiniano ritorna a Milano nel cuore dell’inverno, quando
le vie delle Alpi sono chiuse. Secondo Palanque l’allontanamento da Milano è dovuto
alla questione ariana (op. cit., p. 145 e n. 35).
45
l’apparenza123, come mai il giovane imperatore e la sua cerchia avrebbero commesso
l’errore di chiamare in loro aiuto l’imperatore di Treviri, agli inizi del 387? È da Aquileia che
Zosimo fa partire l’ambasciata di Donnino verso Massimo124 ed è quanto meno certo che
123 AMBROGIO, Ep. 24, 13: «Esto tutior aduersus hominem pacis inuolucro bellum
tegentem», se l’epistola risale alla fine del 386. Tale presentazione infatti dipende dalla
presupposizione, comunemente ammessa da Palanque in poi (op. cit., pp. 172 sgg.; pp.
516-518 – mantenuta nel suo art. L’empereur Maxime, in Les empereurs romains
d’Espagne, Colloque du C.N.R.S., Paris 1965, pp. 259 sgg.), che la seconda ambasciata
di Ambrogio a Treviri risalga all’estate del 386. Questo avvertimento alla fine
dell’epistola 24, composta prima ancora del ritorno a Milano, precederebbe di qualche
mese l’invasione dell’Italia da parte di Massimo. Ma la mia presentazione di un
Valentiniano attento al pericolo barbaro verso l’arco orientale, nonché al di là delle Alpi
Giulie, mi sembra ancora più solida, se l’ambasciata e la lettera sono precedenti (fine del
384) e se Valentiniano si è sottratto alla minaccia proveniente da Massimo grazie al
foedus, che Ambrogio non è riuscito a redigere alla fine del 384, ma che deve essere
stato concluso nel corso del 385. Certo, la datazione di ottobre 384 di La seconde
mission d’Ambroise auprès de Maxime non è fissata da V. Grumel (REByz. IX (1951),
pp. 154-160) sulla base di argomentazioni altrettanto solide, ma la critica da parte di
Palanque (L’empereur Maxime, pp. 259-260) non le smonta tutte. Vale la pena prendere
in considerazione la nota della Chronica gallica an. CCCCLI (Ed. Th. Mommsen, MGH,
AA, IX, p. 646: «Maximus timens orientalis imperii principem Theodosium cum
Valentiniano foedus iniit»). Ed. Ch. Babut (Priscillien et le Priscillianisme, Paris 1909,
p. 243, n. 2) ha osservato che il corpo di Graziano, che costituiva la prova della pace
anche a detta di Ambrogio (Ep. 24, 10: «Habeat Valentinianus imperator uel fratris
exuuias pacis tuae obsides»), probabilmente è stato portato a Milano, dove si trova nel
392 (De obitu Valentiniani, 79), in questa occasione; in ogni caso il foedus ha avuto
come conseguenza la nomina di Evodio, prefetto del pretorio di Massimo, a console
occidentale per il 386. Non si può quindi scendere troppo in là nel 385 e bisogna
supporre tutta una serie di negoziati bi e trilaterali, sebbene Zosimo e Pacato parlino solo
dei rapporti tra Massimo e Teodosio. Nulla di sorprendente, vista la natura dei
documenti e degli avvenimenti. Sulla «rottura» del foedus nel 387, cfr. nella nota
seguente i testi di Rufino di Aquileia e della Chronica Gallica. 124 ZOSIMO, Hist. nov., 4, 42, 4. Per quanto concerne l’invasione dell’Italia,
Rufino di Aquileia ( H i s t . e c c l e s . , X I ( o I I ) , 1 8 – P L 2 1 , c . 5 2 4 C )
46
non abbiamo più alcuna traccia della presenza di Valentiniano a Milano dopo
la fine di maggio del 387125. Che ne fu della spedizione lanciata nella Raetia,
nel Norico e nella Pannonia126? Non ne sappiamo nulla, come neppure
sapremmo dire se la fuga per mare fu decisa a causa del pericolo barbarico
nell’Illirico127. Parimenti ignoriamo la data in cui Massimo arrivò ad Aquileia
e «si aprì un varco tra le Alpi Giulie»128, e se tale presenza fosse legata sia al
controllo delle frontiere contro i barbari sul Danubio, sia al controllo delle due
parti dell’Impero nuovamente ricostituite.
IV. LE GUERRE CIVILI
E LA SCOPERTA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE
DA PARTE DEI BARBARI Massimo ad Aquileia
Tutto ciò che conosciamo del 388 riguarda la guerra civile. Non
mi addentrerò nei particolari della campagna di Teodosio, della
sua risalita della Sava e poi della Drava, né della spedizione
n a v a l e c h e f o r s e , i n i z i a l m e n t e , m i r a v a a d A q u i l e i a , i l c h e
e la Chronica gallica del 451 (Ed. Mommsen, Chron. Min., I, 648: «Maximus, indignum
dicens contra ecclesiam statum agi, locum inrumpendi quod cum Valentiniano iunxerat
foederis inuenit...») mettono in primo piano motivi religiosi e non militari. Gli uni
(ribaditi da Massimo sin dalla metà del 386) non escludono gli altri, e non stupisce che
Zosimo non abbia parlato dei primi. 125 Cod. Theod., XI, 30, 48, del 19 maggio. 126 Secondo Sulpicio Alessandro, i generali di Massimo si trovano sul Reno: GREGORIO
di Tours, Hist. Franc., II, 9. 127 Questa fuga in nave è un evento unico, spiegabile o con il timore di essere raggiunti
dagli emissari di Massimo prima di Costantinopoli, o con l’insicurezza delle vie causata
dai barbari. Zosimo parla di intrighi da parte di Massimo nei confronti dei barbari, al
momento della spedizione di Teodosio nel 388 (Hist. nov., IV, 45, 4). 128 PACATO, Pan., 30, 2: «... Iulia quoque claustra laxaret...».
47
spiegherebbe in parte perché Massimo sia rimasto a Emona, alla confluenza
della via delle due valli, senza avanzare oltre. Vorrei invece soffermarmi su
due punti, che ci interessano direttamente. Sia Ambrogio129 sia Pacato130
insistono sull’irresolutezza di Massimo, dopo le sue due sconfitte: egli va e
viene, senza sapere dove; alla fine si chiude ad Aquileia con i suoi Mauri131,
ma esce per arrendersi a Teodosio. Probabilmente Massimo, che sapeva, per
varie ragioni, di non dover disperare della clemenza di Teodosio, ha risentito,
da un lato, della defezione di una parte dell’esercito, dopo la battaglia di
Poetovio132, nonché dell’allontanamento della flotta, che era andata incontro a
Valentiniano II133 e l’aveva probabilmente inseguito fino in Sicilia134. A quel
punto era meglio non continuare la guerra, che poteva essere prolungata, ma
non più vinta135. Non pare ci sia stata resistenza nei colli delle Alpi Giulie136, il
che permette a Pacato di dire che l’esercito coprì il tragitto Emona-Aquileia in
un giorno – più di 100 km! –, spinto dalle ali della Vittoria137.
In rea l tà s iamo lontani da l conoscere l ’u l t imo c a p i t o l o d e l l a
129 AMBROGIO, Ep. 40, 22: «Ego perturbaui hostis tui consilia...». 130 PACATO, Pan., 38, 1 sgg. 131 ZOSIMO, Hist. nov., 4, 46, 4; PACATO, Pan., 45, 5. 132 PACATO, Pan., 35. 133 ZOSIMO, Hist. nov., 4, 46, 1-2. 134 AMBROGIO, Ep. 40, 23. 135 Massimo è forse venuto a conoscenza degli insuccessi dei suoi generali sul Reno? 136 Zosimo, che non parla degli scontri in Pannonia, dice che Teodosio sorprese i posti di
guardia degli Appennini (=le Alpi Giulie) e scese inaspettatamente sulle truppe di
Massimo (Hist. nov., 4, 46, 3). Stessa presentazione in Orosio (Histor., VII, 35, 3-4), che
insiste sul fatto che le Alpi e le vie di accesso ai fiumi (il Po? Il porto di Aquileia?) erano
state bloccate («Qui cum [...] omnes incredibiliter Alpium et fluminum aditus
communisset [...], sponte eadem quae obstruxerat claustra deseruit»), ma non fa nessun
cenno alla campagna nella Pannonia. 137 PACATO, Pan., XII, 39.
48
vicenda; forse va chiamata in causa anche l’ostilità della popolazione di
Aquileia138 e d’Italia139. Tuttavia – ecco la seconda osservazione che vorrei
fare, importantissima al nostro scopo anche perché Ambrogio concorda con il
racconto di Pacato, un contemporaneo, ma non con quello di Orosio e di
Zosimo – solo una piccola parte dell’esercito di Teodosio ha raggiunto
Aquileia. Ambrogio fa dire a Teodosio attraverso Dio: «... Sono Io che,
quando era molto pericoloso che gli spiriti poco sicuri dei barbari penetrassero
i segreti delle Alpi, ti ho dato la vittoria anche al di qua del baluardo delle
Alpi!»140. Da qui vediamo come la popolazione fosse cosciente, a un tempo,
dell’importanza dei colli e della loro difesa, del pericolo che li minacciava
nonché, in quel momento, della loro fragilità.
La difesa delle Alpi Giulie nel 391-392
L’Italia vive per due anni al sicuro141: data la presenza di
T e o d o s i o e d e l s u o e s e r c i t o , i b a r b a r i n o n o s a n o f a r e
138 La città cede senza alcuna resistenza: ZOSIMO, Hist. nov., 4, 46, 4. Se Andragazio ha
fatto ritorno verso Aquileia, come lascia intuire Ambrogio («Quos ante disperseram [...]
ad supplementum tibi uictoriae congregaui», Ep., 40, 23), forse si è «gettato nel vicino
fiume» di Aquileia, come afferma Socrate (Hist. eccles., 5, 14). Ma la geografia
dell’Italia di Socrate è alquanto incerta, visto che colloca Aquileia in Gallia, parlando del
Fiume Frigido (Ibid., 5, 25). 139 Proprio su questa fa affidamento Teodosio, quando invia Valentiniano a Roma via
mare: ZOSIMO, Hist. nov., 4, 45, 6. Lo storico aggiunge che i Romani erano ostili a
Massimo. Ambrogio (Ep. 40, 23) rievocherà nel 389 l’animosità dei cristiani di Roma, in
seguito all’ordine dato da Massimo di ricostruire una sinagoga. Ne avrebbero tratto un
cattivo presagio. Indubbiamente il fatto si colloca tra la metà del 387 e la metà del 388. 140 AMBROGIO, Ep. 40, 22 (PL 16, c. 1109 B-C): «Ego, cum periculum summum esset ne
Alpes infida barbarorum penetrarent consilia, intra ipsum Alpium uallum uictoriam tibi
contuli ut sine damno uinceres». 141 Risalgono forse a questo periodo, come invitano a pensare gli editori successivi, i
frammenti dell’iscrizione trovata nel 1877 nella Basilica di Aquileia, riguardanti le mura
(unica parola completa) della città: H. PÄIS, CIL. Supp. Ital., I, Rome, 1884, n. 178: T]heo-
49
incursione da questo lato, e le truppe affidate ad Arbogaste tappano i buchi
lasciati aperti dai Franchi nella Gallia nordorientale durante l’assenza di
Massimo142, che forse hanno influito sulla sua disfatta ad Aquileia143. La
situazione cambierà alla fine del 391. Teodosio è ritornato a Costantinopoli in
luglio, dopo aver soggiornato per almeno una decina di giorni ad Aquileia,
sulla strada del ritorno. Zosimo racconta che, in occasione del passaggio a
Tessalonica, Teodosio deve far fronte alle incursioni barbariche all’interno
della Macedonia e della Tessaglia144. Egli potrà fare la sua «entrata» ufficiale a
Costantinopoli appena il 10 novembre145. Le operazioni continuano nella
Tracia l ’anno successivo146; ma le incursioni barbariche s i sono
d[osii.] ./.arian[us] [v.c. prae] fectus pr[aetorio] muros ac [turres] tii [ . G. Brusin
propone una diversa ricostruzione in Le difese della romana Aquileia e la loro
cronologia, Corolla memoriae E. Swoboda dedicata, 1966, p. 92, n. 43. Secondo la
fotografia consultata al Museo Nazionale di Aquileia, il nome proprio della seconda riga
potrebbe essere HI]LARIANUS, dato che la base della L è plausibile. In compenso il TII
dell’ultima riga va sostituito, secondo la fotografia, con TIA o TIM (secondo la lettura di
G. Brusin). Il T(urres) della quarta riga non è impossibile. Non è noto nessun prefetto del
pretorio con un nome simile a quello della nostra iscrizione, per il periodo 379-395.
Vista la grafia dell’iscrizione, forse bisogna scendere fino a Teodosio II, se non
addirittura fino a Teodorico. Per una datazione compresa tra il 391 e il 394 cfr. S.
STUCCHI, art. cit., p. 355. 142 AMBROGIO (Ep. 40, 23) parla degli attacchi dei Franchi e dei Sassoni. Cfr. il testo di
Sulpicio Alessandro riportato da Gregorio di Tours riguardo ai Franchi. 143 La data è discussa. O. Perler (in Les voyages de saint Augustin, Paris 1969, Exc. II.:
La date de la mort de l’usurpateur Maxime, pp. 197-203) trova in sant’Agostino buone
ragioni per scegliere la data del 28 luglio, al posto di quella del 28 agosto. Aggiungerò
che le difficoltà di approvvigionamento di Teodosio si spiegano meglio con la prima
piuttosto che con la seconda. La raccolta del 388 sarebbe stata disponibile. La marcia fu
così veloce che l’intendenza fece fatica ad adeguarsi. 144 ZOSIMO, Hist. nov., 4, 48. È qui che appare Alarico, secondo Claudiano (VI. Cons.
Honorii, 105). 145 SOCRATE, Hist. eccles., 5, 18 f. 146 ZOSIMO, Hist. nov., 4, 50, 2 sgg.
50
estese almeno fino al Medio Danubio, dato che l’Italia si è sentita minacciata.
Tale ricostruzione è il risultato delle informazioni, alquanto incomplete,
fornite da Ambrogio nell’Orazione funebre di Valentiniano II: il giovane
principe residente in Gallia avrebbe voluto raggiungere l’Italia, perché i
barbari minacciavano le Alpi147. Quali? Le Cozie, le Centrali, le Giulie?
Sembrerebbe trattarsi delle Alpi Giulie, dato che Ambrogio informa che i
barbari rilasciarono i prigionieri, quando seppero che appartenevano al
«territorio di Valentiniano»; dicevano di ignorare che fossero «italiani»148. Ciò
implica che ci troviamo alla cerniera tra due partes Imperii e lascia intendere
che i barbari avevano forse approfittato dei problemi di Teodosio nella Tracia,
o comunque del suo allontanamento. L’Italia settentrionale incitò Ambrogio a
intervenire presso Valentiniano149, che aveva di fronte a sé un’ottima
occasione per allontanarsi da Arbogaste e sfuggire alla sua tutela150, imitando
l’esempio del fratello, che era corso, lo abbiamo visto, da una frontiera
all’altra. Vorrei segnalare come l’atteggiamento di Arbogaste, che rifiuta di lasciare
allo scoperto il nord della Gallia151 a favore dell’Italia settentrionale, sia opposto a
quello adottato da Stilicone nel 401152, quando, prima contro i barbari che attaccano la Raetia,
147 AMBROGIO, De obitu Valentiniani, 2 e 22. 148 Ibid., 4: «sed cognito quod de Valentiniani essent partibus (captiui) liberi
reuerterunt... Laxauit (barbarus) sponte quos ceperat, excusans quod ignorasset Italos».
Ambrogio rievoca poi l’Alpium uallum, il che conferma la localizzazione. Cfr. S.
STUCCHI, art. cit., pp. 355-356; VARADY, op. cit., pp. 75 sgg. 149 Ibid., 24. 150 Tale punto è taciuto da Ambrogio, ma appare in tutti i racconti della fine di
Valentiniano II. Se, come ho suggerito sopra, gli spostamenti di Valentiniano tra il 384 e
il 387 sono legati alla protezione dell’Italia settentrionale contro i barbari, questo
«precedente» poteva essere rilevante nel 392. 151 Sull’attività di Arbogaste tra il 388 e il 392 cfr. le pagine di Sulpicio Alessandro in
GREGORIO di Tours, Hist. Franc., 2, 9. 152 CLAUDIANO, Bel. Get., 419-429.
51
poi contro Alarico che scende le Alpi Giulie, sguarnisce l’Alsazia e la
frontiera del Reno. Il pericolo sul Reno non era inesistente, visto che
Arbogaste lancerà nuovamente una spedizione contro i Franchi nel 392-393.
Gli imperatori passano il tempo correndo da un capo all’altro dell’Impero;
sarebbe stata nuovamente necessaria una tetrarchia, non più due o tre
imperatori, a un secolo di distanza dalla prima.
Comunque sia non sappiamo nulla riguardo alla situazione sull’Alto e sul
Medio Danubio negli anni 393 e 394. I «barbari» che arriveranno nei pressi
dell’Italia orientale sono quelli che Teodosio si porta dietro contro Eugenio e
Arbogaste. Almeno conosciamo questi, dato che la documentazione dell’epoca
è incentrata su questo scontro di due eserciti al tempo stesso «romani» e
barbari, nonché di due religioni, poiché pagani e cristiani si aspettavano che il
fiume Frigido stabilisse la vera religione dell’Impero. Furono i barbari e la
bora a fornire la risposta, questa volta al di là delle Alpi Giulie153.
Il fiume Frigido
Devo forse raccontare di nuovo questi due giorni di battaglia, seguiti con
un’attenzione tale ad Aquileia che non stupisce che uno dei migliori informatori
risulti essere Rufino, benché non si trovasse ad Aquileia a quel tempo154? Non
credo sia necessario dilungarsi sugli aspetti topografici della battaglia, dopo quanto
153 Sul cambio di strategia si veda il confronto operato nel 398 da Claudiano tra Massimo
ed Eugenio, nel De IV Cons. Honorii, 73 sgg. e in particolare 79-80. Il poeta non illustra
i vantaggi di questa strategia (cfr. O. SEECK, op. laud., V, pp. 251-252), limitandosi a
sottolineare come le montagne e i claustra siano per Teodosio come la pianura (v. 102-
103). Esagerazione notevole, in quanto la strategia stava quasi per riuscire. 154 RUFINO, Hist. eccles., XI, 33 (PL 21, c. 539 A – 540 B). Non è da escludere che
R u f i n o , i l q u a l e n e l 3 9 4 e r a a G e r u s a l e m m e , u t i l i z z i i l
52
detto da Petru circa i nuovi scavi di Aidussina/Haidenschaft155. Dirò soltanto
che non sono assolutamente convinto che si debba cercare di identificare il
promontorio su cui, secondo Rufino, Teodosio avrebbe chiamato Dio a
testimone della sua buona fede e da dove sarebbe stato visibile ai due eserciti
in lotta156. Probabilmente è normale che il posto di comando si trovasse in un
punto da cui Teodosio potesse dominare il campo di battaglia; ma, oltre al
fatto che accorpa in una le due giornate di combattimento e non concorda, sul
momento della preghiera di Teodosio, con il racconto di sant’Ambrogio157, la
presentazione di Rufino presenta l’inconveniente, per chi volesse ritrovare
l’avvenimento storico, di somigliare un po’ troppo, come ho osservato in altra
sede, a una battaglia dell’Antico Testamento158.
Alarico
Non mi dilungherò nemmeno sugli aspetti propriamente religiosi159. Al contrario vorrei
spendere qualche parola, giacché anche i contemporanei ne hanno colto le conseguenze,
Panegirico di Teodosio scritto da Paolino di Nola, suo (futuro) amico. Cfr. il mio art.
L’éloge de Théodose dans la Cité de Dieu (V, 26, 1), sa place, son sens, ses sources, in
«Rech. Augustiniennes», 4, 1966, p. 169; P. COURCELLE, Jugements de Rufin et de saint
Augustin sur les empereurs du IVe siècle et la défaite suprême du Paganisme, in REAnc.,
71, 1969, pp. 111, n. 5. 155 Cfr. le conclusioni di P. Petru, Claustra Alpium Iuliarum, in AAAd. VII, Aquileia e
l’arco orientale, Udine 1976. 156 RUFINO, loc. cit., (c. 539 C-D): «Stans in edita rupe unde et conspicere et conspici ab
utroque posset exercitu...». 157 AMBROGIO, De obitu Theodosii, 7 (Ed. O. Faller, CSEL 73, p. 375): «Cum locorum
angustiis et inpedimentis calonum agmen exercitus paulo serius in aciem descenderet et
inequitare hostis mora belli uideretur, desiluit equo princeps et ante aciem solus
progrediens...». 158 Éloge, p. 155 e n. 81. P. Courcelle preferisce vedere un ricordo di Tito Livio che
rievoca Annibale (art. cit., p. 117, n. 3). 159 Conto di ritornare sulla questione in un articolo intitolato Saint Augustin et la bataille
de la Rivière froide, in cui riprenderò parecchi punti sollevati dall’articolo di P.
Courcelle.
53
sulla composizione degli eserciti in lotta, in particolare quello di Teodosio.
Sappiamo che erano scesi dalla Gallia molti Franchi, richiamati probabilmente
dal compatriota Arbogaste. Ma è soprattutto l’esercito di Teodosio che deve
attirare la nostra attenzione: a fianco degli Iberi di Bacurio, che hanno rivestito
un ruolo decisivo nel combattimento, come descritto da Rufino160, figurano gli
Unni, di cui non sappiamo molto161, gli Alani, comandati forse da Saulo162,
che ritroveremo nell’esercito occidentale schierato contro Alarico nel 402,
nella battaglia di Pollenzo163, e infine – soprattutto – i Goti, comandati, a
quanto pare, da Gaina164. Questi, di fatto, possedeva una personalità già
consolidata, che gli avvenimenti successivi hanno sicuramente messo in luce e
fatto conoscere meglio. Ma non bisogna dimenticare che tra le fila dei Goti
prendono posto alcuni personaggi di cui la storia parlerà presto, uno su tutti il
giovane Alarico.
La scoperta dell’Occidente fu determinante sul suo carattere, in quanto fu
accompagnata da una delusione. Zosimo racconta che Stilicone tenne con sé in Occidente le
forze più valide e rimandò le altre in Oriente165. Sappiamo, grazie a Claudiano, che Alarico
160 RUFINO, loc. cit. (c. 540 A-B). La loro presenza è confermata dal computo
dell’esercito di Stilicone in Claudiano (In Rufinum, II, 104-114). Cfr. ZOSIMO, Hist. nov.,
4, 57, 4. Essi fanno già parte dell’esercito di Teodosio al tempo dell’usurpazione di
Massimo (TEMISTIO, Or., 18-219 b). 161 GIOVANNI d’Antiochia, Frag. 187 (Ed. K. Müller, FHG IV, p. 609 B-C). 162 Ibidem; ZOSIMO, Hist. nov., 4, 57, 3. 163 OROSIO, Histor., VII, 37, 2. 164 GIOVANNI d’Antiochia, Frag. 187; ZOSIMO, Hist. nov., 4, 57, 3. 165 Senza contare il fatto che i Goti sono stati le principali vittime di questo sanguinoso
combattimento, come sottolinea Rufino e come nota con piacere Orosio (Hist., VII, 35,
19). Cfr. il mio Éloge, p. 154 e n. 77. I Goti si sono sicuramente accorti di essere i più
esposti. Sul loro numero cfr. GIORDANE, Getica 145 (Ed. Mommsen, p. 96): «plus quam
uiginti milia armatorum».
54
non tarda a minacciare le mura di Costantinopoli dopo il ritorno in Oriente166.
È forse per sfuggire alle orde di Alarico che il giovane Onorio ha raggiunto
Milano, passando per la via Egnatia prima, e costeggiando poi l’Adriatico167?
Non si sa esattamente: come ho già segnalato, quando si tratta di guerre civili,
la nostra documentazione perde spesso di vista quel che succede alle frontiere.
Nuove minacce verso est
Durante l’inverno del 394-395 gli Unni si riversano nella pianura del Basso
Danubio168 e, nel decennio che segue, le incursioni sul Basso e Medio
Danubio si confonderanno con gli spostamenti più o meno ostili dei Visigoti,
per non parlare degli Ostrogoti e degli Alani, che ricominciano ad agitarsi
nella Pannonia, fino alle frontiere della verdeggiante Dalmazia169. Tali
evoluzioni non ci appaiono molto chiare ed è sicuramente un rischio per
l’esattezza dei fatti che Claudiano sia la nostra principale fonte
d’informazione. Stando a quanto dice, quando Stilicone, marciando verso
l’Oriente, varca le Alpi nel 395, tutti i barbari se ne stanno quieti170. Anzi,
Stilicone sarà presto acclamato come il liberatore e il restauratore dei Pannonici,
nonché dei rivieraschi della Sava e del Danubio171. Forse perché Stilicone ha impedito
166 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 4, 4; CLAUDIANO, In Ruf., II, 54. Riguardo agli avvenimenti dal
395 al 410, l’opera moderna più ricca è sicuramente quella di É. DEMOUGEOT, De l’unité
à la division de l’Empire romain, Paris 1951. 167 CLAUDIANO, In Rufinum, II, 36; III Consul. Honorii, 111 sgg. 168 FILOSTORGIO, Hist. eccles., XI, 8; CLAUDIANO, In Rufinum, II, 25 sgg. 169 CLAUDIANO, In Rufinum, II, 37-38. 170 Ibidem,II, 124. 171 CLAUDIANO, Éloge de Stilicon, II, 191-207; III, 13.
55
il ritorno di Alarico verso la Pannonia172, o perché la sua presenza ha
contenuto gli invasori del nord173? Difficile a dirsi. Vari negoziati sono stati
svolti, sia al di qua sia al di là delle Alpi. Paolino di Milano ci aiuta a datare
l’insediamento dei Marcomanni nel Norico174 nel 396-397, e una legge del
399, rivolta al Prefetto del Pretorio d’Italia, reprime gli abusi verificatisi in
seguito all’insediamento di barbari a danno di «numerosi popoli»175,
verosimilmente nelle province frontaliere.
Tuttavia il gioco che, nello stesso periodo176, conducono Stilicone e Arcadio
con Alarico nell’Illirico si rivelerà presto pericoloso per l’Italia e per la sua
porta d’ingresso, Aquileia (e la sua regione). I responsabili occidentali
sembrano aver dimenticato che Alarico conosceva ormai la strada, in
particolare il Colle del Pero. Claudiano spiegherà, a cose fatte, che l’impresa
di Alarico non aveva niente di sorprendente e che non era degna di suscitare il
panico che si diffuse allora177; in realtà la grande paura che fece tremare
l’Italia intera e fece temere, «quando la barriera delle Alpi cedette», che non
sarebbe rimasta nemmeno l’ombra del Lazio178, fu accresciuta dalla data di
quest’invasione.
172 Con la sua avanzata verso la Tracia e poi verso la Macedonia, nell’estate del 395: É.
DEMOUGEOT, op. laud., p. 152. 173 É. DEMOUGEOT (op. laud., p. 152, n. 175) non esclude, seguendo Schmidt,
un’invasione proveniente da nordest. Mi sembra che i Marcomanni si trovino più a
ovest. 174 PAOLINO di Milano, Vita Ambrosii, 36. 175 Cod. Theod., XIII, 11, 10. 176 Non posso seguire le numerose trattative, opposizioni e riconciliazioni tra Occidente e
Oriente negli anni 397-401, con le ripercussioni sulle marce e sulle contromarce di
Alarico, sul suo ruolo all’interno dell’Impero ecc. Cfr. É. DEMOUGEOT, op. laud. 177 CLAUDIANO, Bellum Geticum, 218-288. 178 CLAUDIANO, Bellum Geticum, 197-198.
56
V. L’INVASIONE DI ALARICO NEL 401-402
La sorpresa
È tipico dei barbari non rispettare le «leggi di guerra» e attaccare fuori dal
tempo prestabilito per le azioni di guerra. La sorpresa fu così grande che
conosciamo la data di questa mossa audace grazie ai Fasti di Vienna: 18
novembre 401179. Claudiano dirà che, in tal modo, Alarico ha approfittato
dell’inverno180, stagione propizia per quei popoli abituati a un cielo poco
clemente. Ciò è probabile. Ma forse il Goto ha pensato anche che comparendo
così all’improvviso sulle pianure dell’Italia settentrionale, avrebbe fatto man
bassa delle raccolte accumulate. Era inoltre a conoscenza del fatto che le
truppe di Stilicone erano state occupate contro i Vandali nelle strette valli della
Raetia, del Norico e della Vindelicia e che dovevano continuare a sorvegliare
a vista il posto181. Non sembra che gli attacchi degli Ostrogoti e dei Vandali
negli anni 400-401 riguardassero Aquileia182 e non si capisce come mai si sia
protetta la città dalle incursioni da nord. Fu questa la disgrazia, perché il
pericolo sarebbe venuto da est.
La sorte di Aquileia
Stando al Bellum Geticum, che parla di «ferita inflitta al Timavo», uno
scontro ebbe luogo sulle sponde o nella regione del Timavo183. Se si tratta
d i geogra f ia rea le e non poe t ica , c iò l a sce rebbe in tendere che
179 Fasti Vindobonenses priores, ad a. 401 (Ed. Th. Mommsen, Chron. Min., I, p. 299):
«et intrauit Alaricus in Italiam XIIII Kl. Decembr.». 180 CLAUDIANO, VI Consul. Honorii, 444-445. Tale indicazione esclude la data del 23
agosto fornita dagli Additamenta Prosperi Hauniensis (Ed. Th. Mommsen, Ibid., p. 299). 181 CLAUDIANO, Bellum Geticum, 279-280. 182 Ibidem, 363-365. 183 Ibidem, 563-564. Cfr. É. DEMOUGEOT, op. laud., p. 269, n. 196.
57
Alarico arrivava dalla Dalmazia, come farà un giorno l’esercito che riporterà
Valentiniano III ad Aquileia. Ciò non è impossibile184, ma è in contraddizione
con il passo di Claudiano sopra citato, secondo cui il Goto conosceva bene la
strada, avendola percorsa nel 394. D’altra parte il Bellum Geticum parla più
volte185, anche nel rievocare il Timavo186, del passaggio delle Alpi. C’è forse
stata una battaglia ai piedi delle Alpi?
A prescindere da un’eventuale battaglia e dalla sua precisa localizzazione, una
questione più importante per il nostro proposito riguarda la sorte di Aquileia. La
città fu forse conquistata, alla fine del 401 o agli inizi del 402? Per un buon numero
di storici187 non ci sarebbe alcun dubbio; pare addirittura di capire che la città non
oppose molta resistenza, se Alarico, dopo l’inutile assedio di Milano, si trova già,
con truppe e bagagli, nei pressi di Pollenzo il 6 aprile 402. A dire il vero non
conosco nessun testo che affermi esplicitamente che Aquileia sia stata presa188;
184 Per il viaggio di Onorio nel 394: III Consul. Honorii, 113 sgg. 185 CLAUDIANO, Bellum Geticum, 285 sgg.; 548; VI Consul. Honorii, 442. 186 Ibidem, 564. Giordane (Getica, 147) parla del passaggio di Alarico a Sirmio, il che
esclude la via costiera. 187 O. SEECK, op. cit., V, p. 329, l. 8 e p. 572; A. CALDERINI, op. cit., p. 83; L. SCHMIDT,
op. cit., pp. 437-438; É. DEMOUGEOT, op. cit., pp. 269-270. Formulazioni più caute in G.
BRUSIN, art. cit., p. 93; J. LEMARIÉ, Chromace d’Aquilée, Sermons, I, SC. 154, Paris
1969, p. 50: «ignoriamo se la città resistette». 188 Il testo di Claudiano (Bellum Geticum, 213-217) utilizzato da Seeck (V. Anhang, p.
572 su p. 329, l. 8), da P. Courcelle (Hist. littéraire des grandes invasions germaniques,
3e éd., Paris 1964, p. 32, n. 3) e da É. Demougeot (op. cit., p. 270, n. 198) non riguarda le
città dell’Italia settentrionale e, ad ogni modo, si tratta di una domanda retorica. Sarebbe
meglio utilizzare il testo del VI Consul. Honorii, 270, che è molto generico e riguarda
tutta la marcia di Alarico a partire dalla Grecia. Cfr. ibid., v. 440 sgg.
58
a meno che l’archeologia non dimostri a mia insaputa il contrario189, crederei
invece che Alarico si sia allontanato dalla città senza riuscire a conquistarla190,
così come non ha conquistato Verona e Brescia191.
Rufino ha lasciato Roma alla fine del 398 o agli inizi del 399192. Risponde a
un’intimazione di Simpliciano da Milano, dove si trova prima della metà di
agosto del 400, e invia da Aquileia la sua Apologia ad Anastasio alla fine del
400 o agli inizi del 401. L’Apologia contro Girolamo circola abbastanza
velocemente, visto che Paoliniano, che rientra a Betlemme nella primavera del
401 – di ritorno da Stridone, dove è andato a vendere quel che restava del
patrimonio familiare dopo il passaggio dei barbari nel 378-379193 –,
conosce almeno una parte del contenuto194. Nella risposta che si affretta a
comporre, Girolamo cita il soggiorno di Rufino ad Aquileia, dove risiede
«da due anni»195, ma non teme in nessun modo un’invasione dell’Italia
189 Consultati ad Aquileia in questa sesta settimana, G. Brusin e L. Bertacchi mi hanno
entrambi assicurato di non conoscere nessun indizio dell’assedio né della conquista della
città nel 402 o nel 408. 190 Nella sua descrizione dell’invasione di Alarico nel 401, Prudenzio (Contra
Symmachum, II, 700-702) parla per la Venetia di devastazioni delle campagne, tutt’al più
del territorio:
«Iamque ruens Venetos turmis protriuerat agros
Et Ligurum uastarat opes et amoena profundi
Rura Padi Tuscumque solum uicto amne premebat»
In ogni caso Rufino di Aquileia sembra restringere il senso del termine agros a «campagne». 191 Se si può ricondurre a quell’anno il Sermone 17, 2 di Gaudenzio, che dichiara che la
presenza dei barbari ha impedito a diversi vescovi di venire ad assistere alla dedicazione
della Basilica dei santi (Ed. A. Glück, CSEL 68, p. 141, ll. 15-17; P. COURCELLE,
Histoire littéraire, p. 36, n. 2). 192 RUFINO, Apologia contra Hieronymum, 1, 17 e 20; GIROLAMO, Ep. 83. 193 GIROLAMO, Ep. 81, 2. 194 GIROLAMO, Apol. adu. Rufinum, I, 21, 23, 28. 195 GIROLAMO, Apol. adu. Rufinum, II, 2 (PL 23, c. 426 B): «...biennio Aquileiae
sedens», al momento in cui scrive Girolamo.
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settentrionale, che Paoliniano, nonostante il viaggio nell’Illirico, non sembra
aver previsto e che non era ancora imminente al tempo in cui il commerciante
orientale entrò in contatto con Aquileia per due giorni, consegnò a Rufino la
risposta di Girolamo e portò via con sé due lettere di Rufino e di Cromazio196.
Al contrario, quando scrive la seconda parte dell’Apologia (III), nel 402,
Girolamo cita l’assedio di Aquileia, ma non fa il minimo cenno alla conquista
della città197. Ora, i probabili informatori di Girolamo sono partiti da Roma
non prima della metà di marzo e non potevano ignorare che Alarico non fosse
più sotto le mura di Aquileia. Tanto meno avrebbero ignorato la conquista
della città.
Che cosa dice Rufino? Egli dichiara che i claustra Italiae sono stati abbattuti,
ma mostra l’esercito di Alarico diffuso solo nelle campagne198. Poiché il male
può raggiungere anche le città, Cromazio ha domandato a Rufino di tenere alto il
morale dei cristiani, mostrando loro che Dio protegge la Chiesa e l’Impero. La
popolazione di Aquileia e la gente radunata sulle mura non sembrano dunque
aver subito l’invasione, quanto meno di persona; ma ciò non vale al di fuori della
città, dove si può sempre temere che il pericolo si avvicini. Risulta impossibile
datare in maniera precisa questa Prefazione. Certo, nulla impedisce che sia stata
scritta tra il momento in cui Alarico si è allontanato da Aquileia – non riuscendo a
conquistarla – verso Milano e la sua ritirata dopo la sconfitta di Pollenzo e la
battaglia di Verona. Ma la Prefazione potrebbe anche essere
successiva alla partenza di Alarico, se v i è s ta to un vero «ordine»
196 Ibidem, 3, 10 (c. 464 D). 197 Ibidem, 3, 21 (c. 472 C-D): «Romanae urbis iudicium fugis ut magis obsidionem
barbaricam quam pacatae urbis uelis sententiam sustinere». Secondo Girolamo Rufino,
colpevole, va incontro a una punizione. Che direbbe se la città fosse stata davvero
conquistata? 198 RUFINO, Hist. eccles., Praefatio (PL 21, c. 462-463 = CC 20, p. 267, ll. 5-7):
«tempore quo diruptis Italiae claustris Alarico duce Gothorum, se pestifer morbus infudit
et agros, armenta, uiros, longe lateque uastauit...».
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da parte di Cromazio199. Questi menziona la vicinanza dei barbari anche in un
sermone pasquale che, sfortunatamente, è ancora più difficile datare200. È
interessante notare come la fiducia che Cromazio dimostra nella protezione
accordata da Dio al suo popolo sia la stessa che sottende all’opera di Rufino
nella Storia della Chiesa. Tuttavia, a prescindere dalla data del sermone
pasquale201, dopo il 402 il pericolo sussiste e non sarà mai troppo lontano202,
anche quando il Goto avrà riattraversato le Alpi, per qualche breve o lungo
anno.
Nel frattempo ad Aquileia la vita riprende: vediamo Cromazio in contatto
con Giovanni Crisostomo, in esilio203. Forse egli lascia la città per recarsi a
Roma204. Negli anni successivi Girolamo, da Betlemme, è in contatto
199 Ibidem (c. 433-434, l. 3 = p. 267, l. 10): «iniungis mihi» (c. 463-464, ll. 16-17 = p.
267, l. 33): «agressus sum exequi ut potius quod praeceperas». Se tali ordini vanno intesi
in senso stretto, Rufino ha avuto bisogno di un certo periodo di tempo non soltanto per
tradurre la Storia Ecclesiastica di Eusebio, ma anche per aggiungere i suoi due libri. 200 CROMAZIO, S., 16, 4 (Ed. J. Lemarié, p. 266): testo analizzato nel mio art. Passage du
Danube et passage de la Mer Rouge à l’époque des grandes invasions. Il tono è molto
più angoscioso rispetto al S. 12, 2 f. (p. 224), in cui il riscatto dei prigionieri diventa
oggetto di un paragone. Su questo riscatto abbiamo, a quel tempo, numerosi testi di
AMBROGIO, De Officiis, 2, 70-71; 136-143; ZENONE di Verona, Tractatus, I. 10, 5. 201 Basti notare che la primavera segna, come la festa di Pasqua, l’inizio della campagna
militare. 202 Onorio si lamenta con il fratello Arcadio dell’excidium pereuntis Illyrici (Ep.
Quamuis super imagine muliebri, Coll. Avellana, Ep. 38, 1; Ed. O. Günther, CSEL 35, 1,
p. 85, l. 10). 203 GIOVANNI CRISOSTOMO, Ep. 155 (PG 52, c. 702-703) – PALLADIO, Dial. de uita S.
Iohannis, 3, ad finem (PG 47, c. 14-15). 204 PALLADIO, Dial. de uita S. Iohannis Chrysostomi, 3 (Ibid., c. 15) rievoca il concilio
tenuto all’inizio del 405, in cui Innocenzo riunisce i vescovi italiani. Si può pensare che
chi aveva già preso le parti di Giovanni volle a tutti i costi essere presente. Gaudenzio di
Brescia sarà uno degli inviati a Costantinopoli. Si noti che il viaggio fu fatto via mare.
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con un dalmata, che ha sofferto a causa dei barbari205. Probabilmente è rimasto
in contatto anche con Aquileia, dove Rufino si trovava ancora. Questi forse ha
lasciato la città solo quando si preparava la seconda invasione di Alarico,
quella del 407-408; a meno che non abbia abbandonato l’Italia settentrionale
subito dopo l’avvicinarsi di Radagaiso, anche se questi sembra essere arrivato
attraverso il Brennero, piuttosto che attraverso i colli settentrionali delle Alpi
orientali206. Ad ogni modo nel 407-408 Aquileia vede passare i profughi
illirici, stando a una legge del 10 dicembre 408207, mentre le leggi datate aprile
407 mostrano che l’Oriente sta sul chi va là208. Alarico, infatti, si è
nuovamente messo in cammino all’interno dell’Illirico. Avanzerà verso est o
verso ovest?
VI. L’INVASIONE DEL 408
L’entrata in Italia
Per quanto riguarda le ultime tappe della marcia di Alarico verso
Occidente, Zosimo è la nostra pressoché unica fonte di informazioni. Le
s u e i n d i c a z i o n i s o n o s u c c i n t e e n o n s e m p r e m o l t o c h i a r e ,
205 GIROLAMO, Ep. 118, 2. Sono forse questi rapporti che spingono all’osservazione
contenuta nell’In Osee (I, 4, 3) nel 406, in merito alla desolazione di Israele: «Hoc qui
non credit accidisse populo Israel cernat Illyricum, cernat Thracias, Macedoniam atque
Pannonias omnemque terram quae a Propontide et Bosphoro usque ad Alpes Iulias
tenditur et probabit cum hominibus et animantia deficere...» (PL 25, c. 847 A-B)? 206 Nonostante l’opinione di L. Schmidt (Die Ostgermanen, 2e édit., München 1934, p.
265), secondo cui Radagaiso è passato per il Colle del Pero e per Aquileia. É.
DEMOUGEOT, op. cit., p. 356 e n. 20. 207 Cod. Theod., X, 10, 25. Secondo É. DEMOUGEOT (op. cit., p. 368, n. 92 e p. 403, n.
257) ci sarebbero state due ondate di profughi illirici, una nel 405-406, l’altra nel 408.
Ma la legge del 10 dicembre 408 non presuppone che l’invasione abbia avuto luogo:
«Cum per Illyrici partes barbaricus speraretur incursus, numerosa incolarum manus
sedes quaesiuit externas... ut Illyricianos omnes quos patria complectitur uel alia
quaelibet terra susceperit...». 208 Cod. Theod., XI, 17, 4; XV, 1, 49.
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forse perché egli riassume la testimonianza di Olimpiodoro. Zosimo afferma
che Alarico «varcò i passi che separano la Pannonia dalla Venetia e si
accampò a Emona, città situata tra la Pannonia Superiore e il Norico»209.
Poiché Alarico raggiunge Emona dopo aver varcato «i passi», bisogna
riconoscere in questi il passo di Atrans e ricordare la geografia amministrativa,
secondo cui la Venetia et Histria si estende oltre i colli delle Alpi Giulie. La
seconda indicazione geografica fornita da Zosimo è davvero interessante, nella
misura in cui suggerisce una seconda direzione, non più est-ovest, ma sud-
nord-ovest, verso il Norico ma anche verso l’Italia, attraverso il colle di
Tarvisio. La scelta di Emona è motivata dall’interesse strategico di «centro
nevralgico»: Alarico poteva sia aspettarvi Stilicone, sia scegliere la via di
accesso verso l’Italia, verso ovest o verso nord-ovest210.
Egli muove immediatamente «verso il Norico», informa Zosimo211, e dal Norico
manda un’ambasciata a Stilicone212, nelle ultime settimane del 407 o nelle prime
209 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 29, 1. 210 Zosimo fornisce due indicazioni, di cui la prima è difficilmente localizzabile. Parla
(Ibid., 5) del fiume Akulis, che, se l’ordine è corretto, si trova a est delle Alpi Giulie e
dei Monti Appennini che attraversa. Questi vanno identificati, secondo Zosimo (Hist.
nov., 4, 45, 6 e 46, 3), con le Alpi Giulie, nella loro parte settentrionale, dove formano,
come afferma lo storico (5, 29, 6), il confine tra la Pannonia Superiore e il Norico. Se si
segue la via di Alarico da Emona verso il Norico, bisogna riconoscere la Drava
nell’Akulis, ma nulla induce a pensare che Alarico sia passato per il Colle del Pero. Sulle
diverse opinioni e soluzioni cfr. É. DEMOUGEOT, op. cit., p. 404 e n. 260-262. 211 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 29, 5. Questa strada doveva essere mal difesa, in quanto
Zosimo, che ne descrive le difficoltà, dichiara che «bastano poche guardie, anche qualora
una moltitudine cerchi di passare in massa» (5, 29, 6). La stessa osservazione varrà per il
Colle del Pero al tempo di Attila. 212 Ibidem, 5, 29, 7.
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del 408. L’ambasciata, che forse passò per Aquileia, trovò Stilicone solo a
Ravenna213. Il ministro raggiunse Onorio a Roma, dove ottenne a fatica dai
senatori le 400 libbre d’oro richieste da Alarico, come compenso per il tempo
passato nell’Epiro ad aspettare gli ordini di Onorio e come controparte (sic)
per la «spedizione in Italia e nel Norico»214. Quando esprime la volontà di
fermarsi a Ravenna invece che a Roma, Onorio, secondo Zosimo215, fa notare
che intende incitare le truppe contro un nemico che è «entrato in Italia». Tale
dichiarazione riguarda forse la presa iniziale e il controllo attuale di Emona e
dintorni? Oppure Onorio ci informa in merito al dominio esercitato da Alarico
su una parte dell’Italia settentrionale raggiunta attraverso Tarvisio? È difficile
pronunciarsi con certezza sulla questione216.
Quel che è certo è che, quando gli inviati di Alarico ritornarono da lui, la
situazione era già notevolmente cambiata nel campo romano; la notizia della
morte di Arcadio (1 maggio 408), la cui voce si era sparsa a Roma prima
ancora della partenza di Onorio per Ravenna, fu confermata poco dopo e
dovette giungere all’imperatore durante il viaggio verso Ravenna217. Stilicone,
ostinato a voler recuperare l’Illirico orientale ed estendere la sua influenza su
tutto l’Impero, architettò un piano che gli avrebbe permesso anche di
sbarazzarsi dell’usurpatore, il quale, l’anno precedente, aveva a poco a poco
esteso il proprio potere in Gallia e si era fatto minaccioso nelle Alpi Occidentali: non
bisognava permettere che si concretizzasse una minaccia dall’altra parte dell’Italia
settentrionale. Stilicone ottenne per Alarico una lettera, che faceva di lui un alleato
213 Ibidem, 5, 29, 8. 214 Ibidem, 5, 29, 7. 215 Ibidem, 5, 30, 2. 216 Tuttavia vorrei ricordare che Emona dipende dall’Italia Annonaria. 217 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 31, 1.
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e che gli avrebbe consentito di attraversare la Venetia in amicizia218. Alarico
avrebbe ripreso la via delle Alpi Cozie e, lungi dal vedersi sbarrare la strada
come nel 402, sarebbe stato accompagnato e si sarebbe stabilito nella Gallia,
che avrebbe liberato, da un lato, da Costantino III e, dall’altro, dai Vandali e
dagli Alani, che erano penetrati attraverso il Reno l’anno prima.
Il concentramento delle truppe «romane» e di quelle di Alarico ebbe luogo a
Ticino, ai piedi delle Alpi che si sarebbero potute scavalcare al più tardi la
primavera successiva, dopo averle protette nell’estate del 408 con la sola
presenza delle truppe ricongiunte da Onorio. Forse Stilicone – che sarebbe
andato in Oriente219 e avrebbe trovato Alarico sulla sua strada – aspettava che
il Visigoto muovesse verso la Venetia e dimostrasse la sua buona fede?
Sappiamo quel che successe. Il partito antigermanico ebbe la meglio a Ticino
e il 23 agosto Stilicone cadeva a Ravenna220, scatenando con la sua morte una
violenta reazione antibarbarica tra tutte le componenti dell’esercito contro gli
ausiliari goti e le loro famiglie221.
I sopravvissuti si rifugiarono in gran numero presso Alarico222, che non si
dimostrò vendicativo, né sembrò interessarsi troppo alla spedizione in Gallia.
Era forse la presenza di Saro che lo infastidiva? Egli propose un nuovo
accordo a Onorio e si dichiarò pronto a ripassare «dal Norico alla Pannonia»
qualora gli si pagasse il ritorno e a procedere con lui a uno scambio di
ostaggi223. Questo senso della misura parve come una ritirata, giustificabile
con l’esplosione del nazionalismo romano e con l’esagitazione che fece seguito
alla scomparsa di Stilicone. Ci si sarebbe forse sbarazzati di Alarico, complice
218 Ibidem, 5, 31, 6. 219 Ibidem – Da qui deriva forse la chiusura dei porti d’Italia. 220 Ibidem, 5, 34, 12. 221 Ibidem, 5, 35, 8. 222 Ibidem, 5, 35, 9. 223 Ibidem, 5, 36, 2.
65
di Stilicone, capace soltanto di «arricchire e incitare i barbari»224, con la stessa
facilità con cui ci si era liberati dei Goti dell’esercito imperiale? I giorni
successivi alla morte di Stilicone sono caratterizzati da una serie di leggi,
molte delle quali mostrano un’enorme fiducia di fronte all’avversario, quando
non svelano la cupa situazione in cui versa l’Italia e in particolare la regione
oggetto del nostro studio. Davanti alla marcia di Alarico i profughi sono
scappati dall’Illirico in Italia, senza trovare molta cordialità. Una legge del 10
dicembre 408 interviene contro gli abusi commessi nei loro confronti225;
un’altra parte della stessa legge sembra affidare i prigionieri liberati o quelli
sfuggiti ai barbari e ai cristiani, in assenza di decurioni226. Non è difficile
immaginare le atrocità inflitte a chi era fuggito dinanzi ai barbari o a chi
conosceva la prigionia da anni ormai. Per mantenere queste persone e per
cercare di risollevare la vita economica, ci si affretta a riaprire i porti227.
Tuttavia è impossibile sapere come furono applicate queste misure adottate a
Ravenna, e se sortirono effetti positivi nella Venetia, in un momento in cui la
minaccia di Alarico si fa più grave sulla regione.
L’invasione dell’autunno 408
La reazione di Alarico di fronte all’atteggiamento di Onorio e della sua
nuova cerchia non si fece attendere: Alarico passò infatti all’attacco, ma
non senza adottare qualche precauzione sulle retrovie. Zosimo ricollega
ai «grandi progetti che meditava» l’appello di Alarico al cognato
Ataulfo, che a quel tempo risiedeva nella Pannonia Superiore ed era
a c a p o d e i G o t i e d e g l i U n n i 228. M i d o m a n d o s e n o n f o s s e
224 Cod. Theod., IX, 42, 22. 225 Cod. Theod., X, 10, 25. 226 Cod. Theod., V, 7, 2 = Const. Sirmond., 16. 227 Cod. Theod., VII, 16, 1: «ne rarior sit diuersarum mercium commeatus». 228 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 37, 1-2.
66
invece per coprire le retrovie nella corsa in cui stava per lanciarsi, e per
stanziare nelle città le guarnigioni che si sarebbero ricongiunte dopo il suo
passaggio. Se è così, non mi pare affatto certo che le città che Alarico trova sul
suo cammino siano state prese. Zosimo dice che «παρατρέχει Aquileia e le
città situate al di qua dell’Eridano», Concordia, Altino e, molto più in là,
Cremona. Lo storico sottolinea la mancata resistenza e la specie di festa
(πανήγυρις) che rappresenta per Alarico questo raid-inseguimento229. Più che
catturare l’imperatore, egli vuole spaventarlo e costringerlo a negoziare.
Abbandona così i luoghi in cui trova o teme una resistenza. Ciò spiegherebbe
come mai Alarico si sia trovato sotto le mura di Roma durante il mese di
dicembre, dopo una cavalcata di almeno 900 km in due mesi, con armi e
bagagli, nonché con colonne di prigionieri. I Romani stessi si chiedevano se
non fossero stati assediati da un complice di Stilicone, tanto l’arrivo di Alarico
sembrava loro impossibile230.
Se παρατρέχει significa nel nostro caso «conquista rapidamente»231, ciò implica
che le mura (e forse le persone) non soffrirono più di tanto e che i superstiti
poterono ritornare a chiudersi nella città dopo il suo passaggio. Vediamo così che
Rimini – che Alarico «παρατρέχει» secondo Zosimo, come Aquileia232 – ha ancora
i suoi bastioni e le sue porte qualche mese dopo, secondo Sozomeno233, quando il
Visigoto viene mandato sul posto da Onorio e da Giovio234. Comunque
229 Ibidem, 5, 37, 3. 230 Ibidem, 5, 40, 3-4. 231 Senso meno frequente rispetto all’altro. 232 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 37, 5. Ma Zosimo dichiara poi che nella marcia verso Roma
saccheggia «tutte le città e le piazzeforti sulla sua strada» (5, 37, 6). 233 SOZOMENO, Hist. eccles., 9, 7. 234 A mio avviso ciò non intende sminuire l’importanza dei danni provocati dall’invasione,
ma precisare che, in questa corsa, Alarico non si concesse il tempo di fermarsi per
conquistare le città più importanti, dato che queste erano protette da muraglie e gli
resistevano. Il che si ridimostra vero dopo Rimini, anche se Zosimo dichiara
67
sia, Aquileia vide passare altre truppe, amiche e nemiche, tra il 408 e il 409.
Sappiamo che cinque unità dalmate, composte da 6000 uomini, arrivarono a
Ravenna, «scacciate dalla loro regione d’origine», afferma Zosimo235. Era una
truppa notevole, se si considera che i 300 uomini (al massimo) di Saro
rappresentavano un gruppo pericoloso236. A questo punto si abbandonava forse
l’Italia settentrionale? Tutto questo mentre un nuovo arrivato varcava «le Alpi
che dalla Pannonia si affacciano sulla Venetia»: Ataulfo237. Non sappiamo
molto circa il tragitto di quest’ultimo, tranne che non fu fermato dai 300 Unni
e dall’«insieme di soldati, fanti e cavalieri che si trovavano in ogni città»238.
Questi uomini erano forse capaci di proteggere le mura, ma non di opporsi in
aperta campagna all’avanzata di Ataulfo, che raggiunse Alarico. Dopo il
suo passaggio le truppe furono adunate da Generido, messo da Onorio a
capo di «tutti i soldati della Dalmazia», nonché «di tutti quelli che
sorvegliavano la Pannonia Superiore, il Norico e la Raetia e tutto ciò che si
che Alarico prese «tutte le città e le piazzeforti che trovava», perché sappiamo grazie a
Sozomeno (Hist. eccles., 9, 6) che Narnia, sulla stessa strada della Flaminia, non fu
presa. Durante l’assedio di Roma Zosimo segnala che i Visigoti si ritirarono in Toscana
(Hist. nov., V, 42, 4), il che non impedisce a queste orde di errare (Ibid., V, 42, 6). La via
per Ravenna era così poco sicura che Alarico offrì una scorta a Innocenzo e alla sua
ambasciata (Ibidem, V, 45, 10). È durante questo periodo – e non nel corso della marcia
forzata iniziale – che va collocata la presa di Urbs Salvia – nel Piceno –, di cui parla
Procopio (Bel. Got., II, 16). Le stazioni di posta localizzate lungo le strade ebbero vita
dura, da qui la disorganizzazione del Cursus publicus negli anni successivi al 410. 235 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 45, 1. 236 Ibidem, 5, 45, 11. 237 OLIMPIODORO, Fr. 3 (FHG IV, p. 58): 200 o 300. Lo stesso vale per i 300 Unni
affidati da Onorio a Olimpio (ZOSIMO, Hist. nov., 5, 45, 13). 238 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 45, 12.
68
trova fino alle Alpi»239. Zosimo elogia le sue doti militari e dichiara che
suscitava timore nei barbari e sicurezza in chi doveva proteggere. Da
quest’uomo e dalle sue truppe dipese la sorte della Venetia, per un periodo di
tempo non precisato.
La Venetia nelle trattative di Alarico
Tuttavia Alarico bramava questa regione agricola, distretto di frontiera
dell’Italia. Durante l’incontro di Rimini dell’estate del 409 chiede di trasferirsi
nella Venetia, nel Norico e in Dalmazia, oltre a domandare tributi e
approvvigionamenti annuali240. La richiesta non sembrò esorbitante al
successore di Olimpio, Giovio. L’affare si arenò solamente per questioni di
prestigio. Il paese non era certo rovinato, visto che, poco dopo, Onorio fa
arrivare dalla Dalmazia – via mare? – approvvigionamenti di grano e di
bestiame per gli Unni che aveva arruolato e che, ancora una volta, passarono
per Aquileia241. Di fronte a questa minaccia, ma anche perché il re dei Visigoti
tentennava all’idea di portare al massacro «la città che dominava il mondo
intero da più di mille anni»242, le pretese diminuirono, e Alarico chiese solo «il
Norico», facendo notare che la regione, confinante col Danubio, era
sottomessa di continuo alle incursioni barbariche e che rendeva al fisco solo
un magro tributo. Alarico si offriva di difendere la regione e domandava
soltanto i viveri243, niente più denaro.
Le trattative non ebbero più successo delle precedenti. Tuttavia, quando
Alarico conquistò Roma, preferì allontanarsi verso i granai della Campania e
soprattutto dell’Africa, invece che risalire verso il Norico o verso la Venetia.
Quando tornerà sui propri passi, Ataulfo condurrà i suoi non già verso
239 Ibidem, 5, 46, 5. 240 Ibidem, 5, 48, 4-5. 241 Ibidem, 5, 50, 1 sgg. 242 Ibidem, 5, 50, 4. 243 Ibidem, 5, 50, 5-6.
69
est, bensì verso la Gallia e verso la Spagna. Forse è un segno del cattivo stato
in cui versavano le regioni lasciate qualche anno prima, a meno che non
avesse preferito fuggire lontano nell’Impero, per non dovere far fronte, nel
Norico o nella Pannonia, ai barbari rievocati da Alarico nel 409, che, di fatto,
non tarderanno a farsi vivi.
VII. AQUILEIA TRA IL 410 E IL 435
Nel decennio successivo risulta difficile seguire gli avvenimenti politici nei
pressi di Aquileia. La città non è particolarmente esposta, visto che i Pelagiani
vi trovano protezione e accoglienza. I rapporti sono intensi tra l’Africa e
Ravenna, nonché con la costa dalmata. Ma non bisogna farsi illusioni. Il
pericolo non è lontano dall’Illiria né dalla Venetia, benché lo si scongiuri in
vari modi. Quando nel luglio 418 ci fu un’eclissi di sole accompagnata da una
lunga siccità, gli animi furono pronti a scoprire l’ultimo annuncio della fine
del mondo. Il vescovo di Salona consulta quindi sant’Agostino. Nello scambio
epistolare intrattenuto negli anni 419-420, i barbari d’Europa vengono citati
solo una volta da parte di sant’Agostino, che ricorda che al tempo
dell’imperatore Galliano anche i cristiani avrebbero potuto pensare che la fine
del mondo fosse vicina, di fronte al dilagare dei barbari244. Indirettamente i
barbari sono presenti negli animi, dato che il messaggero di Esichio di Salona
ha parlato della loro presenza fisica e della loro continua minaccia, anche se
questa, per quanto riguarda l’Occidente, è temperata dalle misure finanziarie e
dalle cessioni di terre.
Non stupisce quindi che il nuovo pericolo che affronterà
Aqui le ia ne l 425 s ia accompagna to da un ’ inv as ione b a rb a r i ca
244 AGOSTINO, Ep. 199, 35.
70
che, fortunatamente per la città, cambiò bruscamente direzione: mi riferisco
agli avvenimenti del 424-425, successivi all’usurpazione del capo dei notai
Giovanni Primicerio, perpetrata alla morte di Onorio, e contemporanei
all’esilio di Galla Placidia e del figlio di Costanzo (e della stessa Placidia), il
futuro Valentiniano III. L’esercito comandato dall’alano Aspar, che riporta in
Occidente il giovanissimo Cesare e la madre costeggiando le coste dalmate,
s’impadronisce senza fatica di Aquileia, secondo quanto riporta Filostorgio245.
Lo storico aggiunge che la città era «grande»246. Questa «grande città»
proteggerà la corte fino alla sconfitta di Giovanni, e per qualche giorno ancora.
Se Aspar non continua subito il viaggio verso Ravenna, dove doveva sbarcare
la flotta proveniente da Salona e condotta da suo padre, non è solo perché sa
che la flotta ha fatto naufragio e che il padre è caduto nelle mani di
Giovanni247; è perché sa anche che Giovanni ha inviato Ezio ad assoldare un
esercito di Unni, incaricato di prendere alle spalle l’esercito orientale248, non
essendo riuscito a ostacolare la sua marcia in Pannonia. Aquileia è rimasta al
sicuro, mentre Aspar rispondeva agli appelli del padre e s’impadroniva di
Ravenna e di Giovanni. Ezio prenderà il comando degli Unni solo tre giorni
dopo la barbara esecuzione dell’usurpatore tradito249.
Non è detto che nel 424 gli Unni abbiano varcato le Alpi da nemici250.
La loro influenza sulla Pannonia è anzi diminuita negli anni successivi,
dato che la nota – molto discussa – della Cronaca del Conte Marcellino
dichiara, per il 427, che la Pannonia, dopo cinquant’anni di occupazione, fu
245 FILOSTORGIO, Hist. eccles., 12, 13 (Ed. J. Bidez, GCS 21, p. 149, l. 13). 246 Ibidem (l. 11). 247 Ibidem (ll. 13 sgg.); SOCRATE, Hist. eccles., 7, 23. 248 RENATUS FRIGERIDUS: GREGORIO di Tours, Hist. Franc., II, 8. 249 FILOSTORGIO, Hist. eccles., 12, 14 (p. 150). 250 PROSPERO, Chron. ad. a. 425 (Chron. Min. I, p. 471): «...data uenia Aetio eo quod
Chuni quos per ipsum Iohannes acciuerat eiusdem studio ad propria reuersi sunt...».
71
sottratta agli Unni251. La regione ebbe quanto meno l’impressione di un netto
miglioramento della situazione. Ma nel 433 Ezio, che due o tre anni prima era
apparso come il salvatore della Raetia e del Norico252, ritorna in Italia a capo
degli Unni, che è andato a cercare presso il re Rua, zio di Attila, e che lo
riportano alla dignità di patrizio253. Le informazioni sono troppo limitate
perché possiamo sapere cosa successe ad Aquileia e nella regione. Non sembra
che i danni siano stati irreparabili, a giudicare dall’ultimo episodio, che farà
entrare in scena Attila. Probabilmente Valentiniano III aveva molto da fare in
Gallia, in Spagna, in Africa e, poco dopo, in Sicilia; tuttavia, cedendo parti
della provincia sul fianco nordorientale e lasciando alquanto egoisticamente
l’Oriente alle prese con gli Unni254, egli non faceva altro che far crescere il
pericolo che, ineluttabilmente, si sarebbe poi avvicinato all’Occidente.
251 MARCELLINUS COMES, Chron. ad a. 427 (Ed. Th. Mommsen, MGH, AA XI, Chron.
Min., II, 76): «Pannoniae quae per quinquaginta annos ab Hunnis retinebantur a Romanis
receptae sunt». Cfr. A. Alföldi (Der Untergang der Römerschaft in Pannonien, Berlin
1926, pp. 66-67; 94-95), secondo cui la «riconquista» è dovuta a Costantinopoli; E. Stein
– J.R. Palanque (op. cit., p. 318), secondo cui la riconquista è dovuta a Felice, il magister
di Placidia, rivale di Ezio. La prima opinione sembra la più verosimile. Cfr. A. MÓCSY,
art. cit., p. 358. 252 IDAZIO, Chron., § 93 e 95 (Chron. Min., II, p. 22); SIDONIO APOLLINARE, C. 7, 233-
234; Chronica Gallica, § 106 (Chron. Min., II, p. 658). 253 PROSPERO, Chron. ad. a. 432 (Chron. Min. I, pp. 473-474); Chron. Gallica, § 112
(Chron. Min., II, p. 658). Sulle circostanze di questa nuova competizione per il potere
cfr. E. STEIN – J.R. PALANQUE, op. cit., pp. 322-323. Risale a questo momento la
cessione della regione della Sava, ovvero delle porte dell’Italia Annonaria? L’allusione
di Prisco (Frag. 7, inizio - Ed. Müller, FHG 4, p. 76) è interpretata in vario modo:
ALFÖLDI, op. cit., p. 90. 254 Per il 442 Prospero nota che l’esercito – orientale – della Sicilia è richiamato a
difendere «la Tracia e l’Illirico, che sono devastati dagli Unni» (Chron. Min. I, p. 479),
senza segnalare nessun’azione coordinata tra Oriente e Occidente, liberatosi ormai
72
VIII. LA PRESA DI AQUILEIA DA PARTE DI ATTILA
Attila e l’Occidente
Fino al 450 vediamo che Attila e gli Unni preoccupano più l’Oriente che
l’Occidente (per lo meno a ovest delle Alpi Giulie). Valentiniano III ha
concesso al barbaro il titolo di Magister militum255, lasciandogli una parte
della Pannonia II; Ezio e Valentiniano III hanno per lungo tempo assoldato gli
Unni, senza suscitare le proteste che Costantinopoli si era vista rivolgere dopo
il trattato di Margo del 435. Ecco però, forse perché l’Oriente, devastato da
decenni ormai, dà segni di sfinimento, che Attila coglie l’occasione per
intervenire in Occidente, fornita da un lato dagli appelli – a partire dal 434? –
di Onoria, sorella di Valentiniano III256, e dall’altro dall’invito di Genserico,
che a Cartagine temeva le rappresaglie di Teodorico di Tolosa, dopo la
fine che aveva fatto fare a sua figlia257. È verso la Gallia che mosse Attila,
sulla scia delle orde del 405: forse temeva una strenua resistenza da parte
dell’Italia, e probabilmente sapeva che per penetrare in Italia non poteva
puntare sulla forza e sulle evoluzioni della cavalleria, che sarebbe stata
messa in d i f f i co l t à da l l a s t re t t a de i co l l i . È no to l ’ e s i t o d e l l a
dalla minaccia di Genserico (su queste operazioni relative al 441-442 cfr. MARCELLINO,
Chron. ad a. 441 e 442 – Chron. Min. II, pp. 80-81). Allo stesso modo la Chronica
Gallica nota per il 447 che un nuovo disastro si abbatte sull’Oriente, dove vengono
devastate 70 città «senza che l’Occidente porti loro soccorso» (§ 132, Chron. Min. II, p.
662 – Cfr. MARCELLINO, Chron. ad a. 447 – Chron. Min. II, p. 82). 255 PRISCO, Frag. 8 (Ed. Müller, FHG 4, p. 90). Su Attila cfr. F. ALTHEIM, Attila et les
Huns, trad. fr., Paris s.d. (1952), cap. 5 e 6. 256 Questa data, fornita dal Conte Marcellino (Chron. ad a. 434 - Chron. Min. II, p. 79),
appare troppo lontana: a quel tempo Attila non può fare nulla senza il fratello Bleda. Cfr.
al riguardo PRISCO, Frag. 16 (Ed. Müller, FHG 4, p. 99). 257 GIORDANE, Getica, 184 sgg. (Ed. Mommsen, MGH, AA 5, 1, pp. 106 sgg.).
73
spedizione, che si spinse fino a Orléans prima di dover fare definitivamente
marcia indietro, dopo la battaglia dei «Campi Catalaunici».
Le cicogne di Aquileia
Tuttavia Attila, ancora nel pieno delle forze, era lungi dall’essere sconfitto;
bisognava ancora temere un attacco concertato con Genserico sulla Gallia,
dove il giovane Torrismondo non aveva ancora consolidato il proprio potere
sul popolo. Ciò fa sì che Prospero possa affermare, non senza criticare Ezio,
che Attila ha potuto fare irruzione in Italia attraverso la Pannonia, senza
nemmeno servirsi dei clusuriae Alpium che avrebbero potuto sbarrargli la
strada258. Da questa parte la sorpresa fu totale259. Ciò non toglie che Aquileia
oppose una strenua e lunga resistenza, grazie al coraggio della sua
guarnigione. Prisco racconta, ripreso da Giordane, che furono le cicogne a
rovinare Aquileia. Non era ancora autunno; ciononostante Attila si accorse che
le cicogne lasciavano la città, portando con loro i piccoli in campagna. Il
condottiero trasse il presagio che le cicogne abbandonavano la città prima
della conquista e della distruzione dei loro nidi260.
Semplice stratagemma per tirare su il morale delle truppe? A quanto pare non solo,
se accettiamo il ritratto di Attila abbozzato da Altheim261, che lo mostra, attraverso
258 PROSPERO, Chron. ad. a. 452 (Chron. Min. I, p. 482): «Attila redintegratis uiribus
quas in Gallia amiserat, Italiam ingredi per Pannonias intendit, nihil duce nostro Aetio
secundum prioris belli opera prospiciente ita ut ne clusuris quidem Alpium – quibus
hostes prohiberi poterant! – uteretur, hoc solum spebus suis superesse existimans si ab
omni Italia cum imperatore discederet». 259 La Chronica Gallica dichiara che Attila avanzò senza resistenza in Italia «quam
incolae, metu solo territi, praesidio nudauere» (Chron. Min., II, p. 662, § 141); il che
appare come uno scarico di responsabilità. Fa ancora più piacere ammirare la resistenza
di Aquileia, che gestì da sola la propria difesa. 260 GIORDANE, Getica, 220 (p. 114). 261 ALTHEIM, op. cit., pp. 188-189.
74
il racconto di Prisco e gli avvenimenti degli anni 445-450, particolarmente
sensibile a tutte le manifestazioni del divino262 e, al tempo stesso, ai segni
d’onore lusinghieri263. Aggiungerei al quadro una considerazione: mi permetto
di chiedermi, benché la storia non si possa cambiare, che cosa sarebbe
avvenuto se il vescovo di Aquileia avesse tentato d’interporsi e di salvare
almeno la popolazione. Quando papa Leone, infatti, scelto come ambasciatore
insieme con il console Avienno e con il prefetto Trigezio, raggiunse il re sul
Mincio, egli non solo ricevette con tutti gli onori quest’ambasciata composta
da persone così importanti, ma fu molto «contento – racconta Prospero – della
presenza del sommo pontefice (summus sacerdos)»264. Il barbaro era
sensibilissimo al denaro, certo, ma anche ai segni d’onore. Vedere davanti a
sé, pur senza scorgere Pietro e Paolo, la più alta personalità religiosa
dell’Impero cristiano, non poteva che lusingarlo oltremodo.
Che cosa sarebbe successo se fosse intervenuto il vescovo di Aquileia?
262 Ibid., pp. 169-170, 177. 263 Ibid., p. 167. 264 PROSPERO, loc. cit.: «...nihilque inter omnia consilia principio ac senatus populique
Romani salubrius uisum est quam ut per legatos pax truculentissimi regis expeteretur.
Suscepit hoc negotium cum uiro consulari Auieno et uiro praefectorio Trygetio
beatissimus papa Leo, auxilio Dei fretus quem sciret numquam piorum laboribus
defuisse. Nec aliud secutum est quam prasumpserat fides. Nam, tota legatione dignanter
accepta, ita summi sacerdotis praesentia rex gauisus est ut, et bello abstinere
praeciperet, et ultra Danuuium promissa pace discederet». Altheim rievoca la scena (p.
190), nella quale vede solo l’incontro delle due religioni: «istante memorabile, scena
davvero simbolica» – e celebrata dai pittori. Altre considerazioni dovettero entrare in
gioco; in particolare, stando alla Cronaca di Idazio (§ 154 – Chron. Min., II, pp. 26-27),
un attacco alle spalle dell’imperatore d’Oriente, Marciano. È preoccupante che Giordane,
che si rifà esplicitamente a Prisco, non rievochi in nessun modo questa minaccia
orientale, mentre Attila esita a scendere su Roma (Getica, 222-223 – pp. 114-115).
Giordane comunque non nega questi avvenimenti d’Oriente (Getica, 225). ALTHEIM, op.
cit., pp. 190-191. Sulla sensibilità di Attila ai segni d’onore cfr. A. LOYEN, art. cit., pp.
71-72.
75
La situazione si era forse spinta troppo oltre? L’astio delle truppe di Attila,
rinvigorite dal presagio delle cicogne, si fece maggiore, tanto più che erano
state sul punto di far marcia indietro, dopo una disfatta analoga a quella
dell’anno precedente265. Le truppe ripresero l’assedio e si trasformarono, da
cavalieri, in genieri e in artiglieri266. Che io sappia è l’unica volta in cui si
vedono gli Unni servirsi di materiale da assedio267. La città fu presto presa.
Giordane riassume così, in maniera alquanto stringata: «Entrano in massa
nella città, saccheggiano, si dividono il bottino, devastano tutto brutalmente, al
punto che lasciarono quasi solo le fondamenta, come appare»268. Le note
lapidarie delle Cronache sono altrettanto poco eloquenti: «Aquileia ciuitas ab
Attila Hunnorum rege excisa est»269.
La sorte della città
Per rievocare questo saccheggio si può citare anche il racconto
d i P r i s c o r e l a t i v o a l s u o p a s s a g g i o a N a i s s o , d u r a n t e
265 GIORDANE, Ibid.: «exercitu iam murmurante et discedere cupiente». Secondo Paolo
Diacono (Hist. romana, 14, 9 – Ed. H. Droisen, MGH, AA, 2, p. 203, l. 18) l’assedio
sarebbe durato tre anni. Forse bisogna intendere tre mesi? Inoltre Paolo è il solo a parlare
del suicidio di una donna chiamata Digna. L’indicazione è valida soprattutto per le
informazioni archeologiche che contiene sui baluardi e sulle abitazioni (Ibid., 10 – p.
204, ll. 4-11). 266 Ibid., § 221. 267 Sull’«assedio» e sulla presa di Orléans nel 451, dove le porte della città furono aperte
dopo una breve resistenza, cfr. A. LOYEN, Le rôle de saint Aignan dans la défense
d’Orléans, in CRAI, 1969, pp. 64-74. 268 Ibid.: «Nec mora et inuadant ciuitatem, spoliant, diuidunt uastantque crudeliter ita ut
uix eius uestigia ut appareat reliquerunt». Che significa l’ut appareat alla fine? Tracce
del racconto di Cassiodoro? 269 MARCELLINUS COMES, ad a. 452 (Chron. Min., II, p. 84). Add. ad Prosperum
Hauniensis, ad a. 452 (Chron. Min., I, p. 302): «Aquileia et Mediolanum et nonnullae
aliae urbes ad Attilane subuersae»; AGNELLO, Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis
(Ibid.): «et capta et fracta est Aquileia ab Hunis».
76
l’ambasciata presso Attila: «Arrivammo a Naisso: la città era deserta, perché
devastata dai nemici. Nelle locande pubbliche si trovavano i malati. Le sponde
del fiume erano cosparse di ossa dei caduti in battaglia, perciò fummo costretti
a risalire il fiume per trovare un posto libero dove accamparci»270. Anche ad
Aquileia «lasciarono quasi solo le fondamenta». Una parte della popolazione
era forse riuscita a fuggire sulle isole o verso l’interno, senza essere raggiunta
dalle orde che conquistarono Milano e Pavia, demolendo tutta la serie di città
situate lungo la Via Postumia? Quel che è sicuro è che la vita riprese,
facilitata, più che dalle promesse, dalla morte di Attila, avvenuta nel 453, e
dalle divisioni che colpirono il suo impero. È a questi disordini e alle
campagne di Marciano (e forse anche di Avito)271 che dobbiamo attribuire il
ritorno dei prigionieri, che valse a Niceta di Aquileia e a Neone di Ravenna di
ricevere le epistole di Leone nel 458. Non si confidava più nel ritorno dei
prigionieri, indi per cui molte donne si sono risposate272. Alcuni adulti sono
stati portati via così giovani che non sanno se sono stati battezzati273.
D’altronde la dispersione dei prigionieri ha fatto sì che risiedessero chi tra gli
Unni pagani, presso cui hanno dovuto mangiare carni sacrificate agli idoli274,
chi tra gli Ostrogoti ariani, che li hanno battezzati o ribattezzati275. Ma della
vita economica non vi è nessuna traccia; con tutta probabilità, visto che i
mercati erano praticamente chiusi verso il Norico e verso la Pannonia, ci si
preoccupa soprattutto di sopravvivere sul piano agricolo, pensando forse a rifornire
270 PRISCO, Frag. 8 (Müller, p. 78). 271 SIDONIO APOLLINARE, C. 7, 589-590. 272 LEONE il Grande, Ep. 159, 1. 273 LEONE il Grande, Ep. 166, 1. Si potrebbe al limite pensare che questi bambini sono
stati portati via nel 402 o nel 408. Non bisogna dimenticare che queste lettere sono
inviate a Neone e a Niceta in quanto metropoliti. 274 LEONE il Grande, Ep. 159, 5. 275 LEONE il Grande, Ep. 159, 6-7; Ep. 166, 1-2.
77
Roma, tagliata fuori dai granai africani, e Ravenna, che non è meno dipendente
dalle regioni agricole che la circondano, come mostrerò in conclusione.
***
Chiudo qui questa breve analisi. Sarebbe errato credere che la presa di
Aquileia da parte di Attila segni la totale scomparsa della città e del suo ruolo
di avamposto d’Italia, o addirittura la fine della vita della regione, che
conoscerà ancora molte invasioni. Non occorre attendere la fine del secolo
perché la sorte dell’Italia – non si può più dire dell’Impero d’Occidente – si
decida di nuovo sull’Isonzo, dove Odoacre viene sconfitto da Teodorico
nell’estate del 489.
Ci troviamo di fronte a una nuova invasione barbarica? Ufficialmente no,
perché l’Amalo ha ricevuto da Zenone il compito di riconquistare l’Italia. Lo
stesso vale per Narsete, che porterà a termine la riconquista dell’Italia a capo
di contingenti lombardi. Poco dopo si ripeterà quanto visto nel 402 e nel 408
con Alarico: i Lombardi, dopo aver scoperto l’Italia, preferiranno prenderla
con la forza, piuttosto che dover venire alle mani con gli Avari, che li
attaccano, aspettando l’arrivo degli Ungari.
Per quanto riguarda il nord, la situazione differisce appena. Se Odoacre –
che la conquista della Dalmazia nel 481 ha portato nella regione di Aquileia –
affronta i Rugi sul Danubio, è perché questi sono spinti da Zenone, così come
Costanzo II ha lanciato gli Alamanni contro l’Alsazia di Magnenzio e di
Giuliano. Nel caso dei Rugi e di Teodorico, il connubio tra i barbari e
Costantinopoli viene esplicitamente affermato. Si può dire altrettanto delle
invasioni di Alarico nel 401 e nel 408? Forse corriamo un po’ troppo; ma i
contemporanei, constatando l’inoperosità della Pars Orientis, hanno pensato
probabilmente che una vera e propria alleanza tra Oriente e Occidente
avrebbe allontanato il pericolo barbarico dal Danubio e dall’Italia. In ogni
caso i dissidi tra le due metà dell’Impero a partire dal 395, cos ì come le
78
usurpazioni avvenute tra il 350 e il 395, hanno giocato a favore dei barbari,
che ad ogni guerra civile hanno approfittato dell’abbassamento della guardia
alle frontiere.
Le nostre fonti letterarie non sempre segnalano questi fatti, poiché
s’incentrano sugli imperatori e sulla lotta per il potere, sulle capitali piuttosto
che sulle province, soprattutto quando queste diventano sempre meno
accessibili. Ecco che dovrebbe subentrare, a questo punto, l’archeologia. Ma
per quanto riguarda le sponde del Danubio, della Drava e della Sava o le varie
pendici alpine, temo che non siamo ancora giunti a una conoscenza
sufficientemente completa, né sufficientemente precisa. Mi sembra che
bisognerebbe tenere in maggior considerazione la frammentazione delle Alpi,
che fa sì che le conclusioni desumibili da una scoperta isolata non debbano
superare il territorio in cui essa si situa. Quanto meno queste scoperte
consentono di precisare, e in molti casi di moderare in un senso o nell’altro, le
affermazioni spesso generiche e assolute delle fonti letterarie.
Raramente, infatti, si tratta di opere obiettive. Il genere letterario – che si
tratti di panegirici, di elogi, di orazioni funebri o d’invettive – e le passioni
religiose e politiche abbassano, spesse volte, il grado di sicurezza su cui si
dovrebbe poter contare. Le indicazioni numeriche, quando riportate, sono
spesso poco attendibili e, aspetto su cui vorrei insistere per concludere, le
parole non hanno lo stesso valore nelle diverse epoche. Non parlo
semplicemente dell’allontanamento più o meno evidente dei «testimoni»
rispetto ai fatti riportati; mi riferisco soprattutto a quella sorta di adattamento
che il ripetersi delle disgrazie ha creato e che possiamo constatare per Aquileia
e per la sua regione. Tanto per citare un esempio, Ammiano Marcellino
descrive con orrore gli avvenimenti degli anni 376-378. Ma egli scrive prima del
401, e a fortiori prima del 410, anche se non può non considerare quanto successo
tra il 378 e il 395 circa. La sensibilità s’inasprisce o si smorza a contatto con
calamità ricorrenti? Le parole, a forza di essere le stesse, non generano forse solo monotonia,
79
mentre queste invasioni sono state, per ogni generazione, «la» calamità? Per
non dimostrarsi sempre tragico, il tono deve forse assumere l’impassibilità
delle note presenti nelle Cronache? Ci piacerebbe poter seguire fra le pietre
dei suoi bastioni, delle sue case, delle sue chiese e del suo porto la storia di
Aquileia, del suo livello di ricchezza e del numero della popolazione. Il
contatto con le realtà economiche oggettive permetterebbe altresì di non farsi
ingannare dalle pagine più ottimistiche. Citerò l’ultimo esempio, che
meriterebbe una lunga trattazione. Non conosco elogio di Aquileia e di tutta
l’Histria più eclatante dei testi delle Variae, in cui Cassiodoro dipinge la
regione come la «Campania di Ravenna», vantando la ricchezza di grano, di
vino e di olio d’oliva276. Ma è evidente che sono, in buona parte, miraggi di un
affamato!
(1976)
276 CASSIODORO, Variae, XII, 22-24. Sul contesto economico di questi testi cfr. L.
RUGGINI, Economia e Società nell’Italia Annonaria, Milano 1961, pp. 321-349.
80
Yves-Marie Duval
AQUILEIA E LA PALESTINA TRA IL 370 E IL 420
Le due date, entro le quali mi è stato chiesto di collocare il presente lavoro,
lasciano intendere che mi è stato assegnato in primo luogo lo studio delle
opere di Girolamo e di Rufino. Si tratta di un campo immenso, che
richiederebbe di essere approfondito molto più di quanto non possa fare in
questa sede. Per iniziare vorrei richiamare l’attenzione sui limiti e sui rischi di
un simile studio, se ci si attiene strettamente alle frontiere geografiche e
cronologiche imposte.
Se facciamo partire l’analisi da Aquileia, non si può certo prescindere dagli
ambienti ebraici di Aquileia e della regione. Non posso far altro che rimandare
all’articolo di Lellia Cracco-Ruggini sulle colonie, sui luoghi di culto e sugli
interventi degli ebrei nelle questioni cristiane1. Qualche anno fa Mons.
Biasutti, in merito a Santa Sabida, ha rivelato tracce di sincretismo giudeo-
cristiano nelle campagne del Friuli2. Per motivi professionali e commerciali gli
ebrei viaggiano, entrando così in stretto contatto con i correligionari di
Alessandria, della Palestina e della Mesopotamia. Lo stesso vale
pe r i S i r i an i , r i evoca t i da Bruna For la t i Tamaro 3. Non par le rò
1 Cfr. L. CRACCO-RUGGINI, Ebrei e orientali in Aquileia, in AAAd. XII, Aquileia e
l’Oriente mediterraneo, Udine 1977, pp. 353-382. 2 G. BIASUTTI, Sante Sabide. Studio storico-liturgico sulle cappelle omonime del Friuli,
Udine 1956; S. TAVANO, La religiosità popolare nella valle padana, in Atti del II
convegno di studi sul folklore padano, Modena 1966, pp. 386 sgg. 3 B. FORLATI TAMARO, Iscrizioni greche di Siriani a Concordia, in AAAd. XII, Aquileia e
l’Oriente mediterraneo, Udine 1977, pp. 383-392.
