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IV Domenica di Pasqua Domenica del Buon Pastore
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola.»
Gv 10,27-30
Gesù, il Pastore della vita Nella luce radiosa della quarta domenica di pasqua la liturgia ci fa incontrare la
figura del buon Pastore. La comunità credente riconosce la sua voce, come Maria di
Magdala (Gv 20,16) e si impegna a seguirlo. Ascoltare e seguire sono i verbi che
scandiscono la pericope evangelica di questa domenica: Gv 10,27-30. Come vedremo,
essi delineano due atteggiamenti fondamentali della risposta vocazionale, ma prima
cerchiamo di cogliere lo sfondo biblico che illumina la ricca simbologia del pastore.
Erede dell’esperienza di Giacobbe/Israel, il popolo della Bibbia può dire: “Dio è
stato il mio pastore da quando esisto fino ad oggi” (Gn 48,15). Nell’esodo dall’Egitto e
nella peregrinazione nel deserto Israele sperimenta infatti la provvida cura del suo
Dio. Pur camminando tra mille difficoltà e in valle oscura, il credente non teme alcun
male perché Yhwh è il suo pastore (Sal 23).
Sotto la guida di uomini e donne di Dio i poveri possono condividere i beni della
terra, verdi prati e acqua pura. Non così quando coloro che dovrebbero pascere a
nome del Signore si rivelano lupi rapaci. Il profeta Ezechiele ne denuncia con estrema
franchezza le malefatte: “Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! Non avete
curato le pecore inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le
disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e
violenza...” (Ez 34,2-5).
Dio però non si rassegna. Interviene in prima persona: “Andrò in cerca della
pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò
quella malata” (Ez 34,16). Il nuovo esodo è posto in atto direttamente dal Dio pastore:
“porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri” (Is 40,11).
Su questo sfondo esodale si comprende meglio il linguaggio di Gv 10. Gesù
“chiama le sue pecore per nome e le conduce fuori” (v. 3). È il pastore dell’esodo, la
porta della libertà. Ma c’è di più. Egli si qualifica propriamente come “il pastore,
quello bello (kalos)” (v. 11). Non solo buono e vero, ma bello. E dunque attraente,
affascinante. La bellezza dice il fascino perenne della sua bontà. Diversamente da
ladri e briganti, presunti messia e falsi profeti che saccheggiano e portano morte, Lui è
venuto come servo e pastore della vita: perchè tutti “abbiano vita in
sovrabbondanza” (v. 10).
Il beato Giacomo Alberione era affascinato da questa parola programmatica del
buon pastore: Veni ut vitam habeant. Ancor giovane sacerdote egli si rende conto che
il cristianesimo non è un complesso di cerimonie, di inchini e cose varie, ma è una vita
nuova. “La pastorale è la grande arte di dare Dio agli uomini e dare gli uomini a Dio
in Gesù Cristo”. Tutta la Famiglia Paolina ha una vocazione eminentemente pastorale
in quanto è chiamata a comunicare il Cristo Via, Verità e Vita, Maestro e buon
Pastore.
C’è tutto uno stile e una pedagogia divina nell’arte pastorale di Gesù. Egli non si
limita a contare le sue pecore ma le chiama per nome. Colpisce l’attenzione al singolo,
alla dimensione personale. C’è una forte reciprocità tra il pastore Gesù e le sue
pecorelle. Esse riconoscono la sua voce e lo seguono. Commenta don Alberione: “È da
notarsi che le conosce una per una; a tutte ha assegnato il proprio nome, e per nome
le chiama... Ma poi le pecorelle debbono riconoscere il pastore: Cognoscunt me meae
(v. 14); ed anche qui è interessante notare che la conoscenza è data più dall’udito che
dalla vista: Oves vocem eius audiunt (v. 3), sciunt vocem eius (v. 4). Quale prezioso
insegnamento! Non si tratta di conoscere i corpi che si vedono, ma le anime che
ascoltano” (Un carisma pastorale, 152).
“Le mie pecore ascoltano la mia voce, io le conosco ed esse mi seguono” (Gv
10,27), dichiara Gesù sotto il portico di Salomone (cf. Gv 10,22-24). Il pensiero corre alla
chiamata dei primi discepoli: “Come mi conosci?”, esclama stupito Natanaele (Gv
1,49). “Rimase sbalordito dalla meraviglia quando si sentì dire da Gesù sconosciuto:
Cum esse sub ficu vidi te (1,48); eppure Egli può ripetere a tutti qualcosa di simile”
(Alberione, op. cit., ivi). Non a caso, dunque, la domenica del buon Pastore coincide
con la giornata di preghiera per le vocazioni e vede coinvolte due congregazioni della
Famiglia Paolina: le Pastorelle e le Apostoline.
Ascoltare e seguire: ecco la sfida di ogni vocazione. “Se il mio popolo mi
ascoltasse...!” (Sal 81,14). Solo chi ascolta può seguire. Avventura indubbiamente
ardita, che siamo chiamati a vivere con profonda gratitudine e fiducia, poiché il buon
Pastore ci assicura che nessuno può strapparci dalla sua mano (Gv 10,28).
sr Elena Bosetti, sjbp