81
dei vari gruppi di Aquileia e dintorni. In compenso parlerò brevemente dei
cristiani di altre cittadine dell’Italia settentrionale, giacché talvolta bisogna
andare fino in Gallia per seguire le tracce di un viaggiatore o di un pellegrino
che è passato per Aquileia andando in Palestina o sulla strada del ritorno.
L’opera stessa di Rufino e di Girolamo, dati i rapporti che implica, impone di
allargare l’area geografica di partenza; tutte queste persone sono in contatto
con Aquileia, dove alcune sono anche vissute per un breve periodo.
Parimenti non possiamo limitarci alla Palestina come unico punto d’arrivo e
scopo unico del viaggio. Un viaggio in Palestina implica tutto un giro,
comprendente, com’è stato ampiamente provato, un passaggio per Alessandria
e per i monasteri d’Egitto, una deviazione per Edessa nonché, se si prende da
un capo all’altro la via di terra, la traversata della Siria, della Cappadocia e il
passaggio per Costantinopoli. Il presente studio ci condurrà spesso a Edessa e
a Costantinopoli. In compenso lascerò a Mons. Biasutti il campo libero per
l’analisi dei rapporti particolari tra la chiesa di Aquileia e quella di
Alessandria4, e non andrò fin nel deserto con Françoise Thélamon5. Mi
limiterò a due osservazioni che mi sembrano altamente simboliche. La prima: i
due carissimi amici, Girolamo e Rufino, quando lasciano Aquileia per l’Oriente, si
recano a Gerusalemme seguendo vie differenti, ma dirette. Girolamo passa per la
Cappadocia e per Antiochia, Rufino per l’Egitto. Entrambi impiegheranno
anni prima di arrivare a Gerusalemme. Di solito ci si mette meno tempo.
Seconda osservazione: la Vita di Antonio, padre dei monaci, scritta da
Atanasio, ospite prestigioso di Aquileia, è stata tradotta ad Antiochia6 per un
4 G. BIASUTTI, Aquileia e la chiesa di Alessandria, in AAAd. XII, Aquileia e l’Oriente
mediterraneo, Udine 1977, pp. 215-229. 5 Fr. THÉLAMON, Modèles de monachisme oriental selon Rufin d’Aquilée, in AAAd. XII,
Aquileia e l’Oriente mediterraneo, Udine 1977, pp. 323-352. 6 Tuttavia credo sia possibile ritenere che la traduzione sia stata fatta prima del ritorno in
Oriente, poiché Innocenzo non viene qualificato come prete all’interno della stessa.
82
occidentale senza dubbio originario dell’Italia settentrionale, se non proprio di
Aquileia7.
Ma al di là dei simboli, vi sono dati di fatto. Mi soffermerò, durante questo
studio, sugli itinerari e sulla variazione degli stessi, in funzione di fattori che
probabilmente non potremo cogliere con esattezza (come il costo rispettivo di
un viaggio via terra e di un viaggio via mare), nonché in funzione di eventi
politici e religiosi. C’è forse bisogno di ricordare che il periodo compreso tra il
370 e il 420 ha visto, nelle regioni oggetto del nostro studio, la fine di due
usurpazioni e quasi cinquant’anni d’insicurezza, che è andata crescendo
soprattutto tra il 378 e il 4088? Aquileia è stata direttamente legata a tali eventi
e ne ha subito il contraccolpo, in sé e nei rapporti con l’Oriente.
All’allargamento geografico imposto dal presente lavoro per avvicinarci alla
realtà vissuta ne vanno aggiunti altri due, onde evitare di falsare le prospettive.
Il primo è un invito a non lasciarsi ipnotizzare dalle opere e ancor meno dalle
persone di Girolamo e di Rufino. La loro opera è mastodontica, ma non deve
eclissare altre opere, non meno interessanti al fine di chiarire la natura e
l’importanza degli scambi tra l’Italia settentrionale e l’Oriente. Per quanto
riguarda i due importanti personaggi, va detto che fanno numero con parecchi
altri, che in parte citerò. Non sarebbe esagerato intravedere l’esistenza di molti
altri personaggi. Si potrebbe persino affermare che i progetti di Rufino e di
Girolamo rientrano in un ampio movimento, che comincia ben prima di loro,
addirittura nel IV secolo. È l’ultimo allargamento di cui vorrei parlare. Due date e
due fatti consentono di suggerire i punti principali. Innanzitutto la presenza di
Atanasio ad Aquileia e, di conseguenza, tutti i rapporti dottrinali che susciterà e manterrà
7 Secondo l’Ep. 3, 3, in cui Girolamo racconta della sua morte, Innocenzo è noto agli
amici di Girolamo ad Aquileia. 8 Cfr. il mio studio Aquilée sur la route des Invasions (350-452), in AAAd. VII, Aquileia
e l’arco orientale, Udine 1976, pp. 255-280.
83
l’arianesimo tra Alessandria e l’Occidente, nonché tra la Cappadocia e
l’Occidente: Ilario di Poitiers, di ritorno da Costantinopoli e da Seleucia, ed
Eusebio di Vercelli, di ritorno dalla Palestina e da Alessandria, sono passati
per Aquileia nel 3609. L’interesse da parte dell’Occidente nei confronti della
teologia e della spiritualità orientali è aumentato grazie a loro. Dopo la morte
di Atanasio, Basilio di Cesarea entrerà in contatto con Valeriano di Aquileia e
con Ambrogio10. La seconda data è quella dell’Itinerarium Burdigalense: il
333. Un anonimo si reca a Gerusalemme e fornisce, a chi vuole andare in
Terra Santa, i dettagli delle tappe su strada. Le basiliche di Costantino non
sono ancora terminate, la vera Croce è appena stata scoperta, e in Occidente
già si vuole andare a visitare il posto in cui Cristo è nato, il Golgota e il
Sepolcro. L’espressione letteraria di tale desiderio appare ben oltre la
realizzazione11. Quando Girolamo e Rufino partirono, seguendo vie differenti,
verso Gerusalemme, nella cittadina esisteva già una sorta di «centro di
accoglienza» per occidentali, gestito da almeno un occidentale12. Non bisogna
quindi considerare il periodo 370-420 un punto di partenza, e nemmeno un
periodo propizio, se si desidera cogliere appieno la vita reale dell’epoca. Sarà
un periodo propizio unicamente per le «importazioni» di opere letterarie e di
reliquie, che tratteremo nella seconda e nella terza parte. Prima vorrei seguire,
negli imprevisti, nelle crisi e nei riavvicinamenti, i rapporti che Girolamo e
Rufino intrattennero con Aquileia, compresi quelli che possiamo individuare
nelle loro opere.
9 Y.-M. DUVAL, Vrais et faux problèmes concernant le retour d’exil d’Hilaire de Poitiers
et son action en Italie du Nord (360-363), Athenaeum, 48 (1970), pp. 251-275 e
soprattutto pp. 268 sgg. 10 BASILIO, Ep. 91-92. Cfr. Les relations doctrinales entre Milan et Aquilée dans la
seconde moitié du IVe siècle, AAAd. IV, Aquileia e Milano, Udine 1973, pp. 180 sgg. 11 GIROLAMO, Ep. 46 (passim), 47, 2; PAOLINO di Nola, Ep. 31. 12 GIROLAMO, Ep. 4, 1.
84
I - I RAPPORTI TRA AQUILEIA E LA PALESTINA
ATTRAVERSO LE OPERE DI GIROLAMO E DI RUFINO
Il silenzio di Rufino dal 373 al 397
Inizierò da Rufino, nonostante egli abbia lasciato Aquileia dopo Girolamo,
in condizioni
altrettanto misteriose. Sappiamo che ad Alessandria è stato colpito dalle
misure adottate contro i Niceni poco dopo la morte di Atanasio, nel maggio
37313. Il suo arrivo definitivo in Palestina si colloca intorno al 380. Di Rufino
non abbiamo neanche una riga, né prima né dopo il 380, e nulla sappiamo
circa i suoi rapporti con Aquileia, né con Concordia, dove ha lasciato la
madre14 e da dove il vecchio Paolo gli richiede alcuni libri15. Ma ciò non
significa affatto che siano stati tagliati i ponti, né che Rufino sia partito senza
più tornare. Occorre invece tener presente che Rufino aveva probabilmente
concluso la propria vita all’insegna del silenzio e del lavoro, visto che, a
partire dal 398, Girolamo non lo aveva più perseguitato con i suoi attacchi e
con i suoi pamphlets. Sono proprio questi, grazie alle risposte che hanno
suscitato ad Aquileia, a informarci maggiormente, seppur in ritardo, sulla vita
di Rufino ad Alessandria e a Gerusalemme, senza però fornire sempre la
chiarezza desiderabile.
Il viaggio di Girolamo verso Gerusalemme
Tutto è lungi dall’esser chiaro per quanto concerne Girolamo, a cominciare dalla
partenza e dall’itinerario fino ad Antiochia, dove si fermerà. Ritroviamo per cinquant’anni
un’alternanza di periodi bui e di periodi chiari. I periodi in cui gli scambi sono stati più intensi
13 RUFINO di Aquileia, Apologia ad Anastasium, 2 (Ed. M. Simonetti, CC 20, p. 25).
Sulla cronologia e sui relativi problemi cfr. F.-X. MURPHY, Rufinus of Aquileia, his Life
and Works, Washington 1945, pp. 28 sgg. 14 GIROLAMO, Ep. 81, 1. 15 GIROLAMO, Ep. 5, 2.
85
e più ricchi forse non coincidono con quelli in cui i rapporti sono stati più tesi.
Tuttavia è proprio su questi ultimi che disponiamo di maggiori informazioni.
Girolamo sembra essere partito da solo. Le circostanze della partenza sono
poco note, come pure l’itinerario. Nella lettera in cui, da Antiochia, illustra a
Rufino come passa il tempo dopo che «un’improvvisa tempesta lo ha portato
lontano da lui», Girolamo, iniziando con l’evocare due tempeste virgiliane,
quella del libro III e quella del libro V, dichiara: «Allora una cupa burrasca si
abbatté sulla mia testa», quindi «cielo e mare ovunque»; e continua: «Dopo le
mie peregrinazioni incerte ed erranti: Tracia, Ponto e Bitinia, traversata della
Galazia e della Cappadocia, caldo bruciante della regione dei Cilici, ero
sfiancato, quando la Siria si offrì a me come un porto sicuro a un naufrago»16.
Questa immagine marittima al termine di un itinerario terrestre potrebbe far
pensare che le allusioni iniziali a Virgilio siano meramente letterarie, tanto più
che ritornano, identiche, in molte di queste prime lettere e in contesti in cui
hanno un valore puramente decorativo e letterario17. Tuttavia mi sembra
plausibile invocare un testo più tardo, apparentemente impersonale, a favore di
un itinerario marittimo nella prima parte. Nella Prefazione alla sua traduzione
dei Paralipomeni sulla Bibbia dei Settanta, due libri ricchi d’informazioni
sulla geografia e sulla storia della Palestina, Girolamo dichiara: «Così come si
comprendono meglio gli storici greci dopo aver visto Atene, e il libro terzo
dell’Eneide dopo aver navigato dalla Troade, attraverso Leucade e i Monti
Acrocerauni, fino in Sicilia, per arrivare alle foci del Tevere, allo stesso modo
si comprende meglio la Scrittura dopo aver contemplato con i propri occhi la
Giudea, visitato i monumenti delle antiche città e constatato ciò che è rimasto e ciò che è
16 GIROLAMO, Ep. 3, 3. 17 Cfr. H. HAGENDHAL, Latin Fathers and the Classics, Göteborg 1958, pp. 100-101, che
ha trovato tracce di ricordi recenti e concreti.
86
cambiato nei nomi delle località»18. Certo, il viaggio in questo caso è
incompleto e viene fatto al contrario19; certo, si potrebbe pensare che il
passaggio per Atene, peraltro attestato20, abbia potuto aver luogo all’arrivo di
Girolamo da Costantinopoli a Roma nel 38221, ma non penso che, a quel
tempo, la via marittima da Costantinopoli a Roma risalisse ancora così a nord
nel mar Ionio, quando si vuole raggiungere non già Brindisi, ma lo stretto di
Messina o la parte meridionale dell’isola22. Sarei quindi pronto a vedere nei
ricordi letterari della lettera a Rufino l’espressione di ricordi reali. Ciò
porterebbe a supporre che per Girolamo fosse fondamentale non tanto arrivare
a Gerusalemme, sempre che fosse questa l’intenzione al momento della
partenza23, quanto piuttosto partire, e che si sia lasciato portare dai battelli che
ha avuto modo di prendere. Una volta doppiato il Capo Malea24 è risalito verso
il Pireo, poi verso Tessalonica o verso Costantinopoli e da lì ha preso la via di
18 GIROLAMO, In librum Paralipomenon, Praefatio (PL 29, c. 401 A-B). 19 Lo stesso vale per il viaggio di Paola nel 385: Ep. 108, 7. 20 GIROLAMO, In Zachariam, 12, 3 (CC 76 A, p. 862, ll. 58-64); In Titum, 1, 12 (PL 26, c. 572 C). 21 Paolino di Antiochia ha soggiornato per un breve periodo a Tessalonica. 22 Sul viaggio di Enea e sulle vie marittime primitive cfr. P. MARTIN, Le sillage d’Énée,
in Athenaeum, 53 (1975), pp. 212-244. 23 Se possiamo considerare un’intenzione primitiva la dichiarazione dell’Ep. 22, 30, in
cui Girolamo afferma che «andava a Gerusalemme per mettersi al servizio di Cristo».
Nell’Ep. 5, 1 Girolamo scrive a Fiorentino che il desiderio di andare a Gerusalemme «si
è riacceso». 24 Secondo P. MONCEAUX (Saint Jérôme, sa jeunesse, l’étudiant et l’ermite, Paris 1932,
pp. 99-100), Girolamo è andato via mare soltanto da Aquileia a Durazzo, dove ha preso
la Via Egnatia, che gli ha permesso di attraversare la Macedonia e giungere così a
Costantinopoli. Era, di fatto, la via ordinaria all’epoca, per chi veniva da Roma. Non è da
escludere che Girolamo, specie se partito a stagione inoltrata, abbia interrotto la
navigazione a Durazzo. Ma Monceaux non conosce il testo della Prefazione del Libro
dei Paralipomeni, che può contenere ricordi autobiografici. F. CAVALLERA (Saint
Jérôme, sa vie et son oeuvre, Louvain-Paris 1922, I, 1, p. 25) resta sul vago circa tale
viaggio.
87
terra attraverso l’Asia Minore. Lo abbiamo visto arrivare ad Antiochia; prima
del 385 non andrà oltre. Ma è da qui che lo vedremo in contatto con Aquileia e
soprattutto constateremo che la gente di Aquileia viaggia e si reca in Palestina.
Gli incontri di Girolamo
Ad Antiochia Girolamo ritrova Evagrio, che ha soggiornato nell’Italia
settentrionale, nonché il prete Innocenzo, cui Evagrio dedica la traduzione
della Vita di Antonio. Innocenzo è noto alla gente di Aquileia25; probabilmente
è originario dell’Italia settentrionale, ma si trova ad Antiochia presso Evagrio,
con cui forse è tornato, non sappiamo con quale intenzione. Più conosciute
sono invece la provenienza e le intenzioni delle altre persone citate da
Girolamo. Girolamo ha percorso un tratto di strada con Nicea, suddiacono
della Chiesa di Aquileia; questi aveva lasciato Aquileia prima del ritorno di
Girolamo dalla Gallia, visto che l’amicizia tra i due sembra essere nata «da
poco», vale a dire durante il viaggio. I due pellegrini hanno fatto conoscenza
lungo la strada26. Invece nella persona di Eliodoro, Girolamo ritrova una
vecchia conoscenza. Questi ritorna da Gerusalemme quando Girolamo lo
incontra ad Antiochia27. La sua partenza ha preceduto nuovamente quella di
Girolamo. Né Nicea né Eliodoro rimarranno in Oriente, malgrado gli sforzi di
Girolamo per trattenere almeno il secondo, più libero nei movimenti28.
25 GIROLAMO, Ep. 3, 3. 26 GIROLAMO, Ep. 8. 27 GIROLAMO, Ep. 3, 2; 4, 1. 28 Nel 384 Girolamo non esita a far partire Presidio di Piacenza, benché vincolato dalla
carica di diacono (Ed. G. Morin, in BAnclit, 3 (1913), pp. 56-57, ll. 71-125). Innocenzo
era prete, ma non si sa di quale chiesa.
88
Le lettere al paese
La gente che ritorna al paese si vede ovviamente affidare delle lettere.
Benché non contengano nessun’indicazione circa i portatori, le lettere che ci
sono pervenute sono altre, visto che indicano spostamenti piuttosto frequenti,
in entrambi i sensi. Al monaco Antonio di Emona Girolamo dichiara di aver
scritto «dieci volte», senza ottenere risposta29. Probabilmente c’è
dell’esagerazione in tale cifra, anche se accade un episodio simile con le
Vergini della città, che rimangono anch’esse in silenzio30. Per quanto riguarda
la zia Castorina, Girolamo dice esplicitamente di averle già scritto, invano,
l’anno prima31. Un rimprovero analogo è rivolto al monaco di Aquileia
Crisocomas, cui Girolamo aveva scritto o fatto portare i propri saluti mediante
Eliodoro32.
Le lettere dal paese
Possibile quindi che i rapporti siano più frequenti nel senso Antiochia-
Aquileia che non nel senso opposto? No, perché Girolamo è il primo a
ricevere una lettera di Cromazio, del fratello Eusebio e di Giovino33. Allo
stesso modo il diacono Giuliano ha preso l’iniziativa di scrivere, per
rimproverare a Girolamo il suo silenzio34. Quest’ultimo, nel piccolo alterco
che immagina con il suo corrispondente, dichiara: «Se dirò (per giustificare il
mio silenzio): “Non ho trovato nessuno che portasse le mie lettere”, tu dirai
che in parecchi (quam plurimos) sono andati da qui a lì»35. Anche Paolo di Concordia
29 GIROLAMO, Ep. 12: «decem iam, nisi fallor, epistulas (...) misi». 30 GIROLAMO, Ep. 11: «totiens uobis tribuenti officium». 31 GIROLAMO, Ep. 13, 2. 32 GIROLAMO, Ep. 9. 33 GIROLAMO, Ep. 7, 2: «ut scribitis, ante non scripsi». 34 GIROLAMO, Ep. 6, 1: «ego a te obiurgatus de silentio litterarum». 35 Ibid.
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ha scritto a Girolamo, incaricandolo di richiedere alcuni libri a Rufino36.
Probabilmente sapeva che erano partiti entrambi per Gerusalemme, pur
seguendo strade diverse, e che si sarebbero ritrovati lì. I rapporti erano forse
più frequenti tra l’Italia settentrionale e la Palestina che non tra l’Italia
settentrionale e l’Egitto? Il vecchio Paolo ha forse scritto anche a Rufino in
Egitto? Sono domande a cui è impossibile fornire una risposta certa. Tuttavia
aggiungerò due osservazioni. Innanzitutto è ad Antiochia che Girolamo è
venuto a sapere della presenza di Rufino in Egitto. L’ardore con cui parla dei
monaci di Nitria e di Macario lascia supporre che ne conoscesse già piuttosto
bene le imprese, e che non fossero sconosciuti nemmeno ad Aquileia37.
Girolamo sarebbe prontissimo a raggiungere Rufino in Egitto, se non fosse per
il suo stato di salute. D’altra parte è al corrente degli eventi più recenti di
Alessandria, grazie a coloro che sono stati inviati a portare soccorso a chi è
stato esiliato da Alessandria, per volontà dell’imperatore Valente, nel 373-
374. Girolamo parla di un monaco incaricato di questa missione38. Non è
inverosimile che lo schiavo di Melania, che muore ad Antiochia, fosse venuto
per lo stesso motivo39. Sappiamo infatti che Melania l’Anziana seguì, per
breve tempo almeno, un gruppo di esuli nella regione di Diocesarea di
Palestina40. Il cerchio si chiude, ma si chiude sia ad Aquileia sia ad Antiochia,
poiché non vi è ragione di pensare che le notizie riguardanti le
persecuzioni contro i Niceni non siano state diffuse ad Aquileia, in un
36 GIROLAMO, Ep. 5, 2. 37 Cfr. Ep. 3, 1: «Audio te Aegypti secreta penetrare, monachorum inuisere choros...
etc.»; 3, 2: «Rufinum Nitriae esse et ad beatum perrexisse Macarium...». 38 GIROLAMO, Ep. 3, 2. 39 GIROLAMO, Ep. 3, 3. 40 PALLADIO, Historia Lausiaca, 46, 3.
90
periodo in cui l’arianesimo era appena stato sradicato41 e in cui si sarebbe
iniziata a manifestare l’azione di Ambrogio42.
Il Concilio di Aquileia e l’Oriente
Non ritornerò più sulla questione dell’arianesimo. Ho già avuto occasione di
parlarne a proposito di Aquileia43. Non c’è dubbio che l’affare non abbia
occupato molto spazio nelle affermazioni di chi tornava dall’Oriente e poteva
testimoniare i progressi dell’ortodossia, a partire dal 381 almeno. Prima, sotto
Valente, vediamo Girolamo alle prese con le varie tendenze, più o meno
eterodosse, del deserto della Calcide. Nel 381 appunto Paolino di Antiochia
scriverà ai membri del Concilio di Aquileia per chiedere appoggio44; invierà
forse Evagrio, il miglior legato che potesse trovare in tale circostanza45. Non
mi soffermerò su questo punto, come pure non mi dilungherò sull’arrivo
dell’alessandrino Massimo, né sull’intervento del Concilio di Aquileia a
favore di Timoteo di Alessandria46.
Rottura delle comunicazioni attraverso l’Illirico?
Vorrei invece richiamare l’attenzione su un altro punto, che riguarda i
rapporti con l’Oriente in quegli anni e che va oltre la figura di un individuo o
di un piccolo gruppo di monaci e di chierici. Innanzitutto dobbiamo constatare
che tra il 375 e il 381 non abbiamo neanche una lettera di Girolamo destinata alla gente
41 GIROLAMO, Ep. 7, 6. 42 Cfr. Les relations doctrinales entre Aquilée et Milan, pp. 183 sgg. 43 Ibidem, pp. 188 sgg. 44 AMBROGIO, Ep. 12, 4. 45 Se lo si può identificare con l’Evagrius presbyter che appare negli Atti del Concilio del
381. Cfr. Les relations doctrinales, p. 186. 46 AMBROGIO, Ep. 12, 4.
91
di Aquileia, mentre vediamo che il nostro monaco scrive due volte a Roma. Le
ragioni di questo interesse per Roma non mancano, ma appare meno chiara la
rottura dei rapporti con Aquileia, a meno che non si tratti del contraccolpo
della situazione politica. Già nel 375, infatti, Basilio, che abbiamo visto
scrivere a Valeriano e che è in contatto con Ambrogio nel 375 o nel 376,
rievoca le difficoltà incontrate nel raggiungere Roma d’inverno, via terra47.
Nel 374 e nel 375 il medio Danubio viene invaso ripetute volte e, a partire dal
376, si palesa (prima sul basso Danubio e poi sul medio) la minaccia che, per
sei anni, incomberà sulle comunicazioni tra Costantinopoli e l’Italia
settentrionale. Alla fine del 381 i vescovi presenti ad Aquileia chiedono,
seguiti da Ambrogio, la convocazione di un nuovo Concilio, suggerendo che si
tenga a Roma48 o ad Alessandria49, città che presentano un facile accesso al
mare, proprio a causa dei disordini che rendono poco sicuri i viaggi attraverso
l’Illirico50. I Padri del Concilio non affermano forse di aver avuto l’intenzione
di mandare «qualche loro membro» ad Antiochia per risolvere la questione
dello scisma, e di essere stati bloccati dall’hostilis irruptio e dai tumultus
publici51? Non si sa con esattezza a quale data vadano ricondotte tali
intenzioni52.
Il pasticcio scatenato dalle lettere e gli intempestivi interventi del Concilio di
Aquileia nelle questioni d’Oriente lascerebbero intendere che i vescovi
dell’Italia settentrionale fossero allora, nonostante le lettere cui si fa allusione,
poco o male informati circa la reale situazione delle chiese d’Oriente. Nel primo caso
la rottura delle relazioni è forse dovuta agli eventi politici dell’ultimo lustro; nel secondo
47 BASILIO di Cesarea, Ep. 215. 48 AMBROGIO, Ep. 12, 5. 49 AMBROGIO, Ep. 13, 6. 50 AMBROGIO, Ep. 14, 7. 51 AMBROGIO, Ep. 12, 5. 52 Viene invocata la «uetusta communio» (Ep. 12, 4; 13, 2).
92
caso – che non esclude il primo – informatori come Massimo, come Evagrio o
(per quanto riguarda Paolino) come Girolamo erano troppo di parte. In ogni
caso Ambrogio esprime il desiderio di veder ristabilita e mantenuta l’unione
tra le chiese d’Occidente e quelle d’Oriente53. Sembra rispondere alle
affermazioni di Basilio quando nega, presso Teodosio, di essere intervenuto a
sproposito nelle questioni d’Oriente, adducendo che gli orientali si
lamentavano, un tempo, dell’indifferenza che sembravano mostrare nei loro
confronti le chiese d’Occidente54. Nonostante gli insuccessi, Ambrogio
continuerà a occuparsi della questione di Antiochia. A tale proposito entrerà in
contatto con Teofilo di Alessandria55. Non so se il comportamento di
Girolamo sia in qualche modo legato all’irritazione che il vescovo di Milano
finirà per provare56. In ogni caso Girolamo non sembra aver gradito l’abbandono
dell’amico Evagrio da parte di Ambrogio; quest’animosità ha condizionato i primi
– difficili – rapporti tra Girolamo e Teofilo di Alessandria57, che peraltro a quel
tempo era amico di Rufino.
Girolamo a Betlemme
Non siamo ancora arrivati a quegli anni. Eppure dobbiamo constatare un
immenso vuoto nei rapporti di Girolamo con Aquileia, stando a quanto risulta dalla
sua opera. Nel 381 Girolamo si trova a Costantinopoli. È a Roma dal 382 al 385,
53 AMBROGIO, Ep. 14, 1. 54 Ibid., 14, 2. 55 Su un aspetto misconosciuto di questi rapporti cfr. il mio Saint Ambroise de Milan de
son élection à sa consécration épiscopale, in Ambrosius episcopus, «Congresso
internazionale di Studi Ambrosiani nel XVI centenario della elevazione di S. Ambrogio
alla cattedra episcopale», Milano 1976, II, p. 254 e n. 44. 56 AMBROGIO, Ep. 56. 57 Cfr. Sur les insinuations de Jérôme contre Jean de Jérusalem, in RHE 65 (1970), p.
362 e n. 7.
93
ma non è dimostrato che sia venuto ad Aquileia58 o a Stridone, da cui arriva
Paoliniano (suo fratello), che lo raggiunge a Roma. Qui Girolamo ha visto
Valeriano e ha frequentato per qualche settimana Ambrogio, in occasione del
Concilio del 382. Attraverso un giudizio malevolo sull’opera di Ambrogio
possiamo constatare che Girolamo, trasferitosi a Betlemme, si tiene informato
su quel che succede in Italia settentrionale59. In precedenza aveva espresso
soltanto complimenti per il De uirginibus di Ambrogio60; ma già a Roma
faceva capolino una certa malignità nel suo progetto di tradurre per Damaso il
Trattato sullo Spirito Santo di Didimo, che Ambrogio aveva appena
utilizzato61. A Betlemme, dove si trasferisce definitivamente nel 386,
Girolamo riceve presto l’Explanatio in Lucam di Ambrogio; per tutta risposta
traduce le Omelie di Origene, cui si ispirava Ambrogio. Parecchi punti mi
sembrano degni di essere presi in esame. Innanzitutto la data, che non è nota
con certezza. Si può supporre che ci troviamo non prima della fine del 388,
visto che, nei due anni precedenti, i rapporti con l’Italia settentrionale erano
già stati interrotti. Nel giugno (?) 387 Valentiniano lascia Aquileia per
Tessalonica. Poco dopo Massimo occupa non soltanto l’Italia settentrionale,
ma anche buona parte dell’Illirico occidentale. Il mare è chiuso e i rapporti
vengono ridotti notevolmente, fino alla sconfitta di Massimo62. Alla
58 Sarebbe interessante sapere dove e come Girolamo sia entrato in contatto con Presidio
di Piacenza e dove si trovasse Girolamo quando ha preso i faseli che l’hanno riportato a
Roma (Ep. ad Praesidium, ll. 161-162). 59 GIROLAMO, Prefazione alla traduzione delle Omelie su Luca di Origene. 60 GIROLAMO, Ep. 22, 22. 61 GIROLAMO, Prefazione alla traduzione di DIDIMO, De Spiritu Sancto (PL 23, c. 102 A). 62 Sui rapporti tra Italia e Africa abbiamo la testimonianza di Agostino. Poiché l’attacco
proveniva da Oriente, è poco probabile che sia stato più facile navigare da questo lato.
Per quanto riguarda la via di terra, è occupata dagli eserciti che si affronteranno
nell’estate del 388. Tuttavia sappiamo che Teofilo di Alessandria aveva mandato i propri
complimenti al vincitore.
94
ripresa dei rapporti Girolamo viene a sapere dell’elezione di Cromazio sulla
cattedra di Aquileia. Nessun indizio indica che abbia accolto favorevolmente
tale elezione. Anzi, la Prefazione alla traduzione delle Omelie su Luca fa
allusione, senza citare l’autore, ai Commenti a Matteo di Fortunaziano di
Aquileia. Il tono non è più lo stesso di quando Girolamo chiedeva a Paolo di
Concordia di inviargli la «perla del Vangelo»63. Tra le due affermazioni sono
passati dai dodici ai quindici anni, durante i quali Girolamo ha avuto modo di
scoprire le «ricchezze d’Oriente». Alla fine della Prefazione rivela l’intenzione
di farle conoscere all’Occidente, traducendo il maggior numero possibile di
omelie di Origene, in particolare quelle della maturità. Tuttavia non farà nulla,
e sarà Rufino a mettersi al lavoro, richiamandosi proprio a questa promessa
non mantenuta64. Una di queste traduzioni di un Origene ormai vecchio sarà
effettuata proprio ad Aquileia e sarà dedicata a Cromazio.
I rapporti durante l’usurpazione di Eugenio
Il decennio 390-400 è molto ben documentato, nonostante sia un
periodo molto agitato sul piano politico: nel 392-394 abbiamo
l’usurpazione di Eugenio; tra il 395 e il 402 le incursioni barbariche
attraverso l’Illirico, che porteranno, passo dopo passo, al primo assedio di
Aquileia. Occorre tener conto di tali tumulti per spiegare certi silenzi,
certe difficoltà di trasmissione. Parimenti si notano certi spostamenti
d’itinerario, che forse non sono fortuiti: Girolamo è in contatto sia con
Roma, sia con Aquileia, e varie persone che vediamo giungere nell’Italia
settentrionale dalla Palestina passano prima per Roma. Forse alcune sono
sbarcate a Brindisi.
N e l 3 9 3 G i r o l a m o d e d i c a a C r o m a z i o
63 GIROLAMO, Ep. 10, 3. 64 RUFINO, Apol. contra Rufinum, II, 26; Praefatio in librum I Origenis Peri Archôn, 1.
95
il Commento ad Abacuc65; nel frattempo si piega alla volontà del prete
Nepoziano di Altino, per riguardo verso suo zio Eliodoro. Stando all’inizio
della lettera, Girolamo aveva ricevuto già varie volte tale richiesta negli anni
precedenti66. Ricorderà l’episodio qualche anno dopo, aggiungendo che
Eliodoro ha interceduto per il nipote67. A quanto pare non era la prima opera di
Girolamo che arrivava nell’Italia settentrionale: secondo quanto affermato,
Nepoziano talvolta leggeva le opere di Girolamo68.
La prima fase della controversia intorno a Origene
Tuttavia si dà il caso che in quello stesso anno, il 393, in cui constatiamo la
continuità, se non addirittura la ripresa dei rapporti di Girolamo con Aquileia,
ha inizio, a Gerusalemme e a Betlemme, la controversia che separerà per
sempre i due amici. Girolamo sperava di inviare a Cromazio altri Commenti ai
profeti minori69. In realtà si deve fermare, preso com’è da altri lavori meno
decorosi, che passa sotto silenzio, sebbene non riesca a evitare che la notizia
delle dispute giunga fino a Roma e ad Aquileia. Non è Rufino a spargere la
voce, bensì alcuni viaggiatori, come Vigilanzio, di cui Girolamo dirà che,
ritornato dalla Palestina e dall’Egitto, ha «tra i flutti dell’Adriatico e le Alpi
del re Cozio, fatto proclami» contro di lui70. Vigilanzio, che porta una risposta
a Paolino di Nola, è probabilmente sbarcato in Italia a Brindisi, invece che ad
Aquileia. Tuttavia non è del tutto escluso un passaggio per Aquileia,
v i s t o c h e , l ’ a n n o s u c c e s s i v o , r i t r o v i a m o t r a c c e d e l
65 GIROLAMO, In Habacuc, Prologus (CC 76 A, p. 579). Il commento è citato nel De
uiris. 66 GIROLAMO, Ep. 52, 1. 67 GIROLAMO, Ep. 60, 11. 68 GIROLAMO, Ep. 60, 10. 69 GIROLAMO, In Habacuc, Prologus (CC 76 A, p. 579, ll. 21-22). 70 GIROLAMO, Ep. 109, 2 f.
96
malcontento di Cromazio dinanzi al comportamento di Girolamo nei confronti
di Giovanni di Gerusalemme, suo vescovo, e di Rufino, suo compatriota.
Cromazio non sembra essersi rivolto a Girolamo direttamente, bensì, stando
all’interessantissima interpretazione di un testo scomodo offerta recentemente
da P. Nautin71, tramite Pammachio, amico romano di Girolamo. È lui che ha
chiesto a Girolamo di dedicare a Cromazio il suo In Ionam, nella speranza di
dimostrargli la sua buona volontà. Tuttavia Girolamo riceve notizie dall’Italia
settentrionale: apprende che Cromazio ha perso il fratello Eusebio72 e che ha
scritto in questa seconda metà del 396 l’Elogio funebre di Nepoziano73.
Il 397 è l’anno del ritorno di Rufino in Italia, o quanto meno a Roma. A
Cromazio, che lo ha invitato al lavoro, Girolamo offre la traduzione
dall’ebraico del libro dei Paralipomeni74. In questi anni le occasioni per
viaggiare sembrano più frequenti; se non altro conosciamo, in parte, i nomi di
chi lascia la Palestina per Roma e per l’Italia settentrionale. Rufino era stato
preceduto dal prete Vincenzo75; l’anno successivo partono Eusebio di
Cremona – nuovamente un italiano del nord – e Paoliniano, fratello di
Girolamo, che si reca a Stridone per soggiornare poi brevemente ad Aquileia,
nelle condizioni che vedremo fra poco. È lui ad aver portato la traduzione dei
Libri di Salomone, che Girolamo ha dedicato congiuntamente a Cromazio e a
Eliodoro. Secondo la Prefazione, entrambi i vescovi hanno risposto al
doppio invio dell’anno precedente, e hanno consigliato a Girolamo di
continuare i Commenti ai profeti minori. R i t o r n e r e m o i n s e g u i t o
71 P. NAUTIN, Études de chronologie hiéronymienne, REAug 20 (1974), pp. 270-272. 72 GIROLAMO, Ep. 60, 19 ad f. 73 Sulla data dell’Ep. 60, cfr. Ep. 77, 1. La lettera è di poco precedente all’In Ionam,
dove viene citata. 74 GIROLAMO, Praef. in librum Paralipomenon (PL 28, c. 1323). 75 Cfr. P. NAUTIN, art. laud., pp. 275-276.
97
sulla Prefazione, molto interessante per altri motivi, ma avremo altresì modo
di notare che i Commenti ai profeti minori che Girolamo scriverà circa dieci
anni dopo non saranno dedicati né a Cromazio né a Eliodoro.
C’è da dire che, nel frattempo, la riconciliazione tra Girolamo e Rufino è
stata a dir poco minata da spropositi e da spiacevoli indelicatezze. Ricordiamo
i punti principali: l’anno successivo al suo rientro a Roma Rufino traduce,
emendandolo e smorzandone i toni, il Peri Archôn di Origene, collocando
però l’impresa sotto il patrocinio di Girolamo. Fino ad allora erano state
tradotte soltanto opere pastorali di Origene, non opere di ricerca dottrinale,
ormai superate, se non addirittura erronee su più di qualche punto. È facile
immaginare la reazione di Girolamo. Sarebbe stata più comprensiva se
Eusebio di Cremona, amico di Girolamo, non avesse sottratto, appena giunto a
Betlemme, il lavoro di Rufino, prim’ancora che ricevesse l’ultima mano.
Siamo in un periodo di sospetto, in cui fioccheranno accuse e apologie.
L’unica nota positiva – per così dire – che si può trovare in tali processi, alle
intenzioni e non, è l’attaccamento che i due antagonisti dimostrano alla
purezza della propria fede, benché non la intendano esattamente allo stesso
modo.
Il ritorno di Rufino ad Aquileia
Questa spiacevole controversia ha per noi tutt’altro interesse, visto che ha
dato luogo a molteplici scambi tra Aquileia e la Palestina, in un periodo in cui
la minaccia barbarica si avvicinava all’Italia settentrionale76. Nell’estate del
398 Girolamo era già stato informato riguardo alla traduzione del Peri Archôn
di Rufino. La primavera successiva vede l’arrivo, dalla Palestina, del prete
Rufino il Siriano, colui che diffonderà a Roma il pelagianesimo, che Girolamo
76 Cfr. Aquilée sur la route des Invasions, pp. 275-279.
98
in seguito combatterà aspramente e che troverà seguaci nella regione di
Aquileia. Rufino (il Siriano) porta da Betlemme una lettera di Girolamo a
Rufino (di Aquileia). È la risposta di Girolamo a una lettera di Rufino, in cui
questi si era lamentato degli intrighi degli amici di Girolamo e gli aveva
annunciato la sua partenza per Aquileia77. Si avverte, nelle affermazioni di
Girolamo, il desiderio di contenersi. Questo formalismo, nel rispetto
dell’amicizia restaurata a fatica, ha un che di freddo. Tuttavia una sua
affermazione è troppo reale e riceverà un’eclatante conferma: Girolamo si
lamenta di esser soverchiato, sopraffatto dagli amici78. In ogni caso la lettera
di Girolamo, portata in Italia da Rufino il Siriano, incaricato di inoltrarla a
Rufino (di Aquileia) a Milano, sarà intercettata a Roma da Pammachio e da
Marcella, e non sarà quindi consegnata al destinatario.
I due pii laici, infatti, avevano giudicato troppo conciliante la lettera di
Girolamo, in un periodo in cui erano intenti a cercare di ottenere da papa
Siricio la condanna di Rufino, nonché quella di Origene. Rufino il Siriano
aveva portato anche una traduzione meno edulcorata del Peri Archôn, oltre a
varie lettere e prefazioni in cui Girolamo attaccava i traduttori e i sostenitori di
Origene, accusandoli, con parole appena velate, di condividere gli errori più
plateali del loro eroe. Sono gli unici scritti che arrivarono a Rufino. In
precedenza avevano impressionato il nuovo papa, Anastasio. Dopo aver
ricevuto una lettera di Teofilo di Alessandria, che era appena passato
clamorosamente dall’altra parte, il vescovo di Roma scrisse a Simpliciano di
Milano. Simpliciano aveva l’incarico di far condannare Origene da tutti i
vescovi dell’Italia settentrionale79. Ha scritto a Cromazio e, informato da
Eusebio di Cremona, ha menzionato Rufino. Resta il fatto che Rufino si recò
77 Cfr. GIROLAMO, Ep. 81, 1. 78 GIROLAMO, Ep. 81, 2. 79 GIROLAMO, Ep. 95, 2; ANASTASIO, Ep. 9, Dat mihi plurimum à Venerio di Milano (Ed.
J. Van den Gheyn, RHLR 4 (1899), pp. 7-8 = PLS 1, cc. 791-792).
99
a Milano per rispondere di un’accusa da parte di Eusebio di Cremona. La
questione non andò come previsto, ma Rufino trovò utile difendersi anche
presso Anastasio. Di questa breve Apologia ricorderò la conclusione. Rufino
dichiara: «Tranne la fede che ho esposto poc’anzi, che è quella della Chiesa di
Roma, di Alessandria, di Aquileia e che è altresì proclamata a Gerusalemme,
non ne ho mai avute, né ho – nel nome del Signore – né avrò mai altre»80.
Ritroveremo tra poco quest’attenzione per i diversi simboli di fede in un altro
scritto di Rufino.
L’Apologia contro Girolamo
Mentre inviava quest’Apologia ad Anastasio, Rufino componeva una
risposta ai documenti che avevano accompagnato fino a Roma la nuova
traduzione di Girolamo, offrendo ai romani la propria versione sugli eventi di
Milano e sugli intrighi degli amici troppo zelanti di Girolamo. L’opera
attaccava altrettanto apertamente Girolamo81, mediante una requisitoria molto
istruttiva. Tuttavia Girolamo non conobbe inizialmente questi scritti attraverso
gli amici, bensì grazie al fratello Paoliniano, di ritorno da Aquileia, che era
riuscito a ottenere informazioni prima della pubblicazione dell’opera.
Girolamo si mette seduta stante al lavoro. Comincia a commentare, confutare,
sospettare, denunciare l’Apologia ad Anastasio e quanto conosce dei due libri
dell’Apologia a lui rivolta. L’opera si presenta come una lettera indirizzata a
Pammachio e a Marcella, ma Girolamo ha cura di farla arrivare personalmente ad
80 RUFINO, Apol. ad Anastasium, 8 (CC 20, p. 28). Tale Apologia precede probabilmente
il processo di Milano. 81 RUFINO, Apol. contra Hieronymum, I, 22 (CC 20, p. 56).
100
Aquileia da Rufino, tramite un commerciante che toccò terra solo per due
giorni: giusto il tempo di scaricare e ricaricare la nave82.
Questa fretta trova forse giustificazione nell’insicurezza data dalla
situazione? Ci troviamo nell’estate del 402, e Aquileia ha appena subito un
lungo assedio. I viaggi erano disorganizzati, le vie terrestri attraverso l’Illirico
impraticabili. Il commerciante ripartirà con due lettere, che volevano essere
personali. Una proveniva, ovviamente, da Rufino; l’altra era invece
un’esortazione di Cromazio rivolta a Girolamo, in cui gli veniva
probabilmente chiesto di dedicare il proprio tempo a un lavoro più utile83.
Purtroppo Girolamo non ottempererà subito. Rispose, infatti, a Rufino con una
letteraccia, portata ad Aquileia non si sa da chi. Ormai era meglio tacere, come
seppe fare Rufino, in larga parte84.
Non è la fine dei rapporti di Girolamo con Aquileia, ma bisognerà aspettare
almeno due anni per ritrovare una traccia sicura. Nel frattempo Girolamo
aveva avuto modo di lasciarsi coinvolgere in un’altra brutta controversia, la
cui eco si è fatta sentire ad Aquileia per diversi anni. Mi riferisco all’aiuto che
prestò a Teofilo di Alessandria nella lotta contro Giovanni Crisostomo.
Quest’ultimo ricevette, a partire dal 405, l’appoggio di Cromazio85 ed ebbe la
consolazione di vedersi venire incontro Gaudenzio di Brescia, che aveva
conosciuto durante un precedente viaggio86. Vedremo che questi contatti si
sono rivelati preziosi, giacché equilibrano l’influenza orientale, che
82 GIROLAMO, Apol. contra Rufinum, 3, 10 (PL 23, c. 464 D). 83 Ibidem. 84 È possibile trovare numerose allusioni a Girolamo e alla controversia nelle varie
prefazioni di Rufino. 85 GIOVANNI CRISOSTOMO, Ep. 155; PALLADIO, Dialogus de uita S. Iohannis, 3 f. e 4
inizio. 86GIOVANNI CRISOSTOMO, Ep. 184; PALLADIO, Dialogus, 4.
101
potremmo esser tentati di veder trasparire soltanto attraverso le opere di
Girolamo e di Rufino.
Aquileia, l’Aquitania e la Palestina
Una nuova, insistente richiesta da parte di Cromazio e di Eliodoro riallaccerà
forse i rapporti nel 405 o nel 406? Direi piuttosto che le traduzioni dei libri di
Tobia e di Giuditta, dedicati ai vescovi e riconducibili, di norma, agli anni
successivi alla morte di Paola, in realtà precedono di molto sia tale morte, sia
gli ultimi episodi della controversia con Rufino87. Ciò non significa che i
rapporti con Aquileia si siano interrotti o che in quegli anni, caratterizzati dal
delinearsi di nuove minacce sul piano politico, Aquileia sia isolata o
inaccessibile dall’Oriente88. Un indizio molto eloquente consente di vedere
come Girolamo si metta – maldestramente – al riparo dai rimproveri che
potevano giungergli da Aquileia e da Cromazio. Ho già avuto occasione di
ricordare più volte il modo con cui Cromazio ed Eliodoro, nel 392-393 prima e
nel 397 poi, avevano incitato Girolamo a continuare i Commenti ai profeti
minori. L’intenzione da parte sua allora c’era, ma si rimetterà al lavoro appena
nel 406. In ogni caso dedicherà l’opera a due aquitani, e non a Cromazio, né a
Eliodoro. Non che abbia dimenticato la promessa, né che pensi che i due
vecchi amici potessero non sapere nulla di tale infedeltà. Cerca anzi di
scusarsi, dichiarando apertamente, all’inizio dell’In Zachariam, che coloro ai
quali erano stati promessi i Commenti possono considerarsi dedicatari alla
stregua di coloro cui gli scritti sono ufficialmente dedicati, poiché tra amici
tutto è in comune89.
87 Sulla data consueta cfr. F. CAVALLERA, Saint-Jérôme, pp. 290-291; A. PENNA, S.
Gerolamo, Roma 1949, p. 438 e § 381. 88 Sulla chiusura dei porti nel 408 cfr. Aquilée sur la route des Invasions, p. 284. 89 GIROLAMO, In Zachariam, Praefatio (CC 76 A, p. 748, ll. 43 sgg.).
102
Avrò modo di ritornare in seguito sulla questione, affrontandola da un altro
punto di vista. Tuttavia s’impongono tre osservazioni, riguardo a questa scusa
sfrontata. Girolamo si sente ancora obbligato nei confronti di Cromazio. La
rottura, quindi, non è totale; si può supporre che i rapporti siano continuati,
sebbene manchino tracce evidenti. D’altronde basterebbe considerare
l’attenzione perversa con cui Girolamo seguirà le attività di Rufino fino alla
morte, e anche oltre. In secondo luogo, sarebbe rischioso focalizzare la propria
attenzione sulla controversia con Rufino, nella convinzione che occupi tutta
l’attività di Girolamo e tutti i suoi rapporti con l’Arco Adriatico. Infine la terza
considerazione: mentre vediamo che gli interessi – in senso strettamente
materiale, almeno da un lato – di Girolamo si spostano verso la Gallia, vale la
pena osservare che l’aquitano Sisinio, che porta i Commenti del 406, non è al
suo primo viaggio a Betlemme. Nel 402 ha consegnato a Girolamo una lettera
di Agostino, di cui aveva avuto notizia «quasi cinque anni prima» in un’isola
dell’Adriatico90. Le isole non mancano nell’Adriatico, e non bisogna per forza
pensare a quelle più vicine ad Aquileia. Tuttavia, se Sisinio ha trovato la
lettera durante un suo viaggio verso l’Egitto o verso la Palestina, ciò è potuto
accadere unicamente partendo da Aquileia, invece che da Brindisi; il che
suggerirebbe che i Galli prendono la via di terra fino ad Aquileia, dove
s’imbarcano per evitare di traversare l’Illirico, troppo poco sicuro. Così
facendo, riescono a portare a Betlemme notizie sull’Italia settentrionale e su
Aquileia.
90 GIROLAMO, Ep. 105, 1.
103
La costa dalmata
Vi sono altre testimonianze che allargano il cerchio dei rapporti di Girolamo
nella regione e che informano sulle reali condizioni dei viaggi in Palestina. Mi
riferisco alla corrispondenza di Girolamo con Amabile, Vitale e Castriziano. I
documenti in nostro possesso risalgono agli anni 397-398. Il cieco Castriziano
è, per usare i termini di Girolamo, un «Pannonico, cioè un abitante
dell’entroterra» – homo Pannonius, id est terrenum animal – che, nel desiderio
di visitare la Terra Santa, ha raggiunto la costa dell’Adriatico per imbarcarsi91,
il che costituirebbe un’ulteriore prova dell’insicurezza delle vie di terra verso
Costantinopoli. Tuttavia la prima parte del viaggio ha stancato a tal punto il
nostro cieco, che questi si è fermato al porto di Cissa, con la speranza di
accompagnare il diacono Eraclio in un nuovo viaggio, l’anno successivo. O
almeno questo è l’augurio formulato da Girolamo. L’anno successivo Eraclio
vi farà ritorno; ma non sappiamo se accompagnato da Castriziano92. Vitale,
prete di una città a noi sconosciuta, aveva consegnato una lettera a Eraclio;
Girolamo gli risponde, informandolo che il capitano della nave, Zenone, non
gli ha consegnato mai niente da parte sua, mentre gli ha portato una nuova
lettera di Amabile. Nulla suggerisce che Eraclio abbia viaggiato sulla nave di
Zenone, anzi. Lo stesso anno, dalla stessa regione, vale a dire dalla costa dalmata,
arrivano diversi viaggiatori, che testimoniano la molteplicità di rapporti tra il golfo
dell’Adriatico e la Palestina. Un’altra attestazione arriva dall’unica lettera a noi
pervenuta della corrispondenza di Girolamo con un tale Giuliano, che viveva
anch’egli, probabilmente, non lontano dalla costa dalmata93. In data imprecisata,
91 GIROLAMO, Ep. 68, 2. 92 GIROLAMO, Ep. 72, 1. 93 GIROLAMO, Ep. 118, 3 e 5.
104
ma sicuramente successiva al 395, Girolamo riallaccia i rapporti con il grande
proprietario, che si è appena visto devastare i propri possedimenti dalle
invasioni barbariche94.
L’ultimo decennio
Potrei fermarmi qui. Non che non sia possibile risalire ulteriormente nella
vita di Girolamo e trovare testimonianze più tarde dei suoi rapporti con la
regione. Nel 415 vediamo che Fermo si reca a Ravenna per conto di
Eustochio95; a partire dal 407 segue abbastanza da vicino quel che accade nella
nuova capitale da poter esprimere affermazioni ritenute disfattiste96. La
scoperta di lettere inedite andrà probabilmente a colmare le lacune della nostra
documentazione, ma non vi è dubbio che questa, nonostante la sua importanza,
resti ben al di qua della realtà vissuta da Girolamo. Tra le fonti scritte quali
danno maggiori informazioni sugli ultimi decenni dell’Illirico occidentale o
sul primo assedio di Aquileia, rispetto alle poche, semplici allusioni di
Girolamo? Sono molte, ma allo stesso tempo pochissime. L’itinerario
dell’invasione della Gallia nel 407 è conosciuto per filo e per segno da
Girolamo97. Come si può pensare che non abbia cercato di informarsi nei
minimi particolari riguardo a quel che succedeva nella propria regione, e che
non abbia provato l’ansia che lo attanaglia durante l’assedio e la presa di
Roma98? Quanti abitanti dell’Italia settentrionale c’erano tra i numerosi rifugiati
94 GIROLAMO, Ep. 118, 1: «longum silentium rumpo». L’Apologia contra Rufinum, 3, 7
(PL 23, c. 463 C-D) rievoca i rapporti con la Dalmazia in quegli anni (400-403). 95 GIROLAMO, Ep. 134, 20. 96 É. DEMOUGEOT, Saint Jérôme, les Oracles sibyllins et Stilicon, in REAnc. 54, 1952,
pp. 83-92. 97 GIROLAMO, Ep. 123, 15. 98 Egli «segue» gli spostamenti e i lavori di Rufino. La traduzione della Regola di
Pacomio è facilmente interpretabile, a mio avviso, come una replica alla traduzione di
Rufino delle Regole di Basilio.
105
di cui Girolamo segnala la presenza a Betlemme99? Benché continui a spiare
gli spostamenti di Rufino, Girolamo non fa neanche un cenno alla morte di
Cromazio. È inconcepibile che non lo sapesse, così come è poco probabile che
tale morte abbia interrotto i rapporti di Aquileia con la Palestina e con l’Egitto,
anche solo negli ambienti ecclesiastici.
S’impone a questo punto una seconda riserva o avvertenza. Quanto precede
si basa, in larga misura, sull’opera di Girolamo e, in misura minore, su quella
di Rufino. I rapporti personali tra i due fratelli-nemici, entrambi figli di
Aquileia, ci hanno occupato a lungo; ma sarebbe rischioso ridurre i rapporti tra
Aquileia e la Palestina a uno scambio di pamphlets, o ai diverbi tra le due
«personalità». Basta ritornare al punto di partenza per notare che i rapporti tra
le due regioni non risalgono alla partenza di Girolamo e di Rufino per
l’Oriente, e che sono andati avanti a prescindere da loro e senza di loro.
Tuttavia, siccome «i popoli felici non hanno storia», dobbiamo fare appello a
chi ha scritto e alle opere giunte fino a noi. Con una documentazione più vasta
sarebbe possibile tracciare l’evoluzione dei rapporti e dei relativi itinerari.
Ho cercato di raccogliere le indicazioni contenute nei testi. La via di terra ha
probabilmente risentito delle condizioni politiche che regnavano nell’Illirico.
A questo livello si è operata la divisione dell’Impero, complice anche, in
un certo qual modo, molto prima di Attila, il decadimento di Aquileia, dato
che via mare, mancando l’entroterra, i trasporti non erano frequenti, nemmeno
per le persone. Né i codices né le reliquie pesavano troppo per queste
navi, che non dovevano nemmeno trasportare sarcofagi. Aquileia non aveva
più, per lungo tempo, altri raccolti da esportare. Per quanto riguarda
l a v i t a i n t e l l e t t u a l e , n o n o s t a n t e l a p r e s e n z a d i
99 GIROLAMO, In Ezechiel III, Prologus (PL 25, c. 75 D-E); VII, Prologus (c. 199 A-C).
106
Pelagiani in contatto con la Siria e addirittura con la Palestina, è difficile
seguire gli sviluppi successivi alla morte di Cromazio e di Rufino.
II - «MERCES ORIENTALES»: LE OPERE LETTERARIE
Le donazioni come pagamento
Tra Aquileia e la Palestina gli scambi vanno considerati in entrambi i sensi.
Le persone che lasciano Aquileia non partono a mani vuote. Anzi, la maggior
parte dei lavori di Girolamo dedicati a Cromazio e a Eliodoro non rappresenta
altro che il «pagamento» delle offerte e delle donazioni convogliate in
Palestina. Girolamo lo afferma esplicitamente nel 398, nella Prefazione alla
traduzione dei Libri di Salomone che offre ai suoi due compatrioti:
Che la mia lettera possa unire coloro che sono uniti dalla dignità episcopale, o
meglio, che la carta non separi chi è unito dall’amore di Cristo! Mi chiedete dei
Commenti a Osea, Amos, Zaccaria e Malachia. Li avrei scritti se la salute me lo
avesse permesso. Inviate denaro per confortarci, sostentate i nostri stenografi e
copisti affinché la nostra mente lavori innanzitutto per voi. Ma ecco che una
moltitudine di persone non cessa di rivolgermi richieste varie, come se fosse giusto
che mentre siete affamati io lavorassi per altri o come se, nei miei conti dei crediti e
dei debiti, fossi debitore a un altro piuttosto che a voi. Ecco perché, sfiancato da una
lunga malattia, per non passare completamente in silenzio quest’anno e rimanere
muto nei vostri confronti, ho dedicato a vostro nome il lavoro di tre giorni, vale a
dire la traduzione dei tre libri di Salomone...100.
I l t e s t o è i n t e r e s s a n t e s o t t o d i v e r s i a s p e t t i . V e d i a m o
100 GIROLAMO, In libros Salomonis, Praefatio (PL 28, c. 1241 A-B).
107
che Girolamo sostituisce una «merce» con un’altra, prendendo come scusa la
malattia. Non vuole passare un anno senza scrivere al paese: «ne penitus hoc
anno reticerem». Invia quindi un lavoro che gli ha richiesto molto meno
tempo. D’altro canto va notato che gli inviati di Cromazio e di Eliodoro sono
venuti con richieste molto precise: i Commenti a quattro profeti minori.
Eccetto uno, sono gli unici profeti minori che restano ancora da commentare a
quel tempo101, e due dei precedenti sono già stati dedicati a Cromazio nel 393
e nel 396. Si può pensare che nel 392, o forse anche nel 393, Cromazio avesse
commissionato l’In Habacuc con le stesse modalità102. Tuttavia la Prefazione
di cui sopra non dice, probabilmente, tutta la verità quando lascia intendere
che le spedizioni di denaro fossero destinate a pagare i notarii e i librarii di
Betlemme. Parte di questi fondi deve, più in generale, provvedere al
mantenimento dei monasteri di Betlemme. Prova ne è il modo in cui Girolamo
inveisce, nel 406, contro Vigilanzio, che andava dicendo, in Occidente, che
tali donazioni erano inutili103; ringrazia invece Esuperio di Tolosa, che gli ha
inviato questo tipo di donazioni, senza richiedere esplicitamente il Commento
a Zaccaria, che Girolamo «doveva» a Cromazio e a Eliodoro104. Ecco
però che lo dedica al vescovo di Tolosa, mentre invia ai monaci
Minervio e Alessandro, due aquitani, l’In Malachiam105, che avrebbe
dovuto arrivare innanzitutto in Italia settentrionale106.
Quest’indelicatezza non si spiega soltanto con il raffreddamento dei
101 Neanche Gioele è stato ancora commentato. 102 GIROLAMO, In Habacuc, Prologus (CC 76 A, p. 580, ll. 47 sgg.). 103 GIROLAMO, Contra Vigilantium, 13-14. 104 GIROLAMO, In Zachariam, Prologus (CC 76 A, p. 747, ll. 3-5). 105 GIROLAMO, In Malachiam, Prologus (CC 76 A, p. 902, ll. 35 sgg.). 106 GIROLAMO, In Habacuc, Prologus (CC 76 A, p. 578, l. 22) e In Zachariam, Prologus
(CC 76 A, p. 748, ll. 43 sgg.).
108
rapporti di Girolamo con Cromazio e con Eliodoro. È facile pensare che siano
in gioco anche ragioni pecuniarie. Nel 404-406 ci troviamo, in Italia
settentrionale, all’indomani dell’incursione di Alarico, e probabilmente c’è
molto da lavorare per far risorgere la zona dalle rovine107, per aiutare chi si è
visto spogliato dei propri beni. Invece l’Aquitania non ha ancora subito simili
devastazioni. È naturale, quindi, che essa lasci approfittare della sua prosperità
i «santi di Gerusalemme».
Le commissioni di opere
C’è forse bisogno di dire che non tutte le «commissioni» corrispondono a
interessi reali di chi le formula? Non mancano le ragioni per pensarlo; ne
illustrerò una, nell’ambito di ciò che ci interessa108. Tuttavia mi sembrerebbe
rischioso voler vedere solo una semplice «formulazione» nelle dediche, che
mettono in luce richieste esplicite, se non addirittura domande precise. Certo,
nessuna di queste domande è stata posta a Girolamo dall’Italia settentrionale,
il che non è privo di significato109. In ogni caso si possono individuare alcune
preoccupazioni nelle commissioni affidate a Girolamo: un certo gusto per
l’hebraica ueritas e, dinanzi all’impresa di Girolamo di fornire una traduzione
dell’Antico Testamento dall’ebraico, una grande larghezza di vedute.
Spinto da Cromazio, Girolamo traduce i Paralipomeni, un libro (o forse due)
di carattere spiccatamente storico e geografico. Secondo l’In
H a b a c u c , C r o m a z i o c h i e d e a G i r o l a m o d i f o r n i r g l i l a b a s e
107 Anche se Aquileia non ha ancora sofferto molto (cfr. Aquilée sur la route des
Invasions, pp. 276 sgg.). Le costruzioni delle chiese e in particolare delle Basiliche degli
Apostoli richiedono somme ingenti. 108 Le traduzioni bibliche di Girolamo non lasciano molte tracce nell’opera di Cromazio. 109 Ambrogio è più vicino. La sua corrispondenza contiene numerose risposte a
«domande» scritturali.
109
storica su cui costruire i palazzi incantati dell’allegoria110. È forse pensando
al debole dei due vescovi per i problemi pastorali che Girolamo dedica loro
la traduzione dei Libri di Salomone. Si è stupito, infatti, che gli venisse
richiesta la traduzione del Libro di Tobia e del Libro di Giuditta, che non
appartengono al canone ebraico e non sono nemmeno scritti in ebraico111. Il
fatto è che, da molto tempo, le figure di Tobia e di Giuditta occupano uno
spazio considerevole all’interno della predicazione morale112. Probabilmente
i due vescovi sono curiosi di conoscere la vera cornice storica dei testi.
Eppure Cromazio non sembra aver fatto uso di questa traduzione per le
proprie opere.
La spedizione di opere occidentali
Cromazio ed Eliodoro hanno più volte reclamato le opere di Girolamo. Non
sembra che gliene abbiano inviate di proprie, anche ammettendo che Eliodoro
abbia scritto qualcosa. Ciò tuttavia non significa che da Aquileia non sia
partito qualche libro per la Palestina. Non mi riferisco ai libri che Girolamo
reclama da Antiochia a Paolo di Concordia, quanto piuttosto alle opere di
Ambrogio, di cui Girolamo segue la produzione. Non mi sbilancerò troppo
nel dire, sebbene le mie uniche prove siano soltanto ipotesi, che Aquileia è
stata, al pari di Roma, il centro nevralgico della diffusione dell’opera di
Ambrogio. Ho già avuto modo di mostrare che Cromazio conosceva bene
l’opera di Ambrogio, e che questa gli era servita più volte da tramite nei confronti
110 GIROLAMO, In Habacuc, Prologus (CC 76 A, p. 580, ll. 47 sgg.). 111 GIROLAMO, In librum Tobiae, Praefatio (PL 29, cc. 23-25). 112 Basti pensare allo spazio che occupano in Cipriano o in Novaziano.
110
del pensiero greco113. In un certo senso Rufino, ritornando ad Aquileia due
anni dopo la morte di Ambrogio, continuerà, seppur in modo diverso, l’opera
del vescovo di Milano, su richiesta di Cromazio.
Importazione di opere orientali
Mentre ci rivolgiamo all’altro senso della via «commerciale», in direzione
Oriente-Aquileia, bisognerebbe far posto all’opera di Ambrogio. Non ho
trovato, finora, nessuna traccia dell’impiego da parte di Ambrogio delle opere
di Girolamo scritte in Palestina. Ma c’è davvero bisogno di soffermarsi sullo
spazio che occupano negli scritti di Ambrogio le opere di Origene, di
Atanasio, di Didimo, senza contare Basilio di Cesarea e Gregorio Nazianzeno?
È sufficiente ricordare questo aspetto. Vorrei invece, pur non potendo offrire
nient’altro che studi e note di lettura, soffermarmi un po’ di più su tre opere,
che consentono di render conto in qualche modo della complessità della
situazione: l’opera di Cromazio, quella di Rufino e quella del Commentatore
anonimo delle Epistole di san Paolo, nel quale l’editore vede un abitante della
regione di Aquileia.
Cromazio e l’opera di Girolamo
Cromazio aveva amici in Palestina, era in contatto con loro, poteva utilizzare
i loro scritti; da questi amici ha ricevuto i lavori che lo mettevano in contatto
con le realtà storiche e geografiche della Bibbia. Che cosa traspare di tutto
questo nella sua opera? Non molto, sembra, nonostante la prima impressione
sia del tutto favorevole. In un sermone di Natale, infatti, ripreso nei suoi punti principali dal
113 Cfr. Les relations doctrinales entre Milan et Aquilée, pp. 193-230 e pp. 233-234.
111
Tractatus che commenta il testo di san Matteo sulla nascita di Cristo a
Betlemme, Cromazio si sofferma a tessere le lodi di Betlemme, con termini
che Girolamo non avrebbe in alcun modo rinnegato. «Se si celebrano – dice –
tante città che hanno prodotto grandi principi, cosa c’è di più sublime del
luogo in cui il principe della terra e il padrone di tutto l’universo si è degnato
di nascere!»114; nel Tractatus 4, poi, vede in una citazione di Abacuc
un’allusione alla «bellezza e alla dolcezza del paesaggio» di Betlemme115, che
testimonia anche una certa attenzione ai dati concreti, attribuibile ai rapporti
con la Palestina di Girolamo e di Rufino. In realtà simili indicazioni sono rare
e si perdono in una geografia simbolica, cui fungono al massimo da
introduzione. La Palestina che scopriamo nei Sermoni e nei Tractatus è
sempre figurativa116. Cromazio lo deve ai propri modelli, che si tratti di
Fortunaziano, di Vittorino di Petovio o di Ambrogio. Lo stesso Girolamo ha
contribuito a portare avanti la tendenza con il Liber interpretationis
hebraicorum nominum, nei primi anni di soggiorno in Palestina. Nonostante la
data, non si ritrova nessuna traccia nell’opera di Cromazio. Le interpretazioni
di Alleluia117 e di Joseph118 fornite da Cromazio non corrispondono
minimamente a quelle fornite da Girolamo. Basandosi sul silenzio mantenuto
da Girolamo nei confronti di Cromazio nel De uiris, si è concordi nel ritenere
che i Tractatus in Matthaeum non siano ancora stati pubblicati nel 393, e
nemmeno nel 398, data in cui Girolamo compone il suo Commento
a M a t t e o , p o r t a t o a R o m a d a E u s e b i o d i C r e m o n a 119.
114 CROMAZIO, S. 32, 1 f. 115 CROMAZIO, Tr. 3, 3, 2 (CC 9 bis, p. 213, ll. 87-88): «Per quae uerba situm loci ipsius
amoenitatemque designat». 116 CROMAZIO, Tr. 15, 1; 16, 2; 16, 4; 44, 3-4 ecc. 117 CROMAZIO, S. 33, 1: «Canta ei qui est» o «Benedic nos Deus simul in unum» -
GIROLAMO, Ep. 26, 3: «Laudate Dominum». 118 CROMAZIO, Tr. 2, 3 (l. 71): «Joseph=sine opprobrio»; GIROLAMO: «Joseph: auctus,
adaugens». 119 J. LEMARIÉ, CC 9 bis, p. VII.
112
Se la trascrizione dei Tractatus in Matthaeum risale ai suoi ultimi anni di vita,
ci si potrebbe aspettare che Cromazio abbia usato le veloci annotazioni di
Girolamo. Dom Lemarié opera qualche collegamento120; se ne possono fare
altri121, ma non va dimenticato che tali confronti si possono spiegare con una
comunanza di fonti, nonché con una dipendenza di Cromazio nei confronti di
Girolamo. L’approccio che ho tentato in altre due direzioni si è rivelato inutile.
Abbiamo visto che Girolamo aveva dedicato a Cromazio varie traduzioni
dall’ebraico. Ma le citazioni di Cromazio dal Libro di Tobia e dal Libro delle
Cronache non sono tratte dalle traduzioni di Girolamo122. Neanche i
Commenti dedicati a Cromazio hanno lasciato qualche traccia nella sua opera.
Costituisce forse un’eccezione il caso dell’In Ionam, dato che non disponiamo
del Tractatus sul «segno di Giona»123, ma il caso è piuttosto chiaro per
Abacuc, il cui Cantico viene usato e commentato due volte. Il testo che cita
Cromazio non è la traduzione dall’ebraico di Girolamo, né la traduzione latina
dei Settanta trascritta da Girolamo nel suo Commento124. L’interpretazione che
fornisce Cromazio del testo di Habacuc 3, 3 può essere confrontata con
un’opinione riportata da Girolamo, che Cromazio non prende in considerazione e che
120 Cfr. la tabella a p. 534, in AAAd. XII, Aquileia e l’Oriente mediterraneo, Udine 1977. 121 Confronta CROMAZIO, Tr. 7, 2 (ll. 31 sgg.) e GIROLAMO, In Matthaeum, 2, 23; Tr. 11,
1 e In Matthaeum, 3, 10; Tr. 11, 4 e In Matthaeum, 3, 11. 122 Tuttavia va notato che la traduzione di Tobia ad opera di Girolamo è tarda. 123 È giunto fino a noi soltanto il Tract. 54 su Mat. 16, 4, che riprende – almeno in parte
– quanto era stato detto su Mat. 12, 39-40. Sul Tractatus 54 cfr. Le Livre de Jonas dans
la littérature chrétienne grecque et latine, Paris 1973, pp. 503-506. Va notato che,
contrariamente ai consigli di Girolamo, Cromazio non pone nessun limite
all’applicazione a Cristo dell’avventura del profeta. 124 Confronta CROMAZIO, Tract., 4, 3 che cita Hab. 3, 3 e GIROLAMO, In Habacuc, 3, 3
(CC 76 A, p. 622, ll. 156-158).
113
figurava già in un altro Commento125. In compenso, per quanto concerne
l’interpretazione di Habacuc 3, 10 l’origine sembra essere più certa.
Ritroviamo infatti in Tertulliano un dossier analogo a quello presente nel
Tractatus 52 di Cromazio126. L’esempio mi pare significativo e invita a
ritornare sulla conclusione che avevo già formulato nel 1972: Cromazio gode
di una formazione occidentale, che non è stata profondamente modificata, a
giudicare dalle sue opere, dai successivi contributi «orientali», che si tratti
dell’opera di Ambrogio, di Girolamo o di Rufino.
Rufino e l’opera di Girolamo
Non intendo mostrare come Rufino, grande importatore di merci orientali,
rimanga anch’egli uno spirito latino. Vorrei invece, in primo luogo, segnalare
rapidamente che Rufino, di ritorno ad Aquileia, possiede gran parte dell’opera
di Girolamo, e forse ne fa uso nei propri scritti. Non mi soffermerò sul primo
punto, benché importante ai nostri scopi, dato che prova che ad Aquileia, nel
399-400, si trova una biblioteca geronimiana, che Rufino non ha
gelosamente riservato per sé, anzi. L’Apologia di Rufino indirizzata a
Girolamo contiene, dai due terzi del primo libro in poi, un catalogo degli
elogi rivolti da Girolamo a Origene nei suoi scritti. Si susseguono così un
125 Girolamo riporta un’opinione che vede nel mons umbrosus il Padre o il Paradiso.
Cromazio celebra in quest’ombra l’amoenitas loci. Una simile opinione può venire da
Vittorino di Petovio, che ha composto un Commento a Matteo e uno ad Abacuc. 126 Confronta CROMAZIO, Tr. 52, 2: Giobbe 9, 8; Sir. 24, 7-8; Ps. 76, 20; Hab. 3, 10;
Exod. 14, riguardo alla camminata sulle acque, e TERTULLIANO, Adu. Marcionem 4, 20, 3
riguardo alla tempesta placata: Ex. 14; Ps. 28, 10 (cfr. Ps. 76, 19-20); Hab. 3, 10. Ma il
testo biblico non è quello di Tertulliano, e neppure quello di Girolamo; si può quindi
pensare a una fonte comune a Tertulliano e a Cromazio, o a un intermediario tra i due
latini.
114
certo numero di traduzioni e di Commenti di Girolamo, senza contare le varie
lettere e pamphlets127. L’elenco e la requisitoria sono impressionanti. Essi
provano, inoltre, che questi libri di Girolamo sono stati letti da Rufino e non
soltanto a fini polemici, come testimoniano parecchie Prefazioni di traduzioni
di opere greche e, tra le altre128, la dedica a Cromazio delle Omelie su Giosuè
di Origene129. Anche l’opera sulle Benedizioni dei patriarchi, scritta dopo che
Rufino ha lasciato definitivamente Aquileia, dimostra che questi ha lavorato avendo sotto
127 RUFINO, Apol. contra Hieronymum, I, 21 sgg. 128 Ho mostrato in L’influence des écrivains africains du IIIe siècle (in Aquileia e
l’Africa, AAAd. V, Udine, 1974, pp. 224-225 e n. 129-130) come Rufino dipendesse da
Girolamo nel giudicare lo stile di Cipriano. 129 RUFINO, Prologus in Omelias Origenis super Iesum Naue (CC 20, p. 271), sulla
differenza delle offerte portate per la costruzione del Tempio. Girolamo si è già servito
di tale esempio nella Prefazione alla sua traduzione del Pentateuco dall’ebraico (PL 28,
c. 147), ma soprattutto nel Prologus galeatus (PL 28, c. 557 A-B). Girolamo ha
rivendicato questa traduzione come propria: «Lege ergo primum Samuel et Malachim
meum. Meum inquam, meum. Quidquid enim crebrius uertendo et emendando sollicitius
et didicimus et tenemus nostrum est. Et cum intellexeris quod antea nesciebas, uel
interpretem me aestimato si gratus est, uel παραφραστην si ingratus» (PL 28, c. 557 B).
Rufino risponde: «Totum ergo hoc (opus) translationis de tuo (Chromatii) iudicio
pendeat. Si quid sane est quod placere potest, hoc sit auctoris. Neque enim quae aliis
labore parata sunt diripere et nostrae laudi applicare iustum putamus. Si uero uim
sensuum oratio inculti sermonis exasperat, hoc uel mihi, uel, ut cum tui uenia dixerim,
tibi ipsi reputato qui opus quod eruditis deberet iniungi expetis ab indoctis» (CC 20, pp.
271-272). Anche la fine riconduce a Girolamo, poiché gli eruditi ai quali pensa Rufino
rimandano, in realtà, a lui. Rufino ha detto altrove di continuare l’opera di traduzione
intrapresa da Girolamo e da lui abbandonata per una «res maioris gloriae» (in Peri
Archôn librum I, Praefatio; CC 20, p. 245, ll. 15 sgg.). Girolamo viene definito eruditus
(Ibidem, l. 3) e Rufino dichiara che il proprio stile non eguaglia quello di Girolamo
(Ibidem, ll. 18-19).
115
gli occhi qualche pagina delle Questioni sulla Genesi di Girolamo, salvo poi
fare l’esatto contrario. Girolamo si sofferma, infatti, sul senso letterale,
sottolineando più volte, per il capitolo 49 della Genesi, le differenze tra
l’ebraico e il greco dei Settanta. Rufino non si esprime sull’ebraico; offre una
traduzione diversa del testo greco e si concentra sull’interpretazione spirituale
e su quella morale, non contemplate nel lavoro di Girolamo. Inoltre Rufino
sottolinea più volte le difficoltà dell’historia. Ora, se anche ciò che attribuisce
alle fabulae iudaicae130 e agli adsertores litterae131 non proviene da
Girolamo132, mi sembra alquanto verosimile, nonostante l’ampiezza e la
varietà della documentazione di Rufino, poter rimandare all’opera di
Girolamo, forse non tanto per i punti in comune133, quanto per i punti in cui
Rufino sottolinea l’insufficienza della storia134, nonché il carattere forzato e
impossibile della spiegazione135. In un caso viene curiosamente influenzato dal testo di
Girolamo136. Ma bisogna riconoscere che ciò vale soprattutto a titolo di indizio. Per il
resto, rispetto a Paolino che conosce anch’egli Girolamo, Rufino è ben lungi dall’avere
130 RUFINO, De benedictionibus Patriarcharum, 1, 8. 131 RUFINO, De benedictionibus Patriarcharum, 2, 21. 132 M. SIMONETTI, Osservazioni sul De benedictionibus Patriarcharum di Rufino di
Aquileia, «Riv. di cultura Classica e Medievale» 4 (1962), pp. 3-44 e Note sugli antichi
commenti alle Benedizioni di Patriarchi, «Ann. della Facoltà di Lettere di Cagliari» 28
(1960), pp. 403-473. Non viene lasciato nessuno spazio a Girolamo, che tuttavia ne
merita uno, seppur piccolo. La documentazione di Rufino è molto vasta e, in parte,
orientale. 133 RUFINO, De benedictionibus Patriarcharum, 2, 6 (e GIROLAMO, Hebraicae
quaestiones in Genesim 29, 32 su Ruben); 2, 7 (e Hebraicae quaestiones 49, 5-49, 7, su
Simeone e Levi). Alla fine di 49, 7 Girolamo cita l’esistenza di un’interpretazione
tipologica, che troviamo sviluppata in Rufino 2, 8. 134 RUFINO, De benedictionibus Patriarcharum, 2, 15. 135 Ibidem, 2, 28. 136 Ibid., 2, 18 su Gad il «pirata», dove pirata, che traduce il piraterium (πειρατηριον dei
LXX), è probabilmente influenzato dal latrunculus di Girolamo.
116
gli occhi fissi solo su Betlemme come fonte di ogni sapienza. L’Oriente è
molto più vasto, benché comprenda la Palestina, come mostreremo in seguito.
Rufino e Cirillo di Gerusalemme
Una terza opera personale di Rufino, l’Expositio Symboli, scritta ad
Aquileia, merita un’attenzione particolare, sia in virtù dell’influenza che ha
avuto durante il Medioevo137, sia in virtù delle fonti, che ci ricondurranno a
Gerusalemme, se non addirittura a Betlemme. In precedenza ho citato la
conclusione dell’Apologia ad Anastasio, in cui Rufino celebrava l’unità di
fede delle chiese di Roma, di Alessandria, di Aquileia e di Gerusalemme.
Nell’Expositio Symboli Rufino confronta varie volte non soltanto il simbolo di
Aquileia con il simbolo di Roma, ma anche i «simboli delle chiese
d’Oriente»138. In realtà, com’è stato dimostrato139, si riferisce al simbolo di
Gerusalemme. Inoltre sono state ampiamente utilizzate le Catechesi di
Cirillo di Gerusalemme. Probabilmente non era la prima volta140, ma i
prestiti in questo caso sono molto più numerosi141. Ritroviamo anche
pres t i t i da Or igene 142, da Atanas io 143, da Gregor io d i Nissa 144 e ,
137 M. VILLAIN, Rufin d’Aquilée commentateur du Symbole des Apôtres, in Sciences
religieuses (=Rech. S.R. 32), 1944, pp. 129-130. F.-X. MURPHY, Op. laud., p. 185.
L’edizione di M. Simonetti non segnala, purtroppo, nessuna dipendenza di Rufino nei
confronti delle fonti. 138 RUFINO, Expositio Symboli, 4 (l. 2); 5 (l. 1); 16 (l. 6). 139 M. VILLAIN, art. laud., pp. 135 sgg. 140 E.J. Yarnold ha risposto positivamente alla controversa domanda: Did St Ambrose
know the Mystagogic Catecheses of St Cyril of Jerusalem? (in Studia Patristica, XII, TU
115, Berlin, 1975, pp. 184-189). 141 Cfr. M. VILLAIN, art. laud., p. 142, n. 1; 144-145; 153. 142 Ibidem, p. 142, n. 3. 143 Ibidem, p. 149, n. 1. 144 Ibidem, p. 144, n. 1.
117
forse, da Girolamo145; cosicché, in mancanza di un’originalità che non ci si
aspetta in una relazione catechetica sulla fede, bisogna richiamare l’attenzione
sulla ricchezza della documentazione greca di cui dispone Rufino ad Aquileia
per comporre l’opera.
Rufino e la Biblioteca di Cesarea
Conosciamo, in parte, l’origine della documentazione. Non c’è dubbio,
infatti, che Rufino, il quale nel 402 tradurrà per Cromazio la Storia
Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, abbia potuto, come fa Girolamo a
Betlemme146, prendere in prestito un certo numero di opere dalla famosa
Biblioteca di Cesarea, per farle copiare al Monte degli Ulivi dai copisti,
occupati peraltro a trascrivere i Dialoghi di Cicerone. Conosciamo piuttosto
bene la storia di questa Biblioteca, che conteneva, tra l’altro, le opere più
importanti di Origene147. Vediamo che Eusebio, dopo Panfilo, continua, senza
paraocchi, ad arricchire la Biblioteca. I successori hanno sicuramente seguito
il suo esempio e non si sono limitati a salvaguardare l’antico patrimonio.
Probabilmente è così che Rufino ha potuto disporre di opere relativamente più
recenti dei Cappadoci. Ma ciò non lascia alcun dubbio riguardo a Origene: è
da Cesarea che ha trasportato i codices che abbiamo visto in suo possesso e di
cui ha tradotto, con successo, una parte.
145 Non tanto l’etimologia di Gesù (§ 6), quanto il modo con cui Rufino ribatte ai pagani
che non vogliono ammettere la nascita verginale di Cristo, dicendo loro che ammettono
leggende molto meno credibili. Confronta GIROLAMO, In Ionam, 2, 2-3. Il procedimento,
in ogni caso, non è inedito. 146 Girolamo (De uiris illustribus, 75) esprime la propria gioia per aver trovato i
Commenti ai profeti minori di Origene, copiati da Panfilo. 147 R. DEVREESSE, Introduction à l’étude des manuscrits grecs, Paris 1954, pp. 122 sgg.
118
Un Commento anonimo a san Paolo
Un simile lavoro di traduzione era notevole per l’epoca, visto che, segno dei
tempi e della rottura psicologica che sta per prodursi definitivamente tra
Oriente e Occidente148, il greco è sempre meno conosciuto negli ambienti di
Aquileia dove vive Rufino, così come a Roma e a Pineto. Ma Rufino non è il
solo, nell’Italia settentrionale, e forse anche ad Aquileia, a saper leggere il
greco. Vorrei spendere qualche parola su un’importante scoperta di questi
ultimi anni: un Commento dell’insieme delle Epistole di san Paolo, che
l’editore attribuisce alla regione di Aquileia, se non addirittura alla cerchia di
Cromazio149. Dal canto mio penso sia meglio astenersi dall’avanzare qualsiasi
nome di autore, e che non sia nemmeno sicuro che ci troviamo ad Aquileia,
benché vediamo che un monaco di Aquileia s’interessa al Commento di
Origene all’Epistola ai Romani e ne richiede la traduzione a Rufino150. Alla
fine della traduzione del Commento all’Epistola ai Romani, Rufino manifesta
il desiderio di riprendere le altre Epistole di san Paolo151. Considerando
quindi la «regione di Aquileia» in senso lato, due serie di fatti meritano
148 Quest’interruzione mi sembra uno dei rimproveri più fondati che si possano muovere
a Stilicone e alla sua politica tra il 395 e il 408. La frattura non sarà mai riparata. 149 H.J. FREDE, Ein neuer Paulustext und Kommentar, I-II, Freiburg 1973-1974. Sulla
regione di Aquileia come origine cfr. I, pp. 248 sgg.; sul nome di Eliodoro, il cui unico
titolo per il Commento di tendenza «antiochena» è il fatto di aver soggiornato ad
Antiochia, cfr. p. 251, n. 3 ad f. Tuttavia la presenza di Girolamo alle lezioni di
Apollinare si colloca durante il secondo soggiorno di Girolamo ad Antiochia (P. JAY,
Jérôme auditeur d’Apollinaire de Laodicée à Antioche, in REAug. 20 (1974), pp. 36-41).
Eliodoro non è più ad Antiochia in quel periodo. 150 RUFINO, Praefatio in explanationem Origenis super epistulam ad Romanos (CC 20, p.
275). Non conosciamo questo Eraclio: è un monaco, che probabilmente apparteneva alla
comunità della città in cui risiede all’epoca Rufino. 151 RUFINO, Epilogus (...) (CC 20, p. 277, ll. 52-53).
119
di essere sottolineate, nell’ambito del nostro studio dei rapporti tra Aquileia e
la Palestina. La prima è stata messa in rilievo da H.J. Frede e riguarda il lungo
elenco d’indizi che mostrerebbero che l’autore del Commento è in contatto
con i testi greci152 e che, per la natura dell’esegesi, dipende in maggior misura
dal metodo «antiocheno» che non dal metodo «alessandrino»153. Questa
fedeltà letterale al testo deriva forse da Girolamo, dato che, come ha notato
H.J. Frede, l’autore accenna due volte all’hebraica ueritas154, formula tipica di
Girolamo, di cui conosce probabilmente il De optimo genere interpretandi e la
Prefazione alla traduzione del Libro dei Paralipomeni155, dedicato proprio a
Cromazio e a Eliodoro156. Vorrei aggiungere altre letture, di cui H.J. Frede
sembra non aver colto l’importanza. Dinanzi a un Commento alle Epistole di
san Paolo, si pensa subito alle opere che Girolamo ha dedicato alle Epistole ai
Galati e agli Efesini, nonché alle Epistole a Tito e a Filemone. Purtroppo si
possono confrontare soltanto le spiegazioni dell’Epistola ai Galati e
dell’Epistola agli Efesini, giacché il nostro Anonimo riserva alle altre due
lettere solo qualche piccola osservazione. D’altro canto, così come lo
conosciamo, il Commento non ha niente di omogeneo; vengono inserite nel
testo di san Paolo note di ogni tipo, che variano da qualche parola a un’intera
pagina, nei punti che sembravano meritare o richiedere un’osservazione o una
spiegazione. Il paragone con i lunghi commenti di Girolamo non è dunque
facile. Tuttavia va sottolineato come la maggior parte delle
«questioni» a f f ronta te dal nost ro Anonimo abb ia co lp i to an che
152 FREDE, I, pp. 210 sgg. 153 FREDE, I, pp. 217 sgg. 154 FREDE, I, p. 216. 155 FREDE, I, p. 216, n. 6. 156 Non segnalato da Frede. Per quanto riguarda l’Ep. 57, strettamente legata all’intera
questione origeniana, è stata portata ad Aquileia come il resto del dossier.
120
Girolamo, sebbene la soluzione non sia poi la stessa157. Le opinioni
dell’Anonimo sono del tutto personali; egli parla di letture diverse dai
Commenti di Girolamo; paragona la propria traduzione latina delle Epistole ai
testi greci158, criticando alcune interpretazioni. Sono indizi, questi, che
mostrano un uomo munito di una vasta biblioteca greco-latina, che forse, per
conoscere certi modi di vivere159, ha anche viaggiato in Oriente. La presenza
di un tale personaggio ad Aquileia o nell’Italia settentrionale non stupisce,
anzi, illustra ancora meglio il ruolo di porta dell’Occidente che ha rivestito la
regione nella diffusione delle opere e delle idee orientali.
III - LA DIFFUSIONE DI RELIQUIE ORIENTALI
NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
Non si tratta delle uniche importazioni di Aquileia in ambito religioso.
Non intendo parlare delle tradizioni monastiche; vorrei affrontare questioni
apparentemente più tangibili, sebbene molto meno facili da comprendere,
non soltanto per la mia incompetenza in materia archeologica. Vorrei fare
un cenno alla circolazione di reliquie orientali – se non addirittura
palestinesi – e alle chiese cruciformi. Questi due argomenti,
c h e s i r i v e l a n o d a s u b i t o s t r e t t a m e n t e c o r r e l a t i ,
157 Per l’Epistola ai Galati, oltre ai rimandi operati da Frede, confronta 05 (II, p. 221) e
GIROLAMO, In Galatas, 1, 16 (PL 26, c. 326 C-D); 06 (p. 221) e GIROLAMO, In Galatas,
2, 1-2 (c. 332 C-D); 09 (p. 223) e GIROLAMO, In Galatas, 3, 4 (c. 350 D-E); 012 (pp.
224-225) e GIROLAMO, In Galatas, 3, 15 (c. 365 A-C); 020 (p. 229) e GIROLAMO, In
Galatas, 4, 14 (c. 381 B 6 sgg); 021 (p. 229) e GIROLAMO, In Galatas, 4, 19 (c. 386 B 4
sgg.). 158 V. g. In Ephes., 5, 30 (19 - II, p. 245). 159 In 1 Cor. 11, 20-22 (53 A - 054 - II, p. 144 - Cfr. I, p. 210): «per rura Aegypti et
Syriae».
121
ci ricondurranno, per strade diverse, a Gerusalemme, e ci faranno incontrare
lungo la via un certo numero di viaggiatori che attestano, alla fine del IV
secolo, la frequenza degli scambi che abbiamo constatato già da prima della
partenza per l’Oriente di Girolamo e di Rufino.
La vera Croce
Ricorderò innanzitutto che i racconti latini più antichi circa l’invenzione
della vera Croce si devono a sant’Ambrogio, con il suo De obitu Theodosii del
395160, a Paolino di Nola, dopo il ritorno di Melania che gli ha portato un
insigne regalo da parte del vescovo di Gerusalemme161, e infine a Rufino di
Aquileia, con la sua Storia della Chiesa, del 402-403162. La scoperta, come
lascia intendere Paolino, ha moltiplicato il numero di quelli che si recavano a
Gerusalemme per venerare, secondo la descrizione di Egeria, una pellegrina, il
legno della Croce163. Le costruzioni costantiniane e il lusso che le
contraddistingue hanno sicuramente contribuito a conferire alle rievocazioni
della Croce un aspetto meno simbolico e più trionfale: la Croce diventa un
oggetto concreto, che possiede, inoltre, la uirtus trasmessa dal contatto con
Cristo164.
Le chiese cruciformi
Queste costruzioni ne hanno fatto nascere altre, direttamente o indirettamente.
Possiamo ricordare un altro testo molto importante di sant’Ambrogio:
l’iscrizione conservata dalla Silloge di Lorsch riguardante la Basilica degli
Apostoli di Milano. Ambrogio dichiara di aver dato alla costruzione la
160 AMBROGIO, De obitu Theodosii, 41-47. 161 PAOLINO di Nola Ep. 31, 4 sgg. 162 RUFINO, Hist. Eccles., XI (I), 7-8. 163 EGERIA, Diario di viaggio, 37. 164 Cfr. AMBROGIO, De obitu Theodosii, 41 (Ed. O. Faller, CSEL 73, p. 393): «auxilium
quo inter proelia quoque tutus adsisteret (Constantinus)...».
122
forma della Croce165. Non sorprende una simile scelta da parte di chi ha
valorizzato così tanto il simbolismo sepolcrale del fonte battesimale a otto
lati166.
Le chiese dedicate agli Apostoli
Un primo problema, almeno per quanto riguarda l’Italia settentrionale,
consiste nel sapere se le Basiliche degli Apostoli, che fioriscono in questo
periodo nella regione, adottino questa pianta cruciforme. Lascio agli
archeologi la briga di rispondere per le singole città e di dire se l’influenza di
Gerusalemme o di Milano sia percettibile a questo livello. Sono altri i
problemi che ci riguardano, non meno importanti: la data di queste basiliche,
l’identità degli «Apostoli» venerati nelle stesse, la provenienza delle reliquie e,
da ultimo, l’identità dei viaggiatori che le hanno portate in queste regioni. Non
ho nessuna soluzione da proporre per questo insieme di domande. Vorrei
invece mettere in luce alcune difficoltà167. È il modo migliore, credo,
165 «Condidit Ambrosius templum Dominoque sacrauit,
Nomine Apostolico, munere, reliquiis.
Forma crucis templum est, templum uictoria Christi
Sacra triumphalis signat imago locum...». 166 Cfr. Les relations doctrinales, pp. 165-166. 167 Riprendo un problema affrontato in Latomus 28, 1969, p. 239. L’argomento è già
stato trattato molte volte, spesso in modo marginale, ma anche più approfondito in E.
VILLA, Il culto agli apostoli nell’Italia settentrionale alla fine del sec. IV, Ambrosius, 33
(1957), pp. 245-264. Il problema è complicato dall’interferenza degli interrogativi posti
(datazione, identità e provenienza delle reliquie) e in parte falsato da premesse errate:
Villa (p. 249) fa risalire l’Ep. 4 di Ambrogio al 380, il che non è possibile; a suo modo di
vedere il sermone di Concordia viene pronunciato da Ambrogio (pp. 259 sgg. – con
esitazione a pp. 263-264). Secondo molti autori Milano è il centro di diffusione di tutte
le reliquie nell’Italia settentrionale, ma si è divisi sul come queste reliquie siano arrivate
a Milano.
123
per avvicinarsi a una soluzione, sempre che ve ne sia solo una.
L’identità degli Apostoli
Innanzitutto quali sono le reliquie che vengono deposte nelle varie basiliche
in occasione della dedicazione? Non abbiamo elenchi certi, tranne che per due
luoghi. A Brescia Gaudenzio, nel suo sermone di dedicazione della Basilica
sanctorum, fa i nomi di Giovanni Battista, Andrea, Tommaso e Luca; cita poi i
martiri milanesi: Gervasio e Protasio, Nazario; quindi i martiri anauniensi:
Sisinio, Martirio e Alessandro; infine coloro su cui si sofferma maggiormente
il predicatore, i quaranta martiri di Sebaste, in Armenia; 50 reliquie in tutto,
come segnala Gaudenzio168. Successivamente, a Concordia, Cromazio parla di
Giovanni Battista, Giovanni l’Evangelista, Andrea, Tommaso e Luca169.
Manca, purtroppo, la fine del sermone. Ci troviamo sicuramente dopo il 388,
ma non possiamo sapere, a causa di questa lacuna, se le reliquie milanesi siano
arrivate fino in Veneto, o quanto meno fino a Concordia.
Per quanto riguarda Aquileia e Milano disponiamo soltanto dei dati del
Martirologio Geronimiano. In data 3 settembre ha luogo ad Aquileia la
dedicazione della basilica di Andrea, di Luca e di Giovanni170. Per Milano
abbiano due date. Il 9 maggio ha luogo l’«ingressus» delle reliquie degli
apostoli Giovanni, Andrea e Tommaso, «nella basilica di Porta Romana»171; il 27
novembre, in una chiesa non ben precisata, è la volta di Luca, Andrea, Giovanni, Severo
168 GAUDENZIO di Brescia, Tract. 17. 169 CROMAZIO, S. 26. 170 Martyrologium Hieronymianum (Acta Sanctorum Novembris, II, 2, Bruxelles, 1931,
p. 485): «III Non. Sept. (...) In Aquileia dedicatio basilicae et ingressio reliquiarum
sanctorum Andreae Apostoli, Lucae, Iohannis et Eufemiae». Riguardo a Eufemia cfr. la
nota di H. Delehaye, p. 486. 171 Ibidem (p. 241): «VII Id. Mai (...) Mediolano de ingressu reliquiarum apostolorum
Johannis, Andreae et Thomae in basilica ad portam Romanam...».
124
ed Eufemia172. La presenza non tanto di quest’ultima, quanto di Severo173 fa
supporre che questa dedicazione sia tardiva, e che possa essere ignorata. In
compenso va citata la Basilica degli Apostoli di Lodi174, sebbene sia
impossibile precisare quali apostoli fossero venerati al suo interno175.
La data delle dedicazioni
La datazione delle varie dedicazioni presenta altrettante difficoltà. Nessun
testo è datato con sicurezza. Il più facile da datare è quello di Gaudenzio,
successivo al 397176, che fa allusione alla minaccia barbarica177. Questo ci
porta non prima del 401-402, ma potrebbe farci andare fino al 407-408.
Riguardo agli altri testi le informazioni si possono ottenere solo facendo
riferimento ad altri fatti o ad altre date, altrettanto discutibili. La «basilica
romana» di Milano è stata consacrata prima del giugno 386, mediante la
deposizione di reliquie178. Anche ammettendo che si tratti delle reliquie di
Giovanni, di Andrea e di Tommaso179, nulla suggerisce che i l 9 maggio
172 Ibidem (p. 623): «V Kal. Dec. (...) In Mediolano Lucae, Andreae, Iohannis, Severi
et Euphemiae». 173 Severo di Ravenna secondo Duchesne, seguito da H. Delehaye, p. 624. 174 Nota grazie all’Ep. 4, 1 di Ambrogio a Felice di Como. 175 Lo stesso vale per le basiliche di Como, di Verona e di Padova. Su quest’ultima cfr.
P.L. ZOVATTO, La Pergula paleocristiana del Sacello di S. Prosdocimo di Padova e il
ritratto del santo titolare in RACrist 34 (1958), pp. 137-167 e in particolare l’iscrizione
(p. 149): «reliquiae sanctorum apostolorum et plurimorum martyrum». 176 Perché Gaudenzio (Tract. 17, 13) possiede le reliquie dei martiri anauniensi (†29 maggio 397). 177 GAUDENZIO di Brescia, Tr. 17, 2. 178 AMBROGIO, Ep. 22, 1. 179 I l che viene, in genere, accettato, ma non mi sembra affat to cer to. Si
p o t r e b b e p e n s a r e c h e s i t r a t t i d i b r a n d e a d i P i e t r o e P a o l o
125
citato dal Martirologio Geronimiano sia il 9 maggio 386180. L’inizio della
lettera di Ambrogio alla sorella Marcellina non fa supporre un evento così
recente181. Per quanto riguarda Concordia la data è successiva alla
consacrazione di Cromazio182. Quanto ad Aquileia non può essere fornita
nessun’indicazione in base ai dati di riferimento. La famosa iscrizione di
Parecorius Apollinaris è troppo mutilata per poter ricavare un indizio sicuro. Il
mio amico S. Tavano ha insistito con successo sulla data del 3 settembre, in cui vede la volontà
(come sostiene Villa: art. cit., p. 262), analoghi a quelli che il ministro Rufino otterrà da
Siricio per il Martyrium dei Rufiniani, dedicato nel 394. Sulla celebrazione di Pietro e
Paolo a Milano, che richiama assembramenti forse analoghi a quelli di Roma, cfr. il Tr.
20 di Gaudenzio di Brescia, pronunciato un 29 giugno a Milano. Milano rivaleggia con
Roma e Costantinopoli? 180 La data del 9 maggio 386, accettata da numerosi studiosi, implicherebbe che a Milano
fossero state dedicate due basiliche con soltanto un mese di intervallo. Sarebbe la
dimostrazione, probabilmente, dell’attività febbrile di Ambrogio nella primavera del
386. Tuttavia mi chiedo se non sia possibile un’altra soluzione. La consacrazione iniziale
potrebbe essere precedente e la data del 9 maggio suggerita dal Martirologio potrebbe
indicare semplicemente la successiva deposizione di nuove reliquie all’interno della
Basilica, che portava già il nome degli Apostoli e che riceverà ancora, mentre Ambrogio
è in vita, le reliquie di Nazario (PAOLINO, Vita Ambrosii, 32), al punto di cambiare, in
seguito, il proprio nome. 181 Spesso si fa riferimento alla data del 380, indicata dai Maurini nell’Ep. 4, 1, che parla
della Basilica Apostolorum di Lodi. Tuttavia nulla giustifica una simile datazione. F.
Lanzoni (Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII, Faenza 1927, p.
977) propone invece la data del primo novembre, indicata da Ambrogio (Ep. 4, 2) come
giorno della consacrazione episcopale di Felice. Tra il 374 e il 396, il primo novembre
cade di domenica soltanto nel 375, nel 380 e nel 386. Siccome Felice non si trova ad
Aquileia nel 381, poiché scrive la lettera Recognouimus contro Gioviniano, la data più
probabile è quella del 386. Ma nulla suggerisce che l’anniversario cui allude Ambrogio
sia il primo dopo l’ordinazione di Felice. Sull’attenzione di Ambrogio per gli anniversari
cfr. il mio Ambroise de son élection à son ordination (citato n. 56), pp. 282-283. 182 Di norma la consacrazione si fa risalire al 388. Cfr. J. LEMARIÉ, Introduction aux
Sermons, SC 154, p. 46.
126
di festeggiare l’anniversario del Concilio di Aquileia del 381183. Ciò è
possibile, ma quanto affermato da Cromazio a Concordia sullo stato dei lavori
ad Aquileia184 ci conduce al 389-390, non prima, e non pochi anni dopo il
Concilio del 3 settembre185.
Le traslazioni
È possibile avvalersi dell’identità delle reliquie per datare le
traslazioni e le deposizioni, nonché per precisare le vie di diffusione?
Quattro nomi meritano di essere citati. Il primo è quello di Luca, che
appare a Brescia, a Concordia e a Milano, le cui reliquie costituiscono
l’oggetto di varie traslazioni in Oriente, sotto Costanzo e sotto Valente.
Lo stesso vale per Andrea, celebrato a Costantinopoli nello stesso periodo186. Ma
due nomi sembrano richiedere date più tarde: Giovanni Battista e Tommaso. Le
reliquie del primo sono state «scoperte» a Sebaste di Palestina nel
183 S. TAVANO, Aquileia Cristiana, Antichità Altoadriatiche, III, Udine 1972, pp. 150-
151. 184 CROMAZIO, S. 26, 1: «... tardius coepistis sed prius consumastis». 185 S. Tavano (Op. laud., p. 152 e p. 153) separa l’ingressio, che sarebbe stato il deposito
temporaneo delle reliquie su un altare provvisorio della Teodoriana meridionale, dalla
dedicatio, che avrebbe avuto luogo una volta terminata la Basilica degli Apostoli. Ma il
Martirologio Geronimiano riporta esplicitamente: «dedicatio et ingressio...». Si tratta di
una ridondanza o vi è forse, da parte dell’autore, la volontà di mostrare che le due
operazioni coincidono, mentre è possibile avere un’ingressio di reliquie in una basilica
già dedicata? È quanto successe a Milano nel giugno del 386, prima della scoperta di
Gervasio e Protasio: «Cum ego basilicam dedicassem, multi tamquam uno ore
interpellare coeperunt dicentes: “Sicut Romanam basilicam dedices”. Respondi: “Faciam
si martyrum reliquias inuenero”». 186 GIROLAMO, Chron., ad a. 357 (Ed. Helm, GCS 47, pp. 240-241): «Constantio Romam
ingresso, ossa Andreae Apostoli et Lucae Evangelistae a Constantinopolitanis miro
fauore suscepta». Chronicon Paschale, ad a. 357 (CSHB, 1, p. 542).
127
362187 e arrivano ad Alessandria prima del 373188, eccetto la testa, che passa
per varie tappe prima di giungere a Costantinopoli sotto Teodosio189. Tengo a
sottolineare che le reliquie alessandrine vengono collocate da Teofilo nella
chiesa costruita dopo il 391 sul Serapeo distrutto190, e che Teodosio si reca
nella chiesa di Giovanni Battista, che ha eretto all’Hebdomon, prima di
dichiarare guerra a Eugenio191. La notorietà di cui godono nell’Italia
settentrionale c’entra forse in qualche modo con questi trasferimenti e
avvenimenti? Sarebbe possibile supporre, nonostante il silenzio di Rufino di
Aquileia192, che in occasione della deposizione al Serapeo sia stata fatta una
ripartizione, di cui avrebbe usufruito l’Occidente193? Oppure bisogna pensare
che le reliquie siano arrivate passando per Costantinopoli? In ogni caso non lo
si può escludere.
Il caso di Tommaso, di cui troviamo reliquie a Milano, a Brescia, a Concordia e
a Pola, è relativamente più semplice, se ammettiamo che il suo «corpo intero»194
è stato venerato, nel 384195, da Egeria, nel Martyrium di Edessa a lui dedicato,
187 RUFINO di Aquileia, Hist. Eccles., XII (II), 28. 188 Cioè prima della morte di Atanasio. 189 Sulla storia di questi trasferimenti cfr. SOZOMENO, Hist. Eccles., 7, 21; TEODORETO,
Hist. Eccles., 3, 7. Il Chronicon Paschale (CSHB, 1, p. 564) colloca l’arrivo delle
reliquie all’Hebdomon nel febbraio del 391, data in cui Teodosio non è ancora ritornato
da Milano, dove soggiorna dalla fine del 388. Vi è quindi un errore di uno o due anni.
Sull’«autenticità» assai dubbia delle reliquie cfr. H. DELEHAYE, Les origines du culte des
martyrs, Bruxelles2 1933, pp. 82-83. 190 RUFINO, Hist. Eccles., XII (II), 27-28. 191 SOZOMENO, Hist. Eccles., 7, 24. 192 Tanto più sorprendente in quanto lo vediamo interessarsi a questi trasferimenti
persino in Oriente. 193 In quel periodo, in seguito al Concilio di Capua del 392, Teofilo è in contatto
epistolare con Ambrogio. Per quanto riguarda le reliquie è tutto ciò che sappiamo. 194 EGERIA, Diario di viaggio, 17, 1: «ad martyrium sancti Thomae Apostoli, ubi corpus
illius integrum positum est...». 195 P. DEVOS, Égérie à Édesse, in Anal. Bollandiana 85, 1967, pp. 386-387.
128
dieci anni prima di esser trasferito, il 22 agosto del 394196, nella chiesa della
città197. Ricordo che è durante questo viaggio verso Edessa che Egeria,
oltrepassando l’Eufrate, lo paragona al Rodano, che ha potuto vedere venendo
dalla Spagna a Costantinopoli e a Gerusalemme198. Egeria fornisce un’altra
indicazione preziosa: secondo lei non esiste cristiano «venuto nei luoghi santi,
a Gerusalemme, che non si rechi a Edessa per pregare» sul corpo di
Tommaso199, che Rufino definisce la gloria di Edessa200. Egeria indica la
distanza da Gerusalemme: 25 giorni di viaggio. Anche Rufino ci è andato201.
Ma nessuno dei due, a quanto pare, ha portato una qualsiasi «reliquia». Non si
parla mai, infatti, della loro diffusione prima degli anni (quali?) in cui le
ritroviamo in vari luoghi dell’Italia settentrionale. Non sarà forse in occasione
del trasferimento del 394 che ha avuto inizio questa dispersione? Senza
cercare una precisione illusoria, possiamo pensare che le «reliquie» di
Tommaso siano state prelevate nel 394, per esser poi o inviate a
Costantinopoli, o riservate a distribuzioni analoghe a quelle che
osserviamo a Gerusalemme – con i frammenti della vera Croce offerti a
Me lan i a e ad a l t r i 202 – , a Bo logna 203 e a T ren to 204, d o v e , n e l l o
196 Cronaca di Edessa, 38 (Ed. L. Hallier, Untersuchungen über die Edessenische
Chronik, Leipzig 1892, TU IX, p. 103: «Il 22 Ab1 dell’anno 705 (=22.8.394) fu portato il
sarcofago dell’Apostolo Tommaso nella sua grande chiesa, al tempo del vescovo Kûrê». 197 P. DEVOS, art. cit., pp. 391-392. 198 EGERIA, Diario, 18, 1. 199 Ibidem, 17, 2. 200 RUFINO, Hist. Eccles., XII (II), 5. 201 Ibidem, XII (II), 8: «... Ipsi per nos apud Edessam et in Carrarum partibus uidimus...». 202 Paolino (Ep. 31, 6) lascia intendere che questi regali sono tutt’altro che rari. 203 Le reliquie di Agricola e dei suoi compagni si trovano a Firenze, a Nola, a Rouen... 204 Le reliquie dei martiri anauniensi si trovano a Brescia e arrivano fino a
Costantinopoli.
129
stesso decennio, assistiamo a distribuzioni simili. Si trovava forse a Edessa, in
quegli anni, qualche occidentale?
Prima di cercare di rispondere alla domanda dobbiamo allargare il campo
d’indagine, dato che gli «apostoli» e i «martiri» non sono legati soltanto
all’Italia settentrionale. Nel gennaio del 403, a Nola, Paolino porta l’amico
Niceta di Remesiana nelle nuove costruzioni che ha intrapreso in onore di
Felice. Paolino elenca le reliquie che possiede: Andrea, Giovanni Battista,
Tommaso, Luca, Agricola, Procolo, Vitale, Eufemia, Nazario205. Riguardo alle
reliquie di quest’ultimo, dichiara esplicitamente che si tratta di un regalo di
Ambrogio206, il che di per sé escluderebbe la provenienza ambrosiana delle
altre reliquie. Un ulteriore indizio cronologico è costituito dalla presenza, a
Nola, delle reliquie dei martiri bolognesi sottratte da Ambrogio al cimitero
ebraico durante l’usurpazione di Eugenio, nel 393-394207. È grosso modo il
periodo in cui Paolino si trasferisce a Nola, ed è probabilmente in questo
momento, non molto lontano dalla scoperta di Nazario208, che Paolino ha
cominciato a collezionare reliquie. Sfortunatamente non dice presso chi abbia
avuto le cinque reliquie orientali.
La risposta potrebbe arrivare da Vittricio di Rouen, se solo le sue affermazioni fossero
più chiare e meglio datate. Il suo De laude sanctorum elenca le reliquie che si trovano a
Rouen: Giovanni Battista, Andrea, Tommaso, Gervasio, Protasio, Agricola,
205 PAOLINO di Nola, C. 27, 406-439. A Fondi, secondo l’Ep. 32, 17, si trovano le
reliquie di Andrea, Luca, Protasio, Gervasio e Nazario. 206 PAOLINO, C. 27, 436-437: «Hic et Nazarius martyr quem munere fido/nobilis
Ambrosii substrata mente recepi». Non ha ricevuto solo dopo la morte di Ambrogio le
reliquie di Gervasio e di Protasio che si trovano a Fondi? Il Liber Pontificalis attribuisce
a Innocenzo (401-417) la dedicazione di una basilica agli stessi santi. 207 PAOLINO di Milano, Vita Ambrosii, 29; AMBROGIO, Exhort. Virginitatis, 7-8. 208 PAOLINO di Milano, Vita Ambrosii, 32.
130
Eufemia209 e Luca210. Forse ve ne sono altre, la cui origine ci porterebbe sulla via
della Tracia, fino a Costantinopoli211. Anche la datazione presenta alcune difficoltà,
benché fornisca indicazioni preziose. Vittricio, nel ringraziare colui che ha portato
le reliquie a Rouen, cita Ambrogio, Teodulo, Eustachio e Cario212. Soltanto i primi
tre nomi sono noti, e ci conducono tutti e tre nell’Italia settentrionale. Troviamo,
infatti, un Theodorus e un Eustasius tra i firmatari della lettera inviata da Milano a
Siricio nel 393213. Purtroppo non vengono indicate le rispettive cattedre. Il fatto che
Ambrogio sia citato per primo lascia supporre che sia il personaggio più
importante; inoltre nulla fa pensare che sia morto. Si tratta quindi del
vescovo di Milano; siamo, al più tardi, nel 397214. N o n p o s s i a m o
209 VITTRICIO di Rouen, De laude sanctorum, 6 (PL 20, c. 448 A-B). 210 Ibidem (c. 448 C-D). La natura dell’enumerazione potrebbe far pensare che questa non sia esaustiva. 211 Ibidem, 11 (c. 453 B-C): l’Apostolo Giovanni di Efeso, Procolo di Bologna, Antonino
di Piacenza, Saturnino e Traiano di Macedonia, Nazario di Milano, Muzio (di Bisanzio),
Alessandro (di Drusipara), Datiso (Dacio di Durostoro), Cindeo (di Axiopolis), Rogata e
Leonida, Anastasia, Anatoclia (?). I luoghi tra parentesi sono quelli proposti da H.
Delehaye (Les origines du culte des martyrs, 2e éd., Bruxelles 1933, pp. 355-356 e
passim). Anche qui il pensiero di Vittricio è lungi dall’esser chiaro.
212 VITTRICIO, De laude sanctorum, 2 (c. 441 B-D). 213 Ep. 42 Recognouimus (PL 16, c. 1129 A-B). Il confronto è stato proposto dal primo
editore di Vittricio. Al posto di Cario, Herval nell’ultima edizione (Paris-Rouen, 1966)
cita Catio, non meglio conosciuto. 214 Ambrogio muore il 4 aprile del 397. Il viaggiatore può aver lasciato Milano prima di
questa data. Il De laude sembra essere ben noto a Paolino a partire dal 398, data dell’Ep.
18 di Paolino a Vittricio (P. FABRE, Essai sur la Chronologie de l’oeuvre de saint Paulin
de Nole, Paris 1948, pp. 68-69, che non fa nessun confronto. Non c’è dubbio che Paolino
sia stato informato oralmente da Pascasio, diacono di Vittricio, ma il testo
dell’Ep. 18, 5, con le allusioni ai monaci e alle monache, p r e s u p p o n e l a
131
risalire molto in là, a causa della presenza di Agricola, il cui trasferimento ha
luogo nel 393-394. Data la situazione politica di quegli anni, i viaggi non
devono esser stati facili prima del 395215. Per quanto concerne l’origine
dell’invio delle reliquie a Rouen, questo non sembra essere dovuto unicamente
ad Ambrogio, il che tenderebbe a confermare l’indicazione ricavata dalle
affermazioni di Paolino a Niceta. Uno dei due vescovi era forse andato
lettura del De laude, 3). In merito alle reliquie, questo è quanto scrive Paolino: «... Nunc
Rotomagnum, et uicinis ante regionibus tenui nomine peruulgatum, in longinquis etiam
prouinciis nominari uenerabiliter audimus et inter urbes sacratis locis nobiles cum diuina
laude numerari. Haud immerito cum totam illic qualis in Oriente memoratur Hierusales
faciem apostolorum quoque praesentia meritum tuae sanctitatis aduexerit qui peregrinam
memoriis suis urbem affectu sanctorum spirituum et effectu operum diuinorum sedibus
suis comparant qui in te ipsum aptissimum sibi diuersorium repererunt» (Ep. 18, 5 - Ed.
G. Hartel, CSEL 29, p. 132). Paolino, che accondiscende alle dichiarazioni di Vittricio,
farebbe forse certe affermazioni se fosse già in possesso delle stesse reliquie a Nola? 215 Ci sono davvero stati due trasferimenti di reliquie a Rouen, come solitamente si
afferma? È difficile dare una risposta certa. Stando ad alcune affermazioni i martiri
vengono accolti a Rouen da altri santi (§ 6 - c. 448 A-B; 448 C-D), tra i quali figurano
gli Apostoli Andrea e Tommaso. Altri passi invece lasciano intendere che l’arrivo degli
Apostoli e dei martiri è recente (§ 5 - c. 447 C; § 12, c. 545 C-D), che è dovuto allo
stesso portatore (§ 2 - c. 445 A 2-3), che è stato a lungo desiderato (§ 1 e § 2) e che essi
costituiscono un gruppo unico (§ 12 - c. 454 D), sin da prima del loro ingresso nella
Chiesa che Vittricio ha eretto per loro in modo inatteso (§ 12 - cc. 457-458). Forse
bisognerebbe collocare il § 6 all’interno della trattazione in cui Vittricio afferma che i
santi sono presenti allo stesso tempo in cielo e in qualunque altro posto, così come
bisognerebbe tener conto del fatto che Vittricio non cerca un secondo (alter) luogo, bensì
un altro (alius - § 6; c. 448 B 6) luogo, cioè più degno di tale insieme di santi. Ad ogni
modo Agricola, il cui trasferimento a Bologna risale al 393-394, fa parte del gruppo di
quelli che «accolgono», insieme con Giovanni Battista, Andrea, Tommaso, Gervasio,
Protasio ed Eufemia (§ 6 - c. 448 B). Agricola non può essere a Rouen da molto e
bisognerebbe davvero moltiplicare gli invii per poter asserire che le reliquie di Gervasio
e di Protasio – e forse di altri – sono arrivate a Rouen poco dopo il 386, come sostiene
qualcuno.
132
in Oriente, e in particolare a Edessa, o aveva ricevuto le reliquie da un illustre
viaggiatore?
I portatori: Gaudenzio
Disponiamo di un certo numero di informazioni riguardo alcune delle
persone che hanno trasportato in Occidente le reliquie orientali. Più difficile è
invece precisare quali siano le reliquie portate dai vari viaggiatori. Il più
conosciuto tra questi è Gaudenzio di Brescia, che ha compiuto due viaggi in
Oriente. Il primo lo ha portato, prima del 397216, fino a Gerusalemme,
passando per la Cappadocia e per Antiochia. È il viaggio rievocato quando
parla delle reliquie dei quaranta martiri, in occasione della dedicazione della
Basilica del Concilium Sanctorum a Brescia217. Il secondo viaggio lo ha
condotto verso Costantinopoli, nel 405-406, in circostanze poco favorevoli a
un trasferimento di reliquie, che non può avvenire senza il consenso del clero
locale218. Poiché Gaudenzio non fornisce nessun dettaglio circa l’invio delle
reliquie di Giovanni Battista, di Andrea, di Tommaso e di Luca, di cui segnala
in maniera vaga soltanto il luogo del martirio219, viene decisamente da pensare
che non sia stato lui a portare le reliquie, e che i numerosi dettagli forniti sui
martiri della Cappadocia non siano realmente volti a far conoscere martiri
molto meno noti agli ascoltatori, di cui vorrebbe precisare l’autenticità.
Il primo vescovo di Concordia
C’è un altro personaggio che potrebbe aver portato le reliquie dei santi della prima
generazione cristiana. Nel sermone pronunciato per la dedicazione della Chiesa
216 Visto che è stato consacrato da Ambrogio (Tr. 16, 2). Nel 386-387 Agostino ha visto
Filastrio a Milano. 217 GAUDENZIO di Brescia, Tr. 17, 14-15. 218 PALLADIO, Dialogus, 4. 219 GAUDENZIO, Tr. 17, 11.
133
di Concordia, Cromazio lascia intendere che il primo vescovo della città deve la
propria consacrazione all’aver portato qualche reliquia a Concordia220, salvo poi
cederne una parte ad Aquileia221. Se le cose stanno davvero così e se il sermone
non è troppo mutilato222, si può pensare che il primo vescovo di Concordia non
abbia veramente ottenuto le reliquie – essendo ancora un semplice prete223 – in
Italia, da Ambrogio ad esempio. Questi avrebbe piuttosto trattato da vescovo a
vescovo con Cromazio. D’altronde, se il movimento è partito da Milano, è strano
che le reliquie propriamente milanesi non abbiano raggiunto il Veneto, quando
invece si trovano a Brescia e, soprattutto, che siano arrivate nella lontana
Provincia Lionese Seconda e Terza224.
I l n o m e d e l n u o v o v e s c o v o è s c o n o s c i u t o 225. T a l v o l t a è
220 CROMAZIO, S. 26, 1: «Ornata est igitur Ecclesia Concordiensis et munere sanctorum et
basilicae constructione et summi sacerdotis officio. Meruit enim sanctus uir frater et
coepiscopus meus summo sacerdotio honorari, qui per huius modi munera sanctorum
honorauit Ecclesiam Christi sacerdotis ueterni». 221 Ibidem: «Nos a uobis reliquias sanctorum accepimus... Tulimus quod adlatum uobis
fuerat de munere sanctorum...». 222 Il sermone s’interrompe nel bel mezzo delle informazioni riguardanti Tommaso, in
particolare sul ritorno del corpo a Edessa. Poco prima era stato citato Luca (S. 26, 4
inizio) nel gruppo degli Apostoli e degli Evangelisti. Non è da escludere che facessero
seguito altri gruppi o altri nomi. 223 Non è pensabile, in quegli anni, che un laico abbia potuto essere ordinato vescovo. La
legislazione è diventata molto più severa. 224 Sull’assenza di reliquie milanesi in Veneto cfr. J. LEMARIÉ, La liturgie d’Aquilée et
de Milan au temps de Chromace et d’Ambroise in Aquileia e Milano, AAAd. IV, Udine
1973, p. 268 in fondo. Ma i trasferimenti di reliquie continueranno. Cfr., per il Norico,
EUGIPPIO, Vita Seuerini, 9, 3; per la regione di Aquileia G.C. MENIS, Plebs de Nimis,
Ricerche sull’architettura romanica ed altomedioevale in Friuli, Udine 1968, pp. 96-
101. 225 Dobbiamo forse vedere in lui uno dei tre nomi citati da Vittricio? In questo caso,
però, non si capisce perché il vescovo di Concordia sarebbe venuto a Milano nel 392-
393, mentre non c’è né il vescovo di Brescia, né quello di Verona, né quello di Aquileia.
134
stato avanzato il nome di Lorenzo226, vescovo cui Rufino ha dedicato la sua
Expositio Symboli227. L’opera, di cui ho ricordato prima qualche fonte
orientale e palestinese, sarebbe in realtà un manuale per un nuovo vescovo,
analogo, mutatis mutandis, al De catechizandis rudibus di Agostino? A
sostegno di questa mera ipotesi aggiungerei che l’opera è datata 404 – il che
non l’allontana molto dalla dedicazione di Brescia – e che forse non è un caso
se, in quegli stessi anni, Rufino dedica a Cromazio la traduzione delle Omelie
su Giosuè di Origene228. Nella Prefazione il vescovo di Aquileia viene
acclamato come il nuovo Beseleel, cioè come il nuovo costruttore del
Tabernacolo. Rufino, dal canto suo, non può portare né metalli, né pietre, né
legni pregiati adatti alla decorazione. La metafora è continuata, secondo
l’esempio di Girolamo. Ma ciò non esclude che possa riguardare anche una
realtà materiale recentissima e d’attualità: la costruzione e la dedicazione della
Basilica degli Apostoli di Aquileia.
Silvia
In ogni caso Rufino sembra essere tornato in Italia senza reliquie. Sappiamo che
Melania aveva ricevuto in dono da Giovanni di Gerusalemme alcuni frammenti della
vera Croce. Sempre grazie a Paolino di Nola sappiamo che Sulpicio Severo, nel 403229,
226 Nessun dato manoscritto consente d’identificare questo Lorenzo con Maurenzio, il cui
sarcofago è stato ritrovato a Concordia «ante limina domnorum Apostolorum».
Maurenzio è peraltro un semplice presbiter. Sull’ubicazione del sarcofago e sui relativi
problemi cfr. G. FOGOLARI, La maggior basilica paleocristiana di Concordia in Atti del
III Congresso Nazionale di Archeologia cristiana, AAAd. VI, Udine 1974, pp. 270 e 294-
295. 227 RUFINO, Expositio Symboli, 1. 228 Sulle datazioni cfr. F.-X. MURPHY, Rufinus of Aquileia, p. 185: Expositio Symboli; pp.
189-190: In Iosue homiliae. 229 P. FABRE, Essai, pp. 34-35, 40.
135
aveva chiesto a Paolino di inviargli qualche reliquia per la basilica che stava
costruendo a Primuliacum. Paolino si scusa di potergli inviare soltanto un
frammento della Croce230 e rimanda l’amico a una certa Silvia, che ha
promesso a Vittore, corriere abituale di Sulpicio e di Paolino, «le reliquie di
numerosi martiri d’Oriente»231. Questa Silvia232 è, con ogni probabilità, la
persona cui Rufino aveva promesso di tradurre le Recognitiones Clementis,
che alla fine saranno dedicate, nel 406, a Gaudenzio di Brescia, in seguito alla
morte di Silvia233. Cognata del ministro Rufino, altro appassionato di reliquie,
si trovava in Egitto nel 400234. Nel 403 non era quindi ritornata da molto.
Tuttavia ignoriamo completamente quali reliquie trasportasse, nonché la
provenienza e la destinazione delle stesse, nell’Italia settentrionale così come
in Aquitania.
CONCLUSIONE
Non nascondo la fragilità di certe supposizioni e mi guardo bene
dall’affrontare i problemi strettamente archeologici delle basiliche
in cui sono deposte le reliquie. Tali supposizioni saranno sbagliate
n e l l a m i s u r a i n c u i i t r a s f e r i m e n t i d i r e l i q u i e
230 PAOLINO di Nola, Ep. 31, 1 (Ed. G. Hartel, CSEL 29, p. 268, ll. 3-9). 231 Ibidem (p. 268, ll. 1-3): «et ille (Victor) se spem eiusdem gratiae copiosam habere
dixit a sancta Silvia quae illi de multorum ex Oriente martyrum reliquiis
spopondisset...». 232 Su Silvia cfr. E.D. HUNT, St Silvia of Aquitaine. The role of a Theodosian Pilgrim in
the Society of East and West, JThS 23 (1972), pp. 351-373, da integrare con P. DEVOS,
Silvie la sainte pélerine, ABoll., 91 (1973), pp. 105-117: in Oriente; 92 (1974), pp. 321-
343: in Occidente. 233 RUFINO di Aquileia, In Clementis recognitiones, Prologus (CC 20, p. 281, ll. 6-9):
«opus quod olim uenerandae memoriae uirgo Siluia iniunxerat (...) et tu deinceps iure
hereditario deposcebas...». 234 P. DEVOS, art. cit., p. 114.
136
si rivelano esatti e attestano un certo numero di rapporti con l’Oriente e con la
Palestina, quali che siano le vie di comunicazione. Nella prima parte del
presente lavoro ho voluto sottolineare le ripercussioni – vere o verosimili –
delle invasioni barbariche e delle tensioni tra Oriente e Occidente sulle
comunicazioni terrestri tra le due parti dell’Impero attraverso l’Illirico. I fatti
conosciuti sono pochi e le circostanze precise sono mal note. Tuttavia si può
notare come gli scambi continuino anche nei momenti di maggior tensione.
Vigilio di Trento, tra il 399 e il 404, affida al conte Giacomo le reliquie dei
martiri anauniensi per Giovanni di Costantinopoli235. Abbiamo anche visto
Sisinio di Tolosa, che va a imbarcarsi ad Aquileia per la Palestina e, nel 404-
405, la delegazione inviata da Innocenzo, dai vescovi di Milano e di Aquileia
a Giovanni Crisostomo, che prende, da Roma, la via di mare236. I pellegrinaggi
verso la Palestina continueranno anche dopo la conquista araba. Per quanto
riguarda Aquileia la prova viene dall’ampolla di Terra Santa resa nota,
recentemente, da Margherita Guarducci237; inoltre Piussi ci ha intrattenuti ieri
sul Santo Sepolcro della Basilica.
Si tratta di oggetti «materiali», se così si può dire, pensando sia alle Prefazioni
di Rufino, in cui si parlava di merces orientales, sia alla dualità delle fonti
informative. Se è piacevole, infatti, fantasticare riguardo ad Aquileia su scoperte
letterarie interessanti quanto quelle avvenute negli ultimi quindici anni
nell’ambito dei testi, credo sia più ragionevole aspettarsi dal suolo di Aquileia i
235 VIGILIO di Trento, Ep. 2, 1 (PL 13, c. 552 C-E). J. Matthews (Western Aristocracies
and Imperial Court, Oxford 1975, p. 190, n. 5) identifica in modo plausibile questo
conte Giacomo con la «vittima» dell’Epigramma 50 di Claudiano. Tuttavia entrambi gli
scritti sono difficili da datare con maggior precisione. 236 PALLADIO, Dialogus, 4. 237 M. GUARDUCCI, Un ricordo di Terra Santa ad Aquileia, AN, XLV-XLVI (1974-75),
617-630.
137
documenti che miglioreranno la conoscenza sia della città, sia dei suoi contatti
con le altri parti dell’Impero. Si tratta di ricchezze che il tempo ha lasciato ad
Aquileia, seppur sepolte.
Altre, invece, sono state lasciate alla luce del sole. Nella Prefazione alla
traduzione della Regola di san Basilio, Rufino si congratula con il monaco
Ursacio per non aver imitato chi è solito interrogare coloro che tornano
dall’Oriente circa i suoi luoghi e le sue ricchezze238, informandosi invece sulle
osservanze monastiche orientali. Ha posto quindi la propria curiosità a un
livello un po’ più alto, curiosità soddisfatta da Rufino nel tradurre per lui la
Regola di san Basilio, che prega di diffondere239. Non dirò di più; mi limito a
citare ancora la Prefazione delle Recognitiones Clementis dedicata a
Gaudenzio, in cui Rufino si vanta del «bottino» strappato alle biblioteche greche,
nonché delle «spoglie della Grecia» trasportate in Occidente240. Non è sicuramente
l’aspetto più importante di queste affermazioni; tuttavia non posso non rimaner
colpito dalle metafore marittime e militari contenute in queste proclamazioni241.
Rufino fa ritorno, via mare, a Roma con una nave carica di merci, o di bottino.
L’ultimo termine non è meno importante: lascia trapelare la fierezza del
238 RUFINO di Aquileia, In regulam sancti Basilii, Prologus (CC 20, p. 241, ll. 7-11): «...
non ut aliquibus mos est uel de locis uel de opibus Orientis sollicite percontatus...». 239 Ibidem (ll. 24-26). 240 RUFINO, In Clementis recognitiones, Prologus (CC 20, p. 281, ll. 10-12): «praedam,
ut opinor, non paruam graecorum bibliothecis direptam nostram usibus et utilitatibus
conuectamus...»; (ll. 24-26): «Peregrinas merces multo in patriam sudore transuehimus
et nescio quam gratus me ciuium uultus accipiat magna sibi Graeciae spolia deferentem
et occultos sapientiae thensauros nostrae linguae claue reserantem». 241 Non sono certo proprie né di Rufino, né dell’Occidente. Temistio, parlando dei porti
di Costantinopoli, oppone in modo analogo le importazioni materiali e le merci
intellettuali importate (Or. 4 - 60 D-61 C). L’immagine di merces orientales, prima di
Rufino, si trova già in Girolamo, nella lettera a Paolo di Concordia, cui Girolamo
promette opere personali «quae cum plurimis orientalibus mercibus ad te, si Spiritus
sanctus adflauerit, nauigabunt» (Ep. 10, 3 f.).
138
vincitore, nonché un certo disprezzo per gli orientali. Ci troviamo alla vigilia
di una frattura che si accentuerà sempre più col passare del tempo; va
riconosciuto che, senza l’opera di Rufino e di Girolamo, la separazione
sarebbe stata ancora più netta. L’Occidente deve tutto ad Aquileia e ai propri
figli se è rimasto in contatto con il pensiero orientale per un millennio,
nell’attesa che si potesse avere nuovamente accesso al greco. Ne ha
approfittato, prima ancora di Venezia, soprattutto Aquileia. Certo, Lemarié ha
rievocato l’anno scorso l’esiguo numero di manoscritti bavaresi contenenti
l’opera di Cromazio242, ma ricordo che il Commento alle Epistole di san
Paolo, su cui ho speso qualche parola prima, è stato scritto a Salzburg intorno
all’800243. In quel periodo Juvavum-Salzburg dipendeva ancora da Aquileia.
Non tutti i testi hanno fatto la fine di questo Commento, rimasto poco
utilizzato, come neppure dei Sermoni e dei Tractatus di Cromazio. Sono stati
letti e riletti, copiati e ricopiati, benché ci si dimenticasse ciò che dovevano ad
Aquileia.
Vi è poi una terza serie di «importazioni», difficili da fissare sulla carta
nella misura in cui si tratta di informazioni orali, così come circolano nei
porti. Per concludere vorrei suggerirne l’importanza mediante due testi. Il
primo è di Girolamo, e riguarda non già Aquileia, bensì Porto e lo
Xenodochium di Pammachio e di Fabiola. Credo non sia controindicato
applicare al porto di Aquileia le affermazioni di Girolamo in merito alla
circolazione delle notizie: «In un’estate sola – dichiara – la Bretagna
(all’estremo nord) venne a sapere ciò che l’Egitto e la Partia (cioè la
Mesopotamia e i territori romani dell’estremo est) sapevano dalla primavera»244.
242 J. LEMARIÉ, Chromace d’Aquilée, Sermons, t. 1 (SC 154), pp. 25 sgg. - La diffusion
des oeuvres de saint Chromace d’Aquilée dans les scriptoria bavarois du Haut Moyen-
Age in AAAd. IX, Udine, 1976, pp. 421-435. 243 H.J. FREDE, op. cit., I, p. 258. 244 GIROLAMO, Ep. 77, 10.
139
Il secondo testo è tratto dalla lettera di Vigilio di Trento a Giovanni
Crisostomo. Ho già citato tre anni or sono il passo in cui Vigilio, in un «si
dice», oppone il comportamento dei martiri anauniensi a quello dei Donatisti
in Africa245. In un altro passo, parlando del nome di uno dei tre martiri,
Alessandro, Vigilio rievoca Alessandria. Il quadro tracciato sulla religione
egizia non mi sembra né libresco, né costituito unicamente da luoghi
comuni246. Trovano spazio anche informazioni orali, che non per forza gli
sono arrivate dal cappadocio Sisinio né, lo riconosco senza difficoltà, da
Aquileia. Volevo semplicemente mostrare come un individuo sperduto in una
vallata delle Alpi si trovi in contatto con la Cappadocia e con Costantinopoli, e
disponga di informazioni su Alessandria e sull’Africa. L’Impero era ancora
abbastanza unificato perché le notizie potessero circolare senza ostacoli. In
ogni caso, per concludere con la Palestina, le vie dei Luoghi santi rimarranno
sempre, anche nei periodi più bui, la via di trasmissione delle notizie, delle
idee e delle forme. I testi, dal canto loro, viaggeranno molto meno tra le due
comunità linguistiche.
(1977)
245 Y.-M. DUVAL, L’influence des écrivains africains du IIIe siècle sur les écrivains
chrétiens de l’Italie du Nord dans la seconde moitié du IVe siècle in Aquileia e l’Africa,
AAAd. V, Udine, 1974, p. 196.
246 VIGILIO di Trento, Ep. 2, 10 (PL 13, c. 557 B-C).
140
IL LIBER HIERONYMI AD GAUDENTIUM:
RUFINO DI AQUILEIA, GAUDENZIO DI BRESCIA
ED EUSEBIO DI CREMONA
Fatte le debite proporzioni, la vita e l’opera di Girolamo sono tra le più conosciute
dell’antichità cristiana. Attraverso la vita e l’opera di Girolamo si può cogliere la vita
di molti altri personaggi più o meno importanti del IV e V secolo, se non addirittura
interi squarci della vita politica dell’epoca.
Eppure quando l’occhio dello specialista si avvicina, non ha difficoltà a scoprire
ampie zone d’ombra − o di profonda oscurità −. Allo stesso modo si accorge che
alcune ricostruzioni biografiche poggiano su basi fragili, o che le concatenazioni che
si crede di poter operare non s’impongono con forza. Ciò significa che qualsiasi
elemento nuovo, con il suo contributo particolare, con i riesami che comporta e
anche con le sue conferme, costituisce una conquista preziosa, e ne lascia sperare
altre.
In questi ultimi anni la scoperta, da parte di J. Divjak, di una trentina di lettere e di
memorie sconosciute di Agostino non è stata soltanto ricca di insegnamenti
sull’Africa, sulle difficoltà della Chiesa e su Sant’Agostino, ma ha anche fornito
numerosi documenti importanti su Girolamo, poiché, oltre a una lettera di Agostino a
Girolamo del 416, ha reso nota una lettera di Girolamo ad Aurelio di Cartagine
risalente circa al 391-392, periodo di cui non possediamo nessuna lettera di
Girolamo1.
Non è questo il momento di addentrarsi nei particolari di tale importante lettera,
anche se l’indicazione data da Girolamo ad Aurelio secondo cui i vescovi della
Gallia e d’Italia − intendiamo dell’Italia settentrionale, annonaria − mandano persone
a prendere copia delle sue opere2 potrebbe, vista la data, rafforzare l’opinione
1 Sancti Aureli Augustini, Epistolae ex duobus codicibus nuper in lucem prolatae,
recensuit J. DIVJAK, CSEL 88 (Vindobonae, 1981), Ep. 19* e 27*. Una nuova edizione di
tali lettere costituisce il volume 46 B della Bibliothèque Augustinienne (Paris, 1987). Le
due lettere sono state da me annotate a pp. 507-516 e 560-568 rispettivamente. 2 Ep. 27*, 3. La lettera, scritta prima del De uiris e dopo l’ordinazione di Aurelio a
Cartagine, risale al 391-392.
141
di P. Meyvaert circa i rapporti tra Girolamo e Gaudenzio di Brescia prima dello
scatenarsi della controversia origeniana, vale a dire prima del 393. Vorrei riprendere
l’esame dei due frammenti che P. Meyvaert ha da poco reso noti3, proponendo di
collocarli nel quadro degli anni 400-401.
Se è questa la data del «Libro a Gaudenzio», avremo occasione di sondare
nuovamente le nostre lacune, ma anche, se l’opera proviene davvero da Girolamo, di
scoprire l’esistenza di una rete di relazioni tra la Palestina e l’Italia settentrionale ben
più fitta di quanto i testi attualmente a disposizione consentano di mettere in
evidenza4, salvo essere invitati dallo studio di questi frammenti a proporre un’altra
soluzione e un altro autore.
***
Non occorre ritornare sulla scoperta di tali frammenti, che figurano su tre fogli del
manoscritto 3 della Bibliothèque Municipale (S. 2) di Autun, datati 754. Tutto ciò
che è utile sapere è stato detto da P. Meyvaert, il quale ha offerto una trascrizione
quasi diplomatica dei due frammenti, seguita da un tentativo di ricostruzione5.
Il testo di seguito riportato è anch’esso un tentativo di ricostruzione, seppur
leggermente diverso. Il testo comprende anche le rubriche, per una delle quali
propongo due, se non addirittura tre correzioni significative. L’apparato critico non
cita le grafie e le variazioni a/e, e/i, o/u, os/us, sebbene alcune siano rilevanti per la
comprensione del testo. P. Meyvaert ha già segnalato6, dopo E.A. Lowe7, l’elevato
numero di tali indecisioni, per non parlare dell’«ortografia barbara» di Gundohinus,
denunciata dall’autore del vecchio Catalogue du Grand Séminaire di Autun. Ho
rivisto il manoscritto, soltanto su microfilm, all’Institut de Recherche et d’Histoire
des Textes, che ho il piacere di ringraziare.
3 P. MEYVAERT, Excerpts from an Unknown Treatise of Jerome to Gaudentius of
Brescia, in Rev. bénéd. 96 (1986), pp. 203-218. 4 Su queste relazioni cfr. il mio Aquilée e la Palestine entre 370 et 420, in AAAd. XII
(1977), pp. 263-322. 5 P. MEYVAERT, Art. laud., pp. 204-206. 6 Ibid., p. 204. 7 E.A. LOWE, Codices Latini Antiquiores VI (Oxford, 1953), n. 716.
142
I − fol. 1r. EXCERPTA DE LIBRO SANCTI HIERONIMI PRESBITERI:
Omnis qui qualemcumque differentiam facit in substantia Trinitatis et inferiorem Filium dicit a Patre uel Spiritum Sanctum (fol. 1v) a Filio, ita ut non uideat Filius Patrem et Spiritus 5 Sanctus non uideat Filium, anathema sit in aeternum.
Nos enim et corde credimus et ore confitemur (cf. Rom. 10, 10) quia sic uidet Filius Patrem et Spiritus Sanctus sic uidet Filium et Patrem quomodo Pater Filium et Spiritus Sanctus sic uidet Filium et Patrem quomodo Pater et Filius uident Spiritum 10 Sanctum, id est quomodo Deus Deum et Lux Lucem.
Anathema sit ergo qui aliter uel crediderit umquam uel credit. Haec est nostrae fidei professio, haec est ecclesiasticae traditionis adsertio, quae non solum Arrium excludit, qui inferiorem et alterius naturae Patre Filium uel Spiritum 15 Sanctum dicit, sed et Valentinianos et Anthropomorphitas repellit, qui Deum uidere corporaliter putant. Et quantumquidem ad nostram personam pertinet, sufficit anathematizari a nobis ea quae contra fidem ueram dicuntur. Amen. Explicit. EXCERPTA DE LIBRO SANCTI PRESBITERI HIERONIMI AD PAPAM
20 GAVDENTIVM DE HIS QVAE FALSAVIT EVSEBIVS CREMONENSIS ET DE QVIBVS CALVMNIATVR. II − fol. 13r. ITEM EXCERPTA EX LIBRO SANCTI HIERONIMI CVIVS EST SVPRA: Quantum ad meam propriam sententiam respectat, ne <in> qua 25 forte aemulus noster uoluntarie incidat obliuio<ne>, iterum ac saepius eadem repeto: Omnis qui negat Trinitatem unius esse uirtutis et aeternitatis atque substantiae anathema sit. Omnis qui negat ita uidere Filium Patrem et Spiritum Sanc- 30 tum Filium sicut uidet Pater Filium et Spiritum Sanctum anathema sit. Si quis negat Filium Dei, <natura> humanae carnis suscepta passum esse et sepultum et in ipsa carne resurrexisse a mortuis,
6 Nos Mey: non A. ║ 7 sic uidet Mey: sicut de A ║ 8 quomodo Mey: quodo A ║ 9 filium et patrem Mey: filium et a patrem A: filium et a Patre uidetur forte ║ 9 uident ego: uidet Mey: uidit A ║ 10 quomodo Mey: quando A ║ 14 Patre ego: patrem A Mey ║ 17 anathematizari Mey: -e A ║ quae ego (Mey p. 206): qui A Mey (i.t.) ║ 20 falsauit Mey: falsa(m)uit A: falsauerit forte (uide commentarium) ║ 20 Eusebius ego: Eusebium A (i.t.) ║ 20 Cremonensis ego (uide commentarium): Emisinus A Mey ║ et de quibus Origenes add. Mey (p. 206, in commentario) ║ 24 sententiam respectat Mey: sententiam (?) expectat (rasura unius litterae) ║ 24 ne <in> qua forte ego: ne forte Mey: ne qua forte A ║ 25 aemulus noster uoluntarie ego: aemolusnostru9uoluntariae A (-u9 = -uo- et repetitum? - Non rarum apud Gun). ║ 29 Filium Patrem et Spiritum Sanctum Filium A: Filius Patrem et Spiritus sanctus Filium Mey ║ 32 natura humanae carnis suscepta ego: anathema humanae carnis suscepta A: humanae carnis suscepta Mey
143
ascendisse in caelos, consedisse in dexteram Dei et rursum 35 uenturum ad iudicium uiuorum et mortuorum anathema sit. Si quis negat resurrectionem carnis huius nostrae futuram secundum eam similitudinem qua Christus resurrexit a mortuis integre et perfecte anathema sit. Aduersus haec omnia, siue Origenes siue quis Apostolus siue 40 etiam angelus de caelo nuntiauerit aliter quam adnuntiatum est nobis, anathema sit in ista regula fidei. LIBER MEMORIAE EVSEBII HIERONIMI PRESBITERI AD PAPA<M> GAVDENTIVM.
All’infuori di due o tre correzioni fondamentali, non sono molti i punti in cui mi
allontano da P. Meyvaert e comunque non sono determinanti; ritorno di tanto in tanto
al manoscritto, evitando di imputargli un errore inutile (costruzione infinitiva);
rispetto la grammatica dell’autore e il suo vocabolario (rursum/rursus); trasformo
una svista o una distrazione (anathema) del copista in una parola non troppo lontana
dal punto di vista grafico (natura) e che presenta il vantaggio di rispettare la sintassi
e il senso della frase; ma non accordo fondamentale importanza né al mio
suggerimento per la l. 9 (: et a Patre uidetur), né all’esatta sintassi dell’inizio del
secondo frammento8. Si potrebbe anche suggerire: «ne qua forte aemuli nostri
uoluntaria incidat obliuio» − e altre soluzioni ancora −, senza che cambi il senso
generale o l’insinuazione.
In compenso le correzioni che riguardano la seconda rubrica sono di grande
rilevanza. Fornirò una spiegazione «paleografica», prima di giustificarle attraverso lo
studio del contesto dei frammenti. Si può ammettere senza difficoltà che si è passati
da quae a que e a qui9; falsauit viene preferito da Meyvaert al falsamuit che il copista
sembra aver prima letto e poi scritto. Lo si può forse lasciare; ma mi chiedo se non sia falsauerit
Per
34 rursum A: rursus Mey ║ 36 nostrae Mey: nostri A ║ 38 integre et perfecte ego: intecre et
perfectae A: integrae et perfectae Mey.
8 La seconda o del «blocco» senza cesura «nostruouoluntariae» presenta una piccola
coda curva che la fa sembrare una g, senza però essere una g. Propendo per una
dittografia; non sarebbe l’unica nel manoscritto. 9 D’altronde, all’interno dell’articolo (p. 206), P. Meyvaert legge a giusto titolo quae.
144
la giusta lettura del testo che il copista aveva sotto gli occhi10. Quanto a Eusebio
Cremonensis − al posto di Eusebio Emisinus del manoscritto − non arriverò fino al punto
di asserire che il copista trovasse già questo nome nel proprio modello; tuttavia credo che
l’intera questione cui si riferiscono i nostri frammenti inviti a riconoscerlo, senza troppa
difficoltà, nei panni e al posto di colui del quale Meyvaert ha cercato, invano, di
giustificare la presenza.
***
Dopo aver presentato il proprio tentativo di ricostruzione, P. Meyvaert intraprende lo
studio dei frammenti attraverso una lunga trattazione su Eusebio di Emesa, sulle
menzioni che Girolamo fa di lui e, in particolare, sulla denuncia che viene fatta nella
Cronaca circa il ruolo svolto dal protetto di Costanzo II, amico di Ariani ben noti11:
«Eusebius Emisenus, Arrianae signifer factionis, multa et uaria conscribit» (ad a. 347).
Visto che, nel Contro Rufino, è Eusebio di Cesarea a essere definito «Arianae quondam
signifer factionis»12, P. Meyvaert si domanda se, tra il 381 e il 401, Girolamo non abbia
«rivisto la propria opinione sull’identità dei due scrittori chiamati, entrambi, Eusebio» e
non abbia − continuo − abbandonato le accuse contro Eusebio di Emesa, per farle
ricadere, iniziando dalla controversia origeniana, soltanto su Eusebio di Cesarea13. I
frammenti del «libro a Gaudenzio» sarebbero precedenti a tale evoluzione e andrebbero
collocati prima del 39314.
La spiegazione è plausibile15, ma piuttosto complicata. Non credo che Girolamo riservi
in modo definitivo un’«etichetta» a un autore, senza permettersi di affibbiarla anche a un
altro. Le sue opere polemiche dimostrano semmai il contrario16. Eusebio di Emesa ed
10 Ricordo che ho visto solo un microfilm, la cui raschiatura non lascia intravedere il
substrato. 11 P. MEYVAERT, Art. laud., pp. 206-207. 12 GIROLAMO, Contra Rufinum, I, 8 (ed. P. LARDET, SC 303, p. 24, ll. 12-13). 13 P. MEYVAERT, Art. laud., pp. 207-208. 14 Ibid., p. 204; pp. 213-214. 15 Tuttavia va notato che nel 398 (Ep. 70, 4 ed Ep. 73, 2) e nel 404 (Ep. 112, 4) Girolamo
distingue Eusebio di Cesarea da Eusebio di Emesa. In ogni caso mi sembra difficile credere
che Girolamo si sia confuso. Eusebio di Cesarea occupa molto spazio nel Contro Rufino. 16 Cfr. il mio Pélage est-il le censeur inconnu de l’΄Aduersus Iouinianum΄ à Rome en
393? e: Du «portrait-robot» de l’hérétique chez S. Jérôme, in RHE 75 (1980), pp. 525-
557 e in particolare pp. 532-536.
145
Eusebio di Cesarea possono essere stati allo stesso tempo per Girolamo «alfieri della
fazione ariana», senza che questi abbia dovuto modificare i propri giudizi. Spiegare
come un − o il − copista abbia trasformato l’eventuale Cremonensis in Emesinus non
presenta alcuna difficoltà. Il secondo, a partire dal IV secolo, credo, ma soprattutto a
partire dal V, è uno scrittore conosciuto − per giunta in latino − in Occidente. Lo
testimonia il corpus del manoscritto 523 di Troyes scoperto da Dom Wilmart, per non
parlare dell’Eusebius Gallicanus, la cui diffusione è stata notevole. Non penso quindi che
ci sia bisogno di fare appello a Eusebio di Emesa per comprendere la rubrica o il
frammento in questione, così come non è necessario determinare un «de quibus Origenes
calumniatur», come suggerisce P. Meyvaert17. È sempre Eusebio di Cremona a essere
chiamato in causa da tale verbo, e sono assai stupito che il suo nome non sia stato citato
in questo studio, quando invece ha rivestito un ruolo decisivo in tutta la questione che è
qui in secondo piano (e che P. Meyvaert riporta solo in parte).
Certo, nell’Apologia contro Girolamo Rufino non cita né il nome di colui che ha
modificato una copia provvisoria della sua traduzione del Peri Archôn18, né quello di
colui che, a Milano, ha prodotto un testo falsificato19; ma i nomi, o meglio, il nome
dell’unico personaggio è citato da Girolamo in vari punti delle sue risposte a
Rufino20. Che io sappia, non sono in molti a esitare sugli autori, nonostante Girolamo
abbia cercato di imbrogliare le carte e sebbene la questione presenti, di per sé,
qualche punto oscuro, che i moderni hanno reso ancora più fitto mediante il sospetto
sistematico di Rufino. Non è quindi inutile riprendere rapidamente lo svolgersi dei
fatti.
Durante la Quaresima del 39821 Rufino intraprende la traduzione del Peri Archôn di Origene,
ma non va oltre i primi due libri, che correda di una Prefazione dedicata a Macario. Qualche
17 Art. laud., p. 207, fine del primo paragrafo del commento. 18 RUFINO, Apologia contra Hieronymum, I, 17-21 (ed. M. SIMONETTI, CC 20, pp. 50-
56). Non mi soffermo sulla questione delle schedae, che meriterebbe un’analisi
approfondita. 19 Ibid., I, 19 (p. 53, ll. 10-12). 20 GIROLAMO, Contra Rufinum, 1, 4; 1, 10; 3, 4-5; 3, 6; 3, 20. 21 La data è quella dell’In Matthaeum di Girolamo dedicato a Eusebio, quando questi
s’imbarca per Roma.
146
mese dopo la Prefazione ai libri III e IV lascia intendere che gli avversari sono già in
subbuglio. Non occorre esaminare le ragioni; è sufficiente precisare, con l’aiuto dei
documenti successivi, chi siano questi avversari, a Roma, dove si trova Rufino.
Sappiamo che Eusebio di Cremona è ritornato dalla Palestina nella primavera del
398. Rufino dirà di averlo incontrato più volte, senza che vi sia la benché minima
osservazione22. Ora, Eusebio non tarda a procurarsi le famose schedae della
traduzione del Peri Archôn23. Prima della fine della navigazione del 398 Pammachio
può inviarle a Girolamo, con la Prefazione ai libri I-II, chiedendogli una traduzione
letterale del trattato sospetto24. Questa sarà realizzata da Girolamo durante l’inverno
del 398-399 e arriverà a Roma nella primavera del 399. A quel tempo Rufino ha già
lasciato Roma per Aquileia, giacché non gli viene consegnata la lettera che Girolamo
gli aveva indirizzato.
Era già stato oggetto di attacchi presso le autorità religiose? Sappiamo che ha lasciato
Roma munito di una lettera di comunione di Siricio25, il che forse non costituiva pura
obbedienza alle regole canoniche. Rufino ha anche scritto a Girolamo e gli ha
probabilmente chiesto di calmare i suoi amici26. D’altra parte Girolamo racconterà, a sua
lode, che Marcella è intervenuta diverse volte presso Siricio per denunciare gli errori
origeniani27. Siricio è morto il 26 novembre 39928. Gli attacchi di Marcella precedono
quindi la partenza di Rufino − e, probabilmente, l’arrivo della traduzione di Girolamo −.
Questa non occupa, infatti, nessun posto all’interno del racconto riguardante Marcella.
D’altronde l’autore afferma, nella lettera ad Avito, che questa nuova traduzione, una
volta giunta tra le mani di Pammachio, sembrò così pericolosa che chi l’aveva richiesta
22 RUFINO, Apol. c. Hieron., I, 20 (p. 55, ll. 24-29). Sulla data del ritorno di Eusebio di
Cremona cfr. GIROLAMO, Contra Rufinum, 3, 24 (ed. P. LARDET, SC 303, p. 280, ll. 17-
19). 23 GIROLAMO, Contra Rufinum, 3, 20 (ed. P. LARDET, SC 303, p. 268, ll. 30-32). 24 GIROLAMO, Ep. 83 (CUF 4, pp. 124-125). 25 GIROLAMO, Contra Rufinum, 3, 21 (p. 268, l. 1); 3, 24 (p. 278, ll. 1-3); Ep. 127, 10
(CUF 7, p. 144, l. 28 - p. 145, l. 2). 26 GIROLAMO, Ep. 81, 1 e 2 (CUF 4, pp. 124-125). 27 GIROLAMO, Ep. 127, 9 (CUF 7, p. 144, ll. 18-25). 28 Su tale data cfr. L. DUCHESNE, Le Liber Pontificalis, t. Ier (Paris 1886), pp. CCL-CCLI.
Il giorno e il mese sono sicuri; l’anno è stato calcolato per deduzione.
147
cominciò a nasconderla29. Strano comportamento, chiarito a malapena dai dibattiti
successivi.
Le istanze degli amici di Girolamo non avevano funzionato presso Siricio. Le
richieste ripresero presso Anastasio. Ciò spiega la reazione di Rufino, che compone in
quel periodo l’Apologia ad Anastasio. Non si trova in tale difesa la benché minima
allusione alla piega che hanno preso gli avvenimenti nel corso del processo di Milano,
né al rilievo dato dai documenti romani, né soprattutto al voltafaccia di Teofilo di
Alessandria30.
Nell’Apologia ad Anastasio Rufino dichiara fiducioso che Teofilo professa la fede
delle Chiese di Roma, di Alessandria, di Aquileia e di Gerusalemme; ignora che
Teofilo ha cambiato schieramento e che il suo intervento ha avuto grande peso sulla
decisione di Anastasio. Nella sua lettera a Simpliciano di Milano (precedente al 15
agosto 400), il vescovo di Roma parla di una lettera del vescovo di Alessandria31;
sappiamo grazie a Girolamo che questa è arrivata a Roma poco dopo una delle sue32.
Anastasio fornisce un’altra informazione, che mi sembra determinante. Presentando il
portatore della lettera a Simpliciano, dichiara: «il prete Eusebio, traboccante di fervida
fede e pieno di amore verso Dio, ci ha presentato un elenco di blasfemie (quaedam
capitula blasphemiae). Non soltanto le abbiamo condannate con orrore, ma sappi che,
se ve ne sono altre esposte da Origene, sono state ugualmente condannate assieme al
loro autore»33.
29 GIROLAMO, Ep. 124, 1 (CUF 7, p. 95, ll. 15-17). 30 F.X. MURPHY (Rufinus of Aquileia, His Life and Works [Washington 1945], pp. 133-137) e C.P. HAMMOND-BAMMEL (The Last Ten Years of Rufinus’ Life and the Date of his Move South from Aquileia, in J.T.S. 28 [1977], pp. 388-389) collocano la stesura di questa Apologia dopo il processo di Milano, quindi alla fine del 400, il che mi pare alquanto inverosimile. Rufino ignora palesemente che ad Alessandria le cose sono cambiate. La sua Apologia ad Anastasio rievoca troppo ingenuamente le persecuzioni di Alessandria del 373 e invoca con troppa fermezza la fede di Alessandria – vale a dire quella del suo vescovo – perché possa avere la minima informazione sul rovesciamento di alleanze appena prodottosi. Ritornerò in seguito sulla «Professione di fede» dell’Apologia. Anche P. Lardet (Introduction du Contre Rufin, SC 303, pp. 59*-60*) colloca l’Apologia alla fine del 400, dopo la morte di Simpliciano, ma nota che Rufino ignora «con ogni probabilità il recente voltafaccia di Teofilo». Ciò sarebbe impossibile a quel tempo. A Milano Eusebio ha richiesto l’intervento di Teofilo, citato da Anastasio nella Lettera a Simpliciano. In seguito Rufino non dirà più nulla riguardo ad Alessandria. 31 GIROLAMO, Ep. 95, 1 (CUF 4, p. 160, l. 24 - p. 161, l. 2). 32 GIROLAMO, Ep. 88 (CUF 4, p. 143, ll. 14-19). 33 GIROLAMO, Ep. 95, 3 (CUF 4, p. 161, ll. 18-23). «Haec Sanctitati tuae pe r Eusebium presby te rum, qu i ca lorem f ide i ges tans e t amorem c i r ca
148
Tali affermazioni non danno a intendere che Anastasio abbia letto il Peri Archôn.
La lettera che invierà poco dopo a Venerio di Milano farà riferimento alle
«blasfemie» che Teofilo ha trovato nei «libri di Origene»34. La lettera a Giovanni di
Gerusalemme non lascia trasparire una migliore conoscenza dell’opera di Origene,
né della traduzione incriminata35. Dobbiamo quindi ritornare ai capitula rievocati
nella lettera a Simpliciano.
Sarei propenso a credere che questi fossero costituiti dalle tesi denunciate da
Girolamo nel suo Contro Giovanni di Gerusalemme36, indirizzato a Pammachio nel
397, tesi che non facevano altro che riprendere le accuse di Epifanio37. In ogni caso
sono stati in molti a notare che il punto che ha scatenato l’incidente di Milano38 non è
altro che la prima delle affermazioni trovate da Girolamo e presentate come tratte dal
Peri Archôn39. Rufino non collegherà la traduzione incriminata al Contro Giovanni,
che pur conosceva; tuttavia, oltre a permettere di riconoscere questa prima proposta,
lascia immaginare l’azione di Marcella. Quando Eusebio, infatti, lesse la «scedula»
interpolata, dinanzi ai dinieghi di Rufino, gli venne chiesto da chi avesse avuto
l’esemplare40. La matrona quaedam che glielo ha fornito e di cui Rufino non vuole
fare il nome è sicuramente Marcella, e questa, grazie ai legami con Pammachio, era
di sicuro al corrente dei rimproveri che Girolamo muoveva a Origene41.
Deum habens, quaedam capitula blasphemiae obtulit, quae nos non solum horruimus et iudicauimus, uerum et si qua alia sunt ab Origene exposita, cum suo auctore pariter a nobis scias esse damnata». 34 ANASTASIO, Ep. Dat mihi plurimum (PLS I, c. 791 C-D). 35 ANASTASIO, Ep. Probatae quidem (Ed. SCHWARTZ, A.C.O., V, 1, p. 3, ll. 18 sgg.). 36 GIROLAMO, Contra Iohannem, 7 (PL 23 [1845], c. 360 B-D). 37 GIROLAMO, Ep. 51, 4-6 (CUF 2, pp. 161-167). 38 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, I, 19-20 (CC 20, pp. 53-55). 39 GIROLAMO, Contra Iohannem, 7 (PL 23, c. 360 B): «Et primum, de libro Περί αρχών ubi loquitur: sicut enim incongruum est dicere quod possit Filius uidere Patrem ita inconueniens est opinari quod Spiritus Sanctus possit uidere Filium». Cfr. Ep. 51, 2 (CUF 2, p. 161, l. 29 - p. 162, l. 2). 40 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, I, 19 (CC 20, p. 54, ll. 41-46). 41 È plausibile che Eusebio, in quanto prete, fosse un richiedente più qualificato presso il vescovo di Roma rispetto a una vedova o a un laico conuersus. D’altro canto arrivava dalla Palestina. Girolamo afferma che la lettera di Teofilo andò a rafforzare la propria denuncia (Ep. 88 [CUF 4, p. 143, ll. 14-20]). Qual era questa denuncia? Quella che accompagnava la sua traduzione letterale – di cui
149
A dire il vero non possiamo sapere come si presentasse «l’esemplare» di Marcella.
Aveva forse individuato il passo preso di mira da Girolamo sulla «visione» e sulla
«conoscenza»? Aveva forse riportato a margine il capitulum di Girolamo? È difficile
saperlo. Non è nemmeno detto che l’«esemplare» in questione sia stato prodotto in
udienza; nel qual caso Rufino avrebbe potuto fornire informazioni ancora più
concrete. Certo, ha raccontato le cose piuttosto dettagliatamente, ma non mi sembra
che abbia capito il meccanismo del «montaggio». Mi limiterò a presentare il passo
controverso della traduzione42 così come lo trascrive Rufino, aggiungendo, a titolo
informativo, la «ricostruzione» del Peri Archôn che Kötschau ha proposto,
inserendovi la prima accusa del Contro Giovanni. Questa ha per lungo tempo falsato
la visione delle cose e la comprensione di questa pagina del Peri Archôn.
Il testo della traduzione di Rufino RUFINO, Apologia c. Hieronymum, I, 19 (CC 20, p. 51, ll. 32-37 e p. 53, ll. 3-6): Quod si requiras a me quid etiam de ipso Vnigenito sentiam, si ne ipsi quidem uisibilem dicam naturam Dei quae naturaliter inuisibilis est, non tibi statim uel impium uideatur esse uel absurdum; rationem quippe dabi-mus consequenter. Aliud est uidere aliud
Il testo falsificato RUFINO, Apologia c. Hieronymum, I, 19 (CC 20, p. 53, ll. 7-10):
(...) uideatur43 esse uel absurdum quia sicut Filius Patrem non uidet, ita nec Sanctus Spiritus Filium uidet44.
La ricostruzione (errata) di Kötschau ORIGENE, Peri Archôn, I, 1, 8 (ed. Kötschau, GCS, 22, p. 25, l. 15 - p. 26, l. 3):
(...) uideatur43 esse uel ab-surdum; rationem quip-pe dabimus consequen-ter. <Sicut enim in-congruum est d icere
non si fa parola né a Roma dinanzi ad Anastasio, né a Milano dinanzi a Simpliciano – o il Contra Iohannem del 397, che non aveva sortito alcun effetto su Siricio e viene brandito nuovamente contro Origene e Rufino? 42 Il passo incriminato di cui sopra, ripreso nella prima colonna, è contenuto nel Peri Archôn, I, 1, 8 (nell’edizione SIMONETTI-CROUZEL, SC 252, p. 108, ll. 274 sgg. e nota 36). Purtroppo la traduzione è inesatta. Bisogna infatti tradurre: «Se mi si chiede qual è la mia opinione anche sull’unigenito Figlio – riguardo alla questione della visione –, non bisogna, se dico che la natura divina, che è per natura invisibile, è invisibile anche per lui, non bisogna trovare ciò empio o assurdo. Forniremo una spiegazione logica: vedere è una cosa, conoscere un’altra. Essere visto e vedere appartiene ai corpi, essere conosciuto e conoscere alla natura intellettuale...». 43 Quanto precede non è contestato; presenta pertanto la medesima stesura dell’inizio della prima colonna dal testo completo. 44 Sfortunatamente Rufino non continua. 45 Questo passo proviene dal Contra Iohannem, 7 (PL 23, c. 360 B 2-4).
150
noscere: uideri et uidere corporum est, nosci et noscere intellectualis naturae est...
quod possit Filius uidere Patrem, ita inconueniens est opinari quod Spiritus sanctus possit uidere Filium>45. Aliud est ui-dere, aliud cognoscere...
Non occorre dimostrare che il testo che Rufino considera autentico (prima colonna)
è del tutto sufficiente di per sé e corrisponde alla perfezione, come spiegherà
ampiamente Rufino, al pensiero di Origene, che del resto conosciamo, sulla
differenza tra visione corporale e conoscenza intellettuale46. Origene era troppo
sensibile ai pericoli degli antropomorfismi47 per pensare a un intervento di Didimo,
come asserirà Girolamo48. D’altra parte l’inserimento di Kötschau, collocato lì dov’è
− indipendentemente dalla sua origine49 −, ripete inutilmente − e in modo così brusco
che si scredita da solo − quanto preparato con cautela nelle righe precedenti.
Resta da soffermarsi su ciò che Rufino definisce «falsificazione». Non vi è dubbio
alcuno che, letta al di fuori del proprio contesto, la frase diventi pericolosa o quanto
meno inopportuna. Tuttavia il senso non è affatto evidente. Prima di mostrarlo farò
notare, con rammarico, che Rufino non ha formalmente detto come si concatenava il
seguito del testo. In compenso ha forse indicato come egli leggeva il testo
interpolato. Bisogna leggere, infatti: «... Non deve sembrarti immediatamente empio
o assurdo che, così come il Figlio non vede il Padre, allo stesso modo lo Spirito
Santo non vede il Figlio»? Oppure: «Se dico che la natura di Dio, che, per natura, è
invisibile, non è visibile nemmeno all’unigenito Figlio, ciò non deve sembrarti
46 Cfr. H. CROUZEL, Origène et la «connaissance mystique» (Bruges-Paris, 1961), p. 96,
p. 380. 47 Cfr. ad esempio, nel Commento alla Genesi, 1, 26 (PG 12, c. 93 A-C), l’attacco contro
Melitone di Sardi. 48 GIROLAMO, Contra Rufinum, 2, 11 (ed. P. LARDET, SC 303, p. 128, ll. 66-70). 49 Nel Contra Iohannem, 7 Girolamo lo considera proveniente dal Peri Archôn, e lo
ripeterà nell’Ep. 124, 2 (CUF 7, p. 96, ll. 9 sgg.), ma più a mo’ di sintesi del pensiero di
Origene che non come citazione letterale, peraltro frequenti. Probabilmente, nel Contra
Iohannem, tale inserimento non rappresenta altro che la ripresa dell’Ep. 51, 2.
151
immediatamente empio o assurdo, poiché, così come il Figlio non vede il Padre, allo
stesso modo lo Spirito Santo non vede il Figlio»? In altre parole, il quia è
dichiarativo o causale? Rufino, rimandando Aproniano e Macario al testo che hanno
tra le mani50, consente di vedere la sua interpretazione, e la conoscenza dei dossier di
tesi imputate a questo o a quell’altro invita a pensare che il quia introduca
semplicemente, come ότι, un’affermazione. Non avremmo allora a che fare con uno
di quei capitula di cui parlava Anastasio riguardo a Eusebio?
***
Dobbiamo ritornare su Gaudenzio e sul testo dei due frammenti. Innanzitutto è
verosimile che il vescovo di Brescia fosse presente a Milano, quando fu sostenuta
l’accusa contro Origene e contro Rufino − indirettamente anche contro Giovanni di
Gerusalemme −. Il vescovo di Milano aveva, come ai tempi di Ambrogio, riunito
intorno a sé i propri vescovi51. In ogni caso, nella sua lettera a Venerio, Anastasio
lascia ben intendere che tutta l’Italia settentrionale è chiamata in causa. Anastasio
traccia per lui la cronistoria della resistenza della regione alle persecuzioni ariane52,
prima di rievocare Origene e ricordare che aveva domandato a Simpliciano di
comunicare agli altri vescovi la sua condanna di Origene53. Certo, si può
argomentare che non si tratta di un sinodo; ma si può parimenti rispondere che questa
seconda lettera non sarebbe stata necessaria, se Simpliciano si fosse limitato a
convalidare la condanna contenuta nella lettera 95. A dire il vero, tra l’altro, la lettera
95 non conteneva nessun invito formale a trasmettere la condanna nell’Italia
settentrionale. Il vescovo di Roma rispetta le regole che vogliono che non si
condanni un assente (in questo caso Rufino) e che si lasci la decisione ai
50 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, I, 19 (CC 20, p. 54, ll. 46-50). 51 La questione è analoga a quella di Gioviniano: Siricio aveva trasmesso ad Ambrogio
la condanna di Gioviniano e dei suoi, mentre questi giungevano a Milano e alla Corte;
Ambrogio e il suo sinodo emettono a loro volta una condanna, che motivano e inviano a
Siricio. Tra il 380 e il 395 sono frequenti questi sinodi di vescovi riuniti a Milano intorno
ad Ambrogio. Se conoscessimo meglio l’episcopato di Simpliciano, diremmo che questi
doveva festeggiare l’anniversario del suo episcopato in aprile. 52 ANASTASIO, Ep. Dat mihi plurimum (PLS I, c. 791 A-C). 53 Ibid. (c. 791 C - 792 B).
152
vescovi della provincia o del capoluogo in cui risiede l’imputato54. Nel nostro caso
né la formazione intellettuale di Simpliciano né il recente passato della sede di
Milano invitavano a seguire, senza ulteriori indagini, una decisione presa a Roma.
D’altra parte, rievocando le persecuzioni ariane55, Anastasio consente di cogliere
ancora meglio l’importanza delle affermazioni rimproverate a Origene sulla non-
«visione» del Padre da parte del Figlio. Traspariva da queste affermazioni una prova
dell’inferiorità del Figlio e dello Spirito e, di conseguenza, Origene appariva come
predecessore di Ario. Si poteva probabilmente asserire ciò senza tenere minimamente
conto dello sviluppo storico; ma di certo non con l’aiuto di questo testo. Ad ogni modo
né Rufino, né Girolamo erano attaccabili su questo punto. Tutto il loro passato di
italiani del nord li metteva in guardia contro ogni minimo sospetto «di arianesimo».
Rufino era prevenuto a causa del modo in cui Girolamo aveva attaccato le «ambiguità»
di Giovanni di Gerusalemme, sia sull’uguaglianza tra Padre e Figlio56, sia sulla
resurrezione della carne57. Da qui la precauzione che adotta nella Prefazione alla sua
traduzione dell’Apologia di Panfilo esponendo il proprio Credo, insistendo al tempo
stesso sulla Trinità coeterna e sulla resurrezione della carne58. Non soltanto respinge le
affermazioni di Girolamo sull’uso della parola corpo al posto della parola carne59,
bensì dichiara che quella è la sua Professione di fede, nonché quella di Giovanni di
Gerusalemme60. Allo stesso modo la Prefazione ai primi due libri del Peri Archôn è
attenta a proteggere Origene da ogni sospetto, «spiegando», secondo la tesi del De
adulteratione, che Origene non ha potuto fare le affermazioni che si trovano talvolta
nelle sue opere61. Rufino aggiunge: «Ho lanciato questo monito nella Prefazione,
affinché i calunniatori non pensino di aver nuovamente (iterum) trovato materia d’accusa»62.
54 Rufino non risiedeva a Milano, dov’è tuttavia andato, convocato probabilmente da
Simpliciano. Con ogni probabilità ha potuto contare sull’appoggio di Cromazio, per non
parlare dei Laurentius e dei Jobinus, ai quali dedicherà una delle sue opere o traduzioni. 55 Tutta la prima parte della lettera a Venerio, circa metà del testo. 56 GIROLAMO, Contra Iohannem, 9 (PL 23, c. 362 B-D). 57 Ibidem, 27-28 (c. 379 A - 380 C). 58 RUFINO, Prologus in Apologeticum Pamphili (CC 20, p. 233, ll. 24 sgg.). 59 Ibidem (p. 234, ll. 30-38). 60 Ibidem (p. 234, ll.47-49). 61 RUFINO, Prefazione alla traduzione del Peri Archôn, 3 (CC 20, p. 246, ll. 40-61). 62 Ibidem, 4 (p. 246, ll. 62-64).
153
Spiegherà, nell’Apologia contro Girolamo, che questo nuovamente si ricollegava
all’accusa formulata contro Giovanni l’anno precedente63.
Fatta eccezione per l’ultima, queste affermazioni precedono il processo di Milano.
Gaudenzio di Brescia, che conosceva sia Rufino sia Giovanni di Gerusalemme64,
sarebbe forse intervenuto presso Girolamo, che aveva probabilmente incontrato
anche durante il viaggio in Oriente intorno al 390? Era noto che Cromazio65 fosse
intervenuto presso Girolamo nel 401, nel qual caso gli estratti del Liber ad Papam
Gaudentium − che forse non era altro che una lunga lettera − mostrerebbero che
Girolamo è stato in contatto, a quel tempo, anche con il vescovo di Brescia.
Ma bisogna andare oltre, e altrove: le rubriche del manoscritto di Autun consentono
di scoprire il motivo celato dietro al Liber; queste probabilmente non rappresentano
«l’apologia» − o l’attacco − che Girolamo poteva sostenere in un simile scritto. È
verosimile, infatti, che Girolamo non potesse riconoscere così facilmente
63 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, I, 16 (CC 20, p. 49, ll. 14-21). 64 Sappiamo grazie a Gaudenzio (Tr. 17, 14 – Ed. A. GLÜCK, CSEL 68, p. 144, ll. 102-104) che è andato a Gerusalemme. Questo viaggio si colloca tra il 386-387 (anni in cui Filastro di Brescia è ancora in vita, stando alla testimonianza di Agostino) e il 397, data della morte di Ambrogio, che ha consacrato Gaudenzio al ritorno affrettato dal pellegrinaggio (Tr. 16, 2-3 - pp. 137-138). Poiché la morte di Filastro avviene nel mese di luglio (Tr. 21, 14 - p. 188), si può considerare il 396 come terminus ante quem, anche se è possibile risalire di ancora un anno almeno, perché Gaudenzio predica a Milano un 29 giugno precedente al 397. Sia nel 396, sia nel 395, Rufino è ancora a Gerusalemme. Gaudenzio ha forse viaggiato con Silvia? Sappiamo che Gaudenzio era in rapporti di amicizia con Silvia, cognata del Prefetto del Pretorio d’Oriente, Rufino († alla fine del 395), la quale lascia Gerusalemme per Alessandria nel 399-400, per ritornare poi in Italia, a Brescia. Forse Silvia era arrivata a Gerusalemme nel 395-6, come sua sorella, visto che ha avuto il tempo di fare la conoscenza di Rufino. Questi le prometterà di tradurre le Recognitiones di Clemente, di cui Gaudenzio sarà il dedicatario «iure hereditario» (Clementis Recognitiones, Praef. – CC 20, p. 281, ll. 5-10). Essa è già morta quando Rufino traduce il Commento alla Lettera ai Romani di Origene (Postface, CC 20, p. 277, ll. 41-45: «... quod olim quidem iniunctum est, sed nunc a beato Gaudentio episcopo uehementius perurguetur»), nel 404; ma è ancora in vita al tempo dell’Ep. 31 di Paolino di Nola, solitamente datata 403. Probabilmente è ritornata dall’Oriente tra il 400 e il 403; forse Rufino le ha fatto visita a Brescia. Sull’odissea di Silvia cfr. P. DEVOS, Silvie la Sainte Pèlerine, in A.B. 91 (1973), pp. 105-120 (I. En Orient); 92 (1974), pp. 321-341 (II. En Occident). Silvia è legata a Melania l’Anziana, il che spiega i buoni rapporti con Rufino. Ma Gaudenzio legge Girolamo e non è potuto andare a Betlemme senza vederlo, specie se il viaggio è precedente al 393. Nel suo sermone su Pietro e Paolo, tenuto a Milano nel giugno del 396 al più tardi, utilizza il De uiris di Girolamo, datato 393 (Tr. 20, 5 - p. 182, ll. 87 sgg.). 65 GIROLAMO, Contra Rufinum, 3, 2 (SC 303, p. 218, ll. 23-27).
154
che Eusebio di Cremona fosse un calumniator, dato che l’uso comune del verbo era,
a quel tempo, alla forma deponente66, né che avesse davvero «falsificato» le schedae
di Rufino. Il terzo libro del Contro Rufino si sforzerà di mostrare che la
presentazione da parte di Rufino dell’incidente di Milano non regge all’analisi67. In
realtà Girolamo non sembra aver compreso meglio di Rufino come si spiegasse
l’interpolazione, così come ho cercato di ricostruirla sopra68. Forse placherà Eusebio,
non sembra averlo condannato, e questi si ritroverà presto uno sporco lavoro da
compiere, forse per zelo religioso, ma anche con molta cecità.
Viene da chiedersi se, per quanto siano mutuati, forse, da un «libro di Girolamo»,
questi frammenti non rappresentino il pensiero di Rufino come quello di Girolamo, se
non di più. Ciò spiegherebbe senza alcuna difficoltà come le affermazioni che
figurano nei due frammenti possano presentare così tante somiglianze con alcune
pagine realmente appartenenti a Rufino. Meyvaert ha rilevato alcune di queste
somiglianze e ritiene di poterle spiegare mediante la conoscenza da parte di Rufino,
nel 400-401, di questo Liber di Girolamo, che risale, a suo avviso, a un periodo
precedente il 393. Rufino avrebbe «provato piacere nel mutuare le parole di Girolamo
per aiutarsi a definire la propria opinione, senza citare direttamente il nome di
Girolamo»69.
Non reputo affatto Rufino incapace di simili sottigliezze. Il suo modo di chiamare in causa
Girolamo nella Prefazione alla traduzione del Peri Archôn è un esempio eclatante. Ne
conosco di meno evidenti che confermerebbero la supposizione di Meyvaert. Tuttavia, in
questo caso, mi pare che Rufino abbia ripetuto troppo spesso il proprio Credo perché si
debba attribuire ogni volta la formulazione a Girolamo, e a un Girolamo che, prima del 393,
66 Si trova, beninteso, usato anche al passivo. L’uso al passivo in Rufin, Apol. c.
Hieronymum, I, 9, 3, segnalato da M. Simonetti, non mi sembra accertato, di fronte a
molteplici casi di uso alla forma deponente, riguardo a Girolamo e a Eusebio di
Cremona: I, 5, 16; I, 13, 13; I, 16, 6; I, 19, 12. Si tratta sempre di false accuse, secondo la
definizione del Digeste (48, 16, 1, 1): «Calumniari est falsa crimina intendere». 67 GIROLAMO, Contra Rufinum, 3, 3-5. 68 Questo punto meriterebbe di essere trattato con maggiore attenzione, ma ci
allontanerebbe troppo dai nostri frammenti. 69 P. MEYVAERT, Art. laud., p. 215.
155
se non addirittura prima del 395, non si è mai preoccupato della questione della «visione» del
Padre da parte del Figlio70.
La prima Professione di fede di Rufino figura nella Prefazione alla sua traduzione
dell’Apologia di Panfilo, dopo una citazione di Romani, 10, 10, «Corde creditur ad
iustitiam, ore autem confessio fit ad salutem», collocata sotto l’inizio (l. 6) del primo
frammento trovato da P. Meyvaert71:
... Nos autem, sicut traditum nobis est a sanctis patribus, ita tenemus quod sancta Trinitas coaeterna sit et unius naturae uniusque uirtutis atque substantiae et quod Filius Dei in nouissimo tempore homo factus est et pro peccatis nostris passus est et in ea ipsa carne in qua passus est resurrexit a mortuis, propter quod et resurrectionis spem humano generi tribuit. Carnis uero resurrectionem, non per aliquas praestigias, sicut nonnulli calumniantur, dicimus, sed hanc carnem in qua nunc uiuimus resurrecturam credimus...72.
È qui che Rufino attacca l’accusa (di Girolamo) di distinguere corpo e carne,
affermando che bisogna credere in una «resurrectio carnis integrae atque perfectae»73.
Chiaramente, in questa occasione, Rufino non ha intenzione di soffermarsi sulla
propria fede trinitaria.
La situazione fondamentalmente non è cambiata al tempo dell’Apologia ad
Anastasio; ma il «genere letterario» della Professione di fede dinanzi a un giudice
richiede una trattazione più dettagliata74, specie riguardo agli articoli contestati o
scottanti. Rufino sa di essere attaccato75 sulla resurrezione della carne, sul giudizio e
sulla salvezza del Diavolo, nonché sull’anima. Proprio a questi punti riserva le
70 La sola e unica menzione precedente al 399 si trova nel Contra Iohannem, 9, risalente al 396-397. 71 Segnalo, senza accordargli troppa importanza, che Gaudenzio utilizza questo testo (Tr. 16, 11 - p. 140, ll. 85-87). 72 RUFINO, Prologus in Apologeticum Pamphili Martyris pro Origene (CC 20, p. 233, l. 24 - p. 234, l. 33). 73 Ibidem (p. 234, ll. 34-45). 74 Non credo che Rufino segua un protocollo romano, come sostiene chi ha voluto spiegare le somiglianze tra il De fide di Bachiarius e l’Apologia di Rufino. 75 Audiui, dichiara all’inizio Rufino (§ 1); l’articolo sulla resurrezione (§ 4) rievoca le calunnie, quello sul giudizio del Diavolo (§ 5) allude a chi accusa i propri fratelli; per quanto concerne l’anima spetta a «Audio et de anima quaestiones esse commotas» (§ 6), prima che un ultimo Audio riguardi la traduzione del Peri Archôn. Nessun’allusione a un’eventuale accusa sulla Trinità.
156
trattazioni più lunghe, mentre sorvola piuttosto rapidamente sui primi articoli76.
Tuttavia questi sono trattati in maniera analoga a quanto si può trovare nei due
frammenti del manoscritto di Autun, fatta eccezione per la questione della visione.
(2) ... de Trinitate ita credimus quod unius naturae sit, unius deitatis, unius eiusdemque uirtutis atque substantiae, nec inter Patrem et Filium et Spiritum sanctum sit prorsus ulla diuersitas, nisi quod ille Pater est et hic Filius et ille Spiritus Sanctus, trinitas in subsistentibus personis, unitas in natura atque substantia. (3) Filium quoque Dei in nouissimis diebus natum esse confitemur ex Virgine et Spiritu Sancto, carnem naturae humanae atque animam suscepisse in qua et passus est et sepultus et resurrexit a mortuis, in eadem ipsa carne resurgens quae deposita fuerat in sepulchro; cum qua carne simul atque anima post resurrectionem ascendit in caelos unde et uenturus expectatur ad iudicium uiuorum et mortuorum. (4) Sed et carnis nostrae resurrectionem fatemur integre et perfecte futuram, huius ipsius carnis in qua nunc uiuimus. Non, ut quidam calumniantur, alteram pro hac resurrecturam dicimus, sed hanc ipsam77...
Il seguito verte sulla natura della carne resuscitata, prima di passare al giudizio e, in
particolare, alla condanna del Diavolo. Di nuovo Rufino, che ignora ciò che si sta
preparando a Milano, non intende mantenersi sul piano trinitario.
Invece l’Apologia contro Girolamo, ora che è sopraggiunta la controversia di
Milano, si sofferma relativamente di più sulla Trinità − e in particolare sulla visione
del Padre da parte del Figlio − che non sulla resurrezione e sul giudizio del Diavolo.
P. Meyvaert ha trovato la prima menzione già nel capitolo 4, ben prima che venga
narrato l’incidente di Milano78. Rufino fa appello ai propri catechisti, Cromazio,
Giovino ed Eusebio, dichiarando:
Illi ergo sic mihi tradiderunt et sic teneo Quod Pater et Filius et Spiritus Sanctus unius deitatis sit uniusque substantiae, coaeterna, inseparabilis, incorporea, inuisi-bilis, inconprehensibilis Trinitas et sibi soli, ut est, ad perfectum
76 Nell’edizione di M. Simonetti i paragrafi hanno, rispettivamente, la seguente
lunghezza: 6 righe sulla Trinità, 7 righe sull’Economia, 12 righe sulla resurrezione della
carne, 10 righe sul giudizio, 18 righe sull’anima. 77 RUFINO, Apologia ad Anastasium, 2-4 (CC 20, p. 25, l. 5 - p. 26, l. 4). 78 P. MEYVAERT, Art. laud., p. 215.
157
nota, quia «Filium nemo nouit nisi Pater, neque Patrem quis nouit nisi Filius» (Mat. 11, 27) et «Spiritus Sanctus est qui scrutatur etiam alta Dei» (1 Cor. 2, 10). Et ideo caret quidem omni uisibilitate corporea, sed intellectuali illi deitatis oculo sic uidet Patrem Filius et Spiritus Sanctus sicut Pater uidet Filium et Spiritum Sanctum. Nec est prorsus ulla in Trinitate diuersitas nisi quod ille Pater est et hic Filius et ille Spiritus Sanctus, trinitas in personarum distinctione, unitas in ueritate substantiae. Et quod unigenitus Filius Dei, per quem a principio omnia quae sunt facta sunt, siue uisibilia, siue inuisibilia, in nouissimis diebus, carne et anima humana suscepta, homo factus et passus est pro salute nostra, et tertia die suscitata illa ipsa carne quae posita fuerat in sepulchro resurrexit a mortuis et cum ipsa eadem glorificata ascendit ad caelos unde et expectatur uenturus ad iudicium uiuorum et mortuorum. Sed et simili modo nobis quoque spem resurrectionis dedit, ut eodem ordine, eadem consequentia, pari eademque forma qua ipse Dominus resurrexit a mortuis, nos quoque resurrecturos esse credamus, non nubes et auras tenues ut calumniantur, sed haec ipsa in quibus nunc uel uiuimus uel morimur nostra corpora recepturi. Nam, quomodo uerum erit quod resurrectionem credimus, nisi in ea uerae et integrae carnis natura seruetur? Absque ullis ergo praestigiis, uerae et integrae carnis huius nostrae in qua nunc sumus resurrectionem fatemur...79.
Anche qui Rufino tratta in seguito ciò che riguarda la resurrezione della carne, al
punto di trovare lunga la sua confutazione di Girolamo80. Ma si sarà notata la prima
menzione della «visione» del Padre da parte del Figlio, sebbene Rufino − ed è lecito
dubitarne − attribuisca questo «Credo» alla catechesi di Aquileia una trentina di anni
prima. È questa la principale novità di tale Professione di fede, i cui termini sono
molto spesso identici a quelli dei due testi precedenti.
In compenso la questione della «visibilità» del Padre viene affrontata a
proposito del Peri Archôn. Rufino inizia con lo spiegare che Origene attaccava
principalmente i Valentiniani e gli Antropomorfiti81 − proprio come nei nostri
frammenti − e si preoccupava di difendere l’incorporeità divina. Rufino cita la
pag ina d i Or igene secondo l a p ropr ia t r aduz ione 82 e l a commenta 83,
79 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, I, 4 (CC 20, p. 39, ll. 12-40). 80 Ibidem, I, 5-9 (pp. 40-43 e l’osservazione a p. 43, ll. 1-3). 81 Ibidem, I, 17 (p. 50, ll. 6-15); 18 (p. 52, ll. 11 sgg. e 23-25). 82 Ibidem, I, 17 (p. 50, ll. 17-54). 83 Ibidem, I, 18 (pp. 50-51).
158
prima di far riferimento alla falsificazione che era stata fatta e che venne fuori
durante l’udienza di Milano84. Dopo aver rimandato Aproniano e Macario al testo
autentico, Rufino termina con alcuni anatemi, che si avvicinano molto a quelli dei
nostri frammenti:
Si qui negat quod non ita uidet Filius Patrem sicut Pater Filium et non ita uidet Spiritus Sanctus Filium et Patrem sicut uidet Pater Filium et Spiritum Sanctum, anathema sit. Videt enim et uerissime uidet, sed ut Deus Deum et Lux Lucem et non ut caro carnem sed ut spiritus spiritum, non corporeis sensibus sed uirtutibus deitatis. Si qui haec negat, sit anathema in aeternum...85.
Ritroviamo qui non soltanto l’uso generale del verbo vedere, ma anche la
precisazione che si tratta di una visione spirituale, incorporea, «ut Deus Deum et Lux
Lucem». Rufino preferisce usare il verbo vedere piuttosto che conoscere, per evitare
qualsiasi sospetto.
Tuttavia non è l’ultima volta che Rufino si occuperà di tale questione. La sua
Expositio Symboli contiene, riguardo all’articolo sulla «santa Chiesa», un elenco di
false chiese, con la menzione dei loro errori. Alle eresie note Rufino aggiunge una
serie di errori che Girolamo avrebbe definito «origeniani», da cui egli prende le
distanze, chiedendosi se queste chiese siano rette da qualcuno:
... Has ergo omnes (falsas ecclesias), uelut congregationes malignantium (Ps. 1, 2) fuge. Sed et eos, si qui illi sunt, qui dicuntur adserere quod Filius Dei non ita uideat uel nouerit Patrem sicut ipse noscitur et uidetur a Patre, uel regnum Christi esse finiendum, aut carnis resurrectionem non integra naturae suae substantia reparandam, futurum Dei iustum erga omnes negare iudicium, diabolum debita absoluere damnatione poenarum, ab his, inquam, omnis fidelis declinet auditus. Sanctam uero ecclesiam tene, quae Deum Patrem omnipotentem et unigenitum Filium eius Iesum Christum Dominum nostrum et Sanctum Spiritum concordi et consona substantiae ratione profitetur,
84 Ibidem, I, 19 (p. 53, ll. 1-10). 85 Ibidem (p. 54, ll. 52-59).
159
Filiumque Dei natum ex Virgine et passum pro salute humana ac resurrexisse a mortuis in eadem carne qua natus est credit, eundemque uenturum iudicem omnium sperat, in qua et remissio peccatorum et carnis resurrectio praedicatur86.
Subito al principio figura l’errore sulla «visione» − o sulla «conoscenza» − del
Padre e non si tarda a ritrovare quello sulla resurrezione della carne, sotto il
medesimo aspetto che era controverso da una decina d’anni. La parte positiva
dell’esposizione è più vicina all’ordinario svolgimento di un Credo. Se nel testo di
cui sopra la resurrezione della carne viene appena citata, è perché Rufino si appresta
a parlarne ex professo nelle pagine successive87. In realtà questo semplice cenno è
soltanto di transizione.
Si troverà nelle pagine seguenti un appello al Credo di Aquileia, che precisava:
«huius carnis resurrectio»88. È la formula che si ritrova nei nostri due frammenti,
come pure nell’Apologia ad Anastasio, 4, e nell’Apologia contro Girolamo, I, 5. P.
Meyvaert attribuisce la precisazione contenuta nei frammenti al fatto che Girolamo
ha risieduto ad Aquileia, e sostiene che Rufino rievoca indirettamente a Girolamo un
simbolo che deve conoscere89. Certamente. Ma non sarebbe più semplice pensare che
sia Rufino il vero autore di tali frammenti, sebbene questi appartengano, forse, a
un’opera di Girolamo?
Mi sembra che un’analisi dettagliata del vocabolario inviti a pensarlo, nonostante le
trascurabili somiglianze che comporta, almeno da un lato, l’esposizione dogmatica90.
Tuttavia credo sia più illuminante ricorrere a elementi apparentemente più marginali,
tanto più che potrebbero costituire temibili obiezioni all’attribuzione dei frammenti a
Rufino.
86 RUFINO, Expositio Symboli, 37 (CC 20, p. 173, l. 54 - p. 174, l. 68). 87 Ibidem, 39-45. 88 Ibidem, 41 (p. 177, ll. 17-25); 43 (p. 179, l. 2). 89 P. MEYVAERT, Art. laud., p. 216. In ogni caso tale argomentazione non vale sul piano trinitario; le precisazioni di Rufino a tal riguardo compaiono solo dopo la questione di Milano. 90 Espressioni quali adsertio fidei, traditio fidei, traditio ecclesiae, regula fidei, traditionis regula, fidei professio, differentia Trinitatis sono lungi dall’essere rare in Rufino. Ritroviamo anche l’anathema in aeternum (Apol. c. Hieronymum, I, 19 - CC 20, p. 54, ll. 58-59).
160
Non ritornerò sui Valentiniani e sugli Antropomorfiti del primo frammento. Per
cominciare m’interrogherò sull’inizio del secondo frammento, sulla menzione di un
aemulus e del suo obliuio volontario, che obbliga chi scrive a enunciare «una nuova
volta» la propria Professione di fede. Abbiamo visto Rufino fare appello più volte
alla propria Professione di fede ed esporla anche laddove non richiesta. Quella del
nostro frammento non costituirebbe forse un’ulteriore esposizione? Ora, che cosa
rimprovera Rufino ai nemici di Origene e ai propri detrattori, se non l’inuidia e il
liuor? Questo è quanto dichiara ad Anastasio91; ma le due Prefazioni al Peri Archôn
denunciavano già gli obtrectatores e i peruersi et contentiosi homines92 e, prima
ancora, Rufino aveva ricordato che il Diabolus è padre di coloro che accusano i
propri fratelli93. Lo ripete a Girolamo, in merito all’incidente di Milano e alla falsa
accusa formulata contro di lui94. In compenso, benché Girolamo abbia dovuto
difendersi contro l’aemulatio e si sia visto accusato di una simile colpa95, che io
sappia non ha mai accusato Rufino di aemulatio, mentre ha negato di provare
gelosia per lo scarso talento del suo vecchio amico.
Vi sarebbe una seconda obiezione alla «candidatura» di Rufino, la fine del secondo
frammento: Rufino avrebbe potuto parlare in quel modo di Origene? In realtà, se va
riconosciuta in questo passo, secondo P. Meyvaert, un’allusione a Gal. 1, 8, bisogna
prima vedere la progressione dell’anatematismo che da Origene arriva all’angelo
passando per l’Apostolo. È certamente possibile che Rufino stia pensando alle
rigidissime affermazioni del Contro Giovanni96, ma è parimenti opportuno tenere
conto delle altre affermazioni di Rufino. Ora, che si tratti dell’Apologia ad Anastasio
o dell’Apologia contro Girolamo, Rufino ha sempre voluto separare il proprio caso
da quello di Origene, riservando quest’ultimo al giudizio di Dio.
91 RUFINO, Apol. ad Anastasium, 8 (p. 28, ll. 5-8). 92 De Principiis, Praef. in Librum I, § 4 (CC 20, p. 246, ll. 62 sgg.) – Cfr. Apol. c.
Hieronymum, II, 35 (p. 110, ll. 1-3). 93 RUFINO, De adulteratione, 16 (CC 20, p. 17, ll. 14-18). 94 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, I, 16 (CC 20, pp. 48-49, ll. 5-12, con un Et iterum ac
saepius audiant che si avvicina al nostro iterum ac saepius repeto, riga 25-26); I, 19 (p.
54, l. 41). 95 Cfr. il mio Pélage est-il le censeur, pp. 540-555. 96 GIROLAMO, Contra Iohannem, 8 (PL 23 [1845], c. 361 C-D).
161
Scrive al Papa di Roma: «Origenis ego neque defensor sum neque adsertor neque
primus interpres»97. In merito alla traduzione del Peri Archôn dichiara: «Ego nunc
nihil pro Origene ago nec Apologeticum pro ipso scribo. Siue enim stat apud Deum
siue lapsus est, ipse uiderit: suo Domino stat aut cadit (Rom. 14, 4)»98. Fa notare
poco più avanti che ha avuto cura di esporre innanzitutto la propria fede, prima di
tradurre le opere di Panfilo e di Origene99. Tali precauzioni possono apparire sospette
e faranno arrabbiare Girolamo, non sempre a torto; tuttavia, come ricorderà Rufino,
non è lui bensì Girolamo ad aver osannato Origene e ad averlo definito apostolo,
profeta e simili100. Abbiamo visto che Rufino condannava nell’Expositio Symboli non
soltanto qualsiasi inferiorità nella Trinità o qualsiasi falsa resurrezione della carne,
ma anche le tesi più comunemente attribuite a Origene: la fine del regno di Cristo e il
perdono concesso al diavolo101. Non stupiamoci dunque se questo frammento
preferisce attenersi alla «regola di fede» emanata dalla «tradizione della Chiesa»,
piuttosto che credere a qualsiasi altra predicazione, che sia quella di Origene, di un
Apostolo o addirittura di un Angelo. Rufino sarebbe solo coerente con sé stesso.
***
Non bisogna dimenticare che il manoscritto 3 di Autun è un Evangeliario
− famoso in quanto tale − e che i nostri due frammenti inquadrano, da un
lato, la Lettera di Girolamo a Damaso sulla traduzione dei Vangeli e una
parte della Prefazione del suo In Matthaeum separate dal Prologo
«monarchico» su Matteo e, dall’altro lato, l’insieme dei canoni sui quattro
Vangeli . Regna un certo «disordine» in questi primi quindici fogli 102.
97 RUFINO, Apol. ad Anastasium, 7 (p. 28, ll. 17-18). 98 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, I, 10 (CC 20, p. 43, l. 7 - p. 44, l. 9). 99 Ibid., 12 (p. 45, ll. 1-5). 100 Ibid., 16 (p. 49, ll. 39-43). 101 RUFINO, Expositio Symboli, 37. 102 Dopo il titolo iniziale, che annuncia, formulati in maniera quanto meno maldestra, i
«Canones uel Prologi libri huius euangelii», troviamo una tavola dei pesi e delle misure (Ratio
ponderum omnium), seguita da un conteggio degli anni da Adamo a Cristo (Ratio annorum ab
Adam usque ad Christum). È qui che si collocano il primo frammento (Excerpta de libro sancti
162
Ciò che ha interessato chi ha adottato i due frammenti è probabilmente il contenuto
dogmatico. Ma ben poco è stato detto circa il contesto nel Liber di origine.
Questi frammenti sollevano più interrogativi di quanti ne risolvano. Vanno
paragonati a quella che è stata a lungo chiamata la «Fides Rufini», all’inizio della
Collectio Palatina, «attribuita» a Rufino di Aquileia o a Rufino il Siriano, quando
invece l’autore della collezione probabilmente confondeva l’uno con l’altro103.
Se si accettano le indicazioni delle rubriche, siamo di fronte a due frammenti di un
«Libro di Girolamo», indirizzato a Gaudenzio di Brescia. L’analisi del contenuto ha
mostrato che l’opera va fatta risalire agli anni 400-405, periodo che segue l’incidente
di Milano, non lontano dagli eventi legati alle questioni trattate nei frammenti, in
particolare alla questione della «visione» del Padre da parte del Figlio.
Forse bisognerebbe tagliar la testa al toro e attribuire questi frammenti, e con ogni
probabilità il «Liber» stesso, a Rufino, il quale poteva così, mediante la dedica a un
vescovo rinomato, mettersi al riparo da un certo numero di attacchi. Ricordiamo che
Gaudenzio sarà uno dei «legati» occidentali inviati a Costantinopoli nel 405 durante
il caso di Giovanni Crisostomo104. L’elogio che tesse di lui Rufino nella Prefazione
alla traduzione delle Recognitiones è probabilmente interessato105, ma i sermoni del
vescovo sono lungi dall’essere trascurabili.
C’è forse da meravigliarsi che un «libro» di Rufino ci sia giunto sotto il
nome di Girolamo? Il nostro manoscritto è della metà dell’VIII secolo;
Hieronimi presbyteri) e la successione indicata nel testo di cui sopra. Il «disordine» proviene
unicamente dal fatto che la Prefazione a Damaso e i Canoni riguardavano tutti e quattro i
vangeli, e non soltanto Matteo? Al contrario l’ordine è regolare per gli altri tre vangeli, con
in testa, ogni volta, il frammento dei «Prologhi monarchici». 103 Questa serie di anatematismi, tra cui la rubrica finale intitolata «De fide de nomine
Rufini», contiene un anatematismo sulla «visione»: «Qui dicunt quolibet modo et quolibet
sensu Filium Patrem non uidere, anathema sint» (§ 6 - Ed. SCHWARTZ, A.C.O., V, 1, p. 5). 104 PALLADIO, Dialogo sulla vita di Giovanni Crisostomo, 4. È importante tener conto di
quest’assenza di Gaudenzio ai fini della datazione dell’opera sia di Rufino, sia di Girolamo.
Difendere Giovanni Crisostomo, infatti, non conveniva affatto al traduttore di Teofilo. 105 RUFINO, Prologus in Clementis Recognitiones (CC 20, p. 281, ll. 1-5). Gennadio, oltre
alle traduzioni di Rufino non pervenuteci, è a conoscenza di «numerose lettere» morali (De
uiris illustr., 17). Una lettera a Gaudenzio potrebbe essere scomparsa, così come le lettere di
Rufino a Girolamo.
163
a quel tempo la traduzione di Rufino delle Omelie sull’Ottateuco di Origene circola
già sotto il nome di Girolamo106. Ogni testo ha la sua storia. Molti sono andati
distrutti, altri hanno cambiato bandiera. Ma anche sotto falsa bandiera, qualsiasi
nuovo testo apporta informazioni preziose e consente di comprendere meglio il
passato, per quanto questo comporti lidi sconosciuti o mal conosciuti.
Yves-Marie DUVAL.
(Università di Poitiers, 1987)
P.S. − Paul Meyvaert, a cui è stato inoltrato questo studio, ha non soltanto dato il proprio
consenso per l’attribuzione a Rufino, ma ha anche richiesto che venga menzionato questo
pieno consenso alla fine dell’articolo. Tengo a ringraziarlo, a nome mio e di tutti coloro che
s’interessano a Rufino e a Girolamo, per averci fatto scoprire questi due preziosi frammenti.
106 W.A. BAEHRENS, Überlieferung und Textgeschichte des lateinischerhaltenen
Origeneshomilien zum Alten Testament (T.U. 42, 1 [Leipzig, 1916]), pp. 74, 121-122,
130. Forse sotto l’influenza di Cassiodoro; cfr. il mio Cassiodore et Jérôme: de
Bethléem à Vivarium, in Flavio Magno Aurelio Cassiodoro (Atti della Settimana di
Studi, Cosenza-Squillace, 19-24 settembre 1983 [Cosenza 1986], pp. 344 sgg.
164
SULPICIO SEVERO
TRA RUFINO DI AQUILEIA E GIROLAMO
NEI DIALOGHI, 1, 1-9
Nel 1960, in un periodo in cui non ci si era ancora del tutto liberati del ritratto di un
Martino semplice copia di Antonio, abbozzato nel 1912 da E.-Ch. Babut, Dom
Gribomont, in occasione del XVI Centenario della fondazione di Ligugé, ha scritto
su Sulpicio Severo uno studio che considero ancora oggi uno dei migliori che
esistano, in particolare per i Dialoghi1. Sicuramente la questione martiniana si è
evoluta notevolmente in questa trentina d’anni2 e più di uno studio corretto è stato
dedicato alle pagine dei Dialoghi che vorrei qui riprendere3; tuttavia mi sembra che, oltre alle
1 J. Gribomont, L’influence du monachisme oriental sur Sulpice Sévère, in Saint Martin et son temps [Studia Anselmiana, 46] Roma 1961, pp. 135-149 e in particolare pp. 141-147 per i Dialoghi. Tutti i rimandi si riferiscono all’edizione di C. Halm, CSEL 1, Vienne 1866, in attesa di una nuova edizione. 2 È forse necessario ricordare i titoli della quindicina di studi di J. Fontaine che ha accompagnato l’edizione commentata della Vita Martini del 1967-1969 (SCh 133, 134, 135) e ha portato a rivedere l’approccio alla questione martiniana? Mi limiterò a rimandare alla bibliografia delle opere di Fl. Ghizzoni e di Cl. Stancliffe, citate nella nota seguente, che forniscono un elenco considerevole. 3 Mi riferisco all’articolo di G.K. Van Andel (Sulpicius Severus and Origenism, in VigChr 34 [1980] 278-287), che porta avanti un’osservazione di J. Fontaine (SCh 135, pp. 981-985). Ma è l’opera di Cl. Stancliffe (St Martin and His Hagiographer, Oxford 1983) ad avermi spinto a riaprire il dossier che avevo redatto prima del 1970. Ho già svelato una parte della mia risposta nella recensione da me scritta nella REL 62 (1984), 569-572. Ho potuto aver accesso solo tardivamente, grazie all’amicizia di J. Fontaine, all’opera di Fl. Ghizzoni (Sulpicio Severo, Roma 1983), che dedica un capitolo ai Dialoghi (pp. 135-175) e, all’interno di questo, numerose pagine alla controversia origeniana (pp. 168-174). Riprendo subito una sua osservazione (p. 173, n. 8 alla fine): «I rappor t i t ra Sulpic io Severo e S . Girolamo, a quanto
165
nuove idee che sono state più volte riprese, Dom Gribomont abbia delineato varie
soluzioni e posto vari interrogativi che gli avrei chiesto ben volentieri di esplicitare.
Girolamo era già presente in quelle pagine, il che è del tutto naturale, dal momento che
lo stesso Sulpicio menziona diverse volte il suo nome4. Vorrei iniziare col mostrare che
egli è ancora più presente in questi Dialoghi. In compenso il nome di Rufino appare
soltanto una volta nelle pagine del nostro amico5. Credo che questi gli dedicherebbe
molto più spazio oggi, e quando cerco di ridare a Rufino il posto che merita, non faccio
altro che seguire le orme dell’autore del Salterio di Rufino.
In queste brevi pagine mi limiterò all’inizio del racconto di Postumiano circa il viaggio
che avrebbe dovuto condurlo in Egitto e che l’ha costretto a una deviazione di sei mesi
per Betlemme. Tuttavia non mi soffermo né sulla cornice letteraria del racconto e di
questo primo Dialogo, né sulla storicità del viaggio6 e delle tappe in Africa, nella
pare, non sono ancora stati studiati». Egli ignora, beninteso, le pagine contemporanee di Cl. Stancliffe (cap. 21: «Jerome, Vigilantius and the Dialogues», pp. 297-312), che riprendono e portano avanti la tesi di E.Ch. Babut (Saint Martin de Tours, Paris [1912], pp. 48 sgg.; Sur trois lignes inédites de Sulpice Sévère, in Le Moyen Age 19 [1906] 205-213). Sono questi rapporti che vorrei iniziare a trattare. Su Girolamo e Sulpicio cfr. anche Cl. Stancliffe, pp. 66-69. 4 Oltre ai capitoli 6-9 del Dialogo I, il nome di Girolamo viene citato più volte nel capitolo 21, 5. Dom Gribomont scorge «certi sorrisi alle spalle di san Girolamo» (p. 142), mentre in seguito intravede – più giustamente – un’alleanza tra Sulpicio e il «satirista di Betlemme» (p. 143). 5 J. Gribomont, L’influence, p. 144: «Forse il carattere più impegnato dei Dialoghi è legato a una nuova ondata di propaganda orientale, costituita dalle opere di Girolamo e dalle traduzioni di Rufino». In compenso, benché egli rievochi la tesi delle interpolazioni delle opere di Origene (p. 145), non menziona il nome di Rufino. 6 Una parola soltanto sul suo eroe Postumiano. Costui è forse un monaco, un «discepolo di Paolino di Nola» (Gribomont, art. cit., p.141. Cfr. H. Delehaye, Saint Martin et Sulpice Sévère, in AB 38 [1920] 85)? Pierre Fabre (Essai sur la chronologie de l’oeuvre de saint Paulin de Nole, Paris 1948, p. 45, n. 5) ha raccolto un certo numero di argomentazioni a favore della distinzione tra il Postumiano amico di Sulpicio e il Postumiano dell’ep. 27 di Paolino. Tuttavia scarso è stato l’interesse rivolto allo status sociale di questo Postumiano (eccezion fatta per una breve nota di Ghizzoni, che, pur identificando i due Postumiano, sottolinea la ricchezza dell’amico di Sulpicio, op. cit., p. 138 e n. 3). Ora, ci sono due fatti (forse tre) che evidenziano l’elevata posizione sociale del personaggio: egli offre dieci aurei al prete della Cirenaica, presso il quale ha passato una settimana (Dial. 1, 5, 6, p. 157, l. 19); viene ricevuto da Teofilo (Dial. 1, 7, 5, p. 159, ll. 14-16), come accadrà a grandi personaggi del calibro di Piniano e Melania con Cirillo nel 418 (Geronzio, Vita di Melania 34, SCh 90, 190); infine, per poter ritornare più agevolmente da Betlemme ad Alessandria, affida a Girolamo i propri servitori, nonché (forse) la famiglia e i bagagli: Dial. 1, 9, 6 (p. 161, ll. 14-15): «Huic (Hieronymo) traditis adque commissis omnibus meis omnique familia...». Postumiano
166
Cirenaica, ad Alessandria e infine a Betlemme, che ammetto senza discussioni.
* * *
La prima tappa, l’Africa, apparentemente senza problemi di nessun ordine –
Postumiano non sottolinea forse come la facilità e la rapidità della navigazione siano
dovute alla volontà di Dio?7 –, racchiude più di un’indicazione importante per la
serie dei Dialoghi e con tutta probabilità per il loro inserimento nella cornice
cronologica e dottrinale8. In seguito riparleremo più volte di Cipriano. L’Africa deve
sapere che il suo martire non è l’unico santo esistente9. Lo sa già in parte, dato che il
viaggiatore ha raccontato che lì era nota la Vita Martini, questo nuovo «ramoscello
d’oro» della vita spirituale10. Va forse paragonata alla Vita Cypriani? La domanda
non è nemmeno suggerita, così come non sono esplicitamente menzionate la Vita
Pauli e la Vita Hilarionis, che Sulpicio tuttavia conosce11. In compenso è menzionato
il sepolcro di Cipriano e quello di santi meno celebri: Postumiano ha passato quindici
giorni «a visitare i loca sanctorum e soprattutto a prostrarsi davanti al sepolcro di
Cipriano – ad sepulchrum Cypriani martyris adorare –»12. Tutte queste annotazioni,
viaggia quindi con tutto un equipaggio, com’è tipico di un certo numero di persone in quegli anni (Silvia d’Aquitania, l’innominata dell’ep. 54 di Girolamo, senza contare Egeria; ricordo che il giovane Idazio ha accompagnato i genitori poco dopo). Si potrebbe pensare anche al Postumiano senator, noto grazie all’ep. 49, 15 di Paolino, che possiede una proprietà nel Bruttium, ma che può essere aquitano come l’amico di Sulpicio, benché, a quanto pare, si trovi a Roma al tempo dell’epistola 49. I Postumiano, insomma, non sono pochi. 7 Dial. 1, 3, 1-2 (p. 154, ll. 22-27): «... quinto die Portum Africae intrauimus, adeo prospera Dei nutu nauigatio fuit. Libuit animo adire Carthaginem, loca uisitare sanctorum et praecipue ad sepulchrum Cypriani martyris adorare. Quinto die ad portum regressi prouectique in altum, Alexandriam petentes, reluctante Austro paene in Syrten inlati sumus». 8 Sorvolo sul luogo di sbarco di Postumiano. Qual è questo Portus Africae? Il porto della Cartagine del IV secolo – non ancora identificato – oppure Utica? In ogni caso vi è una certa distanza tra il Porto e la città di Cartagine, secondo il racconto di Postumiano. 9 Dial. 2 (3), 17, 5 (p. 215, ll. 25-29). 10 Dial. 1, 23, 5 (p. 176, ll. 6-7). Sul ramoscello d’oro cfr. ibid. 1, 23, 2 (p. 175, ll. 26-27): «et aperit librum qui ueste latebat». Cfr. Aen. 6, 406: «... aperit ramum qui ueste latebat». 11 Per quanto riguarda la Vita Pauli le tracce abbondano. 12 Su questi loca sanctorum cfr. Yvette Duval, Loca sanctorum Africae, Paris 1982, che non utilizza questo testo, ma mostra che Postumiano poteva, nei dintorni di Cartagine e a Cartagine stessa, venerare numerose memoriae. Si noti l’espressione adorare ad, che non è comune e che con tutta probabilità fa il paio c o n i l p i ù b r u t a l e a d o r a r e , c h e V i g i l a n z i o m e t t e v a s o t t o a c c u s a e
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sempre discrete ed equilibrate, non sono casuali, a prescindere dalla data in cui abbia
avuto luogo il viaggio, tra il 399 e il 400-401, e da quella in cui i Dialoghi siano stati
composti, tra il 403 e il 406-407. Mi limiterò per il momento a notare che, nel resto
del periplo, Postumiano non dedicherà più neanche un attimo ai «luoghi santi»,
nemmeno in Palestina, e che per descrivere lo spavento dei posseduti dinanzi a
Martino in vita, Gallo si serve degli stessi termini impiegati da Ilario per tratteggiare
la stessa scena davanti ai sepolcri dei martiri13. In realtà tutto è lungi dall’essere
semplice nel racconto di questa tappa africana apparentemente tranquilla.
La seconda tappa, sebbene non prevista, è lungi dall’essere priva di significato
o di lezioni più facilmente percepibili. Benché le reminiscenze classiche,
soprattutto sallustiane14, diano a questa scoperta delle dune della Cirenaica
che Girolamo respinge nel suo Contra Vigilantium, 4-5 (PL 23, 342 B 13 - 343 A 10). La costruzione è biblica e si riferisce al Tempio: «Adorabo ad templum sanctum tuum» (Ps. Rom. et Gall. 5, 8 e 137, 2). Si possono facilmente intuire tutte le analogie che comporta. 13 Confronta Dial. 2 (3), 6, 2-4 (p. 204, ll. 4-20) e Ilario, Contra Constantium 8 (ed. A. Rocher, SCh 334, p. 182). Il confronto è segnalato da Babut (p. 84), ma viene portato avanti in modo alquanto discutibile. L’imitazione della pagina di Ilario da parte di Girolamo risale al 404, nell’Elogio funebre di Paola (ep. 108, 13, CUF 5, p. 174, ll. 12-18), in cui troviamo mescolate, come in Ilario, reminiscenze di Cipriano. Sull’influenza di queste pagine sull’ep. 2, 9 di Sulpicio cfr. J. Fontaine, Commentaire (SCh 135, p. 1218). Va notato che Sulpicio non dice nulla circa il sepolcro di Martino. 14 Com’è noto, questo capitolo contiene l’unica menzione esplicita di Sallustio da parte di colui che è stato definito il «Sallustio cristiano». Le reminiscenze dello storico e del «geografo» abbondano sia nei Dialoghi sia nella Cronaca, com’è stato ampiamente dimostrato, nel secolo scorso, dalle dissertazioni di H. Pratge (Quaestiones Sallustianae ad Sulpicium Seuerum pertinentes, Göttingen 1874) e di Joseph Schell (De Sulpicio Severo Sallustianae, Liviniae, Tacitae elocutionis imitatore, Münster 1892), nonché, in modo più generale, da E. Bolaffi (Sallustio e la sua fortuna nei secoli, Roma 1949, pp. 239 sgg.). Su tali studi cfr. J. Fontaine (L’affaire Priscillien ou l’ère des nouveaux Catilina in Classica et Iberica. A Festschrift in honor of the Rev. Jos. M.-P. Marique, 1975, pp. 355-392), che mostra l’importante influenza dello storico, del moralista e dello stilista, in particolare sulla fine della Cronaca. L’intera opera meriterebbe di essere analizzata in tal senso, anche se Sallustio è lungi dall’essere l’unico modello di Sulpicio. Si potrebbe fare qualche altra aggiunta alle note esistenti (cfr. la nota seguente), ma sarebbe un errore trascurare un’altra indicazione fornita da Sulpicio, di carattere storico-geografico. Egli rievoca la traversata del deserto della Cirenaica da parte di Catone, in fuga da Cesare (1, 3, 6). Il pensiero va al libro IX di Lucano, che contiene il racconto drammatico della vicenda. Come Sulpicio (1, 6, 4), Lucano segnala che le tempeste di sabbia sono pericolose quanto quelle di mare (cfr. 445 sgg.), che in queste regioni cresce solo un’erba rara (cfr. 435-438; cfr. Dial. 1, 6, 5) e che non si conoscono né il bronzo né l’oro (cfr. 424-426; cfr. Dial. 1, 5, 5); ma Sulpicio non parlerà dei serpenti prima di essersi recato nella Tebaide (1, 10, 2-3). Probabilmente Lucano conosce Sallustio (per i venti di sabbia cfr. Jugurtha, 78, 3; 79, 6).
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l’apparenza di una semplice esplorazione curiosa15, Postumiano si informa
immediatamente sulla vita e sui costumi dei cristiani16 in quei luoghi di libertà17. Le
due lezioni che egli ne trae mescolano i precetti della morale sallustiana con quelli
dell’ascesi monastica.
Soltanto la seconda lezione sarà commentata subito, prima di diventare un leitmotiv
nel seguito del racconto di Postumiano. Essa riguarda il cibo. Il parco menù
dell’asceta, che si rivela essere per di più un prete18, fa arrossire – o lascia insoddisfatti
– i robusti appetiti dei Galli. Gallo, loro degno rappresentante, non si accontenta di
quel pane d’orzo – eppure eccezionale in quelle regioni – e di quell’erba che, avendo il
gusto del miele – come il loto19 –, non può saziare il suo appetito20. Le allusioni
successive sono meno tinte di reminiscenze classiche. In compenso esse sono
direttamente riconducibili a Girolamo, giacché la prima non è altro che una citazione
della Lettera a Eustochio21 e una delle seguenti è con tutta probabilità un ricordo della
Vita Pauli22, cui Sulpicio renderà nuovamente omaggio in seguito23.
15 Sbarcato sulla riva delle Sirti, Postumiano dichiara: «Ego studiosius explorandorum locorum gratia longius processi» (1, 3, 3, p. 155, ll. 2-3). Segue la descrizione «fisica» dei luoghi. Successivamente, quando racconta la propria odissea al primo anziano che incontra, dichiara: «egressos in terram, ut sit mos humani ingenii, naturam locorum cultumque habitantium uoluisse cognoscere» (1, 4, 2, p. 156, ll. 5-6). L’osservazione proviene da Sallustio, Jugurtha, 93, 3, secondo cui il soldato ligure continua l’esplorazione per il desiderio di compiere un atto difficile «more ingeni humani». 16 Dial. 1, 4, 2 (p. 156, ll. 7-8). Sul cultus cfr. la nota precedente; sui mores cfr. Dial. 1, 5, 5 (p. 157, ll. 14-18). 17 Dial. 1, 3, 6 (p. 155, ll. 18-20). Forse si tratta di una trasposizione dell’osservazione di Sallustio riguardante gli abitanti di Leptis, che sfuggono con il loro allontanamento al potere regale della Numidia (Jugurtha, 78, 3); ciò la dice lunga sul «darsi alla macchia», l’anachôresis – o la bagaude, come dicono in Gallia – per scampare al fisco imperiale alla fine del IV secolo. Sono i cristiani ad agire in tal modo, in un Impero capeggiato da cristiani. Né Postumiano né Sulpicio faranno la benché minima osservazione. Sul comportamento di Sulpicio nei confronti dell’«Impero cristiano» cfr. il mio studio su Les métamorphoses de l’historiographie aux IVe et Ve siècles: Renaissance, fin ou permanence de l’Empire romain in Actes du VII Congrès de la FIEC, Budapest 1979 (=Acta Antiqua Hungarica, 1983), pp. 147-151. 18 Il che non è privo di significato, né di lezioni; ma ciò sarà rivelato solo in seguito, dopo la scoperta della povera chiesa. 19 Odissea, 9, 94. 20 Dial. 1, 4, 4-7 (p. 156, l. 11 - p. 157, l. 1). Sui banchetti in Gallia e in particolare in Aquitania cfr. la testimonianza contemporanea di Ammiano Marcellino (Res gestae, 15, 12, 4-5 e 16, 8, 8). 21 Dial. 1, 8, 5 (p. 160, ll. 7-8). 22 Dial. 1, 20, 4 (p. 172, ll. 20-23) e Vita Pauli 6 (PL 23, 21 B-C). Già segnalato da Babut (Saint Martin de Tours, p. 49, n. 6, 3°). Altri riferimenti alla gula o alla cucina in Dial. 1, 13, 4; 2, 8, 2. 23 Postumiano dichiara di aver visitato anche il luogo in cui Paolo, il primo eremita, ha soggiornato (Dial. 1, 17, 1, p. 169, ll. 18-19). Un bell’omaggio alla veridicità contestata di Girolamo!
169
L’altra lezione del soggiorno in Cirenaica concerne il denaro. Postumiano crede di
sapere che gli uomini si sono stabiliti in quelle regioni inospitali per essere liberi da
qualunque tassa24; egli ha inoltre appreso che queste genti non praticano fra loro
nessun tipo di commercio e pertanto ignorano cosa siano la frode e il furto. Non
hanno né oro né denaro e non desiderano, dichiara questo nuovo Sallustio, «ciò che i
mortali mettono in cima» alle loro preoccupazioni25. Ma ci troviamo in epoca
cristiana. Postumiano ha notato l’umiltà della chiesa del luogo26 e, quando ha voluto
dare dieci aurei al prete, si è visto consegnare un apoftegma sull’oro che «distrugge»
più di quanto «costruisce» la Chiesa27. Anche qui siamo già in compagnia di
Girolamo28.
In verità Postumiano non aveva intenzione di andare a trovare
Girolamo. L o c o n o s c e v a g i à d a u n p r e c e d e n t e v i a g g i o 2 9 . A l
24 Dial. 1, 3, 6 (p. 155, ll. 18-20). 25 Dial. 1, 5, 5 (p. 157, ll. 14-18): «Cum hominum mores quaereremus, illud praeclarum aduertimus nihil eos neque emere neque uendere. Quid sit fraus aut furtum nesciunt. Aurum uero adque argentum, quae prima mortales putant esse, neque habent neque habere cupiunt». Due osservazioni: 1) la parte di frase in corsivo non è altro che una ripresa dal Catilina, 36, 4, sulla ricerca di ricchezze; 2) il «nihil eos neque emere neque uendere» rappresenta la messa in pratica, potremmo dire spontanea, di un precetto di Martino a Marmoutier: «Non emere aut uendere, ut plerisque monachis moris est, quicquam licebat» (V.M. 10, 6). In questo passo l’osservazione di Sulpicio è in linea con la constatazione e con la critica di Girolamo nella Lettera a Eustochio (ep. 22, 34), in un capitolo citato dalle pagine successive dei Dialoghi. 26 Dial. 1, 5, 4 (p. 157, ll. 10-14). 27 Dial. 1, 5, 6 (p. 157, ll. 18-20): «Nam cum ego presbytero illi decem nummos aureos obtulissem, refugit, altiore consilio protestatus ecclesiam auro non instrui sed potius destrui». 28 Girolamo, ep. 52, 10 (CUF 2, p. 185, ll. 12 sgg.): «Multi aedificant parietes et columnas ecclesiae subtrahunt...». Tutta la trattazione che segue è una condanna del denaro e del lusso della Chiesa. L’autore dei Dialoghi conosce bene questa Lettera a Nepoziano sul chiericato. 29 Dial. 1, 8, 2 (p. 159, ll. 24-26): «... mihi iam pridem Hieronymus superiore illa mea peregrinatione conpertus». C’è da perdersi nel calcolare la data di questa visita. Ricordo semplicemente che Desiderio, che potrebbe essere il dedicatario della Vita Martini, giunge a Betlemme nel 398. Ma il iam pridem non si riferisce a un tempo precedente? Nel 395 è Vigilanzio a giungere in Palestina. A favore del 398 citerei quanto segue. Postumiano dichiara di aver constatato il successo editoriale della Vita Martini a Roma (Dial. 1, 23, 4, p. 176, ll. 3-7), dove però non è passato durante il viaggio in questione, visto che sottolinea la rapidità della traversata tra Narbonne e l’Africa. Se il racconto è coerente, ciò ci rimanda non prima del 397, qualora la Vita sia stata diffusa prima della morte di Martino (nov. 397); ci rimanda invece al 398 se la Vita, scritta nel 397, è stata diffusa solo dopo il decesso del vescovo di Tours (cfr. A. Chastagnol, Autour de la mort de saint Martin, in Bulletin de la Soc. nationale des Antiquaires de France 1982, pp. 134-140).
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termine di un soggiorno di sei mesi a Betlemme30, che conferma la vastità delle sue
risorse, Postumiano rivelerà che lo scopo primo del viaggio era l’Egitto31. Ma
quando, dopo una settimana in Cirenaica, la loro nave approda ad Alessandria,
Postumiano e il suo piccolo gruppo arrivano nel pieno della controversia «tra vescovi
e monaci», ovvero tra Teofilo e i suoi monaci32.
Ci troviamo non prima dell’estate del 399, ma più verosimilmente nel 400, perché
si sono svolti i frequentes synodi rievocati da Postumiano33. Questi hanno
convalidato la condanna di Origene e dei suoi scritti, ma hanno anche provocato, con
l’aiuto attivo del potere politico34, l’espulsione e la messa al bando di un certo
numero di monaci.
La questione è piuttosto conosciuta ed è inutile riprenderla in questa sede. Certo,
il racconto di Postumiano non basterebbe a illuminare un lettore che non ne fosse
già al corrente. Tuttavia le due lunghe pagine nelle quali Postumiano, non pago di
esporre le tesi avverse, non si priva di esprimere la propria opinione – e quella
di Sulpicio – sono di enorme interesse per comprendere la posizione di
S u l p i c i o e , p r o b a b i l me n t e , l ’ i mp o r t a n z a d e i D i a l o g h i 3 5 . T a l v o l t a
30 Dial. 1, 9, 4 (p. 161, ll. 3-4). 31 Dial. 1, 9, 5-6 (p. 161, ll. 12-19): «Nisi mihi fuisset fixum animo et promissum Deo ante propositam eremum adire, uel exiguum temporis punctum a tanto uiro discedere noluissem. Huic ergo traditis adque commissis omnibus meis omnique familia, quae me contra uoluntatem animi mei secuta tenebat implicitum (...), regressus ad Alexandriam...». 32 Dial. 1, 6, 1 (p. 157, ll. 22-25). 33 Ibid. (p. 157, l. 26). 34 Dial. 1, 7, 2 (p. 159, ll. 1-4). 35 Riporto per intero il testo riguardante la tappa alessandrina, adottando il testo di Halm, ma modificando la punteggiatura e la presentazione. Dialoghi, 1, 6-7 (p. 157, l. 22 - p. 159, l. 20): 6 (1) «Quod cum ille benigne accepisset, reuocantibus ad mare nautis discessimus, prosperoque cursu septimo die Alexandriam peruenimus, ubi foeda inter episcopos adque monachos certamina gerebantur ex ea occasione uel causa quia, congregati in unum saepius, sacerdotes frequentibus decreuisse synodis uidebantur ne quis Origenis libros legeret aut haberet, qui tractator scripturarum sacrarum peritissimus habebatur. (2) Sed episcopi quaedam in libris illius insanius scripta memorabant, quae adsertores eius defendere non ausi, ab haereticis potius fraudulenter inserta dicebant et ideo non, propter illa quae in reprehensionem merito uocarentur, etiam reliqua esse damnanda, cum legentium fides facile possit habere discrimen ne falsata sequerentur et tamen catholice disputata retinerent. Non esse autem mirum, si in libris neotericis et recens scriptis fraus haeretica fuisset operata, quae in quibusdam locis non timuisset inpetere euangelicam ueritatem. (3) Aduersum haec episcopi obstinatius renitentes pro potestate cogebant recta etiam uniuersa cum prauis et cum ipso auctore damnari, quia satis superque sufficerent libri quos ecclesia recepisset: respuendam esse penitus lectionem, quae plus esset nocitura insipientibus quam profutura sapientibus.
171
considerata un excursus36, questa presentazione merita un’analisi più dettagliata
rispetto a quelle tentate dopo le pagine che gli aveva dedicato a giusto titolo Dom
Gribomont37. Cercheremo anche con lui i motivi per i quali Sulpicio ha tenuto a farci
conoscere il suo punto di vista su Origene, nonché sui rapporti tra vescovi e monaci.
(4) Mihi autem ex illis libris quaedam curiosius indaganti admodum multa placuerunt, sed nonnulla deprehendi, in quibus illum praua sensisse non dubium est, quae defensores eius falsata contendunt. (5) Ego miror unum eundemque hominem tam diuersum a se esse potuisse ut, in ea parte qua probatur, neminem post Apostolos habeat aequalem, in ea uero qua iure reprehenditur, nemo deformius doceatur errasse. 7 (1) Nam cum ab episcopis excepta in libris illius multa legerentur, quae contra catholicam fidem scripta constaret, locus ille uel maxime parabat inuidiam, in quo editum legebatur quia Dominus Iesus, sicut pro redemptione hominis in carne uenisset et crucem pro hominis salute perpessus mortem pro hominis aeternitate gustasset, ita esset eodem ordine passionis etiam diabolum redempturus, quia hoc bonitati illius pietatique congrueret ut, qui perditum hominem reformasset, prolapsum quoque angelum liberaret. (2) Cum haec adque alia istius modi ab episcopis proderentur, ex studiis partium orta seditio. Quae cum reprimi sacerdotum auctoritate non posset, scaeuo exemplo ad regendam ecclesiae disciplinam, praefectus adsumitur, cuius terrore dispersi fratres ac per diuersas oras monachi sunt fugati, ita ut propositis edictis in nulla consistere sede sinerentur. (3) Illud me admodum permouebat, quod Hieronymus uir maxime catholicus et sacrae legis peritissimus, Origenem secutus primo tempore putabatur, qui nunc idem praecipue uel omnia illius scripta damnaret. Nec uero ausim de quoquam temere iudicare; praestantissimi tamen uiri et doctissimi ferebantur in hoc certamine dissidere. (4) Sed tamen, siue ille error est, ut ego sentio, siue haeresis, ut putatur, non solum reprimi non potuit multis animaduersionibus sacerdotum, sed nequaquam tam late se potuisset effundere, nisi contentione creuisset. (5) Istius modi ergo turbatione, cum ueni Alexandriam, fluctuabat. Me quidem episcopus illius ciuitatis benigne admodum et melius quam opinabar excepit et secum tenere temptauit. (6) Sed non fuit animus ibi consistere, ubi recens fraternae cladis feruebat inuidia. Nam etsi fortasse uideantur parere episcopis debuisse, non ob hanc tamen causam multitudinem tantam sub Christi confessione uiuentem, praesertim ab episcopis, oportuisset adfligi». 36 Così anche Fl. Ghizzoni, op. cit., p. 165. H. Delehaye, Saint Martin et Sulpice Sévère, in AB 38 (1920) 86, parla di «episodi estranei alla faccenda come il soggiorno a Betlemme e soprattutto come la pagina, alquanto curiosa, sulle controversie origeniane ad Alessandria». Respinge, giustamente, J. Gribomont, art. cit., pp. 145 sgg. Si ricordi però che Delehaye rispondeva a Babut, il quale negava sia la storicità del viaggio di Postumiano (op. cit., p. 49 e n. 2), sia la reale esistenza del personaggio di Gallo. 37 J. Gribomont, art. cit., pp. 145-147. Van Andel (art. cit., n. 3, p. 284 e n. 43) e Cl. Stancliffe (op. cit., pp. 308-309) sono i soli, che io sappia, ad aver segnalato analogie tra Sulpicio e Rufino. Van Andel, in una breve nota, rimanda a Rufino, De adulteratione, 1, 2, 3, 7, 16 e alla Prefazione 1, 2, 3 di Rufino alla sua traduzione del Peri Archôn. Cl. Stancliffe, che rinvia alla propria tesi inedita in cui discute tali somiglianze, non è d’accordo con Van Andel circa la Prefazione di Rufino: secondo l’autrice le somiglianze si limiterebbero ai capitoli 1, 7 e 16 del De adulteratione. Eliminerei anch’io i capitoli 2 e 3, che portano avanti e illustrano la tesi del cap. 1; tuttavia sostituirei il cap. 7 con il cap. 9. Per quanto riguarda la Prefazione di Rufino alla traduzione, essa contiene l’elogio (da parte di Girolamo) di Origene, definito «capo delle
172
I dettagli della requisitoria dei vescovi sono poco esplicitati e lascerebbero
qualunque lettore nell’incertezza, se questi fosse informato solo da Sulpicio.
Postumiano tratterà un punto soltanto; egli dichiara di averlo ricavato dagli estratti di
Origene, che i vescovi avevano riunito per giustificare la condanna. Ritorneremo su
questo punto in seguito38. Al di fuori di questa specifica accusa, Postumiano si limita
ad affermazioni generali e sottolinea soprattutto il modo con cui i vescovi avevano
usato il proprio potere per condannare in blocco un’opera nella quale il falso si
mescolava al vero, e anche il suo autore; dicevano che i libri ricevuti dalla Chiesa
non mancavano e che bisognava respingere in blocco quelli di Origene, perché la
loro lettura era più suscettibile di nuocere agli ingenui che di essere utile ai saggi39.
Postumiano non si è lasciato intimorire da quest’atto di autorità. Ha cercato di
condurre da sé la ricerca, senza per questo condividere le tesi dei difensori di
Origene. Questi dichiaravano infatti che i passi errati fossero opera di eretici, che li
avevano inseriti nelle opere di Origene; bisognava lasciare che il lettore operasse la
facile distinzione tra errore e verità, senza privarsi degli ulteriori sviluppi. Essi
sostenevano, per giustificare la tesi sulle interpolazioni eretiche nelle opere di
Origene, che anche i Vangeli avevano subito attacchi simili40.
Questa perorazione della difesa, sebbene la parola adulteratio non sia utilizzata più
di qualunque altro termine propriamente tecnico, rievoca la tesi e l’argomentazione
del De adulteratione Origenis librorum, composto a Roma nel 397-398 da Rufino di
Aquileia, come postfazione alla sua traduzione dell’Apologia di Origene di Panfilo.
È a quest’opera – e non a conversazioni tenute ad Alessandria – che Sulpicio deve le
proprie informazioni. Rufino – ma lui solo, a quanto pare41 – asseriva che erano state operate interpolazioni
Chiese dopo gli Apostoli», nonché due delle affermazioni presenti nel De adulteratione sulle incoerenze e sulle interpolazioni. Non credo pertanto che si possa escludere la lettura del Peri Archôn, quanto meno nella traduzione di Rufino. 38 Dial. 1, 7, 1. 39 Dial. 1, 6, 1 (p. 157, ll. 25-28), 3 (p. 158, ll. 8-12). 40 Dial. 1, 6, 2 (p. 158, ll. 1-7). 41 La tesi figura nel Codex 117 di Fozio, che riassume un’anonima Apologia di Origene. Secondo P. Nautin (Origène, Sa vie et son oeuvre, Paris 1977, pp. 106 sgg.) si tratterebbe dell’Apologia di Panfilo. Ma oltre al fatto che l’Apologia di Panfilo è riassunta nel Codex 118, Fozio dichiara che l’Apologia anonima si basa su Panfilo e su Eusebio. D’altra parte l’elenco dei 15 rimproveri confutati non corrisponde a quello di Panfilo-Rufino, e lascia supporre una data successiva all’inizio del IV secolo. Risalirebbe infatti alla fine del IV secolo o al V secolo. Sulle interpolazioni cfr. p. 89, ll. 12-16 (ed. Henry). La lettera di Origene menzionata potrebbe essere quella citata in parte da Rufino.
173
da parte degli eretici nei Vangeli e deduceva che questi eretici avevano avuto a
fortiori meno rispetto per opere più recenti, meno conosciute e meno protette42.
Postumiano si spinge fino a mutuare dal primo capitolo di Rufino lo stupore
professato da quest’ultimo di fronte alle incoerenze di Origene43. Ciononostante egli
esplicita il proprio giudizio, facendo appello a un elogio che Girolamo aveva più
volte proclamato44, prima di abbandonarsi al voltafaccia rievocato in seguito da
Postumiano: «Da parte mia – afferma questi – trovo sorprendente che un solo e unico
uomo abbia potuto essere diverso a tal punto da sé stesso che, nella parte in cui lo si
loda, non ha uguali presso gli Apostoli, mentre nella parte in cui viene a giusto titolo
criticato, non viene indicato nessuno che abbia commesso errori così grossolani».
Rufino, nel difendere Origene, si era ben guardato da qualsiasi ditirambo; rinfaccerà a
Girolamo di aver usato nei confronti di Origene frasi eccessivamente laudative45.
Tuttavia Rufino si era richiamato a queste per coprirsi le spalle, nella Prefazione alla
traduzione del Peri Archôn46, che viene ripresa, sebbene sia controbilanciata da un
giudizio altrettanto negativo, che accentua e sottolinea il disaccordo, senza fornire altra
spiegazione se non quella dell’«errore» – errasse –.
Postumiano non accetta la tesi dell’interpolazione47. Così facendo, si schiera dalla parte
di Girolamo. Secondo lui tale sotterfugio evita ai sostenitori di Origene di dover difendere
tesi manifestamente insostenibili e permette loro di discolpare Origene, che le ha realmente
42 Rufino, De adulteratione, 9 (ed. M. Simonetti, CCL 20, 13): «De haereticorum uero temeritate quia credi istud scelus facile possit, illa res maximum credulitatis praestat exemplum quod abstinere impias manus ne a sacrosanctis quidem Euangelii uocibus... Quid ergo iam erit magnum si Origenis scripta temerarunt hi qui Saluatoris Dei nostri dicta ausi sunt temerare...?». 43 Dial. 1, 7, 5 (p. 158, ll. 15-16); Rufino, De adulteratione, 1 (p. 7, ll. 17-26): «Dubitari non puto quod hoc nullo genere fieri potuit ut uir tam eruditus (...) ipse sibi contraria et repugnantia suis sententiis scriberet». Si entra poi nel dettaglio. L’argomentazione è già stata avanzata da Panfilo nella sua Apologia, 3 (PG 17, 560 C 7-11). 44 Girolamo, Praef. translationis Hom. in Ezechielem Origenis (PL 25, 583=GCS 33, p. 318): «et hominem, iuxta Didymi uidentis sententiam, alterum post apostolos ecclesiarum magistrum»; Liber interpretationis hebraicorum nominum, Praef. (CCL 72, 59-60): «Quem post Apostolos ecclesiarum magistrum nemo nisi inperitus negat». Questa volta Girolamo parla a proprio nome. 45 Cfr. ad esempio Rufino, Apologia c. Hieronymum 1, 22 (CCL 20, 56-57). 46 Rufino, Praefatio in librum I Peri Archôn (CCL 20, 245, ll. 19-21): «quem ille (Hieronymus) alterum post apostolos ecclesiae doctorem scientiae ac sapientiae merito conprobauit». 47 Dial. 1, 6, 2 (pp. 157-158): «quae adsertores eius defendere non ausi, ab haereticis potius fraudulenter inserta dicebant».
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sostenute48. Ma come dirà in maniera esplicita, per lui si tratta di un «errore» di
Origene, non di un consapevole partito preso come pretendono alcuni – «siue ille
error est, ut ego sentio, siue haeresis, ut putatur»49–. Tale distinzione è importante.
L’opinione si basa sulle letture personali che Postumiano assicura di aver fatto. Ne
distingueremo due tipi. Postumiano dichiara, in primo luogo, che ha avuto cura di
esaminare «qualche passo dei libri di Origene» e che ha trovato, affianco a molti
eccellenti sviluppi, alcuni manifestamente errati50. Sfortunatamente il vocabolario di
Sulpicio non consente di conoscere la natura degli «estratti» da lui letti. Se ci
atteniamo alla presentazione generale che è stata fatta di Origene (un «commentatore
delle Scritture»)51, nulla invita a pensare che tali «estratti» provenissero dal Peri
Archôn, accessibile a Sulpicio a partire dal 398, ma che non includeva più, nella
traduzione «censurata» di Rufino, passi qualificabili come praua52. Parimenti, le
traduzioni di Omelie realizzate da Girolamo avevano cancellato o attenuato i passi
più discutibili53. La traduzione del Peri Archôn di Girolamo è forse pervenuta a
Sulpicio per mezzo di Paolino54?
Si potrebbe anche pensare all’Apologia di Panfilo55, il cui primo libro, tradotto
da Rufino nel 397, è una collezione di estratti di Origene che risponde a nove capi
d’accusa56, ponendo l’accento sull’opera predicata57 del prete di Cesarea, ma
48 Dial. 1, 6, 4 (p. 158, ll. 14-15): «nonnulla deprehendi, in quibus illum praua sensisse non dubium est, quae defensores eius falsata contendunt». 49 Dial. 1, 7, 4 (p. 159, ll. 10-11). 50 Dial. 1, 6, 4 (p. 158, ll. 12-15). 51 Dial. 1, 6, 1 (p. 157, ll. 27-28). 52 Girolamo intraprenderà la sua traduzione alla fine del 398 proprio perché la traduzione di Rufino gli sembrava edulcorare gli «errori» di Origene. 53 Cfr. Rufino, Apologia c. Hieronymum 2, 31 (CCL 20, 106, ll. 6-107, l. 34). 54 Girolamo consiglia a Paolino di domandarla a Pammachio, per la questione del libero arbitrio. Ma stando a quanto afferma, nel trattato vi è «più male che bene» (ep. 85, 3). 55 Panfilo, Apologia pro Origene (PG 17, 541-616). Indirizzata ai confessori egiziani condannati alle miniere della Palestina, quest’Apologia contava sei libri, sui dettagli e sull’autenticità dei quali si è discusso molto, non appena Rufino ha tradotto il primo libro. Soprattutto Girolamo ha messo in dubbio l’origine dell’Apologia, che Fozio tuttavia conosceva (Cod. 118). Non occorre entrare nel merito di questa controversia, né delle discussioni attuali. 56 Apologia, 5 (PG 17, 577-579). Ognuna di queste accuse è confutata, facendo ricorso a vari estratti, nei capitoli successivi (c. 579-616). 57 Apologia, Prefazione (PG 17, 547-548).
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citando solo Commenti o opere dotte – principalmente Peri Archôn e Commenti alle
varie epistole di Paolo58 –. Una tale lettura è tanto più verosimile in quanto va di pari
passo con quella del De adulteratione59, di cui abbiamo percepito gli echi innegabili
in queste pagine. La moderna edizione del De adulteratione rischia di far dimenticare
che le pagine di Rufino sono soltanto una postfazione alla traduzione dell’Apologia
di Panfilo, e che le due parti che siamo indotti a distinguere, ora anche per ragioni
materiali, hanno sempre costituito in latino un insieme unico, specie al tempo della
loro pubblicazione, nel 397.
Se dunque, come diventa del tutto naturale, Sulpicio – o Postumiano – ha letto
l’insieme di Rufino e non la sola postfazione del De adulteratione, di fatto ha potuto
trovare, negli estratti riuniti da Panfilo, proprio come nelle Omelie fino ad allora
tradotte da Girolamo, alcune bellissime pagine di Origene, ed è probabile che queste
gli siano piaciute60. Non vi è da stupirsi che egli utilizzi i rimproveri indirizzati da
Panfilo agli avversari di Origene, riguardo alla condanna in blocco delle sue opere,
senza lasciare a ognuno la possibilità di trarre ciò che c’è di buono61. Né va escluso
che la distinzione fra eresia e errore, piuttosto difficile da mantenere, sia in parte
dovuta al modo in cui Panfilo, dopo aver citato un lunghissimo testo di Origene
sull’eresia e sulle sue molteplici forme62, si chiedeva come un uomo simile potesse
essere accusato di eresia, dopo aver enumerato così bene non soltanto tutti gli errori
ereticali, ma anche tutte le verità cattoliche63. Postumiano rifiuta la denominazione eresia;
58 Panfilo giustifica tale scelta (PG 17, 548-549) dicendo che sceglierà le citazioni tra le opere dotte, le più contestate. Cfr. anche c. 557 A-B. 59 Il lettore moderno utilizza, a giusto titolo, l’edizione di M. Simonetti (CCL 20, 7-17), forse senza prestare attenzione al fatto che la Prefazione di Rufino alla traduzione dell’Apologia si trova a pp. 233-234. Quanto all’Apologia, essa non ha conosciuto nuove edizioni dopo quella dei de la Rue, che è stata ripresa da Migne. Le diverse parti si possono quindi trovare nella PG 17, secondo l’ordine «rufiniano»: (1) Prefazione di Rufino (PG 17, 539-542); (2) (Primo libro dell’) Apologia di Panfilo (PG 17, 541-616); (3) Liber de adulteratione librorum Origenis (PG 17, 615-632). 60 Dial. 1, 6, 4 (p. 158, ll. 12-14). 61 Apologia, Praefatio (PG 17, 543 A). 62 Si tratta, secondo Panfilo, di una serie di estratti dal Commento all’Epistola a Tito, 3, 10 (PG 17, 553A-556, ripreso in PG 14, 1303-1306), il che è confermato dalle analogie con l’In Titum, 3, 10-11 di Girolamo (PL 26, 596-598). A. Le Boulluec ha analizzato con cura queste pagine degne di nota nell’opera La notion d’hérésie dans la littérature grecque des IIe-IIIe siècles, t. 2, Paris 1985, pp. 524 sgg. 63 Panfilo, Apologia 1 (PG 17, 557 A-C).
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si limita a dire che Origene si è materialmente sbagliato – senza avere l’intenzione,
così sembra, di professare l’errore64 –.
Tuttavia non è né tra gli errori confutati dall’Apologia di Panfilo65, né fra le tesi
presentate nel Peri Archôn che Postumiano ha potuto trovare l’accusa
particolarmente odiosa di cui si fa propagatore. Se avesse tenuto conto della parte
della lettera di Origene riportata nel De adulteratione di Rufino66, avrebbe taciuto
questa tesi scandalosa. Si impongono due interrogativi: dove ha trovato Sulpicio tale
accusa? Perché l’ha riportata?
Lo stesso Postumiano risponde al primo interrogativo; dice di aver avuto accesso a
un altro dossier, redatto dai vescovi ostili a Origene. Nonostante la sua ricchezza,
egli cita soltanto un estratto, il più scandaloso, riguardante la redenzione del
diavolo67. Qui s’impongono diverse considerazioni. Il riassunto offerto da Sulpicio
dimostra che la tesi incriminata non è semplicemente quella della penitenza del
diavolo o dell’apocatastasi, bensì quella di una nuova economia, che assicura la
salvezza del diavolo, così come la prima aveva procurato la salvezza dell’umanità.
Tale affermazione è in netta contraddizione con la Scrittura, al punto che non si
riesce a capire molto bene come Origene abbia potuto considerarla. Abbiamo infatti
testi di Origene che assicurano il contrario68. Ma ciò non vuol dire che Postumiano e
Sulpicio abbiano inventato quest’accusa. Essa figura nella Lettera sinodale che
64 La natura della distinzione di Postumiano è chiara; ma questa non può soddisfare un eresiologo. Credo si possa trovare un’altra analogia tra l’Apologia di Panfilo e quanto afferma Postumiano riguardo alle misure adottate dai vescovi, anche se queste erano presenti sia in Occidente sia in Oriente. Panfilo rimprovera agli avversari di Origene di proibire in blocco qualsiasi lettura delle sue opere, come se il lettore non fosse capace, come avviene per le opere pagane, di fare una cernita (Praefatio, PG 17, 543 A-B; 546 A-B e D). Postumiano ha ignorato l’interdizione, peraltro reale, dei vescovi. Non si fa scrupoli nemmeno nel riprendere l’elogio di Origene, che lo paragona agli Apostoli (1, 6, 5, p. 158, ll. 17-18), benché questo costituisse un rimprovero che si muoveva, agli inizi del IV secolo, ai sostenitori di Origene (Panfilo, Apologia, Praefatio, PG 17, 543 B-C; 545 B-C). 65 Apologia, cap. 5 (PG 17, 577-579). La confutazione del nono errore, riguardante la metensomatosi, termina con un testo che afferma l’eternità delle pene dell’inferno, anche se saranno previsti vari gradi a seconda del peccato (c. 615-616), sia per i demoni sia per gli uomini. 66 Liber de adulteratione, 7 (CCL 20, 11-12=PG 17, 624-626). Su questa lettera di Origene, sul contesto e sulla ricostruzione cfr. P. Nautin, Lettres et écrivains chrétiens des IIe et IIIe siècles, Paris (1961), pp. 132-133, 245-248; Origène, sa vie et son oeuvre, Paris 1977, pp. 161-167. 67 Dialoghi, 1, 7, 1 (p. 158, ll. 19-27). 68 Origene, Commento a Giovanni, 1, 35, 255-256 (SCh 120, 186, n. 2).
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Teofilo d’Alessandria fece ratificare nel 400 in Palestina e a Cipro, e che l’Occidente
ha potuto leggere con tutto il dossier nella traduzione di Girolamo69. Anche se
Postumiano ha potuto aver accesso agli atti del sinodo egiziano, non penso che
Sulpicio, dal canto suo, avesse altre fonti oltre alle traduzioni di Girolamo, non prima
del 401 per il dossier del 400, ma anche per la Lettera pasquale del 40170.
È in queste denunce di Teofilo che Sulpicio ha trovato la tesi della redenzione del
diavolo, e non nella traduzione del Peri Archôn di Girolamo, giacché la Lettera ad
Avito, che ritornerà sull’argomento parecchi anni dopo, sarà obbligata a convenire
che Origene non ha esplicitamente sostenuto tali affermazioni, bensì queste erano
insite nella logica del discorso71. Postumiano non evoca forse esplicitamente alcuni
«ab episcopis excepta»? Resta da capire perché Sulpicio e Postumiano abbiano scelto
di riportare questa accusa tra i «numerosi» errori che, negli scritti di Origene, si
opponevano alla fede cattolica72.
Si è voluto mettere in rapporto la vigorosa condanna da parte di Sulpicio della
redenzione del diavolo con la compassione di cui Martino avrebbe dato prova,
secondo la Vita, arrivando fino al punto di promettere il perdono al diavolo, qualora
facesse penitenza: Sulpicio «avrebbe riparato», nei Dialoghi, a un’imprudenza della
Vita73. Quest’ingegnosità è certamente degna di Sulpicio. Tuttavia mi domando se
non vi siano ragioni più semplici per questa condanna, maggiormente connesse con
l’ascetismo.
Se infatti può apparire sorprendente, a chi consideri nel loro insieme l’origenismo e
la controversia origeniana, che nei Dialoghi non venga fatta nessuna menzione
69 Girolamo, ep. 92, 4 (CUF 4, p. 154, ll. 22-26): «In alias quoque impietates furibundus exultat uolens eum qui in consummatione saeculorum et in destructione peccati semel passus est, Dominum nostrum Iesum Christum pro daemonibus quoque et spiritalibus nequitiis crucem aliquando passurum...». 70 Girolamo, ep. 96, 10 (CUF 5, p. 17, l. 27): «dicens eum et pro daemonibus ac spiritalibus nequitiis apud superos adfingendum cruci. Nec intellegit in quam profundum impietatis conruat barathrum: si enim Christus pro hominibus passus homo factus est, ut scripturarum testantur eloquia, consequens erit ut dicat Origenes: Et pro daemonibus passurus, daemon futurus est...». I due § 11-12 proseguono nella stessa direzione. 71 Girolamo, ep. 124, 12 (CUF 7, p. 111, ll. 5-11). Allusione più generale e più sottile nel Contra Rufinum 1, 20 (ed. P. Lardet, SCh 303, p. 57, ll. 3-5). Sulla Lettera di Giustiniano a Mena cfr. Koetschau (GCS 22, 344-345); H. Crouzel, Origène, Traité des principes I-II (SCh 263, 148-149, n. 24). 72 Dial. 1, 7, 1 (p. 158, ll. 20-21). 73 Alla base di tutto, pare, il Commentaire di J. Fontaine alla Vita Martini 22, 5 (SCh 135, pp. 981-985 e, per il ricorso a questo passo dei Dialoghi, p. 982, n. 2), ripreso e ampliato da G.K. Van Andel (art. cit., n. 3), che parla di palinodia («recantation») (p. 285); accettato da Cl. Stancliffe (op. cit., p. 309 e n. 1) e Fl. Ghizzoni (op. cit., p. 172 e n. 6).
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alle questioni trinitarie e alla natura del corpo resuscitato74, non stupisce affatto che
alcuni asceti, occidentali e orientali, siano rimasti scandalizzati dall’idea che colui
contro il quale avevano intrapreso una lotta mortale, un giorno si sarebbe salvato. La
medesima ostilità dimorava nei semplici cristiani, cui veniva ricordata la rinuncia
alla quale si erano impegnati con il battesimo. Senza sfociare in un manicheismo
consapevole e ponderato, i monaci vedevano nell’Avversario il Male assoluto e
proteiforme. Immaginare che Cristo potesse assumere una seconda missione e
potesse di nuovo soffrire la Passione per salvare il diavolo rappresentava la
negazione della propria lotta, nonché una formale contraddizione nei confronti della
Scrittura. Basta vedere come Girolamo, nella predica alla comunità di Betlemme,
colse l’occasione per ironizzare sul diavolo e sul suo destino finale75. Il suo uditorio76
era più direttamente interessato a simili questioni, che non a sviluppi più speculativi.
Negli stessi Dialoghi, se Cristo esercita la propria potenza attraverso i vari monaci
d’Egitto77, come negli atti di Martino78, cionondimeno l’Avversario, con le sue
tentazioni e con le sue illusioni, è il suo principale nemico, e quello dei monaci79. Ciò
che Martino si era sentito dire dopo il congedo dall’esercito continua ad avverarsi per
tutti: «Ovunque tu vada e qualsiasi cosa tu faccia, troverai il diavolo di fronte a te»80.
Se questi occupa dunque un posto ingombrante nella vita di tutti i giorni, non
stupisce che Postumiano e Sulpicio siano stati arrestati a causa delle proposte
scandalose attribuite a Origene, senza che venisse concessa a Sulpicio la facoltà di discolparsi
74 Già sottolineato da Van Andel (art. cit., p. 283). Dato lo spazio che occupano tali questioni tra il 395 e il 410, il silenzio di Sulpicio desta curiosità. 75 Cfr. Tr. de Ps. 7, 17 (CCL 78, 26, ll. 21-27, l. 230); 81, 7 (p. 86, ll. 129-135). Ma lo scandalo non è mai stato denunciato con la stessa veemenza del 396 e del 399, da un lato nell’In Ionam, 3, 6-9 (SCh 323, 272-274 e in particolare ll. 171-176), dall’altro nell’ep. 84, 7 (CUF 4, p. 133, ll. 6-9): «Gabriele sarà uguale al diavolo, Paolo a Caifa, le vergini alle prostitute?». 76 Su quest’uditorio formato da simpliciores cfr., ad es., il Tr. de Ps. 91, 11 (CCL 78, p. 139, ll. 197-198). 77 È una delle prime domande che Sulpicio formula a Postumiano. Dial. 1, 2, 2 (p. 153, l. 25 - p. 154, l. 1). Cfr. anche Dial. 1, 14, 6 (p. 167, l. 4); 15, 6 (p. 168, ll. 10-17) ecc. 78 L’affermazione è esplicita nel Dial. 3, 10, 5 (p. 208, ll. 4-7). 79 Mi limito alla conclusione del racconto di Postumiano sull’asceta dalla «falsa giustizia», che viene infine liberato dallo spirito del male («ab immundo spiritu liberatus»): «Haec uos de uirtutibus Domini quae in seruis suis, uel imitanda operatus est uel timenda, scire sufficiat» (Dial. 1, 22, 5, p. 175, ll. 17-18). Sappiamo che il pensiero orgoglioso gli era stato messo in testa dal diavolo (Dial. 1, 22, 2, p. 174, ll. 24-25). 80 Vita Martini, 6, 2 (ed. J. Fontaine, p. 264).
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per una parola di Martino che diventava imprudente nel clima della controversia
origeniana.
Durante questa parentesi alessandrina Postumiano, se si presta attenzione alle sue
velate indicazioni, ha saputo mostrare di non sposare ciecamente né il punto di vista
dei monaci, né quello dei vescovi. Egli ha osato ignorare le prescrizioni dei vescovi,
che vietavano la lettura di Origene; e se non esita a riconoscere di aver trovato
qualche errore palese, non nasconde che molte pagine gli sono piaciute. Rimprovera
ai vescovi di aver esercitato un’autorità brutale81 – e soprattutto di essere ricorsi alla
forza civile82 –, ma a ognuno la propria passione83, senza decidersi a biasimare
apertamente l’insubordinazione dei monaci, che «forse avrebbero dovuto ubbidire ai
vescovi»84. Non sarebbe del tutto sbagliato affermare che, in fondo, Postumiano si
schiera più volentieri dalla parte dei monaci, o quanto meno delle vittime; ma lo fa
non senza resistenza, almeno sul piano intellettuale.
Infatti mentre siamo ancora ad Alessandria, Postumiano dichiara di essere molto
turbato dalla posizione di Girolamo; dopo esser stato preso per sostenitore di
Origene, questi è ora tra i primi a condannare tutti i suoi scritti85. Questa
confessione, mascherata tra complimenti sull’ortodossia e sulla cultura
dell’esegeta86, arricchita di riserve che non vincolano Postumiano, annuncia con
ogni probabilità il lungo racconto del soggiorno a Betlemme. Tuttavia questo non
va letto isolatamente. In realtà Postumiano tiene prudentemente per sé la propria
opinione87, dicendo che i pareri dei più saggi sono discordi e che egli non ha
l’audacia né la temerarietà di dare un giudizio su chicchessia88. In questo nuovo
confronto Postumiano risparmia Rufino e la sua cerchia, senza conferire a Girolamo una
81 Dial. 1, 6, 3 (p. 158, ll. 8-10). 82 Dial. 1, 7, 2 (p. 159, ll. 1-4). Scaeuum exemplum fornisce Postumiano! 83 Dial. 1, 7, 2 (p. 158, l. 28): «ex studiis partium orta seditio»; 1, 7, 4 (p. 159, l. 13): «... nisi contentione creuisset». 84 Dial. 1, 7, 6 (p. 159, ll. 17-18). Il seguito muove un rimprovero – stilisticamente ben studiato e bilanciato – ai vescovi. 85 Dial. 1, 7, 3 (p. 159, ll. 4-7). 86 Girolamo è «sacrae legis peritissimus», così come Origene passava per un «tractator scripturarum sacrarum peritissimus». Ma è anche «uir maxime catholicus». 87 «Putabatur», dice (p. 159, l. 7) e «damnaret», al congiuntivo (l. 8). Tali sfumature corrispondono alle apologie di Girolamo, o nella lettera 84 a Pammachio e a Oceano, o nella risposta a Paolino di Nola del 399. Cfr. il testo dell’ep. 85, 3, in cui Girolamo nega sia di aver composto la palinodia, sia di condannare in blocco Origene. 88 Dial. 1, 7, 3 (p. 159, ll. 8-10).
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posizione oltranzista. Vedremo in seguito uno dei motivi di questo saggio equilibrio.
Dopo aver espresso un parere prudente sul nocciolo della controversia, Postumiano
emette un giudizio più categorico sulla piega violenta che ha preso la discussione.
Confessa di non esser potuto, nonostante le proposte del vescovo, rimanere ad
Alessandria, dove i monaci erano stati duramente maltrattati da parte dei vescovi89.
Tale dichiarazione svela sicuramente uno dei motivi per cui Postumiano si è
soffermato così a lungo sull’episodio. H. Delehaye vi vedeva soltanto un indizio
dell’autenticità del soggiorno di Postumiano ad Alessandria90, negato da E.-Ch.
Babut. J. Gribomont, pur notando che una «relazione così completa non ha potuto
essere immaginata da lontano»91, sottolinea a giusto titolo «la connessione con i
problemi dell’ambiente martiniano»92, in particolare l’analogia tra le rispettive
condanne dell’origenismo e del priscillianesimo. Cedo a lui la parola: «Non si può
fare a meno di pensare che le riflessioni sull’eccesso di severità» – aggiungerei
soprattutto: il ricorso al potere civile – «e sul carattere dubbio dell’eresia condannata
abbiano qualche relazione con la questione di Treviri del 385. Non bisogna dedurre
che Sulpicio abbia visto nel priscillianesimo un nuovo sviluppo della questione
origeniana; tuttavia egli adotta in entrambi i casi lo stesso atteggiamento riservato,
dinanzi alle severità appassionate dell’episcopato. Non intende in nessun modo
difendere le tesi incriminate, ma constata il valore dell’insegnamento ascetico che le
accompagna nell’ambiente monastico, e chiede ai vescovi di non abusare della loro
autorità»93. Non c’è molto da aggiungere a tale giudizio. Tuttavia preciserei che
l’aspetto dottrinale importa meno a Sulpicio della vita morale. I monaci forse
sbagliano a seguire Origene, ma non per questo non conducono una vita
cristiana. Ciò che addolora Postumiano è «che una così grande moltitudine di
monaci che vivevano nella confessione di Cristo» abbia potuto essere maltrattata,
89 Dial. 1, 7, 5-6 (p. 159, ll. 14-20). Va notato che Postumiano non dice nulla riguardo al voltafaccia di Teofilo, come neppure del comportamento tenuto dagli occidentali e in particolare da Anastasio. 90 H. Delehaye, art. cit., p. 86. 91 J. Gribomont, art. laud., p. 146 a metà. Tuttavia c’è da discutere. Come Babut e Delehaye, egli non segnala il materiale utilizzato da Sulpicio. 92 Art. laud., p. 145. Così Cl. Stancliffe, p. 308. Si noterà come il scaeuum exemplum del Dial. 1, 7, 2 (p. 159, l. 1) sia in linea con il pessimum exemplum di Chron. 2, 51, 5 (p. 104, l. 17). Cfr. anche Chron. 2, 47, 5 (p. 101, ll. 1-2). 93 J. Gribomont, art. laud., p. 147.
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«e soprattutto dai vescovi»94. I monaci d’Egitto che Postumiano incontra non sono
teologi95 e non sono nemmeno spirituali come gli abati di Cassiano, bensì valorosi
esempi di virtù. Appare qui l’occidentale, ed è soprattutto lui che Postumiano
riconosce in Girolamo, anche se inizia col celebrarne la cultura96.
***
Non è tuttavia né l’esegeta, né il traduttore, né l’agiografo a interessare Sulpicio,
bensì lo scrittore spirituale e il moralista. Non mi soffermerò sul lungo elogio della
Lettera a Eustochio e sul suo significato in quegli anni e in quelle regioni97. Spero di
poter ritornare sull’argomento altrove, con i dovuti dettagli98. Per iniziare il dibattito
mi limiterò a fare qualche osservazione e a porre almeno una domanda.
Innanzitutto è opportuno notare come Postumiano, stando al suo
r a c c o n t o , s a l t i l a t a p p a d i G e r u s a l e m m e p e r r e c a r s i i n v e c e a
94 Dial. 1, 7, 6 (p. 159, ll. 19-20). 95 Niente, beninteso, su Evagrio, morto nel 399. Ma nel suo periplo Postumiano non rievoca né Nitria, né Scete. Eppure ha sentito parlare di due monaci di Nitria (Dial. 1, 15, 3, p. 167, l. 19) ed è forse passato per Nitria (Dial. 1, 23, 6, p. 176, l. 11). 96 Dial. 1, 8, 2 (p. 159, l. 27 - p. 160, l. 1): «Vir enim, praeter fidei meritum dotemque uirtutum, non solum Latinis adque Graecis sed et Hebraeis litteris ita institutus est ut se illi in omni scientia nemo audeat comparare». 97 Dial. 1, 8, 4-1, 9, 3. 98 Mi limito, a mo’ di anticipazione, alle seguenti indicazioni, che riguardano la menzione da parte di Gallo e di Sulpicio della Lettera a Eustochio, nei capitoli 8 e 9: Halm, nella sua edizione, ha rilevato soltanto la citazione del cap. 14, e Cl. Stancliffe non sbaglia nel riconoscere un’altra citazione nell’«usque ad uomitum solere satiari». Ma bisogna andare oltre, e notare innanzitutto che quest’ultimo attacco concerne, in Girolamo, i remnuoth d’Egitto, la peggior razza di monaci, per Girolamo la più frequente «nella nostra provincia» (ep. 22, 34). Significa forse che questa «provincia» sarebbe la Pannonia, come afferma anche Cl. Stancliffe (op. laud., p. 310, n. 49)? Non credo. Questi monaci sono accusati di darsi non soltanto ai bagordi, ma anche a traffici più o meno leciti. Martino aveva messo un freno a tale genere di pratica: cfr. la n. 25. Gli altri vizi segnalati da Gallo (auaritia, uanitas, superbia e superstitio) meritano un capitolo a parte in Girolamo, cosicché l’utilizzo dell’ep. 22 non si limita a denunciare i monaci voraci e indisciplinati, le agapete e i loro compagni, monaci o chierici. Sarei propenso a sentire nel nihil penitus omisit (Hieronymus) quod non carperet, laceraret, exponeret di Sulpicio un’eco dell’ut, quidquid ad laudem uirginum pertinet, exquisierit, ordinarit, expresserit di Girolamo, riguardante Ambrogio e il suo elogio delle vergini (ep. 22, 22). Ma soprattutto il giudizio di Gallo, anche se non è confermato da Sulpicio, corrisponde a quanto detto da Rufino circa l’accoglienza della Lettera a Eustochio nel 384 (Apol. c. Hieronymum, 2, 5, CCL 20, 86-87) e circa il suo giudizio sulla satira presente nella lettera, che non risparmia nessuno. Girolamo lo aveva riconosciuto nel 394, nella sua Lettera a Nepoziano (ep. 52, 17, CUF 2, p. 191), nota a Sulpicio.
182
Betlemme, da Girolamo99. Se si pensa che era un personaggio importante, al punto
che Teofilo voleva trattenerlo presso di lui ad Alessandria100, non stupisce forse che
non venga fatta nessuna menzione di un intervento presso il vescovo di
Gerusalemme? Eppure questi è menzionato, ma semplicemente come colui che dirige
la paroechia di Betlemme101. Il che non è meno sorprendente per chi conosce le
dispute di Girolamo con Giovanni di Gerusalemme tra il 393 e il 397, prima e dopo
l’ordinazione di Paolino da parte di Epifanio. Il monaco e la sua comunità erano stati
scomunicati102 e il vescovo di Gerusalemme aveva richiesto contro i turbolenti una
sentenza d’esilio, che per poco non venne eseguita103. Postumiano, che non visita
Girolamo per la prima volta, probabilmente conosceva tali vicende. Eppure non apre
bocca104. Forse perché nel 400, prima che saltasse fuori un nuovo episodio della
controversia tra lui e Rufino, i rapporti tra Girolamo e il suo vescovo non sono cattivi
come quelli che Postumiano ha scoperto ad Alessandria tra monaci e vescovo105?
99 Dial. 1, 8, 2 (p. 159, ll. 26-27): «Facile obtinuerat ut nullum mihi expetendum rectius arbitrarer...». 100 Dial. 1, 7, 5 (p. 159, ll. 14-16). 101 Dial. 1, 8, 2 (p. 169, ll. 23-24): «Ecclesiam loci illius (=Oppidi Bethleem) Hieronymus presbyter regit; nam paroechia est episcopi qui Hierosolymam tenet». Questa frase di Sulpicio presenta una duplice difficoltà. Come va intesa l’affermazione di Sulpicio? In cosa quest’affermazione corrisponde alla reale situazione di Girolamo? Dom Antin (L’Édition J. Fontaine de Sulpice Sévère, Vita Martini, in Revue Mabillon 58 [1970] 31-32) ha proposto la seguente traduzione: «Il prete Girolamo gestisce la comunità di quel luogo; quanto alla diocesi, essa è di competenza del vescovo di Gerusalemme», criticando la traduzione di J. Fontaine (Commentaire de l’ep. 1, 10, p. 1149): «Il prete Girolamo dirige la chiesa del luogo, essendo una parrocchia che appartiene al vescovo di Gerusalemme». La difficoltà sta non tanto nel termine ecclesia, le cui accezioni variano in Severo, quanto nel termine paroechia, che è un hapax, mentre l’autore utilizza numerose volte dioecesis, sia al singolare sia al plurale. In Oriente paroechia corrisponde alla nostra «diocesi»; ma si trova a quel tempo, in Occidente, un uso di paroechia equivalente a quello di ecclesia (Concilio di Torino, c. 1; CCL 148, 54, ll. 13-14: «assereret (Proculus) easdem ecclesias uel suas parrocias fuisse...»), in un senso che designa le chiese locali, le «parrocchie». Severo non scrive per l’Oriente, né ha il gusto dell’esotico. Tutt’altra questione è sapere quale fosse il ruolo di Girolamo a Betlemme, che cosa abbia visto o capito Postumiano, che cosa abbia voluto esprimere sottolineando che Girolamo era prete ecc. 102 P. Nautin, L’excommunication de saint Jérôme, in Annuaire de la Ve Section de l’EPHE 80-81 (1972) 7-37. 103 Girolamo, ep. 82, 10 (CUF 4, p. 121, ll. 18-21 - p. 122, ll. 5-9). 104 Allo stesso modo Sulpicio può essere al corrente di questi dibattiti grazie a Vigilanzio, che si è ritrovato coinvolto. 105 Un (fragile) indizio è dato dal S. de Quadragesima, in cui Girolamo chiede al proprio uditorio di non criticare i vescovi, e ai vescovi di non a b u s a r e d e l l o r o p o t e r e ( C C L 7 8 , 5 3 4 , l . 4 2 - p . 5 3 5 , l . 4 9 ) .
183
Ciò non significa che Girolamo non abbia nemici. Postumiano, che ha passato sei
mesi presso Girolamo e che è stato iniziato alle sue controversie, dichiara: «egli porta
avanti senza tregua la lotta contro i cattivi e questa lotta perpetua ha fatto nascere
l’odio. Gli eretici lo odiano, perché egli non smette di combatterli; i chierici lo
odiano, perché attacca la loro vita e le loro colpe (crimina!); ma sicuramente tutta la
brava gente lo ammira e lo ama. Quanto a coloro che lo reputano un eretico, questi
sragionano. In realtà cattolica è la cultura dell’uomo, retto il suo insegnamento. Egli
è sempre occupatissimo nella lettura, votato anima e corpo ai libri. Non riposa né di
giorno né di notte. È sempre intento a leggere o a scrivere...»106.
Cavallera, che cita il testo e vede in esso l’equivalente del durissimo giudizio di
Palladio sulla bascania di Girolamo, crede che riguardi la cerchia palestinese di
Girolamo, che egli punzecchiava con aspre critiche107. Ora, se Girolamo prestava
sicuramente molta attenzione a ciò che accadeva nei monasteri latini di Gerusalemme
e della Palestina, era ben più preoccupato per tutto ciò che accadeva in Occidente, e
in particolare a Roma. È dunque in queste regioni occidentali che vanno cercati gli
eretici e i chierici che lo attaccano, per i motivi espressi da Postumiano.
Ma chi sono coloro che accusano Girolamo di essere un eretico e in cosa consisterebbe
la sua eresia? Cl. Stancliffe riconosce facilmente Vigilanzio108, il quale nel 395-396 aveva
sparso per l’Italia la voce che Girolamo sposava le idee di Origene109. La pista vale la pena
Un sermone di Natale viene pronunciato dinanzi al vescovo (Ibid., p. 525 Titolo (apparato); p. 529, ll. 182-184), secondo la consuetudine citata da Egeria. Diversi tractatus mostrano che Girolamo è preceduto o seguito da un altro prete (v.g. Tr. de Ps. 96, 1, CCL 78, p. 157, ll. 29-30). Ciò non toglie che dopo il 401-403 la controversia tra Girolamo e Rufino si sia riaccesa, e che essa coinvolga Giovanni. 106 Dial. 1, 9, 4-5 (p. 161, ll. 4-12): «Apud Hieronymum sex mensibus fui. Cui iugis aduersum malos pugna perpetuumque certamen conciuit odia perditorum: oderunt eum haeretici, quia eos impugnare non desinit; oderunt eum clerici, quia uitam eorum insectatur et crimina. Sed plane eum boni omnes admirantur et diligunt. Nam qui eum haereticum esse arbitrantur insani sunt. Vere dixerim: catholica hominis scientia, sana doctrina; totus semper in lectione, totus in libris est. Non die neque nocte requiescit. Aut legit aliquid semper aut scribit...». 107 F. Cavallera, Saint Jérôme, sa vie, son oeuvre, Paris 1922, I, 1, p. 196, n. 2. Sul giudizio di Palladio cfr. Hist. Lausiaca 36, 6. Così P. Lardet nella sua Introduction al Contre Rufin (SCh 303, pp. 66*-67*). 108 Cl. Stancliffe, op. laud., p. 309. 109 Da qui la reazione di Girolamo nella sua ep. 61, del 396. Cl. Stancliffe (p. 303, n. 27) mette in dubbio il ritorno di Vigilanzio attraverso l’Egitto. È vero che il «Dimisisti Aegyptum» dell’ep. 61, 1 (CUF 3, p. 111, l. 6) non va per forza inteso come una partenza fisica (cfr. Contra Rufinum 1, 2 - ed. Lardet, p. 10, ll. 10-12: «prae te rmis s i s ») . Ma i l Contr a Ru f inum 3 , 19 (p . 264) n o n c o n t e s t a
184
di essere seguita110. Ma si può pensare anche alla cerchia di Rufino. Girolamo dirà di
loro che lo amano «così tanto che non potrebbero essere eretici senza di lui»111. La
lettera che Girolamo scrive a Pammachio e a Oceano al momento della traduzione
del Peri Archôn nel 399 spiegherebbe i dinieghi di Postumiano, così come la
testimonianza apportata sull’accanimento di Girolamo nello studio112. A Paolino di
Nola Girolamo fa notare, poco dopo, che egli non condanna «in blocco tutto (cuncta)
ciò che Origene ha scritto, come gli rimproverano gli zelatori importuni di Origene,
bensì soltanto le tesi errate»113. Questo nel momento in cui rimanda Paolino alla
lettura dell’Archôn a proposito del libero arbitrio e della resistenza del Faraone114 –
pur affermando che nel trattato vi è «più male che bene»115 –. Pertanto avere gli
occhi rivolti solamente verso Vigilanzio e quindi verso la Gallia significa
probabilmente restringere troppo il campo d’indagine, anche se è vero che nel 402
Girolamo avrebbe detto – ma a fatto compiuto – che rispondendo a Vigilanzio nel
396, rispondeva anche a Rufino e ai suoi amici116.
Chiunque siano le persone prese di mira, il giudizio è duro: coloro che accusano
Girolamo di eresia sragionano. Insani sunt. Si potrebbe addirittura andare oltre e
collegare a questa dichiarazione quella che definisce l’insegnamento di Girolamo
sana doctrina. Si comprenderà allora perché Severo non possa permettersi di
pronunciare uno o più nomi, se pensa a Rufino come io credo. All’epoca è in
contatto con lui, direttamente o tramite l’intermediario di Paolino di Nola. È noto
che la Cronaca utilizza il racconto dell’invenzione della Croce fa t to da
il passaggio per Alessandria, cui faceva riferimento la lettera di Rufino. Questi era ancora a Gerusalemme al tempo della partenza di Vigilanzio. Girolamo contesta l’accusa lanciata da Rufino contro Vigilanzio, non la veridicità del passaggio per Alessandria. 110 Questa pista è legata alla ripresa della tesi di Babut, sulla quale mi riservo di ritornare. 111 Girolamo, ep. 84, 1 (CUF 4, p. 125, ll. 15-16): «... et tantum me diligunt ut sine me heretici esse non possint». 112 L’epistola 84 è una lunga apologia della sua sete di sapere (nonché della sua attenzione per l’ortodossia). Cfr. ad es. il § 3 (pp. 126-128), in cui si trova la famosa frase: «i papiri di Alessandria hanno svuotato la nostra borsa». 113 Girolamo, ep. 85, 4 (CUF 4, p. 140, ll. 18-23): «... ne me putes (...) cuncta Origenis reprobare quae scripsit (quod in me criminantur ακαιροσπουδασταί eius et quasi Dionysium philosophum arguant subito mutasse sententiam), sed tantum praua dogmata repudiare». 114 Girolamo, ep. 85, 3 (CUF 4, pp. 139-140). 115 Ibidem (p. 140, l. 9): «in quibus mali plus quam boni est». 116 Girolamo, Contra Rufinum 3, 19 (ed. P. Lardet, SCh 303, 264-266).
185
Paolino nella sua epistola 31 a Severo, partendo dalla relazione di Melania, sua
parente nonché protettrice di Rufino117. Il racconto accompagna l’invio di un
frammento della vera Croce a Bassula, suocera di Sulpicio, e questo in mancanza, se
così si può dire, delle reliquie che Severo aveva richiesto all’amico per la
consacrazione della sua chiesa di Primuliacum118. Nessuna di queste circostanze è
priva di importanza, specie quella che collega Severo a Rufino.
Ve n’è un’altra che è più diretta, ma che non ha ricevuto, a mio avviso, tutta
l’attenzione che merita119, quando non è stata interpretata in senso contrario120. È
noto che, per la Cronaca, Sulpicio aveva confidato le proprie difficoltà cronologiche
a Paolino. Questi ha inviato il dossier a Rufino, in quanto era la persona più capace
di rispondere a simili domande, e ha abbozzato per Sulpicio un elogio di Rufino121.
Questi non ha potuto non dare una risposta, qualunque essa fosse, alla consulenza,
nel momento stesso in cui Severo componeva, parallelamente o quasi, la Cronaca e i
Dialoghi. Simili relazioni imponevano almeno la discrezione.
***
Come si è visto, queste poche pagine dei Dialoghi, considerate per sé stesse, vanno
prese con la dovuta cautela; esse mostrano Sulpicio preoccupato di conservare in
Aquitania un prudente equilibrio tra le parti che si stanno affrontando con violenza in
altri luoghi. Ma l’analisi di queste pagine diventa ancor più difficile, se si prova a
collocarle nell’insieme dei Dialoghi e nel loro contesto cronologico.
117 Sulpicio, Chronica, II, 33-34 e Paolino, ep. 31, 4 sgg. Cfr. G.K. Van Andel, The Christian Concept of History in the Chronicle of Sulpicius Severus, Amsterdam 1976, pp. 49 sgg. 118 Paolino, ep. 31, 1 (CSEL 29, 267-268). 119 Rimando, per quanto si può ricavare allo scopo di definire lo spirito della Cronaca (che tace riguardo a Teodosio), a ciò che ho scritto nelle Métamorphoses de l’historiographie, pp. 150-151. 120 Rufino ha forse utilizzato la Cronaca di Sulpicio (Van Andel, op. cit., p. 91 e n. 295-296. Cl. Stancliffe, op. cit., p. 69)? Sulpicio ha forse utilizzato l’aggiunta di Rufino alla Storia Ecclesiastica di Eusebio, o dipendono entrambi da un’altra fonte? La questione è degna di esser presa in esame, anche se pone problemi di cronologia. Sullo spirito della Storia di Rufino cfr. le mie Métamorphoses, pp. 151-159. 121 Paolino, ep. 28, 5 (CSEL 29, 245-246).
186
Si può sperare che una moderna edizione critica122 venga ad appianare alcune
difficoltà, che rendono oscura la visione dell’architettura generale dell’opera, nonché
la lettura certa di questa o di quella pagina. Tuttavia resterà ancora da determinare la
datazione dei Dialoghi, distinguendo probabilmente la data in cui si ritiene si siano
svolti gli incontri di Primuliacum e quella in cui l’opera è stata composta e
pubblicata, secondo la tradizione ciceroniana che Sulpicio ben conosce.
Concluderò porgendo una domanda a Dom Gribomont, rammaricandomi che non
sia stato più esplicito e che non possa più rispondere. Nell’articolo intorno al quale
ho scritto queste pagine, egli ripete due volte un’osservazione che presuppone un
sincronismo e che spingerebbe a ulteriori ricerche. Collocando i Dialoghi rispetto
alla Vita, dichiara innanzitutto: «Forse il carattere più impegnato dei Dialoghi è
legato a una nuova ondata di propaganda orientale, costituita dalle opere di Girolamo
e dalle traduzioni di Rufino»123. E nella conclusione: «Nei Dialoghi, verso il 404,
(Sulpicio) passa all’attacco, forse in seguito a una nuova ondata di propaganda
venuta da Betlemme o da altrove...»124. Due forse che non sono stati rispettati da
coloro che hanno notato il suggerimento125. Questo aspetto, che io sappia, non è stato
approfondito; avrei volentieri chiesto all’autore che cosa avesse in mente. Ricorderò,
non senza pensare al nostro amico, che nella Prefazione alla traduzione della Regola
di Basilio, Rufino si congratula con Ursacio per non averlo interrogato, al ritorno da
Gerusalemme, sulle regioni e sulle risorse dell’Oriente, bensì sulla vita dei monaci126.
122 Fl. Ghizzoni (op. laud., p. 145, n. 2) rivela l’esistenza di un’edizione provvisoria di G. Augello datata 1969, che non conosco, il che costituisce una buona notizia rispetto all’ultimo studio a me noto di G. Augello: La tradizione manoscritta ed editoriale delle opere martiniane di Sulpicio Severo, in Orpheus, NS. 4 (1983) 413-426, dedicata alla memoria di B.M. Peebles. 123 Art. laud., p. 144. 124 Ibidem, p. 148. 125 Così A. Hamman, nel tomo III dell’edizione italiana della Patrologia di Quasten (Roma 1978, p. 513): «Sulpizio Severo prende posizione contro un’ondata di pubblicità venuta da Betlemme e da altre parti». Cfr. anche Fl. Ghizzoni, op. cit., p. 137, n. 5. 126 Rufino, Praefatio in Regulam sancti Basili (CCL 20, p. 241, ll. 7-11=CSEL 86, ed. Kl. Zelzer, pp. 3-4): «Et inde maxime delectati sumus quod non, ut aliquibus mos est, uel de locis uel de opibus Orientis sollicite percontatus es, sed quaenam ibi obseruatio seruorum Dei haberetur, quae animi uirtus, quae instituta seruarentur in monasteriis quaesiuisti».
187
La Miscellanea postuma non nasconde un pizzico di amarezza. Ma non potendo
sentire la risposta del nostro amico, mi rallegro di aver avuto con lui tanti scambi,
nell’amicizia anche con Rufino e con Girolamo, così come con Origene e con
Basilio. Non inane munus, seguendo Ambrogio, piuttosto che Sulpicio, nella ripresa
di Virgilio127.
YVES-MARIE DUVAL
(1988)
127 Per Pomponio, Sulpicio riprende nel Dial. 2 (3), 18, 2 (p. 216, ll. 14-15) l’Orazione funebre di Marcello da parte di Anchise (Aen. 6, 884-885), che Ambrogio aveva cristianizzato nel suo De obitu Valentiniani, 56 (ed. O. Faller, CSEL 73, 356; cfr. Y.M. Duval, Formes profanes et formes bibliques dans les Oraisons funèbres de saint Ambroise, in Christianisme et formes littéraires de l’Antiquité tardive en Occident [Entretiens de la Fondation Hardt, 23], Vandoeuvres-Genève 1977, pp. 271-274).
188
Yves-Marie Duval
RUFINO E IL CANONE DELL’ANTICO TESTAMENTO
Fondamenti dottrinali e sfondo pastorale della
controversia con Girolamo sulla Bibbia dei cristiani Rufino di Aquileia, di Concordia, di Gerusalemme, di Alessandria, di Pineto, di
Roma? Tutte queste domande ed esitazioni, che scandiscono la vita di Rufino,
riguardano in buona parte anche la sua opera. Non tanto perché non siamo sempre
in grado di distinguere le opere scritte a Roma, ad Aquileia, a Pineto o in Sicilia,
quanto perché dobbiamo costantemente chiederci se tali opere siano scritte per un
determinato pubblico o se non traducano, in primo luogo, le preoccupazioni
personali di Rufino, nonostante le apparenti «commissioni» che si sforza di
onorare. Rufino porta forse avanti un’opera personale, con gli occhi fissi
sull’Occidente o su Gerusalemme, dove non sembra aver rinunciato a ritornare, o
forse questo pellegrino, talvolta suo malgrado, è rimasto senza fissa dimora, a
forza di cambiare residenza e orizzonti e di essere travolto dagli imprevisti della
vita e da circostanze inattese?
Può sembrare strano porsi simili domande nell’analizzare la posizione di Rufino
nei confronti del Canone delle Scritture, in particolare dell’Antico Testamento. In
realtà tali interrogativi valgono per la maggior parte dei temi affrontati dal nostro
autore. Tuttavia meritano una formulazione particolare se parliamo del Canone
della Scrittura, perché si tratta di un argomento di attualità generale1 alla fine del
IV secolo e agli inizi del V, che al tempo stesso costituisce oggetto di discussione
e di polemica particolare, a causa dello scompiglio creato da Girolamo in
Occidente e anche a Gerusalemme2, dopo che questi si è richiamato all’hebraica ueritas.
1 Mi limito a rimandare all’opera collettiva, a cura di J.D. KAESTLI e O. WERMELINGER, su Le Canon de l’Ancien Testament. Sa formation et son histoire, Genève, 1984; cfr. in particolare gli studi di E. JUNOD e O. WERMELINGER. 2 Le numerose Prefazioni di Girolamo alle sue traduzioni potrebbero far pensare c h e l ’ a g i t a z i o n e e l e c r i t i c h e f o s s e r o l a t i n e ( o i n O c c i d e n t e , o n e l l a
189
È possibile distinguere in modo ancor più netto i due ordini, i due insiemi? O
forse questi si sovrappongono, s’intersecano a un punto tale che si può guardare
alle varie dichiarazioni di Rufino come a un insieme unico, che rappresenta un
pensiero unificato, pienamente cosciente e indipendente dalle circostanze del
momento? È facile intuire per quale ipotesi io propenda. Le testimonianze di
Rufino sono state più volte registrate in modo sbrigativo dagli storici del Canone,
senza interrogarsi troppo sul possibile sfondo (e su quello reale)3. Sono state
giustapposte, in un certo qual modo, le sue prese di posizione, senza analizzarne
la coerenza e la coesione. Ma soprattutto non si è prestato il dovuto interesse né
alla cronologia relativa, né all’anteriorità o posteriorità rispetto a questa o a quella
presa di posizione di Girolamo, senza dimenticare Cromazio di Aquileia, di cui
ora sappiamo che conosceva il Canone di Muratori4. Non ritroviamo forse
l’Expositio Symboli datata 380, in un lavoro che verte in modo specifico sulla
storia del Canone5, e non vediamo Girolamo che segue semplicemente l’opinione
di Rufino6? Anche senza raggiungere un tale grado di errore,
l’approssimazione non è priva di conseguenze, a seconda che si faccia
risalire l’Expositio Symboli al 404, come viene spesso affermato7, a l
cerchia latina di Gerusalemme). Il riferimento di Girolamo a Palladio di Elenopoli e alle accuse riguardanti la traduzione dall’ebraico (Dial. aduersus Pelagianos, Prologus, 2 – PL 23 (1845), c. 497 B-C) mostra che anche i Greci si sentivano chiamati in causa. L’amico Sofronio non aveva forse tradotto in greco diverse sue traduzioni (latine) dall’ebraico? In ogni caso Rufino non ha aspettato di ritornare in Occidente (397) per prendere parte alla discussione. 3 Secondo TH. ZAHN (Geschichte des neutestamentlichen Kanons, II, 1, Erlangen-Leipzig, 1890, pp. 240-244) la miglior monografia sul canone di Rufino è stata per lungo tempo quella di M. STENZEL (Der Bibelkanon des Rufinus von Aquileia in Biblica 23, 1942, pp. 43-61). O. WERMELINGER (Le canon des Latins au temps de Jérôme et d’Augustin, in Le Canon de l’Ancien Testament, pp. 153-196 e soprattutto pp. 160-166) fornisce una rapida presentazione. Il mio interesse sarà rivolto non tanto alla storia del Canone, quanto alle implicazioni in Rufino. 4 H. LEMARIÉ, Saint Chromace d’Aquilée témoin du Canon de Muratori, in REAug. 24, 1978, pp. 101-102. 5 H.H. HOWORTH, The Influence of Saint Jerome on the Canon of the Western Church, II, in JTS 11, 1910, pp. 321-347 e in particolare pp. 344-345. 6 A. LOISY, Histoire du Canon de l’Ancien Testament, Paris, 1890, pp. 112-113; p. 117. 7 È la datazione proposta da F.X. MURPHY (Rufinus of Aquileia (345-411). His life and Works, Washington, 1945, p. 179, n. 86 secondo Kattenbusch; p. 185
190
4028 oppure intorno al 4009. L’opera è precedente o successiva all’Apologia
contro Girolamo, che contiene un certo numero di pagine ostili alle traduzioni
dall’ebraico del suo vecchio amico? È precedente o successiva alla traduzione
della Storia Ecclesiastica di Eusebio, all’interno della quale Rufino ha potuto
constatare l’interesse del vescovo di Cesarea nei confronti del Canone?
Altre questioni riguarderebbero la natura dell’Expositio Symboli e i legami con
gli altri scritti contemporanei di Rufino, cercando di andare oltre la prudente
risposta dell’autore a Lorenzo, vescovo di una cittadina sconosciuta, nella quale
qualcuno ha voluto riconoscere Concordia10. Non tratterò quest’aspetto, che
tuttavia considero importante. Vorrei soltanto esaminare una per una, nell’ordine
cronologico che ritengo corretto, le pagine in cui Rufino ha affrontato la
questione del Canone e del testo biblico nell’Expositio Symboli e nell’Apologia
contro Girolamo, prima di cercare un corollario o una conferma nella sola opera
di cui possediamo ancora il testo originale, la Storia Ecclesiastica di Eusebio.
In tal modo sarà possibile cogliere la diversità e al tempo stesso l’unità delle sue
affermazioni, e mostrare in che misura dipendono dalle circostanze che le hanno
viste nascere.
secondo Bardenhewer; p. 235 secondo Tableau), ripresa da M. Simonetti nell’edizione del CCL 20, p. X. Così si spiega la diffusione di questa datazione. 8 M. VILLAIN (Rufin d’Aquilée commentateur du Symbole des Apôtres, in Rech.SR 32, 1944, pp. 130-131): «o prima del 402, o piuttosto dopo il 405-406». Murphy (p. 179) scrive anche: «ca. 402». 9 Si pone la questione dei rapporti tra l’Expositio e le altre opere, in particolare l’Apologia contro Girolamo, la cui data (fine 400) non è nota in modo esatto. C.P. HAMMOND-BAMMEL (The Last Ten Years of Rufinus’ Life and the Date of his Move South from Aquileia, in JTS 28, 1977, pp. 388-9 e p. 428) mette a confronto le due opere, seguendo J.N.D. Kelly. Cfr. in tal senso il mio art. Le “Liber Hieronymi ad Gaudentium”: Rufin d’Aquilée, Gaudence de Brescia et Eusèbe de Crémone, in RBén. 97, 1987, p. 170 e pp. 178-182. 10 Va comunque notato che Rufino non ha collocato in testa al proprio libro la lettera di richiesta cui fa riferimento. Al contrario si possono trovare le richieste di Paolino di Nola in testa alle due parti del De benedictionibus Patriarcharum (ed. M. SIMONETTI – utilizzata da qui in poi nel presente studio – CC 20, p. 133, l. 5; pp. 189-190; pp. 203-204). Dal canto suo Girolamo ha collocato in testa alla traduzione del pamphlet di Teofilo contro Giovanni di Costantinopoli la lettera di richiesta del vescovo di Alessandria (GIROLAMO, Ep. 114, 3).
191
I – L’EXPOSITIO SYMBOLI: DALLA DIVERSITÀ ALL’UNITÀ DEL CANONE
DEI PATRES
Una delle originalità della presentazione del Canone dell’Antico e del Nuovo
Testamento da parte di Rufino sta nel suo inserimento nella spiegazione
dell’articolo del Simbolo riguardante lo Spirito Santo11. Non intendo soffermarmi
su questo punto. Mi limiterò a notare che, se l’ispirazione delle Scritture rievocata
da Rufino ricollega da un lato «la legge e i profeti» e dall’altro «i Vangeli e gli
Apostoli»12 all’azione dello Spirito Santo nell’Antico e nel Nuovo Testamento, la
lunga trattazione che egli dedica alle Scritture compensa – o maschera – il
silenzio sulla teologia dello Spirito Santo, cui dedica solo qualche riga13, mentre
altrove14 segnala che la sua divinità è negata e pare conoscere le discussioni dei
Macedoniani a Costantinopoli15.
Un’altra originalità, decisamente più importante per il nostro proposito, è data
dall’insistenza con cui Rufino dichiara di fondarsi sull’autorità dei Maiores e dei
Patres, per redigere gli elenchi di libri. In ogni tappa della sua classificazione –
suddivisa in libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, libri «canonici»,
«ecclesiastici» e «apocrifi» – Rufino si riferisce ai Patres e ai Maiores, che hanno
«trasmesso i libri alle Chiese» e hanno «incluso i libri nel Canone»16. Tale
insistenza è significativa. Ma Rufino aggiunge che gli «sembra opportuno
indicare questi volumi, dal numero considerevole (euidente numero), così come li
abbiamo ricevuti dagli scritti dei Padri (sicut ex patrum monumentis
accepimus)»17.
Sono questi monumenta patrum che cercheremo di scoprire, domandandoci, da un lato,
se formano un insieme o una serie omogenea, e dall’altro, se Rufino è davvero fedele al
11 Cirillo di Gerusalemme (Cat. 4, 33) ricollega l’enumerazione del Canone (Cat. 4, 35-36) all’azione dello Spirito Santo nella Chiesa. Anche la traduzione della Settanta viene presentata come opera dello Spirito Santo (Ibid. 4, 34 f.). Come vedremo Rufino, che conosce questa Catechesi, va oltre. 12 Exp. Symb., 34 (CC 20, p. 170, ll. 16-18). 13 Ibid., 33 (p. 169). 14 Ibid., 37 (ll. 39-45). 15 De adulteratione, 12 (p. 15). 16 Exp. Symb., 34 (p. 170, ll. 21-22); 35 (p. 171, ll. 16-19). 17 Ibid., 34 (p. 170, ll. 22-24).
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semplice ruolo di «relatore», che trasmette quanto ha ricevuto – sicut accepimus –,
o se ha lasciato trasparire qualche preoccupazione o qualche presa di posizione
personale.
La prima cosa che colpisce, anche chi non conoscesse il nome o i nomi dei libri
riconosciuti dagli ebrei e il simbolismo a essi collegato, è che Rufino accorda un
posto importante al numero dei libri – euidens numerus –, senza però indicare tale
numero. Finché non eravamo in possesso dell’edizione critica dell’Expositio, ci
potevamo chiedere se la cifra non fosse andata persa, per una questione
paleografica o dottrinale. Oggi dobbiamo constatare che nessun manoscritto
fornisce il minimo indizio in tal senso. Spetta a noi, pertanto, fare il conto dei
libri: per l’Antico Testamento si arriva senza difficoltà al numero 22 per il
conteggio ebraico, ma saliamo a 25 se riuniamo i doppi libri che vengono citati;
quanto al Nuovo Testamento il numero ammonta a 27 libri, cifra che
nell’antichità non ha mai stimolato la fantasia, a differenza del 22 o del 24, che
corrispondono al numero delle lettere dell’alfabeto ebraico e greco, o ancora al
numero dei vegliardi dell’Apocalisse.
Significa forse che Rufino ignora l’importanza del numero 22, o che intende
liberarsene, come sostiene Stenzel? Questi invoca la traduzione delle Omelie sui
Numeri, una delle ultime di Rufino, in cui il nostro autore, riguardo ai 22.000
Leviti, avrebbe omesso il confronto che Origene non poteva non fare, rievocando
la virtù del numero 22, con i 22 libri della Scrittura18. Si tratta di un’accusa
alquanto gratuita, contraddetta dalla traduzione della Storia Ecclesiastica di
Eusebio, in cui Rufino traduce esattamente l’informazione trascritta da Eusebio a
partire dal Commento al Salmo I di Origene. Ma una cosa è rispettare il testo che
si traduce, un’altra è elidere un dato su cui non si vuole insistere, ma
che compariva nei «documenta» che si è intenti a trasmettere o a sintetizzare.
Ricordiamo che Rufino ha trovato il numero 22 (e l’importanza che gli
viene accordata) non soltanto in Origene, ma anche in Cirillo di
Gerusalemme 19, i n I l a r i o d i P o i t i e r s 20 e i n A t a n a s i o d i
18 Art. cit., p. 45. 19 CIRILLO, Cat. 4, 35 (PG 33, c. 497 C-D). 20 ILARIO, Instructio psalmorum, 15 (CSEL 22, p. 13).
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Alessandria21, senza contare Girolamo. Parecchi greci, ma solo due latini. Non
sarà stata la presenza di Girolamo a impedirgli di essere più esplicito? Ad ogni
modo va notato che il Canone non fa nessun riferimento all’esistenza di una
traduzione greca, come se Rufino, passando direttamente dagli ebrei alle chiese
occidentali, volesse evitare di sollevare – per il suo pubblico di catecumeni – una
questione delicata22, su cui torneremo in seguito.
Tuttavia oltre al numero dei libri, bisogna prestare attenzione anche all’ordine
in cui i libri sono enumerati, ai piccoli raggruppamenti operati da Rufino e alla
relativa disposizione dei gruppi così costituiti. Si può dire che l’enumerazione di
Rufino è organizzata in 4 o 5 sequenze, i cui confini sono segnalati da vari nessi
grammaticali: a. 1. Primo omnium Mosi quinque libri (...): Genesis Exodus Leuiticus Numeri Deuteronomium. b. 2. Post hos, Iesu Naue et Iudicum simul cum Ruth. 3. Quattuor post haec Regnorum libri (...) Paralipomenon (...) liber et Esdrae (...) et Esther. c. 4. Prophetarum uero Esaias Ieremias Ezechihel Daniel; praeterea duodecim prophetarum liber unus. d. 5. Iob quoque et Psalmi Dauid singuli sunt libri; Solomonis uero tres ecclesiis traditi: Proverbia, Ecclesiastes, Cantica Canticorum.23 Se è lecito esitare sul numero delle 4 (a-d) o 5 (1-5) sequenze è perché,
fidandosi della pura materialità dei termini grammaticali post hos e post haec, si
potrebbe suddividere in due gruppi (2-3), invece che in uno solo (b), la serie di
libri compresa tra «i libri di Mosè» e quelli dei «profeti». In realtà, più che per
ragioni cronologiche, probabilmente24 questo sottogruppo è stato costituito perché
presentava problemi di altro ordine: alcuni di questi libri sono doppi o quadrupli.
Da qui le precisazioni e il richiamo al conteggio ebraico, come si è visto sopra:
21 ATANASIO, Lettera festale del 367, frammento greco in PG 26, c. 1436 C-D. 22 Al contrario CIRILLO (Cat. 4, 34) rievoca ampiamente la traduzione della Settanta, citando l’accordo dei Traduttori. 23 Exp. Symb., 35 (p. 170, ll. 1-10). 24 Nessuna riflessione su un raggruppamento in pentadi (5+5+5+5+2), come in Epifanio (De ponderibus, 4). Qui l’ordine sembrerebbe più irregolare: 5+2+5+5+5+5.
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Quattuor post haec Regnorum libri, quos hebraei duos numerant, Paralipomenon qui Dierum dicitur liber et Esdrae duo, qui apud illos singuli computantur, Et Esther.
Stando così le cose, abbiamo buone ragioni di ritenere che i gruppi siano
quattro. Resta da determinare il principio di classificazione, rispettivo e relativo.
Il primo gruppo non presenta alcuna difficoltà, poiché Rufino cita, per i cinque
primi libri, il nome di Mosè. Lo stesso vale per il terzo gruppo, che riunisce i
profeti. Che dire degli altri due? L’ultimo gruppo sembra interessarsi al numero
di libri attribuito a ciascun autore: uno a Giobbe, uno a Davide, tre a Salomone;
ma non vi è alcun dubbio che il genere letterario dei Salmi, dei Proverbi e del
Cantico dei Cantici si suppone sia abbastanza conosciuto tra i cristiani da poter
intuire che ci si trova dinanzi a generi poetici. A dire il vero, solo il modello
seguito da Rufino confermerà quest’ipotesi, giacché si potrebbe esitare su Giobbe
e sull’Ecclesiaste.
Rimane il secondo gruppo, che in Rufino non è caratterizzato in alcun modo e
che consisteva, come abbiamo visto, in una lunga enumerazione un po’
traballante. Anche se non si può affermare che l’ordine sia strettamente
cronologico – Ester dovrebbe, in base al regno di Assuero/Artaserse sotto cui si
colloca, figurare prima del Libro di Esdra –, la natura dei libri è di ordine storico.
L’affermazione è ancora una volta confermata dal modello: è Cirillo di
Gerusalemme che, dopo aver enunciato per la Legge «i primi cinque libri di
Mosè» e successivamente «Giosuè e i Giudici insieme con Rut», parla del «resto
dei libri storici», enumerando i due (doppi) libri dei Regni, i libri dei
Paralipomeni e di Esdra e infine il libro di Ester, prima di riprendere «questo è
quanto per le opere storiche»25.
Si può pertanto affermare che Rufino deve la prima parte della
classificazione al vescovo di Gerusalemme, come pure le precisazioni
sul numero di libri rispettivi della Bibbia ebraica e della Settanta per i
Regni, i Paralipomeni ed Esdra. L’unico punto che non figura in
Cirillo r i g u a r d a l a d e n o m i n a z i o n e – s o m m a r i a – d i L i b e r
25 CIRILLO, Cat. 4, 35 (PG 33, c. 500 A 8-9 e 15).
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dierum per i Paralipomeni. Avremo presto l’occasione di scoprirne l’origine: la
«traduzione» più vicina al Dierum liber è quella presente nell’elenco di Origene,
che parla di logoi hèmèrôn26.
Va tuttavia notato come le indicazioni di Rufino siano più vaghe di quelle di
Cirillo: quando il primo rievoca «la Legge e i profeti»27, non si cura, nonostante
l’indicazione espressa di Cirillo, di ripetere che i primi cinque libri di Mosè
costituiscono la Legge. Parimenti non precisa la natura dei libri successivi, ben
inquadrati da Cirillo mediante il riferimento al loro carattere storico. Lo stesso
vale per la terza categoria dell’elenco di Cirillo: «le opere in versi»28. Più grave
ancora, Rufino ha invertito l’ordine della seconda parte dell’elenco: alla
successione libri poetici/libri profetici ha sostituito l’ordine inverso, tanto più
sorprendente da parte di un cristiano in quanto non fornisce nessuna
giustificazione. Ha forse voluto opporre prosa e poesia? Nulla lo suggerisce. In
ogni caso l’ordine cronologico che sembrano seguire i cristiani viene messo da
parte, dato che i profeti precedono non soltanto Giobbe, che allora veniva spesso
considerato precedente alla Legge, ma anche Davide e Salomone. Si tratterebbe
forse di un prestito dall’ebraico? Ciò mi sembrerebbe più rilevante rispetto
all’aver invertito l’ordine dei profeti maggiori e di quelli minori, unica
osservazione da parte di Stenzel in merito alla fedeltà di Rufino nei confronti di
Cirillo29.
Se non dice nulla riguardo al silenzio di Rufino circa «Baruc, i Threni e la
Lettera di Geremia», che Cirillo ricollegava espressamente al libro di
Geremia30, Stenzel nota a giusto titolo che l’inversione dei dodici profeti
(minori) rispetto ai quattro profeti (maggiori) seguirebbe l’ordine della Bibbia
ebraica31. Sarebbe interessante spingersi oltre e chiedersi se Rufino debba
questa conoscenza a Girolamo e al suo Prologus galeatus, oppure a Origene.
Stenzel ha trovato nelle Omelie su Giosuè una pagina in cui l’alessandrino
elenca in successione Isaia, Geremia, Daniele, Ezechiele e poi «Osea, in testa allo
26 ORIGENE, secondo EUSEBIO, Storia Ecclesiastica, 6, 25. 27 Exp. Symb., 34 (p. 170, l. 17). 28 CIRILLO, Cat, 4, 35 (PG 33, c. 500 A 15). 29 STENZEL, art. cit., p. 47. 30 CIRILLO, Cat, 4, 35 (c. 500 B 4-5). 31 STENZEL (seguito).
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squadrone dei dodici profeti»32, e sarebbe pronto a riconoscere un precedente. Ma
dimentica che un altro elenco di Origene potrebbe essere di grandissima utilità, se
solo Eusebio – o i suoi manoscritti – ci avessero trasmesso l’elenco completo: il
famoso elenco del «Canone ebraico» riportato da Eusebio33, a partire dal
Commento al Salmo I, non contiene nessun riferimento ai Dodici, il che è
sicuramente un caso, perché l’elenco non contiene 22 libri, come annunciato, ma
soltanto 21. Rimane da scoprire se Origene, in questo elenco, collocasse i profeti
minori prima o dopo quelli maggiori. È difficile trovare una risposta, tanto più
che sia Rufino, che traduce l’elenco con le semplificazioni che vedremo, sia Ilario
di Poitiers, che a tale elenco s’ispira nell’Instructio Psalmorum34, collocano i
dodici prima degli altri profeti, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe da un
elenco che intende essere fedele al Canone ebraico dei 22 libri. Il solo altro posto
che io conosca, all’infuori della Bibbia ebraica e di Girolamo, in cui i profeti
minori seguono i maggiori è il Sinaitico; ma l’ordine e il contenuto sono così
diversi da quelli di Rufino che mi risulta impossibile pensare che egli sia debitore
nei confronti del manoscritto, o meglio della tradizione che rappresenta.
A quanto pare la scelta va effettuata tra il ricorso all’ebraico35 (o a Girolamo) e
un’opinione del tutto personale, che Rufino non si è preso la briga di
giustificare36. In entrambi i casi non si può fare di Rufino il testimone di una
determinata tradizione, qualunque essa sia, e ancor meno di una tradizione
generale omogenea.
Ciò appare più evidente se si passa, al di là del Canone del Nuovo
Testamento, ai libri che Rufino definisce «ecclesiastici», in
contrapposizione ai «libri canonici». Se si potesse ricollegare una parte del
s u o C a n o n e d e l l ’ A n t i c o T e s t a m e n t o a l l ’ e l e n c o e a l l a
32 Ibid., p. 47: In Iosue h. 3, 1. 33 EUSEBIO, Storia Ecclesiastica, 6, 25. Stenzel cita tale elenco alla pagina precedente (p. 46), segnalando l’errore del testo di Eusebio. 34 ILARIO, Instructio Psalmorum, 15 (CSEL 22, p. 13, ll. 9 sgg.). 35 Ma è poco probabile che Rufino avesse accesso all’ebraico. 36 Si tratterebbe, ancora una volta, di una questione di numero di libri? Ai quattro profeti (maggiori), che costituiscono altrettanti libri, egli aggiungerebbe (praeterea) i dodici in un solo libro. Tuttavia né Cirillo né Atanasio avevano esitato.
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classificazione di Cirillo di Gerusalemme, dovremmo constatare che
quest’ultimo, nelle Catechesi, non lascia nessuno spazio ai libri che Rufino
inserirà nella categoria «libri ecclesiastici», in quanto «letti in chiesa»37. Non è
sicuro che li faccia rientrare, come talvolta affermato, nel gruppo dei libri
«discussi» o «contestati», «controversi» (amphiballomena)38. Per lui i «soli libri
che leggiamo con fiducia nella Chiesa» sono «i 22 libri dell’Antico
Testamento»39. Nulla indica che Cirillo consideri degni di pubblica lettura la
Sapienza, che peraltro cita diverse volte40, attribuendola una sola volta a
Salomone41, e l’Ecclesiastico, che utilizza qualche volta42 senza citare l’autore, e
ancor meno Giuditta, Tobia e i Maccabei. Anche ammettendo che il Canone
ristretto di Cirillo sia dovuto al pubblico di catecumeni cui si rivolge in questa
Catechesi IV, bisogna convenire che Rufino, il quale redige il suo elenco «ad
instructionem eorum qui prima fidei elementa suscipiunt»43, è molto più esteso.
Qual è l’origine di tale allargamento? Credo si debba volgere lo sguardo verso
Atanasio di Alessandria44 e verso Girolamo. Dopo aver fornito, per l’Antico
Testamento, un elenco di 22 libri, che non contiene Ester, al pari di Rufino, ma
che a differenza di questi conta a parte il libro di Rut, e per il Nuovo Testamento
un elenco analogo nei contenuti a quello di Rufino – tra i vari scritti, 14 lettere di
Paolo, 3 lettere di Giovanni e l’Apocalisse –, ma secondo un ordine ben
distinto, la Lettera festale del 367 aggiunge: «Per maggiori precisazioni mi
vedo cos t r e t to ad agg iunge re , e l o s c r ivo qu i , che e s i s tono a l t r i
37 Exp. Symb., 36 (ll. 1-2 e 10). 38 CIRILLO, Cat. 4, 33 (PG 33, c. 496). 39 Ibid., 4, 35 (PG 33, c. 497 C 7-9). Cirillo cita molti meno libri per il Nuovo Testamento. 40 CIRILLO, Cat. 6, 8; 12, 5 ecc. 41 Cat. 9, 2. 42 Cat. 2, 15; 7, 16; 9, 6 ecc. 43 Exp. Symb., 36 (ll. 14-15). 44 Non stupisce che Rufino, che è vissuto ad Alessandria, conosca la vita, ormai divenuta leggendaria, di Atanasio (Hist. Eccles. 1, 14) e abbia potuto aver accesso alla sua opera. D’altronde va ricordato che anche Atanasio ha risieduto per qualche tempo ad Aquileia, dove ha celebrato la festa di Pasqua del 345. J. RUWET (Le canon alexandrin des Écritures. Saint Athanase, in Biblica 33, 1952, pp. 1-29 e soprattutto pp. 10-11 e n. 1) ha notato questa dipendenza; tuttavia, non conoscendo Girolamo, la sua spiegazione relativa alla distinzione tra due generi di libri non soddisfa.
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libri oltre a quelli sopra elencati, che non appartengono al Canone (ou
kanonizomena), ma di cui i Padri hanno deciso la lettura per chi si avvicina alla
fede e vuole ascoltare l’insegnamento della pietà: la Sapienza di Salomone, la
Sapienza di Sirach, Ester, Giuditta, Tobia, la Didaché degli Apostoli e il Pastore.
Ma oltre ai libri «canonici» di cui sopra e oltre ai libri «letti» precedentemente,
che non si faccia menzione alcuna, carissimi, dei libri apocrifi: si tratta di
invenzioni di eretici, che li hanno scritti a loro modo inventando la data, per
presentarli come antichi e avere l’occasione di ingannare le persone dalla fede
pura»45.
Anche se condanna gli Apocrifi46, Rufino non riprende in nessun modo la
diatriba contro il processo di falsificazione e contro il suo scopo47. Tuttavia va
notato che, se pur non assegna, come fa Atanasio, la lettura di questa seconda
categoria di libri «a chi si avvicina alla fede», vale a dire ai neofiti, Rufino riserva
le proprie precisazioni alla distinzione tra libri «canonici» e libri «ecclesiastici»,
«libri che sono letti in Chiesa», «a istruzione di chi riceve i primi elementi della
fede», come sopra ricordato. Ma soprattutto, ciò che potrebbe essere solo una
vaga somiglianza formale48, che non presuppone necessariamente la
conoscenza dell’elenco di Atanasio da parte di Rufino, diventa più evidente
quando questi aggiunge: «affinché i neofiti sappiano a quali fonti attingere la
pa ro l a d i D io»49. Ruf ino pa re ada t t a r e l a f r a se c o n c u i A t a n a s i o
45 ATANASIO, Lettera festale 39 (in greco: PG 26, c. 1437 D – 1440 A). 46 Exp. Symb., 36 (ll. 12-13). 47 Il che stupisce, in quanto il De adulteratione librorum Origenis, 8-9 rievocava i processi degli eretici contro le Scritture. 48 Vista soprattutto la diversa conclusione cui giunge ognuno: per Atanasio la lettura di questi libri è buona per i neofiti, in ragione del loro facile accesso. L’osservazione è già stata fatta, per alcuni libri, in Origene (Omelie sui Numeri 27, 1). Per Rufino i libri sono secondari, giacché non possono servire a fondare la fede. Si può quindi ritenere che i neofiti, che puntano all’essenziale, possano farne a meno. D’altra parte si potrebbe pensare, dato il carattere pubblico della «lettura in Chiesa», che il catecumeno non è invitato a leggere la Scrittura e che la selezione viene fatta d’ufficio, da parte del clero. Mentalità più occidentale? In ogni caso ci allontaniamo da Atanasio. 49 Exp. Symb., 36 (ll. 15-16).
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conclude l’enumerazione delle opere dell’Antico e del Nuovo Testamento: «Ecco
le fonti della salvezza; colui che ha sete può attingere alle parole che si trovano in
questi libri. Solo attraverso questi è annunciata la dottrina della pietà...»50. Questa
volta la lettura della Lettera festale mi sembra certa.
Rimangono ancora da confrontare i due elenchi dei libri «letti in chiesa». Tali
elenchi non sono identici, né per l’Antico Testamento né per il Nuovo. Atanasio
colloca tra i libri «letti» il libro di Ester, che Rufino ha inserito tra le opere
canoniche; ma ignora Tobia, nonché i Libri – senza precisare il nome – dei
Maccabei. Per quanto riguarda il Nuovo Testamento, non soltanto Rufino inverte
l’ordine del Pastore e delle Due vie, ma aggiunge un terzo scritto, il Iudicium
secundum Petrum, la cui esistenza è nota grazie a Girolamo51; inoltre Rufino
precisa l’indicazione relativa al Pastore. L’originalità appare quindi fuori
discussione. L’eventuale domanda da porsi sarebbe se questi libri non fossero
utilizzati in modo particolare nella regione di Aquileia o di Concordia. L’uso del
Canone di Muratori da parte di Cromazio invita a pensare che in quelle zone si
fosse al corrente riguardo all’origine del Pastore52 più di quanto lo fosse Origene,
le cui esitazioni non potevano non essere note a Rufino53. Ma è verso Aquileia,
verso Altino e nuovamente verso Girolamo che bisogna guardare per il conteggio
dei libri «ecclesiastici» dell’Antico Testamento.
La parentela è già stata intravista54, senza però cogliere tutta la sua
importanza, da un lato perché va notato che la traduzione di Girolamo del
Libro di Tobia – e di quello di Giuditta –, nonché dei Libri di Salomone era
dedicata a Cromazio e a Eliodoro, dall’altro lato perché bisogna prestare
attenzione alle date delle due traduzioni. Come si evince dalle due Prefazioni,
la traduzione dei Libri di Salomone è la prima, e si è concordi nel farla risalire
al 398. Rufino l’avrebbe scoperta una volta giunto nell’Italia settentrionale,
d o v ’ e r a s t a t a p o r t a t a d a P a o l i n i a n o , f r a t e l l o d i G i r o l a m o .
50 ATANASIO, loc. cit. (c. 1437 C). 51 GIROLAMO, De uiris illustribus, 1 (PL 23 (1845), c. 609 A 6-7). 52 Sull’espressione di Rufino «libellus qui dicitur Pastoris siue Hermae» cfr. A. CARLINI, Rufino traduttore e i papiri, in AAAd. XXXI, 1987, pp. 113-114. 53 Sull’atteggiamento di Origene cfr. J. RUWET, Les “Antilegomena” dans les oeuvres d’Origène, in Biblica 23, 1942, pp. 18-42 e soprattutto pp. 33-35. 54 M. STENZEL, art. cit., pp. 50-51, che però non crede a una dipendenza.
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Niente di strano, viste le circostanze, se Cromazio ed Eliodoro hanno chiesto a
Girolamo, probabilmente l’anno successivo55, di tradurre i Libri di Tobia e di
Giuditta, di cui aveva da poco parlato in termini riservati ma al tempo stesso
laudativi. Riservati, perché notava che i libri di Giuditta, di Tobia e dei Maccabei
(senza indicazione del nome) non fanno parte del Canone; laudativi, perché
riconosceva che questi libri erano «letti in Chiesa»56. Tale dichiarazione aveva un
carattere più ampio, poiché riguardava anche la Sapienza di Gesù, figlio di Sirach
e la Sapienza di Salomone, vale a dire gli ultimi due dei cinque titoli elencati da
Rufino nell’Expositio. La coincidenza si rivela affatto casuale quando Girolamo,
prima di Rufino57, afferma che i libri possono essere «letti per l’edificazione del
popolo», ma che non possono essere usati «per confermare l’autorità dei dogmi
della Chiesa»58. Chiaramente Rufino ha letto questa Prefazione. Anche se,
intenzionalmente, ignora alcuni aspetti, è ben felice di registrare l’opinione di
Girolamo, a suo vantaggio.
Non è da escludere che abbia mutuato un altro dato, che sembra a dir poco
sorprendente. Secondo Rufino, la «Sapienza del figlio di Sirach» ha ricevuto in
latino il nome di Ecclesiastico, a causa non del suo autore, bensì della «qualità
dello scritto», che lo rende degno di essere letto in Chiesa. Rufino, che conosce
molto bene Cipriano, l’autore latino più antico che cita il Siracide, dovrebbe
sapere che l’opera porta, presso il vescovo di Cartagine, il nome di Ecclesiastico,
ma con l’aggiunta «di Salomone»59; di modo che la sua spiegazione, a
prescindere dal valore, non rivela la tradizione legata al libro. In compenso la
qualifica di ecclesiastico non è rara in Girolamo, riferita ai libri.
Certo non va confusa, benché probabilmente sia questa la sua or igine ,
55 Su questa datazione cfr. i miei articoli Aquilée et la Palestine entre 370 et 420, in AAAd. XII, 1977, p. 284; Chromace et Jérôme, in AAAd. XXXIV, 1989, pp. 170-171. P. LARDET (Contre Rufin, Introduction, SChr. 303, p. 75, n. 383) si è detto d’accordo. 56 GIROLAMO, Prologus in libris Salomonis (BS 2, p. 957, l. 19). 57 Exp. Symb., 36 (ll. 10-11): «Quae omnia legi quidem in ecclesiis uoluerunt, non tamen proferri ad auctoritatem ex his fidei confirmandam». 58 GIROLAMO, Prologus in libris Salomonis (BS 2, p. 957, ll. 20-21): «sic et haec duo uolumina legat ad aedificationem plebis, non ad auctoritatem ecclesiasticorum dogmatum confirmandam». 59 CIPRIANO, Test. ad Quirinum, 35, 3.
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con l’epiteto ecclesiastico riferito agli uomini, in particolare agli scrittori, in
Girolamo60, in Rufino61 e in Origene62, per dire non soltanto che appartengono
alla Chiesa, ma anche che hanno difeso in modo ortodosso i dogmi e la regola di
fede della Chiesa. Che io sappia, però, in Origene non si trova il termine
ecclesiastico utilizzato per definire un libro o uno scritto. Conosco almeno tre
esempi in Girolamo, senza aver condotto uno studio sistematico. Un esempio è
citato da Stenzel63, che ne ha colto i limiti, senza valutare che andava preso in
considerazione il contesto geografico e polemico: se in due passi, infatti,
Girolamo difende l’Apocalisse di Giovanni definendola «ecclesiastica», ciò
avviene a Betlemme, dinanzi a un pubblico composto anche da orientali, scettici
di fronte all’autenticità dell’Apocalisse. La giustificazione che egli adduce è che
non soltanto il libro è citato dai «ueteres ecclesiastici uiri», ma anche che è «letto
nelle Chiese» – d’Occidente –, «senza essere relegato tra le scritture apocrife»64. I
testi risalgono al 400 circa. Si può quindi pensare che il termine ecclesiastico
applicato a un libro fosse d’uso comune a Betlemme, al tempo in cui Rufino ha
lasciato la Palestina. Una quindicina d’anni dopo, nella Lettera a Dardano,
Girolamo difende l’Epistola agli Ebrei dinanzi a un occidentale. Il ragionamento
è analogo, ma questa volta fa appello all’usanza orientale: l’Epistola agli Ebrei è
letta nelle Chiese d’Oriente e citata dagli scrittori greci. E aggiunge: «Se l’usanza
latina non l’accoglie tra le scritture canoniche, neanche le Chiese greche,
che godono della stessa libertà, accolgono l’Apocalisse di Giovanni. Noi
invece accogliamo entrambe, seguendo non l’usanza della nostra epoca,
bensì l’autorità degli scrittori antichi, che spesso utilizzano i testi delle due
opere , senza considerar le apocr i fe , c o m e i n v e c e s p e s s o a c c a d e ,
60 Cfr. la mia annotazione all’In Ionam, Praefatio (SCh. 323, p. 164 e p. 329) riguardo al Libro di Tobia utilizzato dagli ecclesiastici uiri. 61 RUFINO, De adulteratione, 2 (p. 9, ll. 22-23; ll. 24-25); Apologia, 2, 34 (p. 109, l. 5). 62 Cfr. ad es. In Levitic, hom. 1, 1 (ed. M. BORRET, SCh. 286, p. 68, ll. 24-25); «ego ecclesiasticus sub fide Christi uiuens et in medio Ecclesiae positus...». 63 Art. Laud., p. 57. 64 GIROLAMO, Tr. de Ps. 1 (CC 78, p. 7, ll. 132-139); 149, 6 (Ibid., p. 351, ll. 80-82). Ovviamente considero questi Tractatus un’opera orale di Girolamo.
202
giacché solo di rado utilizzano passi di opere pagane, bensì considerandole opere
canoniche ed ecclesiastiche»65. Certo, per quanto riguarda questo testo tardo,
potremmo domandarci se Girolamo non metta sullo stesso piano «canonico» ed
«ecclesiastico». Ma ciò non valeva per la sua Prefazione ai Libri di Salomone, in
cui, prima di Rufino, aggiungeva che solo gli scritti «canonici» potevano servire a
stabilire i dati della fede, mentre gli «scritti ecclesiastici» potevano servire
soltanto all’edificazione pastorale.
Se, a prescindere dal Canone ebraico, si è concordi nel riconoscere, sia in
Rufino sia in Girolamo, l’influenza dei Canoni delle Chiese greche su quegli
occidentali, che rimangono profondamente attaccati ai costumi delle proprie
Chiese – significativi i casi dell’Apocalisse e dell’Ecclesiastico –, bisogna anche
ammettere che le prese di posizione dei due hanno conosciuto uno stadio orale, in
Palestina, indipendentemente dal fatto che tale fase abbia preceduto, seguito o
accompagnato le critiche suscitate in Occidente – conosciamo soprattutto quelle
di Agostino in Africa – dalle posizioni di Girolamo. Indubbiamente Rufino ha
riflettuto sul Canone biblico prima di scrivere al riguardo, e per farlo ha pensato a
Girolamo; dal canto suo Girolamo, quando scriveva nel 398 e forse nel 399 a
Eliodoro e a Cromazio, non poteva non tenere conto del posto in cui mandava le
proprie traduzioni, di coloro che le avevano richieste, nonché dei rapporti che
Rufino intratteneva con questi vescovi, sempre che non fosse già arrivato ad
Aquileia. L’Expositio Symboli di certo non nasce come opera polemica; tuttavia
non può essere separata puramente e semplicemente dalle circostanze in cui è
stata scritta – e che forse l’hanno prodotta.
Potrà sembrare strano che Girolamo rientri tra i «patres» cui fa
riferimento Rufino66. In ogni caso va notato che questi Patres,
a prescindere da Girolamo, formano un gruppo più composito rispetto
a l l a p e r f e t t a u n a n i m i t à s u g g e r i t a d a l l ’ a p p e l l o ,
65 GIROLAMO, Ep. 129, 3. Cfr., a partire dal 386, In Titum 2, 2 (PL 26, c. 578 C-D). 66 Vi sarebbero altri esempi da poter citare. I più convincenti sono i meno visibili.
203
più volte ripetuto, all’autorità della «tradizione dei Padri». Bisogna altresì notare
che tale tradizione è relativamente recente, dato che comprende autori della
seconda metà del IV secolo, per quanto riguarda gli scrittori greci – il che non
esclude, da parte di Atanasio di Alessandria e di Cirillo di Gerusalemme, il
ricorso a una pratica più antica – seppure non identica, né rigida – delle loro
chiese.
In fondo, scrivendo l’Expositio, Rufino non fa altro che applicare quanto
proclamato circa la sua Professione di fede nell’Apologia ad Anastasio: egli
espone principalmente ciò che ha appreso ad Aquileia, ad Alessandria e a
Gerusalemme67. Certo, dichiara di seguire, nell’Expositio, il simbolo in uso ad
Aquileia, ma l’ispirazione è più ampia. D’altra parte, se cita numerose differenze
rispetto al Simbolo Romano, non manca di segnalare – il che non dispiace a
eventuali censori – che la fede si è mantenuta molto pura a Roma e che le
modifiche al simbolo sopraggiunte nelle altre comunità sono state rese necessarie
da alcuni errori, rimasti sconosciuti a Roma68. Tali «finezze», degne di
Girolamo69, mostrano, come le allusioni alle «Orientales Ecclesiae»70, che Rufino
oltrepassa l’orizzonte – e le preoccupazioni – di una chiesa dell’Italia
settentrionale, per prestigiosa che sia. Sarebbe pertanto sbagliato vedere
nell’Expositio l’opera rappresentativa di una determinata regione, e ancora più
sbagliato attribuirle una qualsiasi autorità, al tempo in cui è composta. Il rispetto
arriverà in seguito: conosciamo bene il giudizio di Gennadio71. Tale giudizio sarà
confermato dai secoli a venire, che copieranno a man bassa l’Expositio (non
soltanto per il Canone). Al contrario il giudizio dell’epoca si può vedere
implicitamente nella risposta di Innocenzo I a Esperio di Tolosa, il 20 febbraio
del 405: l’elenco romano ignora con una certa superbia le classificazioni e le
distinzioni di Rufino72. Occorre notare inoltre come passi sotto silenzio anche il testo
67 RUFINO, Apologia ad Anastasium, 8. 68 Exp. Symb., 3 (p. 136, ll. 7-9); 5 (p. 140, ll. 30-38). 69 Cfr. ad es., all’indirizzo di Rufino e degli Origenisti, l’Ep. 84, 9 (CUF 4, p. 135, l. 28 – p. 136, l. 3). 70 Exp. Symb., 4 (p. 137, l. 2); 5 (p. 139, l. 1); 16 (p. 153, l. 6). 71 GENNADIO, De uiris illustribus, 17 (ed. Richardson, p. 68, ll. 8-10): «Proprio autem labore, immo gratiae Dei dono, exposuit idem Rufinus Symbolum ut in eius conparatione alii nec exposuisse credantur». 72 INNOCENZO I, Ep. 6, 7 (PL 20, c. 501-2).
204
biblico, e ciò nei confronti di un vescovo73 che è già in contatto con Girolamo.
II – L’APOLOGIA CONTRO GIROLAMO: I PERICOLI DI UNA NUOVA
TRADUZIONE
Prima di lasciare l’Expositio per passare all’Apologia – abbiamo notato come
non dimostri tutta l’imparzialità e l’oggettività che ci si aspettava74 – vorrei fare
alcune osservazioni, che consentiranno di capire meglio sia il contesto pastorale
del trattato, sia certi aspetti dell’Apologia contro Girolamo, che attacca le
traduzioni di Girolamo e, di conseguenza, riguarda il Canone e la sua
composizione.
La prima osservazione concerne sia Girolamo sia Rufino. Abbiamo visto lo
spazio che occupa in entrambi il libro dell’Ecclesiastico. Non è forse
sorprendente che nessuno dei due abbia prestato attenzione alla Prefazione del
traduttore greco? Nel 38° anno di Tolomeo Evergete (probabilmente nel 132 a.C.)
questi, oltre alla tripartizione della Bibbia ebraica in «Legge, Profeti e gli altri
scritti», attesta le imperfezioni della traduzione greca esistente, invocando la
difficoltà insita nel passare da una lingua all’altra75. Per Girolamo si trattava di un
precedente, che avrebbe potuto far valere, mentre per Rufino era l’esempio di un
73 È a Esperio di Tolosa – e non a Cromazio e a Eliodoro, come promesso – che sarà dedicato l’In Zachariam di Girolamo (cfr. il mio art. Chromace et Jérôme, in AAAd. XXXIV, 1989, p. 174). Secondo Girolamo Vigilanzio, da cui Esperio di Tolosa prende le distanze, è un alleato di Rufino (C. Rufin 3, 19). D’altra parte nel Contra Vigilantium del 406, Girolamo rimprovera all’avversario di basarsi sul III Esdra e su tutti gli altri Apocrifi (PL 23 (1845), c. 344 D – 345 B). 74 Ho già segnalato la parentela tra il § 37 e il Liber ad Gaudentium, di cui P. Meyvaert ha ritrovato due frammenti dottrinali sulla visione del Padre da parte del Figlio. Questo Liber sembra seguire da vicino il processo di Milano: Y-M. DUVAL, Le Liber Hyeronimi ad Gaudentium..., pp. 179 sgg. Il carattere polemico della trattazione sulla resurrezione della carne (§ 39-44) è indubbio; questi due punti sono facilmente ricollegabili alla controversia con gli amici di Girolamo, così com’è presentata nell’Apologia contro Girolamo. Occorre quindi prestare attenzione alla formula finale dell’Expositio: «Si, inquam, haec secundum traditionis supra expositae regulam consequenter aduertimus, deprecemur ut nobis et omnibus qui haec audiunt concedat Dominus, fide quam suscepimus custodita, cursu consummato, expectare repositam iustitiae coronam...» (§ 46, p. 182, ll. 17-20). Sotto diversi aspetti, l’Expositio è anche un’Apologia. 75 Siracide, Prologo (inizio e fine).
205
traduttore ebreo che, molto prima di Cristo, proclamava la superiorità del testo
originale e confessava la difficoltà del suo compito di traduttore. Ma né Rufino né
Girolamo si sono interessati alle dichiarazioni metodologiche. La sola questione
che ha attirato la loro attenzione riguarda l’iscrizione del libro nel Canone delle
Scritture.
Questa visione «globale» chiama in causa altri libri. Abbiamo visto che Cirillo
di Gerusalemme e Atanasio di Alessandria precisavano, in merito a Geremia, che
bisognava includere nella raccolta «il Libro di Baruc, le Lamentazioni e la sua
Lettera». Nel 400 Girolamo si è già espresso sulla non autenticità del Libro di
Baruc76. Rufino non apre bocca sulla questione, né sul Libro di Daniele, da cui
prenderà gli esempi utilizzati nell’aspra critica della traduzione di Girolamo
dall’ebraico, nel secondo libro dell’Apologia.
Tuttavia, per apprezzare a pieno queste celebri pagine, occorre collocarle nel
loro preciso contesto, tenendo conto delle «regole» della polemica, se non altro
per cogliere meglio lo sfondo, più pastorale che scientifico, dell’intera
controversia. Rufino si è visto contestare la fedeltà della sua traduzione
dell’Apologia di Panfilo e la qualità stessa del lavoro di Panfilo77. Risponde
denunciando l’arroganza di Girolamo nell’ergersi a critico dell’autenticità e
dell’ortodossia delle opere altrui78. Si è visto rimproverare per aver osato tradurre
in latino opere che nessuno prima di lui aveva avuto l’audacia di tradurre79.
Risponde rimproverando a Girolamo l’audacia nel tradurre la Scrittura80, cosa che
nessun cristiano si era azzardato a fare prima di lui. La ritorsione è evidente;
ciononostante comporta diversi elementi che vale la pena distinguere.
Innanzitutto, se per Rufino la traduzione non è accettabile, è perché modifica sia il
testo, sia il numero dei libri, o quanto meno la loro composizione. Intervengono a
questo proposito gli esempi mutuati dal Libro di Daniele, con la «storia di Susanna»
76 GIROLAMO, Prologus in libro Hieremiae (BS 2, p. 166, ll. 12 sgg.). 77 RUFINO, Apologia c. Hieronymum, 2, 34: cfr. GIROLAMO, Ep. 84, 11. 78 Ibid. (p. 109, l. 17 – p. 110, l. 45). 79 Ibid., 2, 35: cfr. GIROLAMO, Ep. 84, 7. 80 Ibid., 2, 36 sgg.
206
e il «Cantico dei tre fanciulli», cui Rufino si dichiara capace di aggiungere molti
altri casi81. In realtà qualche pagina dopo, quando riprende l’elencazione,
aggiunge soltanto l’esempio della cucurbita trasformata in edera, il che dimostra
che ha posto una certa attenzione al testo82 e che si è ricordato di una critica che
era stata mossa a Roma una decina di anni prima83.
Che si tratti del testo o di parti di libri, il rimprovero che Rufino rivolge a
Girolamo è di aver cercato scienza e ispirazione tra gli ebrei. L’accusa ritorna più
volte in queste pagine84 sotto diverse forme, testimoniando un’avversione per la
Sinagoga che sorprende per la sua ferocia, benché non sia un caso isolato a
quel tempo, né sconosciuto ad Aquileia85. È noto come Rufino trasformi
Baranina86, il nome del maestro ebreo di Girolamo, in Barabba e come,
riprendendo un’etimologia e una trattazione care a Origene87, veda in
questo Barabba il Diavolo in persona88. La Sinagoga diventa addirittura la
«Sinagoga del Diavolo»89. Appare manifesto che Rufino non nutre nessuna
speranza nella conversione degli ebrei. Sebbene dimostri di conoscere90 la
L e t t e r a a d A f r i c a n o , i n c u i O r i g e n e s p i e g a i l s e n s o d e l s u o
81 Ibid., 2, 37 (p. 111, l. 9 – p. 112, l. 15). 82 Ibid., 2, 39 (p. 113, l. 19 – p. 114, l. 34). 83 Già nel 396 Girolamo menziona una critica che era stata mossa a Roma, in seguito alla sua traduzione del ricino di Giona, che diventa edera e non cucurbita come riportavano le traduzioni latine precedenti, a partire dalla Kolokunthé della Settanta (GIROLAMO, In Ionam, 4, 6 – SChr. 323, pp. 198-296). 84 Apol. c. Hieronymum, 2, 36 (p. 111, ll. 9 sgg.); 37 (p. 112, ll. 25-28); 38 (p. 112, l. 8 – p. 113, l. 18). 85 L. CRACCO-RUGGINI, Il vescovo Cromazio e gli Ebrei di Aquileia, in AAAd. XII, 1977, pp. 353-381 e in particolare pp. 373 sgg. 86 GIROLAMO, Ep. 84, 3. 87 Cfr. ad es. Om. su Geremia 18, 5 (SChr. 238, p. 192). 88 Apol. c. Hieronymum, 2, 15 (p. 95, ll. 34-49); 16 (p. 95, ll. 4-5); 37 (p. 112, l. 19): «sibi Barabba adspirante»; 38 (p. 113, ll. 23-25: «... ut uel Barabban illum, quem aliquando, ut Christo nuberet, spreuerat...». 89 Apol. c. Hieronymum, 2, 34 (p. 110, l. 38). L’espressione compare nell’Ep. 84, 3 (CUF 4, p. 127, l. 19), che Rufino conosce. In ogni caso l’espressione non è rara. 90 Quel che dice riguardo al lavoro di verifica condotto da Origene (Apol. c. Hieronymum, 2, 40 – pp. 114-115) potrebbe provenire da questa Lettera. Varie argomentazioni di Rufino contro Girolamo, il nuovo Africano, ricordano quelle di Origene. Ma non è da escludere che Rufino conosca altri testi, oltre a quelli in nostro possesso.
207
lavoro di confronto tra diverse traduzioni greche91, Rufino non prende
minimamente in considerazione l’ipotesi che la traduzione latina di Girolamo
possa avere la stessa funzione in Occidente per il dialogo con gli ebrei, se non
addirittura per la loro conversione. Ogni dialogo con gli ebrei appare escluso.
Come vedremo, Rufino si trincererà addirittura dietro l’autorità degli Apostoli,
che hanno sempre messo in guardia contro «le favole ebree e le genealogie» e che
condannavano anzitempo – grazie allo Spirito Santo – l’opera di Girolamo, che
ha fatto ricorso a un ebreo92.
In realtà Rufino, più che agli ebrei, pensa ai pagani. Rievoca, infatti, la cattiva
impressione che suscita in questi il carattere incerto della Legge cristiana,
suscettibile di ricevere correzioni e modifiche93, al punto che i pagani finiscono
col mettere in dubbio l’esistenza della verità presso i cristiani. «Ecco – dichiara a
Girolamo – quel che ci hanno procurato la tua grandissima scienza e la tua
grandissima saggezza: essere considerati tutti ignoranti e insensati, persino dai
pagani!»94. Allo stesso modo possiamo constatare, se si considera l’Expositio
Symboli, che Rufino si preoccupa quasi esclusivamente dei pagani, eludendo o
confutando le loro obiezioni95, senza mai segnalare la presenza di ebrei
contemporanei con cui dover fare i conti, come ai primi tempi della storia della
Chiesa.
Arriviamo così al punto più importante dell’argomentazione di Rufino,
punto che è stato messo troppo poco in rilievo e quasi mai confrontato con
l’atteggiamento tenuto nell’Expositio Symboli. Secondo Rufino l’impresa di
Girolamo è condannabile, in quanto mette in dubbio l’«eredità degli Apostoli»
e il riferimento allo Spirito Santo. Sono gli Apostoli stessi ad aver
«consegnato alle Chiese di Cristo» i «libri delle divine Scritture»,
l’«instrumentum fidei», gli «instrumenta librorum», la «ueritas instrumenti»96
ed è questa verità che Girolamo contesta, d o m a n d a n d o a g l i e b r e i
91 ORIGENE, Lettera ad Africano, 9. 92 Apol. c. Hieronymum, 2, 38 (p. 112, l. 10 – p. 113, l. 18). 93 Ibid., 2, 39 (p. 113, ll. 7-12). 94 Ibid. (p. 113, ll. 14-15): «Hoc nobis praestitit tua ista nimia sapientia ut omnes insipientes etiam a gentilibus iudicemur». 95 Exp. Symboli, 3 (p. 136, ll. 31-34); 9 (p. 146, ll. 3 sgg.); 10 (p. 147, l. 1) ecc. 96 Apol. c. Hieronymum, 2, 36 (p. 111, ll. 7-9; 19-20; 24-27); 37 (p. 111, ll. 5-8; p. 112, ll. 22-25); 38 (p. 112, ll. 13-14).
208
di correggere il testo che gli Apostoli hanno affidato alle Chiese. Rufino è ancora
più preciso: agli inizi della storia della Chiesa, afferma, c’erano nelle comunità
cristiane, specie a Gerusalemme, numerosi ebrei convertiti, che conoscevano
l’ebraico e il greco97 – e potevano quindi verificare l’esattezza della Settanta –,
ma nessuno di questi (seppur numerosi) «eruditi» ha osato fornire una nuova
traduzione dell’instrumentum diuinum. Per assistere a una simile impresa si è
dovuto attendere il lavoro di Girolamo, ispirato da quel «Barabba» di cui abbiamo
svelato l’identità. Implicitamente Rufino pensa già ai «settantatré» traduttori98
che, ognuno nella propria cellula, hanno prodotto l’unica traduzione a noi nota,
ispirati dallo Spirito Santo99.
In definitiva è lo Spirito Santo il bersaglio di Girolamo, attraverso gli Apostoli.
Una volta inviata l’Apologia a Roma, non stupisce che Rufino invochi il
comportamento di Pietro e di Paolo. Ma lo fa con un abile climax, che non poteva
non scuotere i comuni lettori. Se Pietro, durante il suo lungo soggiorno a Roma,
ha sicuramente trasmesso alla Chiesa romana i libri che riteneva autentici, Rufino
sarebbe pronto ad accogliere un’obiezione di Girolamo e a riconoscere che Pietro
non aveva una grande formazione, e non poteva pertanto verificare la qualità
della traduzione. Ma non sarebbe come offendere lo Spirito Santo che aveva
ricevuto in lui e che lo aveva omaggiato del dono delle lingue100? In ogni caso
non si può invocare l’ignoranza per Paolo: Rufino riunisce le prove della sua
competenza, ricorda i suoi avvertimenti contro i circoncisi e gli fa prevedere, per
opera dello Spirito Santo, che «circa quattrocento anni dopo» la Chiesa avrebbe
inviato qualcuno a chiedere ai circoncisi la verità che solo essa possiede101. Si
tratta, beninteso, di Girolamo e del suo «Barabba».
97 Ibid., 2, 37 (p. 111, ll. 1-8). 98 Ibid., 2, 37 (p. 112, ll. 14-15). Riguardo al numero cfr. l’apparato critico di M. Simonetti ad. loc. Più avanti si parla di 70: 2, 39 (p. 113, l. 5). Girolamo si arrabbierà per il risalto dato alla leggenda. Cirillo di Gerusalemme (Catech. 4, 34) l’aveva citata prima di parlare del Canone. 99 Ibid., 2, 37 (p. 112, ll. 15-20). 100 Ibid. (p. 112, ll. 21-34). 101 Ibid., 2, 38 (p. 112, ll. 1-18). Chiude una bella immagine: la collana che porta la Chiesa dei Gentili è fatta di pietre preziose (=una buona traduzione) o di pietre false?
209
Questo riferimento agli Apostoli va paragonato a quello presente all’inizio
dell’Expositio Symboli. È noto come Rufino riconduca agli Apostoli102 il Simbolo
oggetto di spiegazione. Questi lo avrebbero composto subito dopo la discesa dello
Spirito, prima di andare a evangelizzare le singole nazioni. Ma ciò che più conta è
la ragione per cui, secondo Rufino, gli Apostoli sono ricorsi a un «segno di
riconoscimento» quale il symbolon. Forse perché «a quel tempo, come narra
l’Apostolo Paolo e come riportano gli Atti degli Apostoli, molti ebrei circoncisi si
consideravano apostoli di Cristo. Per riempirsi le tasche e la pancia andavano a
predicare, annunciando il nome di Cristo, ma senza rispettare i limiti esatti
dell’insegnamento trasmesso. Proprio per questo è stato introdotto tale segno di
riconoscimento, per poter discernere chi predicava realmente Cristo secondo le
regole degli Apostoli»103.
Ritroviamo gli ebrei104 da cui mette in guardia l’Apologia105 ed è a questo
«Simbolo» – e alle regole disciplinari – che si può pensare quando Rufino,
nell’Apologia contro Girolamo, dice che Pietro «ha trasmesso alla Chiesa di
Roma, oltre a tutto ciò che riguardava l’istruzione, i libri che venivano letti
mentre teneva le proprie sedute e insegnava»106. Da ambo le parti, quindi, si risale
agli Apostoli. Il che sicuramente appare logico, benché costituisca una grossa
novità rispetto a quanto affermato circa il Canone delle Scritture nell’Expositio
Symboli, in cui Rufino invocava unicamente l’autorità dei Patres e dei Maiores,
mai degli Apostoli, quanto meno per l’Antico Testamento. La differenza è di
notevole importanza, tanto più che abbiamo visto che i Maiores non precedevano
di molto l’epoca di Rufino.
Tale differenza di presentazione è alquanto significativa dell’unità di spirito con cui
Rufino considera la trasmissione delle Scritture, nonché del Simbolo. Non soltanto
tutto risale agli Apostoli, ma questi hanno lasciato una doppia – o meglio, un’unica –
102 Exp. Symboli, 2 (p. 134, ll. 1 sgg.). 103 Ibid. (p. 134, ll. 18-26). 104 Anche gli eterodossi? Cfr. ibid., 2 (p. 135, ll. 32-36). 105 Apol. c. Hieronymum, 2, 38 (p. 112, ll. 8-11). 106 Ibid., 2, 37 (p. 112, ll. 22-25).
210
eredità completa, fissa, impalpabile, capace persino di prevedere e di confutare
anzitempo tutti gli errori sorti in seguito; abbiamo visto che Rufino fa loro
respingere anticipatamente l’impresa traduttiva di Girolamo107. Se riconosce che
certe Chiese hanno aggiunto alcune precisazioni al Simbolo, per rispondere con
maggior specificità a una determinata novità locale108, non ritiene che vi siano
state differenze geografiche nella trasmissione dei testi sacri, né, stranamente109,
che gli eretici abbiano potuto disturbare la trasmissione.
Attualmente questa visione dei fatti, per quanto ambiziosa, appare piuttosto
semplificatrice. Direi che agli inizi del V secolo era già in ritardo sui fatti
verificabili; le critiche mosse a Girolamo, poi, non tenevano conto né delle
riserve che egli stesso nutriva sull’utilizzo delle proprie traduzioni, né del valore
che riconosceva sia alla Settanta – riguardo ai Salmi – nell’uso liturgico110, sia ai
testi non considerati dal Canone ebraico. Quando Rufino rimprovera a Girolamo
di aver omesso la storia di Susanna, contenente un così bell’«esempio di castità
[…] per le persone sposate e per quelle non sposate»111, forse gli è sfuggito che
Girolamo, nella Prefazione al Libro di Giuditta, indirizzato a Eliodoro e a
Cromazio, decantava quest’«esempio di castità […] degno di essere imitato non
solo dalle donne ma anche dagli uomini»112? Si ha l’impressione che non voglia
ascoltare e sembra di assistere, in più di un’occasione, a un dialogo tra sordi.
Poteva forse accusare Girolamo di aver soppresso non solo la storia di Susanna,
ma anche il Cantico dei tre fanciulli, quando Girolamo aveva esplicitamente
dichiarato, già nella Prefazione alla sua traduzione, che avrebbe mantenuto questi
testi, così come la storia di Bel e il drago, nella traduzione del Libro di Daniele,
«per non dare l’impressione, tra gli imperiti, di aver amputato una grossa
par t e de l vo lume» 113? Po iché ques te pag ine non p r e s e n t a v a n o u n
107 Ibid., 2, 38 (p. 112, ll. 11-15). 108 Exp. Symb., 3 (p. 135, l. 4 – p. 136, l. 15) e passim. 109 Mentre ha segnalato nel De adulteratione, 9 (p. 13, ll. 1-14) le imprese degli eretici contro i Vangeli e contro le Epistole degli Apostoli. 110 Cfr. ad es. Contra Rufinum, 2, 24 (SChr. 303, p. 170, ll. 30-34). 111 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, 2, 37 (p. 111, ll. 10-11); 2, 39 (p. 113, ll. 19-21). 112 GIROLAMO, Prologus Judith (BS 1, p. 691, ll. 9-11). 113 GIROLAMO, Prologus in Danihele propheta (BS 2, p. 1341, ll. 19-24).
211
grandissimo valore dogmatico, Rufino avrebbe potuto ammettere che rientravano
nei testi «ecclesiastici», destinati all’edificazione. In ogni caso Girolamo non ha
torto quando dichiara, nel Contro Rufino del 401114 e nella Prefazione al
Commento a Daniele115 del 407, che le critiche del suo avversario non sono
pertinenti e che sono state confutate prim’ancora di essere formulate.
Fare appello al Libro di Daniele non ci sembra un esempio di facile accesso,
relativamente al testo, all’origine e al contenuto. Tuttavia non è sicuro che
Rufino abbia voluto, a modo suo, riprendere la risposta di Origene ad Africano116.
Il motivo è un altro: se non si può affermare con certezza che faccia parte degli
imperiti cui si riferiva Girolamo nella Prefazione alla sua traduzione, è per gli
imperiti che scrive il più delle volte. Di conseguenza gli esempi di Susanna, del
giovane Daniele, dei tre ebrei nella fornace si rivelano persuasivi, in virtù della
loro diffusione117, anche agli occhi dei Romani, cui è indirizzata l’Apologia
contro Girolamo. La conferma arriva dall’ultimo esempio citato, quello di Giona
e, più precisamente, della cucurbita dei sarcofagi, vale a dire un dettaglio materiale,
visibile, percepibile anche dal pubblico meno istruito118. Con Girolamo119 siamo di
fronte a una discussione erudita, che bisognerebbe forse lasciare ai dotti120 –
114 GIROLAMO, Contra Rufinum, 2, 33 (ed. P. Lardet, SChr. 303, pp. 192-195). 115 GIROLAMO, In Danielem, Prol. (CC 75 A, p. 774, ll. 61 sgg.). Rufino non risponderà mai alla domanda relativa all’uso del testo di Teodozione. 116 È noto che le domande di Giulio Africano vertono principalmente sul Libro di Daniele. 117 Lo stesso Cromazio ha consacrato il suo S. 35 a Susanna, mentre l’S. 25, 2 rievoca Daniele in mezzo ai leoni. Il Museo di Portogruaro possiede un bel piatto in vetro, proveniente da Concordia, raffigurante Daniele che prega in mezzo ai leoni. Che dire di Roma? 118 Apol. c. Hieronymum, 2, 39 (p. 114, ll. 29-34). 119 Rufino avrebbe potuto far cadere Girolamo in «contraddizione», rammentandogli il numero di volte in cui aveva parlato, senza reticenze, di Susanna, dei fanciulli ebrei e di Daniele. Cfr. ad es. Ep. 1, 9; 54, 10; 58, 1; 65, 2 ecc. Ma Girolamo avrebbe potuto rispondere che si trattava di pezzi parenetici. 120 Girolamo, si sa, non ha mai cessato di ripetere che il suo lavoro non era volto a condannare la Settanta e che nessuno era obbligato a servirsene. Cfr. ad es. Quaestiones hebraicae, Praefatio (CC 72, p. 2, ll. 16-18; p. 3, ll. 5-7); Prologus in libro Iosue (BS 1, p. 285, l. 4). Girolamo proclama diverse volte la necessità di seguire la Settanta: cfr. ad es. Ep. 57, 11; 106, 46). D’altra parte, anche se ricorre spesso
212
ma come procedere121? –. Con Rufino si tratta di rassicurare gli umili e, per
timore di turbarli, di presentare loro una visione unitaria, unanime della fede,
attraverso l’intera storia della Chiesa.
III – LA TRADUZIONE DELLA STORIA ECCLESIASTICA DI EUSEBIO DI
CESAREA: UN CANONE SENZA STORIA
Non è necessario che mi dilunghi sulle circostanze in cui è stata effettuata la
traduzione della Storia Ecclesiastica di Eusebio: il riferimento all’invasione di
Alarico presente nella Prefazione generale colloca il lavoro in un momento
successivo rispetto agli scritti sopra esaminati, riguardanti le Scritture e il
Canone; ma la distanza non è tale da non poter ritrovare una certa affinità
d’ispirazione122. Non meno importante, la Prefazione descrive il clima
morboso in cui vive la popolazione, dominata dal dubbio, dopo l’irruzione di
un barbaro in un impero ormai cristiano. Il lavoro di Rufino è presentato come
un rimedio offerto a quella popolazione disorientata123 e come un contributo a
Cromazio, alla stregua dei due pesciolini del fanciullo notato dall’apostolo
Filippo nel miracolo della moltiplicazione dei pani, per nutrire «le folle»124.
Senza attribuire alla parola «folla», utilizzata tre volte125, un senso troppo
peggiorativo, si può dire che la traduzione, «destinata alla comunità cristiana
di Aquileia»126, porta al livello di un pubblico popolare un tes to greco
ad Aquila per capire l’ebraico, non lo imita nel testo latino: v.g. Ep. 57, 11. 121 Questo il rimprovero mosso da Rufino, mentre mostra le traduzioni di Girolamo sparse «per ecclesias et monasteria, per oppida, per castella» (Apol. c. Hieronymum, 2, 36 – p. 111, ll. 13-14). 122 In Eusebii Historiam Ecclesiasticam, Praefatio (Ed. Mommsen, GCS 9, 2, p. 951). Ci troviamo dopo il mese di novembre del 401 e probabilmente non prima della primavera o dell’estate del 402. Sul significato politico del lavoro cfr. il mio art. Les métamorphoses de l’historiographie aux IVe et Ve siècles, in Actes du VIIe Congrès de la FIEC (Budapest, 1979), vol. 2, pp. 151-159, Budapest, 1983. 123 Ibid. (ll. 6 sgg.). 124 Ibid. (ll. 19 sgg.). 125 Cfr. p. 951, l. 19; 27; p. 952, l. 13. 126 Fr. THÉLAMON, Une oeuvre destinée à la communauté chrétienne d’Aquilée: l’Histoire Ecclésiastique de Rufin, in AAAd. XXII, 1982, pp. 255-271.
213
che tradiva più volte le preoccupazioni del dotto vescovo di Cesarea – uir
eruditissimus, dichiara Rufino127–. Se ha ritrovato nello storico greco una grande
attenzione per la tradizione e l’ha rafforzata, Rufino ha riscontrato in questi libri
un notevole interesse per il Canone delle Scritture, nonché per le sue attestazioni
e varianti. Spesso ha attenuato o semplificato le esitazioni, non limitandosi più al
ruolo di traduttore fedele.
Esiste una decina di pagine, più o meno sviluppate, in cui Eusebio ha trascritto
le opinioni degli autori da lui letti, riguardanti sia un determinato libro sacro, sia
l’intero Canone128. Come si può facilmente intuire, tali pagine si riferiscono
soprattutto ai libri del Nuovo Testamento, in particolare l’Apocalisse, l’Epistola
agli Ebrei, le Epistole di Pietro, di Giacomo e di Giovanni. Non è mia intenzione
dilungarmi sul modo con cui Rufino ha trasmesso tali informazioni, benché egli
sia più eloquente rispetto alle pagine riguardanti l’Antico Testamento129. Non mi
soffermerò nemmeno sulle questioni di vocabolario, né sulla maniera con cui
Rufino rende o traspone il vocabolario tecnico della «canonicità». M’interesserò
unicamente al contenuto del Canone dell’Antico Testamento e alla
caratterizzazione dei libri che lo costituiscono.
Il primo testo appartiene al Contro Apione di Giuseppe Flavio130, oggetto di numerose
discussioni moderne, in greco. Non stupiamoci se Rufino appare alquanto disorientato
dinanzi a questo testo, che rimane piuttosto impreciso nei dettagli, eccettuata la
menzione dei 22 libri e della loro suddivisione in 5 libri di Mosè, 13 libri di «profeti
successivi a Mosè» e «altri 4 libri, contenenti gli Inni a Dio e le regole di vita per
gli uomini»131. D’altronde Giuseppe Flavio vuole insistere sul piccolo numero
127 Praefatio (p. 951, l. 12). 128 EUSEBIO, Storia Ecclesiastica, 2, 33; 3, 3, 1-5; 3, 10, 1-5; 3, 23-25; 4, 26, 13-14; 6, 13, 6; 6, 20, 3; 6, 25 ecc. Alcune modifiche di Rufino sono già state segnalate da J. Oulton (Rufinus’ Translation of the Church History of Eusebius, in JTS 30, 1929, pp. 150-174 e soprattutto pp. 156-157). La questione meriterebbe una trattazione più ampia. 129 D’altra parte due di queste testimonianze provengono da «fonti» ebraiche (Giuseppe Flavio e Origene) e quella di Melitone intende trasmettere l’opinione degli ebrei. Pertanto Rufino non è del tutto libero di modificare questi dati. 130 EUSEBIO, Storia Ecclesiastica, 3, 10, 1-5 (GCS 9, p. 222-225) – GIUSEPPE FLAVIO, Contro Apione, 1, 38-44. 131 Ibid. 3, 10, 2.
214
di libri ammessi dagli ebrei132, sulla loro unità e sulla particolare cura con cui
sono conservati, senza aggiunte né modifiche. Rufino ha rispettato tali
affermazioni, che potevano confermare quelle di Girolamo; ma pare non aver
compreso la tripartizione in «Legge, Profeti e gli altri scritti», in quanto i «profeti
successivi a Mosè» diventano semplicemente «tutti i profeti di quelle epoche»133,
perdendo così il carattere tecnico dell’espressione, senza che il cristiano sembri
infastidito dal fatto che questi «profeti» siano semplici narratori.
Va comunque notato come il testo di Giuseppe Flavio resti sostanzialmente
intatto, senza che Rufino imponga la propria organizzazione. Questa appare più
evidente nella traduzione della dedica delle Eclogai di Melitone di Sardi. Si
riconoscere volentieri in quest’ultimo uno dei primi che, per interloquire con gli
ebrei, abbia avuto cura di informarsi sui libri che questi riconoscevano134.
Dichiara di essere andato in Palestina, «nel luogo in cui fu proclamata e compiuta
la Scrittura», e fornisce l’elenco dei libri dell’«antica alleanza» – ovvero
dell’Antico Testamento135– senza fissare alcun numero, contrariamente a quanto
ci si aspettava136, e senza insistere sul «loro ordine», a parte la menzione dei
«cinque libri di Mosè», all’inizio, e dei «profeti», verso la fine. Rufino conferma
tale classificazione, ma non senza completarla, introducendo alcuni nessi logici
che rendono il centro meno «confuso»137. L’intervento è comunque molto
discreto e mira semplicemente ad aiutare il lettore, offrendogli un percorso
guidato, facile da riconoscere.
Diversa è la questione per quanto concerne il terzo passo, che non è altro se non il
Canone ebraico, come presentato da Origene nel suo Commento al Salmo I. Ciò ci
riporta in parte all’Expositio Symboli, se non altro per la formula «in his
concludunt (hebraei) canonem uoluminum diuinorum»138, che è un’aggiunta di Rufino
132 Rispetto al gran numero di opere greche, spesso contraddittorie. 133 «Prophetae quique per ea tempora…» (p. 225, l. 4). 134 EUSEBIO, Storia Ecclesiastica, 4, 26, 13-14 (pp. 386-389). 135 Rufino traduce poi con Vetus testamentum la menzione degli «antichi libri» e «i libri dell’antica diathèkè». 136 Melitone espone infatti la domanda del suo corrispondente (p. 386, l. 24), nonché quella relativa all’ordine. Rufino inverte (p. 387, l. 24). 137 L’elenco di Melitone non comporta neanche una particella. Rufino aggiunge un tum deinde e un autem. 138 EUSEBIO, Storia Ecclesiastica, 6, 25, 2 (p. 575, l. 5 – p. 577, l. 1).
215
e somiglia non poco all’ultima frase della sua presentazione: «Haec sunt quae
patres intra canonem concluserunt…»139. Ho già avuto modo di dire che il testo di
Rufino era più completo e corretto rispetto all’attuale testo della Storia
Ecclesiastica di Eusebio, giacché menziona il libro dei Dodici profeti, la cui
omissione rende inesatta la cifra di 22 libri indicata da Origene. Si tratta
semplicemente di un caso. L’originalità dell’elenco di Origene sta nel fornire
l’incipit dei libri ebraici, nel tradurlo e nel porre a fronte il titolo del libro nella
Settanta. Rufino ha trascurato questi dati eruditi, che Girolamo aveva ripreso e
imitato140. Forse è a lui che dobbiamo la piccola inesattezza seguente: come
Girolamo, infatti, egli scambia Dabreiamim/n, l’incipit del libro delle
Cronache141, per il titolo di un libro: «quem dicunt (Hebraei) Sermones
dierum»142; lo stesso vale per i libri dei Re, «quem appellant Regnum Dauid»143,
nonché per quello di Samuele144. Rimangono da analizzare altri due punti, in parte
oscuri: nonostante l’esplicita menzione di Origene, egli omette Rut, così come le
Lamentazioni e la Lettera di Geremia. Abbiamo visto che nemmeno l’Expositio
Symboli145 rievocava gli ultimi due testi. Non occorrerebbe soffermarsi su altri
due titoli, se Origene non si fosse preoccupato di correggere uno dei due: non
bisogna dire, come molti fanno, «Cantici dei Cantici», bensì «Cantico», al
singolare146. Rufino omette tale osservazione e scrive Cantica Canticorum, come
nell’Expositio147. Probabilmente intende rispettare l’uso dei suoi lettori. Lo stesso
potrebbe valere per il Paralipomeni (liber), sebbene l’Expositio parli di
Paralipomenon148. Altri due dettagli evidenziano la volontà di chiarezza: Rufino
attribuisce a Salomone i tre libri che gli appartengono, precisando che Isaia è un profeta,
139 Exp. Symboli, 35 (p. 171, ll. 16-17). 140 In particolare nel Prologus galeatus (BS 1, pp. 364-365). 141 Ibid. (p. 365, l. 40). Lo stesso nel Prologus in libro Paralipomenon (p. 547, l. 37). 142 Storia Ecclesiastica, p. 575, ll. 1-2. 143 Ibid. p. 573, l. 11 («E il re Davide»). 144 Ibid. p. 573, l. 10. 145 Exp. Symboli, 35 (p. 170, l. 7). 146 Storia Ecclesiastica, 6, 25, 2 (p. 571, ll. 8-9). 147 Exp. Symboli, 35 (p. 171, l. 10). 148 Alcuni manoscritti risultano corretti.
216
il che deve valere anche per i successivi in lista. Ma per quale motivo inverte
Daniele ed Ezechiele, se non per riprendere l’ordine della Settanta?
Si tratta di particolari insignificanti, spesso in contraddizione tra loro. Le
intenzioni apparirebbero molto più chiare, se avessi il tempo di soffermarmi su
testi più numerosi e complessi, che riguardano alcuni libri del Nuovo Testamento.
Cito solo un esempio, mutuato dalla traduzione dei testi di Origene, in merito alle
Lettere degli Apostoli149. Per quanto concerne Paolo, non soltanto suggerisce la
cifra di 14 epistole, assente in Origene, ma integra il testo del Commento a
Giovanni con due passi, che Eusebio aveva tratto dalle Omelie sull’Epistola agli
Ebrei. L’alessandrino, dopo aver segnalato le differenze di stile, attribuiva quanto
meno il pensiero all’Apostolo, concludendo con quest’osservazione: «Se qualche
chiesa ritiene che la lettera appartenga a Paolo, merita complimenti anche per
questo; poiché non è un caso se gli Antichi l’hanno trasmessa come appartenente
a Paolo»150. In Rufino diventa: «Da parte mia io (=Origene) dichiaro, come
trasmessomi dagli Antichi, che essa è chiaramente di Paolo e che tutti i nostri
Antichi l’hanno accolta come una lettera di Paolo»151. Occorre forse insistere? I
ritocchi sono altrettanto evidenti per quanto riguarda le lettere di Pietro e di
Giovanni: mentre Origene, che intende mostrare che gli Apostoli hanno lasciato
solo un esiguo numero di scritti, insiste sui dubbi che circondano la seconda
lettera di Pietro e la seconda e terza lettera di Giovanni152, Rufino riconosce solo
qualche caso: «a nonnullis et de secunda dubitatur», «de quibus et apud quosdam
dubia sententia est»153.
Si avverte la volontà di ridurre l’impressione d’incertezza e di dispersione.
Si potrebbe addirittura aggiungere che la testimonianza che Rufino mette in
bocca a Origene non può che far apparire quest’ultimo ancor più grande al
cospetto dei lettori. Citerò un ultimo esempio d’infedeltà, tanto più
illuminante in quanto involontario (almeno così pare). Parlando di Egesippo,
149 EUSEBIO, Storia Ecclesiastica, 6, 25, 7-14 (pp. 576-580). 150 Ibid., 6, 25, 13 (p. 580, ll. 2-4). 151 Ibid., 6, 25, 13 (p. 579, ll. 3-6). 152 Ibid., 6, 25, 8-10 (p. 578, ll. 1-10). 153 Ibid., 6, 25, 8-10 (p. 579, ll. 11-17).
217
Eusebio scrive: «Non era soltanto lui (Egesippo), ma anche Ireneo e tutto il coro
degli Antichi a chiamare Sapienza piena di virtù (Panareton Sophian) i Proverbi
di Salomone»154. Rufino traduce: «Egli stesso, Ireneo e tutto il coro degli Antichi
hanno detto che il libro avente per titolo la Sapienza era di Salomone, così come i
Proverbi e il resto»155. Il controsenso è rivelatore, poiché la Sapienza di
Salomone era contestata, da Girolamo ad esempio. D’altronde quest’ultimo aveva
parlato, nella Prefazione alla traduzione dei Libri di Salomone156, dedicata a
Cromazio e a Eliodoro, di un «Panaretos Iesu filii Sirach liber», che portava il
titolo di Parabolae, ovvero di Meshâlim in ebraico e di Paroimiai in greco. Ma si
trattava dell’Ecclesiastico157, di cui abbiamo visto il posto particolare che
occupava nell’elenco di Rufino158.
Non posso garantire che Rufino avesse in mente, in quel momento, il testo di
Girolamo, ma non vi è dubbio che faccia suo il testo di Eusebio, per riconoscere
in Salomone l’autore della Sapienza. Consapevolmente o meno, si tratta sempre
di non gettare scompiglio tra i fedeli di Cromazio e tra i loro simili.
***
È una delle conclusioni più chiare che si possa trarre da questo studio.
Rufino cerca innanzitutto di rafforzare la credibilità della fede cristiana presso
un pubblico di provenienza esclusivamente pagana. A tal proposito insiste
sull’unità della fede, sulla solidità della sua trasmissione, sull’antichità della
sua origine, poiché questo Canone sembra, come il Simbolo, risalire agli
Apostoli e, in definitiva, allo Spirito Santo che agiva in loro. Abbiamo visto
come dai Patres159 si passasse agli Apostoli160 e come i dubbi r iguardo
154 Ibid., 4, 22, 9 (p. 372). 155 Ibid. (p. 373, ll. 17-19): «Hic ipse et Irenaeus et omnis antiquorum chorus librum qui adtitulature Sapientis, Salomonis dixerunt, sicut et Prouerbia et cetera». 156 Prologus in libros Salomonis (BS 2, p. 957, ll. 10-11). 157 Su questo titolo del Libro di Ben Sira cfr. J.B. LIGHFOOT, The Apostolic Fathers, Clement of Rome, London, 1890, ad 57 (2, p. 166); E. SCHÜRER, Geschichte des Judisches Volkes4, 3, p. 220. 158 Exp. Symboli, 36 (p. 171). 159 Nell’Expositio Symboli. 160 Nell’Apol. c. Hieronymum.
218
ad alcuni libri non investissero che una piccola parte di essi161. Si può
comprendere allora quanto l’impresa di Girolamo, che escludeva certi libri
dell’Antico Testamento e modificava il testo ricevuto, apparisse pericolosa, sia
per la sottomissione agli ebrei, nemici della Chiesa162, sia per il discredito che
gettava su una Legge, su una storia e su profezie che traevano buona parte del
loro valore dall’antichità. Benché i contatti riguardassero le due rive del
Mediterraneo163 e non direttamente i due uomini, certe critiche di Rufino si
riallacciano a quelle formulate da Agostino negli stessi anni164.
Non ho voluto allargare il campo d’indagine, anzi, ho preferito centrarmi in
primo luogo su Rufino e mostrare che, se la sua documentazione è più ampia di
quanto si vuol far credere, visto che comprende Atanasio e Girolamo, oltre a
Cirillo di Gerusalemme, essa può difficilmente apparire come la tradizione di una
Chiesa, si tratti di Aquileia o di Concordia, né come la tradizione di tutte le
Chiese. In realtà Rufino riunisce le tradizioni di diverse Chiese165 e le unifica, per
le ragioni sopra indicate.
Benché non possa dimostrare la certezza dell’ordine cronologico secondo cui
ho analizzato i testi – in particolare la sequenza Expositio Symboli-Apologia166–,
non mi pare possibi le considerare una qualsiasi opera di Ruf ino a l
161 Nella traduzione della Storia Ecclesiastica di Eusebio. 162 Girolamo dirà invece che il testo ebraico è più esplicito riguardo a Cristo e alla Trinità: cfr. ad es. il Prologo della traduzione del Pentateuco (BS 1, p. 3, ll. 21-25; p. 4, ll. 35-39). 163 Nel 401 Girolamo sa che una lettera, attribuita a lui, circola in Africa: in questa lettera si sarebbe pentito di aver tradotto dall’ebraico (C. Rufinum, 2, 24; 3, 25). L’anno successivo viene a sapere che Rufino ha inviato la sua Apologia in Africa (Ep. 102, 3 e 110, 6). 164 AGOSTINO, Ep. 71, 3-6 = GIROLAMO, Ep. 104, 3-6. La risposta di Girolamo (Ep. 110) ha molti punti in comune con le Prefazioni delle sue traduzioni e con il Contro Rufino. Cfr. anche AGOSTINO, Ep. 82, 35. Rapida sintesi in G. JOUASSARD, Réflexions sur la position de saint Augustin relativement à la Septante dans sa discussion avec saint Jérôme, in REAug. 2, 1956, pp. 93-99. 165 Va altresì notato che se Rufino possiede elenchi greci, non si è preoccupato di ricostruire il Canone di Cipriano o quello di Ambrogio. Nemmeno quello di Roma è stato studiato. Non mi soffermo sul catalogo del Decretum Gelasianum e sulle questioni che implica. 166 Quanto meno non è possibile separare le due opere con un intervallo di due-quattro anni.
219
di fuori del contesto cronologico, né del riferimento – anche se velato – a
Girolamo e alle discussioni, orali e scritte, avute con lui. Lo vediamo dalle
numerose Prefazioni: Rufino è sempre in «dialogo» con Girolamo e con i suoi
amici. Non è difficile verificarlo anche nelle sue opere, per quanto siano
apparentemente avulse da ogni contesto polemico.
Ciò non significa che si tratti solo di attacchi, seppure velati: ho richiamato
l’attenzione sui vari prestiti, innegabili, da Girolamo. Rufino sapeva operare
alcune distinzioni. Dispiace che non abbia saputo farne altre. Ma mi sembra che
le Prefazioni indirizzate a Cromazio e a Eliodoro l’abbiano fermato167. In fondo
ha accettato l’idea di Atanasio e di Girolamo, secondo cui esistevano libri di
secondo ordine. Così facendo, sebbene non affermi esplicitamente che la
Sapienza di Salomone, l’Ecclesiastico168 e i Libri dei Maccabei non esistono in
ebraico, implicitamente rinuncia all’autorità, per lui sacra, della Settanta, in cui
trovano spazio. È soltanto una delle «contraddizioni interne» della sua posizione.
Non ne era affatto cosciente, preoccupato com’era di non far vacillare la fede
delle «folle» per le quali scriveva.
(1992)
167 Esse sono state sicuramente discusse ad Aquileia. 168 Tuttavia va ricordato che Girolamo dichiara di aver visto il testo in ebraico. L’affermazione è stata confermata dalle scoperte di Qumran e di Masada.
220
YVES-MARIE DUVAL
Su alcune fonti latine della Storia della Chiesa
di Rufino di Aquileia
Tornato da Gerusalemme a Roma nel 397, poi ad Aquileia alla fine del 399, Rufino
si trovava in questa cittadina quando i Goti di Alarico, varcando le Alpi alla fine del
401, si diffusero nei mesi successivi nella Venetia, per riversarsi in seguito nella
pianura padana. È in questo pericoloso periodo che, su richiesta del vescovo di
Aquileia e per ridare fiducia alle popolazioni demoralizzate, Rufino tradusse la
Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, prolungandola dal 325 al 395 con due
libri più personali. Questo è per lo meno quanto dichiarato nella Prefazione generale
alla traduzione1. Senza dilungarsi troppo sul metodo e allontanandosi da Eusebio, che
trascriveva molti documenti2, Rufino dichiara di utilizzare sia le maiorum litterae o
traditiones, sia le risorse della memoria3. Nel corso di questi due libri troviamo
infatti parecchie attestazioni, che provano come Rufino ricorra a scritti e a tradizioni
orali; figurano altresì numerosi racconti, nei quali lo storico si presenta come
testimone oculare o come protagonista, garanzie che dovrebbero o potrebbero
rafforzare il valore di ciò che viene presentato.
Tuttavia a partire dal V secolo la presentazione della vita di Atanasio, e in
particolare della persecuzione che dovette subire da parte degli imperatori, è stata
messa in discussione dallo storico Socrate lo Scolastico, dopo che questi ebbe
scoperto, grazie all’analisi delle opere di Atanasio, che il vescovo di Alessandria,
contrariamente a quanto afferma Rufino, era stato mandato una prima volta in esilio
1 Eus.-Ruf., hist. eccl., prologus Rufini (ed. Th. Mommsen, GCS 9, 2, p. 951, ll. 7-15). 2 Rufino dichiara di aver accorpato al libro 9 di Eusebio una parte del libro 10 (p. 952, ll. 4-9), perché questo comprendeva panegirici che non apportavano nulla al racconto. 3 Prologus (p. 952, ll. 10-11): decimum uel undecimum librum nos conscripsimus partim ex maioribus traditionibus, partim ex his quae nostra iam memoria conprehenderat..., e nella breve prefazione ai propri libri (p. 957, ll. 3-4): quae uel in maiorum litteris repperimus uel nostra memoria attigit...
221
da Costantino4. Da quel momento in poi questo palese errore ha gravato sulla credibilità
accordata a Rufino. Credibilità che si è vista diminuire ancora nel XX secolo, dopo che A.
Glas ha affermato che i due libri di Rufino derivano essenzialmente da un modello greco
che egli non avrebbe fatto altro che tradurre, salvo completarlo con qualche aggiunta5; la
stretta parentela del racconto di Rufino con il Syntagma di Gelasio di Cizico da un lato6 e
con la Cronaca di Giorgio il Monaco7 dall’altro si spiegherebbe con il debito comune nei
confronti della Storia Ecclesiastica e della continuazione di quella di Eusebio di Cesarea
da parte di Gelasio di Cesarea, nipote di Cirillo di Gerusalemme, di cui Fozio descrive
parzialmente l’opera nel Codex 89 della sua Biblioteca8. A partire dal 1914 non sono più
cessate le discussioni sull’identità di Gelasio, sull’esistenza o meno di una traduzione greca
dei libri di Rufino, nonché sulla natura e sull’importanza dell’opera di Gelasio9. Si è
creduto più volte di apportare elementi determinanti per una risposta globale. Sono stati
scoperti altri potenziali utilizzatori della Storia di Gelasio, in particolare i biografi di
Atanasio e di Costantino, senza che la questione potesse essere considerata pienamente
chiarita. Winkelmann, che ha condotto l’ultimo studio d’insieme, tempera l’ottimismo di
Glas, che attribuiva a Gelasio l’insieme dei due libri di Rufino, eccezion fatta per i capitoli
da 7 a 9 del secondo libro10, ma rivendica per Gelasio, in modo quasi certo, i primi
quindici capitoli del libro 10 e forse l’insieme del libro fino al capitolo 3 del libro 1111.
4 Socr., hist. eccl. 2, 1 (ed. G.-Ch. Hansen - M. Sirenjam, GCS, Neue Folge 1, Berlin 1995, pp. 92-93). 5 A. Glas, Die Kirchengeschichte des Gelasios von Kaisareia, die Vorlage für die letzten Bücher der Kirchengeschichte Rufins (Byzantinisches Archiv 6), Leipzig - Berlin 1914. 6 Cfr. l’edizione di G. Loeschcke - M. Heinemann, GCS 28, Leipzig 1918. 7 Per il libro 11 Mommsen ha trascritto in nota il testo di Giorgio secondo l’edizione di Muralto. Ormai viene utilizzata l’edizione di C. de Boer (Leipzig 1904, 2). Tuttavia per i rimandi al testo farò riferimento al testo latino di Rufino. 8 Ed. R. Henry, CUF 2, p. 15. Il Codex 89 e quello precedente su Gelasio di Cizico sono stati oggetto di numerose esegesi. Gli ultimi studi degni di nota sono quelli di J. Schamp, Gélase ou Rufin: un fait nouveau. Sur les fragments oubliés de Gélase de Césarée (CPG, no 3521), «Byzantion» 57, 1987, pp. 360-390; P. Nautin, La continuation de ´l’Histoire ecclésiastique´ d’Eusèbe de Césarée par Gélase de Césarée, «Revue des Études Byzantines» 50, 1992, pp. 163-183. 9 Bibliografia disponibile in E. Honigmann, Gélase de Césarée et Rufin d’Aquilée, «Bulletin de l’Académie Royale de Belgique» 40, 1954, pp. 122-161 e soprattutto pp. 122-123; e nella recentissima edizione della Storia Ecclesiastica di Socrate a cura di G.-Ch. Hansen - M. Siringan, (GCS, NF 1), Berlin 1995, p. XLV, n. 2. Storia delle discussioni in Fr. Winkelmann, Untersuchungen zur Kirchengeschichte des Gelasios von Kaisareia, «Sitzungsberichte der Deutschen Akademie der Wissenschaften zur Berlin» 1965, III, Berlin 1966, pp. 6-7. 10 Glas, Die Kirchengeschichte, cit., pp. 23-24, 65. 11 Winkelmann, Untersuchungen, cit., pp. 103-105. Tuttavia si continua a fare come se Gelasio avesse continuato la Storia di Eusebio fino al 395 e come se Giorgio non facesse altro che riprodurre tale testo.
222
Non intendo riprendere in esame l’intera questione. Vorrei soltanto presentare a mia volta
qualche nuovo aspetto riguardante i due libri: in primo luogo l’utilizzo da parte di Rufino di
alcune pagine occidentali, che non hanno niente a che vedere con Gelasio. Comincerò dai
prestiti più evidenti; questi consentiranno di analizzare in seguito alcune pagine nelle quali
l’influenza si lascia intravedere meno facilmente, prima di ritornare alla parte che ha suscitato
le critiche di Socrate. Forse ci meraviglieremo nello scoprire l’origine degli errori di Rufino.
I
Nella vita di Ambrogio di Milano vi sono pochi episodi celebri come le dispute con Giustina,
madre di Valentiniano II, durante gli anni 385-387. Dalla testimonianza dello stesso Ambrogio
e grazie al suo biografo Paolino di Milano12 conosciamo piuttosto bene la crisi che conobbero i
loro rapporti durante il 386. Rufino vi dedica due capitoli13, inserendoli nella trama politica
dell’usurpazione di Massimo e della restaurazione di Valentiniano II da parte di Teodosio. La
resistenza di Ambrogio è ritratta in numerose sequenze drammatiche, intervallate dal racconto
e dalla messa in scena dell’atteggiamento coraggioso del «maestro della memoria», Benevolo.
Questi si rifiutò, come viene detto, di redigere «decreti imperiali contro la fede dei Padri».
Infine Rufino riporta l’intervento di Massimo, che protesta dapprima per iscritto con
Valentiniano II e che, presentandosi come difensore della fede cattolica, si avvicina all’Italia,
provocando l’allontanamento di Giustina. Rufino conclude facendo notare come Giustina sia
stata così la prima a conoscere l’esilio di cui minacciava i vescovi, in particolare Ambrogio.
In modo abbreviato ma sostanzialmente analogo e talvolta letteralmente identico, troviamo
uguale presentazione in Giorgio14. Glas non ha quindi esitato a dire che questi ha avuto lo
stesso modello di Rufino, salvo attribuire qualche aggiunta allo storico latino15. Winkelmann
non si è soffermato su questa parte. Tuttavia essa contiene il racconto di un episodio che non
troviamo né in Ambrogio né in Paolino: quello della resistenza di Benevolo. Socrate non ne fa
cenno alcuno16; Sozomeno, che ha letto sia Socrate sia Rufino, ne parla solo in breve, ma in un
modo che non può far pensare di aver dato origine al testo di Giorgio, fosse anche soltanto
perché egli lo chiama Menibolus17.
Tralasciando le pagine rufiniane, Benevolo è noto soprattutto grazie a Gaudenzio di
Brescia. Questi ha dedicato diciannove delle sue omelie, principalmente del tempo
pasquale, a questo honoratus di Brescia, che non aveva potuto ascoltarle a causa di una
12 Paol., v. Ambrosii 12-14. 13 Ruf., 11, 15-16. 14 Mommsen (testo greco in nota), p. 1020, l. 5 - p. 1022, l. 8. 15 Glas, Die Kirchengeschichte, cit., pp. 67-68. 16 Socr., hist. eccl. 5, 11, 2-12. Così Teodor., hist. eccl. 5, 13. 17 Socr., hist. eccl. 7, 13, 5-6. Su Menibolos, cfr. l’apparato critico di Bidez - Hansen, GCS 50, p. 317, 5.
223
malattia. È quanto rievoca la Prefazione alla raccolta18, che richiama alla memoria
anche l’atteggiamento coraggioso di Benevolo, in un periodo in cui non era ancora
battezzato, al tempo della persecuzione di Ambrogio da parte di Giustina, la «Jezabel
dei giorni nostri». Il maestro della memoria, al quale questa chiedeva di redigere un
testo di legge «contro le chiese cattoliche», ha preferito «vivere da uomo privato» –
vale a dire dimettersi – rifiutando la promozione promessagli, piuttosto che compiere
ciò che gli veniva chiesto. Confrontando ciò che il vescovo dice di Benevolo, non vi
è dubbio alcuno che Rufino conoscesse questo testo e che lo abbia riscritto in
maniera più drammatica.
GAUDENZIO DI BRESCIA Praefatio ad Beniuolum 4-5 4. Nec mirum si hodie taliter in timore Domini conuerseris, qui necdum percepta baptismi gratia, ita pro fidei caelestis ueritate pugnasti... 5. Nostri namque temporis regina IEZABEL, Arrianae patrona simul ac socia, cum beatissimum persequeretur Ambrosium..., te quoque, ea tem-pestate magistrum memoriae, oblitum salutaris fides arbitrata, contra catholicas DICTARE ecclesias compellebat. Quod ne faceres, ultro et promotionis pollicitatae dignitatem et ambitionem saeculi gloriamque mundanam pro Dei gloria contempsisti, magis eligens priuatus uiuere quam militare
RUFINO Historia Ecclesiastica 11, 15-16 Sed quamuis illa HIEZABEL spiritu pugnaret armata, resistebat tamen Ambrosius Heliae uirtute repletus et gratia... Interim DICTANDA aduersus fidem patrum imperialia decreta mandantur Beniuolo tunc memoriae scriniis praesidente. Sed ille, cui ab incunabulis sacra fides et uenerabilis fuit, abnegat se impia posse uerba proferre et contra Deum loqui. Tum uero, ne inceptum reginae frustra uideretur, celsior ei honos promittitur si impleret iniuncta. Ille, qui nobilior in fide esse quam in honoribus cuperet, «Quid mihi, ait, pro impietatis mercede auctiorem promittitis gradum? Hunc ipsum quem habeo, tollite, tantum mihi conscientia fidei duret inlaesa». His dictis, ante pedes impia praecipientium cingu- lum iecit.
È quindi a Gaudenzio, e non alla sua immaginazione come vorrebbe
Glas19, che Rufino deve l’identificazione di Giustina con Jezabel. La funzione
18 Gaud., Tractatus, praefatio ad Beniuolum 7 (ed. A. Glück, CSEL 68, p. 4, ll. 33-41). 19 Glas, Die Kirchengeschichte, cit., p. 67 in fondo.
224
di Benevolo, il cui senso è sfuggito a Giorgio20, era facile da indovinare per il lettore
dell’epoca. Essa è data in modo più tecnico, ma meno corrispondente allo stile della storia,
da Gaudenzio. Tuttavia Rufino, come Gaudenzio, enuncia con il termine dictare ciò che è il
ruolo essenziale del maestro della memoria: redigere le leggi. Per il resto Rufino ha ampliato
la scena, scomponendola in vari episodi. La promessa di una promozione viene avanzata
solo dopo un primo rifiuto21. Ma soprattutto Benevolo unisce la parola all’atto per spiegare la
propria condotta. Laddove Gaudenzio non faceva altro che rievocare il ritorno alla vita
privata, Rufino descrive colui che getta il cinturone – emblema della pubblica funzione – ai
piedi di coloro che gli danno ordini contrari alla sua fede.
Abbiamo a quanto pare un bell’esempio del modo in cui Rufino ha utilizzato le proprie
fonti, il che spiega probabilmente la frequenza delle scene in stile diretto. Non dobbiamo
cercare Gelasio di Cesarea in questo passo. Egli forse è già morto quando Gaudenzio redige
questa Prefazione22, dato che questi è diventato vescovo di Brescia negli ultimi anni
dell’episcopato di Ambrogio († 397), suo consacratore. Quanto a Rufino, sappiamo che egli
conosceva Gaudenzio. Non soltanto gli ha dedicato la traduzione delle Recognitiones
Clementis23, ma ha approfittato della sua protezione dopo esser stato messo sotto accusa a
Milano nel 40024. È quindi del tutto naturale che verso il 402-404 egli abbia conosciuto gli
scritti di un protettore che considerava un dottore del suo tempo25. Invece è poco plausibile
che Gaudenzio abbia dovuto consultare la Storia di Rufino per conoscere i fatti e le gesta di
una persona che considera la gloria della sua chiesa26.
Siamo quindi in presenza di una fonte latina indubbia e quasi contemporanea
dell’epoca in cui Rufino compone la sua Storia. Questa si lascia riconoscere molto
meglio di quelle – scritte o orali – che avvalorano il racconto dei vari tentativi di
Giustina di restaurare la fede di Rimini. Vi è tuttavia ancora un testo di cui Rufino
conosce per lo meno l’esistenza: la lettera (o le lettere) con cui Massimo si presentava
difensore della fede e della Chiesa. Di fatto conosciamo, grazie alla Collectio
Avellana, una lettera di Massimo a Valentiniano II e un’altra a Siricio27, che
20 Giorgio non indica la funzione di Benevolo e riassume in tre righe le nove righe di Rufino. 21 Si noti che, secondo Rufino, Benevolo ha sempre nutrito un profondo rispetto per la fede cristiana. Gaudenzio invece sottolineava che non era ancora battezzato. A dire il vero non c’è alcuna contraddizione. Ma si può cogliere il modo di fare di Rufino, che abbellisce la verità. 22 Honigmann (Gélase et Rufin, cit., pp. 126-127) ha mostrato che nel 400 Gelasio ha già un successore, stando alle epist. 92-93 di Girolamo. 23 Rufin, prologus in Clementis recognitiones, (CChL 20, p. 281). 24 Y.-M. Duval, Le ´Liber Hieronymi ad Gaudentium´: Rufin d’Aquilée, Gaudence de Brescia et Eusèbe de Crémone, «Revue Bénédictine» 97, 1987, pp. 163-186 e soprattutto pp. 174, 176, 185. 25 Prologus (n. 23), p. 281, ll. 1-2. 26 Praefatio (n. 18) 1-2, p. 3, ll. 4-10. 27 Coll. Avell. 39-40 (ed. O. Günther, CSEL 35, 1, pp. 88-91).
225
corrispondono grossomodo a quanto afferma Rufino28. È poco probabile che tali lettere
fossero conosciute in Oriente. Il testo di Giorgio parla proprio di grammata29, ma la sua
frase mostra che egli non ha letto le lettere di Massimo, perché non si parla di Giustina.
La frase successiva passa invece sotto silenzio la presenza di Valentiniano II, che tuttavia
va in esilio con la madre. La stoccata finale della frase viene comunque rispettata. Ciò
che intende mostrare Rufino è la punizione dell’empietà: Giustina, che minacciava di
esilio Ambrogio, è la prima ad andarci, spinta certo dall’avvicinarsi del nemico, ma
anche «dalla coscienza della propria empietà»30. Una delle «chiavi» della Storia di
Rufino è proprio questa specie di giustizia immanente. La vedremo all’opera a proposito
della morte di Valente, per la quale egli ricorre alla Cronaca di Girolamo.
II
Rufino conosce bene questa Cronaca. Nella sua Apologia viene citata due volte31. Una
di queste, in cui appare il suo nome, riguarda l’anno 377, subito prima che Girolamo
rievochi l’invasione della Tracia da parte dei Goti, attaccati dagli Unni, nonché
l’esecuzione di Valente, che muore bruciato vivo dopo aver tardivamente richiamato
dall’esilio i Niceni32. È sufficiente stabilire un parallelo con il racconto di Rufino per
constatare numerose somiglianze, ma soprattutto un’espressione comune, rivelatrice da
sola di un prestito. GIROLAMO Chronicon a. 377-378 a. 377 Gens Hunnorum Gothos uastat. Qui, a Romanis sine armorum depositione suscepti, per auaritiam Maximi ducis fame ad rebellandum coacti sunt. Superatis in congressione Romanis, Gothi FUNDuntur in THRACIA. a. 378 Valens, de Antiochia exire conpulsus, SERA PAENITENTIA nostros de exiliis reuocat.
RUFINO Historia Ecclesiastica 11, 13 Per idem tempus, in Orientis regno, Gothorum gens, sedibus suis pulsa, per omnes se THRACIAS inFUDIT armisque urbes et agros uastare feraliter coepit. Tum uero, Valens, bella quae ecclesiis inferebat in hostem coepta conuerti SERAque PAENITENTIA episcopos et presbyteros relaxari exiliis ac de metallis resolui monachos iubet.
28 Ruf., 11, 16 (p. 1022, ll. 5-8). 29 Mommsen, p. 1022, ll. 3 sgg. 30 Ruf., 11, 16 (p. 1022, ll. 9-11). 31 Ruf., apol. c. Hieronymum 2, 28-29 (ed. M. Simonetti, CChL 20, p. 105). 32 Gir., chron. a. 377-378 (ed. R. Helm, GCS 57, pp. 248-249).
226
Lacrimabile bellum in Thracia. In quo deserente equitum praesidio Romanae legiones a Gothis uinctae usque ad internecionem caesae sunt. Ipse imperator Valens, cum sagitta saucius FUGERET et ob dolorem nimium saepe equo laberetur, ad cuiusdam uillulae casam deportatus est. Quo, persequentibus barbaris et incensa domo, sepultura quoque caruit.
Ipse tamen ad hostibus circumuentus, in praedio quo ex bello trepidus conFU-GERAT impietatis suae poenas igni exustus dedit...
Se non fosse per l’indizio determinante costituito dalla menzione, da ambo le parti,
della sera paenitentia di Valente, si potrebbe contestare la dipendenza di Rufino nei
confronti di Girolamo e dire che questi offre un rapido riassunto delle vicende militari
occorse tra il 376 e il 378. Una volta colta, invece, la presenza di un «modello» si è in
grado di scoprire il modo di fare di Rufino. Pur mantenendo l’ordine di Girolamo33,
egli elimina sia le figure di secondo piano sia i fatti annessi, per incentrare la
presentazione sulla punizione di Valente. Non sono più le legioni romane a essere
accerchiate, ma l’imperatore stesso, che fugge tutto tremante – nessun cenno alla sua
ferita! –. Al contrario, mentre Girolamo aveva designato coloro che ritornavano
dall’esilio semplicemente con il termine generico di nostri, Rufino, che ha elencato
all’inizio del regno di Valente le varie condanne subite dai vescovi, dai preti, dai
diaconi e dai monaci34, riprende pressappoco la stessa enumerazione e mette in
relazione la «guerra» condotta fino ad allora contro i Niceni con quella che Valente
conduce contro i nemici esterni. Non aveva forse dipinto Lucio, vescovo ariano di
Alessandria, come colui che inviava contro i monaci del deserto un vero e proprio
esercito, «come se dovesse combattere contro i barbari»35? Rufino scrive queste pagine
all’indomani della prima invasione di Alarico. È a questa che pensa, quando
aggiunge che la sconfitta-punizione fu «l’inizio della disgrazia per l’Impero
33 Al contrario Giorgio il Monaco non soltanto commette un errore cronologico, collocando la morte di Valente (378) prima di quella di Valentiniano I (375) (Mommsen, p. 1019), ma ribalta il testo di Rufino, citando il voltafaccia di Valente prima dell’invasione dei Goti (ibid.). 34 Ruf., 11, 2 (Mommsen, p. 1003, ll. 5-8). 35 Ruf., 11, 3 (Mommsen, p. 1004, ll. 10-12), assente in Giorgio.
227
romano»36. Ritroveremo questi barbari al momento della battaglia sul fiume Frigido37,
ma prima ancora durante il regno di Costantino, in una specie d’immagine antitetica.
III
Prima di tutto, forti della certezza offerta dall’uso sicuro di questa pagina della
Cronaca su Valente, dobbiamo esaminare qualche altra sequenza, in cui il quadro
cronologico proposto da Girolamo e l’indicazione degli eventi politici e religiosi
menzionati da Rufino coincidono perfettamente con i dati della Cronaca, per cui ci si
può chiedere se non sia questa che ha in qualche modo determinato la scelta di Rufino38.
Il primo esempio riguarda la presentazione di Valentiniano I, del suo governo e dei
principali eventi religiosi occorsi sotto il suo regno, prima che vengano indicate le
circostanze della sua morte.
Innanzitutto il giudizio d’insieme su Valentiniano. Quello di Girolamo è misurato,
giacché riconosce all’imperatore grandi qualità, ma spinte a un grado tale da passare,
secondo alcuni, per difetti. Rufino, che sul piano religioso vuole opporre
Valentiniano al fratello, mantiene soltanto la parte favorevole del giudizio politico,
facendo di Valentiniano un degno rappresentante dell’antica Roma. GIROLAMO Chronicon a. 365 Valentinianus, egregius alias imperator et Aureliano moribus similis, nisi quod seueritatem eius nimiam et parcitatem quidam crudelitatem et auaritiam interpretabantur.
RUFINO Historia Ecclesiastica 11, 9 Valentinianus, fide religionis inlaesus, uetere Romani imperii censura rem publicam gubernabat.
La seueritas è sostituita dalla censura, di cui il traduttore greco (oppure Giorgio il
Monaco) non ha compreso il senso nobile39. Valentiniano risulta, mediante questa
36 Ruf., 11, 13 (Mommsen, p. 1020, ll. 4-5): Quae pugna initium mali Romano imperio tunc et deinceps fuit (assente in Giorgio). Si noti come le devastazioni della Tracia (armisque urbes et agros uastare feraliter coepit) e quelle della Venetia (agros, armenta, uirosque longe lateque uastauit) vengano dipinte in termini analoghi. 37 Ruf., 11, 33 (Mommsen, p. 1038, ll. 6-8). Nessun cenno in Giorgio. 38 Non nascondo affatto che, presi singolarmente, tali passi non spingono a credere in una dipendenza. Parimenti non ho difficoltà a riconoscere che Rufino ha modificato i giudizi di Girolamo; tuttavia credo sia stato aiutato dal quadro che gli forniva Girolamo e dalla sua scelta degli eventi significativi. 39 Sostituisce censura con «authentia», che designa invece l’auctoritas, se non addirittura l’imperium.
228
censura, degno dei tempi remoti della storia romana – uetus –, collocato
implicitamente tra i buoni imperatori. Si raggiunge così, senza mostrarlo
esplicitamente, l’egregius alias imperator di Girolamo. Rufino è solito a questo
genere di uersio. Ma Valentiniano si ritrova anche implicitamente paragonato a
Costantino, del quale la parte finale della traduzione della Storia di Eusebio lodava
proprio la censura40.
Oltre ai decessi di Ilario di Poitiers, di Eusebio di Vercelli e di Lucifero di Cagliari,
la Cronaca segnala, durante il regno di Valentiniano, solo due fatti importanti per le
chiese d’Occidente: le elezioni di Damaso a Roma e di Ambrogio a Milano,
limitandosi per Aquileia a rievocare la vita comunitaria del clero. Rufino, sulla scia
di Eusebio, molto attento alle successioni episcopali, ricorda soltanto i primi due
eventi. Il primo, completamente assente in Giorgio, senza poter trarre grandi
conclusioni41, è trattato in un modo che non è privo di attinenza con quello in cui
Girolamo ha presentato ellitticamente la controversia tra Damaso e Ursino.
GIROLAMO Chronicon a. 366 Romanae ecclesiae XXXV ordinatur episcopus Damasus et, post non multum temporis interuallum, Vrsinus, a quibusdam episcopus constitutus, Sicininum cum suis inuadit. Quo Damasianae partis populo confluente crudelissimae interfectiones diuersi sexus perpetratae.
RUFINO Historia Ecclesiastica 11, 10 Damasus post Liberium per successionem sacerdotium in urbe Roma susceperat. Quem praelatum sibi non ferens Vrsinus quidam eiusdem ecclesiae diaconus, in tantum furoris erupit ut, persuaso quodam satis imperito et agresti episcopo, collecta turbulentorum et seditiosorum manu, in basilica quae Sicinini appellatur episcopum se fieri extorquerat, legibus et traditione peruersis. Quo ex facto tanta seditio, immo uero tanta bella coorta sunt, alterutrum defendentibus populis, ut replerentur humano sanguine orationum loca...
I punti di divergenza non mancano tra i due testi. Sarebbero ancora più numerosi, se si
tenesse conto del seguito del testo di Rufino. Questo fa intervenire il «prefetto Massimino»,
contrariamente a quanto sappiamo da altre fonti42. Ma se si esamina lo schema dei due testi
40 Eus.-Ruf., 11 (=10), 9, 6 (Mommsen, p. 901, l. 3 - p. 903, l. 1). 41 Tuttavia Glas (Die Kirchengeschichte, cit., p. 65) lo fa derivare da Gelasio. Cfr. le riserve di Winkelmann, Untersuchungen, cit., p. 91. 42 Ruf., 11, 10 (Mommsen, p. 1018, ll. 2-6). Secondo Ammiano è intervenuto il prefetto della città Vivenzio (Res gestae 27, 3, 12-13). Anche le Gesta inter Liberium et Felicem
229
di cui sopra e lo si confronta con ciò che conosciamo di questi eventi grazie ad altre fonti, si può
constatare che Rufino, senza capire molto bene l’errata presentazione di Girolamo, l’ha ampliata,
prendendo decisamente le parti di Damaso. Dalla presentazione di Rufino, infatti, risulta che
Ursino sarebbe stato consacrato dopo Damaso, e questo nella Basilica Sicinini. Ora, se si
confronta la notizia ellittica di Girolamo con il racconto offerto da un avversario di Damaso, si
scoprirà che l’occupazione del Sicininum è stata effettuata solo quando l’elezione e la
consacrazione di Ursino avevano già avuto luogo43. L’attacco dei sostenitori di Damaso,
chiaramente segnalato da Girolamo, contro la Basilica in cui si trovano i sostenitori di Ursino si
trasforma in Rufino in una serie di scontri a responsabilità condivisa. Ecco qui un nuovo esempio
del modo con cui lo storico sa rimaneggiare e colorare i fatti. Nella fattispecie, egli scredita
Ursino. A tal fine non necessita di ulteriori informazioni, anche se è passato per Roma al ritorno
dalla Palestina o ha potuto addirittura essere presente al momento dei fatti44.
Per l’elezione di Ambrogio, che nella Storia segue immediatamente quella di Damaso, seppure
di otto anni precedente, egli non poteva trovare molti dettagli in Girolamo. Questi si limitava a
segnalare la tardiva morte di Aussenzio e il ritorno all’ortodossia di tutta l’Italia settentrionale, in
seguito all’elezione di Ambrogio45. Rufino è un difensore e un ammiratore di Ambrogio46. È
venuto a Milano dopo appena tre anni dalla morte del vescovo ed è stato in contatto con i fedeli
di Ambrogio, quali Gaudenzio, già nominato, e Cromazio, il vescovo per il cui gregge compone
questa Storia. Non c’è da stupirsi che Rufino ci offra il primo racconto della movimentata
elezione di Ambrogio. Paolino di Milano non si scosterà di molto dalla sua presentazione, che
con tutta probabilità ha trovato confermata localmente47. «Giorgio», in compenso, conosce così
poco Ambrogio da affibbiargli un tis, che dimostra la sua ignoranza nei confronti di un
personaggio noto a tutti nell’Occidente della fine del IV secolo48. Il resto della presentazione, con
le relative omissioni e modifiche, mi sembra molto meno scorrevole rispetto a quella di Rufino.
La morte di Valentiniano segue cronologicamente l’elezione di Ambrogio. Rufino
concatena e precisa numerose indicazioni giustapposte da Girolamo.
fanno intervenire Vivenzio e il prefetto dell’annona Giuliano (Coll. Avell. 1, 6 - CSEL 35, 1, p. 3). 43 Gesta 5-7 (Ibid. p. 2, l. 23 - p. 3, l. 21). 44 Rufino si trovava verosimilmente a Roma (come pure Girolamo) nel 366. 45 Gir., chron. a. 374 (Helm, p. 247): Post Auxenti seram mortem Mediolanii Ambrosio episcopo constituto omnis ad fidem rectam Italia conuertitur. 46 Ruf., apol. c. Hier. 2, 25 (CChL 20, p. 101, ll. 12-14); 2, 26 (p. 102, ll. 19-21); 2, 28 (p. 104, ll. 6-16). 47 Il racconto dell’elezione offerto da Paolino (v. Ambrosii 6-7) è modellato in buona parte su quello di Rufino: cfr. M. Pellegrino, Paolino di Milano, Vita di S. Ambrogio, Roma 1961, pp. 16-17. 48 Mommsen, p. 1018, ll. 5-6 del testo greco in nota.
230
GIROLAMO Chronicon a. 375 Quia superiore anno Sarmatae Pannonias uastauerant, idem consules permanere. Valentinianus, subita sanguinis eruptione, quod Graece apoplexis uocatur, Brigitione moritur. Post quem, Gratianus, adsumpto in imperium Valentiniano fratre, cum patruo Valente regnat.
RUFINO Historia Ecclesiastica 11, 12 Interea, cum ad bellum Sarmaticum Valentinianus de Galliae partibus uenisset Illyricum, ibi, uixdum coepto bello, aegritudine subita oppressus diem obiit, relictis heredibus in imperio filiis, Gratiano Augusto Valentinianoque admodum paruulo et nondum regiis insignibus initiato. Quem tamen necessitas eorum qui tamquam uacuum imperii locum conabantur inuadere, compulit, etiam absente fratre, purpura indui, Probo tunc Praefecto fideliter rem gerente.
Stessa rievocazione della guerra contro i Sarmati – mentre Ammiano parla,
attraverso le circostanze precise della morte dell’imperatore, dei Quadi49 –; stessa
morte improvvisa – senza termine tecnico in Rufino, com’è d’obbligo per uno storico
–; stessa menzione dei successori. Sicuramente le modifiche non mancano da parte di
Rufino. Girolamo, indicando la città in cui è morto Valentiano, lascia al lettore il
compito di scoprire che Valentiano vi era giunto da Treviri. Rufino lo esplicita, pur
rimanendo sul vago riguardo al luogo del decesso. Ma soprattutto Rufino è in grado
di precisare il ruolo e lo scopo di Probo, essendo un amico intimo della famiglia. Non
aveva forse scritto un insieme di lettere per la sposa del Prefetto50? Anche qui
Ammiano tace su un simile intervento51. Quanto a Giorgio, il suo testo ignora la
carica di Probo. Basta dire, come fa Glas52, che la parola huparchou è venuta meno?
Non mi spingerei fino a dire che Rufino utilizza il quadro di Girolamo, se il
seguito immediato non mostrasse, come si è visto, che la presentazione della
49 Ammiano, Res gestae 30, 6, 1-3. Ci fu sì un’incursione dei Sarmati e dei Quadi nel 373 (29, 6, 8) e Valentiniano vide effettivamente arrivare nel 375 una delegazione di Sarmati (30, 5, 1), ma è contro i Quadi che questi prepara una spedizione (30, 5, 11) ed è ricevendo un’ambasciata dei Quadi (30, 6, 1) che muore per un colpo apoplettico (30, 6, 3): erumpente subito sanguine. 50 Cfr. Gennadio, uir. ill. 17 (PL 58, col. 1070): Scripsit et epistolas ad timorem Dei hortatorias multas, inter quas praeminent illae quas ad Probam dedit. 51 Ammiano, che ha rievocato la Prefettura di Probo e ha ritratto il personaggio con tinte molto fosche (30, 5, 4-10), non dice nulla circa il suo ruolo nella successione (30, 10, 4-76) di Valentiniano. Girolamo (chron. a. 372) non era tenero nei confronti di Probo. 52 Glas, Die Kirchengeschichte, cit., p. 66.
231
morte di Valente, di poco successiva, s’ispira in buona parte alla Cronaca. Questa
lettura e quest’utilizzo sono parimenti distinguibili, seppure a diversi gradi, nel primo
libro, a proposito di Costantino e degli anni successivi alla sua morte.
IV
Dopo aver mostrato la devozione di Costantino – nella riunione del Concilio di
Nicea53 – e quella della madre – con la scoperta della Croce di Cristo a
Gerusalemme, come pure nel modo di mettersi al servizio delle vergini consacrate54
–, Rufino d’un tratto dedica alcune righe all’azione di Costantino nei confronti dei
barbari, prolungandole in modo del tutto inatteso mediante la menzione di lettere
indirizzate dall’imperatore e dai suoi figli ad Antonio, il «primo abitante del
deserto»55.
GIROLAMO Chronicon a. 332: Romani Gothos in Sarmatarum regione uicerunt. a. 334: Sarmatae Limigantes dominis suis, qui nunc Argaragantes uocantur, facta manu, in Romanum solum expulerunt. a. 335: Constantinus cum liberis suis honorificas ad Antonium litteras mittit.
RUFINO Historia Ecclesiastica 10, 8 Interea, Constantinus, pietate fretus, Sarmatas, Gothos aliasque barbaras nationes, nisi quae uel amicitiis uel deditione sui pacem praeuenerant, in solo proprio armis edomuit. Et quanto magis se religiosius et humilius Deo subiecerat, tanto amplius ei Deus uniuersa subdebat. Ad Antonium quoque, primum heremi habitatorem, uelut ad unum ex profetis, litteras suppliciter mittit, uti pro se ac liberis sui Domino supplicaret. Ita, non solum meritis suis ac religione matris, sed et intercessione sanctorum commendabilem se Deo fieri gestiebat. Sane quoniam tanti uiri Antonii fecimus mentionem...
Che i Romani avessero combattuto i Goti venendo in soccorso dei Sarmati, lo
sappiamo dai Consularia Constantinopolitana56, che Girolamo probabilmente segue.
53 Ruf., 10, 1-5 (Mommsen, pp. 960-965). 54 Ruf., 10, 7-8 (Mommsen, pp. 969-971, l. 4). 55 Ruf., 10, 8 (Mommsen, p. 971, ll. 8-9). Dicendo questo, Rufino nega implicitamente ciò che Girolamo diceva di Paolo l’Eremita nella sua v. Pauli. 56 Consularia Constantinopolitana a. 332 (ed. Th. Mommsen, MGH AA 9, 1 p. 234).
232
Questi rievoca poi allo stesso modo la rivolta di una parte dei Sarmati contro i loro capi, che si
ritrovano espulsi dal territorio e devono cercare rifugio presso i Romani. Rufino ha non
soltanto raggruppato i due eventi, ma ha anche incrementato la potenza di Costantino: «altre
nazioni barbare» sono da lui vinte o fanno spontaneamente atto di sottomissione. Certo,
troviamo in Gelasio di Cizico l’indicazione che «molte altre nazioni barbare» gli hanno chiesto
la pace57, ma possiamo capire che i popoli di cui si tratta sono gli Indiani e gli Iberi, la cui
evangelizzazione, raccontata in seguito, dà luogo a buoni rapporti con l’Impero romano. Allo
stesso modo di Rufino, «Gelasio» nota come Costantino debba queste conquiste e
quest’amicizia alla sua devozione a Dio58, ma non fa nessun cenno ad Antonio, rievocato da
Girolamo per l’anno 335, anno che, per lui, segue cronologicamente la menzione dei Sarmati.
Glas riconosce che quanto detto da Rufino della Vita Antonii59 e in particolare della sua
traduzione latina può essere soltanto un’aggiunta dello storico60. D’altra parte la natura e il
contenuto della lettera di Costantino ad Antonio in Giorgio il Monaco sono diversi, dato
che l’imperatore avrebbe chiesto all’eremita di venirlo a trovare61. Più che altro Rufino
vede in Antonio un profeta. Ciò equivale a dire, senza attribuirgli la benché minima
profezia, che Rufino ne fa un omologo del monaco Giovanni, che rivestirà presso
Teodosio questo ruolo di consigliere e di profeta62.
V
Il 335, anno in cui Girolamo cita la corrispondenza di Costantino e dei suoi figli con
Antonio, è anche l’anno del Concilio di Tiro, in seguito al quale Atanasio venne
condannato da Costantino all’esilio in Gallia. Girolamo non fa cenno né all’uno né all’altro
evento. Ma prima di segnalare le circostanze della morte dell’imperatore nel 337, indica
che fu «battezzato da Eusebio di Nicomedia e da allora si avvicinò all’arianesimo, fatto cui
fecero seguito – fino a oggi – la confisca di chiese e la divisione degli spiriti in
tutto il mondo»63. Tuttavia appena nel 339 segnala l’inizio della persecuzione
57 Gelas. Ciz., Syntagma 3, 9, 1 (GCS 28, p. 148, ll. 3-4). 58 Ibid., p. 148, ll. 5-7. 59 Ruf., 10, 8 (Mommsen, p. 971, ll. 12-18). Il seguito contiene una dichiarazione di Rufino sulle sue scelte: egli ometterà quanto riportato da altri (da chi, a parte Atanasio nella Vita di Antonio?) e si dedicherà a ciò che è rimasto ignoto dell’Occidente a causa della distanza. Ma è stato veramente applicato un simile principio? 60 Glas, Die Kirchengeschichte, cit., p. 48. 61 Ibid., p. 48. Boor, II, p. 523, ll. 13-17. Giorgio il Monaco trascrive poi il cap. 81 della v. Antonii (Boor, p. 524, l. 9 - p. 525, l. 10). 62 Ruf., 11, 19 (Mommsen, p. 1024, ll. 1-3: spiritu profetico repleuit (Deus); 11, 32, p. 1036, ll. 14-18). 63 Gir., chron. a. 337.
233
ariana, che attacca, sotto la protezione di Costanzo, «innanzitutto Atanasio»64. Se Girolamo rievoca
esili e prigioni, non precisa quale fu la sorte del vescovo di Alessandria. Le note che seguono
riguardano, più che le questioni religiose, le dispute e le azioni dei figli di Costantino65. Bisogna
andare al 343 per scoprire che Atanasio, «ricercato da Costanzo», viene accolto a Treviri66 e fino al
346 per apprendere che il vescovo fa ritorno ad Alessandria, «su lettera dell’imperatore Costante»67.
Disponiamo di una documentazione abbastanza precisa per sapere che gli eventi non si sono
svolti in questa maniera e che gli itinerari di Atanasio possono essere seguiti in modo ben più
dettagliato ed esatto. Ricordiamo che già Socrate si era rifatto agli scritti di Atanasio per
correggere la cronologia di Rufino. Questi ha usato il canovaccio di Girolamo, arricchendolo in
modo cospicuo, ma solo raramente verificabile. Riguardo al progetto di reintegrazione di Ario a
Costantinopoli sotto l’episcopato di Alessandria, Rufino rimanda agli «scritti di Atanasio»68 ed è
probabilmente da questi che ottiene informazioni sulla morte di Ario69. In maniera più vaga,
dichiara di tracciare la biografia di Atanasio a «partire da ciò che ha appreso da quelli che erano
vissuti con lui»70, il che ci rimanda al soggiorno di Rufino ad Alessandria, senza per questo dare
maggior solidità a quanto viene detto. È forse a questo genere di informazioni che deve il lungo
racconto del Concilio di Tiro? Non si può dire. Poiché se, da un lato, rievoca la presenza presso
Atanasio del «suo prete Timoteo»71, dall’altro non cita minimamente il suo nome. Timoteo
sapeva quel che aveva fatto Atanasio, lasciando Tiro nel 335.
Il «canovaccio» di Girolamo si lascia percepire più o meno chiaramente. Se ne intravede un
primo elemento nella precisione della data e del luogo della morte di Costantino72. Passi che lo
64 Ibid., a. 339: Ex hoc loco impietas Ariana Constantii regis fulta praesidio, exiliis, carceribus et uariis adflictionum modis, primum Athanasium, deinde omnes non suae partis episcopos persecuta est. 65 Ibid., a. 340, 341, 342. 66 Ibid., a. 343: Maximinus Treuerorum episcopus clarus habetur. A quo Athanasius Alexandriae episcopus, cum a Constantio quaereretur ad poenam honorifice susceptus est. 67 Ibid., a. 346: Athanasius, ad Constantis litteras, Alexandriam regreditur. 68 Ruf., 10, 13 (Mommsen, p. 978, ll. 21-22). Contrariamente a quanto talvolta si afferma, Rufino si richiama agli scritti di Atanasio solo per confermare che c’era realmente, a Costantinopoli, un vescovo di nome Alessandro – diverso dall’Alessandro vescovo di Alessandria. 69 Ruf., 10, 14 (Mommsen, p. 979). È noto che Atanasio ha raccontato due volte (nel 356: epist. encyclica ad episcopos Aegypti et Libyae 18-19 - PG 25, 581-5; nel 358: epist. ad Serapionem, PG 25, 685-690) la fine ignominiosa di Ario, senza presentarsi come testimone oculare. Egli rievoca Alessandro di Costantinopoli (§ 19 - col. 581 B-C), ma colloca tale morte sotto Costantino. Studio del dossier: A. Leroy-Molinghen, La mort d’Arius, «Byzantion» 38, 1968, pp. 105-111. 70 Ruf., 10, 15 (Mommsen, p. 980, ll. 19-20). Cfr. Gelas. Ciz., Syntagma 3, 15, 10 sgg. (GCS 28, p. 165, ll. 23 sgg.). 71 Ruf., 10, 18 (Mommsen, p. 984, ll. 6 sgg.). 72 Cfr. Gir., chron. a. 337: XXXI Constantinus cum bellum pararet in Persas, in Acyrone,
234
storico sappia che Costantino è morto nei pressi di Nicomedia, ma da dove, nel suo racconto, in
cui la cronologia si limitava il più delle volte a interea e a per idem tempus, ha preso quella data
così precisa di trentunesimo anno, se non da Girolamo, che numera gli anni di regno a margine
delle note? Lo stesso vale per la menzione del luogo della morte di Costantino II73, anche se
discolpa Costante e ne fa in seguito un elogio militare, usando e trasformando le note della
Cronaca sugli scontri e infine sulla vittoria sui Franchi74.
Ora, è in queste date che Girolamo collocava l’azione degli Ariani contro Atanasio
grazie all’appoggio di Costanzo75. Forse non è necessario supporre il ricorso a «Gelasio»,
del quale non abbiamo per quel periodo nessuna attestazione, mentre la «cronologia» di
Girolamo, seguita abitualmente da Rufino, permetteva se non addirittura suggeriva a
Rufino di far iniziare anch’egli in quel momento il racconto della persecuzione di Atanasio,
cominciando dal racconto del Concilio di Tiro76, mentre nel 339, data di «inizio» per
Girolamo, Atanasio è in realtà già tornato dal (primo) esilio a Treviri dove è stato
condannato da Costantino, presso il quale si era recato venendo da Tiro77.
In Rufino Atanasio, prima ancora della fine del Concilio di Tiro, fugge ad Alessandria,
stando al seguito78. Si parla, infatti, secondo una tradizione – fertur –, del nascondiglio che gli
avrebbe offerto per sei mesi una cisterna vuota e che fu infine scoperto79. Per evitare di mettere
uilla publica iuxta Nicomediam, moritur anno aetatis LXVI. Post quem tres liberi eius ex Caesaribus Augusti appellantur e Ruf., 10, 12 (Mommsen, p. 978, ll. 5-7): Constantinus in suburbana uilla Nicomediae tricesimo et primo imperii sui anno diem functus est, liberis de successione Romani orbis testamento heredibus scriptis. 73 Cfr. Gir., chron. a. 340: Constantinus bellum fratri inferens, iuxta Aquileiam Alsae occiditur e Ruf., 10, 16 (Mommsen, p. 982, l. 11): ...Constantino fratre non longe ab Aquileia apud Alsae fluuium a militibus interfecto... Socrate non reputerà necessario fornire tali precisazioni topografiche (2, 4, 5; 2, 15, 1). Non credo si possa affermare che queste si spiegano in Rufino, come nemmeno in Girolamo, con la vicinanza ad Aquileia. 74 Cfr. Gir., chron. a. 341: Vario euentu aduersum Francos a Constante pugnatur. a. 342: Franci a Constante perdomiti et pax cum eis facta e Ruf., 10, 16 (Mommsen, p. 982, l. 12): Constans (...) Occidentem satis industrie gubernabat. L’espressione è sicuramente vaga ma elogiativa, e si trova in un passo in cui, come in Girolamo, si parla dell’attività dei tre figli di Costantino. Su Costanzo cfr. chron. a. 339. 75 Cfr. Ruf., 10, 16 (Mommsen, p. 982, ll. 13-16): Nam Constantius, natura et animo regio... per eunuchos arte in perfidiam decipitur a peruersis sacerdotibus et intento satis studio prauis eorum contentionibus obsecundat. 76 Il racconto del Concilio di Tiro inizia subito dopo (Ruf., 10, 17; Mommsen, p. 982, ll. 22 sgg.). 77 Ma nel 339 ha inizio il secondo esilio di Atanasio, questa volta per volontà di Costanzo. 78 Ruf., 10, 18-19 (Mommsen, p. 985, l. 12 - p. 986). 79 Ibid. (p. 985, l. 25 - p. 986, l. 5). Pallad. (hist. laus. 63) rievoca una vergine che aveva nascosto Atanasio per sei anni; ma secondo la fine della storia si tratta del terzo esilio (356-362), durante il quale Atanasio ha trovato rifugio soprattutto nel deserto, presso i monaci.
235
in pericolo le persone che lo nascondono, il vescovo fugge poi in Occidente, presso Costante.
Ricordiamo che Girolamo menzionava nel 343 la presenza di Atanasio a Treviri, dove veniva
accolto «con tutti gli onori» dal vescovo Massimino. In Rufino è l’imperatore Costanzo che
accoglie Atanasio satis honorifice religioseque80. Ma, come in Girolamo, è l’imperatore che
scrive al fratello e finisce per ottenere il ritorno di Atanasio ad Alessandria81. Tuttavia, laddove
Girolamo non faceva che menzionare la lettera e i suoi effetti, Rufino aggiunge numerosi
dettagli sulle minacce contenute nella lettera e riporta la reazione di Costanzo, che di fatto
finisce per ricevere Atanasio ad Antiochia nel 346, prima di lasciarlo tornare ad Alessandria82.
Girolamo non parla della partenza di Atanasio per il suo terzo esilio nel 356. Tuttavia
informerà del (nuovo) ritorno ad Alessandria nel 362, dopo la morte di Costanzo83. Tra il 350 –
usurpazione di Magnenzio – e il 356 egli segnala la partenza in esilio di numerosi vescovi
occidentali84, senza però indicare i concili in seguito ai quali sono state prese queste decisioni e
senza nemmeno mettere in relazione le decisioni imperiali con la riconquista dell’Occidente, di
cui tuttavia cita un certo numero di tappe85. Le note si susseguono, senza essere minimamente
collegate tra loro per chi non conoscesse da altra fonte la concatenazione degli eventi.
In compenso in Rufino l’esilio di Atanasio o quanto meno la sua fuga – non
si sa ben dove – comincia subito dopo l’usurpazione di Magnenzio86, prima
ancora dell’inizio della conquista dell’Occidente da parte di Costanzo, mentre
sappiamo che le prime misure contro Atanasio risalgono al 35387 e che
80 Ruf., 10, 20 (Mommsen, p. 986, ll. 6-9): Verum, ne graues alicui latebrae suae fierent et occasio calumniae innocentibus quaereretur, nihil sibi ultra iam tutum in Constantii regnum praesumens, ad Constantis partes profugus abscedit, a quo satis honorifice religioseque susceptus est. 81 Ruf., 10, 20 (Mommsen, p. 986, ll. 9-15): Quique, causa eius (=Athanasii) quam fama compererat, diligentius cognita, scribit ad fratrem... Ci furono in realtà numerose lettere, inviate dallo stesso Costanzo ad Atanasio. 82 Atanasio rievoca questo incontro nella sua apol. Const. 3 e nella apol. c. Arianos 54. Si possono trovare in quest’ultima Apologia (§ 51) le lettere di Costanzo ad Atanasio. Cfr. anche Teodor., hist. eccl. 2, 11-12, che cita il luogo dell’incontro e riprende la storia della chiesa raccontata da Rufino. 83 Gir., chron. a. 362: Athanasius Alexandriam reuertitur. 84 Paolino di Treviri e Rodanio di Tolosa nel 353 (in realtà dopo il Concilio di Arles); Eusebio di Vercelli, Lucifero di Cagliari, Dionigi di Milano nel 355 (in realtà dopo il Concilio di Milano); Ilario di Poitiers nel 356. L’esilio di Liberio, così come il suo (poco) glorioso ritorno vengono fatti risalire al 349, momento della sua consacrazione come 34o vescovo di Roma. Poiché l’anno della partenza non è indicato in modo chiaro, si può dedurre che Rufino non ha potuto disporre di un punto di riferimento sicuro. 85 Battaglia di Mursa (a. 351), suicidio di Magnenzio e del fratello (a. 353). 86 Ruf., 10, 20 (Mommsen, p. 987, ll. 9 sgg.): Sed cum Magnenti scelere imperator Constans regno simul et uita fuisset exemptus, rursum in Athanasium ueteres illi incentores principis odia resuscitare coeperunt... 87 Atan., historia acephala 1, 8 (ed. A. Martin, SChr. p. 142). Cfr. ibid., pp. 91 sgg.
236
egli non lascerà Alessandria prima del 356. In un secondo momento Rufino, in modo più
preciso di Girolamo, cita i tentativi dell’imperatore contro l’episcopato occidentale per
ottenere con l’inganno, sotto l’apparenza della condanna di Atanasio, l’acquiescenza alla
fede ariana88. Cita perfino il Concilio di Milano (del 355), assente in Girolamo, ed è a
quest’unico concilio che ricollega la condanna all’esilio dei vescovi nominati da
Girolamo, ma in ordine diverso ed errato: Dionigi (di Milano), Eusebio (di Vercelli),
Paolino (di Treviri), Rodanio (di Tolosa), Lucifero (di Cagliari) e infine Ilario (di
Poitiers)89. Quest’ultimo nome era ben separato dagli altri in Girolamo; ma se si fa
riferimento alle sue note, ci si accorge che Paolino e Rodanio, che figurano al centro
della lista in Rufino, erano stati i primi a essere esiliati, un anno prima degli altri tre.
Delle indicazioni di Girolamo rimane soltanto la violenta espressione in exilium trusi90.
Quanto a Liberio, anch’egli esiliato nel 356 secondo Girolamo91, sembrerebbe, a detta di
Rufino, che abbia dovuto lasciare Roma solo dopo il Concilio di Rimini92. Di questo
sinodo viene offerta una presentazione semplificata93, se non addirittura caricaturale e
molto occidentale; egli attacca l’astuzia dei Greci callidi – come sempre! – dinanzi agli
occidentali simplices, che non conoscono il senso della parola homousios. Come credere
che un greco, che per giunta non sembra essere stato un niceno convinto94, abbia potuto
presentare in questo modo i due concili di Seleucia – in cui Acacio di Cesarea rivestì un
ruolo determinante – e di Rimini? Nel presente caso Rufino non tiene nemmeno conto
dei punti di riferimento cronologici che gli offre la Cronaca, tanto è desideroso di
passare nuovamente in rassegna le grandi sedi episcopali colpite dalla bufera95
88 Ruf., 10, 20 (Mommsen, p. 987, ll. 18-21). 89 Ruf., 10, 21 (Mommsen, p. 987, l. 22 - p. 988, l. 3): Apud Mediolanium episcoporum concilium conuocatur. Plures decepti, Dionysius uero, Eusebius, Paulinus, Rhodanius et Lucifer dolum esse in negotio proclamantes... in exilium trusi sunt. His etiam Hilarius iungitur, ceteris uel ignorantibus uel non credentibus fraudem. Riassunto (non del tutto veritiero) di informazioni che Rufino poteva trovare nell’opera di Ilario. 90 Si può trovare la stessa espressione in Girolamo, a. 349. 91 Gir., chron. a. 356: Liberius episcopus Romanus in exilium mittitur. 92 Ruf., 10, 23 (p. 988, ll. 23-25). L’esilio sembra essere la conseguenza del concilio: Igitur Liberius... in exilium truditur. 93 Ruf., 10, 22 (Mommsen, p. 988). Non si parla delle due sessioni del concilio e i dibattiti sono falsati. Si parla molto poco di Seleucia e per niente del Concilio di Costantinopoli degli inizi del 360. Girolamo (chron. a. 359), pur essendo anch’egli succinto, rievocava, senza citare nomi di località, il tradimento dei delegati occidentali a Nicea. 94 In realtà Gelasio è l’autore di un trattato contro gli Anomei, di cui però non sappiamo molto. 95 Roma (10, 23), Gerusalemme e Alessandria (10, 24), Antiochia (10, 25). È forse possibile pensare che Gelasio abbia potuto formulare sullo zio Cirillo e sui suoi voltafaccia il giudizio che leggiamo al § 25? Girolamo (chron. a. 348) non è più elogiativo: lo considera infatti un ariano, il che può spiegare il giudizio di Rufino. Viene poi rievocata l’elezione di Liberio (l’ordine è inverso rispetto a quello di Rufino). Girolamo parlerà in termini molto duri anche di Melezio (a. 360). Rufino attenua l’accusa.
237
e di mostrare le divisioni interne che subisce l’arianesimo96, prima di arrivare alla morte di Costanzo
che rimetterà tutto in discussione, con l’avvento di Giuliano97. In compenso le precisazioni sul luogo
della morte dell’imperatore e sugli anni di regno sono quelle che si trovano nella Cronaca98.
VI
Il breve regno di Giuliano occupa molto spazio nel racconto di Rufino. Si divide in due parti
molto nette. Dopo aver rievocato il richiamo dei vescovi esiliati, attraverso cui Giuliano intende
annullare le misure di Costanzo, Rufino narra in dettaglio l’azione di Eusebio di Vercelli e di
Lucifero di Cagliari, due occidentali, in Oriente prima, poi in Occidente. Rievocherà in seguito vari
episodi della persecuzione di Giuliano contro i cristiani e della sua azione a favore degli ebrei a
Gerusalemme. È possibile determinare le sue fonti d’informazione? Girolamo gli forniva in modo
piuttosto preciso solo la menzione della legge scolastica99. Rufino fa appello, per la persecuzione di
Antiochia, alla testimonianza orale che ha raccolto presso uno dei suoi eroi100. Non vi è ragione
alcuna, allo stato attuale della nostra documentazione, di mettere in dubbio tale affermazione per
riconoscere un prestito da «Gelasio». Invece si può pensare che le informazioni sulle divisioni
ecclesiastiche ad Antiochia risalgano, in parte almeno, a quanto ha potuto raccogliere nella stessa
occasione.
Tuttavia è possibile scoprire due fonti di documentazione scritta. La prima è greca.
Riguarda quello che viene chiamato, da Rufino101 in poi, il «Concilio dei Confessori». Questo si
tiene ad Alessandria intorno ad Atanasio, subito dopo il richiamo da parte di Giuliano dei vescovi
esiliati da Costanzo. Rufino ne racconta lo svolgimento e, riguardo alle decisioni prese,
rievoca due volte il concilii decretum102. Si tratta del Tomus ad Antiochenos, in cui
96 Ruf., 10, 26 (pp. 989-990). 97 Ibid., 10, 27 (p. 990, ll. 18-21). 98 Cfr. Gir., chron. a. 361: XXIII Constantius Mopsocrenis inter Ciliciam Cappadociamque moritur... e Ruf., 10, 27 (Mommsen, p. 990, ll. 20-21): Vicensimo et quarto post occasum patris imperii sui anno in oppido Ciliciae Mopsocrenis diem functus est. Visto il modo di contare di Girolamo, ci troviamo proprio nel 24o anno. 99 Gir., chron. a. 363, e nel 364 la menzione di un Sinodo convocato da Melezio (accusato di essere diventato Macedoniano). Rufino colloca questo Sinodo già nel 363 (10, 31 - Mommsen, p. 993, ll. 17-18). Si noti che, nella Cronaca, Girolamo non rievoca in nessun modo il «Concilio dei Confessori». In compenso ne riassume l’importanza nell’Altercatio Luciferiani et Orthodoxi 20 (PL 23, coll. 174 C7 - 175 A6). 100 Ruf., 10, 37 (Mommsen, pp. 996-997 e in particolare p. 996, ll. 27 sgg.). Socr. (hist. eccl. 3, 19, 8) conosce l’episodio attraverso «Rufino». 101 Ruf., 10, 29 (Mommsen, p. 991, ll. 14-15): Confessorum concilio congregato... Cfr. Gir., Altercatio Luciferiani et Orthodoxi 20 (PL 23, coll. 174-175): Post reditum confessorum, in Alexandrina postea synodo constitutum est... 102 Ibid. 30 (p. 992, ll. 11; 13). Il IIo Concilio di Nicea (Mansi, 12, 1034 D - 1135 A)
238
Atanasio presenta le discussioni sulla reintegrazione dei caduti in errore e annuncia le decisioni
prese103, riguardanti anche la divinità dello Spirito Santo104, il lessico trinitario nell’uso di ousia e
di hypostasis105 e, infine, la cristologia, con l’affermazione della presenza, in Cristo, di una
sensibilità e di un’anima realmente umane106. Rufino ha rispettato lo stesso ordine della lettera107.
Questo Tomus ad Antiochenos autenticava la missione affidata ad Asterio di Petra per l’Oriente
e a Ilario di Poitiers per l’Occidente108. Rufino lo rievoca, riferendosi all’autorità del Concilio109.
Ma il racconto si incentra in seguito solo su Eusebio e principalmente sulla sua azione in Oriente,
o meglio ad Antiochia, dove scopre l’ordinazione fatta da Lucifero di Cagliari. Di Asterio non si
parlerà più e ignoriamo completamente ciò che abbia potuto fare – il che stupirebbe non poco se
dovessimo sospettare la presenza di un modello greco –. Nemmeno gli storici greci successivi ne
parlano. Devono per la maggior parte le loro informazioni a Rufino110. Vero è invece che ci si
può meravigliare nel sentire Rufino che confessa di ignorare il comportamento finale di Lucifero
di Cagliari111. Tuttavia si può forse spiegare questa «ignoranza» con il rifiuto da parte di Rufino
di condannare espressamente Lucifero. Girolamo, che nella sua Cronaca celebra, per così dire,
l’ordinazione di Paolino da parte di Lucifero «e di altri due Confessori»112, è molto meno
elogiativo nei confronti di Lucifero nella sua Altercatio Luciferiani et Orthodoxi113.
Ritroviamo Eusebio in Occidente, dove trova Ilario intento a restaurare la fede ortodossa
in Italia (del nord). Rufino, dopo aver elogiato il carattere del vescovo di Poitiers,
rievoca i libri de fide per mezzo dei quali ha esposto le abilità degli eretici che,
s e n z a o m b r a d i d u b b i o , h a n n o i n g a n n a t o l ’ i n g e n u i t à d e i v e s c o v i
comprende, sotto il nome di «Rufino, prete di Roma», la traduzione di un lungo passo dei capp. 29-30 (Mommsen, p. 991, l. 14 - p. 992, l. 17). Ma comprende anche, sotto lo stesso nome, due estratti di Socrate. Cfr. Glas, Die Kirchengeschichte, cit., p. 57, n. 1 e 80; Winkelmann, Untersuchungen, cit., pp. 14-15. 103 Cfr. Atan., tomus 1-3 (PG 26, coll. 796-800 A2) e Ruf., 10, 29 (Mommsen, pp. 991-992). Ciascun punto richiederebbe un’analisi e un confronto. 104 Cfr. tomus 3 (col. 800 A2-B) e Ruf., 10, 30 (p. 992, ll. 13-17). Questa fedeltà è tanto più sorprendente in quanto Rufino non dirà nulla circa il Concilio di Costantinopoli del 381, a cui assisteva Gelasio di Cesarea. 105 Cfr. tomus 5-6 (coll. 801 A2 - 804) e Ruf., 10, 30 (p. 992, l. 17 - p. 993, l. 2). Rufino traduce con substantia e subsistentia, dopo aver trascritto le parole greche. 106 Cfr. tomus 7 (coll. 804-805) e Ruf., 10, 30 (p. 993, ll. 2-4). 107 È attraverso il tomus che Rufino conosce il «piccolo numero» di partecipanti (10, 29 - p. 991, l. 15) e la missione affidata a Eusebio e ad Asterio (10, 30 - p. 992, ll. 12-14). 108 Cfr. tomus 2 (col. 797) e 9 (col. 805). 109 Ruf., 10, 30 (Mommsen, p. 992, ll. 10-13) - Cfr. tomus 9. 110 Socr., hist. eccl. 3, 9; Soz., hist. eccl. 5, 12-13. 111 Ruf., 10, 31 (Mommsen, pp. 993-994). 112 Gir., chron. a. 362. 113 Gir., Altercatio Luciferiani et Orthodoxi 20 (PL 23, col. 175 A-B). Anche Girolamo «ignora» i veri motivi del comportamento di Lucifero: amore per la gloria? Ripresa della disputa con Eusebio di Vercelli?
239
occidentali in occasione del Concilio di Rimini, secondo quanto ha raccontato precedentemente114.
Bisogna riconoscere in questi libri de fide non tanto ciò che chiamiamo il De Trinitate, che del
resoconto storico non ha niente, bensì ciò che Girolamo ha designato come il Liber aduersus
Vrsacium et Valentem, che conteneva la storia del Concilio di Rimini115 e che potrebbe aver
compreso parecchi libri. Lo stesso Rufino ha rievocato le falsificazioni che quest’opera aveva
subito nel suo De adulteratione librorum Origenis116. È poco probabile che tale opera sia arrivata in
Oriente, visto che non lo riguardava. Tuttavia Rufino non aiuta molto a precisare il contenuto,
giacché si limita a un’indicazione generale sul risultato dell’azione restauratrice di Eusebio e di
Ilario «nell’Illirico, in Italia e nelle Gallie»117, senza nemmeno indicare che fu contestata – come
sappiamo dall’insuccesso del Contro Aussenzio118 e da ciò che Rufino racconta circa un Concilio in
cui Ilario venne per un attimo messo in difficoltà119.
***
Opere di Gaudenzio, di Girolamo, di Ilario – senza contare Atanasio –, ecco alcune delle
opere usate da Rufino. Ciò tende a limitare e, almeno per il libro XI, a contestare la portata e
l’importanza dell’influenza di «Gelasio», di cui ignoriamo fino a che punto avesse
continuato la Storia Ecclesiastica di Eusebio. Non ci si stupirà del fatto che Rufino abbia
taciuto l’utilizzo della Cronaca di Girolamo in un periodo in cui rimaneva il bersaglio dei
sarcasmi del suo vecchio amico120. Non ha voluto nemmeno mostrare che, se accettava il suo
praticissimo quadro cronologico, si separava spesso da lui nelle valutazioni. Ciò non toglie
che la Cronaca di Girolamo, con i suoi silenzi e le sue imperfezioni, lo abbia
involontariamente fuorviato nella cronologia degli esili di Atanasio; ritroviamo dunque in
Girolamo il responsabile degli errori che Socrate rimprovererà a Rufino.
Questi era ritornato dall’Oriente con un gran numero di opere greche, nelle
quali vedeva un ricco «bottino». Il numero di traduzioni che ha intrapreso
114 Ruf., 10, 32 (Mommsen, p. 994, ll. 11-17). 115 Gir., uir. ill., 100 (ed. Ceresa Gastaldo, pp. 204-206): ...liber aduersus Valentem et Vrsacium historiam Ariminensis et Seleuciensis synodi continens... 116 Ruf., de adulteratione librorum Origenis, 11 (ed. Simonetti, CChL 20, p. 14, ll. 2-4): Hic, (=Hilarius), cum ad emendationem eorum qui Ariminensi perfidiae subscripserant libellum instructionis plenissime conscripsisset... 117 Ruf., 10, 32 (Mommsen, p. 994, l. 18). 118 Ilario, c. Auxentium 7-11 (PL 10, coll. 613-616). Ilario fu costretto a lasciare Milano dopo l’intervento del potere politico. 119 Ruf., de adulteratione (n. 121), 11 (p. 14, ll. 9 sgg.). 120 Nella sua Prefazione alla traduzione del Peri Archôn, Rufino si era proclamato semplice continuatore di Girolamo. Da qui la collera di quest’ultimo. Cfr. l’epist. 80, 1-2 di Girolamo (CUF 4, pp. 107-109), che non è altro che la Prefazione di Rufino alla traduzione del Peri Archôn.
240
nel decennio successivo al ritorno in Occidente lo dimostra abbondantemente. Non
sembra che abbia portato con sé molti scritti di Atanasio. In compenso ha portato la
Storia Ecclesiastica di Eusebio. Traducendola e continuandola, non poteva non
essere cosciente di fare un lavoro parallelo a quanto aveva fatto Girolamo con la
Cronaca dello stesso Eusebio. Senza dirlo questa volta, Rufino portava avanti il
lavoro di Girolamo, come aveva fatto qualche anno prima traducendo il Peri Archôn
di Origene. Avrebbe potuto rievocare una promessa fatta da Girolamo, quella di
scrivere una Storia della Chiesa121.
Ma lo spirito delle due opere sarebbe stato molto diverso: Girolamo intendeva
descrivere la corruzione crescente della Chiesa; Rufino vede nella storia della Chiesa
l’azione di Dio attraverso un certo numero di eroi – vescovi e asceti – e descrive la
sconfitta finale dell’eresia e del paganesimo. Quanto agli imperatori, nei quali il
Girolamo storico vedeva personaggi pericolosi, Rufino non nega che alcuni possano
fare del male alla Chiesa – come Costanzo, Giuliano o Valente –, ma suggerisce
anche che i «buoni» imperatori – Costantino, Costante, Valentiniano, Teodosio –
fanno la gioia dei sudditi nella misura in cui si sottomettono a Dio.
(1997)
121 Gir., v. Malchi 1 (PL 23, col. 53 C): Ecclesia Christi... postquam ad Christianos principes uenerit, potentia quidem et diuitiis maior, sed uirtutibus minor facta sit. Cfr. il mio art. su Les métamorphoses de l’historiographie aux IVe et Ve siècles: Renaissance, fin ou permanence de l’Empire Romain, Actes du VIIe Congrès de la FIEC, Budapest 1979, II, 1983, pp. 137-182 e soprattutto pp. 145-146.
241
Lo spazio e l’importanza
del Concilio di Alessandria del 362
nella Storia della Chiesa
di Rufino di Aquileia
Il concilio convocato nella primavera del 362 ad Alessandria, qualche mese dopo la
morte improvvisa dell’imperatore Costanzo II (3 novembre 361), prende il nome di
«Concilio dei Confessori» dalla Storia della Chiesa di Rufino1. La riunione,
promossa intorno ad Atanasio da un piccolo numero di vescovi esiliati da Costanzo,
in particolare nella Tebaide, aveva come scopo quello di riparare ai danni
sopraggiunti nell’Impero a causa dell’abbandono ufficiale della fede di Nicea in
occasione del concilio di Rimini-Seleucia-Costantinopoli (359-360). Più che le
questioni dottrinali in sospeso, si trattava di fissare la condotta da osservare nei
confronti dei vescovi che avevano accettato le ingiunzioni imperiali, ora che
Costanzo II era sparito e il nuovo imperatore restituiva la libertà religiosa,
consentendo agli esiliati di ritornare a casa. In questa situazione generale Rufino
dedicava uno spazio particolare al caso di Antiochia di Siria, dove due esiliati
occidentali, Lucifero di Cagliari ed Eusebio di Vercelli, erano intervenuti con esiti
diversi2, prima di citare l’azione di Eusebio e di Ilario di Poitiers in Occidente3, volta
a restaurare la vera fede.
Contrariamente a quanto avvenuto per i concili di Rimini, di Seleucia e di Costantinopoli
del 359 e del 360, il racconto dello storico di Aquileia è stato ripreso, poco completato, ma
soprattutto ridotto dagli storici greci del V secolo4. A differenza dello storico latino,
questi ritornano volentieri al metodo «documentale» di Eusebio, inserendo spesso nelle
proprie opere un certo numero di documenti ufficiali, carte, lettere che arricchiscono
1 RUFINO DI AQUILEIA, Storia della Chiesa, 1 (X), 29 (ed. Th. Mommsen, GCS 9, 2, p. 991, l. 14). 2 Ibid., 1, 28 e 31 (pp. 991 e 993). 3 Ibid., 1, 31-33 (p. 994, ll. 5-20). 4 SOCRATE, Storia Ecclesiastica, 3, 5-10 (ed. G.-Ch. Hansen, GCS, NF1, pp. 196-206); SOZOMENO, Storia Ecclesiastica, 5, 12-13 (ed. J. Bidez et G.-Ch. Hansen, GCS 50, pp. 210-212); TEODORETO, Storia Ecclesiastica, 3, 4-5 (ed. L. Parmentier, GCS 19, pp. 179-181).
242
il discorso, o attingendo da altri storici alcune informazioni complementari più o meno
riassunte. Il modo con cui trattano questo concilio appare piuttosto particolare. Nel
presente caso, d’altronde, non ci sono pervenuti tutti gli Atti e i documenti ufficiali del
concilio di Alessandria5. Se Socrate dichiara, attingendo non si sa ben dove, che
Atanasio, in occasione del concilio del 362, fece leggere l’Apologia per la sua fuga e ne
cita molte pagine6, trova in Sabino la menzione di riunioni più o meno parallele di
Macedoniani7, ma non produce nessun documento del concilio di Alessandria. Dipende
in questo punto da Rufino, da cui taglia la prima parte, disciplinare, delle decisioni del
concilio8. Sozomeno conosce sia Rufino sia Socrate, da cui dipende strettamente, ma
riassume questo punto e tace il riferimento a Sabino, pur riprendendo le sue
informazioni9. Quanto a Teodoreto, favorevole a Melezio, lo storico si limita a un breve
riassunto, senza soffermarsi sui dettagli delle decisioni dottrinali e disciplinari10. Tuttavia
conosce i suoi predecessori; in essi ha trovato la menzione a Ilario. Ma fa assistere Ilario
al concilio di Alessandria, dopo aver collocato il suo esilio nella Tebaide11.
Gli storici moderni, per tentare di stabilire lo svolgimento dei fatti e per comprenderli nei
minimi particolari, ma anche nelle incidenze del momento, ricorrono a un materiale
eterogeneo12. Cercano di ricostruire un puzzle cui mancano sfortunatamente alcuni pezzi
principali e di cui nessun pezzo è della miglior qualità o è già stato più o meno ritoccato
per integrarsi nella composizione di uno storico antico. È così
che il Tomus ad Antiochenos presente nel patrimonio di Atanasio, il cui testo ci è
5 Disponiamo al massimo del Tomus ad Antiochenos, che, come indica il nome, riguarda principalmente la situazione di Antiochia (ATANASIO, PG 26, c. 796-809) e forse della Lettera ai vescovi ortodossi d’Egitto, della Siria, della Cilicia, della Fenicia e d’Arabia, che dovrebbe provenire dalla stessa assemblea. Sulle decisioni disciplinari, oltre a quanto dice Rufino, abbiamo soltanto la conferma apportata da Atanasio tra il 363 e il 373 a uno sconosciuto Rufiniano (ATANASIO, Ep. ad Rufinianum, PG 26, c. 1180 B 4 - 1181 A 9). 6 SOCRATE, Storia, 3, 8, 1-43 (pp. 200-203). 7 Ibid., 3, 10, 3-11 (p. 205, ll. 4-26). 8 Ibid., 3, 7, 1-2 (p. 197, ll. 12-20). Si passa subito alle precisazioni dottrinali del concilio. In Socrate nulla corrisponde all’esposizione dettagliata di Rufino sulle discussioni riguardanti la condotta da tenere nei confronti dei vescovi firmatari della formula di Nicea. 9 SOZOMENO, Storia, 5, 14, 1-3 (p. 23). 10 TEODORETO, Storia, 3, 4, 6 (p. 180). 11 Ibid., 3, 4, 2 (p. 179, ll. 23-25). 12 Così Ch. HEFELE e H. LECLERCQ, Histoire des Conciles, I, 2, Paris, 1907, pp. 963-969; C.B. ARMSTRONG, «The Synod of Alexandria and the Schism at Antioch in A.D. 362», in JThS, 22, 1921, pp. 206-221; 347-355; M. SIMONETTI, La crisi ariana nel IV secolo, Roma, 1975, pp. 353-377; ultima esposizione, dal punto di vista della storia del vescovo di Alessandria: Annick MARTIN, Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Égypte au IVe
siècle (328-373), Rome, 1996, pp. 541-563.
243
pervenuto, è stato palesemente usato direttamente da Rufino13, il che non sembra valere
per gli storici successivi. Al contrario, quel che si presenta come una sinodale del concilio
non era nota agli storici antichi14. Tuttavia è opportuno rimanere prudenti, perché i falsi
sono numerosi in quel periodo e nei decenni successivi, ed esaminare ogni presentazione
in funzione dei suoi obiettivi.
La mia intenzione non è quella di riscrivere la storia del concilio, di ispezionare
l’azione di Atanasio o di interessarmi allo «scisma di Antiochia15» e allo
«scisma luciferiano»16, bensì intendo soffermarmi solo su Rufino17 e
13 RUFINO, Storia, 1, 30 (p. 992, l. 13 - p. 993, l. 5). I punti dottrinali trattati in un secondo momento da Rufino appaiono nello stesso ordine del Tomus, 3-7 (ATANASIO, PG 26, c. 800-805). 14 Vi è un altro documento cui M. TETZ ha ridato lustro («Ein enzyklisches Schreiben der Synode von Alexandrien (362)», ZNTW, 79, 1988, pp. 262-281=PG 28, c. 81-84), ma che probabilmente non è autentico: al riguardo cfr. A. CAMPLANI, «Atanasio e Eusebio tra Alessandria e Antiochia (362-363): Osservazioni sul Tomus ad Antiochenos, l’Epistula catholica e due fogli copti...», Eusebio di Vercelli e il suo tempo, a cura di E. Dal Covolo, R. Uglione, G.M. Vian, Roma, 1997, pp. 191-246 e soprattutto pp. 219-226. Rufino era forse a conoscenza di questo documento, come Ph. R. AMIDON (The Church History of Rufinus of Aquileia, Books 10 and 11, Oxford, 1997) ritiene (p. 57, n. 41), data l’allusione alla fine delle tempeste (M. TETZ, p. 272, l. 6) che si può trovare in Rufino (RUFINO, Storia, 1, 29, p. 991, ll. 16-17)? Non direi, vista la banalità di una simile immagine (cfr., ad esempio, RUFINO, Storia, 2 (XI), 1, p. 1002, ll. 5-9). La trattazione di Rufino sulle misure disciplinari non trova nessun equivalente nei testi in nostro possesso. Essa viene semplicemente confermata dalla successiva risposta di Atanasio a Rufiniano (ATANASIO, Ep. ad Rufinianum, PG 26, c. 1180 B 15-C 5) e dall’Altercatio Orthodoxi et Luciferiani, 20 (ed. Aline Canellis, CC 79 B, p. 52, ll. 762-767): in Alexandrina postea synodo constitutum est ut, exceptis auctoribus haereseos (...), paenitentes Ecclesiae sociarentur, non quo episcopi possent esse qui haeretici fuerant, sed quod constaret eos qui reciperentur haereticos non fuisse. L’ultima frase è probabilmente un adattamento, da parte di Girolamo, alla tesi sostenuta nell’Altercatio. 15 Sullo «scisma di Antiochia» l’opera di F. CAVALLERA, Le schisme d’Antioche, Paris, 1905, è in parte superata, se non addirittura passibile di una consistente «revisione»: K.M. SPOERL, The Schism at Antioch since Cavallera, in Arianism after Arius, ed. M.R. Barnes and D.H. Williams, Edinburg, 1994, pp. 101-126. 16 Sullo «scisma luciferiano» in Occidente cfr. G. KRÜGER, Lucifer Bischof von Calaris und das Schisma der Luciferianer, Leipzig, 1886, cap. 2, pp. 58-96. M. SIMONETTI («Appunti per una storia dello scisma luciferiano», in Atti del convegno di Studi religiosi sardi, Cagliari, 24-26 maggio 1962, Padova, 1963, pp. 69-81 e soprattutto pp. 71-73) invita a distinguere nettamente lo scisma occidentale, che in un modo o nell’altro si ricollega a Lucifero, dallo scisma orientale, che, alimentato dall’azione di Lucifero, ha radici precedenti al 362. Cfr. anche «Lucifero di Cagliari nella controversia ariana», in Vetera Christianorum 35, 1998, pp. 279-399 e soprattutto pp. 291-292. 17 Non mi soffermerò sulle questioni dottrinali, sui problemi che pongono, né sulle i n t e r p r e t a z i o n i c h e h a n n o s u s c i t a t o . C f r . s u q u e s t o p u n t o M . S I M O N E T T I , « I l c o n c i l i o d i A l e s s a n d r i a d e l 3 6 2 e l ’ o r i g i n e d e l l a formula t r in i tar ia», in August in ianum 30, 1990, pp. 353-360; ID. , «Da l
244
cercare di determinare, mediante l’analisi della sua Storia, il motivo, ancora attuale
mentre scrive, per il quale accorda un tale spazio e una tale importanza al concilio e
alle sue conseguenze. Vorrei anche mostrare, o almeno suggerire, che il suo interesse
fondamentale per quanto avviene in Occidente, sia prima sia dopo il concilio, può
difficilmente provenire, come si va ripetendo da A. Glas18 in poi, dalla semplice
traduzione o dall’adattamento di un’opera greca che nessuno storico greco
successivo ha citato o usato quando doveva trattare per l’Oriente le ripercussioni di
Seleucia-Rimini o del concilio di Costantinopoli del 360, riunioni alle quali ognuno
aveva dedicato molte pagine.
***
Partiamo, per Rufino, dalle grandi ripartizioni del contenuto e della
cronologia dei due libri personali della sua Storia. Il quadro delle successioni
imperiali non è per lui una semplice comodità. Oltre al fatto che struttura
oggettivamente la divisione degli anni 325-363 e 363-395 in due libri, per
dinastia in un certo qual modo19, la politica religiosa di ognuno degli imperatori
ha ripercussioni immediate sulla vita della Chiesa, ridotta alla fedeltà o meno
alla formula di fede definita a Nicea, la quale, raro documento esplicitamente
trascritto, apre il primo libro aggiunto da Rufino20. Nel libro X dell’insieme
della Storia, se Costantino, organizzatore di Nicea, e Costante, protettore di
Atanasio, hanno diritto agli elogi di Rufino, Costanzo appare come un ostacolo per la
nicenismo al neonicenismo. Rassegna di alcune pubblicazioni recenti», Ibid. 38, 1998, pp. 5-28; B. STUDER, «Una valutazione critica del neonicenismo», Ibid. 38, pp. 29-48. 18 A. GLAS, Die Kirchengeschichte des Gelasios von Kaisarea, die Vorlage für die letzten Bücher der Kirchengeschichte Rufin, Leipzig-Berlin, 1914. Buona parte della tesi di Glas poggia sul confronto tra il testo di Rufino e i testi di Giorgio il Monaco e di Gelasio di Cizico, come se tutti derivassero da Gelasio di Cesarea. In questo caso, dei § 19-38 di Rufino non figura nulla in questi autori (cfr. Glas, p. 57). 19 Da Costantino a Giuliano nel primo libro, da Gioviano a Teodosio nel secondo. Rufino non lo fa notare (e, di solito, nemmeno chi lo studia), ma il fatto è evidente e l’equilibrio pressoché perfetto. 20 RUFINO, Storia, 1 (X), 6, pp. 965-969, con i canoni del Concilio.
245
Chiesa, prima che gli succeda Giuliano, rinnovando la persecuzione pagana. Tuttavia in un
primo momento Giuliano comincia col disfare l’opera religiosa di Costanzo, consentendo il
ritorno dei vescovi esiliati e servendo così indirettamente la vera fede. Da qui la bipartizione
molto marcata del suo regno, che non corrisponde del tutto alla cronologia, ma che consente a
Rufino di disporre la propria storia in due parti ben separate, annunciate sin dall’inizio21 e
ripetute nel corso dell’opera (§ 33, l. 1)22, prima di mostrare la vanità dell’impresa, dato che
Giuliano era morto prima di poter mettere in atto le sue minacce (§ 37 fine) e dato che gli ebrei,
suoi alleati, erano stati privati della speranza di restaurare il Tempio e di smentire Cristo23.
È all’interno della prima parte del regno che trova posto il racconto del concilio di
Alessandria. Questo occupa addirittura, con le relative conseguenze, la parte principale (§
28-32); tuttavia richiede, per essere colto in tutta la sua importanza, di essere collegato a ciò
che il concilio intende riparare e in particolare all’azione di Costanzo contro i sostenitori di
Nicea in Occidente durante gli ultimi anni del regno. Rufino procede per quadri e per
raggruppamenti, che non rispettano completamente la cronologia né i dettagli degli eventi,
ma che gli consentono di denunciare il modo in cui le persecuzioni condotte da Costanzo
contro Atanasio mirano in realtà a distruggere la fede di Nicea.
Questa drammatizzazione e i relativi riassunti sono evidenti nella presentazione del
concilio di Milano (355), che precede (§ 21) immediatamente (continuo: § 22, l. 2) quello di
Rimini (359-360), che secondo Rufino non farebbe altro che adottare la formula messa a
punto precedentemente (§ 22, l. 3) a Seleucia. Il seguito non si concede meno libertà nei
confronti della cronologia, dato che, dopo un patetico quadro delle discordie della Chiesa (§
22), Rufino fa il bilancio (§ 23-25) delle sciagure delle grandi sedi episcopali – occidentali e
orientali – mescolando, come riconosce una volta (§ 25, l. 1), eventi di epoche diverse.
Riguardo a Roma, Rufino rievoca l’esilio di Liberio (§ 23), che risale in realtà al 356 e che ha addirittura
avuto fine nel momento in cui egli situa questo bilancio – come riconoscerà in seguito (§ 28). Riguardo a
Gerusalemme, riprende la morte di Massimo (nel 348), ma non è in grado di attestare l’integrità della fede di
Cirillo; la sua ordinazione, la sua fede e le sue relazioni sono tacciate di un giudizio negativo24. Per Alessandria
21 RUFINO, Storia, 1 (X), 28, p. 990, ll. 22-25: Post quem (=Costanzo II), Iulianus (...) optinet principatum. Is primo, uelut arguens perperam gesta Constantii, episcopos iubet de exiliis relaxari, post uero aduersum nostros tota nocendi arte consurgit... 22 Non trascrivo tutti i testi, per alleggerire. Quando non è indicata la pagina, le righe vanno contate dall’inizio del §. 23 RUFINO, Storia, 1, 38, p. 997, ll. 11-13: Tanta uero eius (=Giuliano) ad decipiendum suptilitas et calliditas fuit ut etiam infelices Iudaeos uanis spebus inlectos, ut ipse agitabatur, inluderet...; 1, 40, p. 998, ll. 22-23: Sic deterriti Iudaei atque gentiles locum simul et inaniter coepta reliquere. − Fine del libro. 24 RUFINO, Storia, 1, 24, p. 989, ll. 3-4: Hierusolymis uero, Cyrillus, post Maximum sacerdotio confusa iam ordinatione suscepto, aliquando in fide, saepius in communione
246
(§ 24, ll. 3-5) riprende ciò che aveva già detto di Giorgio (§ 20 ad f.). Per Antiochia (§ 25)
si attiene, in definitiva, all’attualità recente, commettendo tuttavia un errore enorme: non è
la morte di Eudosio (§ 25, l. 2), bensì la sua partenza per Costantinopoli nel gennaio 360 a
rendere possibile il controverso trasferimento di Melezio da Sebaste d’Armenia.
Per queste quattro grandi sedi vengono chiamate in causa o l’ortodossia (Alessandria),
o le condizioni dell’ordinazione dei titolari (Felice, Cirillo, Melezio), o le successive
compromissioni degli occupanti (Felice, Cirillo, Melezio) con gli Ariani. Ma messo da
parte – o in serbo per il seguito del racconto – il caso di Melezio, l’insieme di questo
bilancio ha ben pochi rapporti con la realtà del momento esatto in cui si presume sia
stato effettuato. Lo stesso vale per il quadro delle divisioni ariane in tre gruppi, ripartiti
piuttosto grossolanamente (§ 26): Ariani radicali, con Aezio e poi Eunomio; Omeusiani,
di cui non vengono indicati né i nomi né gli alfieri; Macedoniani, ai quali viene
rimproverata, con un certo anacronismo, la loro posizione sullo Spirito Santo.
Probabilmente a Rufino, ex monaco, dispiace dover constatare che i monaci di
Costantinopoli e dintorni hanno seguito Macedonio. Lo stesso vale per i vescovi celebri
(episcopi nobiles) di cui omette i nomi (§ 26 ad f.).
Stilati questi tristi bilanci, possono essere presentati i due eventi che modificheranno il
corso della storia: la morte di Costanzo (§ 27) e l’avvento di Giuliano, il cui regno, come
precedentemente affermato, è subito diviso in due parti: l’ordine di ritorno degli esiliati (§
28, ll. 2-3) e la persecuzione latente o diretta (§ 28, ll. 3-4). Rufino aveva redatto, sotto
Costanzo, un elenco degli esiliati che comprendeva soltanto occidentali, come se tutti fossero
stati allontanati in seguito al concilio di Milano del 35525. Può riprenderlo, rievocando la sorte
degli uni e degli altri. Ma lo fa con curiosi silenzi e con riassunti non meno sorprendenti.
Lascia così ai lettori il compito di sapere che Dionigi e Rodanio sono morti in esilio; pur
indicando che Liberio, in realtà, era già tornato dall’esilio26, dichiara di non conoscere le
condizioni e le circostanze esatte del ritorno27; di Ilario, cui dedicherà la fine della lunga
uariabat. 25 RUFINO, Ibid., 1, 21, p. 987, l. 22 - p. 988, l. 3: Ob hoc apud Mediolanium episcoporum concilium conuocatur. Plures decepti. Dionysius uero, Eusebius, Paulinus, Rhodanius et Lucifer dolum esse in negotio proclamantes adserentesque quod subscriptio in Athanasium non ob aliam causam quam destruendae fidei moliretur, in exilium trusi sunt. His etiam Hilarius iungitur, ceteris uel ignorantibus uel non credentibus fraudem. Eccezion fatta per Atanasio, nessun cenno agli esiliati orientali durante gli anni 350-361, né al loro ritorno nel 362. 26 L’esilio è stato segnalato in 1, 23, p. 988, ll. 23-25. 27 Ibid., 1, 28, p. 990, l. 25 - p. 991, l. 3: Interim, qui superfuerant episcopi de exiliis relaxantur. Nam Liberius, urbis Romae episcopus, Constantio uiuente regressus est. Sed hoc utrum quod adquieuerit uoluntati suae ad subscribendum, an ad populi Romani gratiam, a
247
sequenza, non dice nulla per il momento. Tutto l’interesse si concentra sugli altri due
esiliati: Lucifero di Cagliari ed Eusebio di Vercelli (§ 28, ll. 8 sgg.), la cui azione porterà
a conclusioni molto diverse in Occidente e in Oriente, nonostante gli impegni presi non
si sa né dove né quando.
Non vi è alcun dubbio che Rufino ritiene Lucifero responsabile dell’insuccesso
orientale e delle conseguenti difficoltà in Oriente e in Occidente. Tuttavia tiene per
sé un certo numero di informazioni, che fanno tanto più difetto in quanto possiamo
identificare – e a nostra volta interpretare – una delle fonti d’informazione sul
concilio di Alessandria del 362, il Tomus ad Antiochenos, che ci è giunto attraverso
l’opera di Atanasio. In compenso ci sfuggono le circostanze esatte che precedono e
che seguono la riunione di Alessandria.
Si presume che Lucifero ed Eusebio si fossero in un modo o nell’altro messi d’accordo, vista
la prossimità dei loro luoghi d’esilio e la vicinanza all’Egitto28. Tuttavia entrambi devono già
aver avuto rapporti con Antiochia, poiché Lucifero ha fretta di giungervi senza aspettare e a
Eusebio verrà detto di ritornarvi29. L’arrivo ad Antiochia all’inizio del 362 spiegherebbe forse
l’invio da parte di Paolino di due delegati – di cui Rufino non parla –, oppure Eusebio è passato
per Antiochia cambiando luogo di assegnazione durante l’esilio? Secondo Rufino, Lucifero
invia soltanto un rappresentante ad Alessandria, mentre il testo del Tomus menziona e nomina
due diaconi di Lucifero e due diaconi di Paolino30. Questi non può esser stato già ordinato da
Lucifero; le affermazioni del Tomus non avrebbero più molto senso, dato che riguardano
innanzitutto Antiochia. Gli altri partecipanti sono quasi soltanto nomi. Solo Asterio ha un
passato31, che gli vale, più dell’età, la missione che gli sarà affidata in Oriente. Tuttavia
quo profiscicens fuerat exoratus, indulserit, pro certo compertum non habeo... Un lettore attento può intuire dalle prime parole che alcuni esiliati sono morti e, verso la fine, che Costanzo è venuto a Roma nel 357 e che è stato oggetto di suppliche a favore di Liberio. Contrariamente a quanto afferma GLAS, p. 17, l’«ignoranza» di Rufino è senza dubbio «diplomatica». Egli stesso ha risieduto a Roma nel decennio successivo e ha assistito alla difficile ordinazione di Damaso. 28 Ibid., 1, 28, p. 991, ll. 3-5: Lucifer autem cum exoraretur ab Eusebio, quia uterque in partibus uicinis Aegypto fuerat relegatus, ut ad uidendum Athanasium Alexandriam pergerent... 29 Ibid., 1, 31, p. 993, l. 6: Sed Eusebius cum redisset Antiochiam et inuenisset ibi a Lucifero contra pollicitationem ordinatum episcopum... Eusebio era stato esiliato prima a Scitopoli, in Palestina, poi in Cappadocia e infine nella Tebaide. Ha avuto occasione di passare per Antiochia e di conoscere la situazione locale. 30 Tomus ad Antiochenos, 9 (PG 26, c. 808 A 8-12). 31 Asterio era a Sardica dove si è unito agli occidentali (ILARIO, Collectanea antiariana Parisina, Series B II, 1, 7, ed. A. Feder, CSEL 65, p. 121, secondo il testo greco della sinodale trasmesso da Atanasio).
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Rufino non ne fa parola. Vero è che non precisa nemmeno il ruolo svolto da Eusebio
a Milano nel 355.
Per rievocare semplicemente il piccolo numero di partecipanti del «Concilio dei
Confessori32», Rufino dispone forse di un altro documento, oltre al Tomus ad Antiochenos? È
lecito porsi tale interrogativo. Il Tomus fa i nomi di una ventina di vescovi e di quattro diaconi,
che rappresentano rispettivamente Paolino di Antiochia e Lucifero. Rufino ricorda soltanto i
nomi di Atanasio, di Asterio, di cui non precisa né la sede né il passato, e di Eusebio. Tuttavia
riguardo ad Asterio parla dei suoi compagni – «di quelli che erano con lui» (§ 30, l. 3) –, il che,
a meno che non si tratti di una maldestra ripresa dell’elenco finale del Tomus stesso, sembra
proprio supporre l’esistenza di un documento ufficiale, che Rufino riassume senza trovare
necessario o utile per il pubblico fornire nomi che non direbbero nulla.
A ben vedere la prospettiva è infatti occidentale, benché Asterio, omologo di Eusebio,
sia esplicitamente incaricato di restaurare la fede nicena nella parte orientale. Di tale
missione non si parlerà più nel racconto di Rufino. Il solo che vediamo agire per lungo
tempo, in Oriente prima e in Occidente poi, non è altri che Eusebio di Vercelli.
Tuttavia bisogna distinguere due scopi in questa duplice azione. Se Lucifero ed Eusebio
hanno deciso di agire ad Antiochia sin da prima della riunione di Alessandria, questa aveva,
nel racconto di Rufino, e probabilmente nella realtà, un intento più generale: de statu
ecclesiae decernere33. Si trattava, dopo il disastro scatenato dal rifiuto dell’homoousios a
Rimini (§ 22), di restaurare la pace all’interno della Chiesa. Il racconto di Rufino verte
innanzitutto su questo punto, che non compare affatto nel Tomus ad Antiochenos. Presenta lo
scontro di due gruppi davanti al comportamento da adottare nei confronti di coloro che
avevano stretto un patto con l’eresia (§ 29). Il gruppo rigorista, che diventerà, se non lo è già,
il gruppo dei Luciferiani d’Occidente, predica l’intransigenza: «non dovevano più essere
riconosciuti come vescovi coloro che, in un modo o nell’altro (utcumque), si fossero
infangati e macchiati unendosi agli eretici34». Il gruppo dell’indulgenza metteva in primo
piano l’utilità generale. Invocava gli esempi di Paolo e di Cristo, non senza esigere da ognuno
dei lapsi un gesto personale, che marcasse la scelta dell’ortodossia, né omettere di escludere
gli autori dell’errore35.
32 RUFINO, Storia, 1, 29, p. 991, ll. 14-17: Pergit interea Eusebius Alexandriam ibique confessorum concilio congregato, pauci numero, sed fide integri et meritis multi, quo pacto post haereticorum procellas et perfidiae turbines tranquillitas reuocaretur ecclesiae omni cura et libratione discutiunt... 33 Ibid., 1, 28, p. 991, ll. 6-7. 34 Ibid., 1, 29, p. 991, ll. 18-19. 35 RUFINO, Storia, 1, 29, p. 991, l. 19 - p. 992, l. 3.
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Rufino sviluppa questo punto con molti riferimenti alla Scrittura36. Sarebbe bello
conoscere l’origine dell’argomentazione, poiché nessuno dei documenti che
riguardano tale decisione ne fa cenno o la ricorda37, specie il Tomus ad Antiochenos,
che Rufino utilizza in seguito come se costituisse parte delle «decisioni» del concilio.
Secondo la sua presentazione, infatti, è ex Concilii decreto che Asterio ed Eusebio
ricevono la «procura» uno dell’Oriente, l’altro dell’Occidente38. Ma – subito dopo –
è in illo Concilii decreto (§ 30, ll. 4 sgg.) che vengono aggiunte una trattazione sullo
Spirito Santo, l’equivalenza tra substantia/ousia da un lato e subsistentia/hypostasis
dall’altro, nonché alcune precisazioni sulla cristologia, tutti punti che figurano nel
Tomus ad Antiochenos ma in un contesto più complesso, che si adatta alla situazione
di Antiochia.
Pur semplificandole, Rufino ha riunito le questioni dottrinali oggetto di
controversia e le questioni disciplinari, che non riguardavano in primo luogo, né
unicamente, le comunità di Antiochia. Ciò lo porta a dare, in un certo senso, una
duplice conclusione alla riunione del concilio: in un primo tempo viene affidata una
missione ad Asterio e a Eusebio (§ 30, ll. 1-4); successivamente, dopo la menzione
delle decisioni dottrinali complementari, viene formulato un giudizio che verte
sull’insieme della riunione, prima che ognuno riprenda la propria strada: Quibus
omnibus caute moderate que compositis, unusquisque itinere suo cum pace perrexit
(§ 30 fine).
Ci si aspetterebbe di vedere Eusebio che ritorna in Occidente, e Asterio che tenta di
risolvere, tra le altre cose, la questione di Antiochia, ma anche la situazione delle
numerose chiese i cui vescovi avevano accettato il credo di Nicea-Costantinopoli.
Ma di Asterio non si parlerà più ed è Eusebio che «ritorna» ad Antiochia (§ 31, l. 1),
per trovarvi una situazione resa ancora più ingarbugliata dalle iniziative di Lucifero.
Il narratore segnala subito il fallimento di Eusebio, che lascia Antiochia (abscessit, § 31, l. 3),
prima di spiegare la ragione del fallimento e ritornare alla menzione della sua partenza dalla
36 1 Cor 10, 33 (non indicato dall’editore): Paolo; Luca 15, 11-32: Cristo. 37 Su tali misure disciplinari si dispone soltanto, oltre a queste righe di Rufino, delle indicazioni di Atanasio allo sconosciuto Rufiniano. La lettera cita un altro esempio biblico (ATANASIO, Ep. ad Rufinianum, PG 26, c. 1180-1182), ma per bocca di coloro che hanno firmato, per non lasciare spazio ai vescovi ariani dopo essere stati deposti. Cfr. GIROLAMO, Altercatio, 20 (p. 52, ll. 762-767). 38 RUFINO, Storia, 1, 30, p. 992, ll. 10-13: Cum igitur huiuscemodi sententias ex euangelica auctoritate prolatas ordo ille sacerdotalis et apostolicus adprobasset, ex concilii decreto Asterio ceterisque qui cum ipsis [sic?] erant, Orientis iniungitur procuratio, Occidentis uero Eusebio decernitur?
250
città (abscessit, § 31, l. 10). Se è possibile intuire che Eusebio, senza partecipare a
una o all’altra comunità, ha comunque cercato in vano di radunare la più numerosa –
quella di Melezio –, è difficile stabilire una cronologia precisa degli eventi. La
partenza di Eusebio precede, come dice Rufino secondo l’ordine del racconto, il
ritorno dall’esilio di Melezio (§ 31, l. 11)? Il concilio che questi ha riunito «con gli
altri vescovi orientali» (§ 31, ll. 12-13) ha avuto luogo già nel 362? O si tratta del
concilio che Girolamo colloca nell’anno 363-364, cioè durante il regno di
Gioviano39? Soltanto il risultato viene dato da Rufino: Melezio non si unisce ad
Atanasio (§ 31, l. 13), riguardo al quale Rufino non dirà che è venuto ad Antiochia su
richiesta di Gioviano40. Il seguito immediato della vita cristiana ad Antiochia non
sarà trattato, benché vengano descritti alcuni episodi della persecuzione che si
produce nella seconda parte del regno di Giuliano (§ 36-37). Rufino è quanto meno
passato per Antiochia; ha incontrato Teodoro, il giovane che aveva resistito alla
tortura sotto Giuliano (§ 37, ll. 11-12); conosce l’episodio dello spostamento del
corpo di Babila (§ 36); ma mantiene un totale silenzio sull’appartenenza dei
processionari a una o all’altra comunità, così come tace la presenza del clero al
trasferimento del corpo di un martire. Avendo vissuto a lungo a Gerusalemme, non
può tuttavia non conoscere Paolino, sul quale formula altrove un giudizio laudativo
(§ 28 fine), né Evagrio, colui che sarà il suo successore, dopo aver vissuto per
qualche tempo nell’Italia settentrionale presso Eusebio di Vercelli41, il cui episcopato
provocherà discussioni senza fine in Occidente ancor più che in Oriente42.
39 GIROLAMO, Chronicon ad a. 364, ed. R. Helm, GCS 47, p. 243. 40 All’inizio del libro II Rufino scrive: honorificis et officiosissimis litteris Athanasium requirit (=Gioviano). Ab ipso formam fidei et ecclesiarum disponendarum suscepit modum (RUFINO, Storia, 2, 1, p. 1002, ll. 10-12). In base a queste righe si può decidere per una visita di Atanasio presso Gioviano. Probabilmente Rufino è a conoscenza del loro scambio di lettere. 41 Rufino non cita il nome di Evagrio, protettore di Girolamo. In 1, 8 ha menzionato, senza citare l’autore, la traduzione in latino della Vita di Antonio di Atanasio (p. 971, ll. 17-18). Sappiamo, grazie a Basilio di Cesarea, Ep. 138, 2 (ed. Y. Courtonne, CUF, 2, p. 55), che Evagrio è venuto in Occidente con Eusebio di Vercelli e, grazie a Girolamo, che ha avuto rapporti con Aquileia, dove Rufino e Girolamo hanno soggiornato. 42 Nel libro 2, 21, tracciando lo stato delle grandi Chiese intorno al 390, Rufino ritornerà sulla controversia di Antiochia nei seguenti termini: multa ibi iurgia et multae controuersiae saepe commotae nec tamen, summa ui nitentibus aliis, aliis obnitentibus ipsisque in hoc elementis terrae marisque fatigatis, potuit aliquando pacis ullus obtineri modus, cum utique fidei iam nulla uideretur subesse discordia (RUFINO, Storia, 2, 21, p. 1024, ll. 28-32). Non sappiamo molto di più da Rufino, né dagli storici greci. Tuttavia, benché egli rievochi le discussioni ad Antiochia (ibi), suppone anche la partecipazione di altre Chiese, e probabilmente dell’Occidente, parlando degli elementa terrae marisque fatigata. Ciò non si discosta molto da quanto dichiara Ambrogio riguardo a Evagrio e a Flaviano nel 392 (Ep. 70 [56M], 1, CSEL 82, 3, p. 3: propter ipsos uniuersus orbis concutitur...). Al tempo in cui Rufino colloca la sua affermazione, Paolino probabilmente è già sostituito da Evagrio, di cui tace ancora una volta il nome.
251
Quali conclusioni trarre da questi silenzi, se non che la sorte di Antiochia a Rufino – e al
lettore – interessa meno delle conseguenze della controversia scoppiata tra Eusebio e Lucifero?
Lo storico, infatti, rievoca subito il malcontento di Lucifero che si vede sconfessato e la specie
di ritorsione a cui il sardo inizia a pensare (§ 31, ll. 13-22): non riconoscere le decisioni di
Alessandria. La decina di righe che seguono dipingono lo stato d’animo di Lucifero, senza
emettere giudizi troppo duri, così come lo storico si astiene dal pronunciarsi con severità sui
suoi ultimi anni. Tuttavia ricollega esplicitamente a Lucifero lo scisma che ne conseguì e che,
per essere compreso, riporta il lettore al primo oggetto del «decreto» del concilio: la
riconciliazione dei vescovi caduti in errore a Rimini, di cui si occuperà Eusebio.
Prima di seguire tale azione, osserviamo che lo scisma, a detta di Rufino, esiste ancora nel
momento in cui scrive, vale a dire quarant’anni dopo il concilio di Alessandria; ma ormai, a
suo dire, riguarda soltanto pochi, per paucos adhuc uoluitur43. Tuttavia sarebbe sbagliato
sottovalutare questa dissidenza o mettere in dubbio l’informazione di Rufino44. Già nel 397
egli rievocava le difficoltà che Ilario aveva incontrato a causa di Lucifero, al ritorno in
43 RUFINO, Storia, 1, 31, p. 994, ll. 3-5: Ex ipso (=Lucifero) interim Luciferianorum schisma quod, licet per paucos, adhuc uoluitur, sumpsit exordium. Con Girolamo e la sua Altercatio Luciferiani et Orthodoxi siamo abituati al nome Luciferiani. Ma si ricorderà che i seguaci di Lucifero rifiutano tale appellativo, asserendo di non essere altro che veri cristiani, «veri cattolici» (FAUSTINO, Libellus precum, 86-87; ed. M. Simonetti, CC 69, pp. 380-381). Socrate, quando tratta l’incontro tra Eusebio e Lucifero ad Antiochia, parla due volte delle conseguenze dell’azione di Lucifero. La prima volta gli attribuisce, ad Antiochia, «l’eresia dei Luciferiani» (SOCRATE, Storia, 3, 9, 5-6, p. 204, ll. 11-16) che separa un gran numero di persone dalla Chiesa; la seconda volta, quando rievoca, poco dopo, il ritorno di Lucifero in Sardegna, dichiara che «coloro che prima avevano preso parte al suo risentimento sono ancora adesso (eti kai nun) separati (chôrizontai) dalla Chiesa (3, 9, 8, p. 204, ll. 20-21). Sozomeno raggruppa le due informazioni di Socrate collocandole, a quanto pare, in Sardegna (5, 13, 4-5, p. 212, ll. 9-17). Teodoreto, ancor più conciso, si sofferma sullo scisma di Antiochia (3, 5, 2, pp. 180-181), di cui indica la durata (85 anni, fino all’episcopato di Alessandria), prima di parlare del ritorno di Lucifero in Sardegna, dove i suoi seguaci sono stati «a lungo chiamati Luciferiani» (3, 5, 4, p. 181, ll. 12-13). Teodoreto è il solo a dire che i Luciferiani hanno «aggiunto» qualche punto dottrinale, anche se segnala che il movimento non è più attivo (3, 5, 4, p. 181, ll. 13-14). 44 In questo racconto Rufino separa nettamente ciò che sta per succedere in Occidente, per il quale parla di scisma durevole − probabilmente controllabile per i lettori e che ricollega a Lucifero (1, 31, p. 994, ll. 3-5) −, da ciò che dirà molto più avanti, in 2, 21, della controversia tra Paolino e Flaviano, di cui non sottolinea come derivi dall’azione di Lucifero. In compenso, dopo aver rievocato nel 378 il ritorno di Melezio nuovamente esiliato da Valente, Socrate (5, 5) e successivamente Sozomeno (7, 3) parlano di un patto stipulato tra Melezio e Paolino, in base al quale l’insieme delle comunità aderirebbe alla causa dell’ultimo superstite. Viene trattato quindi il rifiuto da parte dei Luciferiani di accondiscendere a tale accordo, in quanto Melezio è stato ordinato dagli Ariani. Il patto non verrà rispettato alla morte di Melezio (Socrate, 5, 9; Sozomeno, 7, 11) e i vescovi riuniti a Costantinopoli riconosceranno Flaviano, nonostante le obiezioni degli occidentali, rimasti fedeli a Paolino. Niente di tutto ciò in Rufino.
252
Occidente45. Sappiamo che tra il 374 e il 378 Satiro, fratello di Ambrogio, evita di essere
battezzato da un seguace di Lucifero46 e che Faustino e Marcellino, nella loro supplica a
Teodosio, rievocano vari nuclei fedeli a Lucifero47 e ostili ai caduti in errore di Rimini, così
come ai loro difensori passati e presenti. Damaso48 è violentemente attaccato da Faustino.
Bisognerà aspettare il pontificato di Innocenzo I per sentire l’ultimo giudizio quasi
contemporaneo su Lucifero e sulla sua pertinacia49. Di sicuro nel 402 il piccolo gruppo non ha
più un grande seguito, se esiste ancora per paucos in Occidente. Ciononostante ha complicato
l’opera di restaurazione della fede di Nicea, di cui Rufino traccia la storia dei primi anni.
A partire dagli anni 360-365 la maggior parte dell’Occidente era di fatto ritornata
alla retta fede, tuttavia non senza difficoltà. Rufino lo afferma continuando il
racconto e passando dall’attività di Eusebio (§ 31 ad f.)50 a quella di Ilario (§ 32).
Veniamo a sapere che questi era già ritornato dall’esilio e che si trovava in Italia nel
momento in cui vi giunge Eusebio dopo aver attraversato l’Oriente51. Tali indicazioni
geografiche turberebbero alquanto se non potessimo collegare varie informazioni,
spesso ellittiche, che formano per ognuno dei due confessori una specie di itinerario
tra le righe. È possibile, infatti, attribuire verosimilmente a Eusebio un ritorno via
terra, circumiens Orientem atque Italiam (§ 31 f), che gli ha fatto attraversare – e
forse percorrere – una parte della Grecia52. Ad ogni modo sappiamo che è passato per Sirmio,
45 RUFINO, De adulteratione librorum Origenis, 11 (ed. M. Simonetti, CC 20, p. 14). Lo stesso Ilario dovette difendere il suo De synodis: cfr. le note a margine pubblicate in PL 10, c. 545-548 e le nuove note scoperte da P. Smulders (Bijdragen 39, 1978, pp. 234-243). 46 AMBROGIO, De excessu Satyri, 1, 47 (ed. O. Faller, CSEL 73, p. 235). 47 FAUSTINO, Libellus precum, 62-78 (ed. M. Simonetti, CC 69, pp. 375-379). Sulla Spagna cfr. J. FERNÁNDEZ UBIÑA, «El Libellus Precum y los conflictos religiosos en la Hispania de Teodosio», in Florentia Iliberritana, 8, 1997, pp. 103-123. 48 Ibid., 79-85 (pp. 379-380); cfr. Aline CANELLIS, «Arius et les Ariens vus par les Lucifériens dans le Libellus Precum de Faustin et Marcellin», in Studia Patristica 36, Leuven, 2001, pp. 489-501 e soprattutto pp. 496-497. 49 INNOCENZO, Ep. 3, 2 (Saepe me, PL 20, c. 487 A): Quae alia causa et superioribus temporibus illius Luciferi praeter pertinaciam fuit, quae eum retraxit a concordia illorum qui Arianorum haeresim prudenti conuersione damnauerant? Così, poco dopo il 402, ai vescovi riuniti a Toledo per risolvere le conseguenze del priscillianesimo. Per Innocenzo il movimento di separazione sembra essere cessato. 50 RUFINO, Storia, 1, 31 (p. 994, ll. 5-6): Eusebius uero circumiens Orientem atque Italiam, medici pariter et sacerdotis fungebatur officio... 51 Ibid., 1, 31 (p. 994, ll. 7-10): ... Hilarium, quem dudum cum ceteris episcopis in exilium trusum esse memorauimus, regressum iam et in Italia positum haec eadem erga instaurandas ecclesias fidemque patrum reparandam repperit molientem. 52 Sappiamo che si sono tenuti diversi concili nell’Acaia e in Macedonia, regioni che possono perfettamente situarsi sulla strada del ritorno di Eusebio attraverso l’Illirico. Su questi concili cfr. LIBERIO, Ep. Imperitiae culpam, 1 (ILARIO, Collectanea antiariana Parisina, B IV, 1, CSEL 65, p. 157, ll. 3-7); ATANASIO, Ep. ad Rufinianum (PG 26, c. 1180 B-C); ID., BASILIO, Ep. 204, 6 (ed. Y. Courtonne, 2, p. 179).
253
dove non riscosse grande successo53. Quanto all’Italia, senza convalidare le
indicazioni della sua Vita tardiva54, è possibile pensare che abbia fatto aderire Liberio
alla sua azione, poiché questi non ha indugiato a scrivere ai vescovi italiani55, a meno
che quest’intervento non sia dovuto a Ilario che, sulla via del ritorno in Gallia nel
360, si fermò a Roma56. Sappiamo che questi era di nuovo a Milano nel 364, senza
sapere da quando cercasse di radunare gli incerti dell’Italia settentrionale. Rufino cita
altrove una riunione di vescovi in cui i sostenitori di Lucifero – o Lucifero stesso –
tentarono di metterlo in difficoltà. Tuttavia ignoriamo se il vescovo di Poitiers tornò
più volte in Italia dopo il ritorno dall’Oriente o se si limitò ad agire «attraverso i
libri».
Di fatto Rufino, che gli attribuisce virtù e un’attività superiori a quelle di Eusebio (§ 32, ll.
1-3) – cui era stato affidato esplicito mandato dal concilio di Alessandria57 –, aggiunge che
Ilario condusse la sua azione anche attraverso gli scritti (§ 32, ll. 3-5). Ho già avuto occasione di
dire che i libri de fide rievocati da Rufino non erano verosimilmente, nonostante il titolo,
quelli che chiamiamo il De Trinitate, bensì più probabilmente il Liber aduersus Ursacium et
Valentem che, secondo Girolamo, conteneva il racconto del concilio di Rimini58. Ciò che Rufino
dice di questi libri corrisponde, infatti, a quanto si può trovare nella denuncia da parte di Ilario dei
due consiglieri di Costanzo II – di cui Rufino non ha nemmeno citato il nome –. Esponeva(no)
infatti le «manovre (uersutiae) degli eretici» e il modo con cui «i nostri erano stati ingannati
nella loro troppo credula ingenuità59» (§ 32, ll. 4-5). Abbiamo qui sia la tesi –
53 Secondo l’Altercatio Heracliani laici cum Germinio episcopo Sirmiensi (PLS 1, c. 345), che menziona anche Ilario. 54 Vita Eusebii (BHL 2748, ed. F. Ughelli, Italia sacra, 4, II ediz., Venezia, 1729, 759 A-B). Se rievoca un’intesa con il «papa romano», la Vita commette sicuramente un errore nell’affidare l’Oriente alle cure di Atanasio. 55 LIBERIO, Ep. Imperitiae culpam, 1-2: ILARIO, Collectanea antiariana Parisina, B IV, 1 (CSEL 65, pp. 156-157). Siricio, nel 385, rievoca una lettera di Liberio che non abbiamo più, che avrebbe annullato il concilio di Rimini e avrebbe proibito di ribattezzare (SIRICIO, Ep. Directa ad decessorem, 1, 2, PL 13, c. 1033-1034). Si tratta forse di un altro intervento? 56 SULPICIO SEVERO, Vita Martini, 6, 7 (ed. J. Fontaine, SC 133, p. 266): Martino accorre a Roma per raggiungere Ilario. Cfr. il mio articolo «Vrais et faux problèmes concernant le retour d’exil d’Hilaire de Poitiers et son action en Italie en 360-362», in Athenaeum 48, 1970, pp. 251-275 e soprattutto p. 262 (ripreso con qualche correzione e con una nota complementare in L’extirpation de l’Arianisme en Italie du Nord et en Occident, Variorum Reprints, Ashgate, 1998, Étude 3). 57 Rufino riprende (1, 32, ll. 2-3) la parola procurabat, che era il termine con cui era stato affidato il mandato a Eusebio (1, 30, l. 3). 58 Cfr. l’art. «Vrais et faux problèmes...», pp. 271-272. 59 RUFINO, Storia, 1, 32 (p. 994, ll. 11-17): Hilarius (...) rem diligentius et aptius procurabat. Qui etiam libros de fide nobiliter scriptos edidit, quibus et haereticorum uersutias et nostrorum deceptiones et male credulam simplicitatem ita diligenter exposuit ut et praesentes et longe positos (...) perfectissima instructione corrigeret.
254
tranquillizzante – di Ilario, quale la si può dedurre dalla presentazione che Girolamo
mutua probabilmente da Ilario nella sua Altercatio Luciferiani et Orthodoxi60, sia la
tesi di Rufino dall’inizio dell’episodio.
A partire dalla presentazione dei tentativi di Costanzo contro la fede degli
occidentali fedeli a Nicea si è parlato di deceptio, attiva e passiva. Con l’inganno
Costanzo tenta di costringere gli occidentali ad aderire all’eresia ariana (§ 20 ad f.); a
Milano la maggioranza viene ingannata (plures decepti, § 21, l. 2), mentre quelli che
resistono e gridano al dolus (§ 21, l. 3) vengono mandati in esilio; Ilario viene a sua
volta esiliato, ceteris uel ignorantibus, uel non credentibus fraudem (§ 21, fine). A
Rimini gli Ariani, che sono callidi homines et uersuti, ingannano facilmente i
vescovi occidentali, che sono simplices et imperiti (§ 22, ll. 4-5), al punto tale che
molti sono decepti (§ 22, ll. 9-10). Essi rinunciano all’homoousios di Nicea e
macchiano la propria comunione associandosi con gli eretici61.
Il quadro tracciato da Rufino sul ritorno della luce «in Italia e nelle Gallie»
grazie ai «due luminari» Eusebio e Ilario62 è l’equivalente di quello che
aveva dipinto sulla crisi della Chiesa dopo Rimini63. Egli chiude in un certo
senso il cerchio. Non si parlerà più della questione ariana in Occidente –
eccezion fatta per la persecuzione di Ambrogio da parte di Giustina64 –, il
che tuttavia non significa che il lettore possa seguire meglio i dibattiti di
quegli anni in Oriente65; non sapremo niente, in particolare, del modo in cui
Asterio ha svolto la propria missione qua e là nel 362 e oltre66. Una volta
60 GIROLAMO, Altercatio Luciferiani et Orthodoxi, 17-19 (ed. Aline Canellis, CC 79 B, pp. 43-50). Cfr. il mio art. «La “manoeuvre frauduleuse” de Rimini. À la recherche du Liber aduersus Vrsacium et Valentem», in Hilaire et son temps, colloque de Poitiers, 29 septembre-3 octobre 1968, Paris, Études augustiniennes, 1969, pp. 51-103 (ripreso in L’extirpation..., Étude 2). 61 Ho mostrato la fortuna di questo testo di Rufino che continua a complicare «la storia» del concilio di Rimini: «Julien d’Éclane et Rufin d’Aquilée: du Concile de Rimini à la répression pélagienne. L’intervention impériale en matière religieuse», in REAug 24, 1978, pp. 243-271 e in particolare pp. 261-269. 62 RUFINO, Storia, 1, 32 (p. 994, ll. 17-20). Inizia poi la seconda parte del regno di Giuliano, con la persecuzione e le varie manovre contro i cristiani (ll. 33-40). 63 Ibid., 1, 22 (p. 998, ll. 16-22): Ea tempestate facies Ecclesiae foeda et admodum turpis erat... 64 Ibid., 2, 15-16 (pp. 1020-1022), con rimando a Rimini (p. 1021, ll. 3-4). 65 Rufino non dice nulla riguardo ai dibattiti teologici tra le varie correnti orientali negli anni 360-380. 66 Nessun cenno nemmeno in Socrate, Sozomeno e Teodoreto.
255
conclusasi la persecuzione di Giuliano, per un po’ di tempo ignoriamo tutto della vita cristiana
ad Antiochia. Il concilio di Costantinopoli del 381 viene semplicemente citato a proposito di
Apollinare, in data tardiva67, senza che vengano definite le altre questioni e decisioni68. In
precedenza i Cappadoci sono stati celebrati per la loro scienza e per la loro ascesi, molto più
che per la partecipazione all’elaborazione dottrinale della dottrina trinitaria69. Con Didimo70
essi formano un trio di eminenti personalità che bisogna far conoscere all’Occidente71, ma la
cui azione in Oriente non è affatto descritta nei minimi particolari. Dicendo questo, sono uscito
dal libro X (I), le cui pagine che ho rapidamente esaminato formano il sesto o il settimo
capitolo. Ma l’osservazione potrebbe essere estesa al libro XI (II), mostrando le lacune delle
sue informazioni – o del suo interesse – riguardo all’Oriente tra il 363 e il 390.
Senza riconoscere tali lacune, A. Glas, nel desiderio di trovare l’origine della Storia di Rufino nella presunta
opera di Gelasio di Cesarea, per la gioia della Quellenforschung, era costretto a fare un’eccezione72
67 RUFINO, Storia, 2 (XI), 20 (p. 1024, ll. 19-20). Così dopo il ritorno di Teodosio in Oriente nel 391. Rufino segnala che gli Apollinaristi si separano dalla Chiesa, che hanno i propri vescovi, le proprie tesi e le proprie chiese. 68 Nessun cenno alla sua opera dottrinale, né alle decisioni disciplinari. Non si parla né della morte di Melezio, né della partenza di Gregorio Nazianzeno, né della decisione di riconoscere Cirillo come vescovo di Gerusalemme (Sinodale del 382: Teodoreto, HE, 5, 9, 17, GCS 19, p. 294, l. 3), misura che avrebbe dovuto interessare suo nipote Gelasio. Il nome di Cirillo appare in Rufino soltanto nel capitolo seguente, 2, 21, in cui l’autore, dopo il ritorno di Teodosio in Oriente nel 391, traccia lo stato delle (grandi) Chiese d’Occidente e d’Oriente: Roma, con Siricio (385); Alessandria, con Timoteo (381-386) e Teofilo (386); Gerusalemme (post Cyrillum Ioannes); Antiochia, alla cui sede è dedicata una lunga trattazione; Costantinopoli, con Nettario (381), ma senza che Rufino indichi che prende il posto di Gregorio Nazianzeno. Riguardo ad Antiochia, Rufino scrive: Apud Antiochiam uero, Meletio defuncto, substituitur Flauianus. Sed quod Paulinus adhuc supererat, qui in catholicorum semper societate permanserat, multa ibi iurgia et multae controuersiae saepe commotae... (2, 21, p. 1024, ll. 26-29). Nessun cenno al patto Melezio-Paolino prima della morte (avvenuta a Costantinopoli) di Melezio nel 381, al mancato rispetto del patto né agli sviluppi dello scisma dei Luciferiani di cui parleranno gli storici greci. In compenso Rufino aggiunge ad Antiochia il caso di Tiro, dove i Meleziani ordinano un vescovo contro Diodoro, che riceve, dal canto suo, tutte le patenti di ortodossia (2, 21, p. 1024, l. 30 - p. 1025, l. 3) ed estende la confusio a molte altre chiese d’Oriente (ibid., p. 1025, ll. 3-4), di cui gli storici successivi non parlano minimamente. Riguardo a Tiro, va ricordato che in questa città Rufino dichiara di aver fatto la conoscenza di Edesio, eroe della missione etiope (1, 10 ad fin., p. 973, ll. 21-23). 69 RUFINO, Storia, 2, 9 (pp. 1014-1017). Le circostanze in cui Gregorio Nazianzeno lascerà la sede di Costantinopoli non vengono precisate e il nome del successore non viene indicato (ibid., pp. 1016-1017). 70 Ibid., 2, 7 (pp. 1012-1014). 71 Rufino si atteggia ad ascoltatore di Didimo (2, 7, p. 1013, ll. 10-14) e a traduttore di Gregorio e di Basilio (2, 9, p. 1017, ll. 8-12). Ci troviamo di fronte a una sorta di promozione delle sue opere. 72 A. GLAS, op. cit. (n. 18), pp. 23-24.
256
per i ritratti di Didimo, dei monaci d’Egitto e dei cappadoci Basilio e Gregorio,
perché quanto è detto nella Storia di Rufino e da lui proposto come testimonianze
personali assomiglia molto a ciò che troviamo nel resto dell’opera.
Nel periodo in cui scrive la sua Storia della Chiesa, di fatto Rufino ha già tradotto
varie opere di Gregorio e di Basilio, come egli afferma. Lo stesso vale per i monaci
d’Egitto: la Storia della Chiesa annuncia infatti la Storia dei monaci73. D’altronde si
sa che Rufino ha appena rivendicato in altra sede74 legami con Didimo più stretti di
quelli ostentati da Girolamo. Nel 406 Girolamo ricorderà che Didimo gli aveva fatto
la dedica su due Commenti75; ma già nel 401 informa che Didimo aveva scritto per
Rufino un trattato Sui bambini morti prematuramente76. Il fatto che non se ne parli
nella Storia della Chiesa non ha nulla di sorprendente; Rufino non fiata sulle
discussioni intorno a Origene, non cita il nome di Giovanni di Gerusalemme se non
come successore di Cirillo sulla cattedra di Gerusalemme77 e riesce a raccontare la
distruzione del Serapeo di Alessandria senza pronunciare il nome di Teofilo che, in
quel periodo, è passato dalla parte degli avversari di Origene78. Piuttosto che
un’eccezione, direi che questi capitoli corrispondono alla maniera solita di Rufino. Si
faticherebbe alquanto a definire la maniera di Gelasio e sarebbe davvero
sorprendente che il nipote di Cirillo non avesse parlato di più di Gerusalemme79. Vi
73 RUFINO, Storia, 2, 8 (p. 1013, ll. 24 sgg.). Cfr. Historia monachorum, 29, 5, 5 (ed. Eva Schulz-Flügel, Berlin, 1990, p. 375) e Apol. c. Hieronymum, 2, 15 (ed. M. Simonetti, CC 20, p. 94, l. 15 - p. 95, l. 25). 74 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, 2, 15 (CC 20, p. 94). 75 GIROLAMO, Commentarius in Osee, Prologus (ed. M. Adriaen, CC 76, p. 5, ll. 129-137); Commentarius in Zachariam, Prologus (CC 76 A, p. 748, ll. 31-32). 76 GIROLAMO, C. Rufinum, 3, 28 (ed. P. Lardet, CC 79, p. 100, ll. 47-49). 77 RUFINO, Storia, 2, 21 (p. 1024, l. 25). 78 Ibid., 2, 22 (p. 1025, l. 12); 24 (p. 1030, ll. 16-17). Bisogna forse dedurre il suo nome dalla lista dei vescovi delle «sedi apostoliche» stilata in 2, 21 (p. 1024, ll. 24-25)? È chiedere troppo al lettore! 79 Non si tratta di negare l’esistenza di una qualche Storia di Gelasio, poiché Fozio (Cod 89) l’ha avuta tra le mani. Non si tratta nemmeno di stabilire i limiti e la data. Si tratta di sapere se Rufino se ne sia servito e in quale misura o per quali argomenti. Per quanto riguarda gli anni 325-381 ci si può soltanto sorprendere, se Rufino dipende dal racconto di Gelasio, che la presentazione dello storico latino tratti così poco le sventure − diciamo così − di Cirillo di Gerusalemme, quando questi era lo zio di Gelasio, su richiesta del quale, secondo quanto riporta Fozio, aveva intrapreso il seguito della Storia di Eusebio. Sarebbe come spingere un po’ troppo in là la modestia e la discrezione parlare di Cirillo solo per incriminare la sua ortodossia. Credo che questo mettere sotto accusa provenga invece, in Rufino, dalla notizia di Girolamo presente nella Cronaca (ad a. 348). L’Oriente non aveva risentito meno dell’Occidente della volontà unificatrice di Costanzo e le divisioni erano state molto più numerose tra le diverse «scuole» e regioni.
257
sono silenzi che si spiegano difficilmente, per lo meno se si può sospettarne
l’esistenza. Ma non mi sembra sia così. A differenza di Rufino.
***
Nonostante il prudente silenzio che Rufino osserva sui dibattiti dottrinali nei quali
si trova coinvolto nel periodo in cui compone il seguito della Storia Ecclesiastica di
Eusebio80, non si può prescindere dall’insieme della sua opera e dalle preoccupazioni
che può nutrire allora un membro della Chiesa di Aquileia, se si vuole comprendere
questa Storia e scoprirne gli obiettivi. Certo, se ve ne fosse bisogno, la difesa di
Nicea e quella di Atanasio – di cui non ha tradotto nulla – poteva fungere da garanzia
della sua ortodossia trinitaria contro i sospetti seminati dagli avversari; ma
probabilmente non è questo lo scopo primo di Rufino che, come dice nella
Prefazione, scrive ad Aquileia, su richiesta di Cromazio. Negli anni 370-380 questi
era stato celebrato da Girolamo per essersi opposto al «veleno ariano» nella propria
città81. Benché non abbiamo informazioni precise sulla sua condotta nel 360,
sappiamo che il vescovo Fortunaziano aveva contribuito alla resa di Liberio due anni
prima82. Probabilmente aveva fatto parte dei firmatari di Rimini e aveva potuto – o
dovuto – beneficiare delle misure comprensive dei «Confessori» ad Alessandria.
Così si comprenderebbe meglio il silenzio totale di Rufino riguardo alla sede di
Aquileia – che comunque non era priva d’importanza già nel IV secolo e che
rivendicava legami con i tempi apostolici – e la sua «ignoranza», probabilmente
volontaria, circa le circostanze e le condizioni del ritorno di Liberio nella sua città83.
Ma il pubblico di Aquileia per il quale scriveva Rufino non poteva trovare molto interesse né edificazione in queste discussioni, talvolta sottili e spesso superate. 80 Lo stesso vale per l’Expositio symboli, che è lungi dall’esser separata dalle questioni dottrinali in cui si trova coinvolto Rufino. Su questo punto cfr. il mio art. «Le Liber Hieronymi ad Gaudentium: Rufin d’Aquilée, Gaudence de Brescia et Eusèbe de Crémone», in RBén 97, 1987, pp. 163-186 e in particolare pp. 181-182. 81 GIROLAMO, Ep. 7, 6 (ed. J. Labourt, 1, p. 24, ll. 24-25). 82 GIROLAMO, De uiris illustribus, 97 (ed. A. Ceresa Gastaldo, Firenze, 1988, p. 202). 83 RUFINO, Storia, 1, 28 (p. 990, l. 26 - p. 991, l. 3).
258
Il primo libro della Storia della Chiesa non è soltanto il racconto degli scontri per
la fede di Nicea o delle lotte di Atanasio tra il 325 e il 360. È, a partire dal 350, il
racconto del cedimento della Chiesa d’Occidente mal informata dinanzi alle mosse e
alle misure di forza di Costanzo, seguito da una lenta restaurazione, i cui artefici
sono Eusebio e Ilario, e l’ostacolo Lucifero. Non soltanto questi provocherà con la
sua avventatezza lo scisma di Antiochia, ma soprattutto sarà responsabile, con il suo
rigorismo e con la sua ostinazione, delle divisioni che turberanno, ancor più
dell’arianesimo, la vita religiosa dell’Occidente durante almeno un quarto di secolo.
Nel momento in cui Rufino scrive, le tensioni si sono quasi placate. Una nuova
generazione di vescovi ha fatto dimenticare le capitolazioni dei predecessori. La discrezione
di Rufino non deve occultare l’ampiezza del disastro e delle sue ripercussioni. Se l’Altercatio
Luciferiani et Orthodoxi di Girolamo è piena di scusanti per i vescovi, l’ultra-niceno monaco
di Betlemme è talvolta più severo nei confronti dei caduti in errore e lascia intuire ciò che
dovette essere il ritorno alla fede di Nicea subito dopo il concilio di Alessandria.
Spero di aver evidenziato l’importanza che questo ha avuto, ma soprattutto quella che
ha assunto nella Storia di Rufino. Invece bisognerebbe sottolineare come, nonostante i
soggiorni di Rufino in Oriente, gli avvenimenti degli anni 325-360, così come quelli
legati alle discussioni intorno al 365-380, sia a Costantinopoli, in Cappadocia, ad
Antiochia, ad Alessandria o a Gerusalemme, occupino poco spazio e siano piuttosto
vaghi per un’opera che si vorrebbe fosse la traduzione della Storia, greca, di Gelasio di
Cesarea. Ho mostrato che Rufino aveva in realtà mutuato da Girolamo i quadri politici
della sua Cronaca nonché alcuni dati, se non addirittura alcuni giudizi84. Si prenda la
presente traccia come una nuova contestazione della tesi di Glas: la storia e l’attuazione
del concilio di Alessandria non hanno nessun equivalente presso gli storici orientali e, se
si parla di Antiochia, è perché Lucifero ha iniziato lì lo scisma, i cui effetti si sono fatti
sentire in Occidente per almeno quarant’anni.
Tuttavia non basta dire che lo spazio dedicato al concilio e alle sue conseguenze si spiega
con il fatto che Rufino, un occidentale, scrive per gli occidentali. Gli storici greci che lo
seguiranno e che lo useranno avrebbero potuto fornire l’equivalente orientale, se lo avessero
trovato nella Storia di Gelasio. Il loro silenzio è eloquente a contrario. Soltanto Sabino
secondo Socrate – e non Gelasio – si è interessato al «dopo Costantinopoli 36085». La lettera
84 Y.-M. DUVAL, «Sur quelques sources latines de l’Histoire de l’Église de Rufin d’Aquilée», in Cassiodorus 3, 1997, pp. 131-151 e in particolare pp. 136-148. 85 Nemmeno Filostorgio è qui di aiuto.
259
a Gioviano scritta nel 365 da Melezio ha, tra gli altri, come cofirmatario Acacio86 di
Cesarea, metropolita di Gerusalemme, nonché suo predecessore87. «Gelasio» avrebbe
avuto tutto l’interesse a insistere sull’adozione da parte del gruppo della formula di
Nicea, o almeno sull’importanza crescente assunta ormai da Melezio nella ventina
d’anni che seguì e che condusse al riconoscimento ufficiale di Cirillo di
Gerusalemme. Di tutto questo neanche un cenno, nemmeno in Teodoreto, fervido
difensore di Melezio. Non sarà forse perché Gelasio, il vero Gelasio, non diceva
nulla in tal senso?
Yves-Marie DUVAL
(2001)
86 Su Acacio, difensore della formula di Rimini-Costantinopoli homoios kata tas graphas, ignorato da Rufino: J.-M. LEROUX, «Acace, évêque de Césarée», in Studia Patristica 8, Berlin, 1966, pp. 82-85; J.T. LIENHARD, «Acacius of Caesarea: Contra Marcellum», in Cristianesimo nella Storia 10, 1989, pp. 1-21 e soprattutto pp. 1-7. 87 SOCRATE, Storia, 3, 25, 18 (p. 227, l. 3); SOZOMENO, Storia, 6, 4, 6 (p. 241, ll. 9-10).
260
RIASSUNTO: Il concilio di Alessandria, che nel 362 fissa le basi disciplinari e dottrinali del ritorno
alla fede di Nicea ufficialmente abbandonata due anni prima con l’adozione del Simbolo di Nicea-
Costantinopoli, riveste nella Storia della Chiesa di Rufino un’importanza che non sarà più accordata
dagli storici greci del V secolo. Questi tacciono in particolare l’aspetto disciplinare della riunione che
si era mostrata clemente verso i vescovi che avevano accettato più o meno ingenuamente la fede di
Nicea-Costantinopoli. Rufino, che ha conosciuto la situazione della Chiesa negli anni 360-380, si
sofferma sul concilio e sulla sua attuazione in Occidente da parte di Eusebio di Vercelli e di Ilario di
Poitiers, per la buona ragione che questa incontrò l’intransigenza di Lucifero di Cagliari e di coloro
che a lui si richiamavano. L’atteggiamento di Lucifero è presentato come la conseguenza del
disconoscimento da parte di Eusebio della sua azione ad Antiochia nel 362, senza che Rufino si
dilunghi sul seguito della storia della Chiesa di tale cittadina. La cornice di fondo, occidentale, non
depone a favore di una traduzione da parte di Rufino di una Storia greca; in compenso invita a non
dimenticare uno scisma che ha sconvolto la vita della Chiesa d’Occidente e che ha ancora un piccolo
numero di adepti mentre Rufino scrive.
ABSTRACT: The Council of Alexandria, which, in 362 AD, established the disciplinary and
doctrinal foundation to restore the faith of Nicaea officially abandoned two years earlier with the
adoption of the Nicena-Constantinopolitan Creed, is considered a key point in the History of the
Church by Rufinus. The Greek historians of the fifth century did not pay much attention to it later on.
In particular, they remain silent on the disciplinary aspects of this meetings which turned out to be
flexible towards the bishops who had ingenuously accepted the Nicena-Constantinopolitan faith.
Rufinus, who was well aware of the situation of the Church in the years 350-380, works closely on the
council and its ruling in the West realised by Eusebius of Vercelli and Hilary of Poitiers, mainly
because the later faced the unflexible Luciferius of Cagliari and his followers. Lucifer’s attitude is
shown as the consequence of the denying by Eusebius of his action in Antioch in 362 AD;
nevertheless, Rufinus is not commenting much on the history of Church in this city. The background,
which has an Occidental touch, does not give a proof that Rufinus translated a Greek History; on the
other hand, it is remainder of the schism which disturbed the life of the Occidental Church, producing
a small number of believers still existing when Rufinus wrote.
261
III. COMMENTO LINGUISTICO E TRADUTTIVO
263
1. TIPOLOGIA E FUNZIONI TESTUALI
Prima di affrontare la traduzione di un testo è di fondamentale importanza effettuare
un’accurata analisi preliminare dello stesso, al fine di individuare la tipologia testuale in
cui si inscrive. Riconoscere la tipologia e le funzioni testuali del testo di partenza
costituisce il primo passo per comprendere le intenzioni comunicative dell’autore, il che
consente poi di adottare le strategie traduttive più indicate in sede di traduzione. Risulta
infatti evidente che
la determinazione dei generi testuali indica le funzioni preminenti irrinunciabili in una traduzione e stabilisce anche il tipo di intervento linguistico da effettuare per garantire una corretta omologia dei testi a confronto (Arcaini 1992, citato in Scarpa 2001: 78).
Per quanto possa apparire contraddistinto da numerose e diverse variabili linguistiche,
ciascun testo può generalmente essere collocato in una determinata tipologia testuale,
caratterizzata da fattori al tempo stesso contenutistici e formali, che vanno tenuti in
eguale considerazione. Tradurre, infatti, “non significa rispettare solo il contenuto
lessicale e strutturale del testo, ma anche il senso globale, semantico e pragmatico
dell’originale” (Raccanello 1997: 266).
Nel caso del presente elaborato siamo di fronte a una raccolta di sette saggi, tutti di
carattere storico-religioso; l’autore, Yves-Marie Duval, è infatti uno dei massimi esperti
viventi in materia di Storia della Chiesa, specie per quanto concerne la vita e l’operato
di San Martino, di San Girolamo e di Rufino di Aquileia.
Il genere della saggistica si avvicina per molti versi a quello letterario, dal quale
tuttavia si allontana per la presenza di una terminologia specifica, legata alla trattazione
esaustiva di un determinato argomento (a differenza della narrativa, la saggistica è
sempre legata a un campo organizzato del sapere). Cionondimeno, diversamente dal
testo scientifico e settoriale, nel testo saggistico la componente estetica può rivestire una
notevole importanza.
In virtù di ciò si evince che il saggio è solitamente più elegante e letterariamente
prezioso di un testo tecnico-scientifico. Infine, a differenza dell’articolo scientifico,
caratterizzato da una forte denotatività, il saggio contiene moltissimi rimandi
connotativi e intertestuali, il che può avere ricadute molto importanti sul piano della
traduzione.
264
Per quanto concerne le funzioni del testo di partenza, l’autore si rivolge a una cerchia
di studiosi e di esperti nel campo della letteratura cristiana antica e della patrologia, cui
intende dimostrare la validità di determinate argomentazioni. Il fruitore dei saggi risulta
essere quindi uno specialista della materia, che non mancherà di cogliere o di intuire gli
innumerevoli rimandi e i frequenti sottintesi che caratterizzano le esposizioni del Duval.
Cionondimeno il periodare del patrologo francese, improntato sulla chiarezza e sulla
ridondanza e scevro da tecnicismi gratuiti, consente la comprensione globale del testo
anche da parte di un pubblico profano.
2. APPROCCIO TRADUTTIVO
Nella traduzione saggistica si sommano spesse volte le difficoltà terminologiche della
traduzione settoriale (benché il livello di specializzazione sia solitamente inferiore) e le
difficoltà connotative della traduzione letteraria. I saggi del Duval non sfuggono a tale
ambivalenza; ciononostante sarebbe esagerato parlare di vere e proprie difficoltà
terminologiche, giacché il grado di specializzazione è lungi dall’apparire elevato.
Quanto alla componente stilistico-espressiva, essa è ben presente nei saggi affrontati
in questa sede; in sede di traduzione si è cercato di rimanere fedeli allo stile e
all’espressività del testo di partenza, laddove tale fedeltà non inficiasse, beninteso, la
scorrevolezza della lettura e la chiara comprensione del testo stesso.
In definitiva si è adottato un metodo traduttivo che consentisse di rispettare l’esatto
significato contestuale dell’originale (traduzione semantica), ma che non trascurasse di
riprodurre nel migliore dei modi l’effetto dell’originale (traduzione comunicativa; cfr.
Newmark 1988: 79).
In realtà separare i due approcci traduttivi (semantico e comunicativo) sarebbe
impensabile, giacché “non esiste un unico metodo, comunicativo o semantico, per
tradurre un testo”, ma “si tratta in effetti di due serie di metodi in larga misura
sovrapposti” (Newmark 1988: 82).
In corso di traduzione sono state pertanto applicate diverse microstrategie traduttive;
proprio su queste è incentrato il presente commento, che esplora a vari livelli
(morfosintattico, lessicale, stilistico e interpuntivo) le procedure adottate.
265
3. ASPETTI MORFOSINTATTICI 3.1. STRUTTURA DEL PERIODO
I saggi di Yves-Marie Duval tradotti in questa sede presentano una sintassi piuttosto
semplice e lineare. La paratassi, costruzione in cui le proposizioni sono indipendenti le
une dalle altre e strutturalmente corrette (cfr. Marinucci 1996: 350), prevale
sull’ipotassi, le frasi brevi e semplici su quelle lunghe e complesse.
Lo stile paratattico dell’autore non ha posto particolari problemi: in sede di traduzione
si è scelto di rispettare la struttura sintattica dell’originale, che poggia in larga misura
sulla giustapposizione (o coordinazione per asindeto), vale a dire il semplice
accostamento delle proposizioni divise da un segno interpuntivo che contribuisce a
scandire il ritmo delle azioni. Si viene quindi a creare un ritmo spezzato, sincopato,
veloce, come si evince dai seguenti esempi:
Aussi bien Ambroise que Pacatus insistent sur l’irrésolution de Maxime au lendemain de ses deux défaites: il va, il vient, ne sait où aller; finalement il s’enferme dans Aquilée, avec ses Maures, mais en sort pour se rendre à Théodose. Sia Ambrogio sia Pacato insistono sull’irresolutezza di Massimo, dopo le sue due sconfitte: egli va e viene, senza sapere dove; alla fine si chiude ad Aquileia con i suoi Mauri, ma esce per arrendersi a Teodosio. (p. 47).
Jérôme semble être parti seul. Les circonstances de ce départ sont mal connues; son itinéraire également. Girolamo sembra essere partito da solo. Le circostanze della partenza sono poco note, come pure l’itinerario. (p. 85).
Si è generalmente rimasti fedeli alla sintassi originale anche in presenza di frasi molto
brevi:
Le règne si bref de Julien tient une grande place dans le récit de Rufin. Celui-ci se décompose en deux parties très nettes. Il breve regno di Giuliano occupa molto spazio nel racconto di Rufino. Si divide in due parti molto nette. (p. 237).
266
On peut cependant découvrir deux sources de documentation écrite. La première est grecque. Elle concerne ce qu’on appelle, depuis Rufin, le “Concile des Confesseurs”. Tuttavia è possibile scoprire due fonti di documentazione scritta. La prima è greca. Riguarda quello che viene chiamato, da Rufino in poi, il «Concilio dei Confessori». (p. 237).
Solo in qualche caso si è optato per la fusione di periodi brevi, al fine di rendere più
scorrevole il testo di arrivo. La scelta è altresì dettata dal diverso grado di coesione che
presenta il francese rispetto all’italiano; in francese appare infatti obbligatoria la ripresa
anaforica (spesso mediante pronome personale soggetto) dopo il punto fermo, che crea
non pochi problemi in italiano:
Plusieurs points me semblent ici dignes d’être relevés pour notre propos. La date tout d’abord. Elle n’est pas connue avec sûreté. Parecchi punti mi sembrano degni di essere presi in esame. Innanzitutto la data, che non è nota con certezza. (p. 93). Celle-ci sera effectuée par Jérôme durant l’hiver 398-399. Elle parviendra à Rome dès le printemps 399. Questa sarà realizzata da Girolamo durante l’inverno del 398-399 e arriverà a Roma nella primavera del 399. (p. 146).
Le premier texte appartient au Contre Apion de Flavius Josèphe. Il a été l’objet, en grec, de nombreuses discussions à l’époque moderne. Il primo testo appartiene al Contro Apione di Giuseppe Flavio, oggetto di numerose discussioni moderne, in greco. (p. 213). Ce que montre cette expédition de Julien, c’est que la route de Constantinople vers la Gaule du Nord passe maintenant plus au Nord. Ce fait peut recevoir mainte attestation. La spedizione di Giuliano mostra che la via di Costantinopoli verso la Gallia settentrionale passa ora più a nord, il che è attestato più volte. (p. 35).
Talvolta le proposizioni appaiono legate per coordinazione copulativa:
Les basiliques de Constantin ne sont pas ancore terminés, la vraie croix est juste découverte et déja en Occident l’on veut aller voir l’endroit où le Christ est né, le Golgotha et le tombeau.
267
Le basiliche di Costantino non sono ancora terminate, la vera Croce è appena stata scoperta, e in Occidente già si vuole andare a visitare il posto in cui Cristo è nato, il Golgota e il Sepolcro. (p. 83). Le moine et sa communauté avaient été excommuniés et l’évêque de Jérusalem avait – lui aussi! – requis contre les turbulents une sentence d’exil qui faillit bien être exécutée. Il monaco e la sua comunità erano stati scomunicati e il vescovo di Gerusalemme aveva richiesto contro i turbolenti una sentenza d’esilio, che per poco non venne eseguita. (p. 182).
In generale appaiono numerosi i casi di paratassi per congiunzione coordinante, che
non hanno comportato modifiche in sede di traduzione:
Il ne prétend aucunement défendre les thèses incriminées, mais il constate la valeur de l’enseignement ascétique qui les accompagne dans le milieu monastique, et il demande aux évêques de ne pas abuser de leur autorité. Non intende in nessun modo difendere le tesi incriminate, ma constata il valore dell’insegnamento ascetico che le accompagna nell’ambiente monastico, e chiede ai vescovi di non abusare della loro autorità. (p. 180). Rufin savait faire quelques distinctions. Il est regrettable qu’il n’ait pas su en faire davantage. Mais il me semble que les Préfaces adréssées a Chromace et Héliodore l’ont arrêté. Rufino sapeva operare alcune distinzioni. Dispiace che non abbia saputo farne altre. Ma mi sembra che le Prefazioni indirizzate a Cromazio e a Eliodoro l’abbiano fermato. (p. 219).
In qualche occasione abbiamo invece optato per l’eliminazione del nesso congiuntivo:
Cette «grande ville» va protéger la cour jusqu’à la chute de Jean... et au moins quelques jours supplémentaires. Car, si Aspar ne continue pas immédiatement sa route vers Ravenne où devait débarquer la flotte emmenée de Salone par son père, ce n’est pas seulement parce qu’il doit savoir que cette flotte a fait naufrage [...]. Questa «grande città» proteggerà la corte fino alla sconfitta di Giovanni, e per qualche giorno ancora. Se Aspar non continua subito il viaggio verso Ravenna, dove doveva sbarcare la flotta proveniente da Salona e condotta da suo padre, non è solo perché sa che la flotta ha fatto naufragio [...]. (p. 70). Nul doute que cette affaire n’ait tenu beaucoup de place dans les propos de ceux qui revenaient d’Orient et pouvaient témoigner des progrès de l’orthodoxie, à partir au moins de 381. Car, auparavant, sous Valens, nous voyons Jérôme aux prises avec les différents tendances, plus ou moins hétérodoxes, du désert de Chalcis.
268
Non c’è dubbio che l’affare non abbia occupato molto spazio nelle affermazioni di chi tornava dall’Oriente e poteva testimoniare i progressi dell’ortodossia, a partire dal 381 almeno. Prima, sotto Valente, vediamo Girolamo alle prese con le varie tendenze, più o meno eterodosse, del deserto della Calcide. (p. 90). Je terminerai en posant une question à dom Gribomont, et en regrettant qu’il n’ait pas été plus explicite et ne puisse plus nous répondre. Concluderò porgendo una domanda a Dom Gribomont, rammaricandomi che non sia stato più esplicito e che non possa più rispondere. (p. 186).
Ad ogni modo non mancano all’interno del testo proposizioni lunghe e sintatticamente
complesse: la struttura paratattica dominante appare intervallata (invero piuttosto
raramente) da costruzioni ipotattiche e da periodi di più ampio respiro:
En réalité, il ne peut être question de suivre même ce que j’appellerai l’ensemble du mouvement de reflux de l’Empire romain dont on peut dire qu’il a commencé à Aquilée, sous Marc-Aurèle, lorsque les Marcomans et les Quades ont percé le front du Danube, sont venus jusqu’aux murs d’Aquilée et, faute de pouvoir emporter la ville, s’en sont allés détruire Opitergium. In realtà non si tratta nemmeno di seguire quello che chiamerò il movimento di riflusso dell’Impero romano, che ha avuto inizio, potremmo dire, ad Aquileia, sotto Marco Aurelio, quando i Marcomanni e i Quadi si aprirono un varco nel fronte del Danubio, giunsero fino alle mura di Aquileia e, non riuscendo a conquistare la città, andarono a distruggere Opitergium. (p. 16). Si celui-ci occupe donc une place encombrante dans la vie de chaque jour, il n’est plus étonnant que Postumien ou Sulpice aient été arrêtés par les propositions scandaleuses que l’on attribuait à Origène, sans qu’il y ait à prêter à Sulpice le désir de se disculper pour une parole de Martin qui devenait imprudente dans le climat de la querelle origéniste. Se questi occupa dunque un posto ingombrante nella vita di tutti i giorni, non stupisce che Postumiano e Sulpicio siano stati arrestati a causa delle proposte scandalose attribuite a Origene, senza che venisse concessa a Sulpicio la facoltà di discolparsi per una parola di Martino che diventava imprudente nel clima della controversia origeniana. (p. 179).
In qualche caso si è deciso di scindere in più parti il periodo, per una maggiore facilità
di lettura:
Si je devais traiter de l’ensemble du sujet qu’annonce le titre ci-dessus, c’est toute l’histoire militaire et politique d’Aquilée qu’il me faudrait écrire depuis la fondation de la ville, puisque c’est pour faire pièce aux Gaulois qui avaient franchi les Alpes et avaient commencé à s’installer au pied des Alpes Juliennes que la
269
colonie fut déduite en 181 avant notre ère – et, de fait, dès ses premières années, Aquilée eut à s’opposer aux incursions des Gaulois. Se dovessi trattare l’argomento annunciato dal titolo nella sua interezza, sarei costretto a scrivere tutta la storia militare e politica di Aquileia a partire dalla fondazione della città: è infatti per opporsi ai Galli, che avevano varcato le Alpi e cominciato a insediarsi ai piedi delle Alpi Giulie, che la colonia fu dedotta nel 181 a.C. (di fatto, già nei primi anni, Aquileia dovette far fronte alle incursioni dei Galli). (p. 16).
La lunghezza delle frasi è spesso accresciuta dalla presenza di incisi, che racchiudono
un commento o una riflessione da parte dell’autore:
Rufin avait été précédé par le prêtre Vincent; l’année suivante partent Eusèbe de Crémone – encore un Italien du Nord – et Paulinien, le frère de Jérôme, qui se rend à Stridon et séjournera un moment à Aquilée dans les conditions que nous verrons tout à l’heure. Rufino era stato preceduto dal prete Vincenzo; l’anno successivo partono Eusebio di Cremona – nuovamente un italiano del nord – e Paoliniano, fratello di Girolamo, che si reca a Stridone per soggiornare poi brevemente ad Aquileia, nelle condizioni che vedremo fra poco. (p. 96). A l’appui de cette pure hypothèse, j’ajouterai que l’ouvrage date de 404 – ce qui ne l’éloigne pas beaucoup de la dédicace de Brescia – et que ce n’est peut-être pas un hasard si, en ces mêmes années Rufin dédie à Chromace la traduction des Homélies sur Josué d’Origène. A sostegno di questa mera ipotesi aggiungerei che l’opera è datata 404 – il che non l’allontana molto dalla dedicazione di Brescia – e che forse non è un caso se, in quegli stessi anni, Rufino dedica a Cromazio la traduzione delle Omelie su Giosuè di Origene. (p. 134).
L’inciso, breve frase con funzione parentetica grammaticalmente indipendente, è senza
dubbio un elemento stilistico importante dell’autore, che il traduttore non ha mancato di
rispettare in corso di traduzione.
3.2. SISTEMA VERBALE Nel testo predominano i tempi dell’indicativo, “modo della realtà, della certezza, della
constatazione e dell’esposizione obiettiva o presentata come tale” (Dardano e Trifone
1985: 241). Il tempo utilizzato con maggior frequenza risulta essere il presente, in virtù
della sua straordinaria flessibilità e polivalenza. L’autore fa largo uso del presente
indicativo, anche (e soprattutto) nel narrare eventi passati. Infatti “cette forme verbale
270
est largement exploitée dans les récits, à côté des temps passés, pour donner à l’action
une vitalité qui la rend plus actuelle, d’où son appelation de présent historique ou de
narration” (Schena 1989: 29). In questo caso il presente va a sostituire il passé simple,
determinando una più viva evocazione del passato:
Le 28 février 350, entre en charge à Rome le Préfet de la ville nommé par Magnence qu’est Fabius Titianus. Il 28 febbraio 350 entra in carica, a Roma, il Prefetto della città nominato da Magnenzio, Fabio Tiziano. (p. 23). En janvier 403, à Nole, Paulin entraîne son ami Nicétas de Rémésiana dans les nouvelles constructions qu’il a entreprises en l’honneur de Félix. Nel gennaio del 403, a Nola, Paolino porta l’amico Niceta di Remesiana nelle nuove costruzioni che ha intrapreso in onore di Felice. (p. 129).
Accanto al presente indicativo troviamo, a volte, il passato prossimo:
Au Ier mars donc, Magnence a échoué. Il primo marzo Magnenzio ha dunque fallito. (p. 24).
Non mancano tuttavia casi in cui l’autore preferisce utilizzare il passé simple,
conferendo così un’aura di maggior letterarietà al testo:
Ce fut un échec; tant et si bien que les troupes de Constance durent refluer [...]. Fu un insuccesso, tanto che le truppe di Costanzo dovettero ritirarsi [...]. (p. 26). La première alerte sérieuse eut lieu en 373. Il primo grave allarme si registrò nel 373. (p. 35). Je veux parler de l’aide qu’il prêta à Théophile d’Alexandrie dans la lutte de celui-ci contre Jean Chrysostome. Or, ce dernier reçut, dès 405, l’appui de Chromace. Il eut la consolation de voir venir vers lui un Gaudence de Brescia, qu’il avait connu lors d’un précédent voyage. Mi riferisco all’aiuto che prestò a Teofilo di Alessandria nella lotta contro Giovanni Crisostomo. Quest’ultimo ricevette, a partire dal 405, l’appoggio di Cromazio ed ebbe la consolazione di vedersi venire incontro Gaudenzio di Brescia, che aveva conosciuto durante un precedente viaggio. (p. 100).
271
Nei quadri descrittivi è inoltre frequente l’uso dell’imperfetto indicativo:
Pendant que Constance célébrait sa victoire en faisant élever un arc de triomphe dans les Pannonies, restaurait les routes d’accès vers l’Italie qu’il lui faudrait conquérir, essayait de se gagner les populations d’Illyrie et d’Italie par diverses mesures, Magnence se trouvait réduit à la difensive et, d’Aquilée, surveillait à la fois les routes des Alpes Juliennes et les côtes du golfe de l’Adriatique où pouvait s’opérer un débarquement qui le prendrait à revers. Mentre Costanzo festeggiava la vittoria facendo erigere un arco di trionfo nella Pannonia, restaurava le vie d’accesso verso l’Italia che doveva conquistare e tentava di vincere le popolazioni dell’Illiria e d’Italia con varie misure, Magnenzio si trovava ridotto alla difensiva: da Aquileia sorvegliava sia le vie delle Alpi Giulie, sia le coste del golfo dell’Adriatico, dove avrebbe potuto aver luogo uno sbarco che lo avrebbe attaccato da dietro. (p. 28).
Lo sviluppo temporale del testo di partenza è stato sempre rispettato, salvo nei casi di
scelte contraddittorie da parte dell’autore, come nel seguente esempio:
Rufin connaît bien cette Chronique. Son Apologie la cite à deux reprises. L’une d’entre elles, où son propre nom apparaissait, concerne l’année 377, juste avant que Jérôme n’évoque l’invasion de la Thrace par les Goths [...]. Rufino conosce bene questa Cronaca. Nella sua Apologia viene citata due volte. Una di queste, in cui appare il suo nome, riguarda l’anno 377, subito prima che Girolamo rievochi l’invasione della Tracia da parte dei Goti [...]. (p. 225).
L’autore ricorre poi in numerose occasioni al condizionale, modo dell’eventualità, allo
scopo di introdurre le proprie supposizioni all’interno del testo:
Les choses auraient pu, de fait, mal tourner pour Julien si l’exemple d’Aquilée avait été suivi [...]. La situazione avrebbe potuto prendere una brutta piega per Giuliano, se si fosse seguito l’esempio di Aquileia [...]. (p. 35). Cela expliquerait qu’Alaric ait pu se trouver sous les murs de Rome dans le courant décembre, après une chevauchée d’au moins 900 km. en deux mois, avec armes et bagages... et colonnes de prisonniers! Ciò spiegherebbe come mai Alarico si sia trovato sotto le mura di Roma durante il mese di dicembre, dopo una cavalcata di almeno 900 km in due mesi, con armi e bagagli, nonché con colonne di prigionieri. (p. 66).
272
In francese il condizionale presente viene altresì utilizzato con la funzione di “futur
dans le passé” (cfr. Bidaud 1994: 180); in italiano è d’obbligo la resa mediante il
condizionale passato:
Stilicon, toujours à son idée de récupérer l’Illyricum oriental et d’étendre son influence à l’ensemble de l’Empire, échafauda un plan qui lui permettrait en outre de se défaire de l’usurpateur [...]. Stilicone, ostinato a voler recuperare l’Illirico orientale ed estendere la sua influenza su tutto l’Impero, architettò un piano che gli avrebbe permesso anche di sbarazzarsi dell’usurpatore[...]. (p. 63).
Nel testo di partenza è possibile notare un uso piuttosto diffuso del futuro semplice,
con il medesimo valore di futuro nel passato. Anche in italiano tale tempo verbale può
assolvere la stessa funzione:
Malgré les victoires remportées en 379 et 380, l’insécurité règnera désormais au-delà des montagnes. Nonostante le vittorie riportate nel 379 e nel 380, l’insicurezza regnerà ormai sovrana oltre le montagne. (p. 38).
Ciononostante in qualche caso si è preferito, in sede di traduzione, l’uso del
condizionale passato:
Celui-ci avait dû rentrer d’Afrique à Rome dès l’ouverture de la navigation et, malgré les conseils de Symmaque qui connaissait déjà les menaces qui pesaient sur l’Italie du Nord, gagner Milano où il mourra peu après. Questi era rientrato dall’Africa a Roma non appena riaperti i porti e, nonostante i consigli di Simmaco, che era già a conoscenza delle minacce incombenti sull’Italia settentrionale, era arrivato a Milano, dove sarebbe morto di lì a poco. (p. 38).
3.3. STILE NOMINALE Lo stile nominale, in cui le categorie grammaticali diverse dal verbo hanno funzione
verbale, assolvendo sintatticamente il compito del predicato (cfr. Serianni 1988: 75), è
particolarmente presente all’interno dei saggi del Duval. Si vedano i seguenti esempi:
273
Ce ne sont plus les légions Romaines qui sont encerclées, mais l’empereur lui-même, qui fuit tout tremblant – nulle question de sa blessure! –. Non sono più le legioni romane a essere accerchiate, ma l’imperatore stesso, che fugge tutto tremante – nessun cenno alla sua ferita! –. (p. 226). Tout d’abord, le jugement d’ensemble sur Valentinien. Innanzitutto il giudizio d’insieme su Valentiniano. (p. 227). Même évocation de la guerre contre les Sarmates [...], même mort subite [...]; même mention de ses successeurs.
Stessa rievocazione della guerra contro i Sarmati [...]; stessa morte improvvisa [...]; stessa menzione dei successori. (p. 230). Oeuvres de Gaudence, de Jérôme, d’Hilaire – sans compter Athanase – voilà donc quelques ouvrages utilisés par Rufin. Opere di Gaudenzio, di Girolamo, di Ilario – senza contare Atanasio –, ecco alcune delle opere usate da Rufino. (p. 239). De tout cela, rien, même chez Théodoret, fervent défenseur de Mélèce. Di tutto questo neanche un cenno, nemmeno in Teodoreto, fervido difensore di Melezio. (p. 259).
3.4. PARTICELLE PRONOMINALI EN E Y La lingua francese ricorre con frequenza ai “pronomi avverbiali” en e y, che
corrispondono, rispettivamente, a ne e ci italiani.
In italiano il pronome en può anche non essere tradotto (cfr. Barone 1997: 189). Si
vedano i seguenti esempi:
Il avait cependant rappelé celles-ci pour se couvrir, dans la Préface de sa traduction du Peri Archôn. C’est elle qui est reprise ici, meme si elle est contrebalancée par un jugement également négatif, qui accentue et constate le divorce, sans en fournir d’autre explication que celle de «l’erreur» – errasse –. Tuttavia Rufino si era richiamato a queste per coprirsi le spalle, nella Prefazione alla traduzione del Peri Archôn, che viene ripresa, sebbene sia controbilanciata da un giudizio altrettanto negativo, che accentua e sottolinea il disaccordo, senza fornire altra spiegazione se non quella dell’«errore» – errasse –. (p. 173).
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On ne s’étonnera pas qu’il utilise les reproches, faits par Pamphiles aux adversaires d’Origène, de condamner en bloc ses ouvrages, sans laisser à chacun la possibilité d’en extraire ce qui est bon. Non vi è da stupirsi che egli utilizzi i rimproveri indirizzati da Panfilo agli avversari di Origene, riguardo alla condanna in blocco delle sue opere, senza lasciare a ognuno la possibilità di trarre ciò che c’è di buono. (p. 175). Postumianus, qui n’en est pas à sa première visite à Jérôme, pouvait connaître ces événements. Or, il n’en souffle mot. Postumiano, che non visita Girolamo per la prima volta, probabilmente conosceva tali vicende. Eppure non apre bocca. (p. 182). C’est à l’intérieur de la première partie de ce règne que prend place le récit du concile d’Alexandrie. Celui-ci en occupe même, avec ses prolongements, la partie essentielle [...]. È all’interno della prima parte del regno che trova posto il racconto del concilio di Alessandria. Questo occupa addirittura, con le relative conseguenze, la parte principale [...]. (p. 245).
Per quanto concerne il pronome francese y, esso ha un valore locativo, che il più delle
volte appare del tutto superfluo in italiano (cfr. Barone 1997: 187). Laddove la
localizzazione risultava ovvia, si è optato per l’omissione di tale pronome:
[...] ce n’est pas la mort d’Eudoxe (§ 25, l. 2), mais son départ pour Constantinople en janvier 360 qui y rend possible le transfert litigieux de Mélèce depuis Sébaste d’Arménie. [...] non è la morte di Eudosio (§ 25, l. 2), bensì la sua partenza per Costantinopoli nel gennaio 360 a rendere possibile il controverso trasferimento di Melezio da Sebaste d’Armenia. (p. 246).
Si l’on y regarde bien, la perspective est en effet occidentale [...]. A ben vedere la prospettiva è infatti occidentale [...]. (p. 248). Nous savons en tout cas qu’il est passé par Sirmium, sans y connaître grand succès. Ad ogni modo sappiamo che è passato per Sirmio, dove non riscosse grande successo. (p. 253).
275
Altre volte si è preferito ricorrere all’esplicitazione:
[...] puisque c’est quelquefois jusqu’en Gaule qu’il faut suivre la trace d’un voyageur ou d’un pélerin qui est passé par Aquilée en allant en Palestine ou en en revenant. [...] giacché talvolta bisogna andare fino in Gallia per seguire le tracce di un viaggiatore o di un pellegrino che è passato per Aquileia andando in Palestina o sulla strada del ritorno. (p. 81). Je ne m’arrêterai pas ici à ce long éloge de la Lettre à Eustochium [...]. J’espère pouvoir y revenir ailleurs avec les détails nécessaires. Non mi soffermerò sul lungo elogio della Lettera a Eustochio [...]. Spero di poter ritornare sull’argomento altrove, con i dovuti dettagli. (p. 181).
F. Cavallera, qui cite ce texte et y voit le pendant du jugement très dur de Palladius sur la bascania de Jérôme, croit qu’il concerne l’entourage palestinien de Jérôme, qu’il agaçait par ses critiques acerbes. Cavallera, che cita il testo e vede in esso l’equivalente del durissimo giudizio di Palladio sulla bascania di Girolamo, crede che riguardi la cerchia palestinese di Girolamo, che egli punzecchiava con aspre critiche. (p. 183).
4. ASPETTI LESSICALI 4.1. TOPONIMI E ANTROPONIMI I saggi che costituiscono l’oggetto del presente commento presentano una notevole
ricchezza di toponimi e di antroponimi. A tale riguardo sono stati adottati due
procedimenti traduttivi: la trascrizione, per i nomi di persone e di luoghi che non hanno
un equivalente internazionale; la traduzione, per tutti quei nomi che possono vantare
una “traduzione accettata” (cfr. Newmark 1988: 129), ovvero un equivalente
riconosciuto nella lingua d’arrivo (in primis nomi di personaggi storici e biblici).
Alcuni toponimi tradotti:
Alexandrie -> Alessandria Aquilée -> Aquileia Bethléem -> Betlemme Cyrénaïque -> Cirenaica Chalcis -> Calcide Égypte -> Egitto Palestine -> Palestina
276
Alcuni antroponimi tradotti:
Ambroise de Milan -> Ambrogio di Milano Basile -> Basilio Constance -> Costanzo Constantin –> Costantino Eusèbe de Verceil -> Eusebio di Vercelli Gaudence de Brescia -> Gaudenzio di Brescia Hilaire de Poitiers -> Ilario di Poitiers Jérôme -> Girolamo Jésus Christ -> Gesù Cristo Job -> Giobbe Moïse -> Mosè Paulin de Nole -> Paolino di Nola Rufin d’Aquilée -> Rufino di Aquileia Salluste -> Sallustio Salomon -> Salomone Sulpice Sévère -> Sulpicio Severo
In un caso la traduzione attestata del nome proprio ha portato a invertire le parti del
nome:
Flavius Josèphe -> Giuseppe Flavio (storico ebreo del primo secolo d.C.)
Lo stesso criterio generale relativo all’onomastica è stato seguito per quel che
concerne i titoli delle opere (cfr. infra, § 7.3.2).
4.2. FORESTIERISMI Nei saggi di Yves-Marie Duval si sono riscontrati numerosi forestierismi, in particolar
modo dal latino, dall’italiano e dal greco:
Latinismi: a contrario a fortiori anathema capitula castra claustra comes (“conte”, antico titolo nobiliare latino) crimina doctrina expositio faseli (“vascelli”, variante di phaseli) foedus grosso modo liber / libri de fide
277
librarii magister peditum (“comandante di cavalleria”) martyrium (sorta di mausoleo) mutatis mutandis notarii paroechia schedae summus sacerdos traditiones tumultus Italianismi: bora fiasco imbroglio (reso con “pasticcio”) Grecismi: hypostasis (“ipostasi”) homoousios (“omousia”) ousia (“sostanza”)
Troviamo infine un prestito dal tedesco, Quellenforschung (“ricerca delle fonti”),
nonché un prestito dallo spagnolo, pronunciamento (variante del più frequente
pronunciamiento, “colpo di stato originato da una ribellione di militari” – Zingarelli
2004: 1418).
In sede di traduzione si è optato sempre per la trascrizione, in quanto trattasi di termini
invalsi ormai nell’uso della lingua di arrivo, o comunque glossati, in nota o tra
parentesi, dall’autore stesso.
Il latino è inoltre utilizzato con frequenza da Duval nel citare passi di autori antichi;
anche in questo caso si è deciso di trascrivere il testo latino originale.
4.3. TECNICISMI Come già detto, il grado di specializzazione all’interno dei saggi non è
particolarmente elevato, pertanto non ha posto grosse difficoltà in sede di traduzione. La
terminologia utilizzata appare legata principalmente alla sfera teologico-ecclesiastica.
Tra i tecnicismi appartenenti a tale ambito vale la pena ricordare i seguenti esempi:
apocatastase -> apocatastasi (“ristabilimento di ogni cosa, alla fine dei tempi, secondo l’ordine voluto da Dio; dottrina di Origene secondo cui tutti i peccatori riceverebbero alla fine il perdono da Dio” – Demauro 2000: 143);
278
dédicace -> dedicazione (“cerimonia con cui si consacra al culto un luogo sacro” – Demauro 2000: 663); invention -> invenzione (“ritrovamento di una reliquia” – Demauro 2000: 1282); métensomatose -> metensomatosi (“passaggio da un corpo a un altro” – Zingarelli 2004: 1095); translation -> traslazione (“trasferimento delle reliquie di un santo dal sepolcro a un luogo di venerazione” – Demauro 2000: 2779).
4.4. ESPRESSIONI IDIOMATICHE
Nei saggi tradotti non mancano le espressioni idiomatiche, il cui senso non può essere
dedotto basandosi sul significato autonomo delle singole parole che le compongono.
Tali espressioni hanno sempre trovato un equivalente nella lingua di arrivo:
Mais le Goth a pu aussi penser qu’en débouchant de la sorte dans les plaines de l’Italie du Nord, il ferait main basse sur les récoltes engrangées. Ma forse il Goto ha pensato anche che comparendo così all’improvviso sulle pianure dell’Italia settentrionale, avrebbe fatto man bassa delle raccolte accumulate. (p. 56). Sans doute faut-il franchir le pas et attribuer ces fragments, et probablement le «Liber» lui-même, à Rufin, qui pouvait, par cette dédicace à un évêque de renom, se mettre à l’abri d’un certain nombre d’attaques. Forse bisognerebbe tagliar la testa al toro e attribuire questi frammenti, e con ogni probabilità il «Liber» stesso, a Rufino, il quale poteva così, mediante la dedica a un vescovo rinomato, mettersi al riparo da un certo numero di attacchi. (p. 162). Rufin ne dit mot de la question [...]. Rufino non apre bocca sulla questione [...]. (p. 205).
Da ultimo citiamo un’originale quanto interessante unione di due locuzioni
idiomatiche simili:
Pour se remplir la poche ou le ventre, ils partaient prêcher [...]. Per riempirsi le tasche e la pancia andavano a predicare [...]. (p. 209).
279
4.5. CITAZIONI E INTERTESTUALITÀ Nei saggi in esame l’autore ricorre con frequenza a citazioni e a riferimenti
intertestuali, fenomeno che rivela la sostanziale funzione informativo-argomentativa del
testo francese. Si tratta essenzialmente di rimandi storici e religiosi.
I riferimenti religiosi sono alquanto frequenti, dato il tema trattato dall’autore: sono
infatti individuabili nel testo numerose citazioni da testi sacri. Molte anche le citazioni
tratte da opere storiche, antiche e coeve.
In sede traduttiva le citazioni sono state per lo più trascritte, laddove riportate
dall’autore in lingua originale (la lingua source è quasi sempre il latino). Solo in
qualche caso si è fatto ricorso alla traduzione, qualora il testo citato si presentasse in
lingua francese.
Infine è importante ricordare che i testi citati appaiono sovente in nota, quindi, per
usare un termine coniato da Gérard Genette (1987: 10), nel “peritesto”.
5. ASPETTI STILISTICI 5.1. IL REGISTRO Per quanto concerne il registro linguistico del testo preso in esame, Yves-Marie Duval
utilizza un registro medio (cfr. Dardano & Trifone 1989: 47-48). I saggi tradotti
risultano piuttosto accessibili: il lessico è infatti semplice e di uso comune e non
presenta vocaboli di difficile comprensione, all’infuori di qualche tecnicismo e
forestierismo (cfr. supra, §§ 4.2. e 4.3.).
Non mancano tuttavia spinte di aulicità da parte dell’autore, riscontrabili in termini
alquanto ricercati (ricordiamo a titolo esemplificativo l’aggettivo parénétique,
“parenetico”, p. 211), ma che si palesano soprattutto in alcuni tours decisamente
letterari, come si può osservare negli esempi che seguono:
Ce fait peut recevoir mainte attestation. [...] il che è attestato più volte. (p. 35). Ainsi laisse-t-il à ses lecteurs le soin de savoir que Denys et Rhodanius sont morts en exil [...]. Lascia così ai lettori il compito di sapere che Dionigi e Rodanio sono morti in esilio [...]. (p. 246).
280
Rufin développe ce point avec force référence à l’Écriture. Rufino sviluppa questo punto con molti riferimenti alla Scrittura. (p. 249).
Sans doute avait-il fait partie des signataires de Rimini et avait-il pu – ou eu à – bénéficier des mesures compréhensives des «Confesseurs» à Alexandrie. Probabilmente aveva fatto parte dei firmatari di Rimini e aveva potuto – o dovuto – beneficiare delle misure comprensive dei «Confessori» ad Alessandria. (p. 257).
La patina arcaizzante di tali costrutti è andata perduta nella traduzione italiana.
Da ultimo, l’uso di alcuni tempi verbali contribuisce a rendere più aulico il periodare
dell’autore: trattasi di tempi scarsamente utilizzati nella lingua comune e riservati ormai
alla lingua letteraria (cfr. Riegel 2001: 328) quali il passé antérieur (trapassato remoto)
e il subjonctif imparfait (congiuntivo imperfetto):
Pourtant, dès le Ve siècle, la présentation de la vie d’Athanase, et en particulier de la persécution qu’il a eu à subir de la part des empereurs, a été mise en cause par l’historien Socrate le Scolastique, après qu’il eut découvert, par une exploitation des oeuvres mêmes d’Athanase, que l’évêque d’Alexandrie, contrairement à ce que disait Rufin, avait été envoyé une première fois en exil par Constantin lui-même. [...] les défenseurs d’Andrinople craignaient qu’il ne leur advînt ce qui était arrivé «par le fait du Comte Actus [...]. Rufin dira qu’il l’a plusieurs fois rencontré à ce moment, sans qu’il y eût la moindre remarque.
Del tutto assenti, invece, i colloquialismi.
5.2. LA MISE EN RELIEF La mise en relief è quel procedimento stilistico che consiste nell’“attirer
particulièrement l’attention sur un des éléments de la phrase” (Grevisse 1993: 695). La
focalizzazione di un determinato elemento linguistico può essere ottenuta mediante la
dislocazione, vale a dire lo spostamento dell’elemento da mettere in rilievo dalla sua
posizione normale, oppure ricorrendo ai presentativi (cfr. Bidaud 1994: 377).
L’autore si avvale con frequenza di tali costrutti enfatici, come si vedrà nei prossimi
paragrafi.
281
5.2.1. LA DISLOCAZIONE A SINISTRA La dislocazione a sinistra consiste nell’anticipare in inizio di frase un complemento,
che solitamente viene poi ripreso mediante un pronome atono (cfr. Dardano & Trifone
1997: 443), allo scopo di sottolineare enfaticamente un elemento diverso dal soggetto:
Mais, de la vie économique, il n’est guère de trace [...]. Ma della vita economica non vi è nessuna traccia [...]. (p. 76).
Talora può apparire dislocata un’intera proposizione subordinata, che viene posta
davanti alla principale, al fine di essere enfatizzata:
Qu’il n’en soit pas question dans l’Histoire de l’Église n’a rien d’étonnant [...]. Il fatto che non se ne parli nella Storia della Chiesa non ha nulla di sorprendente [...]. (p. 256).
5.2.2. I PRESENTATIVI Per mettere in rilievo un elemento linguistico l’autore ricorre altresì all’uso dei
presentativi voici, voilà, c’est e là:
Mais, peut-être parce que cet Orient, ravagé depuis des décades, commence à s’épuiser à ses yeux, voici qu’Attila saisit les occasions d’intervenir en Occident [...]. Ecco però, forse perché l’Oriente, devastato da decenni ormai, dà segni di sfinimento, che Attila coglie l’occasione per intervenire in Occidente [...]. (p. 72). C’est vers la Gaule qu’Attila s’ébranla par le chemin des hordes de 405 [...]. È verso la Gallia che mosse Attila, sulla scia delle orde del 405 [...]. (p. 72). C’est dans ces dénonciations de Théophile que Sulpice a trouvé la thèse d’une rédemption du diable [...]. È in queste denunce di Teofilo che Sulpicio ha trovato la tesi della redenzione del diavolo [...]. (p. 177). On a là un nouvel exemple [...]. Ecco qui un nuovo esempio [...]. (p. 229).
282
[...] voilà donc quelques ouvrages utilisés par Rufin.
[...] ecco alcune delle opere usate da Rufino. (p. 239).
Tra le diverse strategie menzionate, quella più utilizzata da Duval riguarda senza
dubbio la costruzione c’est... que/qui, resa in italiano attraverso l’impiego della “frase
scissa” (Berruto 1990: 68), una struttura costituita da due nuclei proposizionali, di cui
uno introdotto dal verbo essere e l’altro da un falso che relativo.
5.3. ALTRE PECULIARITÀ STILISTICHE Tra le varie particolarità stilistiche presenti all’interno dei saggi merita un’attenzione
particolare il ricorso all’inciso (cfr. supra, p. 269). L’autore esprime con frequenza
commenti o supposizioni mediante brevi frasi incidentali racchiuse da due lineette. In
sede di traduzione si è tenuto conto di questo tratto stilistico, rispettando gli interventi
dell’autore:
[...] Honorius fait venir de Dalmatie – par mer? – du ravitaillement en blé et en bétail pour les Huns qu’il enrôla, et qui, encore une fois, durent passer par Aquilée. [...] Onorio fa arrivare dalla Dalmazia – via mare? – approvvigionamenti di grano e di bestiame per gli Unni che aveva arruolato e che, ancora una volta, passarono per Aquileia. (p. 68). Il ne faudra pas attendre la fin du siècle avant que le sort de l’Italie – on ne peut plus dire l’Empire d’Occident – ne se décide à nouveau [...]. Non occorre attendere la fine del secolo perché la sorte dell’Italia – non si può più dire dell’Impero d’Occidente – si decida di nuovo [...]. (p. 77). En effet, un indice très éloquent nous permet de voir comment Jérôme se met – maladroitement – à l’abri de reproches qui pourraient lui venir d’Aquilée [...]. Un indizio molto eloquente consente di vedere come Girolamo si metta – maldestramente – al riparo dai rimproveri che potevano giungergli da Aquileia [...]. (p. 101).
Un’altra peculiarità stilistica che caratterizza i saggi in esame è il frequente ricorso a
proposizioni interrogative. Sono infatti numerose le domande che introducono dubbi o
considerazioni dell’autore, volte a far riflettere il lettore e a catturare la sua attenzione
su taluni aspetti. Anche questo tratto stilistico è stato mantenuto in sede di traduzione:
283
Cette déclaration concerne-t-elle la prise initiale et le contrôle actuel d’Émona et de ses abords? ou Honorius nous informe-t-il ici de la main-mise qu’excercerait déjà Alaric sur une partie de l’Italie septentrionale atteinte par le Tarvisio? Il est difficile de se prononcer avec sécurité. Tale dichiarazione riguarda forse la presa iniziale e il controllo attuale di Emona e dintorni? Oppure Onorio ci informa in merito al dominio esercitato da Alarico su una parte dell’Italia settentrionale raggiunta attraverso Tarvisio? È difficile pronunciarsi con certezza sulla questione. (p. 63). Que se serait-il passé si l’évêque d’Aquilée était intervenu? Les choses étaient peut-être allées trop loin? Che cosa sarebbe successo se fosse intervenuto il vescovo di Aquileia? La situazione si era forse spinta troppo oltre? (p. 74).
Talvolta l’autore si avvale di questo espediente per creare un effetto di suspense:
C’est qu’Alaric s’est à nouveau mis en mouvement à l’intérieur de l’Illyricum. Marchera-t-il vers l’est ou vers l’ouest? Alarico, infatti, si è nuovamente messo in cammino all’interno dell’Illirico. Avanzerà verso est o verso ovest? (p. 61).
Parimenti, con l’intento di porre l’accento su determinati fatti o su singole parole,
Duval fa largo uso di espedienti grafici quali il corsivo e le virgolette:
Faut-il dire que nous soyons ici devant une nouvelle invasion barbare? Ci troviamo di fronte a una nuova invasione barbarica? (p. 77). [...] Chromace a une formation occidentale, qui n’a été profondément modifiée, si nous pouvons en juger par ses oeuvres, par les apports «orientaux» postérieurs, que ceux-ci soient l’oeuvre d’Ambroise, de Jérôme, ou de Rufin. [...] Cromazio gode di una formazione occidentale, che non è stata profondamente modificata, a giudicare dalle sue opere, dai successivi contributi «orientali», che si tratti dell’opera di Ambrogio, di Girolamo o di Rufino. (p. 113). Que l’on prenne l’esquisse présente pour une nouvelle contestation de la thèse de Glas: l’histoire et l’application du concile d’Alexandrie n’a aucun pendant chez les historiens orientaux et, s’il est question d’Antioche, c’est parce que Lucifer a commencé là le schisme dont les effets se sont fait sentir en Occident durant au moins quarante ans.
284
Si prenda la presente traccia come una nuova contestazione della tesi di Glas: la storia e l’attuazione del concilio di Alessandria non hanno nessun equivalente presso gli storici orientali e, se si parla di Antiochia, è perché Lucifero ha iniziato lì lo scisma, i cui effetti si sono fatti sentire in Occidente per almeno quarant’anni. (p. 258).
6. PUNTEGGIATURA Anche l’interpunzione è stata investita dal processo traduttivo, poiché anch’essa
obbedisce alla struttura linguistica cui appartiene e ogni lingua la impiega in modo
diverso (cfr. Benelli 2001: 130).
6.1. PUNTO FERMO Al di là dell’equivalenza d’impiego, tra le due lingue, di tale segno interpuntivo, vale
la pena notare che il punto viene spesso impiegato al posto di altri segni, quali il punto e
virgola e la virgola, contribuendo così allo “stile spezzato” proprio della
giustapposizione:
Jérôme passe par la Cappadoce et Antioche. Rufin par l’Égypte. Girolamo passa per la Cappadocia e per Antiochia, Rufino per l’Egitto. (p. 81). Nous l’avons vu arriver à Antioche. Il n’ira pas plus loin avant 385. Lo abbiamo visto arrivare ad Antiochia; prima del 385 non andrà oltre. (p. 87). Ce qui ne me semble pas le cas. Contrairement à Rufin. Ma non mi sembra sia così. A differenza di Rufino. (p. 257).
6.2. VIRGOLA La virgola è stata omessa dopo i complementi circostanziali posti a inizio frase. In
italiano tale uso della virgola è infatti superfluo:
À Antioche, Jérôme retrouve Évagre [...]. Ad Antiochia Girolamo ritrova Evagrio [...]. (p. 87).
285
En 374 et 375, le Moyen-Danube est plusieurs fois envahi [...]. Nel 374 e nel 375 il medio Danubio viene invaso ripetute volte [...]. (p. 91).
Spesso la virgola è stata sostituita dalla congiunzione copulativa affermativa e per
correlare gli ultimi due termini di una sequenza:
C’est dire que tout élément nouveau, par ses apports propres, par les révisions qu’il entraîne, par ses confirmations aussi, constitue un acquis précieux, et en laisse espérer d’autres. Ciò significa che qualsiasi elemento nuovo, con il suo contributo particolare, con i riesami che comporta e anche con le sue conferme, costituisce una conquista preziosa, e ne lascia sperare altre. (p. 140).
In numerosi casi è stata aggiunta una virgola prima del pronome che introduce una
proposizione relativa:
Il faut peut-être réserver le cas de l’In Ionam [...] mais le cas est assez net pour Habacuc dont le Cantique est utilisé et commenté à deux reprises. Costituisce forse un’eccezione il caso dell’In Ionam [...] ma il caso è piuttosto chiaro per Abacuc, il cui Cantico viene usato e commentato due volte. (p. 112). Elles expliquent la réaction de Rufin qui compose à ce moment son Apologie à Anastase. Ciò spiega la reazione di Rufino, che compone in quel periodo l’Apologia ad Anastasio. (p. 147).
Talvolta in italiano si è sentita la necessità di fare una pausa più lunga nel discorso; la
virgola del testo francese è stata pertanto sostituita con un punto e virgola o con un
doppio punto:
[...] Jérôme prit soin de le faire parvenir lui-même à Rufin à Aquilée, par l’intermédiaire d’un marchand qui ne toucha terre que deux jours, le temps simplement de décharger et recharger son navire. [...] Girolamo ha cura di farla arrivare personalmente ad Aquileia da Rufino, tramite un commerciante che toccò terra solo per due giorni: giusto il tempo di scaricare e ricaricare la nave. (p. 100).
286
6.3. PUNTO E VIRGOLA Impiegato solitamente “per collegare gruppi di proposizioni nello stesso periodo, al
fine di evitare interruzioni nell’esposizione e nella comprensione dell’unità di pensiero”
(Marinucci 1996: 52), il punto e virgola è stato in qualche caso sostituito dalla virgola:
Le contresens est révélateur; car la Sagesse de Salomon était contestée, par Jérôme entre autres. Il controsenso è rivelatore, poiché la Sapienza di Salomone era contestata, da Girolamo ad esempio. (p. 217).
6.4. DUE PUNTI Nel testo di partenza i due punti sono impiegati, in combinazione con le virgolette, per
introdurre una citazione e riportare le parole di qualcuno. Oltre a ciò, a seconda del
contesto in cui si trova, tale segno di interpunzione può svolgere diverse funzioni:
- Introdurre un’enumerazione o una sequenza:
[...] dans un ordre différent et erroné: Denis (de Milan), Eusèbe (de Verceil), Paulin (de Trèves), Rhodanius (de Toulouse), Lucifer (de Cagliari), puis Hilaire (de Poitiers). [...] in ordine diverso ed errato: Dionigi (di Milano), Eusebio (di Vercelli), Paolino (di Treviri), Rodanio (di Tolosa), Lucifero (di Cagliari) e infine Ilario (di Poitiers). (p. 236).
- Introdurre una spiegazione:
L’Italie vit durant deux ans en sécurité: Théodose y séjournant avec son armée, les Barbares n’osent pas mener leurs incursions de ce côté et les troupes confiées à Arbogaste colmatent les brèches ouvertes par les Francs dans la Gaule du Nord-Est durant l’absence de Maxime [...]. L’Italia vive per due anni al sicuro: data la presenza di Teodosio e del suo esercito, i barbari non osano fare incursione da questo lato, e le truppe affidate ad Arbogaste tappano i buchi lasciati aperti dai Franchi nella Gallia nordorientale durante l’assenza di Massimo [...]. (p. 49).
Benché l’impiego di tale segno sia pressoché identico nelle due lingue, in qualche
caso si è ritenuto opportuno sostituire il punto doppio con un punto e virgola:
287
Postumien répond lui-même à la première de ces questions: il dit avoir eu accès à un autre dossier, constitué, cette fois, par les évêques hostiles à Origène. Lo stesso Postumiano risponde al primo interrogativo; dice di aver avuto accesso a un altro dossier, redatto dai vescovi ostili a Origene. (p. 176). Postumianus déclare qu’il était très troublé par l’attitude de Jérôme: après avoir passé pour suivre Origène, celui-ci était maintenant parmi les premiers à condamner même tous ses écrits.
Postumiano dichiara di essere molto turbato dalla posizione di Girolamo; dopo esser stato preso per sostenitore di Origene, questi è ora tra i primi a condannare tutti i suoi scritti. (p. 179).
6.5. PUNTO INTERROGATIVO Come si è potuto osservare al § 5.3., l’autore si avvale spesso di proposizioni
interrogative, volte a introdurre dubbi e commenti. L’impiego del punto interrogativo,
largamente usato nel testo di partenza, è stato essenzialmente mantenuto in sede di
traduzione.
6.6. PUNTO ESCLAMATIVO Il punto esclamativo ha la funzione di esprimere un’intensità che la sola parola scritta
non è in grado di comunicare. Pur tenendo conto del suo indubbio valore stilistico, in
sede di traduzione tale segno è stato mantenuto solo in pochi casi, mentre il più delle
volte è stato omesso, laddove ritenuto superfluo nella lingua d’arrivo:
[...] les Pannonies connaissent des récoltes abondantes et, déclare Ambroise, «vendaient du blé qu’elles n’avaient pas semé», sans doute parce que les Barbares qui l’habitaient en avaient été – temporairement! – délogés.
[...] la Pannonia conosce raccolte abbondanti e, dichiara Ambrogio, «vendeva il grano che non aveva seminato», probabilmente perché i barbari che vi abitavano erano stati – temporaneamente – scacciati. (p. 43). Mais qui ne voit que ce sont là, pour une bonne partie, mirages d’affamé! Ma è evidente che sono, in buona parte, miraggi di un affamato! (p. 79).
288
[...] l’auteur de la collection confondait vraisemblablement l’un et l’autre! [...] l’autore della collezione probabilmente confondeva l’uno con l’altro. (p. 162). C’est beaucoup demander au lecteur! È chiedere troppo al lettore! (p. 256).
6.7. PUNTINI DI SOSPENSIONE L’autore ricorre costantemente all’uso dei puntini di sospensione, che hanno la
funzione di indicare una frase lasciata incompleta, volontariamente o per cause esterne,
oppure una pausa non grammaticale che può segnalare un’esitazione del locutore o il
rilievo attribuito a un dato termine (cfr. Grevisse 1993: 165-166).
Benché tale segno interpuntivo rivesta, nella nostra lingua, una funzione del tutto
analoga, si è deciso in molti casi per la sua omissione, laddove ritenuto innecessario:
Si telle est la date de ce «Livre à Gaudence», nous aurons une fois de plus l’occasion [...] de deviner l’existence d’un réseau de relations entre la Palestine et l’Italie du Nord beaucoup plus serré que les textes actuellement à disposition permettent de le mettre en évidence... à moins que nous ne soyons conviés par l’étude même de ces fragments à proposer une autre solution... et un autre auteur. Se è questa la data del «Libro a Gaudenzio», avremo occasione [...] di scoprire l’esistenza di una rete di relazioni tra la Palestina e l’Italia settentrionale ben più fitta di quanto i testi attualmente a disposizione consentano di mettere in evidenza, salvo essere invitati dallo studio di questi frammenti a proporre un’altra soluzione e un altro autore. (p. 141).
[...] la traduction par Rufin des homélies d’Origène sur l’Octateuque circule déjà sous le nom de... Jérôme. [...]la traduzione di Rufino delle Omelie sull’Ottateuco di Origene circola già sotto il nome di Girolamo. (p. 163).
6.8. VIRGOLETTE Le virgolette sono generalmente utilizzate per segnalare e delimitare titoli e citazioni.
Talvolta l’autore ricorre a tale segno per “dare evidenza a una o più parole, per
sottolinearne un particolare significato, per mettere in rilievo la stranezza” (Dardano &
Trifone 1985: 398):
289
À l’intérieur cependant du siècle – 350-452 – que j’ai choisi pour illustrer ce rôle de «porte de l’Italie» qu’a joué Aquilée, je ne me limiterai pas aux invasions barbares. Nel corso del secolo da me scelto (350-452) per illustrare il ruolo di «porta d’Italia» rivestito da Aquileia, non mi limiterò alle invasioni barbariche. (p. 16). Je ne suis pas loin de croire que ces «vagues» ont été de moins en moins fortes. Non sono lontano dal credere che le «ondate» siano state sempre meno violente. (p. 19).
6.9. PARENTESI E LINEETTE Le parentesi hanno la funzione di aggiungere all’enunciato un’indicazione secondaria,
che può consistere in un commento, in un’anticipazione o in una spiegazione aggiuntiva
a quanto detto. Tuttavia, all’interno dei saggi in esame, tale ruolo è rivestito dalle
lineette, che, come si è visto (cfr. supra, § 5.3), aprono e chiudono numerosi incisi.
In sede di traduzione le virgole hanno talvolta sostituito le lineette, al fine di integrare
maggiormente un’informazione all’interno della frase:
Ces vagues ont quelque chose de quasi monotone – si on ose dire. Tali ondate hanno un che di monotono, se così si può dire. (p. 19). En réalité, lorsqu’il reprend son énumération quelques pages plus loin, il n’ajoute que l’exemple de la cucurbite métamorphosée en lierre – ce qui montre au moins qu’il a porté quelque attention au texte lui-même, ou qu’il s’est souvenu d’une critique qui avait déjà été faite à Rome une dizaine d’années auparavant. In realtà qualche pagina dopo, quando riprende l’elencazione, aggiunge soltanto l’esempio della cucurbita trasformata in edera, il che dimostra che ha posto una certa attenzione al testo e che si è ricordato di una critica che era stata mossa a Roma una decina di anni prima. (p. 206).
7. PROCEDIMENTI TRADUTTIVI 7.1. TRASPOSIZIONE La trasposizione è quel procedimento traduttivo che consiste nel sostituire una parte
del discorso o una categoria grammaticale con un’altra, senza modificare il senso del
290
messaggio (cfr. Vinay & Darbelnet 1977: 50). Questa operazione traduttiva obliqua,
volta a conferire maggior naturalezza nella lingua d’arrivo, riguarda non soltanto “tutte
le parti del discorso (articolo, nome, pronome, verbo, aggettivo, avverbio, preposizione,
congiunzione, interiezione), tutte le categorie grammaticali (predicato verbale, soggetto,
complementi e così via), ma interessa anche periodi e paragrafi interi con unificazioni e
scissioni di enunciati e slittamenti di proposizioni” (Podeur 1993: 35).
In sede di traduzione ci si è avvalsi della trasposizione in numerosi casi.
7.1.1. TRASPOSIZIONE DELLE CATEGORIE GRAMMATICALI PRIMARIE • NOME/VERBO Mentre la lingua francese tende spesso alla nominalizzazione, l’italiano usa con
maggior frequenza il verbo, dal momento che predilige “descrivere un processo
sottolineandone il movimento” (Podeur 1993: 38).
Nel rispetto delle peculiarità delle due lingue, si è optato diverse volte per la
trasposizione nome/verbo:
Cela ne veut aucunement dire que les ponts aient été coupés et que Rufin soit parti sans retour. Ma ciò non significa affatto che siano stati tagliati i ponti, né che Rufino sia partito senza più tornare. (p. 84). Dans le cours de ces deux livres, on trouve de fait mainte attestation d’un recours par Rufin à des écrits ou à des traditions orales [...]. Nel corso di questi due libri troviamo infatti parecchie attestazioni, che provano come Rufino ricorra a scritti e a tradizioni orali [...]. (p. 220).
• VERBO/NOME In qualche caso si è ritenuto opportuno sostituire il verbo con il sostantivo, allo scopo
di alleggerire periodi sintatticamente complessi:
La deuxième remarque est qu’il serait dangereux de se fixer sur cette querelle avec Rufin et de penser qu’elle épuise l’activité de Jérôme et ses rapports avec l’Arc de l’Adriatique. In secondo luogo, sarebbe rischioso focalizzare la propria attenzione sulla controversia con Rufino, nella convinzione che occupi tutta l’attività di Girolamo e tutti i suoi rapporti con l’Arco Adriatico. (p. 102).
291
• NOME/AGGETTIVO Si tratta di una trasposizione piuttosto frequente, giacché “il francese si mostra
alquanto sobrio nell’uso dell’aggettivo e non esita a sostituirlo con delle parti del
discorso che non svolgono tradizionalmente un ruolo caratterizzante [...]. Questa
reticenza riguardo all’aggettivo si esprime nell’uso preferenziale del nome [...]” (Podeur
1993: 42):
[...] qui connaissait déjà les menaces qui pesaient sur l’Italie du Nord [...]. [...] che era già a conoscenza delle minacce incombenti sull’Italia settentrionale [...]. (p. 38).
• NOME + AGGETTIVO > ALTERATO Questo tipo di trasposizione è frequente, poiché l’italiano, a differenza del francese, ha
la possibilità di modificare il lessema base attraverso i suffissi alterativi, evidenziandone
particolari caratteristiche legate all’idea di grandezza e piccolezza, nonché a valori
soggettivi espressi dal parlante, quali tenerezza, benevolenza, disprezzo, giudizio
positivo o negativo (cfr. Marinucci 1996: 429). Si veda a tale proposito il seguente
esempio:
Il répliqua à Rufin dans une lettre méchante [...]. Rispose, infatti, a Rufino con una letteraccia [...]. (p. 100).
• NOME/AVVERBIO E AVVERBIO/NOME Questo tipo di trasposizione appare legato “da una parte alla tendenza francese alla
nominalizzazione, dall’altra alla riluttanza della stessa lingua a creare ed usare gli
avverbi in –ment” (Podeur 1993: 46):
[...] A. Glas a affirmé que les deux livres de Rufin dérivaient pour l’essentiel d’un modèle grec [...]. [...] A. Glas ha affermato che i due libri di Rufino derivano essenzialmente da un modello greco [...]. (p. 221). [...] Jérôme a présenté de façon elliptique le différend entre Damase et Ursinus.
292
[...] Girolamo ha presentato ellitticamente la controversia tra Damaso e Ursino. (p. 228).
Talvolta la trasposizione opera in senso opposto:
La question que l’on peut se poser est de savoir si ces livres n’étaient pas particulièrement employés dans la région d’Aquilée [...]. L’eventuale domanda da porsi sarebbe se questi libri non fossero utilizzati in modo particolare nella regione di Aquileia [...]. (p. 199).
• VERBO/VERBO + AVVERBIO In italiano è frequente l’uso degli avverbi deittici, che hanno la funzione di precisare
l’aspetto di un verbo, dare un’indicazione concreta del movimento che accompagna il
processo descritto o precisarne la collocazione spaziale; nel passaggio dal francese
all’italiano il ricorso ai deittici è indispensabile se si vuole ottenere un’effettiva
ambientazione nella lingua d’arrivo (cfr. Podeur 1993: 48-50):
[...] avant de rapporter la falsification qui en avait été faite et qui éclata lors de l’audience de Milan. [...] prima di far riferimento alla falsificazione che era stata fatta e che venne fuori durante l’udienza di Milano. (p. 158).
• VERBO/VERBO + SINTAGMA NOMINALE
Il en sera de même lorsque Narsès, à la tête de contingents... Lombards, achèvera la conquête de l’Italie. Lo stesso vale per Narsete, che porterà a termine la riconquista dell’Italia a capo di contingenti lombardi. (p. 77). L’année suivante, de fait, Héraclius reviendra [...]. L’anno successivo Eraclio vi farà ritorno [...]. (p. 103).
293
• AGGETTIVO POSSESSIVO/ARTICOLO
[...] Chromace a perdu son frère Eusèbe [...]. [...] Cromazio ha perso il fratello Eusebio [...]. (p. 96). [...] P. Meyvaert entame son étude des fragments [...]. [...] P. Meyvaert intraprende lo studio dei frammenti [...]. (p. 144).
• AGGETTIVO DIMOSTRATIVO/ARTICOLO
On trouvera dans ces pages suivantes un appel au Credo d’Aquilée [...]. Si troverà nelle pagine seguenti un appello al Credo di Aquileia [...]. (p. 159). Cette opinion se fonde sur les lectures personnelles que Postumien assure avoir faites. L’opinione si basa sulle letture personali che Postumiano assicura di aver fatto. (p. 174).
• ARTICOLO INDETERMINATIVO/ARTICOLO DETERMINATIVO
[...] après qu’il eut découvert, par une exploitation des oeuvres mêmes d’Athanase, que l’évêque d’Alexandrie, contrairement à ce que disait Rufin, avait été envoyé une première fois en exil par Constantin lui-même. [...] dopo che questi ebbe scoperto, grazie all’analisi delle opere di Atanasio, che il vescovo di Alessandria, contrariamente a quanto afferma Rufino, era stato mandato una prima volta in esilio da Costantino. (pp. 220-221).
7.1.2. TRASPOSIZIONE DELLE CATEGORIE GRAMMATICALI SECONDARIE Talvolta si è ritenuto opportuno operare un cambiamento di numero nell’uso dei
sostantivi, al fine di ottenere una resa più idiomatica.
294
• PLURALE/SINGOLARE
Dans l’intervalle, cependant, il avait eu l’occasion de se fourvoyer dans une autre mauvaise querelle dont les échos ont dû parvenir à Aquilée pendant plusieurs années. Nel frattempo Girolamo aveva avuto modo di lasciarsi coinvolgere in un’altra brutta controversia, la cui eco si è fatta sentire ad Aquileia per diversi anni. (p. 100).
• SINGOLARE/PLURALE
[...] c’est pour faire pièce aux Gaulois qui avaient franchi les Alpes et avaient commencé à s’installer au pied des Alpes Juliennes que la colonie fut déduite en 181 avant notre ère. [...] è infatti per opporsi ai Galli, che avevano varcato le Alpi e cominciato a insediarsi ai piedi delle Alpi Giulie, che la colonia fu dedotta nel 181 a.C. (p. 16).
7.1.3. TRASPOSIZIONE E ORGANIZZAZIONE SINTATTICA Come affermato in precedenza, la trasposizione può interessare non solo le categorie
grammaticali, ma anche l’organizzazione sintattica.
In molte occasioni tale procedimento traduttivo diventa una scelta obbligata, giacché
l’ordine dei costituenti può variare a seconda della lingua. Altre volte si è optato per la
trasposizione per ragioni stilistiche o di maggior chiarezza.
• ORDINE PROGRESSIVO/REGRESSIVO Com’è noto, la lingua francese privilegia la sequenza progressiva, in cui l’ordine
fondamentale degli elementi è del tipo S + V + C. In italiano domina invece l’ordine
regressivo, caratterizzato da una relativa libertà nell’ordine delle parole, che il più delle
volte non corrisponde a una messa in rilievo dell’elemento frastico (cfr. Podeur 1993:
54-55).
- COSTITUENTI DELLA FRASE: SV > VS
Que se serait-il passé si l’évêque d’Aquilée était intervenu? Che cosa sarebbe successo se fosse intervenuto il vescovo di Aquileia? (p. 74).
295
[...] toutefois, comme Rufin le rappellera, ce n’est pas lui, mais Jérôme, qui a porté Origène aux nues [...]. [...] tuttavia, come ricorderà Rufino, non è lui bensì Girolamo ad aver osannato Origene [...]. (p. 161).
- SINTAGMA NOMINALE: TESTA + MODIFICATORE > MODIFICATORE + TESTA
La première alerte serieuse eut lieu en 373. Il primo grave allarme si registrò nel 373. (p. 35). On connaît les textes célèbres d’Ambroise [...]. Conosciamo i famosi testi di Ambrogio [...]. (p. 36).
• FORMA ATTIVA/FORMA PASSIVA Si tratta di una trasposizione piuttosto frequente nel passaggio dal francese
all’italiano; benché la forma passiva sia usata in entrambe le lingue, si rileva una
maggior propensione dell’italiano verso tale diatesi:
Il est, d’autre part, au courant des événements les plus récents d’Alexandrie par ceux qui sont envoyés porter des secours à ceux que l’empereur Valens a exilés d’Alexandrie en 373-374. D’altra parte è al corrente degli eventi più recenti di Alessandria, grazie a coloro che sono stati inviati a portare soccorso a chi è stato esiliato da Alessandria, per volontà dell’imperatore Valente, nel 373-374. (p. 89).
• PROPOSIZIONE ESPLICITA/PROPOSIZIONE IMPLICITA
Quant à sa tante Castorina, il dit explicitement qu’il lui a déjà écrit [...]. Per quanto riguarda la zia Castorina, Girolamo dice esplicitamente di averle già scritto [...]. (p. 88).
• PROPOSIZIONE IMPLICITA/PROPOSIZIONE ESPLICITA
Il est vrai qu’inversement on peut s’étonner d’entendre Rufin avouer ignorer le comportement final de Lucifer de Cagliari. Vero è invece che ci si può meravigliare nel sentire Rufino che confessa di ignorare il comportamento finale di Lucifero di Cagliari. (p. 238).
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• TRASPOSIZIONE PROPOSIZIONE PARTICIPIALE/PROPOSIZIONI DI ALTRO TIPO
Ces pages n’ayant pas une valeur dogmatique bien grande, Rufin aurait pu admettre qu’elles rentraient dans les textes “ecclésiastiques”, déstinés à l’édification. Poiché queste pagine non presentavano un grandissimo valore dogmatico, Rufino avrebbe potuto ammettere che rientravano nei testi «ecclesiastici», destinati all’edificazione. (p. 211).
7.2. MODULAZIONE Questo procedimento traduttivo, che riguarda le “categorie di pensiero” (Podeur 1993:
72-73), conduce a un cambiamento del punto di vista (cfr. Vinay & Darbelnet 1977:
51). Si tratta di interventi dettati dalla situazione, dal génie della lingua:
Les choses auraient pu, de fait, mal tourner pour Julien si l’exemple d’Aquilée avait été suivi [...]. La situazione avrebbe potuto prendere una brutta piega per Giuliano, se si fosse seguito l’esempio di Aquileia [...]. (p. 35). Mais Attila, dans la pleine force de l’âge, était loin d’être battu [...]. Tuttavia Attila, ancora nel pieno delle forze, era lungi dall’essere sconfitto [...]. (p. 73).
In corso di traduzione si è passati spesso dalla forma negativa alla forma affermativa;
tale operazione costituisce al tempo stesso una trasposizione e una modulazione,
giacché “implica uno slittamento del punto di vista” (Podeur 1993: 33).
Tale passaggio riguarda soprattutto la forma negativa apparente, vale a dire la
costruzione francese NE + VERBO + QUE:
[...] Ambroise met en garde le jeune empereur contre les sentiments de l’usurpateur qui n’ont de pacifiques que l’apparence [...]. [...] Ambrogio mette in guardia il giovane imperatore dalle intenzioni dell’usurpatore, che di pacifico hanno solo l’apparenza [...]. (p. 44). Rufin n’y invoquait que l’autorité des Pères, des Maiores, jamais des Apôtres [...]. Rufino invocava unicamente l’autorità dei Patres e dei Maiores, mai degli Apostoli [...]. (p. 209).
297
Talvolta si è intervenuti con modulazioni lessicalizzate, ovvero registrate nei dizionari:
Jérôme se met au travail séance tenante. Girolamo si mette seduta stante al lavoro. (p. 99). Or, il n’en souffle mot. Eppure non apre bocca. (p. 182).
7.3. TRASCRIZIONE La trascrizione consiste nel riportare integralmente un certo numero di parole in
lingua originale (cfr. Podeur 1993: 147).
Nei saggi in esame si è ricorsi con particolare frequenza a tale procedimento.
7.3.1. TRASCRIZIONE E ONOMASTICA Il fenomeno della trascrizione ha riguardato in primis l’onomastica (distinta in
toponomastica e antroponomia). Come si è visto (§ 4.1.) non sono mai stati trascritti i
nomi che “hanno una traduzione storicamente acquisita nelle varie lingue e registrata
nei rispettivi dizionari” (Podeur 1993: 171). Per gli esempi si rimanda al § 4.1. (supra,
pp. 275-276).
7.3.2. TRASCRIZIONE E TITOLI Nel trasporre i titoli di opere si è seguito il criterio suggerito dalla Podeur (1993: 178),
secondo cui se “il titolo di un’opera ha una traduzione riconosciuta, essa viene sempre
utilizzata, mentre la trascrizione rimane d’obbligo se il testo non è mai stato tradotto”.
Gli esempi che seguono illustrano il comportamento adottato in sede di traduzione:
Le premier texte appartient au Contre Apion de Flavius Josèphe. Il primo testo appartiene al Contro Apione di Giuseppe Flavio [...]. (p. 213). Ce faisant, même s’il ne dit pas explicitement que la Sagesse de Salomon, l’Ecclésiastique, les Livres des Macchabées n’existent pas en hébreu, il renonce implicitement à l’autorité, sacrée pour lui, de la Septante, dans laquelle ils ont pris place.
298
Così facendo, sebbene non affermi esplicitamente che la Sapienza di Salomone, l’Ecclesiastico e i Libri dei Maccabei non esistono in ebraico, implicitamente rinuncia all’autorità, per lui sacra, della Settanta, in cui trovano spazio. (p. 217). L’Expositio Symboli n’est certes pas d’abord un ouvrage polémique [...]. L’Expositio Symboli di certo non nasce come opera polemica [...]. (p. 202).
7.4. STRATEGIE DI ESPANSIONE E DI RIDUZIONE Tradurre non significa semplicemente trasporre “les mots-source par les mots-cible
selon une correspondance supposée bi-univoque entre les uns et les autres” (Ladmiral
1979: 16).
L’espansione è un procedimento traduttivo che consiste nell’aumentare il numero di
costituenti all’interno di una frase nel testo di arrivo rispetto al testo di partenza.
In alcuni casi sono state operate espansioni al fine di rendere il testo più chiaro e
scorrevole in italiano:
Il est difficile de se prononcer avec sécurité. È difficile pronunciarsi con certezza sulla questione. (p. 63). Seule la seconde sera commentée sur le moment [...]. Soltanto la seconda lezione sarà commentata subito [...]. (p. 168).
In numerosi altri casi si è ritenuto opportuno attuare strategie di riduzione, sì da
eliminare i segmenti superflui e non conformi al “livello di naturalezza” (Newmark
1988: 25) della lingua di arrivo.
In particolare nella traduzione sono stati omessi quasi completamente gli articoli
partitivi e gli aggettivi possessivi ridondanti.
Per quanto concerne l’articolo partitivo, esso pone “des problèmes aux italophones
parce qu’il est beaucoup moins utilisé en italien qui, comme l’ancien français, préfère
souvent l’article zéro” (Bidaud 1994: 33-34). Nel testo di arrivo si è dunque optato per
la sostituzione di tale articolo o, ancor più frequentemente, per la sua omissione:
299
Il est venu à Milan trois ans à peine après la mort de l’évêque et il a été en contact avec des fidèles d’Ambroise, comme Gaudence, déjà nommé, ou Chromace, l’évêque pour le troupeau de qui il compose cette Histoire. È venuto a Milano dopo appena tre anni dalla morte del vescovo ed è stato in contatto con i fedeli di Ambrogio, quali Gaudenzio, già nominato, e Cromazio, il vescovo per il cui gregge compone questa Storia. (p. 229). Mais, au-delà des symboles, il y a des réalités. Ma al di là dei simboli, vi sono dati di fatto. (p. 82). Je voudrais aborder des questions apparemment plus tangibles et cependant beaucoup moins faciles à appréhender [...].
[...] vorrei affrontare questioni apparentemente più tangibili, sebbene molto meno facili da comprendere [...]. (p. 120).
Anche per quanto riguarda gli aggettivi possessivi il francese si comporta
diversamente rispetto al nostro idioma, collocandoli anche laddove in italiano possono
essere omessi, ovvero quando la relazione con il possessore è evidente e facilmente
rilevabile dal contesto (cfr. Marinucci 1996: 130).
Pertanto, in sede di traduzione, laddove non sussisteva ambiguità riguardo al possesso,
tale aggettivo è stato sostituito con l’articolo determinativo (per gli esempi vedi supra, §
7.1.1.).
Inoltre, come già ricordato (§ 3.4.), nel passaggio dal testo francese a quello italiano le
particelle pronominali en e y sono state omesse nei casi in cui risultavano superflue (per
gli esempi si rimanda al paragrafo 3.4.).
Anche l’aggettivo indefinito même è stato omesso laddove ritenuto ridondante:
Mais qui sont ceux qui accusent Jérôme d’être lui-même hérétique, et en quoi consisterait son hérésie? Ma chi sono coloro che accusano Girolamo di essere un eretico e in cosa consisterebbe la sua eresia? (p. 183). [...] à cause du trouble jeté par Jérôme en Occident, mais aussi à Jérusalem même [...]. [...] a causa dello scompiglio creato da Girolamo in Occidente e anche a Gerusalemme [...]. (p. 188).
300
L’ultimo caso di riduzione che affronteremo in questa sede riguarda la cosiddetta
“dittologia sinonimica”, figura di parola che consiste nella congiunzione di due vocaboli
simili nel significato e rispondente alla tecnica dell’amplificazione che produce
ridondanza (cfr. Mortara Garavelli 1988: 214). Tale accostamento di due termini,
sovente legati da allitterazione, è stato ridotto a un termine solo, in nome di una maggior
scorrevolezza:
Je me contente de renvoyer ici aux bibliographies des ouvrages de Fl. Ghizzoni et Cl. Stancliffe cités à la note suivante, qui fournissent cette liste impressionante et importante. Mi limiterò a rimandare alla bibliografia delle opere di Fl. Ghizzoni e di Cl. Stancliffe, citate nella nota seguente, che forniscono un elenco considerevole. (p. 164).
301
BIBLIOGRAFIA
Bibliografia dell’autore Per una bibliografia completa delle opere di Yves-Marie Duval (dal 1958 al 2003) si veda il volume curato da Benoît Gain, Pierre Jay e Gérard Nauroy, Chartae caritatis, Études de patristique et d’antiquité tardive en hommage à Yves-Marie Duval, Paris, Institut d’Études Augustiniennes, 2004, pp. 7-17. Testi di teoria della traduzione Arcaini E., Italiano e francese: un’analisi comparativa, Torino, Paravia scriptorium, 2000. Arcaini E., “Modelli teorici per la traduzione”, La traduzione. Saggi e documenti, 1, Direzione scientifica di E. Arcaini, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Roma, Divisione Editoria, 1992, pp. 15-25. Ballard M., Le nom propre en traduction, Paris, Ophrys, 2001. Barone C., Viceversa, Firenze, Le Lettere, 1997. Benelli G., “Tradurre verso l’italiano”, in Calabrò G. (a cura di), Teoria, didattica e prassi della traduzione, Napoli, Liguori Editore, 2001, pp. 129-141. Ladmiral J.-R., Traduire: théorèmes pour la traduction, Paris, Payot, 1979. Newmark P., La traduzione: problemi e metodi, trad. it. di F. Frangini, Milano, Garzanti, 1988. Podeur J., La pratica della traduzione. Dal francese in italiano e dall’italiano in francese, Napoli, Liguori Editore, 1993. Podeur J., Nomi in azione. Il nome proprio nelle traduzioni dall’italiano al francese e dal francese all’italiano, Napoli, Liguori Editore, 1999. Raccanello M., “La traduttologia in Francia”, in Ulrych M. (a cura di), Tradurre: un approccio multidisciplinare, Torino, UTET, 1997, pp. 263-289. Rega L., La traduzione letteraria, Torino, UTET, 2001. Scarpa F., La traduzione specializzata, Milano, Hoepli, 2001. Vinay J.-P., Darbelnet J., Stylistique comparée du français et de l’anglais, Paris, Didier, 1977.
302
Grammatiche Bidaud F., Grammaire du français pour italophones, Firenze, La Nuova Italia, 1994. Dardano M., Trifone P., La lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1985. Dardano M., Trifone P., Grammatica italiana con nozioni di linguistica, Bologna, Zanichelli, 1989. Dardano M., Trifone P., La nuova grammatica della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1997. Grevisse M., Le bon usage. Grammaire française, 13e éd. refondue par Goosse A., Paris, Duculot, 1993. Marinucci M., La lingua italiana. Grammatica, Milano, Mondadori, 1996. Renzi L. (a cura di), Grande grammatica italiana di consultazione, Bologna, Il Mulino, 1991. Riegel M. et al., Grammaire méthodique du français, Paris, PUF, coll. Quadrige, 2001. Schena L., Grammaire du verbe français à l’usage des spécialistes italophones. L’indicatif, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1989. Serianni L., Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria, Torino, UTET, 1988. Dizionari AA.VV., Dictionnaire de la langue française, Lexis, Paris, Larousse, 1992. AA.VV., DIF, Dizionario francese-italiano/italiano-francese, Torino, Paravia, 1999. AA.VV., Grand Larousse de la langue française, Paris, Larousse, 1978. Beccaria G.L. (a cura di), Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, Torino, Einaudi, 1996. Boch R., Il Boch quarta edizione. Dizionario francese-italiano/italiano-francese, Bologna, Zanichelli, 2000. De Mauro T., Il dizionario della lingua italiana, Torino, Paravia, 2000. Robert P., Le Grand Robert de la Langue Française, 10e éd. dirigée par Alain Rey, Paris, Dictionnaires Le Robert, 2001. Robert P., Le Nouveau Petit Robert. Dictionnaire alphabétique et analogique de la langue française, Paris, Dictionnaires Le Robert, 2006. Zingarelli N., Lo Zingarelli 2005. Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 2004.
303
Altri testi consultati Berretta M., “Morfologia”, in Sobrero A. (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo. Le strutture, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 193-245. Berruto G., Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1990. Berruto G., “Varietà diamesiche, diastratiche, diafasiche”, in Sobrero A. (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 37-92. Genette G., Seuils, Paris, Seuil, 1987. Mortara Garavelli B., Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 1988. Simone R., Fondamenti di linguistica, Roma-Bari, Laterza, 1995. Ulrych M. (a cura di), Terminologia della traduzione, Milano, Hoepli, 2002.
RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare innanzitutto il Prof. Graziano Benelli, relatore del
presente elaborato, e la Prof.ssa Manuela Raccanello, correlatrice, per la loro
grande disponibilità, serietà e cortesia. Ringrazio altresì il Prof. Cuscito per la
sua attenta opera di revisione.
Non posso esimermi dall’inviare un sentitissimo ringraziamento all’intera
Facoltà: sono orgoglioso di aver frequentato per cinque anni la prestigiosa
SSLMIT e di aver conosciuto professori altamente preparati ma soprattutto
stimolanti, i quali mi hanno consentito di imparare un’arte, e non semplicemente
un mestiere.
Ringrazio la mia famiglia (Renato, Franca, Federica, la nonna Anna), per
avermi permesso di studiare e di arricchire le mie conoscenze, facendomi così
diventare un uomo.
Ringrazio Stefania, la mia “super-fidanzata”, per essermi stata sempre
accanto, anche quando davo il peggio di me. So che hai sempre fatto il tifo per
il sottoscritto, non hai idea di quanto questo mi abbia aiutato a tener duro e a
dare il massimo, giorno dopo giorno, per cinque lunghi anni. Grazie angelo mio,
ti amo più della mia stessa vita.
Ringrazio Matteo, il mio migliore amico. Sei come un fratello per me, ci sei
sempre stato e so che ci sarai sempre. Sei l’amico a cui sono legato da più
tempo. Ti voglio bene frà!
Ringrazio Petty, il mio carissimo Petty. Non ho mai avuto un’intesa tale con
nessun altro amico, per questo sei unico per me. La nostra amicizia è
preziosissima. Ti voglio un sacco bene amicone.
Ringrazio Felix, una delle persone più serie e determinate che io conosca, per
questo tanto simile a me. Siamo sempre stati in sintonia, spero lo saremo
ancora a lungo. Sappi che ti apprezzo e ti stimo.
Ringrazio Lorenzo (detto Pio Pio), un ottimo amico, gentile e disponibile, una
persona che senza dubbio meriterebbe di più dalla vita. Spero che un giorno la
fortuna ti arrida, amico mio; nel frattempo, tieni duro, e non diventare troppo
cinico.
Ringrazio il mitico Fabio: ti conosco da poco, ma sono molto legato a te. Non
potrò mai dimenticare i nostri allenamenti insieme in palestra (dai ancora una!!!)
e le nostre filosofiche chiacchierate sulla vita di coppia. Ti auguro ogni felicità,
so che tu l’avrai.
Ringrazio Federico Grillo, una persona simpaticissima, solare e amichevole
come poche. Ricorderò sempre i nostri lunghissimi discorsi nella tua jeep e per
telefono. Spero che il futuro ti riservi grosse sorprese, te le meriti.
Ringrazio i miei compagni di corso, in particolar modo Ludo e Umbe. Ci siamo
persi di vista, ma non posso dimenticare i migliori amici che ho avuto qui in
facoltà. Con voi ho condiviso sogni, speranze, lunghe ore sui libri, ma
soprattutto una passione fortissima: l’amore per le lingue. Spero davvero che il
futuro non ci separi ulteriormente.
Ringrazio Valentina Melita, per aver contribuito a realizzare un mio grande
sogno. Ehi collega, mi raccomando, teniamoci in contatto! Ovunque tu sia.
Ringrazio tutti quegli amici che in questi anni ho frequentato poco o
comunque molto meno di quanto volessi, ahimé, specie per motivi di studio
(sono un secchione, lo so): i Gonani (in special modo Marco, il mio migliore
amico ai tempi del liceo), Calogero, Orlando, Ricky, Carlo, Franco, Giovanni Da
Col detto Il Filosofo, Gennaro, Gherardo, Christian...
Ringrazio Cozzu, una gran persona, simpatica come poche. Per me sei
sempre stato un campione, nello sport come nella vita.
Ringrazio Denis e Zorky, gli amici d’infanzia di Petty. Abbiamo passato bei
momenti insieme, ora siamo cambiati tutti quanti, ma ho un ricordo assai
piacevole di voi.
Ringrazio Andrea Potenza, il mio super compagno di banco del liceo. Nel
bene e nel male mi hai insegnato tante cose; è stato un piacere condividere con
te gli anni più divertenti della mia vita.
Ringrazio Gabrio, il mio “datore di lavoro”, una persona davvero in gamba,
simpatica e intraprendente.
Ringrazio i miei carissimi amici sparsi per il mondo, in primis Santiago da
Madrid e Pavlo da Leopoli: con voi ho passato l’estate più bella della mia vita
(2004), ho ricordi bellissimi di voi e degli splendidi posti che ho visitato in vostra
compagnia.
Ringrazio i miei compagni di allenamento della Central Gym (in particolare
Alex, Luciano e Matteo): insieme abbiamo sollevato tonnellate di ghisa, ma
ancora non siamo stufi. Che la passione per il ferro ci accomuni sempre!
Infine vorrei dire grazie a me stesso, per non aver mollato mai. È stata dura,
ma non rimpiango le 14 ore di studio al giorno, le serate chiuso in casa a
studiare (o, più spesso, a tradurre) fino alle 3 di notte, quando tutti (tranne
Stefania) erano fuori a divertirsi, le mattine in cui mi alzavo alle sette per
arrivare puntuale alle 8 a lezione. Rifarei tutto altre mille volte, ne è valsa la
pena. Le soddisfazioni in questi anni sono state innumerevoli, spero non si
concludano qui. In ogni caso il mio motto rimarrà sempre lo stesso: NO PAIN,
NO GAIN.